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DELL'IMPERATORE CINESE GNEN-VAN, 417 ANNI PRIMA DELLA NOSTRA ERA VOLGARE
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LETTERE,
UOMINI DI LETTERE O LETTERATI
QUARESIMA,
QUESTIONI SULLA QUARESIMA
STATI,
GOVERNI. QUAL'È IL MIGLIORE?
STORIA
DEI RE EBREI E PARALIPOMENI
Esistono già quattro edizioni di questo Dizionario, ma
tutte incomplete e informi; non avevamo potuto curarne alcuna. Pubblichiamo
infine questa, che si fa preferire a tutte le altre per la correttezza, per l'ordine
e per il numero di voci. Le abbiamo tutte tratte dai migliori autori europei né
ci siamo fatti scrupolo di copiare talvolta una pagina da un libro conosciuto,
quando tale pagina si è dimostrata necessaria alla nostra collezione. Vi
sono intere voci di persone tuttora viventi, fra le quali si contano alcuni
dotti pastori. Questi pezzi sono da tempo alquanto noti agli eruditi, come le
voci APOCALISSE, CRISTIANESIMO, MESSIA, MOSÈ, MIRACOLI ecc. Ma, nella
voce MIRACOLI, abbiamo aggiunto un'intera pagina del celebre dottor Middleton,
bibliotecario di Cambridge.
Si troveranno anche diversi passaggi del dotto vescovo di
Glocester, Warburton. I manoscritti del signor Dumarsais ci sono stati molto
utili; ma abbiamo unanimemente respinto tutto ciò che sembrava favorire
l'epicureismo. Il dogma della Provvidenza è così sacro,
così necessario alla felicità del genere umano, che nessun uomo
onesto deve indurre i propri lettori a dubitare di una verità che non
può in alcun caso fare del male e che può sempre produrre un gran
bene.
Non consideriamo affatto questo dogma della Provvidenza universale
come un sistema, bensì come una cosa dimostrata a tutti gli spiriti
raziocinanti; al contrario, i diversi sistemi sulla natura dell'anima, sulla
grazia, su opinioni metafisiche, che dividono tutte le comunioni religiose,
possono essere sottoposti all'analisi: poiché, essendo in discussione da
millesettecento anni, è evidente che non portano affatto con sé il
carattere di certezza; sono enigmi che ciascuno può divinare secondo la
portata della propria intelligenza.
La voce GENESI è di un uomo di grandi capacità, che
gode della stima e della fiducia di un gran principe: gli domandiamo scusa per
aver tagliato questa voce. I limiti che ci siamo imposti non ci hanno permesso
di stamparla per intero: avrebbe riempito quasi la metà di un volume.
Quanto agli argomenti di pura letteratura, si riconosceranno
facilmente le fonti cui abbiamo attinto. Abbiamo cercato di unire l'utile al
dilettevole, non avendo altro merito né altra parte in quest'opera che la
scelta. Le persone di ogni ceto troveranno di che istruirsi divertendosi.
Questo libro non esige una lettura conseguente; ma, in qualsiasi punto lo si
apra, si trova di che riflettere. I libri più utili sono quelli dei
quali una metà è fatta dagli stessi lettori: essi ampliano i
pensieri dei quali viene loro presentato il germe; correggono ciò che
sembra loro difettoso e rafforzano con le proprie riflessioni ciò che
sembra loro debole.
Soltanto da persone illuminate può essere letto questo
libro: l'uomo volgare non è fatto per simili conoscenze; la filosofia
non sarà mai suo retaggio. Chi afferma che vi sono verità che
devono essere nascoste al popolo non può in alcun modo allarmarsi; il
popolo non legge affatto; lavora sei giorni la settimana e il settimo va al
cabaret. In una parola, le opere di filosofia non son fatte che per i filosofi,
e ogni uomo onesto deve cercare di essere filosofo, senza vantarsi di esserlo.
Concludiamo facendo le nostre umilissime scuse alle stimabili
persone che ci hanno elargito il favore di alcune nuove voci, per non aver
potuto utilizzarle come avremmo desiderato: sono arrivate troppo tardi. Non
siamo per questo meno sensibili alla loro bontà e al loro lodevole zelo.
"Dove andate, Signor abate?" ecc. Vi rendete conto che
abate significa padre? Se voi lo diverrete, renderete un servizio allo Stato; e
senza dubbio compirete l'opera più alta che possa compiere un uomo:
nascerà da voi un essere che pensa. C'è qualcosa di divino in
quest'azione.
Ma se siete il signor abate solo per il fatto che avete la
chierica e portate un collarino e una mantellina, e ve ne state lì alla
posta di qualche beneficio, il nome d'abate non lo meritate. Gli antichi monaci
chiamarono così il superiore che essi eleggevano. L'abate era il loro
padre spirituale. Quanti significati diversi assumono, col passare del tempo,
gli stessi nomi! L'abate spirituale era un povero a capo di tanti altri poveri;
ma i poveri padri spirituali giunsero poi ad avere duecento, quattrocentomila
franchi di rendita; e ci sono, oggi, in Germania, dei poveri padri spirituali
che posseggono un reggimento di guardie.
Un povero che ha fatto giuramento d'essere povero e che, di
conseguenza, diventa sovrano! Già lo si è detto; e va ridetto
mille volte: questo è intollerabile. Le leggi protestano contro questo
abuso, la religione se ne indigna, e i veri poveri, nudi e affamati, assordano
il cielo di lamenti davanti alla porta del signor abate.
Li sento rispondere, i signori abati d'Italia, di Germania, delle
Fiandre, della Borgogna: "E perché non dovremmo accumulare anche noi
ricchezze ed onori? Perché non dovremmo essere principi? I vescovi lo sono. Una
volta erano poveri come noi, e poi si sono arricchiti, si sono innalzati; uno
di loro è ora più in alto dei re; lasciate che li imitiamo per
quel che ci è possibile."
Avete ragione, signori; invadete la terra; essa appartiene ai
forti e ai furbi che se ne impossessano. Avete approfittato dei tempi
dell'ignoranza, della superstizione, della demenza per spogliarci delle nostre
eredità e calpestarci; per ingrassarvi con le sostanze degli sventurati:
tremate, chissà che non arrivi il giorno della ragione.
Abramo è uno di quei nomi celebri in Asia minore e
nell'Arabia, come Thoth fra gli egiziani, l'antico Zoroastro in Persia, Ercole
in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del settentrione e tanti
altri noti più per la loro fama che per una storia ben accertata. Parlo
solo della storia profana, giacché, per la storia degli ebrei, nostri maestri e
nostri nemici, in cui crediamo e che detestiamo, poiché la storia di questo
popolo è stata manifestamente scritta dallo stesso Spirito Santo, noi
nutriamo i sentimenti che dobbiamo nutrire. Qui ci rivolgiamo soltanto agli
arabi; essi si gloriano di discendere da Abramo, attraverso Ismaele; credono
che questo patriarca abbia fondato la Mecca e sia morto in questa città.
Il fatto è che la stirpe d'Ismaele fu infinitamente più favorita
da Dio di quella di Giacobbe. L'una e l'altra, per la verità, non hanno
prodotto che dei ladri; ma i ladri arabi sono stati straordinariamente
superiori ai ladri ebrei: i discendenti di Giacobbe conquistarono solo un
minuscolo territorio, che poi perdettero; mentre i discendenti di Ismaele hanno
conquistato una parte dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, hanno fondato un
impero più vasto di quello dei romani e hanno cacciato gli ebrei dalle
loro caverne che chiamavano Terra promessa.
A voler giudicare le cose sulla sola base degli esempi delle
nostre storie moderne, sembrerebbe piuttosto difficile che Abramo sia stato il
padre di due popoli così diversi; c'è stato detto che era nato in
Caldea, figlio di un povero vasaio che si guadagnava da vivere facendo dei
piccoli idoli di terracotta. Non è molto verosimile che il figlio di un
vasaio sia andato a fondare la Mecca trecento leghe più in là,
sotto i tropici, affrontando deserti impraticabili. Se fu un conquistatore, si
volse senza dubbio verso il bel paese dell'Assiria; e se non fu che un
pover'uomo, come ci viene dipinto, non può aver fondato regni
così lontani dalla sua terra.
Il Genesi narra che aveva settantacinque anni quando
lasciò il paese di Aram, dopo la morte di suo padre Terah, il vasaio; ma
sempre il Genesi narra anche che Terah, avendo generato Abramo
all'età di settant'anni, visse fino a duecentocinque anni e che Abramo
se ne andò via da Haran solo dopo la morte di suo padre. È
chiaro, dunque, da quel che dice il Genesi stesso, che Abramo aveva
centotrentacinque anni quando lasciò la Mesopotamia. Egli dunque lasciò
un paese idolatra per andare in un altro paese idolatra chiamato Sichem, in
Palestina. Perché proprio lì? Perché abbandonò le fertili rive
dell'Eufrate per una regione così lontana, così sterile e
pietrosa come quella di Sichem? La lingua caldea doveva essere assai diversa da
quella di Sichem, che non era un paese di commerci. Sichem dista più di
cento leghe dalla Caldea; per arrivarci bisogna attraversare dei deserti; ma
Dio voleva che Abramo facesse questo viaggio, voleva mostrargli la terra che
avrebbero dovuto occupare i suoi discendenti, molti secoli dopo di lui.
L'intelligenza umana stenta a comprendere le ragioni di un tale viaggio.
Appena Abramo giunge nel piccolo paese montagnoso di Sichem, la
carestia lo costringe a uscirne. Allora va in Egitto con sua moglie, a cercar
di che vivere. Menfi dista duecento leghe da Sichem; è naturale che si
vada a cercar grano tanto lontano, e in un paese di cui non si conosce affatto
la lingua? Incredibili viaggi, intrapresi all'età di quasi centoquarant'anni.
Conduce a Menfi la moglie Sara, tanto più giovane di lui,
quasi una bimba; non aveva che sessantacinque anni. E poiché era molto bella,
egli si risolse a trar partito dalla sua bellezza: "Fingi d'esser mia
sorella," le disse, "affinché mi si faccia del bene in grazia
tua." Avrebbe dovuto dirle, ci pare: "Fingi d'essere mia
figlia." E così il re si innamorò della giovane Sara, e
regalò al sedicente fratello tante pecore, buoi, asini, asine, cammelli,
servi e serve, il che prova che l'Egitto d'allora era un regno molto potente e
civile, e di conseguenza molto antico, in cui si ricompensavano munificamente i
fratelli che venivano ad offrire le sorelle ai re di Menfi. La giovane Sara
aveva novant'anni, secondo la Scrittura, quando Dio le promise che Abramo, che ne
aveva allora centosessanta, le avrebbe regalato un bambino entro lo stesso
anno.
Abramo, che adorava viaggiare, se ne andò nell'orribile
deserto di Cades con la moglie incinta, sempre giovane e sempre leggiadra. Un
re di quel deserto non mancò di innamorarsi di Sara, né più né
meno di quanto se ne era innamorato il re d'Egitto. E il padre dei credenti
ripeté la menzogna detta in Egitto; fece passare la moglie per sua sorella, e
ricavò dall'affare altre pecore, buoi, servi e serve. Si può ben
dire che quest'Abramo divenne ricchissimo grazie alla famiglia della moglie. I
commentatori hanno messo insieme un numero incredibile di volumi per
giustificare la condotta di Abramo, e per conciliare la cronologia; rinviamo
dunque il lettore a questi commenti, tutti composti da spiriti sottili e
raffinati, eccellenti metafisici, gente libera da pregiudizi e niente affatto
pedante.
Del resto questo nome (Bram-Abram) era celebre in India e
in Persia: molti dotti pretendono perfino ch'egli fosse lo stesso legislatore
che i greci chiamarono Zoroastro. Altri asseriscono che fosse il Brahma degli
indiani: il che però non è dimostrato.
Quello che sembra invece più che ragionevole a molti dotti
è che quest'Abramo fosse caldeo o persiano: gli ebrei, in seguito, si
vantarono di discendere da lui, come i franchi da Ettore e i bretoni da Tubal.
È certo che la nazione ebraica fu una comunità nomade molto
recente; che si insediò vicino alla Fenicia solo molto tardi; che era
circondata da popoli antichi: ne adottò la lingua, e prese da loro
perfino il nome d'Israele, che è caldeo, come attesta proprio un ebreo,
Flavio Giuseppe. Sappiamo che prese dai babilonesi perfino il nome degli
angeli; infine, che chiamò Dio, come avevano fatto i fenici, con i nomi
di Elohim o Eloah, Adonài, Jehovah o Jao.
È probabile che gli ebrei abbiano appreso il nome di
Abraham o Ibrahim dai babilonesi, perché l'antica religione di tutte le terre,
dall'Eufrate fino all'Oxo, era chiamata Kish-Ibrahim, Milat- Ibrahim. Lo
confermano tutte le ricerche fatte sul posto dallo studioso Hyde.
Gli ebrei fecero dunque con la storia e le antiche favole quel che
i loro rigattieri fanno con gli abiti vecchi: li rivoltano e li vendono come
nuovi al prezzo più alto possibile.
Ed è un singolare esempio della stupidità umana il fatto
d'aver considerato per tanto tempo gli ebrei come il popolo che aveva insegnato
tutto agli altri, mentre il loro stesso storico Giuseppe confessa il contrario.
È difficile scrutare nelle tenebre dell'antichità;
ma è evidente che tutti i regni dell'Asia erano fiorentissimi prima che
quell'orda di arabi chiamati ebrei possedesse un pezzetto di terra, avesse una
città, delle leggi e una religione costituita. Quando perciò
sappiamo di un antico rito, di una antica credenza stabilita in Egitto o
nell'Asia, e insieme presso gli ebrei, è ben più che naturale
pensare che quel piccolo popolo nuovo, incolto, rozzo, da sempre e per sempre
ignorante in materia di arti belle, abbia copiato, quanto più poté, la
nazione più antica, fiorente e industriosa.
È in conformità con questo principio che vanno
giudicate la Giudea, la Biscaglia, la Cornovaglia, Bergamo, il paese
d'Arlecchino ecc.: senza dubbio la trionfante Roma non imitò niente
dalla Biscaglia, dalla Cornovaglia, né da Bergamo; e bisogna essere un grande
ignorante o avere una gran faccia tosta per sostenere che gli ebrei insegnarono
qualcosa al greci.
(Articolo tratto dal signor Fréret)
La pia signora Bourignon era sicura che Adamo fosse ermafrodito,
come i primi uomini del divino Platone. Dio le aveva rivelato questo grande
segreto. Ma io, che non ho avuto simili rivelazioni, non ne parlerò
affatto. I rabbini ebrei hanno letto le opere di Adamo; sanno il nome del suo
precettore e della sua seconda moglie; ma, poiché non ho letto questi libri del
nostro primo padre, non ne farò parola. Certe dottissime teste vuote
restano sbigottite quando, leggendo i Veda degli antichi brahmani, apprendono
che il primo uomo fu creato in India ecc.; che si chiamava Adimo, che significa
il generatore; e che sua moglie si chiamava Procriti, che significa la vita.
Costoro asseriscono che la setta dei brahmani è incontestabilmente
più antica di quella degli ebrei; che solo molto più tardi gli
ebrei poterono scrivere in lingua cananea, perché fu solo molto più
tardi che si stabilirono nel piccolo paese di Canaan; dicono che gli indiani
furono sempre inventori e gli ebrei sempre imitatori; gli indiani sempre ricchi
di ingegno e gli ebrei sempre rozzi; dicono che è ben difficile che
Adamo, il quale era rosso e aveva i capelli, sia il padre dei negri, che son
neri come l'inchiostro e sulla testa hanno della lana nera. Ma quante non ne
dicono costoro? Io, per me, non dico niente: lascio queste ricerche al
reverendo padre Berruyer, della compagnia di Gesù; egli è l'uomo più
innocente che io abbia mai conosciuto. Hanno bruciato il suo libro come opera
di un miscredente che vuol mettere in ridicolo la Bibbia; ma io posso
assicurare che quel che ha scritto è assolutamente privo di malizia.
(Tratto da una lettera del cavaliere di R.)
È un tacito contratto fra due persone sensibili e virtuose.
Dico "sensibili", perché un monaco, un solitario, possono non essere
affatto insensibili, e tuttavia vivere senza conoscere l'amicizia. Dico
"virtuose", perché i malvagi non possono avere che dei complici; i
dissoluti, dei compagni di bagordi; le persone interessate, dei soci; i
politici si circondano di partigiani faziosi; la massa degli sfaccendati ha
delle conoscenze; i principi hanno attorno a loro dei cortigiani: solo gli
uomini virtuosi hanno amici. Cetego era il complice di Catilina; e Mecenate, il
cortigiano di Ottaviano; ma Cicerone era amico di Attico.
Cosa comporta questo contratto fra due anime sensibili e virtuose?
Gli obblighi sono più o meno forti o deboli, a seconda del grado di sensibilità
dei contraenti e il numero dei servizi resi ecc.
La passione dell'amicizia è stata più forte presso i
greci e gli arabi che non da noi. I racconti che questi popoli hanno immaginato
sull'amicizia sono ammirevoli; noi non ne abbiamo di simili, noi siamo un po'
aridi in tutto.
L'amicizia, presso i greci, era oggetto di religione e di
legislazione. I tebani avevano la legione degli amanti: magnifica legione!
Certuni l'hanno scambiata per una legione di sodomiti; s'ingannano: hanno
scambiato l'accidente per la sostanza. L'amicizia, presso i greci, era
prescritta dalla legge e dalla religione; la pederastia era purtroppo tollerata
dal costume; ma non dobbiamo imputare alla legge abusi vergognosi. Ne parleremo
ancora.
Amor omnibus idem. Qui bisogna ricorrere a ciò
che è fisico; è la stoffa della natura, su cui l'immaginazione ha
ricamato. Vuoi avere un'idea dell'amore? guarda i passeri del tuo giardino,
osserva i colombi; contempla il toro che viene portato alla tua giovenca; guarda
quel fiero cavallo che due stallieri conducono alla cavalla che lo attende
placida, e solleva la coda per riceverlo; guarda come i suoi occhi scintillano;
ascolta i suoi nitriti, osserva quei salti, quegli scambietti, quelle orecchie
drizzate, quella bocca che s'apre con piccoli tremiti, quelle froge che si
gonfiano, quel soffio ardente che ne esce, la criniera che si drizza e si
agita, quel movimento imperioso con cui si lancia sull'oggetto che la natura
gli ha destinato. Ma non esserne geloso e pensa ai vantaggi della specie umana;
essi compensano, in amore, tutto quel che la natura ha largito agli animali:
forza, bellezza, leggerezza, rapidità.
Ci sono anche animali che non conoscono il piacere. I pesci a
scaglie son privati di questa dolcezza: la femmina depone sul fondo milioni di
uova, e il maschio che le trova passa su di loro e le feconda col proprio seme,
senza preoccuparsi di sapere a quale femmina appartengono.
La maggior parte degli animali che si accoppiano gustano il
piacere con un solo senso; e appena quest'appetito è soddisfatto, tutto
finisce. Nessun animale, all'infuori dell'uomo, conosce gli amplessi; tutto il
tuo corpo è sensibile; soprattutto le tue labbra godono con una
voluttà che niente stanca, e questo piacere appartiene solo alla nostra
specie; infine tu puoi abbandonarti in qualsiasi momento all'amore, mentre gli
animali hanno un tempo determinato.
Se rifletti su questi privilegi, ti verrà da dire col conte
di Rochester: "L'amore in un paese di atei farebbe adorare la
Divinità."
Poiché gli uomini han ricevuto il dono di perfezionare tutto quel
che la natura concede loro, hanno perfezionato anche l'amore. La pulizia, la
cura di sé, rendendo più delicata la pelle, aumenta il piacere del
tatto, mentre la cura della propria salute rende gli organi della voluttà
più sensibili.
Tutti gli altri sentimenti entrano in quello dell'amore, come i
metalli che si amalgamano con l'oro: l'amicizia, la stima, vengono in suo
aiuto: le doti del corpo e della mente sono nuove catene.
Nam facit ipsa suis interdum foemina factis,
Morigerisque modis, et mundo corpore cultu,
Ut facile insuescat secum vir degere vitam.
(Lucrezio, De rerum natura, libro IV)
L'amor proprio, soprattutto, rafforza questi legami. Ci si congratula
della propria scelta e mille illusioni adornano quest'opera, di cui la natura
ha posto le fondamenta.
Ecco ciò che ti distingue dagli animali; ma se tu godi
tanti piaceri che essi ignorano, quanti dolori, anche, di cui le bestie non
hanno la minima idea! Quel che v'è d'orribile, per te, è che la
natura, nei tre quarti della terra, ha avvelenato i piaceri dell'amore e le
fonti della vita con una malattia spaventevole, alla quale soltanto l'uomo
è soggetto, e che solo in lui infetta gli organi della generazione.
E non è che tale peste, come altre malattie, sia la
conseguenza dei nostri eccessi. Non fu la dissolutezza a introdurla nel mondo.
Le Frini, le Laidi, le Flore, le Messaline non ne furono affatto colpite; essa
è nata nelle isole ove gli uomini vivevano nell'innocenza, e di
là si è diffusa nel vecchio mondo.
Se mai si è potuta accusare la natura di disprezzare la sua
opera, di contraddire i suoi disegni, di agire contro i suoi fini, è in
tale occasione. È proprio questo il migliore dei mondi possibili? Ma
come! se Cesare, Antonio, Ottaviano non furono colpiti da questa malattia, non
era possibile che essa non facesse morire Francesco I? "No," ci
dicono, "le cose erano così preordinate per il meglio." Voglio
crederlo, ma è ben duro.
Com'è possibile che un vizio, distruttore del genere umano
se fosse praticato da tutti, che un attentato, infame contro la natura, sia
tuttavia così naturale? Sembra l'estremo grado della corruzione
cosciente, eppure è condizione comune di quanti non hanno ancora il
tempo d'essere corrotti. È penetrato in cuori inesperti che non hanno
conosciuto ancora né l'ambizione, né la frode, né la sete di ricchezza;
è la cieca gioventù che, per un istinto ancora confuso, precipita
in questo disordine all'uscir dall'infanzia.
L'inclinazione dei due sessi l'uno per l'altro si manifesta molto
presto; ma checché si sia detto delle donne africane o dell'Asia meridionale,
tale inclinazione è generalmente più forte nell'uomo che nella
donna; è una legge che la natura ha stabilito per tutti gli animali.
È sempre il maschio che assale la femmina.
I giovani maschi della nostra specie, allevati insieme, sentendo
quest'impulso che la natura comincia a manifestare in loro e non trovando
l'oggetto naturale di tale istinto, ripiegano su quello che più gli
somiglia. Spesso un giovinetto, per la freschezza della carnagione, lo
splendore del colorito, la dolcezza degli occhi, somiglia per due o tre anni a
una bella ragazza; se lo si ama, è perché la natura s'inganna; si rende
omaggio al bel sesso, affezionandosi a chi ne ha le bellezze; e, quando
l'età ha fatto svanire tale somiglianza, l'equivoco cessa.
Citraque juventam
Aetatis breve ver et primos carpere fiores.
(Ovidio, Metamorfosi, X, 84-85)
È abbastanza noto che questo equivoco della natura è
molto più comune nei climi dolci che fra i ghiacci del settentrione,
perché il sangue vi è più acceso e l'occasione più
frequente: così quel che nel giovane Alcibiade sembra una pura debolezza,
in un marinaio olandese o in un vivandiere moscovita è una disgustosa
depravazione.
Non posso sopportare che si pretenda che i greci abbiano
autorizzato questa licenza.
Si cita il legislatore Solone, perché disse in due brutti versi:
Amerai un bel ragazzo
finché non gli cresca la barba.
Ma, in buonafede, Solone era legislatore quando scrisse questi due
ridicoli versi? A quel tempo era giovane, e quando il dissoluto diventò
saggio, non mise certo una simile infamia tra le leggi della sua repubblica;
è come se accusassimo Teodoro di Beza di aver predicato la pederastia
nella sua chiesa perché, nella sua giovinezza, scrisse versi per il giovane
Candido, e disse:
Amplector hunc et illam.
Si travisano le parole di Plutarco, che nelle sue chiacchiere, nel
Dialogo sull'amore, fa dire a un interlocutore che le donne non sono
degne del vero amore; mentre un altro interlocutore sostiene la parte delle
donne, come è giusto.
È certo, per quanto può esserlo la nostra conoscenza
dell'antichità, che l'amore socratico non era affatto un amore infame: a
trarre in inganno è stata la parola "amore": i cosiddetti
"amanti di un giovinetto" erano precisamente quello che sono fra noi
i paggi dei nostri principi, quello che erano i damigelli d'onore: giovani
addetti all'educazione di un giovinetto di nobile famiglia, compagni dei suoi
studi e dei suoi esercizi militari: istituzione guerriera e sacra di cui si
abusò, come accadde delle feste notturne e delle orge.
La legione degli amanti, istituita da Laio, era una legione
invincibile di giovani guerrieri impegnati da un giuramento a dare la vita gli
uni per gli altri: la disciplina antica non ebbe mai nulla di più bello.
Sesto Empirico e altri hanno un bel dire che la pederastia era
raccomandata dalle leggi della Persia. Citino il testo della legge; mostrino il
codice dei persiani; e anche se lo mostrassero, non lo crederei lo stesso:
direi che non è vero, perché non è possibile. No, non è
nella natura umana fare una legge che contraddice e oltraggia la natura, una
legge che annienterebbe il genere umano, se fosse osservata alla lettera.
Quanti hanno scambiato certe usanze vergognose e tollerate in un paese per le
leggi di quel paese! Sesto Empirico, il quale dubitava di ogni cosa, avrebbe
dovuto dubitare di tale giurisprudenza. Se vivesse ai tempi nostri e vedesse
due o tre giovani gesuiti abusare di qualche loro allievo, avrebbe il diritto
di dire che questo è permesso dalle Costituzioni di Ignazio di
Loyola?
A Roma l'amore dei giovinetti era così comune, che nessuno
pensava a punire una stupidaggine a cui tutti si lasciavano andare. Ottaviano
Augusto, quell'assassino depravato e vile, che osò esiliare Ovidio,
trovò bellissimo che Virgilio cantasse Alessi e che Orazio scrivesse
piccole odi per Ligurino; ma l'antica legge Scantinia, che proibiva la
pederastia, era sempre in vigore: l'imperatore Filippo la ripristinò e
cacciò i ragazzi che facevano il mestiere. Insomma, non credo che ci sia
stata nessuna nazione bene ordinata che abbia fatto leggi contro il buon
costume.
Uno straccione dei dintorni di Madrid chiedeva con gran
dignità l'elemosina; un passante lo apostrofò: "Non vi
vergognate di fare questo mestiere ignobile, mentre potreste lavorare?"
"Signore," rispose il mendicante, "io vi ho chiesto del denaro,
non dei consigli"; poi gli voltò le spalle conservando tutta la sua
dignità castigliana. Era uno straccione orgoglioso, questo signore, e la
sua vanità veniva ferita per un nonnulla. Chiedeva l'elemosina per amor
di se stesso e, sempre per amor di se stesso, non tollerava rimproveri.
Un missionario, viaggiando in India, incontrò un fachiro
carico di catene, nudo come una scimmia, sdraiato bocconi, che si faceva
frustare per i peccati dei suoi compatrioti, i quali gli gettavano qualche
soldo. "Che rinuncia a se stesso!" diceva uno degli spettatori.
"Rinuncia a me stesso?" ribatté il fachiro. "Sappi che io mi
faccio frustare il deretano in questo mondo solo per fare altrettanto con voi
nell'altro, quando voi sarete cavalli e io cavaliere."
Quanti hanno detto che l'amore di sé è la base di tutti i nostri
sentimenti e di tutte le nostre azioni hanno dunque avuto pienamente ragione,
in India, in Spagna, e in tutta la terra abitabile: e come nessuno scrive per
dimostrare agli uomini che hanno una faccia, non c'è bisogno di provar
loro che hanno dell'amor proprio. Questo amor proprio è lo strumento
della nostra conversazione; assomiglia allo strumento che ci serve a perpetuare
la specie: ci è necessario, ci è caro, ci procura piacere, ma
bisogna tenerlo nascosto.
Angelo, in greco, "inviato"; non si sarà molto
più edotti in proposito quando si saprà che i persiani avevano
dei peri, gli ebrei dei malakim, i greci i loro daimonoi.
Ma quel che forse ci istruirà di più sarà il
sapere che una delle prime idee degli uomini fu sempre quella di porre, tra la
Divinità e noi, degli esseri intermedi; sono questi dèmoni,
questi geni che l'antichità inventò; l'uomo fece sempre gli dei a
propria immagine. Come i principi comunicavano i loro ordini per mezzo di
messaggeri, si pensò che anche la Divinità mandasse i suoi
corrieri: Mercurio, Iride, erano dei corrieri, dei messi.
Gli ebrei, il solo popolo guidato dalla Divinità stessa,
non diedero sulle prime nessun nome agli angeli che Dio si degnava di mandare
loro; adoperarono i nomi che davano loro i caldei quando la nazione giudaica fu
schiava in Babilonia; Michele e Gabriele sono nominati per la prima volta da
Daniele, schiavo di quei popoli. L'ebreo Tobia, che viveva a Ninive, conobbe
l'angelo Raffaele che viaggiò con suo figlio per aiutarlo a recuperare
il denaro che gli doveva l'ebreo Gabaele.
Nelle leggi degli ebrei, ossia nel Levitico e nel Deuteronomio,
non c'è il minimo accenno all'esistenza degli angeli, né tanto meno al
loro culto; così i sadducei non credevano agli angeli.
Ma nelle storie degli ebrei se ne parla molto. Quegli angeli erano
corporei; avevano ali sulla schiena, come i gentili avevano immaginato che
Mercurio le avesse ai piedi; qualche volta nascondevano le ali sotto le vesti.
E come non avrebbero avuto un corpo, dato che mangiavano e bevevano e gli
abitanti di Sodoma tentarono di commettere il peccato di pederastia con gli
angeli che andarono da Loth?
L'antica tradizione giudaica, secondo Ben Maimon, ammette dieci
gradi o ordini di angeli: 1) i caios acodesh, puri, santi; 2) gli ofamin,
rapidi; 3) gli oralim, forti; 4) i chasmalim, fiamme; 5) i serafim,
scintille; 6) i malakim, angeli, messi, deputati; 7) gli elohim,
iddii o giudici; 8) i ben elohim, figli degli iddii; 9) i cherubim,
immagini; 10) gli ychim, gli animati.
La storia della caduta degli angeli non si trova nei libri di
Mosè; la prima testimonianza che ne abbiamo è quella del profeta
Isaia, il quale, apostrofando il re di Babilonia, esclamò: "Cosa
è diventato l'esattore dei tributi? I pini e i cedri si rallegrano della
sua caduta; come sei caduto dal cielo, o Hellel, stella del mattino?"
Questo Hellel venne tradotto con la parola latina Lucifer; in
seguito, si dette, in senso allegorico, il nome di Lucifero al principe degli
angeli che fecero la guerra in cielo; e finalmente questo nome, che significa
"fosforo" e "aurora", diventò il nome del diavolo.
La religione cristiana è fondata sulla caduta degli angeli.
Quelli che si ribellarono furono precipitati dalle sfere celesti, dove
risiedevano, nell'inferno, al centro della terra, e si mutarono in diavoli. Un
diavolo tentò Eva sotto la figura del serpente, e dannò il genere
umano. Gesù venne a riscattare il genere umano e a trionfare sul
diavolo, che ancora ci tenta. Tuttavia questa tradizione fondamentale si trova
solo nel libro apocrifo di Enoch, e per giunta in una forma del tutto diversa
da quella della tradizione accettata.
Sant'Agostino, nella sua lettera CIX, non ha nessuna
difficoltà ad attribuire ai buoni e ai cattivi angeli dei corpi sciolti
ed agili. Papa Gregorio II ridusse a nove cori, a nove gerarchie o ordini i
dieci cori degli angeli riconosciuti dagli ebrei; sono i serafini, i cherubini,
i troni, le dominazioni, le virtù, le potenze, gli arcangeli e infine
gli angeli che danno il nome alle altre otto gerarchie.
Gli ebrei avevano nel tempio due cherubini, ciascuno con due
teste, una di bue e l'altra di aquila, e con sei ali. Oggi, quando li
dipingiamo diamo loro l'immagine d'una testa volante, con due alucce sotto le
orecchie; dipingiamo gli angeli e gli arcangeli in figura di giovinetti, con
due ali sul dorso. Quanto ai troni e alle dominazioni, nessuno s'è
ancora azzardato a dipingerli.
San Tommaso, alla questione CVIII, art. 2, dice che i troni sono
tanto vicini a Dio quanto lo sono i cherubini e i serafini, perché è su
di loro che Dio è assiso. Scoto ha contato mille milioni di angeli. Una
volta passata in Grecia e a Roma l'antica mitologia dei buoni e dei cattivi
geni, abbiamo consacrato questa credenza, ammettendo per ciascun uomo un angelo
buono e uno cattivo, l'uno per assisterlo, l'altro per nuocergli, dalla nascita
alla morte; ma ancora non si sa se questi buoni e cattivi angeli volino
continuamente da questo a quel posto di guardia, o si diano il cambio con altri
angeli.
Nessuno sa con precisione dove si trovano gli angeli, se
nell'aria, nel vuoto, o nei pianeti: Dio non ha voluto che ne fossimo edotti.
Come sarebbe bello vedere la propria anima. "Conosci te
stesso" è un ottimo precetto, ma sta soltanto a Dio il metterlo in
pratica: chi altri se non Lui può conoscere la propria essenza?
Noi chiamiamo anima quello che anima. Non ne sappiamo di
più, dati i limiti della nostra intelligenza. I tre quarti del genere
umano sono chiusi nei propri limiti e non si preoccupano dell'essere pensante;
l'altro quarto, invece, cerca; nessuno ha trovato, né troverà.
Povero filosofo, tu vedi una pianta che vegeta e dici
"vegetazione", o anche "anima vegetativa". Noti che i corpi
hanno e comunicano moto e dici "forza"; vedi il tuo cane da caccia
imparare, guidato da te, il suo mestiere, e gridi "istinto",
"anima sensitiva"; hai delle idee composte, e dici
"spirito".
Ma, di grazia, che vuoi dire con queste parole? Sì, questo
fiore vegeta, ma c'è un essere reale che si chiama
"vegetazione"? Questo corpo ne spinge un altro, ma possiede in sé un
essere distinto che si chiama "forza"? Questo cane ti porta una
pernice, ma c'è un essere che si chiama "istinto"? Non
rideresti di un loico (fosse pur stato il maestro di Alessandro) che ti
dicesse: "Tutti gli animali vivono, e dunque c'è in essi un essere,
un'energia sostanziale che è la vita?"
Se un tulipano potesse parlare e ti dicesse: "La mia
vegetazione ed io siamo due esseri evidentemente congiunti insieme," non
daresti dell'imbecille a quel tulipano?
Vediamo anzitutto quel che sai, e di che cosa sei certo: che
cammini coi piedi, digerisci con lo stomaco, senti con tutto il corpo e pensi
con la testa. Vediamo se la tua sola ragione ha potuto illuminarti abbastanza
da farti concludere, senza un intervento soprannaturale, che hai un'anima.
I primi filosofi, caldei o egiziani che fossero, dissero:
"Bisogna che ci sia in noi qualcosa che produce i nostri pensieri; questo quid
deve essere molto sottile: un soffio, un fuoco, un etere, una quintessenza, un
lieve simulacro, un'entelechia, un numero, un'armonia." Infine, secondo il
divino Platone, si tratterebbe di un composto dell'"identico" e del
"diverso". "Sono degli atomi che pensano in noi," disse
Epicuro, seguendo Democrito. Ma, amico mio, come può, un atomo, pensare?
Confessa che non ne sai niente.
L'opinione cui senza dubbio dobbiamo attenerci è che
l'anima è un ente immateriale; ma è certo che non riusciremo a
concepire cosa sia questo ente immateriale. "No," rispondono i
sapienti, "ma sappiamo che la sua natura è quella di pensare."
"E come lo sapete?" "Lo sappiamo perché essa pensa." O
sapienti, temo che siate ignoranti quanto Epicuro! La natura di una pietra
è quella di cadere, perché essa cade; ma io vi chiedo che cos'è
che la fa cadere.
"Noi sappiamo," proseguono costoro. "che una pietra
non ha anima." Bravi, la penso come voi. "Sappiamo che una negazione
e un'affermazione non sono divisibili, non sono parte della materia." Sono
anch'io del vostro parere. Ma la materia (che d'altronde ci è ignota)
possiede qualità che non sono materiali, che non sono divisibili: per
esempio, la gravitazione verso un centro, che Dio le ha dato. Ora questa
gravitazione non ha parti, non è divisibile. La forza motrice dei corpi
non è un ente composto di parti. La vegetazione dei corpi organici, la
loro vita, i loro istinti non sono neanch'essi enti a parte, enti divisibili:
non potete tagliare in due la vegetazione di una rosa, la vita di un cavallo,
l'istinto di un cane, come del resto non potete certo dividere in due una
sensazione, una negazione, un'affermazione. Il vostro bell'argomento, tratto
dall'indivisibilità del pensiero, non prova assolutamente niente.
Cos'è dunque che chiamate la vostra anima? Quale idea ne
avete? La sola cosa che possiate ammettere in voi, senza rivelazione, è
un potere, a voi ignoto, di sentire, di pensare.
E adesso ditemi, in buona fede: questo potere di sentire e di
pensare è lo stesso che vi fa digerire e camminare? Voi rispondete di no
perché il vostro intelletto avrebbe un bel dire al vostro stomaco:
"Digerisci!" Quello, se è malato, non farà niente; e
invano il vostro ente immateriale comanderà ai vostri piedi di
camminare: se hanno la gotta, non muoveranno un passo.
I greci si resero conto che spesso il pensiero non ha niente a che
fare con l'azione dei nostri organi; essi ammisero per questi organi un'anima
animale, e, per i pensieri, un'anima più fine, più sottile, un
$íï(tm)ò$.
Ma ecco che quest'anima del pensiero esercita, in mille occasioni,
una giurisdizione su quella animale. L'anima pensante ordina alle mani di prendere,
ed esse prendono. Essa però non dice al cuore di battere, al sangue di
scorrere, al chilo di formarsi; tutto questo avviene senza di lei: ecco due
anime negli impicci e ben poco padrone a casa loro.
Ora, quella prima anima animale sicuramente non esiste: essa non
è altro che il moto dei nostri organi. Ma bada, uomo! Grazie alla tua
debole ragione, non hai maggiori prove che l'altra anima esista. Puoi saperlo
solo grazie alla fede. Sei nato, vivi, agisci, pensi, vegli, dormi senza sapere
come. Dio t'ha dato la facoltà di pensare, come t'ha dato tutto il
resto; e se non fosse venuto lui ad insegnarti, nel momento fissato dalla sua
provvidenza, che tu hai un'anima immateriale e immortale, non ne avresti nessuna
prova.
Vediamo adesso i bei sistemi che la tua filosofia ha fabbricato su
queste anime.
Uno dice che l'anima dell'uomo è parte della sostanza; un
altro, che essa è una parte del gran Tutto; un terzo, che è
creata ab aeterno; un quarto, che è fatta e non creata; altri
assicurano che Dio forma le anime via via che ce n'è bisogno, e che esse
arrivano nel momento della copulazione. "Esse abitano negli animalucoli
seminali," grida l'uno. "No," sostiene un altro, "vanno ad
abitare nelle trombe di Falloppio." "Avete torto tutti e due,"
interviene un terzo, "l'anima attende sei settimane che il feto sia
formato, e allora prende possesso della ghiandola pineale; ma se trova un falso
germe, se ne torna via, in attesa di un'occasione migliore." L'ultima
opinione è che la sua dimora sia nel corpo calloso: tale è il
posto che le assegna La Peyronie; bisogna essere proprio il primo chirurgo del
re di Francia per disporre così della dimora dell'anima. Comunque, quel
corpo calloso non ha fatto la stessa fortuna di quel chirurgo.
San Tommaso, nella questione LXXV e seguenti, dice che l'anima
è una forma subsistante per se, che è tutta in tutto, che
la sua essenza differisce dalla sua potenza; che vi sono tre anime vegetative,
ossia la nutritiva, l'accrescitiva, la generativa; che la memoria delle cose
spirituali è spirituale, e quella delle cose corporee è corporea;
che l'anima ragionevole è una forma "immateriale quanto alle
operazioni, materiale quanto all'essere". San Tommaso scrisse duemila
pagine di tanta potenza e chiarezza: per questo fu detto l'Angelo della Scuola.
Non meno numerosi sono i sistemi sul modo in cui quest'anima
sentirà, quando avrà lasciato il suo corpo mediante il quale
sentiva: come udrà senza orecchi, odorerà senza naso, e
toccherà senza mani; quale corpo riprenderà: quello che aveva a
due anni o a ottanta; come sussisterà l'io, l'identità
della stessa persona; come l'anima di un uomo rinscemito a quindici anni e
morto scemo a settanta, riprenderà il filo delle idee ch'essa aveva al
tempo della pubertà; grazie a quale gioco di prestigio un'anima cui sia
stata amputata una gamba in Europa e abbia perduto un braccio in America,
ritroverà gamba e braccio, i quali, trasformati in ortaggi, saranno nel
frattempo passati nel sangue di qualche altro animale. Non la finiremmo
più se volessimo render conto di tutte le stravaganze che questa povera
anima umana ha inventato intorno a se stessa.
Quello che è assai strano è che nelle leggi del
popolo di Dio non è detta una parola sulla spiritualità e
l'immortalità dell'anima; niente nel Decalogo, niente nel Levitico,
niente nel Deuteronomio.
È certissimo, è indubbio, che in nessun luogo
Mosè allude, con gli ebrei, a ricompense o a castighi in una vita
futura; che non parla mai dell'immortalità delle loro anime; che non fa
mai sperare loro il cielo, non minaccia mai l'inferno: tutto è
temporale.
Prima di morire, dice loro nel suo Deuteronomio:
"Se dopo aver avuto figli e figli dei vostri figli, voi
prevaricherete, sarete sterminati dal paese, e ridotti a un piccolo numero tra
le nazioni.
"Io sono un Dio geloso, che punisce l'iniquità dei
padri fino alla terza e alla quarta generazione.
"Onorate il padre e la madre, e vi sarà permesso di
vivere a lungo.
"Voi avrete di che mangiare, senza mancarne mai.
"Se servirete dei stranieri, sarete distrutti.
"Se mi obbedirete, avrete la pioggia in primavera; e in
autunno, frumento, olio, vino e fieno per il vostro bestiame, perché mangiate e
siate sazi.
"Ponete queste parole nel vostro cuore, nell'anima, nelle
mani, tra gli occhi; scrivetele sulle vostre porte, e i vostri giorni saran
moltiplicati.
"Fate quel che vi ordino, senza aggiungere né omettere
niente.
"Se sorge un profeta che predica prodigi; se la sua
predizione si avvera, e avverrà quel che ha predetto; se vi dice:
"Andiamo, serviamo dei stranieri", mettetelo subito a morte, e tutto
il popolo lo colpisca dopo di voi.
"Quando il Signore avrà dato in vostro potere le
nazioni, sgozzate tutti senza risparmiare un sol uomo: non abbiate pietà
di nessuno.
"Non mangiate uccelli impuri: l'aquila, il grifone, l'issione
ecc.
"Non mangiate animali che ruminino e la cui unghia non sia
spartita, come il cammello, la lepre, il porcospino ecc.
"Se osservate tutti i comandamenti, sarete benedetti nelle
città e nelle campagne; i frutti delle vostre viscere, della vostra
terra, del vostro bestiame saranno benedetti...
"Se non osservate tutti i comandamenti e tutte le cerimonie,
sarete maledetti nelle città e nelle campagne... Soffrirete la carestia,
la povertà; morirete di miseria, di freddo, di indigenza, di febbre;
avrete la rogna, la lebbra, la fistola... Avrete ulcere nelle ginocchia e nella
parte grassa delle gambe.
"Lo straniero vi presterà denaro a usura, e voi non
potrete prestargli a usura... perché non avrete servito il Signore.
"E mangerete il frutto del vostro ventre, e la carne dei
vostri figli e delle vostre figlie ecc."
È evidente che in tutte queste promesse e in tutte queste
minacce non c'è niente che non sia temporale, e che non si trova parola
sull'immortalità dell'anima o la vita futura.
Molti illustri commentatori hanno creduto che Mosè fosse
perfettamente al corrente di questi due grandi dogmi, e lo provano con le
parole di Giacobbe, il quale, credendo che suo figlio fosse stato divorato
dalle fiere, diceva nel suo dolore: "Scenderò con mio figlio nella
fossa, in infernum, nell'inferno"; ossia, morirò, poiché mio
figlio è morto.
Lo provano anche con passi di Isaia e di Ezechiele, ma gli ebrei
cui si rivolgeva Mosè non potevano aver letto né Ezechiele né Isaia, i
quali vennero solo molti secoli dopo.
È assolutamente inutile disputare sulle segrete convinzioni
di Mosè. Il fatto è che, nelle leggi pubbliche, egli non ha mai
parlato di una vita futura, che egli limita tutti i castighi e le ricompense al
tempo presente. Se conosceva la vita futura, perché non palesò
esplicitamente questo grande dogma? E se non la conosceva, qual era lo scopo
della sua missione? È un quesito che si pongono molti grandi personaggi,
i quali rispondono che il Signore di Mosè e di tutti gli uomini si riservava
il diritto di spiegare a suo tempo, agli ebrei, una dottrina che non sarebbero
stati in grado di comprendere fintanto che fossero restati nel deserto.
Se Mosè avesse annunziato il dogma dell'immortalità
dell'anima, una grande scuola ebraica non l'avrebbe sempre combattuto; quella
grande scuola dei sadducei non sarebbe mai stata ammessa nello Stato; i
sadducei non avrebbero occupato le più alte cariche; non sarebbero stati
tratti, dal loro seno, grandi sacerdoti.
Sembra che solo dopo la fondazione di Alessandria gli ebrei si
siano divisi in tre grandi sette: i farisei, i sadducei e gli esseni. Lo
storico Giuseppe, che era fariseo, ci fa sapere, nel libro XIII delle sue Antichità,
che i farisei credevano nella metempsicosi; i sadducei credevano che l'anima
morisse con il corpo; e gli esseni, dice sempre Giuseppe, la consideravano
immortale: le anime, secondo loro, scendevano in forma aerea nei corpi, dalla
più alta regione dell'aria; esse vi sono riportate da una violenta
attrazione e, dopo la morte, quelle che sono appartenute ai buoni dimorano al
di là dell'oceano, in un paese dove non c'è né caldo né freddo,
né vento né pioggia. Le anime dei malvagi vanno invece in un paese dal clima
completamente opposto. Tale era la teologia degli ebrei.
Colui che, solo, doveva istruire tutti gli uomini, condannò
tutte e tre quelle sette; ma senza di lui noi non avremmo mai potuto saper
niente della nostra anima, poiché i filosofi non ne ebbero mai un'idea precisa,
e Mosè, il solo vero legislatore del mondo prima del nostro,
Mosè, che parlava faccia a faccia con Dio, lasciò gli uomini in
una profonda ignoranza su questo punto capitale. Dunque, solo da
millesettecento anni si è certi dell'esistenza dell'anima e della sua
immortalità.
Cicerone non aveva che dubbi; suo nipote e sua nipote poterono
conoscere la verità dai primi galilei che vennero a Roma.
Ma prima di quel tempo e dopo, in tutto il resto della terra dove
gli apostoli non giunsero, ognuno doveva dire alla propria anima: "Chi
sei? Da dove vieni? Che fai? Dove vai? Tu sei un non so che, che pensa e sente,
e quand'anche tu continuassi a sentire e a pensare per cento milioni di anni,
non ne sapresti di più su te stessa, con i tuoi lumi, senza l'aiuto di
un Dio."
O uomo, quel Dio ti ha dato l'intelletto perché tu possa condurti
bene, non per penetrare nell'essenza delle cose che ha creato.
È così che ha pensato Locke e, prima di Locke,
Gassendi, e prima di Gassendi, un gran numero di saggi; ma noi abbiamo dei
baccellieri che sanno tutto ciò che quei grandi uomini ignoravano.
Alcuni crudeli nemici della ragione hanno osato dar contro a
queste verità riconosciute da tutti i saggi. Essi hanno spinto la
malafede e l'impudenza fino a imputare agli autori di quest'opera la tesi che
l'anima è materiale. Ma voi, persecutori dell'innocenza, sapete
benissimo che abbiamo detto proprio il contrario.
Sapete bene che in fondo a pagina ..., ci sono queste precise
parole contro Epicuro, Democrito e Lucrezio: "Amico mio, come può
un atomo, pensare? Confessa che non ne sai niente." Voi siete,
evidentemente, dei calunniatori.
Nessuno sa cos'è l'essere chiamato "spirito", cui
anche voi date questo nome materiale, che significa "soffio". Tutti i
primi padri della Chiesa credettero che l'anima fosse corporea. È
impossibile, a noi esseri limitati, sapere se la nostra intelligenza è
una sostanza o una facoltà: noi non possiamo conoscere a fondo né
l'essere esteso, né l'essere pensante, né il meccanismo del pensiero.
Noi vi gridiamo, con i rispettabili Gassendi e Locke, che, con
tutta la nostra intelligenza, nulla sappiamo dei segreti del Creatore. Siete
dunque degli dei, voi che sapete tutto? Vi ripetiamo che possiamo conoscere la
natura e la destinazione dell'anima soltanto per mezzo della Rivelazione. Come?
Questa non vi basta? È allora evidente che siete nemici di questa
rivelazione che noi invochiamo, dato che perseguitate coloro che tutto si
attendono da essa e non credono che in essa.
Noi - diciamo - ci rimettiamo alla parola di Dio e voi, nemici
della ragione e di Dio, voi che bestemmiate l'una e l'altro, trattate l'umile
dubbio e l'umile sottomissione del filosofo come il lupo tratta l'agnello nelle
favole di Esopo; voi gli dite: "Tu hai detto male di me, l'anno passato, e
io adesso mi bevo il tuo sangue." Eccola, la vostra condotta. Avete
perseguitato la saggezza perché avete creduto che il saggio vi disprezzasse.
Avete capito ciò che vi meritavate, e vi siete voluti vendicare. Ma la
filosofia non si vendica; se la ride, imperturbabile, dei vostri vani sforzi;
essa illumina serena gli uomini, che volete abbrutire per renderli simili a
voi.
Per far conoscere le loro idee, basterà dire che essi
sostengono che nulla è più contrario alla retta ragione di quanto
viene insegnato fra i cristiani intorno alla trinità delle persone in
una sola essenza divina, delle quali la seconda è generata dalla prima,
e la terza procede dalle altre due.
Che questa dottrina inintelligibile non si trova in alcun passo
della Scrittura.
Che non è possibile produrne nessun passo che l'autorizzi,
e al quale non si possa, senza minimamente scostarsi dallo spirito del testo,
dare un significato più chiaro, più naturale, più conforme
alle nozioni comuni e alle verità prime e immutabili.
Che il sostenere, come fanno i loro avversari, che nell'essenza
divina ci sono più persone distinte, e che l'Eterno non è
il solo e vero Dio, ma che bisogna aggiungergli il Figlio e lo Spirito Santo,
significa introdurre nella Chiesa di Gesù Cristo l'errore più
grossolano e pericoloso, perché così si favorisce apertamente il
politeismo.
Che implica contraddizione dire che non c'è che un solo
Dio, e tuttavia ci sono tre persone, ciascuna delle quali è
veramente Dio.
Che questa distinzione, uno in essenza e trino nelle persone, non
c'è mai stata nella Scrittura.
Che essa è manifestamente falsa, perché è certo che
non ci sono meno essenze che persone, né meno persone che essenze.
Che le tre persone della Trinità sono o tre sostanze
differenti, o accidenti dell'essenza divina, o questa essenza stessa senza
distinzione.
Che nel primo caso si ammetterebbero tre dei.
Che nel secondo, facciamo un Dio composto di accidenti, adoriamo
degli accidenti, e trasformiamo questi accidenti in persona.
Che nel terzo si divide inutilmente e senza fondamento un soggetto
indivisibile e si distingue in tre quel che in sé non è distinto.
Che se diciamo che le tre persone non sono né sostanze
diverse nell'essenza divina, né accidenti di tale essenza, faticheremo
parecchio a persuaderci che esse siano qualcosa.
Che non bisogna credere che i trinitari più rigidi e
decisi abbiano essi stessi qualche idea chiara del modo in cui le tre ipostasi
sussistono in Dio, senza dividere la sua sostanza, e per conseguenza senza
moltiplicarla.
Che lo stesso sant'Agostino, dopo aver avanzato su questo tema
mille ragionamenti tanto falsi quanto tenebrosi, fu obbligato a confessare che,
su di esso, nulla si poteva dire d'intelligibile.
Gli antitrinitari riferiscono, poi, anche un passo, in
realtà è assai curioso, di quel Padre della Chiesa: "Quando
ci si domanda che cosa sono i tre, il linguaggio degli uomini è
insufficiente, e mancano i termini per esprimerlo: tuttavia si è detto tre
persone non per dire qualcosa, ma perché bisogna parlare e non restare
muti. "Dictum est tamen tres personae, non ut aliquid diceretur, sed ne
taceretur" (De Trinit., libro V, cap. IX).
Che i teologi moderni non han chiarito meglio questo problema.
Che quando si domanda loro cosa intendono con questa parola
"persona", essi non la spiegano se non dicendo che si tratta di una
certa distinzione incomprensibile che fa sì che si distingua, in una
natura unica per numero, un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo.
Che la spiegazione che danno dei termini "generare" e
"procedere" non è più soddisfacente, poiché si riduce a
dire che questi termini designano certe relazioni incomprensibili fra le tre
persone della Trinità.
Che da ciò si può concludere che lo stato della
questione fra gli ortodossi e loro consiste nel sapere che ci sono in Dio tre
distinzioni, di cui non si ha alcuna idea, e fra le quali ci sono certe
relazioni su cui parimenti non si hanno idee.
Da tutto questo concludono che sarebbe più saggio attenersi
all'autorità degli apostoli, i quali non nominarono mai la
Trinità, e bandire per sempre dalla religione tutti i termini che non si
trovano nella Scrittura, come Trinità, Persona, Essenza,
Ipostasi, Unione ipostatica e personale, Incarnazione, Generazione,
Processione, e tanti altri simili che, essendo assolutamente vuoti di senso,
poiché non corrispondono a nessun essere reale rappresentabile, non possono
suscitare nella nostra mente che delle nozioni vaghe, oscure e incomplete.
(Tratto in gran parte dalla voce "Unitaire" dell'Encyclopédie)
Aggiungiamo a quest'articolo quel che dice don Calmet nella sua
dissertazione su quel passo dell'epistola di Giovanni l'evangelista: "Tre
sono le verità che rendono testimonianza in terra: lo Spirito, l'acqua e
il sangue; e questi tre sono uno." Don Calmet riconosce che questi due
passi non si trovano in nessuna Bibbia antica; e infatti sarebbe molto strano
che san Giovanni avesse parlato della Trinità in una lettera e non ne
avesse detto nemmeno una parola nel suo Vangelo. Non si trova traccia di questo
dogma né nei vangeli canonici né in quelli apocrifi.
Tutte queste ragioni, e molte altre, potrebbero scusare gli
antitrinitari, se i concili non avessero già deciso contro di loro. Ma
siccome gli eretici non fanno nessun conto dei concili, non si sa più
come fare per confonderli.
Abbiamo parlato dell'amore. È duro passare dalla gente che
si bacia a quella che si mangia. Ma è fin troppo vero che ci sono stati
degli antropofagi; ne abbiamo trovati in America; forse ce ne sono ancora, e
nell'antichità i ciclopi non erano i soli a cibarsi talvolta di carne
umana. Giovenale riferisce che presso gli egiziani, quel popolo così
saggio, così rinomato per le sue leggi, quel popolo così pio che
adorava i coccodrilli e le cipolle, i tintiriti mangiarono uno dei loro nemici
caduto nelle loro mani; e non fa questo racconto per sentito dire: fu un
delitto commesso quasi sotto i suoi occhi; egli era allora in Egitto e a poca
distanza da Tintiro. Giovenale cita, in quest'occasione, i guasconi e i
saguntini, che si nutrirono un tempo delle carni dei loro compatrioti.
Nel 1725 quattro selvaggi del Mississippi vennero condotti a
Fontainebleau, e io ebbi l'onore di intrattenerli; c'era fra loro una donna di
laggiù, alla quale chiesi se avesse mai mangiato uomini: mi rispose con
grande ingenuità che ne aveva mangiati. Le sembrai un po' scandalizzato,
e lei si scusò dicendo che è meglio mangiare il proprio nemico
morto che lasciarlo divorare dagli animali, e che i vincitori meritavano di
avere la preferenza. Noi ammazziamo in battaglia, campale o meno, i nostri
vicini e per la più misera ricompensa lavoriamo per fornire il pasto a
corvi e vermi. Questo è l'orrore, questo il delitto; che importa, quando
si è uccisi, se si viene mangiati da un soldato o da un corvo o da un
cane?
Noi rispettiamo più i morti che i vivi. Dovremmo rispettare
gli uni e gli altri. Le nazioni cosiddette civili hanno avuto ragione a non
mettere allo spiedo i loro nemici vinti, perché, se fosse permesso mangiare i
propri vicini, non tarderemmo a mangiare i nostri compatrioti; il che sarebbe
un grosso inconveniente per le virtù sociali. Ma le nazioni civili non
sempre sono state tali; tutti i popoli furono a lungo selvaggi; e nell'infinito
numero di rivoluzioni che questo globo ha subito, il genere umano fu ora
numeroso, ora assai scarso. È successo degli uomini quello che succede
oggi degli elefanti, delle tigri e dei leoni, la cui specie è molto
diminuita. Nei tempi in cui una contrada era poco popolata d'uomini, essi
avevano poche arti, erano cacciatori. L'abitudine di nutrirsi di quel che
avevano ucciso li portò facilmente a trattare i nemici al pari dei loro
cervi o dei loro cinghiali. Fu la superstizione a far immolare vittime umane, e
la necessità a farle mangiare.
Qual è il delitto più grande: riunirsi piamente per
piantare un coltello nel cuore di una giovinetta ornata di bende, in onore
della Divinità, o mangiare un soldataccio ucciso per caso?
Tuttavia abbiamo molti più esempi di giovinette e giovani
sacrificati che non di giovinette e giovani mangiati: quasi tutti i popoli
conosciuti ne sacrificarono. Ne immolarono anche gli ebrei: questo si chiamava
l'"anatema": era un vero e proprio sacrificio, e nel ventinovesimo
capitolo del Levitico è prescritto di non risparmiare le anime
viventi che siano state consacrate; ma in nessun luogo è prescritto di
mangiarle, lo si minaccia soltanto; e Mosè, come abbiamo visto, dice
agli ebrei che, se non osserveranno le sue cerimonie, non solamente avranno la
rogna, ma le madri mangeranno i propri figli. È vero che ai tempi d'Ezechiele
i giudei dovevano avere l'usanza di mangiare carne umana, perché egli predice,
nel capitolo XXXIX, che Dio farà loro mangiare non solo i cavalli dei
loro nemici, ma anche i cavalieri e i loro guerrieri. Questo è certo. E,
d'altra parte, perché gli ebrei non avrebbero dovuto essere antropofagi?
Sarebbe stata la sola cosa che mancava al popolo di Dio per essere il
più abominevole popolo della terra.
Ho letto in alcuni aneddoti della storia d'Inghilterra dei tempi
di Crornwell che una candelaia di Dublino vendeva ottime candele fatte con il
grasso degli inglesi. Qualche tempo dopo uno dei suoi clienti si lamentò
con lei perché le sue candele non erano più così buone.
"Ahimè!" rispose quella, "il fatto è che questo
mese ci sono venuti a mancare gli inglesi." Io mi domando chi era
più colpevole: se quelli che sgozzavano gli inglesi o questa donna che
con il loro grasso faceva candele.
Il bue Api era adorato a Menfi come dio, come simbolo o come bue?
C'è da credere che i fanatici vedessero in lui un dio, i saggi un
semplice simbolo e che il popolo ignorante adorasse il bue. Fece bene Cambise,
quando, conquistato l'Egitto, l'uccise di sua mano? E perché no? Fece
così vedere agli imbecilli che si poteva mettere il loro dio allo
spiedo, senza che la natura si scatenasse a vendicare tale sacrilegio. Gli
egiziani sono stati molto celebrati. Io non conosco popolo più
spregevole; deve esserci sempre stato nel loro carattere e nel loro governo un
vizio radicale che ne ha fatti sempre dei vili schiavi. Ammetto che in tempi a
noi quasi ignoti essi abbiano conquistato la terra; ma, nei tempi storici, essi
furono soggiogati da tutti coloro che se ne vollero prendere la briga: dagli
assiri, dai persi, dai greci, dai romani, dagli arabi, dai mamelucchi, dai
turchi, da quasi tutti insomma, meno che dai nostri crociati, giacché questi
erano più malaccorti di quanto gli egiziani fossero vili. Fu la milizia
dei mamelucchi a battere i francesi. In questa nazione non ci sono forse che
due cose passabili: la prima, che coloro che adoravano un bue non vollero mai
obbligare quelli che adoravano una scimmia a cambiare religione; la seconda,
che hanno sempre covato le uova di gallina nei forni.
Si vantano le loro piramidi, ma sono monumenti di un popolo di
schiavi. Certo fu necessario farvi lavorare l'intera nazione: altrimenti non si
sarebbe mai riusciti ad innalzare quelle rozze moli. E a che servivano, poi? A
conservarvi in una celletta la mummia di qualche principe o governatore o
intendente, che la sua anima avrebbe fatto rivivere dopo mille anni. Ma, se
speravano in questa resurrezione dei corpi, perché togliergli il cervello prima
d'imbalsamarli? Dovevan risuscitare senza cervello, gli egiziani?
Giustino martire, che scriveva verso l'anno 170 della nostra era,
è il primo che abbia parlato dell'Apocalisse; egli l'attribuisce
all'apostolo Giovanni, l'evangelista: nel suo dialogo con Trifone, questo ebreo
gli domanda se non crede che Gerusalemme debba, un giorno, essere ricostruita.
Giustino risponde che lo crede, insieme a tutti i cristiani che
pensano rettamente. "Ci fu tra noi, un certo personaggio chiamato
Giovanni, uno dei dodici apostoli di Gesù; egli predisse che i fedeli
passeranno mille anni in Gerusalemme." Questa, del regno di mille anni, fu
un'opinione a lungo accreditata fra i cristiani. Tale periodo di tempo era in
gran credito anche fra i gentili. Le anime degli egiziani riprendevano i loro
corpi dopo mille anni; le anime del purgatorio, in Virgilio, venivano
tormentate per lo stesso spazio di tempo, et mille per annos. La nuova Gerusalemme
millenaria doveva avere dodici porte, in memoria dei dodici apostoli; la sua
forma doveva essere quadrata; la sua lunghezza, la sua larghezza e la sua
altezza dovevano essere di dodicimila stadi, ossia di cinquecento leghe, di
modo che le case dovevano avere anch'esse un'altezza di cinquecento leghe.
Sarebbe stato piuttosto scomodo abitare all'ultimo piano; ma, che volete,
così dice l'Apocalisse nel capitolo XXI.
Se Giustino fu il primo ad attribuire l'Apocalisse a san
Giovanni, taluni hanno rifiutato la sua testimonianza, perché in quello stesso
dialogo con l'ebreo Trifone, Giustino dice che secondo il racconto degli
apostoli, Gesù Cristo scendendo nel Giordano, ne fece ribollire le acque
e le infiammò: il che però non si ritrova in nessuno scritto
degli apostoli.
Lo stesso san Giustino cita fiduciosamente gli oracoli delle
Sibille; in più, pretende di aver visto i resti delle celle dove, nel
faro d'Egitto, furono rinchiusi i settantadue interpreti, ai tempi di Erode. La
testimonianza di uno che ebbe la sventura di vedere quelle celle sembra
indicare che l'autore dovette esservi rinchiuso.
Sant'Ireneo, che viene dopo, e che credeva anche lui nel regno di
mille anni, dice di aver saputo da un vegliardo che l'autore dell'Apocalisse
era san Giovanni. Ma a sant'Ireneo fu rimproverato di aver scritto che non ci
devono essere più di quattro Vangeli, perché non ci sono solo che
quattro parti del mondo e quattro punti cardinali, e perché Ezechiele non vide
che quattro animali. Egli chiama questo ragionamento una
"dimostrazione". Bisogna ammettere che il modo con cui Ireneo
dimostra equivale a quello con cui Giustino ha veduto.
Clemente d'Alessandria, nei suoi Electa, parla soltanto di
un'Apocalisse di san Pietro, di cui si faceva grandissimo conto.
Tertulliano, uno dei più accesi sostenitori del regno di mille anni, non
solo assicura che san Giovanni predisse questa resurrezione e questo regno di
mille anni della città di Gerusalemme, ma pretende che questa
Gerusalemme cominciava già a formarsi nell'aria; che tutti i cristiani
della Palestina, e anche i pagani, l'avevan vista quaranta giorni di fila, ad
ogni finir della notte; disgraziatamente la città dileguava, appena
spuntava il giorno.
Origene, nella sua prefazione al Vangelo di san Giovanni, e
nelle sue Omelie, cita gli oracoli dell'Apocalisse; e cita
egualmente gli oracoli delle Sibille. Ma san Dionigi di Alessandria, che
scriveva verso la metà del III secolo, dice, in uno dei suoi frammenti
conservati da Eusebio, che quasi tutti i dottori respingevano l'Apocalisse
come un libro del tutto privo di senso; che questo libro non è stato
affatto scritto da san Giovanni ma da un tal Cerinto, il quale si era servito
di un gran nome per dare maggior peso alle sue fantasie.
Il concilio di Laodicea, tenuto nel 360, non comprese affatto l'Apocalisse
fra i libri canonici. È ben curioso che Laodicea, una delle chiese cui
l'Apocalisse si rivolgeva, respingesse un tesoro ad essa destinato; e
che il vescovo di Efeso, presente al concilio, respingesse anche lui questo
libro di san Giovanni, sepolto in Efeso.
Era visibile a tutti che san Giovanni si rivoltava di continuo
nella sua fossa, facendo di continuo sollevare e abbassare la terra. Pure, gli
stessi personaggi che erano sicuri che san Giovanni non fosse morto, erano altrettanto
sicuri che egli non aveva scritto l'Apocalisse. Ma quelli che credevano
nel regno di mille anni furono inflessibili nella loro opinione. Sulpicio
Severo, nella sua Storia sacra, libro IX, tratta da empi e insensati
coloro che non riconoscevano l'Apocalisse. E infine, dopo molti dubbi,
dopo opposizioni perpetuatesi di concilio in concilio, l'opinione di Sulpicio
Severo prevalse. Chiarita la questione, la Chiesa decise che l'Apocalisse
è incontestabilmente di san Giovanni: decisione inappellabile.
Ogni confessione cristiana s'è attribuita le profezie
contenute in questo libro: gli inglesi vi hanno trovato le rivoluzioni della
Gran Bretagna; i luterani, i disordini della Germania; i riformati di Francia,
il regno di Carlo IX e la reggenza di Caterina de' Medici: e tutti hanno
egualmente ragione. Bossuet e Newton commentarono entrambi l'Apocalisse;
ma, tutto sommato, le eloquenti declamazioni dell'uno e le sublimi scoperte
dell'altro han fatto loro più onore che non quei commentari.
Ecco un problema incomprensibile che ha messo alla prova, per
più di sedici anni, la curiosità, la sottigliezza sofistica,
l'acredine, lo spirito d'intrigo, la bramosia del dominio, il furore di
persecuzione, il fanatismo cieco e sanguinario, la barbara credulità, e
che ha provocato più orrori che non l'ambizione dei principi, la quale
ne ha pur provocati tantissimi. Gesù è il Verbo? E se è il
Verbo, è emanato da Dio nel tempo o prima del tempo? E se è emanato
da Dio, è coeterno e consustanziale con lui, o è di una sostanza
simile? È distinto da lui o no? È creato o generato? Può
generare a sua volta? Ha la paternità o la virtù produttiva senza
paternità? E lo Spirito Santo, è creato o generato, o prodotto o
procedente dal Padre o procedente dal Figlio, o procedente da tutti e due?
Può generare, può produrre? E la sua ipostasi è
consustanziale con l'ipostasi del Padre e del Figlio? E in qual modo, avendo
precisamente la stessa natura e la stessa essenza del Padre e del Figlio, può
non fare le stesse cose di quelle due persone, che sono lui stesso?
Io non ci capisco assolutamente niente; nessuno ci ha mai capito
niente: e questa è la ragione per la quale ci si è scannati.
Si sofisticò, si disquisì, ci si odiò, ci si
scomunicò fra cristiani per qualcuno di questi dogmi inaccessibili
all'intelletto umano, prima dei tempi d'Ario e d'Atanasio. I greci d'Egitto
erano gente assai abile, capace di spaccare un capello in quattro; ma questa
volta lo spaccarono soltanto in tre. Alessandro, vescovo di Alessandria, ritenne
di dover predicare che, essendo Dio necessariamente individuale, semplice, una
monade in tutto il rigore della parola, questa monade è trina.
Il prete Arios o Arius, che noi chiamiamo Ario, restò
scandalizzato dalla monade di Alessandro; egli spiega la cosa in modo diverso;
ragiona, in parte, come il prete Sabellio, che aveva ragionato a sua volta come
il frigio Prassea, grande loico. Alessandro riunisce in fretta un piccolo
concilio di gente della sua opinione, e scomunica il prete Ario. Eusebio,
vescovo di Nicomedia, prende le difese di Ario: ecco così tutta la
Chiesa in fiamme.
L'imperatore Costantino era uno scellerato, lo ammetto, un
parricida che aveva soffocato la moglie in un bagno, sgozzato il figlio,
assassinato il suocero, il cognato e il nipote, non lo nego; un uomo gonfio
d'orgoglio e immerso nei piaceri, lo concedo; un odioso tiranno, come i suoi
figli, transeat; ma non era privo di buon senso. Non si arriva
all'impero, non si sottomettono tutti i rivali se non si sa ragionare.
Quando vide accendersi quella guerra civile di cervelli scolastici
egli inviò, alle due parti belligeranti, il celebre vescovo Osio con
lettere dissuasorie: "Siete dei gran pazzi," dice loro senza ambagi
nella sua lettera, "a litigare per cose che non capite. È indegno
della gravità dei vostri ministeri fare tanto chiasso per una questione
così poco importante."
Per "questione così poco importante" Costantino
non intendeva alludere al tema della Divinità, ma al modo
incomprensibile con cui ci si sforzava di spiegarne la natura. Il patriarca
arabo che scrisse la Storia della Chiesa d'Alessandria fa parlare
così Osio, mentre presenta la lettera dell'imperatore:
"Fratelli miei, il cristianesimo comincia appena a godere
della pace, e voi volete travolgerlo in una eterna discordia. L'imperatore ha
fin troppa ragione di dirvi che voi litigate per una questione
"così poco importante". Certo, se l'oggetto della disputa
fosse essenziale, Gesù Cristo, che tutti riconosciamo per nostro
legislatore, ne avrebbe parlato: Dio non avrebbe mandato suo figlio sulla terra
per non farci conoscere il nostro catechismo. Tutto quel che non ci ha detto in
modo esplicito è opera degli uomini, e l'errore è il retaggio.
Gesù vi ha comandato di amarvi, e voi cominciate col disobbedirgli
odiandovi, e suscitando la discordia nell'impero. È solo l'orgoglio che
genera le dispute, e Gesù, vostro signore, vi ha comandato d'essere
umili. Nessuno di voi può sapere se Gesù fu creato o generato. E
che v'importa della sua natura, purché la vostra sia d'essere giusti e
ragionevoli? Che cos'ha di comune una vana scienza di parole con la morale che
deve guidare le vostre azioni? Voi sovraccaricate la dottrina di misteri: voi
che siete stati creati per confermare la religione con la virtù. Volete
che la religione cristiana sia soltanto un ammasso di sofismi? È per
questo che il Cristo è venuto sulla terra? Finitela di disputare:
adorate, edificate, umiliatevi, nutrite i poveri, placate le discordie nelle
famiglie, invece di scandalizzare tutto l'impero con le vostre discordie."
Osio parlava a dei cocciuti. Si riunì il concilio di Nicea,
e nell'impero romano ci fu una guerra civile di trecento anni. Quella guerra ne
provocò altre, e di secolo in secolo, fino ai giorni nostri, ci si
è perseguitati a vicenda.
I
In passato, chiunque possedesse un segreto in un'arte correva il
rischio d'esser considerato uno stregone; ogni nuova setta era accusata di
sgozzare i bambini nei suoi misteri; e qualsiasi filosofo non osservasse alla
lettera il gergo delle scuole era accusato d'ateismo dai fanatici e dai
cialtroni e condannato dagli sciocchi.
Anassagora osa pretendere che a guidare il sole non è
Apollo dall'alto di una quadriglia? Lo chiamano ateo, ed è costretto a
fuggire.
Aristotele viene accusato d'ateismo da un sacerdote e, non potendo
far condannare il suo accusatore, si ritira a Calcide. Ma la morte di Socrate
è quanto la storia della Grecia ha di più odioso.
Aristofane (quell'uomo che i commentatori ammirano perché era
greco, senza pensare che era greco anche Socrate), Aristofane fu il primo che
abituò gli ateniesi a considerare Socrate un ateo.
Da noi questo poeta comico, che non è né comico né poeta,
non sarebbe stato ammesso a rappresentar farse nemmeno alla fiera di
Saint-Laurent; mi sembra molto più volgare e spregevole di quanto non lo
dipinga Plutarco. Ecco ciò che il saggio Plutarco dice di questo
buffone: "Il linguaggio di Aristofane è quello di un miserabile
ciarlatano: tutto battute oscene e ributtanti; non è nemmeno divertente per
il volgo, ed è insopportabile per l'uomo di giudizio e d'onore; la sua
arroganza è intollerabile, e la sua malignità detestata dalla
gente perbene."
Questo è dunque, sia detto di passata, il guitto che madame
Dacier, ammiratrice di Socrate, non si vergogna di ammirare; è questo l'uomo
che preparò di lontano il veleno con cui giudici infami fecero morire
l'uomo più virtuoso della Grecia.
I conciapelli, i calzolai e le sarte di Atene applaudirono una
farsa in cui si rappresentava Socrate che, sollevato in aria dentro un paniere,
annunciava che non c'era nessun dio e si vantava d'aver rubato un mantello
insegnando filosofia. Un popolo intero, il cui cattivo governo autorizzava
licenze tanto infami, si meritava proprio quel che gli è accaduto, di
finire schiavo dei romani, e di esserlo oggi dei turchi.
Saltiamo tutto il tempo che intercorre tra la repubblica romana e
noi. I romani, assai più saggi dei greci, non hanno mai perseguitato
nessun filosofo per le sue idee. Non fu così presso i popoli barbari
succeduti all'impero romano. Non appena l'imperatore Federico II si mise a
disputare con i papi, lo si accusò di essere ateo, e per di più
autore, insieme al suo cancelliere Pier delle Vigne, del libro I tre
impostori.
Il nostro gran cancelliere dell'Hospital si dichiara contro le
persecuzioni, ed ecco che subito lo accusano di ateismo. "Homo doctus, sed
verus atheos." Un gesuita tanto al disotto di Aristofane quanto Aristofane
è al disotto di Omero, un disgraziato il cui nome è diventato
ridicolo persino tra i fanatici, in breve il gesuita Garasse, scopre ovunque
degli "ateisti": così chiama tutti coloro contro i quali si
scatena. Garasse chiama "ateista" Teodoro di Beza; è lui che
ha indotto in errore la gente su Vanini.
La misera fine di Vanini non ci muove a sdegno e pietà come
quella di Socrate, perché Vanini non era che un pedante forestiero privo di
meriti; ma non era affatto un ateo, come si è voluto far credere; anzi,
era esattamente il contrario. Era un povero prete napoletano, predicatore e
teologo di professione, portato a disputare all'eccesso sulle quiddità e
sugli universali, "et utrum chimera bombinans in vacuo possit comedere
secundas intentiones", ma nel quale non c'era nessuna tendenza
all'ateismo. Il suo concetto di Dio si ispirava alla teologia più sana e
accreditata: "Dio è principio e fine di se stesso, padre dell'una e
dell'altra cosa, e niente affatto bisognoso né dell'una né dell'altra; eterno
senza essere nel tempo, presente dappertutto, senza essere in nessun luogo. Non
c'è per lui né passato né futuro; è dappertutto e fuori di tutto,
tutto governa, tutto ha creato, immutabile e indivisibile; il suo potere
è la sua volontà ecc."
Vanini ambiva a rinnovare quella bella intuizione di Platone,
accolta poi da Averroé, che Dio avrebbe creato una catena di esseri, dal
più piccolo al più grande, il cui ultimo anello sarebbe congiunto
al suo trono eterno; idea, in verità più sublime che vera, ma
tanto lontana dall'ateismo quanto l'essere dal nulla.
Egli si mise a viaggiare per far fortuna e disputare; ma
disgraziatamente il disputare è la via opposta a quella del fare
fortuna; ci si fa tanti nemici mortali quanti sono i sapienti o i pedanti
contro i quali si disputa. Ecco la fonte delle disgrazie di Vanini: il suo
ardore e la sua rudezza nel disputare gli attirarono l'odio di alcuni teologi;
ed essendo venuto a lite con un certo Francon o Franconi, costui, amico dei
suoi nemici, non mancò di accusarlo d'essere ateo e di insegnare
l'ateismo.
Questo Francon o Franconi, con l'appoggio di qualche testimone,
ebbe la barbarie di sostenere, in giudizio, l'accusa. Vanini, sul banco degli
imputati, interrogato su quel che pensasse dell'esistenza di Dio, rispose che
adorava, con la Chiesa, un Dio in tre persone. Raccolta da terra una pagliuzza,
disse: "Basta questa festuca a provare che esiste un creatore." E
pronunciò un bellissimo discorso sulla vegetazione e sul moto e sulla
necessità di un Essere supremo, senza il quale non ci sarebbe né moto né
vegetazione.
Il presidente Grammont, che si trovava allora a Tolosa, riferisce
questo discorso nella sua Storia di Francia, oggi così
dimenticata; e questo stesso Grammont, per un preconcetto inconcepibile, osa
dire che Vanini disse tutto ciò "per vanità o per paura,
piuttosto che per intima convinzione".
Su che cosa si può fondare questo giudizio temerario e
atroce del presidente Grammont? E evidente che, dopo la sua risposta, Vanini
doveva venir assolto dall'accusa di ateismo. Ma che accadde, invece? Questo
disgraziato prete straniero si occupava anche di medicina: si trovò un
grosso rospo vivo, che conservava in casa sua in un vaso pieno d'acqua; e
così non si mancò di accusarlo di stregoneria. Si sostenne che
quel rospo era il dio che adorava; si attribuì un significato empio a
molti passaggi dei suoi libri - la qual cosa è assai facile e comune -
scambiando le obiezioni per affermazioni e interpretando malignamente qualche
frase ambigua, avvelenando qualche espressione innocente. Infine, la fazione
che lo perseguitava strappò ai giudici la sentenza che condannò
l'infelice a morte.
Per giustificare questa morte bisognava accusare il disgraziato
dei più orrendi crimini. Il minimo e minimissimo Mersenne spinse la
demenza fino a far stampare che Vanini "era partito da Napoli con dodici
dei suoi apostoli, per andare a convertire tutte le nazioni all'ateismo".
Che miseria! E come avrebbe potuto avere, un povero prete, dodici persone alle
sue dipendenze? Come avrebbe potuto convincere dodici napoletani a viaggiare
insieme a lui con grande spesa per recarsi a diffondere dappertutto
quell'abominevole e rivoltante dottrina, a rischio della vita? Un re sarebbe
abbastanza potente da pagare dodici predicatori d'ateismo? Nessuno, prima del
padre Mersenne, aveva mai detto una simile assurdità. Ma, dopo di lui,
la si è ripetuta, se ne appestarono i giornali, i dizionari storici; e
la gente, che ama le cose incredibili, ha creduto ad occhi chiusi a questa
favola.
Lo stesso Bayle, nelle sue Oeuvres diverses, parla di
Vanini come di un ateo: si serve di questo esempio per sostenere il suo
paradosso "che una società d'atei può sussistere". Egli
assicura che Vanini era un uomo di ottimi costumi, e che fu il martire della
propria opinione filosofica. Ma si inganna su entrambi i punti; il prete Vanini
ci confessa nei suoi Dialoghi, fatti a imitazione di Erasmo, di aver avuto
un'amante di nome Isabella. Egli era libero nella sua condotta, come nei suoi
scritti, ma non era ateo.
Un secolo dopo la sua morte, il dotto La Croze e colui che prese
il nome di Filalete, tentarono di giustificarlo; ma siccome nessuno si interessa
della memoria di un disgraziato napoletano, pessimo scrittore, quasi nessuno ha
letto quelle apologie.
Il gesuita Hardouin, più dotto di Garasse, e non meno
temerario, accusa di ateismo, nel suo libro Athei detecti, uomini come
Descartes, Arnauld, Pascal, Nicole, Malebranche: fortunatamente, costoro non
subirono la stessa sorte di Vanini.
Passo al problema morale agitato da Bayle, e cioè se una
società d'atei possa sussistere. Notiamo prima di tutto, a questo
punto, in quali enormi contraddizioni gli uomini possano incorrere disputando
in proposito: coloro che sono insorti con maggiore veemenza contro l'opinione
di Bayle, che hanno negato con le più aspre ingiurie la
possibilità di una società d'atei, hanno poi sostenuto con altrettanta
decisione che l'ateismo è la religione di governo in Cina.
Certo han preso un bell'abbaglio riguardo al governo cinese;
bastava che leggessero gli editti degli imperatori di questo immenso paese, e
avrebbero visto che quegli editti sono dei sermoni, e che dovunque si parla
dell'Essere supremo, governatore, vendicatore e remuneratore.
Ma al tempo stesso non si sono meno ingannati
sull'impossibilità di una società di atei, e non so come Bayle
abbia potuto non ricordarsi di un esempio sbalorditivo che avrebbe potuto rendere
vittoriosa la sua causa.
Per quale motivo sembra impossibile una società di atei?
Perché si reputa impossibile che uomini che non abbiano freni non potrebbero
mai vivere insieme; che niente possono le leggi contro i delitti segreti; che
è indispensabile un Dio vendicatore che punisca in questo o nell'altro
mondo i malvagi sfuggiti alla giustizia umana.
È vero che le leggi di Mosè non parlavano affatto di
una vita futura, non minacciavano pene dopo la morte, non insegnavano ai primi
ebrei l'immortalità dell'anima; però gli ebrei, lungi dall'essere
atei, lungi dal credere di potersi sottrarre alla vendetta divina, erano gli
uomini più religiosi della terra. Non solo credevano all'esistenza di un
Dio eterno ma lo credevano sempre presente tra loro; tremavano d'essere puniti
in loro stessi, nelle loro mogli, nei loro figli, nei loro discendenti, fino
alla quarta generazione, e questo freno era potentissimo.
Ma presso i gentili molte sette non avevano alcun freno; gli
scettici dubitavano di tutto; gli accademici sospendevano il giudizio su tutto;
gli epicurei erano persuasi che la divinità non potesse immischiarsi
nelle faccende degli uomini e, in fondo, non ammettevano alcuna
divinità. Erano convinti che l'anima non è una sostanza ma una
facoltà che nasce e muore con il corpo: di conseguenza, non avevano
altro giogo che quello della morale e dell'onore. I senatori e i cavalieri
romani erano autentici atei, perché gli dei non esistevano per uomini che non
temevano né speravano niente da loro. Il senato romano era dunque realmente
un'assemblea di atei al tempo di Cesare e di Cicerone.
Questo grande oratore, nella sua arringa in difesa di Cluenzio,
dice a tutto il senato riunito: "Che male gli fa la morte? Noi respingiamo
tutte le assurde favole sugli Inferi. Che cosa dunque gli ha tolto la morte?
Nient'altro che il sentimento dei dolori."
E Cesare, l'amico di Catilina, volendo salvare contro lo stesso
Cicerone la vita del suo amico, non gli obietta che far morire un criminale non
è punirlo, che la morte non è niente, è soltanto la fine
dei nostri mali, è un momento più felice che fatale? E Cicerone e
tutto il senato non si arrendono forse a queste ragioni? I vincitori e i
legislatori dell'universo conosciuto formavano dunque, in modo evidente, una
società d'uomini che non temevano niente dagli dei, che erano degli
autentici atei.
Bayle esamina poi se l'idolatria sia più pericolosa
dell'ateismo; se sia un delitto più grande non credere alla
divinità che avere su di essa opinioni indegne: in questo è dello
stesso parere di Plutarco: crede che sia meglio non avere nessuna opinione
piuttosto che una cattiva opinione; ma, non dispiaccia a Plutarco, è
evidente che era infinitamente meglio per i greci temere Cerere, Nettuno e
Giove che non temere niente del tutto. È chiaro che la santità
dei giuramenti è necessaria, e che bisogna fidarsi maggiormente di chi
pensa che un giuramento falso sarà punito, che non di chi pensa di poter
fare, impunito, un falso giuramento. È indubitabile che, in una società
civile, è infinitamente più utile avere una religione (anche
cattiva) che non averne nessuna.
Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare se sia
più pericoloso il fanatismo o l'ateismo. Il fanatismo è
indubbiamente mille volte più funesto, perché l'ateismo non ispira
passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l'ateismo non si oppone al
crimini, ma il fanatismo porta a commetterli. Supponiamo, con l'autore del Commentarium
rerum Gallicarum, che il cancelliere dell'Hospital non fece altro che leggi
sagge, non consigliò altro che la moderazione e la concordia; i fanatici
commisero le stragi della notte di San Bartolomeo. Hobbes passò per
ateo: condusse una vita tranquilla e morigerata; i fanatici del suo tempo
inondarono di sangue l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Spinoza non solo era
ateo, ma insegnò l'ateismo; non fu certamente lui a prender parte
all'assassinio giuridico di Barneveldt; non fu lui a fare a pezzi i due
fratelli De Witt e a mangiarseli arrosto.
Gli atei sono per lo più studiosi arditi e fuorviati che
ragionano male e che, non riuscendo a comprendere la creazione, l'origine del
male, e altre difficoltà, ricorrono all'ipotesi dell'eternità
delle cose e della necessità.
Gli ambiziosi, i viziosi, non hanno tempo di ragionare e di
abbracciare un cattivo sistema: hanno altro da pensare che far confronti tra
Lucrezio e Socrate. Così vanno le cose tra noi.
Non andavano così nel senato di Roma, quasi tutto composto
di atei per teoria e pratica, ossia di gente che non credeva né alla
provvidenza, né alla vita futura: quel senato era un'assemblea di filosofi, di
dissoluti e di ambiziosi, tutti pericolosissimi, che portarono allo sfacelo la
repubblica. L'epicureismo continuò a sussistere sotto l'impero: gli atei
del senato erano stati dei faziosi, ai tempi di Silla e di Cesare; sotto
Augusto e Tiberio, furono degli atei schiavi.
Io non vorrei avere a che fare con un principe ateo che avesse il
suo interesse a farmi pestare in un mortaio: sono sicurissimo che sarei
pestato. Non vorrei, se fossi un sovrano, avere a che fare con dei cortigiani
atei, che avessero interesse ad avvelenarmi: mi sentirei costretto a prendere
del contravveleno tutti i giorni. È dunque assolutamente necessario, per
i principi e per i popoli, che l'idea di un Essere supremo, creatore, reggitore,
remuneratore e vendicatore, sia profondamente radicata negli animi.
Ci sono dei popoli atei, dice Bayle nelle sue Pensées sur les
comètes. I cafri, gli ottentotti, i tupinamba e molti altri piccoli
popoli non hanno nessun dio; questo può essere; non ne negano né ne
affermano l'esistenza; è che non ne hanno mai sentito parlare. Dite loro
che ce n'è uno, lo crederanno facilmente; dite loro che tutto accade in
virtù della natura delle cose, vi crederanno ugualmente. Dire che sono atei
è come accusarli d'essere anticartesiani; non sono né pro né contro
Descartes. Sono dei veri bambini; un bambino non è né ateo ne deista:
non è niente.
Che conclusione trarremo da tutto questo? Che l'ateismo è
un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle
persone colte, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro
scrittoio essi possono arrivare fino a coloro che vivono in piazza; che, se non
è funesto quanto il fanatismo, è però quasi sempre fatale
alla virtù. Aggiungiamo soprattutto che oggi ci sono meno atei di quanti
ce ne siano mai stati, da quando i filosofi hanno riconosciuto che non
c'è alcun essere vegetale senza un germe, nessun germe senza uno scopo,
e che il grano non nasce dalla putredine.
Alcuni geometri non filosofi hanno respinto le cause finali, ma i
veri filosofi le ammettono; e come ha detto un noto scrittore, un catechista
annuncia Dio ai pargoli, e Newton lo dimostra ai saggi.
II
Ma se vi sono degli atei, con chi prendersela se non con quei
tiranni mercenari delle anime, che, costringendoci a ribellarci contro le loro
nefandezze, forzano gli spiriti deboli a negare il Dio che quei mostri
disonorano? Quante volte le sanguisughe di un popolo hanno portato i cittadini
oppressi a rivoltarsi contro il loro re?
Certi uomini, ingrassati con i nostri averi, ci gridano:
"Mettetevi in testa che un'asina ha parlato; credete che un pesce ha
inghiottito un uomo e lo ha vomitato, tre giorni dopo, sano e gagliardo, sulla
riva; non dubitate che il Dio dell'universo abbia ordinato a un profeta ebreo
di mangiare della merda (Ezechiele) e a un altro profeta di comperare due
puttane e di far con loro dei figli di puttana (Osea) (sono le precise parole
che vengon fatte pronunziare dal Dio di verità e di purezza); credete a
cento cose evidentemente abominevoli o matematicamente impossibili: altrimenti,
il Dio di misericordia vi brucerà non solo per milioni di miliardi di
secoli nel fuoco infernale, ma per tutta l'eternità, sia che abbiate un
corpo, sia che non l'abbiate."
Queste inconcepibili idiozie rivoltano tanto le menti deboli e
temerarie, quanto gli spiriti fermi e saggi. Essi dicono: "I nostri
maestri ci dipingono Dio come il più insensato e il più barbaro
di tutti gli esseri; dunque, Dio non esiste!" Mentre dovrebbero dire:
"Questi nostri maestri attribuiscono a Dio le loro assurdità e i
loro furori; dunque, Dio è il contrario di quello che essi annunciano,
dunque Dio è tanto saggio e buono quanto costoro lo dicono pazzo e
malvagio." Così parlano i saggi. Ma se un fanatico li ode, li
denuncia al braccio secolare, e questo li fa bruciare a fuoco lento, credendo
così di vendicare e imitare la maestà divina ch'egli oltraggia.
La vanità ha sempre innalzato i grandi monumenti. Fu per
vanità che gli uomini costruirono la bella torre di Babele. "Su,
eleviamo una torre la cui cima tocchi il cielo e rendiamo famoso il nostro nome
prima d'essere dispersi per tutta la terra." L'impresa fu compiuta ai
tempi di un tal Faleg, che aveva per quinto avo il buon Noè.
L'architettura e tutte le arti ad essa connesse avevano fatto, come si vede,
grandi progressi in cinque generazioni. San Girolamo, colui che vide i fauni e
i satiri, non aveva visto la torre di Babele più di quanto non l'abbia
vista io; ma assicura che era alta ventimila piedi. Non è poi tanto.
L'antico libro Jacult, scritto da uno dei più dotti ebrei,
dimostra che era alta ottantamila piedi giudaici, e tutti sanno che il piede
giudaico era pressappoco lungo quanto il piede greco. Questa dimensione
è ben più verosimile di quella di Girolamo. Questa torre esiste
ancora; ma non è più così alta. Molti viaggiatori, della
cui parola non dubitiamo, dicono di averla vista; io, che non l'ho vista, non
ne parlerò più che di Adamo, mio avo, col quale non ho avuto l'onore
di conversare. Ma potete consultare il Rev. P. Calmet: è un uomo di
sottile intelletto e profonda filosofia: lui vi spiegherà la cosa. Io
non so perché nel Genesi si dica che Babele significa
"confusione". Ba, nelle lingue orientali, significa
"padre", e Bel significa "Dio". Babele, dunque,
è la città di Dio, la città santa. Gli antichi davano
questo nome a tutte le loro capitali. Però è incontestabile che
Babele vuol dire "confusione": sia perché gli architetti furono
confusi dopo aver innalzato l'opera loro fino a ottantunmila piedi giudaici,
sia perché le lingue si confusero; ed evidentemente è da allora che i
tedeschi non intendono più i cinesi; poiché è chiaro, secondo il
dotto Bochart, che originariamente il cinese e l'alto-tedesco erano la stessa
lingua.
Parola greca, che significa "immersione". Gli uomini,
che si fan sempre guidare dai sensi, immaginarono facilmente che quel che
lavava il corpo, lavasse anche l'anima. Nei sotterranei dei templi d'Egitto
c'erano grandi tinozze per i sacerdoti e gli iniziati. Gli indiani, da tempo
immemorabile, si purificano nell'acqua del Gange, e tale cerimonia è
ancora in uso. Essa passò poi agli ebrei; i quali battezzavano tutti gli
stranieri che, pur abbracciando la legge giudaica, non volevano però
sottomettersi alla circoncisione. Soprattutto le donne, cui non si faceva tale
operazione, e che non la subivano se non in Etiopia, venivano battezzate; era
una rigenerazione: essa dava una nuova anima come in Egitto. Leggete, in
proposito, Epifanio, Maimonide e la Gemara.
Giovanni battezzò nel Giordano, e battezzò anche
Gesù, che non battezzò mai nessuno, ma si degnò di
consacrare quest'antica cerimonia. Ogni segno è di per sé indifferente,
e Dio attribuisce la sua grazia al segno che gli piace scegliere. Il battesimo
fu presto il primo rito e il suggello della religione cristiana. Tuttavia, i
primi quindici vescovi di Gerusalemme furono tutti circoncisi; non è
invece sicuro che fossero battezzati.
Nei primi secoli del cristianesimo, si abusò di questo
sacramento; niente era più comune che aspettare l'agonia per ricevere il
battesimo. L'esempio dell'imperatore Costantino ne è una prova
abbastanza esplicativa. Ecco come si ragionava: "Il battesimo purificava
tutto: posso dunque scannare mia moglie, i miei figli e tutti i miei parenti;
dopo di che, mi farò battezzare e andrò in cielo." Come
difatti accade. Questo esempio era pericoloso; a poco a poco la consuetudine di
aspettare la morte per immergersi nel bagno sacro, andò in disuso. I
greci conservarono sempre il battesimo per immersione. I latini, invece, verso
la fine dell'VIII secolo, avendo esteso la loro religione nelle Gallie e in
Germania, e vedendo che l'immersione, nei paesi freddi, poteva far morire i
bambini, vi sostituirono la semplice aspersione: il che attirò loro,
spesso, l'anatema della Chiesa greca.
Fu domandato a san Cipriano, vescovo di Cartagine, se quelli che
si erano fatti innaffiare il corpo fossero effettivamente battezzati. Egli
rispose, nella sua settantaseiesima lettera, che "molte Chiese non
credevano che quegli innaffiati fossero cristiani; lui pensava, invece, che
fossero tali, ma che avessero una grazia infinitamente minore di coloro che
erano stati immersi tre volte, secondo l'uso".
Un cristiano era iniziato dopo essere stato immerso: prima, era
semplicemente catecumeno. Per essere iniziati, bisognava avere dei garanti, dei
mallevadori, che si chiamavano con un nome che corrisponde a
"padrini", affinché la Chiesa si assicurasse della fedeltà dei
nuovi adepti, e i suoi misteri non venissero divulgati. Ecco perché, nei primi
secoli, i gentili furono, in generale, assai male informati dei misteri dei
cristiani: proprio come questi lo erano dei misteri di Iside e di Eleusi.
Cirillo d'Alessandria, nel suo scritto contro l'imperatore
Giuliano, dice: "Io parlerei del battesimo, se non temessi che il mio
discorso potrebbe pervenire ai non iniziati."
Nel II secolo si cominciò a battezzare i bambini; era
naturale che i cristiani desiderassero che i loro figli, i quali senza quel
sacramento, sarebbero stati dannati, ne fossero muniti. Si concluse infine che
bisognava amministrarglielo dopo otto giorni dalla nascita, perché i bambini
ebrei venivano circoncisi a quest'età. La Chiesa greca segue ancora tale
uso. Tuttavia, nel III secolo, prevalse la consuetudine di non farsi battezzare
che in punto di morte.
Coloro che morivano nella prima settimana erano dannati, secondo i
più rigidi fra i Padri della Chiesa. Ma Pietro Crisologo, nel V secolo,
immaginò il Limbo come una specie di inferno mitigato, e, propriamente,
orlo d'inferno, sobborgo d'inferno, dove vanno i bambini morti senza battesimo
e dove stavano i patriarchi prima della discesa di Gesù Cristo: per cui
prevalse poi l'opinione che Gesù fosse disceso nel Limbo e non
nell'inferno.
Si è discusso se nei deserti d'Arabia un cristiano potesse
esser battezzato con della sabbia; si è risposto di no; se si potesse
battezzare con acqua di rose: e si è stabilito che occorreva dell'acqua
pura, ma che ci si poteva servire anche di acqua fangosa.
È chiaro che tutta questa disciplina è dipesa dalla
prudenza dei primi pastori che l'hanno stabilita.
Idea degli unitari rigidi sul battesimo
"È evidente, per chiunque voglia ragionare senza
pregiudizio, che il battesimo non è un segno di grazia conferita, né un
suggello d'alleanza, ma un semplice segno di professione di fede.
"Che il battesimo non è necessario, né di
necessità di precetto né di necessità di mezzo.
"Che non fu istituito da Gesù Cristo e che il
cristiano può farne a meno, senza che possa risultarne per lui alcun
inconveniente.
"Che non si devono battezzare né i bambini, né gli adulti,
né, in genere, nessuno.
"Che il battesimo poteva essere in uso alle origini del
cristianesimo per coloro che uscivano dal paganesimo, per rendere pubblica la
loro professione di fede, ed esserne il segno autentico; ma che, al presente,
è assolutamente inutile e del tutto indifferente."
(Dal Dictionnaire encyclopédique, voce
"Unitaire")
Aggiunta importante
L'imperatore Giuliano, il filosofo, nella sua immortale satira I
Cesari, mette queste parole in bocca a Costanzo, figlio di Costantino:
"Chiunque si senta colpevole di stupro, di omicidio, di rapina, di
sacrilegio e di tutti i più abominevoli delitti, sarà mondo e
puro non appena lo avrò lavato con quest'acqua."
Ed infatti, proprio questa fatale dottrina indusse gli imperatori
cristiani e tutti i grandi dell'impero a differire il loro battesimo fino alla
morte. Eran sicuri d'aver trovato il segreto per vivere da criminali e morire
da virtuosi.
(Tratto dal signor Boulanger)
Altra aggiunta
Che strana idea, tratta dal bucato, che una brocca d'acqua lavi
tutti i delitti! Oggi che si battezzano tutti i bambini, perché un'idea non
meno assurda li suppose tutti criminali, eccoli tutti salvati, finché non
abbiano l'età della ragione e possano diventare peccatori. Sgozzateli
dunque al più presto per assicurare loro il paradiso! Questa conclusione
è così giusta che ci fu una setta devota che si dava la briga di
avvelenare o sgozzare tutti i bambini appena battezzati. Questi devoti
ragionavano perfettamente. Dicevano: "Noi facciamo a questi piccoli
innocenti il più gran bene possibile; impediamo loro d'essere cattivi e
infelici in questa vita, e doniamo loro la vita eterna."
(Del signor abate Nicaise)
Chiedete a un rospo cos'è la bellezza, il bello assoluto, to
kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi
due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta,
il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello
è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso
schiacciato.
Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un
paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno
con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme
all'archetipo del bello in sé, al kalòn.
Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo.
"Quant'è bella!", diceva. "Cosa ci trovate di
bello?" domandai. "Il fatto," rispose, "che l'autore ha
raggiunto il suo scopo." L'indomani egli prese una medicina che gli fece
bene. "Essa ha raggiunto il suo scopo," gli dissi, "ecco una
bella medicina!" Capì che non si può dire che una medicina
è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza
bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia
gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn,
il bello.
Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa
tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori.
"Oh, oh," disse, "il kalòn non è lo stesso
per gli inglesi e per i francesi." Concluse, dopo molte riflessioni, che
il bello è assai relativo, così come quel che è decente in
Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo
è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un
lungo trattato sul bello.
Gli antichi han discusso molto sul sommo bene. Tanto valeva
chiedersi cos'è il sommo blu, o il sommo intingolo, il sommo camminare,
il sommo leggere ecc.
Ciascuno pone il proprio bene dove può, e ne ha quanto
può, a suo modo.
Quid dem? quid non dem? Renuis
tu quod jubet alter...
Castor gaudet equis; ovo prognatus eodem
Pugnis...
Il massimo bene è quello che vi diletta con tanta forza da
mettervi nella totale impossibilità di sentire altro; come il male
peggiore è quello che finisce col privarci di qualsiasi sentimento. Ecco
i due estremi della natura umana, e questi due momenti sono brevi.
Non esistono né estreme delizie né estremi tormenti che possano
durare tutta la vita: il sommo bene e il sommo male sono chimere.
Abbiamo la bella favola di Crantore: la Ricchezza, il Piacere, la
Salute e la Virtù si presentano ai giochi olimpici, ciascuna pretendendo
il premio. La Ricchezza dice: "Il pomo tocca a me, perché con me si compra
qualsiasi bene." Il Piacere dice: "No, spetta a me, perché si cerca
la ricchezza solo per avermi." La Salute afferma che senza di lei, non
può esserci piacere e che la ricchezza è inutile. Finalmente la
Virtù dimostra che essa è superiore alle altre tre, perché con
l'oro, i piaceri e la salute ci si può ridurre a uno stato ben
miserabile, se ci si comporta male. E il pomo fu dato alla Virtù.
La favola è molto ingegnosa, ma non risolve l'assurda
questione del sommo bene. La virtù non è un bene, ma un dovere;
è di un genere diverso, di ordine superiore. Non ha niente a che fare
con le sensazioni dolorose o piacevoli. L'uomo virtuoso, che abbia il mal della
pietra o la gotta, che sia senza appoggi, senza amici, privo del necessario,
perseguitato, messo in catene da un tiranno voluttuoso e in buona salute,
è profondamente infelice; mentre il suo insolente persecutore che
accarezza una nuova amante sul suo letto di porpora è felicissimo. Dite
che il saggio perseguitato è preferibile al suo insolente persecutore;
dite che amate l'uno e detestate l'altro: ma ammettete che il saggio in catene
ha le furie nel cuore. Se il saggio non vuole ammetterlo, v'inganna, è
un ciarlatano.
Ci fu un gran chiasso nelle scuole, ed anche fra le persone che
ragionano, quando Leibniz, parafrasando Platone, costruì il suo edificio
del migliore dei mondi possibili, immaginando che tutto vada per il meglio.
Egli affermò, nel nord della Germania, che Dio non poteva creare che un
solo mondo.
Platone, almeno, aveva lasciato a Dio la libertà di farne
cinque, per la ragione che non ci sono che cinque solidi regolari: il
tetraedro, il cubo, l'esaedro, il dodecaedro e l'icosaedro. Ma siccome il mondo
non ha la forma di nessuno dei cinque solidi di Platone, questi avrebbe dovuto
permettere a Dio una sesta maniera.
Lasciamo da parte il divino Platone. Leibniz, che era sicuramente
miglior geometra di lui e un più profondo metafisico, rese dunque al genere
umano il servizio di mostrargli che dobbiamo essere tutti contenti e che Dio
non poteva fare di più per noi, poiché aveva necessariamente scelto, tra
tutti i partiti possibili, quello incontestabilmente migliore.
"E il peccato originale, dove lo mettiamo?" gli dissero.
"Dove sarà possibile metterlo," rispondevano Leibniz e i suoi
amici. Ma, in pubblico, egli scriveva che il peccato originale rientrava
necessariamente nel migliore dei mondi possibili.
Come! essere cacciati da un luogo di delizie, dove si sarebbe
potuto vivere per sempre se non si fosse mangiata una mela; generare nella
miseria dei figli miserabili che soffriranno di tutto e di tutto faranno
soffrire gli altri! Come! Patire tutte le malattie, provare tutti i dispiaceri,
morire nel dolore e, come rinfresco, venir bruciati per l'eternità:
questa sorte sarebbe proprio la migliore possibile? Per noi non è certo
una sorte invidiabile; in che modo può esserlo per Dio?
Leibniz capiva che non c'era niente da rispondere; così
scrisse dei grossi libri che son tutta una contraddizione.
Negare che il male esiste, potrà essere detto per scherzo
da un Lucullo, che gode ottima salute e che fa un buon pranzo con i suoi amici
e la sua amante, nel salone di Apollo; ma basta che metta il capo fuor della
finestra e vedrà degli infelici; o che gli venga la febbre, e
sarà tale lui stesso.
Io non amo far citazioni; di solito, è una faccenda
spinosa: si trascura ciò che precede e segue il passo che si cita e ci
si espone a mille contestazioni. Tuttavia bisogna che citi Lattanzio, Padre
della Chiesa, che nel capitolo XIII del suo De ira Dei, fa così
parlare Epicuro: "O Dio vuole togliere il male da questo mondo, e non lo
può; o lo può e non lo vuole; o non lo può né lo vuole; o,
infine, lo vuole e lo può. Se lo vuole e non lo può, è
impotenza, il che è contrario alla natura di Dio; se lo può e non
lo vuole, è malvagità, il che non è meno contrario alla
sua natura; se non lo vuole né lo può, è al tempo stesso
malvagità e impotenza; se lo vuole e lo può (la sola ipotesi che
si addica a Dio), donde viene il male sulla terra?"
L'argomento è arduo, e ad esso Lattanzio risponde nel
peggiore dei modi, dicendo che Dio vuole il male, ma che ci ha dotati della
saggezza che ci permette di conseguire il bene. Bisogna confessare che, in
confronto con l'obiezione, questa è una risposta assai debole. Suppone
infatti che Dio non possa darci la saggezza se non creando il male; e poi, che
simpatica saggezza è la nostra!
L'origine del male è sempre stato un abisso di cui nessuno
ha mai potuto vedere il fondo. È questo che ha ridotto tanti antichi
filosofi e legislatori a ricorrere a due principi, uno buono e l'altro cattivo.
Tifone era il principio del male presso gli egizi, Arimane lo era presso i
persiani. I manichei adottarono, come si sa, questa teologia; ma poiché essi
non parlarono mai né col principio buono né con quello cattivo, non bisogna
credere loro sulla parola.
Fra le assurdità di cui rigurgita questo mondo, e che
possiamo annoverare tra i nostri mali, la minore non è quella di aver
supposto due esseri onnipotenti, che si combattono per stabilire quale dei due
dovrà mettere una maggiore quantità di sé nel mondo, e fanno un
accordo come i due dottori di Molière: concedetemi l'emetico, e io vi
concederò il salasso.
Basìlide, seguendo i platonici, pretese, fin dal primo
secolo della Chiesa, che Dio diede da fare il nostro mondo agli angeli della
schiera più bassa, e che costoro, poco abili, fecero le cose quali le
vediamo. Ma questa favola teologica va in fumo davanti alla tremenda obiezione
che non è nella natura di un Dio onnipotente e saggio far costruire un
mondo da architetti che non sanno affatto il loro mestiere.
Simone, che intuì questa obiezione, tentò di
prevenirla dicendo che l'angelo che presiedeva alla fabbrica fu dannato per
aver fatto così male il suo lavoro; ma le scottature di quest'angelo non
guariscono noi.
L'avventura di Pandora presso i greci non risponde meglio
all'obiezione. Il vaso, nel quale si trovavano rinchiusi tutti i mali, e al cui
fondo resta la speranza, è invero una graziosa allegoria; ma quella
Pandora fu foggiata da Vulcano solo per vendicarsi di Prometeo, che aveva fatto
un uomo col fango.
Nemmeno gli indiani se la sono cavata meglio: Dio, creato l'uomo,
gli diede una droga che gli avrebbe assicurato la salute per sempre; l'uomo
caricò la droga sul suo asino, l'asino ebbe sete, e il serpente
gl'insegnò una fontana; poi, mentre l'asino beveva, il serpente gli
portò via la droga.
I siriani immaginarono che l'uomo e la donna, creati nel quarto cielo,
si azzardarono a mangiare una focaccia, invece dell'ambrosia, che era il loro
cibo naturale. L'ambrosia si esalava attraverso i pori; mentre, dopo aver
mangiato la focaccia, bisognava andare al cesso. L'uomo e la donna pregarono un
angelo d'insegnar loro dove si trovasse detto luogo. "Vedete," disse
l'angelo, "quel piccolissimo pianeta laggiù a circa sessanta
milioni di leghe da qui? È il gabinetto dell'universo; andateci
subito." Essi ci andarono, e ci restarono. E da allora il nostro mondo fu
quel che è.
Si potrà sempre domandare ai siriani perché Dio permise che
l'uomo mangiasse quella focaccia e ne derivasse così per noi una
quantità di mali tanto spaventosi.
Da questo quarto di cielo passo immediatamente a Lord Bolingbroke,
tanto per non annoiarmi. Quest'uomo, che era senza dubbio un grande ingegno,
diede al celebre Pope il piano del suo "Tutto è bene" che si
ritrova, infatti, parola per parola, nelle opere postume di Lord Bolingbroke e
che Lord Shaftesbury aveva già inserito nelle sue Characteristics.
Leggete in Shaftesbury il capitolo sui moralisti: vi troverete queste parole:
"C'è molto da rispondere a queste lamentele sui
difetti della natura. Come mai essa è uscita così impotente e
difettosa dalle mani di un essere perfetto? Ma io nego ch'essa sia difettosa...
La sua bellezza risulta dalle contrarietà, e la concordia universale
nasce da un perpetuo conflitto... È necessario che ogni essere sia
immolato ad altri: i vegetali agli animali, gli animali alla terra...; e le
leggi del potere centrale e della gravitazione, che danno ai corpi celesti il
loro peso e il loro moto, non saranno certo alterate per riguardo a un debole
animale, che pur essendo protetto da queste stesse leggi, sarà ben
presto da esse ridotto in polvere."
Bolingbroke, Shaftesbury e Pope, loro portavoce, non risolvono il
problema meglio degli altri. Il loro "Tutto è bene" vuol dire
semplicemente che tutto è retto da leggi immutabili; chi non lo sa? Non
ci insegnate niente, quando osservate quel che sanno anche i bambini: che le mosche
sono nate per essere divorate dai ragni, i ragni dalle rondini, le rondini
dalle avèrle, le avèrle dalle aquile, le aquile per essere uccise
dagli uomini, e gli uomini per ammazzarsi a vicenda e per essere mangiati dai
vermi e poi, almeno mille su uno, dai diavoli.
Ecco un ordine chiaro e costante tra gli animali di ogni specie:
dappertutto c'è ordine. Quando nella mia vescica si forma una pietra,
ciò avviene per effetto di una meccanica ammirevole: degli umori
calcarei passano a poco a poco nel mio sangue, si infiltrano nei reni, passano
per gli ureteri, si depositano nella mia vescica, vi si riuniscono grazie ad
un'eccellente attrazione newtoniana; si forma una pietruzza, si ingrossa, io
soffro mali milIe volte peggiori della morte, sempre grazie al più
bell'assetto del mondo; un chirurgo, che ha perfezionato l'arte inventata da
Tubalcaino, viene a piantarmi un ferro acuto e tagliente nel perineo, afferra
la mia pietruzza con le sue pinzette; quella si spezza sotto i suoi sforzi per
effetto di un meccanismo necessario e, in virtù di questo meccanismo, io
muoio fra i tormenti più atroci. E "tutto questo è
bene", tutto questo è l'evidente conseguenza di principi fisici
inalterabili: sono d'accordo, ma lo sapevo, come del resto lo sapete anche voi.
Se fossimo insensibili, non ci sarebbe niente da dire su questa
fisica. Ma non si tratta di questo; noi vi chiediamo se vi sono o no dei mali
sensibili, e da dove provengono. "Non esistono mali," dice Pope nella
sua quarta epistola sul suo "Tutto è bene", "o se ci sono
dei mali particolari, essi compongono il bene generale."
Ecco un singolare bene generale, che si compone della pietra,
della gotta, di tutti i crimini, di tutte le sofferenze, della morte e della
dannazione.
La caduta dell'uomo è l'impiastro che applichiamo a tutte
queste malattie particolari dell'anima e del corpo, che voi chiamate salute
generale; ma Shaftesbury e Bolingbroke se ne infischiano del peccato
originale; Pope, anzi, non ne parla affatto: è chiaro che il loro
sistema infirma alle basi la religione cristiana, e non ne spiega un bel
niente.
Tuttavia, questo sistema è stato di recente approvato da
numerosi teologi, che ammettono volentieri i contrari; alla buon'ora! Non
bisogna invidiare a nessuno la consolazione di ragionare come può sul diluvio
di mali che ci inonda. È giusto concedere ai malati senza speranza di
mangiare quel che vogliono. Si è arrivati perfino a pretendere che
questo sistema è consolante: "Dio," dice Pope, "vede con
lo stesso occhio morire l'eroe e il passero, disgregarsi un atomo o mille
pianeti, formarsi una bolla di sapone o un mondo."
Ecco davvero una bella consolazione! non trovate un gran sollievo
nella ricetta di Shaftesbury, il quale dice che Dio non si metterà certo
ad alterare le sue leggi eterne per un animale così meschino
com'è l'uomo? Bisogna ammettere almeno che questo meschino animale ha
ogni diritto di disperarsi umilmente e di cercar di comprendere, mentre grida,
perché mai quelle leggi eterne non sono fatte per il benessere d'ogni individuo.
Questo sistema del "Tutto è bene" rappresenta
l'autore di tutta la natura come un re potente e malefico, che resta
impassibile se vede perire quattro o cinquecentomila uomini, e gli altri
trascinare la loro vita nella fame e nelle lacrime, purché egli possa venire a
capo dei suoi disegni.
Lungi dal consolarci, dunque, la teoria del migliore dei mondi
possibili è scoraggiante per i filosofi che la accolgono.
La questione del bene e del male resta, per coloro che cercano in
buona fede, un caos inestricabile; è solo un gioco intellettuale per
coloro che amano disputare: sono dei forzati che giocano con le loro catene.
Quanto al volgo, che non pensa, esso somiglia a quei pesci che da un fiume sono
trasferiti in un vivaio; non sospettano d'essere lì per venir mangiati
durante la quaresima: così noi, con le nostre sole forze, non sappiamo
niente sulle cause del nostro destino. Mettiamo dunque, alla fine di quasi
tutti i capitoli di metafisica, le due lettere dei giudici romani, quando una
causa rimaneva oscura: N.L., non liquet, la cosa non è chiara.
Che pietà, che insipienza, aver detto che le bestie sono
macchine prive di conoscenza e sentimento, che fan sempre le stesse cose allo
stesso modo, che non imparano niente, non perfezionano niente ecc.!
Come! Quell'uccello che fa il suo nido a semicerchio quando lo
attacca a un muro; che lo fa a quarto di cerchio quando è in un angolo e
a cerchio su un albero, quell'uccello fa tutto allo stesso modo? Quel cane da
caccia che hai addestrato per tre mesi non ne sa, forse, adesso, più di
prima? E quel canarino cui insegni un'aria, te la ripete forse subito? Non
impieghi un tempo considerevole a insegnargliela? Non hai osservato che se si
sbaglia, poi si corregge?
Forse per il solo fatto che ti parlo, tu pensi ch'io abbia
sentimento, memoria, idee? Ebbene, non ti parlo: mi vedi rincasare con aria
afflitta, cercare inquieto un foglio, aprire lo scrittoio dove mi ricordo
d'averlo chiuso, trovarlo, leggere con gioia. E così concludi che io ho
provato il sentimento dell'afflizione e quello del piacere, che ho memoria e
conoscenza.
Giudica adesso con lo stesso metro quel cane che ha perduto il
padrone, che l'ha cercato per tutte le strade con guaiti dolorosi, che rientra
in casa agitato, inquieto, che sale, scende, va di stanza in stanza e trova
infine nel suo studio il padrone che ama, e gli testimonia la propria gioia con
la dolcezza dei suoi mugolii, saltando, e leccandolo.
Dei barbari agguantano questo cane, che nel senso dell'amicizia
supera in modo così straordinario l'uomo, lo inchiodano su una tavola, e
lo sezionano vivo per mostrarti le vene mesenteriche. Scopri in lui gli stessi
organi della sensibilità che sono in te. Rispondimi, meccanicista: la
natura ha dotato quest'animale di tutti gli impulsi del sentimento perché non
senta? Ha forse dei nervi perché resti impassibile? Non supporre questa
impertinente contraddizione nella natura.
Ma i maestri della scuola domandano che cos'è l'anima delle
bestie. Io, questa domanda, non la capisco. Un albero ha la facoltà di
ricevere nelle sue fibre la linfa che vi circola, di far sbocciare le gemme
delle sue foglie e dei suoi frutti: mi domanderete allora che cos'è
l'anima di quest'albero? Esso ha ricevuto questi doni; e l'animale ha ricevuto
quelli del sentimento, della memoria, di un certo numero di idee. Chi gli ha
dato tutti questi doni? Colui che fa crescere l'erba dei campi e gravitare la
terra intorno al sole.
"Le anime delle bestie sono forme sostanziali," disse
Aristotele e, dopo di lui, la scuola araba; e, dopo la scuola araba, la scuola
angelica; e, dopo la scuola angelica, la Sorbona; e, dopo la Sorbona, nessun
altro.
"Le anime delle bestie sono materiali," gridano altri
filosofi. Costoro non hanno avuto più fortuna degli altri. Invano si
è chiesto loro che cos'è un'anima materiale: devono ammettere che
è una materia dotata della capacità di sentire. Ma chi le ha dato
questa capacità? Un'altra anima materiale: ossia sarebbe la materia a
fornire la capacità di sentire a un'altra materia: non escono da questo
circolo.
Ascoltate altre bestie che ragionano sulle bestie: "La loro
anima è un ente spirituale che muore con il corpo." Ma quale prova
ne avete? Che concetto vi fate di questo ente spirituale che, in effetti,
è dotato di sentimento, di memoria, d'un certo numero d'idee e di
combinazioni di idee, ma che non potrà mai sapere quel che sa un bambino
di sei anni? Su quale fondamento immaginate che questo ente, che non è
un corpo, muoia con il corpo? Le bestie più grosse sono coloro che hanno
sostenuto che quest'anima non è né corpo né spirito. Ottimo sistema! Noi
non possiamo intendere come spirito se non qualcosa di ignoto, che non è
corpo: e così il sistema di questi signori si riduce a questo: che
l'anima delle bestie è una sostanza che non è corpo e neppure
è qualcosa che non sia corpo.
Da dove possono derivare tanti errori così contraddittori?
Dall'abitudine, che sempre hanno avuto gli uomini, di esaminare che cosa sia
una cosa, prima di sapere se essa esiste. La linguetta, la valvola di un
soffietto, viene chiamata "l'anima del soffietto". E che cos'è
quest'anima? È un nome che ho dato a questa valvola che, quando faccio
funzionare il soffietto, si abbassa, lascia entrare l'aria, si rialza e la
spinge attraverso un tubo.
Non c'è, in questo caso, un'anima distinta dalla macchina.
Ma chi fa muovere il soffietto degli animali? Ve l'ho già detto: colui
che fa muovere gli astri. Il filosofo che disse "Deus est anima
brutorum" aveva ragione; ma doveva approfondire l'argomento.
Dal greco, impressione, impronta. È ciò che la
natura ha impresso in noi. Possiamo cancellarlo? Che grosso problema. Se io ho
il naso storto e due occhi da gatto, potrò nasconderli con una maschera.
Ma posso fare altrettanto con il carattere che la natura mi ha dato? Un uomo
nato violento, facile ad infuriarsi, si presenta davanti a Francesco I, re di
Francia, per protestare contro un sopruso; il volto del re, il contegno
rispettoso dei cortigiani, il luogo stesso in cui si trova, fanno una profonda
impressione su quest'uomo; macchinalmente abbassa gli occhi, addolcisce la sua
rude voce, presenta umilmente la sua richiesta; lo si crederebbe tanto mite
quanto (almeno in quel momento) lo sono i cortigiani fra i quali si trova,
sconcertato; ma se Francesco I conosce le fisionomie, scoprirà facilmente
nei suoi occhi bassi, ma accesi da una cupa fiamma, nei muscoli tesi del viso,
nelle labbra serrate, che quell'uomo non è così mite com'è
costretto ad apparire. Quell'uomo lo segue a Pavia, vien fatto prigioniero con
lui, e con lui condotto in prigione a Madrid; la maestà di Francesco I
non fa più su di lui la stessa impressione; egli si familiarizza con
l'oggetto del suo rispetto. Un giorno, cavando gli stivali al re, e tirandoli
male, fa arrabbiare Francesco I, inasprito dalla sua sventura; il nostro uomo
manda al diavolo il re e butta gli stivali dalla finestra.
Sisto V era nato petulante, testardo, altero, impetuoso,
vendicativo, arrogante: questo carattere sembra farsi più mite nelle
prove del noviziato. Ma appena comincia a godere di qualche credito nel suo
ordine, s'infuria contro un guardiano e quasi lo accoppa a forza di pugni;
inquisitore a Venezia, esercita il suo incarico con insolenza; eccolo
cardinale, posseduto dalla "rabbia papale"; questa rabbia gli fa
vincere la sua natura; seppellisce nell'oscurità la sua persona e il suo
carattere: si atteggia ad umile, si finge moribondo. Viene eletto papa: questo
restituisce alla molla, che la politica aveva piegato, tutta la sua
elasticità a lungo compressa: adesso è il più fiero e il
più dispotico dei sovrani.
Naturam expellas furca, tamen ipsa redibit.
La religione, la morale mettono un freno alla forza del naturale:
non possono distruggerla. L'ubriacone in un chiostro, ridotto a un mezzo
bicchiere di sidro per pasto, non si ubriacherà più, ma
penserà sempre con desiderio al vino.
L'età indebolisce il carattere; è un albero che non
produce più che qualche frutto degenere, ma sempre della stessa natura:
si copre di nodi e di musco, diventa tarlato, ma resta sempre una quercia o un
pero. Se potessimo cambiare il nostro carattere, ce ne daremmo uno e saremmo
padroni della natura. Ma possiamo, noi, darci qualcosa? Non riceviamo tutto?
Cercate di spingere un indolente ad una attività continua, di smorzare
con l'apatia l'animo bollente dell'impetuoso, d'ispirare il gusto per la musica
e la poesia a chi manca di gusto e d'orecchio: non riuscireste meglio che se
tentaste di ridare la vista a un cieco nato. Noi perfezioniamo, mitighiamo,
nascondiamo quel che la natura ha messo in noi; ma non ci mettiamo niente.
Si dice a un coltivatore: "Avete troppi pesci in questo
vivaio; non potranno prosperare; troppo bestiame nei vostri prati e troppa poca
erba: dimagrirà." Dopo questa esortazione si arriva al fatto che i
lucci mangiano metà delle carpe del nostro uomo, e i lupi metà
dei suoi montoni; quello che resta vivo ingrassa. Si rallegrerà della
propria economia? Questo campagnolo sei tu; una delle tue passioni ha divorato
le altre, e tu credi d'aver trionfato di te stesso. Non somigliamo quasi tutti
a quel vecchio generale di novant'anni che, incontrati alcuni giovani ufficiali
mentre facevano un po' di chiasso con delle donnine allegre, urlò loro
infuriato: "Signori, è forse questo l'esempio che io vi do?"
(Tradotto in latino dal padre Fouquet, ex gesuita. Il manoscritto
si trova nella Biblioteca Vaticana, n. 42759)
Dialogo primo
KU
Che devo intendere quando mi si dice d'adorare il cielo
(Shang-ti)?
CU-SU
Non d'adorare il cielo materiale, che vediamo; perché questo cielo
non è che aria, e quest'aria è composta da tutte le esalazioni
della terra; sarebbe una follia ben assurda l'adorare dei vapori.
KU
Tuttavia non ne sarei sorpreso. Mi sembra che gli uomini abbiano
commesso follie anche più grandi.
CU-SU
È vero; ma voi siete destinato a governare; perciò
dovete essere saggio.
KU
Ci sono tanti popoli che adorano i cieli e i pianeti!
CU-SU
I pianeti non sono che terre come la nostra. La luna, per esempio,
avrebbe tanta ragione d'adorare la nostra sabbia e il nostro fango, quanto noi
d'inginocchiarci davanti alla sabbia e al fango della luna.
KU
E allora che significa quando diciamo: il cielo e la terra, salire
in cielo, essere degni del cielo?
CU-SU
Che diciamo un'enorme sciocchezza. Il cielo non c'è: ogni
pianeta è circondato dalla sua atmosfera come da un guscio, e ruota
nello spazio attorno al suo sole. Ogni sole è centro di molti pianeti
che viaggiano continuamente attorno a lui: non c'è né alto né basso, né
salita né discesa. Voi capite che, se gli abitanti della luna dicessero che si
sale in terra, che bisogna rendersi degni della terra, direbbero una cosa
insensata. Noi pronunziamo una frase priva di senso, quando diciamo che bisogna
rendersi degni del cielo; è come se dicessimo: bisogna rendersi degni
dell'aria, o della costellazione del dragone, o dello spazio.
KU
Credo di capire. Bisogna adorare soltanto Dio, che ha fatto il
cielo e la terra.
CU-SU
Senza dubbio: bisogna adorare soltanto Dio. Ma quando diciamo che
egli ha fatto il cielo e la terra, diciamo piamente una grande banalità.
Perché se noi intendiamo per cielo lo spazio prodigioso nel quale Dio ha acceso
tanti soli e fatto ruotare tanti mondi, è molto più ridicolo dire
"il cielo e la terra" che dire "le montagne e un granello di
sabbia". Il nostro globo è infinitamente più piccolo di un
grano di sabbia, a paragone di quei miliardi di universi davanti ai quali noi
scompariamo. Tutto quel che possiamo fare è di unire la nostra debole
voce a quella degli innumerevoli esseri che rendono omaggio a Dio nell'abisso
dello spazio.
KU
Ci han dunque ben ingannati quando ci hanno detto che Fo discese
tra noi dal quarto cielo, in forma di elefante bianco.
CU-SU
Sono favole che i bonzi raccontano ai bambini e alle vecchiette:
noi dobbiamo adorare solo l'eterno creatore di tutti gli esseri.
KU
Ma come ha potuto un essere crearne altri?
CU-SU
Guardate quella stella: essa è a millecinquecentomila
milioni di li dal nostro piccolo globo: da lei partono raggi che
producono sui vostri occhi due angoli eguali al vertice; essi producono gli
stessi angoli negli occhi di tutti gli animali: non è questo il segno di
un piano deliberato? di una legge ammirevole? Ora, chi compie un'opera se non
un operaio? e chi emana leggi se non un legislatore? C'è dunque un
operaio, un legislatore eterno.
KU
Ma chi ha creato quest'operaio? E come è fatto?
CU-SU
Principe, passeggiavo ieri vicino a quel gran palazzo fatto
costruire dal re vostro padre; sentii due grilli che dicevano l'uno all'altro:
"Che immane edificio!" "Sì," rispose il compagno,
"per quanto orgoglioso io sia, confesso che chi ha compiuto questo
prodigio è qualcuno molto più potente dei grilli; ma non ho la
minima idea di questo essere: vedo che c'è, ma non so che cosa
sia."
KU
E io vi dico che siete un grillo più istruito di me; e quel
che mi piace in voi è che non pretendete di sapere quel che ignorate.
Dialogo secondo
CU-SU
Ammettete dunque che c'è un essere onnipotente, che esiste
per se stesso, supremo artefice di tutta la natura?
KU
Sì. Ma se egli esiste per se stesso, niente può
limitarlo: dunque è dappertutto; esiste dunque in tutta la materia, in
tutte le parti di me stesso?
CU-SU
E perché no?
KU
Dunque io stesso sarei una parte della divinità?
CU-SU
Questa, forse, non è una conseguenza necessaria, Questo
pezzetto di vetro è penetrato da ogni parte dalla luce, ma è
forse luce lui stesso? no, non è che sabbia, nient'altro. Certo, tutto
è in Dio: ciò che anima tutto deve essere dappertutto. Dio non
è come l'imperatore della Cina, che abita nel suo palazzo e manda i suoi
ordini per mezzo dei "Kolao". Per il fatto stesso che esiste,
l'essere suo pervade necessariamente tutto lo spazio e tutte le sue opere. E
poiché egli è in voi, questo è un ammonimento continuo a non far
nulla di cui possiate arrossire davanti a lui.
KU
E che cosa bisogna fare per poter guardare se stessi senza
ripugnanza e senza onta, davanti all'Essere supremo?
CU-SU
Essere giusti.
KU
E poi?
CU-SU
Essere giusti.
KU
Ma la setta di Laokium sostiene che non c'è né giusto né
ingiusto, né vizio né virtù.
CU-SU
La setta di Laokium sostiene forse che non c'è né salute né
malattia?
KU
No: essa non sostiene un così grave errore.
CU-SU
L'errore di pensare che non c'è né salute dell'anima né
malattia dell'anima, né virtù né vizio, è altrettanto grande e
più funesto. Coloro che han detto che tutto è uguale sono dei
mostri: è la stessa cosa nutrire il proprio figlio o schiacciarlo contro
una pietra, soccorrere la propria madre o piantarle un pugnale nel cuore?
KU
Mi fate rabbrividire. Io detesto la setta di Laokium. Però
ci sono tante sfumature del giusto e dell'ingiusto. Quanto spesso siamo
nell'incertezza. Quale uomo sa con precisione quel che è permesso e quel
che è proibito? Chi potrà fissare con sicurezza i limiti che
separano il bene dal male? Quale regola mi darete per riconoscerli?
CU-SU
Quella di Confucio, il mio maestro: "Vivi come vorresti aver
vissuto quando ci penserai in punto di morte; tratta il tuo prossimo come
vorresti che egli ti trattasse."
KU
Queste massime, lo riconosco, devono essere il codice del genere
umano; ma che m'importerà, in punto di morte, di aver ben vissuto? Che
ci guadagnerò? Quest'orologio, quando sarà distrutto, sarà
felice d'aver suonato con precisione le ore?
CU-SU
Quest'orologio non sente, non pensa, non può avere rimorsi,
mentre voi ne avete, quando vi sentite colpevole.
KU
Ma se, dopo aver commesso molti delitti, riuscissi a non avere
più rimorsi?
CU-SU
Allora bisognerebbe strangolarvi. E state sicuro che fra gli
uomini, che non amano essere oppressi, si troverà qualcuno che vi
toglierà la possibilità di commettere nuovi delitti.
KU
E così Dio, che è in essi, permetterà loro
d'essere malvagi, dopo averlo permesso a me?
CU-SU
Dio vi ha dato la ragione: non abusatene, né voi né loro. Non solo
sarete infelici in questa vita, ma chi vi ha detto che non possiate esserlo
anche in un'altra?
KU
E chi vi ha detto che c'è un'altra vita?
CU-SU
Solo per il fatto che ne dubitate, dovreste comportarvi come se ci
fosse.
KU
E se fossi sicuro che non c'è?
CU-SU
Vi sfido a provarlo.
Dialogo terzo
KU
Mi sfidate, Cu-Su? Bene. Perché io possa venir ricompensato o
punito quando non ci sarò più, bisogna che sussista in me qualche
cosa che senta e pensi dopo di me. Ora, come prima della mia nascita niente di
me aveva sentimento o pensiero, perché dovrebbe averne dopo la mia morte? e che
potrebbe essere questa parte incomprensibile di me? Forse il ronzio di
quest'ape resterà nell'aria quando non ci sarà più l'ape?
La vegetazione di questa pianta sussisterà quando la pianta sarà
stata divelta? La vegetazione non è forse una parola di cui ci serviamo
per significare il modo inesplicabile con cui l'Essere supremo ha voluto che la
pianta traesse i suoi succhi dalla terra? Così l'anima è una
parola inventata per esprimere debolmente e oscuramente le energie della nostra
vita. Tutti gli animali si muovono; e questa facoltà di muoversi noi la
chiamiamo "forza attiva": ma non esiste un ente distinto che sia
questa forza. Noi abbiamo passioni, e memoria e ragione; ma queste passioni,
questa memoria, questa ragione non sono, indubbiamente, enti a parte, piccoli
individui che abbiano un'esistenza propria; sono semplicemente termini
generici, inventati per fissare le nostre idee. E dunque l'anima, che significa
la nostra memoria, la nostra ragione, le nostre passioni, non è che una
parola. Chi imprime il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante?
Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio.
Se l'anima umana fosse una personcina rinchiusa nel nostro corpo
per dirigerne i movimenti e le idee, questo non indicherebbe nell'eterno
artefice del mondo un'impotenza e un artificio indegni di lui? Dio, dunque, non
sarebbe stato capace di creare degli automi che avessero in sé il dono del
movimento e del pensiero? Voi mi avete insegnato il greco, m'avete fatto
leggere Omero. Io giudico Vulcano un fabbro divino, quando foggia dei tripodi
d'oro che si muovono da soli per andare al concilio degli dei; ma questo stesso
Vulcano mi sembrerebbe un volgare ciarlatano se avesse nascosto, nell'interno di
quei tripodi, qualcuno dei suoi garzoni che, non visto, li facesse muovere.
Certi frigidi sognatori han creduto una bella idea che i pianeti
possano essere mossi da geni che li spingono senza posa: ma non possiamo
credere che Iddio sia stato ridotto a questo misero artificio. In breve, perché
adoperare due forze per un'opera, quando ne basta una? Non oserete negare che
Dio abbia il potere di rendere animato quell'ente assai poco conosciuto che noi
chiamiamo "materia"; Perché dunque dovrebbe servirsi di un altro ente
per animarla?
Ma c'è di più: che cosa sarebbe quest'anima, che voi
elargite così liberalmente al nostro corpo? Da dove verrebbe? E quando?
Dovremmo immaginare il Creatore dell'Universo continuamente intento a spiare
ogni accoppiamento degli uomini e delle donne per cogliere il momento esatto in
cui un germe esce dal corpo dell'uomo ed entra nel corpo della donna, e
inviare, in un baleno, un'anima in quel germe? E se quel germe muore, che
sarà di quell'anima? Sarà stata creata inutilmente o dovrà
attendere un'altra occasione?
Mi sembra, ve lo confesso, una strana occupazione per il padrone
dell'Universo. E non solo egli dovrebbe sorvegliare continuamente ogni
copulazione delle specie umana; ma dovrebbe fare lo stesso anche con tutti gli
animali: perché essi han tutti, come noi, memoria, idee, passioni; e se
crediamo necessaria un'anima per formare questi sentimenti, questa memoria,
queste idee e queste passioni, dobbiamo anche credere che Dio lavori senza posa
a fabbricare anime per gli elefanti e per le pulci, per i gufi, per i pesci e
per i bonzi. Che immagine sarebbe questa dell'architetto di tanti milioni di
mondi, obbligato a fabbricar di continuo tante molle invisibili per perpetuare
l'opera sua?
Ecco una piccolissima parte delle ragioni che possono farmi
dubitare dell'esistenza dell'anima.
CU-SU
Voi ragionate in buona fede, e questo sentimento virtuoso,
quand'anche fosse erroneo, sarebbe gradito all'Essere supremo. Potete anche
ingannarvi, ma dal momento che non ne avete l'intenzione, siete scusabile. Ma
pensate che finora mi avete proposto soltanto dei dubbi; e questi dubbi sono
tristi. Vogliate ammettere delle verosimiglianze più consolanti.
È duro essere annientati: cercate di sperare di sopravvivere. Voi sapete
che un pensiero non è materia, che non ha nessun rapporto con la
materia: perché dunque vi sarebbe così difficile credere che Dio abbia
messo in voi un principio divino che, non potendo mai essere dissolto, non
può essere soggetto alla morte? Osereste affermare che è
impossibile che abbiate un'anima? No, senza dubbio; e se ciò è
possibile, non è verosimile che ne abbiate una? Potreste respingere un
sistema così bello e così necessario al genere umano? Solo
qualche difficoltà basterà a scoraggiarvi?
KU
Vorrei abbracciare questo sistema, ma vorrei che mi venisse
provato. Non è in poter mio credere a qualcosa che non mi risulti
evidente. Io sono sempre stato colpito da questa grande idea, che Dio abbia
creato ogni cosa, che sia dovunque, che penetri in tutto, e a tutto dia moto e
vita; e se egli è in tutte le parti del mio essere come egli è in
tutte le parti della natura, non vedo che bisogno posso avere di un'anima. Che
me ne faccio di questo piccolo essere subalterno, quando sono animato da Dio
stesso? A che mi servirebbe quest'anima? Non siamo noi a darci le nostre idee,
poiché le abbiamo quasi sempre nostro malgrado, ne abbiamo persino quando
dormiamo; e tutto avviene in noi senza che ce ne occupiamo. L'anima avrebbe un
bel dire al sangue e agli spiriti animali: "Circolate, vi prego, in questo
modo, per farmi piacere." Essi circoleranno sempre nel modo prescritto
loro da Dio. Preferisco essere la macchina di un Dio che mi è
dimostrato, che non la macchina di un'anima della quale dubito.
CU-SU
Ebbene, se Dio stesso vi anima, attento a non macchiare con dei
delitti quel Dio che è in voi; e se egli vi ha dato un'anima, che
quest'anima non lo offenda mai. Secondo l'uno o l'altro sistema, voi avete una
volontà, siete libero; vale a dire, avete il potere di fare ciò
che volete: servitevi di tale potere per servire il Dio che ve lo ha dato!
È bene che siate filosofo, ma è necessario che siate giusto. Lo
sarete ancora di più se crederete di avere un'anima immortale.
Degnatevi di rispondermi: non è forse vero che Dio è
la suprema giustizia?
KU
Senza dubbio; e quand'anche fosse possibile ch'egli cessasse di
esserlo (e questa è una bestemmia), io vorrei pur sempre agire con
equità.
CU-SU
Non è forse vero che, quando sarete sul trono, il vostro
dovere sarà di ricompensare le azioni virtuose e di punire quelle
criminali? Vorreste forse che Dio non facesse quel che voi stesso avete il
dovere di fare? voi sapete che in questa vita ci sono, e ci saranno sempre,
virtù disgraziate e delitti impuniti; è dunque necessario che il
bene e il male trovino il loro giudizio in un'altra vita. È quest'idea,
così semplice, così naturale, così generale, quella che ha
istituito in tanti popoli la credenza nell'immortalità delle nostre
anime e nella giustizia divina che le giudicherà quando esse avranno
abbandonato le spoglie mortali. C'è un sistema più ragionevole di
questo, più confacente alla Divinità, e più utile al
genere umano?
KU
Ma perché, allora, tante nazioni non hanno adottato questo
sistema? Voi sapete che nella nostra provincia vivono circa duecento famiglie
di antichi Sinus, che una volta abitavano una parte dell'Arabia Petrea: né
costoro, né i loro antenati hanno mai creduto nell'anima immortale. Essi hanno
i loro Cinque Libri, come noi abbiamo i nostri Cinque King; ne ho
letto la traduzione: le loro leggi, necessariamente simili a quelle di tutti
gli altri popoli, ordinano loro di rispettare i loro padri, di non rubare, di
non mentire, di non essere né adulteri né omicidi; ma queste stesse leggi non
parlano né di ricompense né di castighi in un'altra vita.
CU-SU
Se quest'idea non è ancora sviluppata presso questo povero
popolo, lo sarà senza dubbio un giorno. Ma che ci importa una sventurata
piccola nazione, quando i babilonesi, gli egiziani, gli indiani e tutte le
nazioni civili hanno ricevuto questo dogma salutare? Se foste malato,
rifiutereste un rimedio approvato da tutti i cinesi, col pretesto che alcuni
barbari delle montagne non han voluto servirsene? Dio vi ha dato la ragione:
essa vi dice che l'anima deve essere immortale; è dunque Dio stesso che
ve lo dice.
KU
Ma come potrò essere ricompensato o punito, quando non
sarò più io, quando non sarò più niente di
ciò che costituisce la mia persona? Solo in virtù della mia
memoria io sono sempre io: se durante la mia ultima malattia perdo la memoria, bisognerà
dunque che dopo la mia morte un miracolo me la restituisca per farmi rientrare
nell'esistenza che ho perduto?
CU-SU
Se un principe avesse sgozzato la sua famiglia per regnare, se
avesse tiranneggiato i suoi sudditi, credete che se la caverebbe dicendo a Dio:
"Non sono più io, ho perduto la memoria, tu t'inganni, non sono
più la stessa persona." Credete che Dio si contenterebbe di questo
sofisma?
KU
Ebbene, sia, m'arrendo. Volevo fare il bene per me stesso, lo
farò anche per piacere all'Essere supremo; pensavo che bastasse che la
mia anima fosse giusta in questa vita, spererò ch'essa sia felice in
un'altra. Vedo che questa opinione è buona per i popoli e per i
principi, ma il culto di Dio mi mette in imbarazzo.
Dialogo quarto
CU-SU
Cos'è che vi urta nel nostro Shu-King, questo primo
libro canonico così rispettato da tutti gli imperatori cinesi? Voi
coltivate un campo con le vostre mani regali per dare l'esempio al popolo e ne
offrite le primizie allo Shang-ti, al Tien, all'Essere supremo; gli sacrificate
quattro volte l'anno; siete re e pontefice; promettete a Dio di fare tutto il
bene che sarà in vostro potere. C'è in questo qualcosa che vi
ripugna?
KU
Me ne guardo bene dal trovarvi da ridire. So che Dio non ha nessun
bisogno né dei nostri sacrifici né delle nostre preghiere; il suo culto non
è stabilito per lui, ma per noi. Amo molto pregare: ma vorrei anzitutto
che le mie preghiere non fossero ridicole; perché, quando avrò ben
gridato che "la montagna dello Shang-ti è una montagna grassa e che
non bisogna guardare le montagne grasse"; quando avrò fatto fuggire
il sole e inaridire la luna, queste insensatezze saranno gradite all'Essere
supremo, utili ai miei sudditi e a me stesso?
Soprattutto non posso soffrire la demenza delle sette che ci circondano:
da un lato vedo Lao Tze, concepito da sua madre in virtù dell'unione del
cielo e della terra, e di cui essa rimase incinta ottant'anni: io non ho
maggior fede nella sua dottrina dell'annientamento e del deperimento universale
di quanto ne abbia nei capelli bianchi con cui nacque, o nella vacca nera sulla
quale salì per andare a predicare la sua dottrina.
E nemmeno il dio Fo m'impressiona di più, anche se ha avuto
per padre un elefante bianco, e promette una vita immortale.
Ciò che soprattutto mi contraria è il fatto che tali
fantasticherie sono predicate ogni giorno dai bonzi, che seducono il popolo per
governarlo; essi si rendono rispettabili con mortificazioni che insultano la
natura: gli uni si privano per tutta la vita degli alimenti più salutari,
come se non si potesse piacere a Dio se non mangiando male; gli altri si
mettono attorno al collo una catena da forzato, della quale talvolta si rendono
degnissimi; si piantano chiodi nelle cosce, come se queste fossero delle
tavole; e il popolo li segue in folla. Se un re emana qualche editto che loro
non approvano, vi dicono freddamente che quell'editto non si trova nei
commentari del dio Fo e che è meglio obbedire a Dio che agli uomini.
Come rimediare a una malattia popolare così stravagante e pericolosa?
Voi sapete che la tolleranza è il principio del governo della Cina e di
tutti quelli dell'Asia; ma quest'indulgenza non è poi funesta, quando
espone un impero ad essere sconvolto dalle opinioni dei fanatici?
CU-SU
Che Shang-ti mi preservi dal voler spegnere in voi questo spirito
di tolleranza, questa virtù così rispettabile, che è per
le anime ciò che la possibilità di nutrirsi è per i corpi.
La legge naturale permette a ciascuno di credere quel che vuole, come di
nutrirsi di quel che preferisce. Un medico non ha il diritto di uccidere i suoi
malati perché non hanno osservato la dieta prescritta. Un principe non ha il
diritto di far impiccare quei sudditi che non la pensano come lui: ha
però il diritto di impedire i disordini; e, se è saggio, gli
sarà facile sradicare le superstizioni. Sapete cosa accadde a Daone,
sesto re della Caldea, circa quattromila anni fa?
KU
No, non ne so niente; mi fate cosa grata se me lo racconterete.
CU-SU
I sacerdoti caldei ebbero la bella idea di adorare i lucci dell'Eufrate;
pretendevano che un famoso luccio, chiamato Oannes, avesse loro insegnato una
volta la teologia; che questo luccio fosse immortale, lungo tre piedi e con una
piccola mezzaluna sulla coda. Per rispetto a questo Oannes era proibito mangiar
lucci. Scoppiò una grande disputa tra i teologi per sapere se il luccio
Oannes fosse maschio o portasse uova. Le due fazioni si scomunicarono a vicenda
e vennero più volte alle mani. Ecco cosa escogitò il re Daone per
far cessare il disordine.
Egli ordinò un rigoroso digiuno di tre giorni ai due
partiti; dopo di che fece venire i partigiani del luccio con le uova e li fece
assistere al suo pranzo; si fece portare un luccio lungo tre piedi, al quale
aveva fatto mettere una mezzaluna sulla coda. "Sarebbe questo il vostro
Dio?" chiese ai dottori. "Si, Maestà, perché ha una mezzaluna
sulla coda e ha sicuramente delle uova." Il re dette ordine di aprire il
luccio, che risultò essere invece un bellissimo maschio. "Vedete
bene," disse, "che non è questo il vostro Dio, perché è
maschio." E il luccio fu mangiato dal re e dai suoi satrapi, con grande
soddisfazione dei teologi delle uova, i quali vedevano che il Dio dei loro
avversari era stato fritto.
Poi, il re mandò a cercare i dottori del partito contrario:
fu mostrato loro un Dio lungo tre piedi, con una mezzaluna sulla coda; costoro
assicurarono che quello era il dio Oannes, e che era maschio: fu fritto come
l'altro e, aperto, trovato pieno di uova. Allora, essendo i due partiti rimasti
assai confusi e delusi e non avendo pranzato, il buon re Daone disse di non
avere altro che lucci da offrir loro. Essi ne mangiarono ingordamente, lucci
maschi e lucci femmine. La guerra civile si placò, e ciascuno benedisse
il buon re Daone; e i cittadini, da allora in poi, mangiarono tutti i lucci che
vollero.
KU
Mi è molto simpatico questo re Daone, e mi riprometto
d'imitarlo alla prima occasione che mi si offrirà. Impedirò
sempre, finché potrò (senza fare violenza a nessuno), che si adorino dei
Fo e dei lucci.
So che nel Pegu e nel Tonchino ci sono piccoli dei e piccoli
talapoini che fanno scendere la luna nel suo ultimo quarto, e che predicono
chiaramente l'avvenire; insomma, vedono chiaramente quel che non esiste, poiché
l'avvenire non esiste. Impedirò fin che potrò che i talapoini
vengano da me a prendere il futuro per il presente e a far scendere in terra la
luna. Che miseria che ci siano delle sette che vanno di città in
città a raccontare i loro sogni, come i ciarlatani che vendono droghe!
Che vergogna per lo spirito umano, che certe piccole nazioni pensino che la
verità stia dalla loro parte, e che il vasto impero della Cina sia
perduto nell'errore! L'Essere eterno non sarebbe altri che il Dio dell'isola di
Formosa o di Borneo? e avrebbe abbandonato tutto il resto dell'universo? Mio
caro Cu-Su, Dio è padre di tutti gli uomini; egli permette a tutti di
mangiare il luccio; e il più degno omaggio che si possa rendergli
è di essere virtuosi; un cuore puro è il più sacro di tutti
i templi, come diceva il grande imperatore Hiao.
Dialogo quinto
CU-SU
Poiché amate la virtù, come la praticherete quando sarete
re?
KU
Non commettendo ingiustizie, né contro i miei vicini né contro il
mio popolo.
CU-SU
Non basta non fare il male: dovrete fare il bene; nutrirete i
popoli, occupandoli in lavori utili, e non premiando l'ozio; abbellirete le
grandi strade; farete scavare canali; costruirete edifici pubblici,
incoraggerete tutte le arti, ricompenserete il merito in ogni campo,
perdonerete le colpe involontarie.
KU
È quel che io chiamo non essere ingiusto: dato che questi
sono altrettanti doveri.
CU-SU
Pensiero degno di un re. Ma c'è il re e c'è l'uomo:
la vita pubblica e la vita privata. Presto vi sposerete. Quante mogli contate
di avere?
KU
Credo che una dozzina mi basterà; un numero maggiore
potrebbe sottrarmi il tempo destinato agli affari. Non mi piacciono affatto
quei re che hanno trecento mogli, settecento concubine, e migliaia di eunuchi
per servirle. Questa mania degli eunuchi, soprattutto, mi sembra un troppo
grave oltraggio alla natura umana. Ammetto tutt'al più che si castrino i
galli: diventano più buoni da mangiare; ma nessuno ha ancora infilzato
degli eunuchi allo spiedo. A che serve la loro mutilazione? Il Dalai Lama ne ha
cinquanta per cantare nella sua pagoda: vorrei sapere se lo Shang-ti gode
veramente nell'ascoltare le voci bianche di quei cinquanta castrati.
Trovo anche molto ridicolo che ci siano bonzi che non si sposino.
Si vantano di essere più saggi degli altri cinesi: ebbene, facciano
allora dei figli saggi! Bella maniera d'onorare lo Shang-ti: privandolo di
adoratori! Singolare modo di servire il genere umano, dando l'esempio di come
annientarlo! Il buon piccolo Lama chiamato Stelca ed isant Errepi usava
dire che "ogni prete doveva fare più figli che poteva"; egli
ne dava l'esempio, e fu un uomo assai utile al suo tempo lo farei sposare tutti
i lama e tutti i bonzi, e le lamesse e le bonzesse che avranno vocazione per
questa santa opera: diventeranno certamente migliori cittadini, credo che con
ciò farò un gran bene al regno di Lu.
CU-SU
Oh, che buon principe avremo in voi! Mi fate piangere di gioia. Ma
non vi accontenterete di avere solo mogli e sudditi; perché, certo, non si
può passare la giornata a fare editti e bambini. Avrete senza dubbio
degli amici.
KU
Ne ho già, e buoni, che mi avvertono dei miei difetti; io
mi prendo la libertà di riprendere i loro; essi mi consolano, io li
consolo; l'amicizia è il balsamo della vita, vale più di quello
del chimico Erueil ed anche dei sacchetti del gran Ranoud. Sono sbalordito che
non si sia fatto dell'amicizia un precetto religioso: ho voglia d'inserirlo nel
mio rituale.
CU-SU
Guardatevene bene: l'amicizia è già sacra in se
stessa; non fatene mai un obbligo; bisogna che il cuore sia libero; e poi, se
faceste dell'amicizia un precetto, un mistero, un rito, una cerimonia, ci
sarebbero mille bonzi che, predicando e scrivendo le loro fantasie, la
renderebbero ridicola: non bisogna esporla a questa profanazione.
Ma come tratterete i vostri nemici? Confucio raccomanda in venti
passi d'amarli. Non vi sembra un po' difficile?
KU
Amare i propri nemici? Mio Dio, niente è così
facile.
CU-SU
Cosa intendete?
KU
Come bisogna intenderlo, credo. Ho fatto il mio tirocinio di guerra
sotto il principe di Décon, contro il principe Vis-Brunck: quando uno dei
nostri nemici era ferito e cadeva nelle nostre mani, ci prendevamo cura di lui
come di un fratello; spesso abbiamo ceduto il nostro letto ai nostri nemici
feriti e prigionieri, coricandoci vicino a loro, in terra, su pelli di tigre;
li abbiamo serviti noi stessi: che volete di più? Che li amassimo come
si ama la propria amante?
CU-SU
Sono molto edificato da quello che mi dite, e vorrei che tutte le
genti vi sentissero: perché m'assicurano che ci sono dei popoli tanto insolenti
da osar dire che noi non conosciamo la vera virtù; che le nostre buone
azioni non sono che splendidi peccati, e che abbiamo bisogno delle lezioni dei
loro talapoini, per imparare i buoni principi. Ahimè! Disgraziati! Da
ieri soltanto hanno imparato a leggere e a scrivere, e pretendono di dar
lezione ai loro maestri!
Dialogo sesto
CU-SU
Non starò a enumerarvi tutti i luoghi comuni che si
continuano a ripetere fra noi da cinque o seimila anni su tutte le virtù.
Ce ne sono alcune che servono solo a noi stessi, come la prudenza per guidare
le nostre anime, la temperanza per governare i nostri corpi: sono semplici
precetti di politica e di salute. Le vere virtù sono quelle che sono
utili alla società, come la fedeltà, la magnanimità, la
beneficenza, la tolleranza ecc. Grazie al cielo, non c'è tra noi
vecchietta che non insegni tutte queste virtù ai suoi nipotini: sono i
rudimenti della nostra educazione, in campagna come nelle città. Ma
c'è una grande virtù che comincia a cadere in disuso, e me ne
dolgo.
KU
Qual è? Ditemelo, presto, e cercherò di rimetterla
in onore.
CU-SU
È l'ospitalità. Questa virtù così
sociale, questo vincolo sacro fra gli uomini, comincia ad allentarsi da quando
abbiamo le locande. Questa perniciosa istituzione ci è venuta, dicono,
da certi selvaggi dell'Occidente. A quanto pare, quei miserabili non hanno case
per accogliere i viaggiatori. Che piacere accogliere, nella grande città
di Lu, un generoso straniero che arrivi da Samarcanda, per il quale io divento
da quel momento un uomo sacro, e che sarà obbligato da tutte le leggi
umane e divine a ricevermi a casa sua quando viaggerò in Tartaria, e ad
essermi intimo amico!
I selvaggi di cui vi parlo non ricevono gli stranieri se non per
denaro in disgustose catapecchie; e vendono cara quest'infame accoglienza. Poi
sento dire che quei disgraziati si credono superiori a noi: si vantano d'avere
una morale più pura. Pretendono che i loro predicatori siano migliori di
Confucio; e che infine spetti loro insegnarci la giustizia, forse perché essi
vendono del pessimo vino lungo le strade maestre, e le loro donne vanno in giro
come pazze per le strade, e ballano, mentre le nostre allevano bachi da seta.
KU
Io trovo bellissima l'ospitalità; la esercito con piacere,
ma ne temo gli abusi. C'è gente, verso il gran Tibet, che abita in case
molto misere, cui piace andare di qua e di là e che viaggerebbe per un
nulla fino in capo al mondo; ma quando poi, voi andaste nel gran Tibet per
godere presso di loro del diritto dell'ospitalità, non trovereste né
letto né cena; e questo può portare a disgustarci della nostra cortesia.
CU-SU
È un lieve inconveniente; e sarà facile rimediarvi
ricevendo solo persone ben raccomandate. Non c'è virtù che non
abbia i suoi pericoli: proprio per questo è bello praticarla.
Quant'è saggio e santo il nostro Confucio! Non c'è
virtù ch'egli non ispiri; la felicità degli uomini è
legata ad ogni sua sentenza; eccone una che mi ritorna alla memoria, la
cinquantesimaterza:
"Ricambia i benefici con i benefici, e non ti vendicare mai
delle ingiurie."
Quale massima, quale legge potrebbero opporre i popoli
dell'Occidente a una morale così pura? E in quanti luoghi Confucio
raccomanda l'umiltà! Se questa virtù venisse praticata non si
avrebbero mai liti sulla terra.
KU
Ho letto tutto quel che Confucio e i saggi dei secoli precedenti
hanno scritto sull'umiltà; ma mi sembra che essi non ne abbiano mai dato
una definizione abbastanza precisa. Forse c'è poca umiltà nell'osare
criticarli; ma io ho almeno l'umiltà di confessare che non li ho capiti.
Ditemi cosa ne pensate.
CU-SU
Obbedirò umilmente. Io credo che l'umiltà sia la
modestia dell'anima: perché la modestia esteriore è semplicemente
urbanità. L'umiltà non può consistere nel negare a se
stessi la superiorità che si sia acquisita sugli altri: un buon medico
non può nascondersi di saperne più del suo malato in delirio; chi
insegna astronomia deve riconoscere che ne più dei suoi discepoli; non
può impedirsi di crederlo, ma non deve presumere troppo di sé.
L'umiltà non è l'abiezione; è il correttivo dell'amor
proprio, come la modestia è il correttivo dell'orgoglio.
KU
Ebbene, è nell'esercizio di tutte queste virtù e nel
culto di un Dio semplice e universale che io voglio vivere, lontano dalle
chimere dei sofisti e dalle illusioni dei falsi profeti. L'amore del prossimo
sarà la mia virtù sul trono, e l'amore di Dio la mia religione.
Disprezzerò il dio Fo e Lao Tze e Visnù, che si è
incarnato tante volte tra gli indiani, e Sammonocodom che discese dal cielo per
giocare all'aquilone fra i siamesi, e i Camni, che arrivarono in Giappone dalla
luna.
Sventura a quel popolo così stupido e barbaro da credere
che ci sia un Dio soltanto per la sua provincia. È bestemmia. Come! La
luce del sole rischiara gli occhi di tutti, e la luce di Dio non dovrebbe
rischiarare che una piccola e debole nazione in un angolo del globo? Che
orrore! e che idiozia! La Divinità parla al cuore di tutti gli uomini, e
i legami della carità devono unirli da un capo all'altro dell'universo.
CU-SU
O saggio Ku! Voi avete parlato come un uomo ispirato dallo stesso
Shang-ti. Sarete un degno principe. Ero il vostro maestro, e voi siete
diventato il mio.
ARISTONE
Ebbene, caro Teotimo, state per diventare parroco di campagna?
TEOTIMO
Sì, m'han dato una piccola parrocchia, e io la preferisco a
una grande. Non ho che una porzione limitata d'intelligenza e attività;
non potrei certo dirigere settantamila anime, dato che io ne ho una sola. Ho
sempre ammirato la fiducia di coloro che si caricano sulle spalle immensi
distretti; quanto a me non mi sento capace di una tale amministrazione; un
gregge numeroso mi spaventa, mentre potrò fare un po' di bene a uno
piccolo. Ho studiato giurisprudenza abbastanza da impedire, fin tanto che lo
potrò, che i miei poveri parrocchiani si rovinino con i processi. So
quel che basta di medicina da indicare loro i rimedi più semplici quando
saranno ammalati. Conosco abbastanza l'agricoltura per poter dare loro, qualche
volta, utili consigli. Il signore del luogo e sua moglie, gente onesta,
nient'affatto bigotta, mi aiuteranno a fare del bene. Mi lusingo di riuscire a
vivere abbastanza felice, e che gli altri non si trovino male con me.
ARISTONE
Non vi addolora il fatto di non avere moglie? Sarebbe una grande
consolazione; sarebbe dolce, dopo avere predicato, cantato, confessato,
comunicato, battezzato, seppellito, trovare a casa una donna gentile, piacevole
e onesta, che si prendesse cura della vostra biancheria, e della vostra
persona, che vi tenesse allegro quando state bene e vi curasse quando siete
ammalato, che vi desse dei graziosi bambini, la cui buona educazione sarebbe
utile allo Stato. Vi compiango, voi che servite gli uomini, d'essere privato di
una consolazione così necessaria agli uomini:
TEOTIMO
La Chiesa greca si preoccupa d'incoraggiare i parroci al
matrimonio; la Chiesa anglicana e quelle protestanti hanno la medesima
saggezza; la Chiesa latina ha una saggezza contraria: bisogna che io mi
sottometta. Forse oggi che lo spirito filosofico ha compiuto tanti progressi,
un concilio farebbe leggi più favorevoli all'umanità di quelle
del concilio di Trento. Ma, nell'attesa, io devo conformarmi alle leggi
vigenti. Mi costa molto, lo so; ma tanti che valevano più di me si sono
sottomessi, e non sarò certo io a mormorare.
ARISTONE
Voi siete istruito e sapete parlare con saggia eloquenza. Come
pensate di predicare a gente di campagna?
TEOTIMO
Come predicherei davanti ai re. Parlerò sempre di morale,
mai di controversie religiose. Dio mi guardi dall'approfondire la grazia
concomitante, la grazia efficace, alla quale si resiste, la grazia sufficiente,
che non è sufficiente; dall'esaminare se gli angeli che mangiarono con
Abramo e con Loth avevano un corpo o se fecero finta di mangiare. Ci sono mille
cose che il mio auditorio non capirebbe, e io neppure. Cercherò di
formare uomini dabbene, e d'essere tale anch'io; ma non ne farò dei
teologi, e io stesso lo sarò meno che potrò.
ARISTONE
Che buon curato! Voglio comperare una casa di campagna nella
vostra parrocchia. Ditemi, vi prego, come vi comporterete nella confessione.
TEOTIMO
La confessione è una cosa eccellente, un freno ai delitti,
inventato nell'età più remota; la celebrazione di tutti gli antichi
misteri comprendeva la confessione; noi abbiamo imitato e santificato questa
saggia pratica. Essa è ottima per predisporre i cuori ulcerati dall'odio
a perdonare, e per indurre i ladruncoli a restituire quanto possono aver rubato
al loro prossimo. Ha però diversi inconvenienti. Ci sono molti
confessori indiscreti, soprattutto fra i monaci, che insegnano talvolta alle
ragazze più stupidaggini di quante potrebbero indurle a fare tutti i
giovanotti di un villaggio. Niente particolari, nella confessione: non è
un interrogatorio giudiziario, ma la confessione delle proprie colpe che un
peccatore rende all'Essere supremo nelle mani di un altro peccatore, che poi si
confesserà a sua volta. Questa confessione salutare non è fatta
per soddisfare la curiosità di un altro uomo.
ARISTONE
E di scomuniche, ne farete uso?
TEOTIMO
No. In certi rituali si scomunicano le cavallette, gli stregoni e
i commedianti: io non proibirò alle cavallette d'entrare in chiesa, dato
che esse non ci entrano mai; non scomunicherò gli stregoni, perché non
esiste nessuno stregone; e, riguardo ai commedianti, siccome sono pensionati
dal re e autorizzati dal magistrato, mi guarderò bene dal diffamarli. Vi
confesserò anzi, in tutta confidenza, che mi piacciono le commedie, quando
non offendono i costumi. Mi piacciono molto Il misantropo, Atalia
e altri drammi che mi sembrano scuole di virtù e di buone maniere. Il
signore del mio villaggio fa rappresentare nel suo castello di queste commedie da
giovani di talento: queste rappresentazioni ispirano la virtù attraverso
il piacere; formano il gusto; insegnano a parlare e a pronunziar bene. Le
reputo un piacere innocentissimo e utilissimo; mi riprometto di assistere
anch'io a questi spettacoli per mia istruzione, ma in un palchetto munito di
una grata, per non scandalizzare gli spiriti deboli.
ARISTONE
Più mi scoprite i vostri sentimenti, e più desidero
diventare vostro parrocchiano. Ma c'è un punto molto importante che mi
preoccupa. Come farete per impedire ai contadini di ubriacarsi nei giorni di
festa? È il loro antico modo di celebrarli. Vedete gli uni, oppressi da
un liquido veleno, la testa penzoloni sui ginocchi, le braccia cascanti,
ridotti a non vedere né capire più niente, in uno stato molto inferiore
a quello dei bruti, riportati a casa vacillanti dalle mogli disperate, incapaci
di lavorare il giorno dopo, spesso malati e abbruttiti per il resto della loro
vita. Ne vedete altri diventati furiosi per il vino bevuto, suscitare liti
cruente, picchiare ed essere picchiati; e qualche volta, queste scene orribili
che sono la vergogna del genere umano, eccole esplodere in un delitto. Bisogna
confessarlo: lo Stato perde più sudditi nei giorni di festa che in
guerra. Come riuscirete a far diminuire nella vostra parrocchia un abuso
così esecrabile?
TEOTIMO
Ho già deciso: permetterò, anzi li inciterò a
coltivare i loro campi anche nei giorni di festa, dopo il servizio divino, che
celebrerò di primo mattino. È l'ozio della festa che li spinge
all'osteria. I giorni di lavoro non sono mai giorni di disordini e di omicidi.
Il lavoro moderato contribuisce alla salute del corpo e a quella dell'anima;
per di più questo lavoro è necessario allo Stato. Supponiamo
cinque milioni di uomini che ogni giorno producono, in media, per dieci soldi,
e questo calcolo è molto modesto; rendete questi cinque milioni di
uomini inutili trenta giorni all'anno: fa trenta volte cinque milioni di monete
da dieci soldi che lo Stato perde in manodopera. Ora, certamente Dio non ha mai
ordinato né questa perdita né l'ubriachezza.
ARISTONE
Così concilierete le preghiere e il lavoro; Dio ordina
l'una e l'altro. Così servirete Dio e il Prossimo. Ma nelle dispute
ecclesiastiche, quale partito prenderete?
TEOTIMO
Nessuno. Non si discute mai sulla virtù, perché essa viene
da Dio; si disputa su opinioni, che vengono dagli uomini.
ARISTONE
Che buon curato. Che buon curato.
L'INDIANO
È vero che una volta i giapponesi non sapevano fare cucina,
che avevano sottomesso il loro regno al gran lama, il quale decideva in modo
sovrano e del loro bere e del loro mangiare, e vi inviava di tanto in tanto un
piccolo lama, che veniva a raccogliere i tributi e vi dava in cambio un segno
di protezione, fatto con le due prime dita e con il pollice?
IL GIAPPONESE
Ahimè, è vero. Figuratevi che tutti i posti di
canusi, che sarebbero i grandi cucinieri della nostra isola, erano conferiti
dal lama, e non erano dati per l'amor di Dio. Inoltre, ogni casa dei nostri
secolari pagava annualmente un'oncia d'argento a quel gran cuoco del Tibet.
Egli ci dava, come unica ricompensa, certi piatti di sapore abbastanza cattivo,
chiamati "resti". E quando gli veniva qualche nuova fantasia, ad
esempio quella di far guerra ai popoli di Tangut, ci imponeva nuovi tributi. Il
nostro paese si lamentò spesso, ma senza alcun frutto; anzi, ad ogni
lamentela finiva col pagare un po' di più. Finalmente l'amore, che fa
tutto per il meglio, ci liberò da questa servitù. Uno dei nostri
imperatori litigò col gran lama per una donna; ma bisogna confessare che
quelli che più ci aiutarono in questa storia furono i nostri canusi, o
peiscopi; dobbiamo a loro di essere riusciti a scuotere il giogo. Ed ecco come.
Il gran lama aveva una curiosa mania: credeva di aver sempre
ragione: il nostro dairi e i nostri canusi vollero aver ragione anche
loro, almeno qualche volta. Il gran lama trovò assurda questa pretesa; i
nostri canusi tennero duro e ruppero per sempre con lui.
L'INDIANO
Bene. Da quel momento sarete stati certo felici e tranquilli.
IL GIAPPONESE
Niente affatto. Per quasi due secoli ci siamo perseguitati,
lacerati e divorati. I nostri canusi volevano aver ragione ad ogni costo: solo
da cento anni sono diventati ragionevoli. Così, da allora, possiamo
fieramente considerarci una delle nazioni più felici della terra.
L'INDIANO
Ma come potete godere di tanta felicità, se è vero
quello che mi hanno detto: che avete nel vostro impero dodici specie di cucine?
Avrete dodici guerre civili all'anno.
IL GIAPPONESE
Perché? Se ci sono dodici osti, ciascuno dei quali ha una ricetta
differente, bisognerà per questo tagliarsi la gola invece di mettersi a
tavola? Al contrario, ognuno mangerà quel che preferisce, dal cuoco che
riterrà migliore.
L'INDIANO
È vero che non si deve mai disputare sui gusti; ma invece
se ne disputa, e la lite divampa.
IL GIAPPONESE
Dopo aver disputato a lungo, e aver capito finalmente che tutte
quelle diatribe insegnano agli uomini solo a nuocersi, si prende alla fine la
risoluzione di tollerarsi a vicenda; e questo è innegabilmente
ciò che si può fare di meglio.
L'INDIANO
E chi sono, di grazia, questi osti che si dividono la vostra
nazione nell'arte di mangiare e bere?
IL GIAPPONESE
Ci sono prima di tutto i berei, che non vi daranno da mangiare ne
sanguinacci né lardo; essi sono attaccati all'antica cucina; preferirebbero
morire piuttosto che lardellare un pollo; grandi calcolatori, del resto: se
c'è un'oncia d'argento da dividere tra loro e gli altri undici
cucinieri, cominciano col prenderne per sé la metà, e il resto è
per quelli che sanno meglio contare.
L'INDIANO
Penso che voi non ceniate mai con questa gente
IL GIAPPONESE
No. Ci sono poi i pispati, i quali, in certi giorni della
settimana, e anche per un lungo periodo dell'anno, preferirebbero cento volte
mangiare per cento scudi di lumache, trote, sogliole, salmoni, storioni,
piuttosto che una fricassea di vitello da pochi soldi.
Quanto a noi canusi, ci piace molto il bue, e un certo pasticcio
che si chiama in giapponese pudding. Del resto, tutti ammettono che i
nostri cuochi sono infinitamente più istruiti di quelli dei pispati.
Nessuno ha approfondito meglio di noi il garum dei romani, né meglio
conosciuto le cipolle dell'antico Egitto, la pasta di cavallette degli antichi
arabi, la carne di cavallo dei tartari; c'è sempre qualcosa da imparare
nei libri dei canusi, comunemente chiamati peiscopi.
Non perderò tempo a parlarvi di quelli che mangiano
soltanto alla Terluo, né di quelli che sono per il regime di Vioncal, né
dei batistatani, né degli altri; ma i queccari meritano un'attenzione
particolare. Sono i soli convitati che non ho mai veduto ubriacarsi né
bestemmiare. È molto difficile ingannarli, ma loro non vi inganneranno
mai. Sembrerebbe che il precetto d'amare il nostro prossimo come noi stessi sia
stato fatto solo per loro; perché, in verità, come può un buon
giapponese vantarsi d'amare il suo prossimo come se stesso, quando va, per un
po' di denaro, a tirargli una palla di piombo nel cervello o a sgozzarlo con un
kriss largo quattro dita, il tutto secondo le ottime regole dell'arte della
guerra? Certo, espone anche se stesso a essere sgozzato o a ricevere una palla
in testa; e perciò si può dire con molta più verità
che egli odia il suo prossimo come se stesso. I queccari non hanno mai avuto di
queste frenesie: dicono che i poveri umani sono vasi di argilla fatti per
durare pochissimo, e che non vale la pena che se ne vadano a cuor leggero gli
uni contro gli altri a farsi a pezzetti.
Vi confesso che, se non fossi canuso, non mi dispiacerebbe essere
queccaro: dovete riconoscere che è difficile attaccar lite con cuochi
così pacifici. Ce ne sono poi altri, in grandissimo numero, che vengono
chiamati diesti: costoro danno da mangiare a tutti indifferentemente e
da loro siete liberi di mangiare tutto quello che vi piace, con lardo o senza,
con le uova, con l'olio, pernice o salmone, vino bianco o vino rosso; tutto
ciò per loro è indifferente; purché voi rivolgiate qualche
preghiera a Dio prima o dopo il desinare, o anche semplicemente prima di
colazione, e siate gente dabbene, rideranno con voi a spese del gran lama (cui
ciò non farà alcun male) e di Terluo, di Vioncal, di Memnone ecc.
È solo necessario che i nostri diesti ammettano che i nostri canusi sono
dottissimi cuochi, e soprattutto che non parlino mai di ridurre le nostre
rendite; e allora vivremo tutti insieme nel più pacifico dei modi.
L'INDIANO
Ma, infine, bisogna pur che ci sia una cucina dominante: quella
del re.
IL GIAPPONESE
È vero. Ma quando il re del Giappone ha mangiato bene, deve
essere di buon umore e non deve impedire la digestione dei suoi fedeli sudditi.
L'INDIANO
E se, in barba al re, dei testardi volessero mangiare delle
salsicce per le. quali il re prova avversione, e si riunissero in quattro o
cinquemila, armati di graticole per farle cuocere, insultando quelli che non ne
mangiano?
IL GIAPPONESE
Allora bisogna punirli come ubriachi che turbano la quiete
pubblica. Noi abbiamo ovviato a questo pericolo. Solo coloro che seguono la
cucina del re possono ricevere cariche dallo Stato; gli altri possono mangiare
a loro gusto, ma sono esclusi dalle cariche. Gli assembramenti sono
assolutamente vietati e puniti subito, senza remissione; tutte le liti a tavola
sono accuratamente represse, secondo il precetto del nostro grande cuoco
giapponese, che ha scritto in lingua sacra, Suti Raho Cus flac.
Natis in usum laetitiae scyphis
Pugnare Thracum est...
il che vuol dire: "Il pranzo è fatto per un piacere
moderato e non per buttarsi in faccia i bicchieri."
Con queste massime, qui da noi si vive felici. La nostra
libertà è sicura sotto i nostri "taicosema"; le nostre
ricchezze aumentano, abbiamo duecento giunche di linea, e siamo il terrore dei
nostri vicini.
L'INDIANO
E perché allora quel buon verseggiatore Recina, figlio del grande
poeta indiano Recina così delicato, esatto, armonioso ed eloquente, ha
detto, in un poema didattico in rima, intitolato La Grâce e non Les
Grâces:
Le Japon, où jadis brilla tant de
lumière,
N'est plus qu'un triste amas de folles visions?
IL GIAPPONESE
Il Recina di cui parlate è lui stesso un gran visionario.
Quel povero indiano ignora forse che noi gli abbiamo insegnato cos'è la
luce, e che se oggi si conosce in India il vero corso dei pianeti, è
merito nostro: che noi soli abbiamo insegnato agli uomini le leggi fondamentali
della natura e il calcolo dell'infinito; che, se vogliamo scendere a cose d'uso
più comune, la gente del suo paese ha imparato da noi a costruire le
giunche secondo proporzioni matematiche, e che essa deve a noi perfino quelle
calze tessute al telaio con cui si copre le gambe? Sarebbe mai possibile che,
avendo inventato tante cose ammirevoli ed utili, noi non fossimo che dei pazzi,
e che l'unico saggio fosse un uomo che ha messo in versi i sogni altrui?
Ditegli che ci lasci cucinare a modo nostro, e lui faccia, se vuole, dei versi
su argomenti più poetici.
L'INDIANO
Che volete! Ha i pregiudizi del suo paese, quelli della sua setta,
e i suoi personali.
IL GIAPPONESE
Un po' troppi, già!
TUCTAN
Eh si, amico Karpos, li vendi cari i tuoi ortaggi, ma sono
buoni... Di che religione sei, adesso?
KARPOS
Sinceramente, pascià, sarei imbarazzato a dirvelo. Quando
la nostra piccola isola di Samo apparteneva ai greci, mi ricordo che mi
facevano dire che l'aghion pneuma procedeva solamente dal tu patru;
mi facevano pregare Dio in piedi, le mani giunte e mi proibivano di bere latte
in quaresima. Poi sono venuti i veneziani, e allora il mio parroco veneziano mi
ha fatto dire che l'aghion pneuma veniva dal tu patru e dal tu
uiu; mi ha permesso di bere il latte e m'ha fatto pregare Dio in ginocchio.
Poi sono tornati i greci, che hanno cacciato i veneziani, e così ho
dovuto rinunciare al tu uiu e al latte. Voi infine avete cacciato i
greci, e io vi sento gridare Allah illa Allah a perdi fiato. Io non so
più bene quel che sono: amo Dio con tutto il cuore, e vendo i miei
ortaggi a un prezzo molto ragionevole.
TUCTAN
Hai dei fichi bellissimi.
KARPOS
Pascià, sono al vostro servizio.
TUCTAN
Dicono che hai anche una figlia graziosa.
KARPOS
Sì, pascià, ma lei non è al vostro servizio.
TUCTAN
E perché mai, straccione?
KARPOS
Perché sono un uomo onesto; e l'onestà mi permette di
vendere i miei fichi, ma non mia figlia.
TUCTAN
E per quale legge non ti è permesso di vendere anche quel
frutto?
KARPOS
Per la legge di tutti i giardinieri onesti; l'onore di mia figlia
non è mio: appartiene a lei e non è una merce.
TUCTAN
Tu non sei dunque fedele al tuo pascià?
KARPOS
Fedelissimo nelle cose giuste, finché sarete il mio padrone.
TUCTAN
Ma se il tuo papa greco facesse una cospirazione contro di me, ti
ordinasse in nome del tu patru e del tu uiu di prendervi parte,
non saresti così devoto da ubbidirgli?
KARPOS
lo? Niente affatto. Me ne guarderei bene.
TUCTAN
E perché rifiuteresti di obbedire al tuo papa greco in una
così bella occasione?
KARPOS
Perché ho giurato obbedienza a voi, e so bene che tu patru non
ordina a nessuno di cospirare.
TUCTAN
Ne sono contento. Ma se per disgrazia i tuoi greci
riconquistassero l'isola e mi cacciassero, mi saresti ancora fedele?
KARPOS
Eh, come potrei restarvi fedele, se voi non foste più il
mio pascià?
TUCTAN
E il giuramento che mi hai fatto, che fine farebbe?
KARPOS
Quella dei miei fichi, che non vi servirebbero più. Non
è forse vero, con tutto il rispetto, che se voi foste morto, nel momento
in cui parlo, non vi sarei più obbligato?
TUCTAN
Quest'ipotesi è incivile, ma la cosa è vera.
KARPOS
Ebbene, se veniste scacciato, è come se foste morto; perché
avreste un successore al quale dovrei fare un altro giuramento. Potreste
esigere da me una fedeltà che non vi servirebbe a nulla? Sarebbe come
se, non potendo più mangiare i miei fichi, voleste impedirmi di venderli
ad altri.
TUCTAN
Ragioni bene: hai dunque i tuoi principi?
KARPOS
Sì, a modo mio. Non sono tanti, ma mi bastano; se ne avessi
di più, m'imbarazzerebbero.
TUCTAN
Sarei curioso di saperli, questi tuoi principi.
KARPOS
Essere un buon marito, un buon padre, un buon vicino, un buon
suddito e un buon giardiniere. Non vado più in lì, e spero che
Dio mi userà misericordia.
TUCTAN
E credi che Dio userà misericordia anche a me, che sono il
governatore della tua isola?
KARPOS
E come volete che lo sappia? Sta forse a me indovinare come Dio si
comporta con i pascià? È una faccenda tra voi e lui, e io non me
ne immischio certo. Tutto quel che penso è che, se voi siete un buon
pascià come io sono un buon giardiniere, Dio vi tratterà molto
bene.
TUCTAN
Per Maometto! Questo idolatra m'è molto simpatico. Addio,
amico; che Allah ti protegga.
KARPOS
Grazie tante, Theos abbia misericordia di voi, pascià.
Da molto tempo si sostiene che tutti gli avvenimenti sono
concatenati fra loro da una fatalità invincibile: il Destino, che in
Omero è più forte dello stesso Giove. Questo signore degli dei e
degli uomini dichiara francamente di non poter impedire che suo figlio
Sarpedone muoia nel tempo prestabilito. Sarpedone era nato nel momento in cui
era necessario che nascesse, e non poteva nascere in un altro momento; non
poteva morire se non sotto le mura di Troia; non poteva essere seppellito che
in Licia, e il suo corpo doveva produrre, nel tempo prestabilito, certi legumi
che si sarebbero trasformati nella sostanza di alcuni lici; i suoi eredi
dovevano stabilire un nuovo ordine nei suoi Stati; questo nuovo ordine avrebbe
influito sui regni vicini; ne sarebbe risultata una nuova condizione di guerra
e di pace con i vicini dei vicini della Licia: così, progressivamente,
il destino di tutta la terra è dipeso dalla morte di Sarpedone, la quale
dipendeva da un altro avvenimento, che era legato ad altri, fino all'origine
delle cose.
Se uno solo di questi fatti si fosse svolto in modo diverso, ne
sarebbe risultato un altro universo; ma non era possibile che l'universo
attuale non esistesse: dunque, non era possibile a Giove - sebbene fosse Giove
- salvare la vita di suo figlio.
Questo sistema della necessità e della fatalità
è stato inventato ai giorni nostri da Leibniz, a quanto egli dice, sotto
il nome di ragione sufficiente; ma è in realtà molto
antico; non è da oggi soltanto che non c'è effetto senza causa, e
la più piccola causa può produrre grandissimi effetti.
Lord Bolingbroke dichiara che le piccole liti fra lady Marlborough
e lady Masham fecero nascere l'occasione di stipulare il trattato particolare
tra la regina Anna e Luigi XIV; questo trattato portò poi alla pace di
Utrecht, che a sua volta insediò Filippo V sul trono di Spagna; Filippo
V poi tolse alla casa d'Austria Napoli e la Sicilia; il principe spagnolo che
oggi è re di Napoli deve evidentemente il suo regno a lady Masham; e non
lo avrebbe avuto, e non sarebbe forse neanche nato, se la duchessa di
Marlborough fosse stata più compiacente con la regina d'Inghilterra. La
sua esistenza a Napoli dipendeva da una sciocchezza in più o in meno
alla corte di Londra. Esaminate le condizioni di tutti i popoli del mondo:
tutte fondate su una serie di fatti che sembrano di nessun peso, ma da cui
tutto dipende. Tutto è ingranaggio, puleggia, corda, molla, in questa
immensa macchina.
Lo stesso accade nell'ordine fisico. Un vento che soffia dal fondo
dell'Africa e dai mari australi porta con sé una parte dell'atmosfera africana,
la quale ricade in pioggia nelle valli delle Alpi; queste piogge fecondano le
nostre terre; il nostro vento del nord, a sua volta, spinge i nostri vapori
sulle terre dei negri; noi facciamo del bene alla Guinea, e la Guinea a sua
volta ne fa a noi. Questa catena si estende da un capo all'altro dell'universo.
Però mi sembra che si abusi stranamente della verità
di questo principio. Se ne è concluso che non c'è atomo, per
minuscolo che sia, che non abbia influito sulla sistemazione attuale del mondo
intero; che non c'è accidente così piccolo, sia tra gli uomini
che tra gli animali, che non sia un anello essenziale della grande catena del
destino.
Intendiamoci: ogni effetto ha evidentemente la sua causa
nell'abisso dell'eternità; ma, se discendiamo fino alla fine dei secoli,
non tutte le cause hanno avuto il loro effetto. Tutti gli avvenimenti sono
prodotti gli uni dagli altri, lo riconosco: se il passato ha partorito il presente,
il presente partorisce il futuro. Tutto ha un padre, ma non tutto ha sempre dei
figli. Avviene qui come negli alberi genealogici: ogni casata risale, come si
sa, ad Adamo; ma in ogni famiglia molti sono i membri morti senza lasciare
posterità.
C'è un albero genealogico degli avvenimenti di questo
mondo. È incontestabile che gli abitanti della Gallia e della Spagna
discendano da Gomez, e i russi da Magog, suo fratello minore: si trova, questo,
scritto in tanti grossi libri! Partendo da ciò, non si può negare
che noi dobbiamo a Magog i sessantamila russi che oggi sono in armi sui confini
della Pomerania, e i sessantamila francesi che si trovano presso Francoforte.
Ma sia che Magog abbia sputato a destra o a sinistra, dalle parti del Caucaso,
e abbia così prodotto il movimento di due o tre cerchi nell'acqua di un
pozzo, o che abbia dormito sul fianco destro o sul sinistro, non vedo come
questo possa aver influito molto sulla decisione presa dall'imperatrice di
Russia, Elisabetta, di inviare un esercito in aiuto dell'imperatrice dei
romani, Maria Teresa. Che, dormendo, il mio cane sogni o non sogni, non vedo
proprio il rapporto che quest'affare così importante può avere
con quelli del gran Mogol.
Bisogna considerare che, nella natura, non tutto è assoluto
e che ogni movimento non si comunica da un punto all'altro, sino a fare il giro
del mondo. Gettate in acqua un corpo di densità uguale e calcolerete
facilmente che, dopo un certo tempo, il moto di questo corpo e quello che esso
ha comunicato all'acqua si arresteranno; ogni moto cessa e riprende: dunque, il
movimento che Magog poté produrre sputando in un pozzo non può avere
influito su quello che succede oggi in Russia o in Prussia. Dunque, gli
avvenimenti odierni non sono i figli di tutti gli avvenimenti di ieri; hanno le
loro linee di discendenza diretta, ma mille piccole linee collaterali non
servono loro a niente. Ancora una volta, ogni essere ha un padre, ma non tutti
hanno dei figli. Ne diremo forse qualcosa di più quando parleremo del Destino.
La prima volta che lessi Platone e vidi quella gradazione di
esseri che si elevano dall'atomo più minuscolo fino all'Essere supremo,
restai preso d'ammirazione. Ma poi, quando considerai il tutto attentamente,
quel grande fantasma svanì, come una volta tutti gli spettri fuggivano
al canto del gallo.
L'immaginazione si compiace dapprima nel vedere il passaggio
impercettibile dalla materia bruta alla materia organica, dalle piante agli
zoofiti, dagli zoofiti agli animali, da questi all'uomo, dall'uomo ai geni, e
da questi geni, dotati d'un minuscolo corpo aereo, a sostanze immateriali, e,
finalmente, a mille ordini diversi di tali sostanze, che, di perfezione in
perfezione, si innalzano sino a Dio stesso. Una tale gerarchia piace molto alla
brava gente, che crede di vedere il papa e i suoi cardinali, seguiti dagli
arcivescovi e dai vescovi; e dietro, in fila, i curati, i vicari, i semplici
preti, i diaconi, i sottodiaconi e poi ancora i monaci, e, in coda, i
cappuccini.
Ma c'è un po' più di distanza tra Dio e le sue
più perfette creature, che fra il Santo Padre e il decano del sacro
collegio; questo decano può diventare papa, ma il più perfetto
dei geni creati dall'Essere supremo non può diventare Dio: tra Dio e lui
c'è l'infinito.
Questa catena, questa pretesa gradazione, non esiste neppure tra i
vegetali e gli animali; e la prova è che certa specie di piante e
d'animali sono estinte. Oggi non si trovano più i murici. Agli ebrei era
proibito mangiare carne di issione e di grifone; queste due specie sono
scomparse dal mondo, checché pretenda il Bochart. Dov'è, dunque, la
catena?
E quand'anche non avessimo perduto alcune specie, è chiaro
che se ne possono distruggere. I leoni, i rinoceronti cominciano a diventare
assai rari.
È probabilissimo che siano esistite razze d'uomini di cui
oggi non si ha più traccia. Ma voglio anche ammettere che siano
sopravvissute tutte: come i bianchi, i negri, i cafri, cui la natura ha dato un
grembiule di pelle che pende loro dal ventre fino a mezza coscia; i samoiedi,
le cui donne hanno mammelle di un bel nero d'ebano ecc.
Non c'è forse, visibilmente, un vuoto tra la scimmia e
l'uomo? Non è forse facile immaginare un animale bipede implume,
intelligente, anche se non ha l'uso della parola, né il nostro aspetto, che noi
potremmo addomesticare, che risponda ai nostri segni e ci serva? E tra questa
nuova specie e la specie umana, non potremmo immaginarne altre ancora?
Oltre l'uomo, voi collocate in cielo, o divino Platone, una
quantità di sostanze celesti; noi crediamo, oggi, a qualcuna di esse,
perché la fede ce lo insegna. Ma voi, che ragione avevate di credervi? A quanto
pare, non avete parlato col demone di Socrate; e quel brav'uomo di Er, che
risuscitò apposta per insegnarvi i segreti dell'altro mondo, non vi ha
rivelato niente di queste sostanze.
La pretesa catena è del pari interrotta nell'universo
sensibile.
Quale gradazione c'è, di grazia, fra i nostri pianeti? La
Luna è quaranta volte più piccola del nostro globo. Quando avrete
viaggiato nel vuoto oltre la Luna, troverete Venere: essa e grande circa come
la Terra; di là arriverete a Mercurio, che descrive un'orbita molto
differente da quella di Venere ed è ventisette volte più piccolo
di noi: mentre il Sole è un milione di volte più grande, Marte
cinque volte più piccolo e compie la sua orbita in due anni; Giove, suo
vicino, ne impiega dodici e Saturno trenta; Saturno, il più lontano di
tutti, è più piccolo di Giove. Dov'è questa pretesa
gradazione?
E poi, come volete che nei grandi vuoti ci sia una catena che tutto
collega? Se ce n'è una, è certo quella che Newton ha scoperto;
quella che fa gravitare tutti i globi del mondo planetario gli uni verso gli
altri, in quel vuoto immenso.
O Platone, tanto ammirato! Ci avete raccontato delle favole; e
oggi, in quell'isola di Cassiteride, dove ai vostri tempi gli uomini andavano
nudi, è sorto un filosofo che ha insegnato al mondo verità tanto
grandi quanto erano puerili le vostre fantasie.
"Quanti anni ha il vostro amico Cristoforo?"
"Ventotto anni; ho veduto il suo contratto di matrimonio e il suo
certificato di battesimo; lo conosco fin dall'infanzia; ha ventotto anni, ne ho
la certezza, ne sono certo..."
Ho appena ascoltato la risposta di quest'uomo, così sicuro
di quel che dice, e di venti altri che mi confermano la stessa cosa, quando
vengo a sapere che il certificato di battesimo di Cristoforo, per ragioni
segrete e per un intrigo singolare, è stato antidatato. Quelli con cui
avevo parlato non ne sanno ancora niente; tuttavia han sempre la certezza di
ciò che non è.
Se voi aveste domandato al mondo intero, prima dei tempi di
Copernico: "Il sole s'è levato? è tramontato
quest'oggi?", tutti vi avrebbero risposto: "Ne abbiamo l'assoluta
certezza." Si sentivano certi, ed erano nell'errore.
I sortilegi, le divinazioni, le ossessioni diaboliche, sono stati
per secoli e per tutti i popoli la cosa più certa del mondo. Quali folle
innumerevoli videro tutte queste belle cose, e ne son state certe! Oggi questa
certezza s'è un po' smorzata.
Viene a trovarmi un giovanetto che comincia a studiare geometria;
è appena arrivato alla definizione dei triangoli. "Non sei
certo," gli dico, "che i tre angoli di un triangolo equivalgano a due
angoli retti?" Egli mi risponde che non solo non ne è certo, ma che
non ha neppure un'idea precisa di questa proposizione. Io gliela dimostro; ora
ne è certissimo, e lo resterà per tutta la vita.
Ecco una certezza ben differente dalle altre: quelle erano
semplici probabilità, e tali probabilità, esaminate a fondo, sono
diventate errori; ma la certezza matematica è immutabile ed eterna.
Io esisto, penso, sento dolore; tutto questo è altrettanto
certo quanto una verità geometrica? Sì. Perché? Perché queste
verità sono provate in virtù dello stesso principio che una cosa
non può essere e non essere nello stesso tempo. Io non posso nello
stesso tempo esistere e non esistere, sentire e non sentire. Un triangolo non
può avere a un tempo centottanta gradi, che sono la somma di due angoli
retti, e non averli.
La certezza fisica della mia esistenza, del mio sentire, e la
certezza matematica hanno dunque lo stesso valore, benché siano d'ordine
differente.
Lo stesso non può dirsi della certezza fondata sulle
apparenze o sulle relazioni unanimi degli uomini.
"Ma come," direte, "non siete certo che Pechino
esiste? Non avete in casa vostra stoffe di Pechino? Uomini di differenti paesi,
di differenti opinioni, che hanno scritto attaccandosi con violenza, e han
tutti infine predicato la verità a Pechino, non vi hanno assicurato
dell'esistenza di questa città?" Io rispondo che per me è
estremamente probabile che ci sia stata un tempo una città chiamata
Pechino, ma che non sarei affatto disposto a scommettere la testa sulla sua
esistenza; mentre scommetterò sempre la testa sul fatto che la somma
degli angoli di un triangolo è di due angoli retti.
Nel Dictonnaire Encyclopédique è stata stampata una
cosa assai curiosa: vi si sostiene che un uomo dovrebbe essere altrettanto
sicuro, altrettanto certo che il maresciallo di Sassonia è risuscitato,
se tutta Parigi glielo dicesse, quanto è certo che il maresciallo di
Sassonia vinse la battaglia di Fontenoy, poiché tutta Parigi glielo dice.
Vedete un po', vi prego, che ragionamento ammirevole: "Io credo a tutta
Parigi quando mi dice una cosa moralmente possibile; dunque, debbo credere a
tutta Parigi anche quando mi dice una cosa moralmente e fisicamente
impossibile."
Probabilmente l'autore di questo articolo voleva scherzare e
l'altro autore che alla fine dell'articolo si mostra estasiato e scrive contro
se medesimo, voleva scherzare anche lui.
Ci sono, tra noi, dei ciechi, dei guerci, degli strabici, dei
presbiti, dei miopi, uomini dalla vista acuta o confusa, o debole o
instancabile. Tutto questo è un'immagine abbastanza fedele del nostro
intelletto. Ma non ci sono occhi che vedono una cosa per un'altra: non
c'è quasi nessuno che scambi un gallo per un cavallo, o un vaso da notte
per una casa. Perché si incontrano così spesso cervelli, abbastanza
lucidi nel giudicare le piccole cose, ma assolutamente ottenebrati nei riguardi
di quelle importanti? Perché quello stesso siamese, che non si lascerà
mai ingannare quando si tratterà di contargli tre rupie, crede con tanta
sicurezza alle metamorfosi di Sammonocodom? Per quale strana bizzarria degli
uomini sensati somigliano a don Chisciotte, che credeva di vedere giganti dove
gli altri uomini non vedevano che mulini a vento? E don Chisciotte era molto
più scusabile del siamese il quale crede che Sammonocodom sia sceso
molte volte sulla terra, o del turco convinto che Maometto si sia infilato
metà della luna nella manica; perché don Chisciotte, ossessionato
dall'idea di dover combattere dei giganti può figurarsi uno di essi con
un corpo grosso quanto un mulino e le braccia lunghe quanto le pale del mulino;
ma da quale supposizione può partire un uomo sensato per persuadersi che
metà della luna è entrata in una manica, e che un Sammonocodom
è sceso dal cielo per venire a giocare con il cervo volante nel Siam,
abbattere una foresta e fare giochi di bussolotti?
Anche i più grandi geni possono ragionar storto su un
principio accolto senza debito esame. Newton ragionò malissimo quando
commentò l'Apocalisse.
Tutto ciò che certi tiranni delle anime desiderano è
che gli uomini che istruiscono abbiano il cervello storto. Un fachiro educa un
ragazzo che promette molto; egli impiega cinque o sei anni a ficcargli in testa
che il dio Fo apparve agli uomini in forma d'elefante bianco, e persuade il
ragazzo che sarà frustato, dopo morto, per cinquecentomila anni, se non
crede a tali metamorfosi. Poi aggiunge che alla fine del mondo il nemico del
dio Fo verrà a combattere contro questa divinità.
Il ragazzo studia e diventa un fenomeno; argomenta secondo le
lezioni del suo maestro e scopre che il dio Fo non poteva tramutarsi che in un
elefante bianco, perché questo è il più bello degli animali:
"I re del Siam e del Pegu," dice, "si son fatti la guerra per un
elefante bianco; certo, se Fo non fosse stato nascosto in tale elefante, quei
re non sarebbero stati tanto insensati da combattere per il possesso di un
semplice animale.
"Il nemico di Fo verrà a sfidarlo alla fine del mondo;
certamente questo nemico sarà un rinoceronte, perché il rinoceronte
combatte l'elefante." È così che ragiona, diventato adulto,
il dotto allievo del fachiro, e diventa uno dei luminari dell'India; più
ha il cervello sottile e più lo ha storto; e formerà a sua volta
cervelli storti.
Se si insegna a tutti questi energumeni un po' di geometria, la
imparano abbastanza facilmente. Ma, cosa strana, non per questo il loro
cervello si raddrizzerà; essi individuano le verità della
geometria, ma essa non insegna loro a pesare le probabilità; hanno ormai
preso la loro piega: ragioneranno storto tutta la vita, e me ne spiace per
loro.
Se un baco da seta desse il nome di "cielo" a quel poco
di lanugine che avvolge il suo bozzolo, ragionerebbe esattamente come tutti gli
antichi, che dettero il nome di "cielo" all'atmosfera, la quale
è, come dice benissimo il signor De Fontenelle nei suoi Mondes,
la lanugine del nostro guscio.
I vapori che salgono dai nostri mari e dalla nostra terra, e che
formano le nubi, le meteore e i tuoni, furono presi da principio per la dimora
degli dei. In Omero, gli dei discendono sempre entro nuvole d'oro; per questo i
pittori li dipingono ancora oggi seduti su una nube; ma, siccome era più
giusto che il signore degli dei stesse più a suo agio degli altri, per
portarlo, gli fu assegnata un'aquila, visto che l'aquila vola più in
alto degli altri uccelli.
Gli antichi greci, vedendo che i signori delle città
dimoravano in cittadelle, sulla cima di qualche monte, pensarono che anche gli
dei potessero avere una loro cittadella, e la situarono in Tessaglia, sul monte
Olimpo, la cui cima è qualche volta nascosta dalle nubi; di modo che il
loro palazzo era alla stessa altezza del loro cielo.
Le stelle e i pianeti, che sembrano attaccati alla volta azzurra
della nostra atmosfera, divennero, in seguito, la dimora degli dei: sette di loro
ebbero ciascuno il proprio pianeta, gli altri alloggiarono dove poterono. Il
concilio generale degli dei si teneva in una grande sala cui si arrivava per la
Via Lattea; poiché bisogna bene avessero una sala in cielo, dato che gli uomini
avevano i loro palazzi di città sulla terra.
Quando i Titani, specie di enormi animali tra gli dei e gli
uomini, dichiararono una guerra abbastanza giusta a quegli dei, reclamando una
loro eredità dal lato materno, dato che erano figli del cielo e della
terra, non seppero fare altro che mettere due o tre montagne l'una sull'altra,
contando che bastassero per impossessarsi del Cielo e del castello dell'Olimpo.
Neve foret terris securior
arduus aether,
Affectasse ferunt regnum coeleste gigantes,
Altaque congestos struxisse ad sidera montes.
Questa fisica per fanciulli e nonnette era straordinariamente
antica. Tuttavia, è certissimo che i caldei avevano idee altrettanto
giuste delle nostre su quello che si chiama "cielo": essi ponevano il
sole al centro del nostro mondo planetario, pressappoco alla stessa distanza
dal nostro globo così com'è calcolata da noi; e facevano girare
la terra e tutti i pianeti attorno a quell'astro. Così ci insegna
Aristarco di Samo; ed è il vero sistema astronomico, che poi Copernico
rinnoverà; ma i filosofi tenevano per sé il segreto, per essere
più rispettati dai re e dai popoli, o piuttosto per non essere
perseguitati.
Il linguaggio dell'errore è così familiare agli
uomini, che noi chiamiamo ancora i nostri vapori e lo spazio dalla terra alla
luna con il nome di "cielo"; continuiamo a dire "salire in
cielo", come diciamo che "il sole gira", pur sapendo bene che
non gira affatto; probabilmente, per gli abitanti della luna il cielo siamo noi,
e ogni pianeta situa il proprio cielo nel pianeta vicino.
Se si fosse domandato a Omero in quale cielo era andata l'anima di
Sarpedone o quella di Ercole, Omero sarebbe rimasto piuttosto imbarazzato;
avrebbe risposto con versi armoniosi.
Quale sicurezza si poteva avere che l'anima aerea di Ercole si
fosse trovata più a suo agio in Venere o in Saturno che nel nostro
pianeta? O che sarebbe andata nel sole? Difficile trovarsi a proprio agio in
quella fornace. Infine, cosa intendevano gli antichi per "cielo"?
Essi non ne sapevano niente: gridavano sempre "Il cielo e la terra",
che è come se dicessimo: "L'infinito e un atomo." Per dirla
chiara, il cielo non c'è: c'è una quantità prodigiosa di
astri che girano nello spazio vuoto, e il nostro globo gira come gli altri.
Gli antichi credevano che andare in cielo significasse salire; ma
non si sale da un globo a un altro; i globi celesti sono ora sotto, ora sopra
il nostro orizzonte. Così, supponiamo che Venere, dopo essere venuta a
Pafo, ritornasse nel suo pianeta dopo che esso era tramontato; la dea Venere,
per arrivarci, non doveva salire, rispetto al nostro orizzonte, ma scendere: si
sarebbe dunque dovuto dire che essa "discendeva al cielo". Ma gli
antichi non andavano tanto per il sottile: avevano nozioni vaghe, incerte,
contraddittorie su tutto ciò che riguardava la fisica. Si sono scritti
volumi su volumi per sapere che cosa pensassero su molte questioni del genere.
Bastano tre parole: essi non pensavano.
Bisogna sempre eccettuare un piccolo numero di saggi, che
però sono venuti tardi; pochi di loro hanno spiegato i propri pensieri
e, quando l'hanno fatto, i ciarlatani della terra li hanno spediti in cielo per
la via più breve.
Uno scrittore chiamato, credo, Pluche, ha preteso fare di
Mosè un grande fisico; prima di lui, un altro aveva conciliato
Mosè con Descartes e dato alle stampe un Cartesius mosaïzans;
secondo lui, Mosè aveva inventato per primo i vortici e la materia
sottile; ma è abbastanza noto che Dio, che fece di Mosè un grande
legislatore, un gran profeta, non volle affatto farne un professore di fisica;
egli istruì gli ebrei sui loro doveri, e non insegnò loro neanche
una parola di filosofia. Don Calmet, che ha molto compilato e non ha mai
ragionato, parla del sistema degli ebrei; ma quel popolo rozzo era ben lungi dal
possedere un sistema; non aveva nemmeno una scuola di geometria; non ne
conosceva neanche il nome; la sua sola scienza era il mestiere di sensale e
l'usura.
Nei suoi libri si trovano poche idee confuse, incoerenti, e in
tutto degne di un popolo barbaro, sulla struttura del cielo. Il loro primo
cielo era l'aria; il secondo, il firmamento, cui erano attaccate le stelle;
questo firmamento era solido e di ghiaccio e sosteneva le acque superiori, le
quali sfuggirono da questo serbatoio per mezzo di porte, chiuse e cateratte, ai
tempi del diluvio.
Al di sopra di questo firmamento, o di quelle acque superiori,
v'era il terzo cielo, o Empireo, dove fu rapito san Paolo. Il firmamento era
una specie di mezza volta che abbracciava la terra. Il sole non faceva il giro
di un globo, che essi non conoscevano: quando era giunto in Occidente, tornava
in Oriente per una via sconosciuta; e se non lo si vedeva, era - come dice il
barone de Foeneste - perché se ne tornava di notte.
Per giunta, gli ebrei avevano rubato queste fantasticherie ad
altri popoli. La maggior parte di questi, eccettuati i caldei, consideravano il
cielo come solido; la terra, fissa e immobile, era più lunga da oriente
a occidente, che non dal mezzogiorno al nord, di un buon terzo: di qui i
termini "longitudine" e "latitudine", che noi abbiamo
adottato. È evidente che, con tale opinione, era impossibile che ci
fossero antipodi. Così sant'Agostino tratta l'idea degli antipodi come
un'assurdità, e Lattanzio dice espressamente: "C'è dunque
gente così insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta
più in basso dei piedi?"
E san Crisostomo, nella sua quattordicesima omelia, esclama:
"Dove sono coloro che pretendono che i cieli siano mobili, e la loro forma
circolare?"
Lattanzio dice inoltre, nel terzo libro delle sue Istituzioni:
"Potrei provarvi con parecchi argomenti che è impossibile che il
cielo circondi la terra."
L'autore dello Spettacolo della natura potrà dire
finché vorrà al signor cavaliere che Lattanzio e san Crisostomo erano
dei grandi filosofi; gli risponderemo che erano dei gran santi, e che non
è affatto necessario, per esser santi, essere anche buoni astronomi.
Possiamo credere che siano in cielo, ma dovremo riconoscere che non sappiamo in
quale parte di esso si trovino precisamente.
Noi andiamo a cercare in Cina della terra, come se non ne
avessimo; delle stoffe, come se ne mancassimo; una piccola erba per fare un
infuso, come se nei nostri climi non avessimo dei semplici. E, in compenso,
vogliamo convertire i cinesi: zelo lodevolissimo, ma non bisogna contestare la
loro abilità e dire che sono degli idolatri. Sarebbe giusto se un
cappuccino, ben accolto in un castello dell'antica famiglia dei Montmorency,
volesse persuaderli che sono nobili di fresca data, come i segretari del re, e
li accusasse di idolatria perché ha trovato in quel castello due o tre statue
di connestabili per le quali quei nobili mostrano un profondo rispetto?
Il celebre Wolf, professore di matematiche all'università
di Halle, pronunziò un giorno un bellissimo discorso in lode della
filosofia cinese; elogiò questa antica specie di uomini, che differisce
da noi per la barba, gli occhi, il naso, le orecchie e per il modo di
ragionare; elogiò, dico, i cinesi, perché adorano un Dio supremo e amano
la virtù; rendeva tale giustizia agli imperatori della Cina, ai Kolao,
ai tribunali, ai letterati. La giustizia che si rende ai bonzi è di
specie diversa.
Bisogna sapere che questo Wolf attirava a Halle un migliaio di
studenti di tutte le nazioni. C'era, nella stessa università, un
professore di teologia, chiamato Lange, che non attirava nessuno; disperato a
forza di gelare dal freddo, solo, nella sua aula, volle, come di ragione,
screditare il professore di matematiche; e non mancò, secondo il costume
dei suoi simili, d'accusarlo di non credere in Dio.
Alcuni scrittori europei, che non erano mai stati in Cina, avevan
dichiarato che il governo di Pechino era ateo. Wolf aveva lodato i filosofi di
Pechino, e dunque Wolf era ateo; l'invidia e l'odio non hanno mai prodotto
migliori sillogismi. Questo argomento di Lange, sostenuto da una cabala e da un
protettore, fu giudicato convincente dal re del paese, che inviò al
matematico un dilemma in debita forma: o lasciare Halle entro ventiquattro ore
o venire impiccato. Wolf, assai sveglio di cervello, se ne partì subito;
la sua partenza costò al re la perdita di due o trecentomila scudi
l'anno, che questo filosofo faceva entrare nel regno grazie all'affluenza dei
suoi discepoli.
Questo esempio deve fare intendere ai sovrani che non sempre
bisogna dar retta alle calunnie e sacrificare un grand'uomo al furore di uno
stolto. Ma torniamo alla Cina.
Perché mai ci azzardiamo, noi, nell'estremo occidente, a disputare
con accanimento e torrenti di ingiurie per sapere se ci sono stati quattordici
principi, o no, prima di Fo-hi, imperatore della Cina, e se questo Fo-hi viveva
tremila o duemilanovecento anni prima della nostra era volgare? Se due
irlandesi si mettessero a disputare a Dublino per sapere chi fu, nel XII
secolo, il proprietario delle terre che io occupo oggi, non è evidente
che dovrebbero rivolgersi a me, che ho in mano gli archivi? La stessa cosa si
deve fare, a mio giudizio, nei riguardi dei primi imperatori della Cina:
bisogna rimettersi al giudizio dei tribunali di quel paese.
Disputate finché volete sui quattordici principi che regnarono
prima di Fo-hi; la vostra bella disputa arriverà solo a provare che la
Cina era allora molto popolata e che vi regnavano le leggi. Ora vi domando se
una nazione riunita, che ha leggi e principi, non presupponga una straordinaria
antichità. Pensate quanto tempo occorre perché un singolare concorso di
circostanze faccia trovare il ferro nelle miniere, perché venga impiegato
nell'agricoltura, perché si inventi la spola e tutte le altre arti.
Chi si diverte a scrivere puerilità ha immaginato un
calcolo molto divertente. Il gesuita Petau, con un bellissimo computo,
attribuisce alla terra, duecentottantacinque anni dopo il diluvio, cento volte
più abitanti di quanti si osi supporre per il presente. I Cumberland e i
Whiston hanno fatto calcoli non meno comici: questa brava gente, se avesse
consultato i registri delle nostre colonie, sarebbe rimasta sbalordita: avrebbe
appreso quanto poco il genere umano si moltiplica, e che spesso diminuisce, anziché
aumentare.
Lasciamo dunque, noi che siamo di ieri, noi discendenti dei celti,
che abbiamo solo da poco dissodato le foreste delle nostre contrade selvagge,
lasciamo che i cinesi e gli indiani si godano in pace il loro buon clima e la
loro antichità. Cessiamo, soprattutto, di chiamare idolatri l'imperatore
della Cina e il subab del Dekkan! Non bisogna essere fanatici dei meriti
dei cinesi: la costituzione del loro impero è la migliore del mondo, la
sola che sia tutta fondata sull'autorità paterna (il che non impedisce
che i mandarini non bastonino di santa ragione i loro figli); la sola in cui un
governatore venga punito quando, lasciando la sua carica, non riceva le
acclamazioni del popolo; la sola che abbia istituito dei premi per la
virtù, mentre, nel resto del mondo, le leggi si limitano a punire il
crimine; la sola che abbia fatto adottare le proprie leggi ai suoi vincitori,
mentre noi siamo ancora soggetti alle consuetudini dei burgundi, dei franchi e
dei goti, che in altri tempi ci dominarono. Ma bisogna confessare che il
popolino, governato dai bonzi, non è meno furfante del nostro; che agli
stranieri tutto viene venduto a carissimo prezzo, come da noi; che nelle
scienze i cinesi sono ancora al punto in cui noi eravamo duecento anni fa; che essi
hanno, come noi, mille pregiudizi ridicoli; che credono ai talismani a
all'astrologia giudiziaria, come ci abbiam creduto noi per tanto tempo.
Riconosciamo inoltre che essi sono rimasti meravigliati dal nostro
termometro, dal nostro modo di ghiacciare i liquidi col salnitro, e di tutti
gli esperimenti di Torricelli e di Otto von Guericke, proprio come lo fummo noi
la prima volta che vedemmo questi "giochi" di fisica; aggiungiamo che
i medici cinesi, come i nostri, non guariscono le malattie mortali; e che
là, come da noi, solo la natura guarisce le malattie leggere; ma tutto
ciò non impedisce che i cinesi, quattromila anni or sono, quando noi non
sapevamo nemmeno leggere, conoscessero già tutte le cose utili di cui
noi oggi ci vantiamo.
La religione dei letterati, ripetiamo, è ammirevole.
Nessuna superstizione, nessuna leggenda assurda, nessuno di quei dogmi che
insultano la ragione e la natura, e ai quali i bonzi attribuiscono mille
significati diversi, perché non ne hanno alcuno. Da più di quaranta
secoli, il culto più semplice è sembrato loro il migliore. I
cinesi sono come noi pensiamo che fossero Seth, Enoch e Noè;
s'accontentano d'adorare un Dio come tutti i saggi della terra, mentre noi, in
Europa, ci dividiamo tra Tommaso e Bonaventura, fra Calvino e Lutero, fra
Giansenio e Molina.
Quando Erodoto riferisce quel che gli dissero i barbari presso i
quali viaggiò, racconta delle sciocchezze: come fa la maggior parte dei
nostri viaggiatori; così non pretende di essere creduto quando parla
dell'avventura di Gige o del re Candaule, o di Arione, portato in groppa da un
delfino; o dell'oracolo consultato per sapere che cosa faceva Creso, il quale
rispose che in quel momento faceva cuocere una tartaruga in una pentola chiusa;
o del cavallo di Dario, che, per aver nitrito prima degli altri,
proclamò re il suo padrone; e di cento altre favole buone per divertire
i bambini e per essere raccolte dai retori; ma quando parla di quel che ha
veduto, dei costumi dei popoli che ha esaminato, delle loro antichità che
ha consultato, allora parla per gli uomini.
"Sembra," dice nel libro Euterpe, "che gli
abitanti della Colchide siano originari dell'Egitto; lo giudico da me,
piuttosto che per sentito dire, perché ho trovato che nella Colchide ci si
ricorda degli antichi egiziani molto più che, in Egitto, non ci si
ricordi degli antichi costumi di Colco.
"Questi abitanti delle rive del Ponto Eusino pretendevano di
essere una colonia fondata da Sesostri; e io stesso lo congetturai, non solo
perché essi sono di pelle scura e hanno i capelli crespi, ma dal fatto che i
popoli della Colchide, dell'Egitto e dell'Etiopia sono i soli che da sempre si
son fatti circoncidere; poiché i fenici, e quelli della Palestina, ammettono di
aver preso la circoncisione dagli egiziani. I siriani, che abitano oggi sulle
rive del Termodonte e del Partenio, e i macroni, loro vicini, confessano che
solo da poco tempo si sono conformati a questa usanza dell'Egitto; è per
questo, soprattutto, che sono riconosciuti egiziani d'origine.
"Quanto all'Etiopia e all'Egitto, dato che questa cerimonia
è molto antica presso queste due nazioni, non saprei dire quale delle
due l'abbia appresa dall'altra. Tuttavia, è verosimile che gli etiopi
l'abbiano appresa dagli egiziani; come, per contro, i fenici hanno abolito
l'uso di circoncidere i neonati, da quando hanno avuto maggior commercio con i
greci."
È evidente, da questo passo di Erodoto, che parecchi popoli
avevano appreso la circoncisione dall'Egitto; ma nessuna nazione ha mai preteso
di aver ricevuto la circoncisione dagli ebrei. A chi si può dunque
attribuire l'origine di tale usanza? Alla nazione da cui cinque o sei altre
confessano di averla appresa, o a un'altra nazione molto meno potente, meno
dedita ai commerci, meno guerriera, nascosta in un angolo dell'Arabia Petrea, e
che non comunicò mai la minima sua usanza a nessun popolo?
Gli ebrei dicono che un tempo, per carità, furono accolti
in Egitto; non è verosimile che il popolo più piccolo abbia
imitato un'usanza del popolo più grande, e che gli ebrei abbiano accolto
qualche costumanza dei loro padroni?
Clemente d'Alessandria riferisce che Pitagora, viaggiando fra gli
egiziani, fu obbligato a farsi circoncidere per essere ammesso ai loro misteri;
era, dunque, assolutamente necessario essere circoncisi per venire ammessi tra
i sacerdoti d'Egitto. Questi sacerdoti esistevano già, quando Giuseppe
giunse in Egitto: il governo di quel paese era antichissimo, e le antiche
cerimonie venivano osservate con la più scrupolosa esattezza.
Gli ebrei ammettono di aver dimorato per duecentocinque anni in
Egitto; dicono che non si fecero circoncidere durante tutto quel tempo;
è dunque chiaro che, durante quei duecentocinque anni, gli egiziani non
appresero la circoncisione dagli ebrei. L'avrebbero forse appresa più
tardi, dopo che gli ebrei ebbero rubato tutti i vasi che avevano ricevuto in
prestito ed erano fuggiti nel deserto con le loro prede, secondo la loro stessa
testimonianza? Un padrone adotterà il segno principale della religione
di un suo schiavo ladro e fuggiasco? Questo non è conforme alla natura
umana.
Nel libro di Giosuè è detto che gli ebrei furono
circoncisi nel deserto: "Io vi ho liberati da quello che faceva il vostro
obbrobrio fra gli egiziani." Ora, quale poteva essere quest'obbrobrio per
gente che si trovava tra i popoli della Fenicia, gli arabi e gli egiziani, se
non qualcosa che li rendeva degni di disprezzo a queste tre nazioni? Come si
poteva toglier loro questo obbrobrio? Togliendo loro un po' di prepuzio. Non
è questo il senso naturale del passo in questione?
Il Genesi dice che Abramo era stato circonciso già
prima; ma Abramo viaggiò per l'Egitto che era da tanto tempo un florido
regno, governato da un potente re. Nulla impedisce che in quel regno
così antico la circoncisione fosse da lungo tempo in uso, prima ancora
che la nazione ebraica si fosse formata. Inoltre, la circoncisione di Abramo
non ebbe seguito: i suoi posteri vennero circoncisi solo dal tempo di
Giosuè in poi.
Ora, prima di Giosuè, gli israeliti, per loro stessa
confessione, presero molte costumanze dagli egiziani: li imitarono in parecchi
sacrifici, in molte cerimonie, come nei digiuni che si osservavano alla vigilia
delle feste di Iside, nelle abluzioni, nell'abitudine di rasare il capo ai
preti; l'incenso, il candelabro, il sacrificio della vacca rossa, la
purificazione con l'issopo, l'astinenza dalla carne di maiale, l'orrore per gli
utensili da cucina degli stranieri, tutto attesta che il piccolo popolo ebreo,
malgrado la sua avversione per la grande nazione egiziana, aveva conservato
un'infinità di usanze dei suoi antichi padroni. Quel capro Azazel che
veniva inviato nel deserto, carico dei peccati del popolo, era una manifesta
imitazione di una pratica egiziana; anzi, i rabbini stessi convengono che la
parola Azazel non è ebraica. Niente impedisce, dunque, che, per
quanto riguarda la circoncisione, gli ebrei abbiano imitato gli egiziani, come
facevano gli arabi, loro vicini.
Non c'è niente di straordinario nel fatto che Dio, il quale
santificò il battesimo, così antico presso gli asiatici, abbia
santificato anche la circoncisione, altrettanto antica fra gli africani.
Abbiamo già detto che Egli è padrone di conferire la sua grazia
ai segni che si degna di scegliere.
Del resto, dopo che, sotto Giosuè, il popolo ebreo fu
circonciso, esso ha conservato questa usanza fino ai giorni nostri; anche gli
arabi vi sono sempre stati fedeli. Al contrario, gli egiziani, che nei primi
tempi circoncidevano i bambini e le bambine, cessarono col tempo di fare
quest'operazione alle bambine, e infine la limitarono ai sacerdoti, agli
astrologi e ai profeti. È quanto apprendiamo da Clemente d'Alessandria e
da Origene. Infatti, non risulta che i Tolomei siano mai stati circoncisi.
Gli autori latini, che trattavano gli ebrei con un disprezzo
così profondo da chiamarli curtus Apella per derisione
("credat Judaeus Apella, curti Judaei"), non danno mai questi epiteti
agli egiziani. Tutto il popolo d'Egitto è oggi circonciso, ma per
un'altra ragione: perché l'islamismo adottò l'antica pratica araba della
circoncisione, pratica che passò presso gli etiopi dove si circoncidono
ancora bambini e bambine. Bisogna ammettere che questa cerimonia della
circoncisione pare sulle prime ben strana; ma va rilevato che, in ogni tempo, i
sacerdoti dell'oriente si consacravano alle loro divinità con segni
particolari: i sacerdoti di Bacco si incidevano con un punteruolo una foglia
d'edera sulla pelle; Luciano ci dice che i seguaci della dea Iside
s'imprimevano dei caratteri sul polso e sul collo. I sacerdoti di Cibele si rendevano
eunuchi.
È molto probabile che gli egiziani, i quali veneravano lo
strumento della generazione, e ne portavano l'immagine con gran pompa nelle
loro processioni, immaginassero di offrire a Iside e a Osiride, per opera dei
quali tutto si generava sulla terra, una piccola parte del membro per mezzo del
quale quelle divinità avevano voluto che il genere umano si perpetuasse.
Gli antichi costumi orientali sono così prodigiosamente differenti dai
nostri, che nulla deve sembrare straordinario a chiunque abbia un po' di
cultura. Un parigino resta sbalordito quando gli si dice che gli ottentotti
fanno tagliare ai loro figli un testicolo. Può darsi che gli ottentotti
restino anch'essi sbalorditi nell'apprendere che i parigini li conservano tutti
e due.
Tutti i concili sono infallibili, non c'è dubbio, dato che
sono composti di uomini. È impossibile che le passioni, gli intrighi, lo
spirito di controversia, l'odio, la gelosia, il pregiudizio, l'ignoranza
regnino mai in queste assemblee.
Ma perché, si dirà, tanti concili si sono opposti gli uni
agli altri? Per mettere alla prova la nostra fede. Tutti hanno avuto ragione,
ciascuno a suo tempo.
Oggi, i cattolici romani non credono che ai concili approvati dal
Vaticano; e i cattolici greci non credono che a quelli approvati a
Costantinopoli. I protestanti si fanno beffe degli uni e degli altri. Cosi
tutti sono contenti.
Parleremo qui solo dei grandi concili: dei piccoli, non ne vale la
pena.
Il primo è quello di Nicea. Esso si riunì nel 325
dell'era volgare, dopo che Costantino ebbe scritto e inviato per mezzo di Osio
quella bella lettera al clero un po' turbolento di Alessandria: "Voi state
a litigare per una questione di così poco conto. Queste vostre
sottigliezze sono indegne di gente ragionevole". Si trattava di sapere se
Gesù era creato o increato. Questo non riguardava affatto la morale, che
è la sola cosa essenziale: che Gesù sia stato nel tempo o prima
del tempo, l'importante è che noi si sia uomini onesti. Dopo parecchi
alterchi, fu alla fine deciso che il Figlio era antico quanto il Padre e consustanziale
al Padre. Questa decisione è ben difficile a intendersi, ma appunto
per questo è tanto più sublime. Diciassette vescovi protestarono
contro la sentenza, e un'antica cronaca d'Alessandria, conservata a Oxford, dice
che protestarono anche duemila preti; ma i prelati non fanno gran caso ai
semplici preti, che di solito sono poveri. Comunque sia, in questo primo
concilio non si discusse affatto della Trinità. La formula dice:
"Noi crediamo in Gesù Cristo consustanziale al Padre, Dio da Dio,
luce da luce, generato e non fatto; noi crediamo anche nello Spirito
Santo." Con lo Spirito Santo, bisogna riconoscerlo, se la sbrigarono con
molta disinvoltura.
Nel supplemento del concilio di Nicea viene riferito che i Padri,
essendo in grande imbarazzo nel tentar di distinguere i libri "crifi"
o apocrifi dell'Antico e del Nuovo Testamento, li buttarono tutti alla
rinfusa su un altare: e quelli da scartare caddero in terra. È proprio
un peccato che al giorno d'oggi questa bella ricetta non si usi più.
Dopo il primo concilio di Nicea, composto di trecentodiciassette
vescovi infallibili, se ne tenne un altro a Rimini; e il numero degli
infallibili fu questa volta di quattrocento, senza contare un grosso distaccamento
a Seleucia di circa duecento. Questi seicento vescovi, dopo quattro mesi di
disputa, tolsero unanimi a Gesù la sua consustanzialità. Essa gli
fu restituita in seguito, fuorché dai sociniani; così tutto è a
posto.
Uno dei grandi concili è quello di Efeso, del 431. Il
vescovo di Costantinopoli, Nestorio, gran persecutore d'eretici, fu condannato
a sua volta come eretico per avere sostenuto che, in verità, Gesù
era sì Dio, ma sua madre non era assolutamente madre di Dio, bensì
madre di Gesù. Fu san Cirillo che fece condannare Nestorio; ma anche i
partigiani di Nestorio fecero deporre san Cirillo nello stesso concilio:
questo, certo, mise in un grosso imbarazzo lo Spirito Santo.
Prendi nota, lettore, che il Vangelo non ha mai detto una
parola né della consustanzialità del Verbo, né dell'onore toccato a
Maria d'esser madre di Dio, né di tutte le altre questioni che hanno fatto
riunire tanti concili infallibili.
Eutiche era un monaco che aveva tuonato contro Nestorio, la cui
eresia arrivava addirittura a supporre in Gesù due persone: cosa
spaventosa, certo. Questo monaco, per meglio contraddire il suo avversario,
assicura che Gesù non aveva che una sola natura. Al contrario, un tal
Flaviano, vescovo di Costantinopoli, sostenne che era assolutamente necessario
che in Gesù ci fossero due nature. Si riunì allora un numeroso
concilio a Efeso, nel 449: e qui si discusse a suon di bastonate, come
già al piccolo concilio di Cirta, nel 355, e in un'altra assemblea a
Cartagine. Furono dunque assegnate all'unica natura di Flaviano un sacco di
bastonate, e a Gesù due nature: fino al concilio di Calcedonia, nel 451,
in cui Gesù fu ridotto ad averne una sola.
Sorvolo su altri concili tenutisi per minuzie e vengo al sesto
concilio ecumenico di Costantinopoli, riunito per sapere con precisione se
Gesù, avendo una sola natura, non avesse tuttavia due volontà.
Chi non sente quanto ciò sia importante per piacere a Dio?
Questo concilio fu convocato da Costantino il Barbuto, come tutti
gli altri erano stati convocati dagli imperatori precedenti: i legati del
vescovo di Roma furono messi a sinistra, i patriarchi di Costantinopoli e di
Antiochia a destra. Non so se i caudatari a Roma pretendevano che la sinistra
fosse il posto d'onore. Sia come sia, Gesù, in quest'occasione, ottenne
due volontà.
La legge mosaica aveva vietato le immagini. I pittori e gli
scultori non avevano mai fatto fortuna presso gli ebrei. Non risulta che
Gesù abbia mai avuto quadri, tranne forse il ritratto di Maria, dipinto
da Luca. In ogni caso, Gesù Cristo non raccomanda mai d'adorare le
immagini. I cristiani, tuttavia, cominciarono ad adorarle, verso la fine del IV
secolo, non appena si furono familiarizzati con le belle arti. L'abuso giunse a
tal punto, nell'VIII secolo, che Costantino Copronimo riunì a
Costantinopoli un concilio di trecentoventi vescovi, il quale anatemizzò
il culto delle immagini, chiamandolo idolatria.
L'imperatrice Irene, la stessa che più tardi fece cavare
gli occhi a suo figlio, convocò nel 787 il secondo concilio di Nicea: in
esso l'adorazione delle immagini fu ristabilita. Oggi si vuole giustificare
questo concilio dicendo che quell'adorazione era un culto di
"dulìa" e non di "latria".
Ma fosse "dulìa" fosse "latria",
Carlomagno nel 794 fece tenere a Francoforte un altro concilio, il quale
accusò il secondo concilio di Nicea di idolatria. Il papa Adriano I vi
inviò due legati, ma non fu lui a convocarlo.
Il primo grande concilio convocato da un papa fu il primo concilio
Laterano, nel 1139; vi parteciparono circa mille vescovi. Ma non vi si concluse
quasi nulla: ci si limitò a scagliare anatemi contro coloro che
sostenevano che la Chiesa era troppo ricca.
Un altro concilio lateranense, nel 1179, fu tenuto da papa
Alessandro III: in quest'occasione i cardinali presero, per la prima volta il
sopravvento sui vescovi. Furono trattate solo questioni disciplinari.
In un altro grande concilio lateranense, nel 1215, papa Innocenzo
III scomunicò il conte di Tolosa, spogliandolo di tutti i suoi beni.
È questo il primo concilio in cui si sia parlato di transustanziazione.
Nel 1245, concilio generale di Lione, allora città
imperiale, nel quale il papa Innocenzo IV scomunicò l'imperatore
Federico II e, di conseguenza, lo depose, interdicendogli l'acqua e il fuoco:
fu in questo concilio che venne dato ai cardinali il cappello rosso, per far
loro ricordare che bisogna bagnarsi nel sangue dei partigiani dell'imperatore.
Questo concilio fu causa della distruzione della casa di Svevia, e di
trent'anni d'anarchia in Italia e in Germania.
Concilio universale a Vienne, nel Delfinato, nel 1311, dove si
abolì l'ordine dei templari, i cui principali membri erano stati
condannati ai più orribili supplizi, su accuse per nulla provate.
Nel 1414, il grande concilio di Costanza, dove ci si
accontentò di deporre papa Giovanni XXIII, colpevole di mille delitti, e
dove vennero bruciati Giovanni Huss e Gerolamo da Praga, per essere stati
ostinati: l'ostinazione è infatti un crimine ben più pesante
dell'assassinio, del ratto, della simonia e della sodomia.
Nel 1431, il grande concilio di Basilea, non riconosciuto a Roma,
perché vi si depose papa Eugenio IV, il quale non si lasciò affatto
deporre.
I romani contano come concilio universale anche il quinto concilio
lateranense del 1512, convocato contro Luigi XII, re di Francia, da papa Giulio
II. Ma, dopo la morte di quel papa bellicoso, il concilio se ne andò in
fumo.
Infine abbiamo il grande concilio di Trento, il quale non fu
accettato in Francia in materia di disciplina; il suo dogma è tuttavia
incontestabile, poiché lo Spirito Santo, come disse fra Paolo Sarpi, arrivava
tutte le settimane da Roma a Trento per valigia diplomatica. Ma fra Paolo Sarpi
puzzava un po' d'eresia.
(Del signor Abausit, cadetto)
È ancora un problema da risolvere, se la confessione, considerata
sotto l'aspetto politico, abbia fatto più bene che male.
Ci si confessava nei misteri d'Iside, di Orfeo e di Cerere,
davanti allo ierofante e agli iniziati; perché, essendo quei misteri delle
espiazioni, bisognava pur confessare che si avevano crimini da espiare.
I cristiani adottarono la confessione nei primi secoli della
Chiesa, così come fecero propri quasi tutti i riti
dell'antichità, come i templi, gli altari, l'incenso, i ceri, le
processioni, l'acqua lustrale, gli abiti sacerdotali e parecchie formule dei
misteri: il sursum corda, l'ite missa est, e tante altre. Lo
scandalo della confessione pubblica di una donna, avvenuto nel IV secolo a
Costantinopoli, fece abolire la confessione.
La confessione segreta che un uomo fa ad un altro uomo non fu
ammessa, nel nostro occidente, che verso il VII secolo. Gli abati cominciarono
a esigere che i loro monaci andassero due volte l'anno a confessare loro tutte
le loro colpe. Furono questi abati a inventare la formula: "Io ti assolvo
quanto lo posso e quanto ne hai bisogno." Mi sembra che sarebbe stato
più rispettoso verso l'Essere supremo, e più giusto, dire:
"Possa Egli perdonare le tue colpe e le mie!"
Il bene che la confessione ha fatto è di avere talvolta
ottenuto la restituzione di piccoli furti. Il male, è di avere costretto
talvolta i penitenti, nei disordini degli stati, a essere ribelli e sanguinari
per dovere di coscienza. I preti guelfi rifiutavano l'assoluzione ai
ghibellini, e i preti ghibellini si guardavano bene dall'assolvere i guelfi.
Gli assassini degli Sforza, dei Medici, dei principi d'Orange, dei re di
Francia, si preparavano ai loro parricidi col sacramento della confessione.
Luigi XI e la Brinvilliers si confessavano non appena avevano
commesso un delitto, e si confessavano spesso, come i ghiottoni si purgano per
aver più appetito.
Se ci si potesse stupire di qualcosa, ci si stupirebbe per prima
cosa della bolla di papa Gregorio XV, emanata da Sua Santità il 30
agosto 1622, con la quale ordinava di rivelare in certi casi le confessioni.
La risposta del gesuita Coton a Enrico IV durerà più
dell'ordine dei gesuiti: "Rivelereste la confessione di un uomo risoluto
ad assassinarmi?" "No, ma mi metterei tra voi e lui."
Si danzò, intorno al 1724, nel cimitero di Saint-Médard. Vi
si fecero molti miracoli; eccone uno, riferito in una canzone della duchessa
del Maine:
Un décrotteur à la royale,
Du talon gauche estropié,
Obtint pour grâce spéciale
D'être boiteux de l'autre pied.
Le convulsioni miracolose, come san tutti, continuarono finché non
venne messa una guardia al cimitero.
De par le roi, défense à Dieu
De plus fréquenter en ce lieu.
I gesuiti (anche questo lo san tutti), non potendo più fare
simili miracoli, da quando il loro Saverio aveva esaurito tutte le grazie di
cui disponeva la Compagnia, risuscitando ben nove morti, pensarono, per
bilanciare il credito nei confronti dei giansenisti, di far incidere una stampa
di Gesù Cristo, vestito da gesuita. Un bello spirito del partito
giansenista (san tutti anche questo) scrisse sotto l'immagine:
Admirez l'artifice extrême
De ces moines ingénieux:
Ils vous ont habillé comme
eux,
Mon Dieu, de peur qu'on ne vous aime.
I giansenisti, per meglio provare che mai Gesù Cristo
avrebbe potuto prendere l'abito di gesuita, riempirono Parigi di convulsioni, e
attirarono la gente nei loro chiostri. Il consigliere al parlamento Carré de
Montgeron andò a presentare al re una raccolta in quarto di tutti quei
miracoli, attestati da mille testimoni. Egli fu rinchiuso, come di ragione, in un
castello, dove si cercò di raddrizzargli il cervello con un regime
adatto; ma la verità trionfa sempre sulle persecuzioni: i miracoli
durarono ancora trent'anni, senza interruzione. Si faceva venire a casa propria
suora Rosa, suora Illuminata, suora Promessa, suora Confessa; esse si
lasciavano frustare senza che l'indomani apparisse un segno sul loro corpo; si
davan loro bastonate sullo stomaco ben corazzato e imbottito, senza far loro
alcun male: le si faceva sdraiare davanti a un gran fuoco, il volto strofinato
di pomata, senza che si scottassero; e infine, poiché tutte le arti si
perfezionano, si arrivò a piantar loro delle spade nelle carni e a
crocifiggerle. Anche un famoso teologo ebbe l'onore di venire crocifisso; tutto
questo per convincere la gente che una certa bolla papale era ridicola, cosa
che si sarebbe potuta dimostrare senza bisogno di tanti miracoli. Tuttavia, sia
i gesuiti, sia i giansenisti, si allearono poi tutti contro l'Esprit des
lois e contro... e contro... e contro... e contro...
Il colmo è che noi osiamo ridere dei lapponi, dei samoiedi
e dei negri!
Come non sappiamo che cos'è uno spirito, così
ignoriamo che cos'è un corpo: noi ne vediamo alcune proprietà; ma
qual è il soggetto nel quale risiedono? Esistono solo dei corpi,
dicevano Democrito ed Epicuro; non esistono corpi, dicevano i discepoli di
Zenone di Elea.
Il vescovo di Cloyne, Berkeley, fu l'ultimo che pretese di
provare, con cento sofismi capziosi che i corpi non esistono. Essi non hanno -
dice - né colori, né odori, né calore; queste modalità sono nelle vostre
sensazioni, e non negli oggetti. Poteva risparmiarsi la pena di provare questa
verità: essa era abbastanza nota. Ma da qui egli passa all'estensione,
alla solidità, che sono realtà essenziali dei corpi, e crede di
poter provare che non v'è estensione in una pezza di panno verde, perché
quel panno non è realmente verde: questa sensazione di verde non
è che in noi: dunque anche la sensazione di estensione non è che
in noi. E, dopo aver così distrutto l'estensione, conclude che anche la
solidità, che ad essa è collegata, cade da sé, e che così
non c'è niente al mondo, salvo le nostre idee, di modo che, secondo quel
dottore, diecimila uomini massacrati da diecimila colpi di cannone non sono, in
definitiva, che diecimila apprensioni della nostra anima.
Dipendeva solo dal signor vescovo di Cloyne di non cadere in tanto
ridicolo eccesso. Egli crede di dimostrare che l'estensione non esiste perché,
con una lente, un corpo gli è apparso quattro volte più grosso
che non ad occhio nudo, e, visto con un'altra lente, quattro volte più
piccolo. Da ciò conclude che poiché un corpo non può avere ad un
tempo un'estensione di quattro piedi, di sedici piedi e di un solo piede,
l'estensione non esiste. Bastava che prendesse una misura, e dicesse: "Di
qualunque estensione mi sembri un corpo, esso è esteso quanto queste
misure."
Gli era pur facile vedere che l'estensione e la solidità
sono altra cosa dai suoni, dai colori, dai sapori, dagli odori ecc. È
chiaro che queste sono sensazioni suscitate in noi dalla configurazione delle
parti; ma l'estensione non è una sensazione. Se quel pezzo di legno
acceso si spegne, io non ho più caldo; se quest'aria non è
più mossa, io non odo più; se questa rosa appassisce, non ne
sento più l'odore. Ma il pezzo di legno, l'aria, la rosa sono estesi
indipendentemente da me. Il paradosso di Berkeley non vale la pena d'essere
confutato.
Val la pena di sapere che cosa lo abbia spinto a sostenerlo. Molti
anni fa, ebbi alcune conversazioni con lui: egli mi disse che l'origine della
sua tesi veniva dal fatto che non è possibile concepire cosa sia il
soggetto che riceve l'estensione. E infatti egli trionfa nel suo libro, quando
domanda a Hylas che cosa è mai questo soggetto, questo substratum,
questa sostanza: "È il corpo esteso," risponde Hylas. Allora
il vescovo, sotto il nome di Philonous, lo prende in giro; e il povero Hylas,
accorgendosi di aver detto che l'estensione è il soggetto
dell'estensione, cioè una cosa insensata, resta tutto confuso, e
confessa che non ci capisce nulla, che i corpi non esistono, che il mondo
materiale non esiste, e che c'è soltanto un mondo spirituale.
Hylas doveva solo dire a Philonous: "Noi non sappiamo nulla
della natura di questo soggetto, di questa sostanza estesa, solida, divisibile,
mobile, figurata ecc.; io non la conosco come non conosco il soggetto pensante,
senziente e volente; nondimeno questo soggetto esiste, perché possiede
proprietà essenziali di cui non può essere privato."
Noi siamo tutti come la maggior parte delle dame di Parigi, che
mangiano di gusto senza sapere minimamente di che sian fatti i ragù;
così noi godiamo dei corpi senza sapere ciò che li compone. Di
che cosa è fatto un corpo? Di parti, e queste parti si risolvono in
altre parti. E cosa sono queste ultime parti? Sempre dei corpi. Continuate a
dividere, e non farete un passo nel cercar di capire.
Infine, un sottile filosofo, osservando che un quadro è
fatto d'ingredienti, nessuno dei quali è un quadro, e una casa di
materiali, nessuno dei quali è una casa, immaginò (in maniera un
po' diversa) che i corpi siano composti di un'infinità di piccoli esseri
che in sé non sono corpi: le cosiddette monadi. Tale sistema ha del
buono; e, se fosse rivelato, lo crederei possibilissimo. Tutti questi piccoli
esseri sarebbero dei punti matematici, delle specie di anime, in attesa solo di
un abito per infilarcisi dentro; sarebbe una metempsicosi continua: una monade
andrebbe ora in una balena, ora in una pianta, ora in un giocatore di
bussolotti. Sistema che vale quanto qualsiasi altro sistema; e a me piace
quanto la declinazione degli atomi, le forme sostanziali, la grazia versatile e
i vampiri di don Calmet.
Io recito il mio Pater e il mio Credo tutte le
mattine; non somiglio affatto a Broussin, di cui Reminiac diceva:
Broussin, dès l'âge
le plus tendre,
Posséda la sauce-Robert,
Sans que son précepteur lui pût jamais
apprendre
Ni son Credo ni son Pater.
Il "simbolo", o collatio, viene dal greco
$óýìâïëïí$, e la Chiesa latina, che ha preso tutto da quella
greca, ha adottato questa parola. I teologi, quelli che hanno un minimo
d'istruzione, sanno che questo simbolo, detto "degli apostoli", non
è affatto degli apostoli.
I greci chiamavano "simbolo" le parole, i segni con cui
si riconoscono fra loro gli iniziati ai misteri di Cerere, di Cibele, di Mitra;
anche i cristiani, col tempo ebbero il loro simbolo. Se fosse esistito al tempo
degli apostoli, c'è da credere che san Luca ne avrebbe fatto cenno.
Si attribuisce a sant'Agostino una storia del simbolo nel suo
sermone CXV: gli si fa dire, in questo sermone, che Pietro aveva cominciato il
simbolo dicendo: "Io credo in Dio Padre onnipotente", al che Giovanni
aggiunse: "creatore del cielo e della terra", e Giacomo: "E io
credo in Gesù Cristo, suo unico figlio, nostro Signore", e
così via. Nell'ultima edizione di Agostino questa favola è stata
soppressa. Io mi rivolgo ai reverendi padri benedettini per sapere se bisognava
o no sopprimere questo brano così singolare.
La verità è che nessuno sentì parlare di
questo Credo per più di quattrocento anni. Il popolo dice che
Parigi non è stata fatta in un giorno, e il popolo, nei suoi proverbi,
ha spesso ragione. Gli apostoli ebbero il nostro simbolo nel cuore, ma non lo
misero per iscritto. Se ne formulò uno al tempo di sant'Ireneo, che non
somiglia affatto a quello che recitiamo. Il nostro simbolo, qual è oggi,
risale certamente al V secolo: è posteriore a quello di Nicea.
L'articolo che dice che Gesù discese all'inferno, quello che parla della
comunione dei santi, non si trovano in nessuno dei simboli che precedettero il
nostro. E, infatti, ne i Vangeli né gli Atti degli Apostoli
dicono che Gesù, discese all'inferno. Ma già nel III secolo era
opinione radicata che Gesù fosse disceso nell'Ade, nel Tartaro, parole
che noi traduciamo con quella di Inferno. L'inferno, in questo senso, non
è la parola ebraica sheol, che vuol dire sotterraneo, fossa. Ecco
perché sant'Atanasio ci insegnò poi come il nostro Salvatore discese
all'inferno: "La sua umanità non fu né tutta intera nel sepolcro,
né tutt'intera nell'inferno: essa fu nel sepolcro secondo la carne,
nell'inferno secondo l'anima."
San Tommaso assicura che i santi risuscitati alla morte di
Gesù Cristo morirono poi di nuovo per risuscitare ancora con lui;
è l'opinione più seguita. Ma tutte queste opinioni sono
assolutamente estranee alla morale; bisogna essere virtuosi, sia che i santi
siano risuscitati due volte, sia che Dio li abbia risuscitati una volta sola.
Il nostro simbolo venne formulato tardi, l'ammetto, ma la virtù esiste
dall'eternità.
Se è lecito citare autori moderni in una materia tanto
solenne, riferirei qui il Credo dell'abate di Saint-Pierre, come si
trova scritto di sua mano nel suo libro sulla purezza della religione, libro
che non è stato pubblicato, ma che io ho fedelmente ricopiato.
"Io credo in un solo Dio, e lo amo. Credo che egli illumini
ogni anima che viene al mondo, come dice san Giovanni: intendo dire ogni anima
che lo cerchi in buona fede.
"Io credo in un solo Dio, perché non può esservi che
una sola anima del gran tutto, un solo essere che lo vivifica, un unico
artefice.
"Io credo in Dio, padre onnipotente, perché egli è
padre comune della natura e di tutti gli uomini che sono egualmente suoi figli.
Io credo che colui che li fa nascere tutti in egual modo, che ha combinato il
meccanismo della nostra vita nella stessa maniera, che ha dato loro gli stessi
principi di una morale la quale può essere da loro scoperta non appena
riflettano, non abbia posto nessuna differenza tra i suoi figli, fuorché quella
tra il crimine e la virtù.
"Io credo che il cinese giusto e generoso sia per lui
più prezioso di un dottore europeo puntiglioso e arrogante.
"Io credo che, essendo Dio nostro padre comune, noi dobbiamo
considerare tutti gli uomini nostri fratelli.
"Io credo che il persecutore sia un uomo abominevole, e che
venga subito dopo l'avvelenatore e il parricida.
"Io credo che le dispute teologiche siano a un tempo la farsa
più ridicola e il flagello più orribile della terra, subito dopo
la guerra, la peste, la carestia e la sifilide.
"Io credo che gli ecclesiastici debbano essere pagati, e
pagati bene, come servi del pubblico, precettori di morale, depositari dei
registri dei nati e dei morti; ma che non si debba dar loro la ricchezza dei
grandi appalti delle imposte, né il rango di principi, perché l'una cosa e
l'altra corrompono l'anima; e nulla è più rivoltante che il
vedere uomini così ricchi e superbi far predicare l'umiltà e
l'amore della povertà da persone che han solo cento scudi di salario
l'anno.
"Io credo che tutti i preti che amministrano una parrocchia
debbano essere sposati, non solo per avere al fianco una donna onesta che
prenda cura della loro casa, ma per essere migliori cittadini, dare buoni
sudditi allo Stato, e avere molti figli bene educati.
"Io credo che sia necessario estirpare i monaci; si
renderebbe un gran servizio alla patria e a loro stessi; sono uomini che Circe
mutò in porci; il saggio Ulisse deve rendere loro la forma umana."
Il paradiso agli uomini che fanno il bene!
Molti studiosi si son dichiarati sorpresi di non trovare nello
storico Giuseppe alcuna traccia di Gesù Cristo, poiché oggi tutti
convengono che il breve passo dove se ne fa menzione nella sua Storia,
è un'interpolazione. Il padre di Giuseppe, tuttavia, doveva essere stato
uno dei testimoni di tutti i miracoli di Gesù. Giuseppe era di stirpe
sacerdotale, parente della regina Mariamne, moglie di Erode; egli si diffonde
in mille particolari su tutte le azioni di quel principe; tuttavia non dice una
parola né della vita né della morte di Gesù. E questo storico, che non
dissimula nessuna delle crudeltà di Erode, non parla affatto del
massacro di tutti i bambini da lui ordinato subito dopo avere appreso la
notizia che era nato il re dei giudei. Il calendario greco parla di
quattordicimila bambini sgozzati in tale occasione.
Questa, di tutte le azioni compiute da tutti i tiranni, è
la più atroce. Non ne esistono di simili nella storia del mondo intero.
Eppure, il migliore scrittore che mai abbiano avuto gli ebrei, il
solo stimato dai romani e dai greci, non fa menzione di questo avvenimento
tanto singolare quanto spaventoso. Egli non parla nemmeno della nuova stella
apparsa in oriente dopo la nascita del Salvatore: fenomeno straordinario, che
non poteva sfuggire a uno storico così bene informato come Giuseppe. E
tace anche delle tenebre che per tre ore, in pieno giorno, avvolsero la terra,
alla morte del Salvatore; e della grande quantità di tombe che si
spalancarono in quel momento e della folla di giusti che risuscitarono.
Gli studiosi non finiscono di stupirsi nel vedere che nessuno
storico romano ha parlato di questi prodigi, avvenuti sotto l'impero di
Tiberio, sotto gli occhi di un governatore romano e di una guarnigione romana,
che doveva avere inviato all'imperatore e al senato un rapporto circostanziato
del più miracoloso evento di cui gli uomini abbiano mai sentito parlare.
Roma stessa doveva essere rimasta immersa per tre ore nelle tenebre più fitte;
un tale prodigio avrebbe dovuto essere registrato nei fasti di Roma e in quelli
di tutte le nazioni. Dio non ha voluto che queste cose divine fossero scritte
da mani profane.
Gli stessi studiosi trovano inoltre parecchie difficoltà
nella storia dei Vangeli: osservano che, in quello di Matteo,
Gesù Cristo dice agli scribi e ai farisei che tutto il sangue innocente
versato sulla terra dovrà ricadere su di loro, dal sangue di Abele il
giusto, fino a Zaccaria, figlio di Barac, che essi hanno ucciso tra il tempio e
l'altare.
Nella storia degli ebrei, dicono, non v'è traccia di alcuno
Zaccaria ucciso nel tempio prima della venuta del Messia, né ai suoi tempi; uno
Zaccaria compare invece nella storia dell'assedio di Gerusalemme, scritta da
Giuseppe (capitolo XIX, libro IV); si tratta di Zaccaria, figlio di Barac,
ucciso nel tempio dalla fazione degli zeloti. Perciò costoro sospettano
che il Vangelo secondo Matteo sia stato scritto dopo la conquista di
Gerusalemme da parte di Tito. Ma tutti i dubbi e tutte le obiezioni di questa
specie svaniscono se si considera l'infinita differenza che deve intercorrere
tra i libri ispirati da Dio e i libri degli uomini. Dio ha voluto avvolgere la
sua nascita, la sua vita e la sua morte in una nube tanto venerabile quanto
oscura. Le sue vie sono del tutto diverse dalle nostre.
Gli studiosi si sono anche molto agitati sulla differenza fra le
due genealogie di Gesù: san Matteo dà come padre a Giuseppe,
Giacobbe; a Giacobbe, Mathan; a Mathan, Eleazaro. San Luca, invece, dichiara
che Giuseppe era figlio di Eli; Eli, di Mattat; Mattat, di Levi; Levi di Jannai
ecc... Essi non sanno conciliare i cinquantasei antenati che Luca attribuisce a
Gesù, da Abramo in poi, con i quarantadue antenati diversi da quelli che
Matteo gli attribuisce, sempre da Abramo in poi. E sono scandalizzati che
Matteo, pur parlando di quarantadue generazioni, ne elenchi poi soltanto
quarantuno.
Trovano inoltre altre difficoltà nel fatto che Gesù
non è figlio di Giuseppe, ma di Maria. Cosi pure avanzano dubbi sui
miracoli del nostro Salvatore, citando sant'Agostino, sant'Ilario e altri i
quali attribuiscono ai racconti di questi miracoli un senso mistico, un senso
allegorico: come a quello del fico maledetto e inaridito perché non aveva
frutti, non essendo la stagione dei fichi; dei demoni inviati nei corpi dei
maiali, in un paese dove non si allevavano maiali; dell'acqua mutata in vino
alla fine di un banchetto, quando i convitati dovevano averne già bevuto
anche troppo. Ma tutte queste critiche degli studiosi sono confuse dalla fede,
la quale proprio per questo ne acquista in purezza. Lo scopo di questo articolo
è soltanto quello di seguire il filo storico, e di dare un'idea precisa
dei fatti sui quali nessuno disputa.
Anzitutto, Gesù nacque sotto la legge giudaica, fu
circonciso secondo questa legge, ne seguì tutti i precetti, ne
celebrò tutte le feste, e predicò soltanto la morale; non
rivelò il mistero della sua incarnazione; non disse mai agli ebrei di
essere nato da una vergine; ricevette la benedizione di Giovanni nell'acqua del
Giordano (cerimonia cui si sottoponevano molti ebrei), ma non battezzò
mai nessuno; non parlò mai dei sette sacramenti, e, finché visse, non
istituì nessuna gerarchia ecclesiastica. Nascose ai suoi contemporanei
di essere figlio di Dio, generato ab aeterno, consustanziale a Dio, e
che lo Spirito Santo procedeva dal Padre e dal Figlio. Non disse mai che la sua
persona era composta di due nature e di due volontà; volle che questi
grandi misteri fossero annunciati agli uomini nel corso dei tempi, da coloro
che sarebbero stati illuminati dalla luce dello Spirito Santo. Finché visse,
non si discostò in nulla dalla religione dei suoi padri: si
manifestò agli uomini come un giusto, caro a Dio, perseguitato dagli
invidiosi e condannato a morte da magistrati ottusi. Volle che la sua Santa
Chiesa, istituita da lui, facesse tutto il resto.
Giuseppe, nel capitolo XII della sua Storia, parla di una
setta di ebrei rigoristi da poco fondata da un certo Giuda galileo: "Essi
disprezzano i mali della terra; trionfano dei tormenti con la loro costanza;
preferiscono la morte alla vita, quando la causa è onorevole. Hanno
sofferto il ferro e il fuoco, si son fatti spezzare le ossa, piuttosto di
pronunziare la minima parola contro il loro legislatore, o di mangiare carni
vietate."
Sembra che questo passo si riferisca ai giudaiti, e non agli
esseni. Dice infatti lo stesso Giuseppe: "Giuda fu il fondatore di una
nuova setta, del tutto diversa dalle altre tre, cioè da quella dei
sadducei, dei farisei e degli esseni." E ancora: "Essi sono stirpe
ebrea: vivono uniti tra loro e considerano il piacere fisico come un
vizio." Il senso naturale di questa frase dimostra che Giuseppe ci parla
dei giudaiti.
Comunque sia, questi giudaiti erano già noti prima che i
discepoli del Cristo cominciassero a costituire nel mondo un partito
considerevole.
I terapeuti erano una comunità diversa dagli esseni e dai
giudaiti: somigliavano ai gimnosofisti delle Indie e ai brahmani.
"Costoro," dice Filone, "sentono un impulso d'amore celeste che
li getta nell'entusiasmo delle baccanti e dei coribanti, e che li mette nello
stato di contemplazione cui aspirano. Questa setta ebbe origine in Alessandria,
dove gli ebrei erano numerosissimi, e si diffuse molto in Egitto."
I discepoli di Giovanni Battista si diffusero anch'essi in Egitto,
ma soprattutto in Siria e in Arabia; e ce ne furono anche nell'Asia minore.
Negli Atti degli Apostoli (cap. XIX) è detto che Paolo ne
incontrò parecchi a Efeso, e domandò loro: "Avete ricevuto
lo Spirito Santo?" Essi risposero: "Ma non abbiamo neppur sentito
dire che esista uno Spirito Santo." Egli disse loro: "Con quale
battesimo foste dunque battezzati?" Ed essi gli risposero: "Col
battesimo di Giovanni."
Nei primi anni dopo la morte di Gesù c'erano sette
società o sètte diverse: i farisei, i sadducei, gli esseni, i
giudaiti, i terapeuti, i discepoli di Giovanni e i discepoli di Cristo, di cui
Dio guidava il piccolo gregge per sentieri sconosciuti alla sapienza umana.
Colui che maggiormente contribuì a fortificare questa
società nascente fu quello stesso Paolo che con tanta crudeltà
l'aveva perseguitata. Era nato a Tarso, in Cilicia, educato dal famoso dottore
fariseo, Gamaliele, discepolo di Hillèl. Gli ebrei pretendono che egli
ruppe con Gamaliele quando costui si rifiutò di dargli sua figlia in
sposa. Si trova qualche traccia di questo aneddoto in fondo agli Atti di santa
Tecla. Questi Atti riferiscono che egli aveva la fronte larga, la testa calva ,
le sopracciglia unite, il naso aquilino, il corpo corto e robusto, e le gambe
storte. Luciano, nel suo Dialogo di Filopatride, ne fa un ritratto
abbastanza simile. È assai dubbio che Paolo fosse cittadino romano,
perché a quei tempi non si concedeva quel titolo a nessuno degli ebrei; essi
erano stati cacciati da Roma da Tiberio, e Tarso divenne colonia romana solo
cent'anni dopo sotto Caracalla, come riferiscono Cellario nella sua Geografia
(libro III), e Grozio nei suoi Commentari sugli Atti.
I fedeli presero il nome di cristiani in Antiochia, verso l'anno
60 della nostra era, ma furono conosciuti nell'impero romano, come vedremo
più in là, sotto altri appellativi. Prima si distinguevano solo
con il nome di "fratelli", "santi" o "fedeli".
Dio, che era sceso sulla terra per offrire un esempio di umiltà e di
povertà, diede così alla sua Chiesa i più deboli inizi, e
la diresse in quello stesso stato di umiliazione nel quale aveva voluto
nascere. Tutti i primi fedeli furono uomini oscuri, tutti lavoravano con le
loro mani. L'apostolo Paolo afferma che si guadagnava la vita fabbricando tende.
San Pietro risuscitò una donna, Dorcas, che cuciva le vesti dei
confratelli. L'assemblea dei fedeli a loppe (Giaffa) si teneva nella casa di un
conciatore chiamato Simone, come è detto nel capitolo IX degli Atti
degli Apostoli.
I fedeli si diffusero in segreto attraverso la Grecia, e qualcuno
di lì passò a Roma, fra i giudei, cui i romani permettevano di
avere una sinagoga. Sulle prime, non si separarono dagli ebrei; conservarono la
circoncisione e, come si è già osservato altrove, i primi
quindici vescovi di Gerusalemme furono tutti circoncisi.
Quando l'apostolo Paolo prese con sé Timoteo, che era di padre
pagano, lo circoncise lui stesso, nella piccola città di Listra. Ma
Tiro, altro suo discepolo, non volle sottomettersi alla circoncisione. I
fratelli discepoli di Gesù restarono uniti agli ebrei sino al tempo in
cui Paolo subì una persecuzione a Gerusalemme per aver condotto degli
stranieri nel tempio. Era accusato dai giudei di voler distruggere la legge
mosaica in nome di Gesù Cristo. Fu proprio perché fosse scagionato da
questa accusa che l'apostolo Giacomo propose all'apostolo Paolo di farsi rasare
il capo e di andare a purificarsi nel tempio con quattro giudei, che avevano
fatto voto di radersi: "Prendili con te," gli disse Giacomo (Atti
degli Apostoli, cap. XXI), "e fatti purificare con loro. In tal modo
tutti capiranno che nessuna delle notizie apprese nei tuoi riguardi è
vera, ma che anche tu cammini nell'osservanza della legge."
Così Paolo, che da principio era stato il sanguinario
persecutore della comunità fondata da Gesù, Paolo, che volle poi
governare quella stessa comunità nascente, Paolo, cristiano, giudaizza,
perché tutti sappiamo che lo si calunnia, quando si dice che è
cristiano; Paolo fa ciò che è considerato, oggi, fra tutti i
cristiani, un delitto abominevole, un crimine che viene punito col rogo in
Spagna, in Portogallo e in Italia; e fa questo per consiglio dell'apostolo
Giacomo; e dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, ossia dopo essere stato
istruito da Dio della necessità di rinunciare a tutti quei riti giudaici
istituiti un tempo da Dio stesso!
Ciò nonostante Paolo fu accusato d'empietà e
d'eresia e il suo processo durò a lungo; ma, dalle stesse accuse rivolte
contro di lui, risulta chiaro che era venuto a Gerusalemme per osservare i riti
giudaici.
Egli disse a Festo queste precise parole (cap. XXV degli Atti):
"Non ho commesso alcun reato, né contro la legge dei Giudei, né contro il
tempio."
Gli apostoli annunciavano Gesù come giudeo, osservante
della legge ebraica, inviato da Dio per farla rispettare.
"La circoncisione è utile," dice l'apostolo Paolo
(cap. II, Epistola ai Romani), "Se voi osservate la legge; ma se la
trasgredite, la vostra circoncisione diventa incirconcisione. Se un
incirconciso osserva la legge, sarà come circonciso. Il vero giudeo
è colui che è giudeo interiormente."
Quando questo apostolo parla di Gesù nelle sue Epistole,
non rivela affatto il mistero ineffabile della sua consustanzialità con
Dio: "Noi siamo liberati per mezzo suo," dice (Epistola ai Romani,
cap. V), "dalla collera di Dio. Per la grazia di un solo uomo, Gesù
Cristo, il dono di Dio si è riversato su di noi... La morte ha regnato
per colpa di uno solo; i giusti regneranno nella vita in grazia di un solo
uomo, che è Gesù Cristo."
E, nel capitolo VIII: "Noi, eredi di Dio, e coeredi di
Cristo."
E nel capitolo XVI: "A Dio, che è il solo saggio,
onore e gloria attraverso Gesù Cristo." E: "Voi siete di
Cristo e Cristo è di Dio" (I Epistola ai Corinzi, cap. III).
E infine (I Corinzi, cap. XV, v. 27) "Tutto gli
è sottoposto, salvo indubbiamente Dio, il quale ha assoggettato a lui
ogni cosa."
Si è provata qualche difficoltà nello spiegare
questo passaggio della Epistola ai Filippesi: "Non fate nulla per
rivalità, nulla per vanagloria; ma con umiltà ciascuno ritenga gli
altri migliori di sé; abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo
Gesù che pure avendo natura di Dio, non giudicò sua rapina
l'eguagliarsi a Dio." Questo passo risulta perfettamente approfondito e
messo in piena luce in una lettera delle chiese di Vienne e di Lione, scritta
nel 117, prezioso monumento dell'antichità. In questa lettera è
lodata la modestia di alcuni fedeli: "Essi non hanno voluto prendere, per
qualche tribolazione patita, il gran titolo di martiri, sull'esempio di
Gesù Cristo che, pur avendo natura di Dio, non reputò sua rapina
la qualità di essere eguale a Dio." Anche Origene dice, nel suo Commento
a Giovanni, che la grandezza di Gesù tanto più rifulse quando
egli si umiliò, tanto più "che se avesse fatto sua rapina
d'essere uguale a Dio". D'altra parte, la spiegazione contraria sarebbe un
evidente controsenso. Che mai significherebbe: "Credete gli altri
superiori a voi, imitate Gesù, il quale non reputò una rapina,
un'usurpazione, l'eguagliarsi a Dio"? Sarebbe evidentemente una
contraddizione voler presentare un esempio di superbia per un esempio di
modestia: sarebbe peccare contro il senso comune.
La saggezza degli apostoli fondava su tali basi la Chiesa
nascente. E questa saggezza non venne alterata dalla disputa sopravvenuta poi
tra gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, da un lato, e Paolo, dall'altro.
Tale contrasto avvenne in Antiochia. L'apostolo Pietro, detto altrimenti Cefa o
Simone figlio di Giona, mangiava con i gentili convertiti, e non osservava con
loro le cerimonie della legge, né la distinzione delle carni; lui, Barnaba e
altri discepoli mangiavano indifferentemente carne di maiale o di animali
strozzati o di animali che avevano l'unghia del piede fessa e non ruminavano;
ma essendo arrivati diversi ebrei cristiani, san Pietro tornò con loro
all'astinenza delle carni proibite e alle cerimonie della legge mosaica.
Questa azione sembrava molto prudente: non voleva scandalizzare
gli ebrei cristiani suoi compagni; ma san Paolo insorse contro di lui con una
certa durezza. "Io gli resistetti," dice nella sua Epistola ai
Galati (cap. II), "perché il suo comportamento era biasimevole."
Questa disputa sembra tanto più straordinaria da parte di
san Paolo, in quanto, essendo stato dapprima un persecutore dei cristiani, avrebbe
dovuto essere più moderato, e in quanto lui stesso si era recato a
sacrificare nel tempio a Gerusalemme, aveva circonciso il suo discepolo
Timoteo, e aveva compiuto quei riti ebraici che ora rimproverava a Cefa. San
Girolamo sostiene che quella lite fra Paolo e Cefa era finita. Egli dice nella
prima delle sue Omelie, tomo III, che essi fecero come due avvocati che
si scaldano e si tirano stoccate in tribunale per avere maggiore
autorità sui loro clienti; e che, Pietro Cefa essendo destinato a
predicare agli ebrei e Paolo ai gentili, finsero di litigare, Paolo per
conquistare i gentili, e Pietro gli ebrei. Ma sant'Agostino non è
affatto di questo avviso: "Mi dispiace," scrive nella sua Epistola
a Gerolamo, "che un così grande uomo si faccia patrono della
menzogna, patronum mendacii."
Del resto, se Pietro era destinato agli ebrei giudaizzanti e Paolo
agli stranieri, è assai probabile che Pietro non sia mai venuto a Roma.
Gli Atti degli Apostoli non fanno nessuna menzione del suo viaggio in
Italia.
Comunque, fu verso l'anno 60 della nostra era che i cristiani
cominciarono a separarsi dalla comunione giudaica; e questo attirò su di
loro una quantità di dispute e persecuzioni da parte delle sinagoghe
diffuse a Roma, in Grecia, nell'Egitto e nell'Asia. Essi furono accusati
d'empietà, di ateismo dai loro fratelli ebrei, che li scomunicavano
nelle loro sinagoghe tre volte ogni sabato. Ma Dio li sostenne sempre in mezzo
alle persecuzioni.
A poco a poco, si costituirono molte Chiese e la separazione tra
ebrei e cristiani divenne completa. Tale separazione era ignorata dal governo
romano. Il senato di Roma e gli imperatori non si interessavano alle dispute di
una piccola setta che Dio aveva finora guidato nell'oscurità e che
andava elevando per gradi insensibili.
Bisogna vedere in quale stato era allora la religione dell'impero
romano. I misteri e le pratiche espiatorie erano accreditati in quasi tutto il
mondo. Gli imperatori, è vero, i grandi e i filosofi non avevano nessuna
fede in quei misteri; ma il popolo che, in fatto di religione, detta legge ai
grandi, imponeva loro la necessità di conformarsi in apparenza al suo
culto. Per incatenarlo, bisognava fingere di portare le sue stesse catene.
Anche Cicerone fu iniziato ai misteri di Eleusi. La conoscenza di un solo Dio
era il principale dogma che si annunziava in quelle feste misteriose e
magnifiche. Va detto che le preghiere e gli inni di quei misteri, che ci sono
pervenuti, sono quanto il paganesimo ha di più sentito e di più
ammirabile.
Ai cristiani, che adoravano anch'essi un solo Dio, fu assai
più facile convertire molti gentili. Alcuni filosofi della setta di
Platone si fecero cristiani. Ecco perché i Padri della Chiesa dei primi tre
secoli furono tutti platonici.
Lo zelo sconsiderato di alcuni non nocque affatto alle
verità fondamentali. Fu rimproverato a Giustino, uno dei primi Padri, di
avere scritto, nel suo Commento a Isaia, che i santi avrebbero goduto,
in un regno di mille anni sulla terra, di tutti i piaceri dei sensi. Fu
giudicato delittuoso l'aver detto, nella sua Apologia dei cristianesimo,
che Dio, creato il mondo, ne lasciò la cura agli angeli, i quali,
essendosi innamorati delle donne, ebbero da loro dei figli, che sono i demoni.
Furono condannati Lattanzio e altri Padri per avere accreditato
certi oracoli delle Sibille. Lattanzio pretendeva che la Sibilla eritrea avesse
composto questi quattro versi greci, di cui ecco la traduzione letterale:
Con cinque pani e due pesci
Nutrirà cinquemila uomini nel deserto;
e, raccogliendone gli avanzi che resteranno,
ne riempirà dodici panieri.
Ai primi cristiani venne anche rimproverato di essersi attribuiti
alcuni versi acrostici di un'antica Sibilla, i quali cominciavano tutti con le
lettere iniziali del nome di Gesù Cristo, ciascuna nel suo ordine. Si
rimproverava loro di avere inventato l'esistenza di lettere di Gesù al
re di Edessa nel tempo in cui non c'era nessun re ad Edessa, e lettere di
Maria, lettere di Seneca a Paolo, lettere e atti di Pilato, falsi vangeli, falsi
miracoli e mille altre imposture.
Abbiamo ancora la storia o il Vangelo della natività e del
matrimonio della Vergine Maria ove è detto che, condotta al tempio
all'età di tre anni, ne salì la scala da sola; vi è
riferito che una colomba scese dal cielo per annunziare che Giuseppe doveva
sposare Maria. Abbiamo il protovangelo di Giacomo, fratello di Gesù,
nato da un primo matrimonio di Giuseppe. Vi è detto che, quando Maria
rimase incinta durante l'assenza del marito e questi se ne lamentò, i
sacerdoti fecero bere all'uno e all'altra l'acqua della gelosia e che tutti e
due furono dichiarati innocenti.
Abbiamo il Vangelo dell'infanzia, attribuito a san Tommaso.
Secondo questo Vangelo, Gesù, all'età di cinque anni si divertiva
con altri bambini della sua età a modellare l'argilla, con cui formava
uccellini; ne fu rimproverato, ed egli allora diede vita a quegli uccellini,
che volarono via. Un'altra volta Gesù, picchiato da un ragazzino, lo
fece morire all'istante. Abbiamo inoltre, in arabo, un altro Vangelo dell'infanzia,
che è più serio.
C'è, poi, un Vangelo di Nicodemo. Questo sembra meritare
maggiore attenzione, perché vi si trovano i nomi di coloro che accusarono
Gesù davanti a Pilato; erano i capi della sinagoga: Anna, Caifa, Summas,
Datam, Gamaliele, Giuda, Nèftali. In questa storia ci sono cose che si
conciliano abbastanza con i Vangeli canonici, e altre che non si trovano
altrove. Vi si legge che l'emorroissa si chiamava Veronica; vi si trova,
inoltre, tutto quello che Gesù fece nell'inferno, quando vi discese.
Possediamo poi le due lettere che Pilato avrebbe scritto a Tiberio
a proposito del supplizio di Gesù; ma il cattivo latino in cui sono
scritte ne rivela abbastanza chiaramente la falsità.
Si spinse il falso zelo fino a far circolare parecchie lettere di Gesù
Cristo. È stata conservata la lettera che si dice egli abbia scritto ad
Abgara, re di Edessa: ma allora non c'erano più re di Edessa!
Vennero fabbricati cinquanta Vangeli che furono, in seguito,
dichiarati apocrifi. Lo stesso san Luca ci dà notizia di molte persone
che ne avevano composti. Si credette che ce ne fosse uno chiamato Vangelo
eterno, sulla base di quanto è detto nell'Apocalisse,
capitolo XIV: "Ho visto un angelo che volando in mezzo al cielo, recava il
Vangelo eterno." I cordiglieri, travisando queste parole, composero nel
XIII secolo un Vangelo eterno, secondo il quale il regno dello Spirito
Santo doveva sostituire quello di Gesù Cristo; ma nei primi secoli della
Chiesa, non comparve nessun libro recante questo titolo.
Si diffusero anche false lettere della Vergine, scritte a
sant'Ignazio martire, agli abitanti di Messina e ad altri.
Abdìa, che succedette immediatamente agli apostoli, scrisse
la loro storia, alla quale mescolò delle favole così assurde, che
quelle storie finirono, col tempo, con l'essere interamente screditate; ma
sulle prime esse ebbero grande diffusione. Fu Abdìa a riferire la lotta
di san Pietro con Simone Mago. C'era infatti a Roma un meccanico abilissimo
chiamato Simone, il quale non solo faceva eseguire voli agli attori nei teatri,
come oggi, ma rinnovò lui stesso il prodigio attribuito a Dedalo: si
fabbricò delle ali, volò e cadde come Icaro; è quanto
riferiscono Plinio e Svetonio.
Abdìa, che viveva in Asia e scriveva in ebraico, pretende
che san Pietro e Simone si siano incontrati a Roma ai tempi di Nerone. Un
giovane, parente stretto dell'imperatore, morì; tutta la corte
pregò Simone di risuscitarlo. San Pietro si presentò a sua volta
per fare questa operazione. Simone impiegò tutte le regole della sua
arte, e parve riuscire: il morto mosse la testa. "Non è
abbastanza," gridò san Pietro; "bisogna che il morto parli;
che Simone si allontani dal letto, e si vedrà se questo giovane è
in vita." Simone si allontanò, il morto non si mosse più, e
Pietro gli rese la vita con una sola parola.
Simone andò a lamentarsi dall'imperatore, che un miserabile
galileo osava far prodigi più grandi dei suoi. Pietro comparve con
Simone, e insieme gareggiarono a chi fosse superiore, ognuno nell'arte sua.
"Dimmi che cosa penso," disse Simone a Pietro. "Che l'imperatore
mi dia un pane d'orzo," replicò Pietro, "e vedrai se non so
che cosa pensi." Gli venne dato un pane. Subito Simone fece apparire due
grossi cani che volevano divorare Pietro. Pietro gettò loro il pane, e
mentre essi lo mangiavano, disse: "Ebbene, lo sapevo o no quel che stavi
pensando? Tu volevi farmi divorare dai tuoi cani."
Dopo questa prima prova, fu proposta a Simone e a Pietro la gara
del volo, per vedere chi sarebbe salito più in alto. Simone
cominciò, san Pietro si fece il segno della croce e Simone si ruppe le
gambe. Questo racconto era imitato da quello che si trova nel Sepher toldos
Jeschut, dove è detto che Gesù stesso volò e che
Giuda, volendo fare altrettanto, precipitò al suolo.
Nerone, infuriato al pensiero che Pietro avesse fatto rompere le
gambe al suo favorito Simone, fece crocifiggere Pietro a testa in giù;
è da qui che si stabilì la credenza del soggiorno di Pietro a
Roma, del suo supplizio e del suo sepolcro.
Fu ancora Abdìa a diffondere la credenza che san Tommaso
andò a predicare il cristianesimo nelle Indie, presso il re Gondafer, e
che vi andò in qualità di architetto.
La quantità di libri di questa specie scritti nei primi
secoli del cristianesimo è prodigiosa. San Girolamo e lo stesso
sant'Agostino pretendono che le lettere di Seneca a san Paolo siano
assolutamente autentiche. Nella prima lettera, Seneca si augura che il suo
fratello Paolo stia bene. "Bene te valere, frater, cupio." Paolo non
parla certo il bel latino di Seneca.
"Ho ricevuto ieri le vostre belle lettere," dice,
"con gioia. Litteras tuas hilaris accepi; avrei risposto subito, se
fosse stato presente il giovine che vi avrei inviato: si praesentiam juvenis
habuissem." Del resto, tali lettere, che dovrebbero essere istruttive,
contengono solo dei complimenti.
Tante menzogne fabbricate da cristiani male istruiti e animati da
falso zelo non recarono nessun pregiudizio alla verità del
cristianesimo, e non nocquero affatto alla sua diffusione; al contrario, ci fan
vedere che la comunità cristiana aumentava di giorno in giorno e che
ogni membro voleva contribuire al suo sviluppo.
Gli Atti degli Apostoli non dicono ch'essi fossero
d'accordo su un Simbolo. Se avessero effettivamente redatto il Simbolo,
il Credo, quale noi l'abbiamo, san Luca non avrebbe certo omesso nella
sua storia questo fondamento essenziale della religione cristiana; la sostanza
del Credo è sparsa nei Vangeli, ma gli articoli non furono
riuniti che molto tempo dopo.
Il nostro Simbolo, in una parola, è
incontestabilmente la credenza degli apostoli, ma non è un testo scritto
da loro. Il primo che ne parla è Rufino, un prete di Aquileia; e
un'omelia attribuita a sant'Agostino è il primo monumento che supponga
il modo in cui fu composto questo Credo. Pietro dice nell'assemblea: Io
credo in Dio padre onnipotente; Andrea dice: e in Gesù Cristo;
Giacomo aggiunge: che è stato concepito dallo Spirito Santo; e
così di seguito.
Tale formula si chiama $óýìâïëïí$, in greco, e collatio
in latino. C'è solo da osservare che il greco dice: "Io credo
in Dio padre onnipotente, che fece il cielo e la terra"
$Ðéóôåýù åkò fíá žå'í ðáôÝñá
ðáíôïêñÜôïñá, ðïéçôxí
ïšñáíï(tm) êár ãyò$); e che il latino
traduce $ ðïéçôxí$, "facitore", "formatore", con creatorem. Più
tardi, al primo concilio di Nicea, si adottò factorem.
Il cristianesimo si stabilì dapprima in Grecia. Qui i
cristiani ebbero da lottare contro una nuova setta di giudei, diventati
filosofi a forza di frequentare i greci, la setta della Gnosi, o degli
gnostici; ad essa si mescolarono molti nuovi cristiani. Tutte queste sette
godevano allora della piena libertà di dogmatizzare, di parlare e di
scrivere; però sotto Domiziano la religione cristiana cominciò a
dare qualche ombra al governo.
Ma lo zelo di qualche cristiano, che non era secondo scienza, non
impedì alla Chiesa di compiere i progressi che Dio le destinava. I
cristiani celebrarono i loro misteri in case solitarie, in cantine, durante la
notte; di qui (secondo Minucio Felice) fu dato loro il nome di lucifugaces.
Filone li chiama gesseeni. I loro nomi più comuni nei primi
quattro secoli, presso i gentili, erano quelli di galilei e di nazareni; ma il
nome di cristiani prevalse su tutti gli altri.
Né la gerarchia né le pratiche rituali furono istituite tutte in
una volta; i tempi apostolici furono differenti da quelli che li seguirono. San
Paolo, nella sua I Lettera ai Corinzi, ci informa che, quando i
fratelli, circoncisi o incirconcisi, erano riuniti, se parecchi profeti volevan
parlare, solo due o tre potevano farlo; e che se qualcuno, nel frattempo, aveva
una rivelazione, il profeta che aveva preso la parola doveva tacere.
È su questa usanza della Chiesa primitiva che si fondano
ancora oggi alcune comunioni cristiane, che tengono assemblee senza gerarchia.
Era permesso a tutti di parlare in chiesa, eccettuate le donne. È vero
che Paolo proibisce loro di parlare, nella I Lettera ai Corinzi, ma
nella stessa lettera, al capitolo XI, v. 5, sembra anche autorizzarle a
predicare o profetizzare: "Ogni donna che prega o profetizza a capo
scoperto, disonora il suo capo"; è come se essa fosse stata rasata.
Le donne credettero che fosse loro permesso parlare, purché si coprissero il
capo con un velo.
Quel che è oggi la santa messa, che si celebra al mattino,
era la cena, che si teneva la sera; queste usanze cambiarono, via via che la
Chiesa si consolidò. Una società più estesa esigeva
più regolamenti, e la prudenza dei pastori si conformò ai tempi e
ai luoghi.
San Girolamo ed Eusebio riferiscono che, quando le chiese
ricevettero una forma precisa, vi si distinsero a poco a poco cinque ordini
differenti: i sorveglianti, $dðßóêïðïé$, da cui sono
venuti i nostri vescovi; gli anziani della società,
$ðñåóâýôåñïé$, i preti; i
$äéÜêïíïé$, cioè i servi e i diaconi; i
$ðßóôïé$, o credenti, iniziati, vale a dire i battezzati, che
prendevano parte alle cene dette "agapi"; e i catecumeni ed
energumeni, che erano in attesa del battesimo. Nessuno, in questi cinque
ordini, portava un abito diverso dagli altri; nessuno, come testimoniano il
libro di Tertulliano dedicato a sua moglie, o l'esempio degli apostoli, era
costretto al celibato. Nessuna rappresentazione, sia in pittura che in
scultura, nelle loro assemblee durante i primi tre secoli. I cristiani
nascondevano accuratamente i loro libri ai gentili; non li confidavano che agli
iniziati, non era nemmeno permesso ai catecumeni di recitare l'orazione
domenicale.
Quel che distingueva soprattutto i cristiani e che è durato
sino al nostri tempi, era il potere di cacciare i demoni con il segno della
croce. Origene, nel suo trattato Contro Celso ($êNôá
ÊÝëóïí$), al paragrafo 133, ammette che Antinoo, divinizzato
dall'imperatore Adriano, faceva miracoli in Egitto, in virtù di incanti
e sortilegi; ma dice che i diavoli uscivano dai corpi degli ossessi solo se si
pronunziava il nome di Gesù.
Tertulliano va oltre e, dal fondo dell'Africa dove abitava, dice,
nel suo Apologeticum, capitolo XXIII: "Se i vostri dei non
confessano, davanti a un vero cristiano, di essere dei diavoli, noi consentiamo
che voi spargiate il sangue di questo cristiano." C'è una
dimostrazione più chiara di questa?
Di fatto, Gesù Cristo inviò i suoi apostoli per
cacciare i demoni. Anche gli ebrei avevano in quel tempo il dono di cacciarli,
perché, quando Gesù ebbe liberato degli ossessi mandando i diavoli nei
corpi di una mandria di porci, ed ebbe operato altre guarigioni simili, i
farisei dissero: "Egli caccia i demoni con la potenza di
Belzebù." "Ma se io li caccio in nome di Belzebù,"
replicò Gesù, "in nome di chi li cacciano i vostri
figli?" È incontestabile che i giudei si vantavano di questo
potere; avevano esorcisti ed esorcismi. Si invocava il nome del Dio di Giacobbe
e di Abramo; si mettevano nel naso degli indemoniati erbe consacrate (Giuseppe
riferisce una parte di queste pratiche). Questo potere sui diavoli, che i
giudei hanno perduto, fu trasmesso ai cristiani, i quali, da un po' di tempo in
qua, sembrano averlo anche loro.
Nel potere di cacciare i demoni era compreso quello di distruggere
le operazioni di magia: perché la magia fu sempre in vigore in tutte le
nazioni. Tutti i Padri della Chiesa attestano l'esistenza della magia. San
Giustino, nel libro III della sua Apologia, conferma che spesso si
evocano le anime dei morti, e ne trae un argomento in favore
dell'immortalità dell'anima. Lattanzio, nel libro VII delle sue Divinae
institutiones, dice che "se si osasse negare l'esistenza delle anime
dopo la morte, il mago vi convincerebbe subito del contrario, facendole
apparire". Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, il vescovo
Cipriano, affermano tutti la medesima cosa. È vero che oggi tutto
è cambiato, e che non ci sono più né maghi, né indemoniati; ma se
ne troverà, quando piacerà a Dio.
Quando le comunità cristiane divennero un po' numerose e
parecchie si opposero al culto dell'impero romano, i magistrati infierirono
contro di esse, e il popolo soprattutto le perseguitò. Non si
perseguitavano i giudei, che avevano dei privilegi particolari e se ne stavano
chiusi nelle loro sinagoghe; si permetteva loro l'esercizio della loro
religione, come si fa ancora oggi a Roma; tutti i culti diffusi nell'impero
erano consentiti, anche se il senato non li adottava.
Ma i cristiani, dichiarandosi nemici di tutti questi culti, e
soprattutto di quello dell'impero, furono sottoposti più volte a prove
crudeli.
Uno dei primi e più noti martiri fu Ignazio, vescovo
d'Antiochia, condannato dallo stesso imperatore Traiano, allora in Asia, e
inviato per suo ordine a Roma per essere esposto alle belve, in un momento in
cui non si massacravano a Roma altri cristiani. Non si sa di che cosa fosse
accusato da quell'imperatore, rinomato d'altronde per la sua clemenza: è
certo che sant'Ignazio ebbe nemici molto accaniti. Comunque sia, la storia del
suo martirio riferisce che gli si trovò inciso sul cuore, in caratteri
d'oro, il nome di Gesù Cristo; per questo i cristiani presero in certi
paesi il nome di "teofori", che Ignazio si era dato.
Ci è stata conservata una sua lettera, nella quale egli
prega i vescovi e gli altri cristiani di non opporsi al suo martirio, sia che
sin da allora i cristiani fossero abbastanza potenti per liberarlo, sia che
qualcuno fra loro godesse di tanto credito da ottenergli la grazia. Va notato,
in particolare che fu permesso ai cristiani di Roma di andargli incontro,
quando fu condotto nella capitale: e questo prova chiaramente che in lui si
puniva la persona, non la setta.
Le persecuzioni non furono continue. Origene, nel suo libro III Contro
Celso, dice: "Si possono facilmente contare i cristiani morti per la
loro religione, perché ne sono morti pochi e solo di tanto in tanto, a
intervalli."
Dio ebbe sì gran cura della sua Chiesa, che, malgrado i
suoi nemici, fece in modo che essa potesse tenere cinque concili (vale a dire
assemblee tollerate) nel primo secolo, sedici nel secondo e trenta nel terzo.
Queste assemblee vennero qualche volta proibite, quando la falsa prudenza dei
magistrati temette che dessero luogo a tumulti. Ci sono rimasti pochi processi
verbali dei proconsoli e dei pretori che condannarono i cristiani a morte: sarebbero
i soli atti che permetterebbero di constatare le accuse mosse contro di loro, e
i loro supplizi.
Abbiamo un frammento di Dionigi d'Alessandria, nel quale egli
riporta l'estratto di un verbale di un proconsole in Egitto, sotto l'imperatore
Valeriano; eccolo:
Introdotti in udienza Dionigi, Fausto, Massimo, Marcello e
Cheremone, il prefetto disse loro: "Voi avete potuto conoscere, dai
colloqui che ho avuto con voi e da tutto quello che vi ho scritto, quanto i
nostri governanti abbiano mostrato bontà nei vostri riguardi; voglio
ancora ripetervelo: essi fanno dipendere la vostra conservazione e la vostra
salvezza da voi stessi e il vostro destino è nelle vostre mani. Da voi
chiedono una sola cosa, che la ragione esige da ogni persona ragionevole: che
voi adoriate gli dei protettori dell'impero, e che abbandoniate quest'altro
culto così contrario alla natura e al buon senso."
Dionigi rispose: "Non tutti hanno gli stessi dei, e ognuno
adora quelli che crede veramente tali."
Il prefetto Emiliano replicò: "Vedo bene che siete
degli ingrati, che abusate della bontà che gli imperatori mostrano per
voi. Ebbene! voi non potrete più rimanere in questa città, e io
vi mando a Cefro, in fondo alla Libia: là resterete in esilio, secondo
l'ordine che ho ricevuto dai nostri imperatori; del resto, non pensare di
tenerci le vostre assemblee, né di andare a recitare le vostre preghiere in
quei luoghi che chiamate cimiteri: questo vi è assolutamente proibito, e
io non lo permetterò a nessuno."
Niente presenta, come questo processo verbale, i caratteri della
verità. Da esso si vede che vi furono tempi in cui le assemblee erano
proibite. Così oggi, fra noi, è proibito ai calvinisti di
riunirsi in Linguadoca; talvolta, anzi, abbiamo fatto impiccare o arrotare i
loro ministri o predicatori che tenevano riunioni contro la legge. Così
in Inghilterra e in Irlanda le assemblee sono proibite ai cattolici romani; ci
furono casi in cui i trasgressori furono condannati a morte.
Nonostante questi divieti imposti delle leggi romane, Dio
ispirò a molti imperatori indulgenza verso i cristiani. Lo stesso
Diocleziano, che presso gli ignoranti passa per un persecutore, Diocleziano, il
cui primo anno di regno segna il principio dell'era dei martiri, fu per
più di diciotto anni protettore dichiarato del cristianesimo, al punto
che molti cristiani ebbero cariche importanti presso la sua persona. Egli
permise persino che a Nicomedia, sua residenza, vi fosse una superba chiesa
innalzata di fronte al suo palazzo; inoltre, sposò una cristiana.
Il cesare Galerio, malauguratamente - e, a suo parere, giustamente
- prevenuto verso i cristiani, esortò Diocleziano a far distrugger la
cattedrale di Nicomedia. Un cristiano, più zelante che saggio,
lacerò l'editto dell'imperatore; e di qui nacque quella persecuzione
tanto famosa, nella quale più di duecento persone vennero messe a morte
in tutto l'impero romano, senza contare quelli che il furore del popolino,
sempre fanatico e sempre barbaro, poté far morire contro le forme giuridiche.
Vi fu, in tempi diversi, un così gran numero di martiri,
che bisogna star bene attenti a non intaccare l'autorità della storia di
questi autentici confessori della nostra santa religione con un pericoloso
miscuglio di favole e di falsi martiri.
Il benedettino don Ruinart, per esempio, uomo d'altronde tanto
istruito quanto stimabile e zelante, avrebbe dovuto scegliere con maggior
discrezione i suoi Acta primorum martyrorum sincera et selecta. Non
è sufficiente che un manoscritto provenga dall'abbazia di
Saint-Benôit-sur-Loire o da un convento dei celestini a Parigi, conforme a un
manoscritto dei foglianti, perché questo "atto" sia autentico:
bisogna che sia antico, scritto da contemporanei, e che presenti inoltre tutti
i caratteri della verità.
Don Ruinart avrebbe potuto fare a meno, per esempio, di riferire
l'avventura del giovane Romano, accaduta nel 303. Il giovane in questione aveva
ottenuto il perdono di Diocleziano in Antiochia; tuttavia Ruinart dice che il
giudice Asclepiade lo condannò ad essere bruciato. Alcuni ebrei presenti
a questo spettacolo schernirono il giovane san Romano e rinfacciarono ai
cristiani che il loro dio li lasciava bruciare, mentre il dio degli ebrei aveva
liberato Sidrac, Misac e Abdenago dalla fornace; ma ecco levarsi, in pieno
sole, un temporale che spense il fuoco. Allora il giudice ordinò che al
giovane Romano venisse tagliata la lingua. Il primo medico dell'imperatore,
trovandosi là, assolse la funzione di boia, e gli tagliò la
lingua alla radice; subito il giovane, che prima era balbuziente, si mise a
parlare normalmente: l'imperatore restò sbalordito al sentir parlare
così bene senza lingua; e il medico, per ripetere l'esperienza,
tagliò in quattro e quattr'otto la lingua a un passante che ne
morì di colpo.
Eusebio, dal quale il benedettino Ruinart ha tratto questo
racconto, avrebbe dovuto rispettare abbastanza i miracoli dell'Antico e
del Nuovo Testamento (dei quali nessuno dubiterà mai) e non
associarli a storie così sospette che potrebbero scandalizzare le fedi
deboli.
Quest'ultima persecuzione non si estese a tutto l'impero.
C'erano allora in Inghilterra manifestazioni di cristianesimo, che
presto si spensero per riaccendersi poi sotto i re sassoni. La Gallia
meridionale e la Spagna pullulavano di cristiani. Il cesare Costanzo Cloro li
protesse molto in tutte queste province. Egli aveva una concubina che era
cristiana: è la madre di Costantino, conosciuta sotto il nome di
sant'Elena. Non ci fu mai tra loro un regolare matrimonio; anzi, nel 292 egli
la ripudiò e sposò la figlia di Massimiano Ercole; ma Elena aveva
conservato su di lui un forte ascendente e gli aveva ispirato un grande
rispetto per la nostra santa religione.
La divina Provvidenza preparò, per vie che sembrano umane,
il trionfo della sua Chiesa. Costanzo Cloro morì nel 306 a York in
Inghilterra, in un tempo in cui i figli che aveva avuto dalla figlia di un
cesare erano ancora in tenera età e non potevano quindi pretendere di
governare l'impero. Costantino ebbe il coraggio di farsi eleggere a York da
cinque o seimila soldati, per la maggior parte germanici, galli e inglesi.
Sembrava poco probabile che una tale elezione, fatta senza il consenso di Roma,
del Senato e delle legioni, potesse essere valida; ma Dio gli diede la vittoria
su Massenzio, eletto a Roma, e lo liberò poi da tutti i suoi colleghi.
Non si può tacere che sulle prime Costantino si rese indegno dei favori
celesti; infatti assassinò tutti i suoi congiunti, sua moglie e suo
figlio.
Si può dubitare di ciò che riferisce Zosimo in
proposito. Egli dice che Costantino, agitato dai rimorsi dopo tanti delitti,
domandò ai pontefici dell'impero se ci fossero espiazioni per lui, e
quelli gli risposero che non ne conoscevano. È ben vero che non ce
n'erano state neanche per Nerone, il quale non aveva osato assistere ai sacri
misteri in Grecia. Eppure erano in uso i tauroboli, ed è assai difficile
credere che un imperatore onnipotente non abbia potuto trovare un sacerdote che
volesse accordargli sacrifici espiatori. Forse è ancora meno credibile
che Costantino, tutto preso dalla guerra, dalla sua ambizione, dai suoi
progetti, e circondato da adulatori, abbia trovato il tempo di provare rimorsi.
Zosimo aggiunge che un sacerdote egiziano, arrivato dalla Spagna, e che aveva
accesso all'imperatore, gli promise l'espiazione di tutti i suoi delitti nella
religione cristiana. Si è pensato che questo sacerdote fosse Osio,
vescovo di Cordova.
Comunque sia, Costantino si tenne a contatto con i cristiani, pur
continuando a restare semplice catecumeno, e rimandando il battesimo al momento
della morte. Egli fece costruire la città di Costantinopoli, che
diventò il centro dell'impero e della religione cristiana. Da allora la
Chiesa prese una forma augusta.
È da notare che dall'anno 314, prima che Costantino si
trasferisse nella nuova capitale, quelli che avevano perseguitato i cristiani
furono da questi puniti per le loro crudeltà. I cristiani gettarono la
moglie di Massimiano nell'Oronte, e sgozzarono i suoi parenti; massacrarono in
Egitto e in Palestina i magistrati che si erano dichiarati più avversi
al cristianesimo. La vedova e la figlia di Diocleziano, che si erano nascoste a
Tessalonica, furono riconosciute e i loro corpi vennero gettati in mare.
Sarebbe stato augurabile che i cristiani avessero dato meno retta allo spirito
di vendetta; ma Dio, che punisce secondo giustizia, volle che le mani di
cristiani si tingessero del sangue dei loro persecutori, non appena essi si
trovarono in libertà d'agire.
Costantino convocò e riunì in Nicea, di fronte a
Costantinopoli, il primo concilio ecumenico, presieduto da Osio. Vi si decise
la grande questione che agitava la Chiesa riguardo la divinità di
Gesù Cristo. Gli uni si facevano forti dell'opinione di Origene, che nel
capitolo VI Contro Celso aveva scritto: "Noi presentiamo le nostre
preghiere a Dio per tramite di Gesù, che sta nel mezzo tra le nature
create e la natura increata, che ci comunica la grazia del Padre suo, e
presenta le nostre preghiere al sommo Dio, in qualità di nostro
pontefice." Essi si rifacevano anche ad alcuni passi di san Paolo, che abbiamo
in parte già citati. Soprattutto si basavano su queste parole di
Gesù: "Mio padre è più grande di me," e
consideravano Gesù come il primogenito della creazione, come la
più pura emanazione dell'Essere supremo, ma non precisamente come Dio.
Gli altri, che erano ortodossi, allegavano passi più
conformi all'eterna divinità di Gesù. Questo, ad esempio:
"Mio padre ed io siamo una medesima cosa"; parole che i loro
avversari interpretavano come significanti: "Mio padre ed io abbiamo lo
stesso scopo, la stessa volontà; io non ho altri desideri che quelli di
mio padre." Alessandro, vescovo d'Alessandria, e, dopo di lui, Atanasio,
erano a capo degli ortodossi; ed Eusebio, vescovo di Nicomedia, con diciassette
altri vescovi, il prete Ario, e parecchi altri preti, erano del partito
opposto. Il dissidio si inasprì a tal punto che sant'Alessandro
trattò i suoi avversari da anticristi.
Infine, dopo moltissime dispute, lo Spirito Santo così
decise nel concilio, per bocca di 299 vescovi contro 18: "Gesù
è figlio unico di Dio, generato dal Padre, ossia dalla sostanza del
Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, consustanziale al Padre;
e noi crediamo anche nello Spirito Santo ecc." Questa la formula del
concilio. Si vede da questo esempio quanto i vescovi prevalessero sui semplici
preti: stando al rapporto dei due patriarchi d'Alessandria che scrissero la
cronaca di Alessandria in arabo, duemila persone del secondo ordine erano del
parere di Ario.
Ario fu esiliato da Costantino; ma anche Atanasio fu esiliato quasi
subito, e Ario venne richiamato a Costantinopoli; ma san Macario pregò
con tanto ardore Dio di far morire Ario prima che egli potesse entrare nella
cattedrale, che Dio esaudì la sua preghiera. Ario morì mentre si
recava in chiesa, nel 330. L'imperatore Costantino chiuse la propria vita nel
337. Affidò il suo testamento a un prete ariano e morì tra le
braccia del capo degli ariani Eusebio, vescovo di Nicomedia, dopo essersi fatto
battezzare sul letto di morte, e lasciando la Chiesa trionfante ma divisa.
I partigiani di Atanasio e quelli di Eusebio si fecero una guerra
crudele, e quello che vien chiamato arianesimo fu per molto tempo in vigore in
tutte le province dell'impero.
Giuliano, il filosofo, soprannominato l'Apostata, tentò di
conciliare tali divisioni, ma non ci riuscì.
Il secondo concilio universale fu tenuto a Costantinopoli nel 381.
Vi si precisò quello che il concilio di Nicea non aveva ritenuto
opportuno dire sullo Spirito Santo, aggiungendo alla formula di Nicea che
"lo Spirito Santo è Signore di vita, che procede dal Padre ed
è adorato e glorificato con il Padre e con il Figlio".
Solo verso il IX secolo la Chiesa latina stabilì per gradi
che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio.
Nel 431, il terzo concilio generale tenuto ad Efeso decise che
Maria era veramente Madre di Dio e che Gesù aveva due nature e una sola
persona. Nestorio, vescovo di Costantinopoli, che voleva che la Santa Vergine
fosse chiamata solo Madre di Cristo, fu dichiarato Giuda dal concilio, e la
duplice natura di Gesù fu ancora confermata dal concilio di Calcedonia.
Sorvolerò sui secoli successivi, che sono abbastanza noti.
Purtroppo, non ce ne fu una di queste dispute che non causasse guerre, e la
Chiesa fu sempre obbligata a combattere. Dio permise ancora, per mettere alla
prova la pazienza dei fedeli, che nel IX secolo, i greci e i latini rompessero
tra loro per sempre; e permise pure che in occidente avvenissero ventinove
sanguinosi scismi per la cattedra di Roma.
Intanto la Chiesa greca quasi per intero e tutta la Chiesa
d'Africa caddero sotto il dominio degli arabi, e poi dei turchi, i quali
elevarono la religione maomettana sulle rovine di quella cristiana. La Chiesa
romana sopravvisse, ma sempre macchiata del sangue di più di sei secoli
di discordie fra l'impero d'occidente e il papato. Tali discordie, d'altronde,
la resero potentissima. I vescovi e gli abati, in Germania, divennero tutti
principi, e i papi acquistarono poco a poco la sovranità assoluta su
Roma e in un territorio di cento leghe. Così Dio provò la sua
Chiesa con le umiliazioni, con i disordini e con lo splendore.
Questa Chiesa latina perdette nel secolo XVI metà della
Germania, la Danimarca, la Svezia, l'Inghilterra, la Scozia, l'Irlanda, la
Svizzera, l'Olanda; guadagnò in America, con le conquiste spagnole,
più territori di quanti ne perdette in Europa; ma, con un territorio
più vasto, ha molto meno sudditi.
La Provvidenza divina sembrava destinasse il Giappone, il Siam,
l'India e la Cina a schierarsi sotto l'autorità del papa, per
ricompensarlo dell'Asia minore, della Siria, della Grecia, dell'Egitto,
dell'Africa, della Russia e degli altri stati perduti di cui abbiamo parlato.
San Francesco Saverio, che portò il santo Vangelo nelle Indie orientali
e in Giappone, quando i portoghesi vi andarono a cercar mercanzie, fece un
grandissimo numero di miracoli tutti attestati dai Revv. Padri Gesuiti: alcuni
dicono che egli risuscitò nove morti; ma il Rev. P. Ribadeneira, nel suo
Fiore dei Santi, si limitò a dire che ne risuscitò
soltanto quattro: non sono pochi. La Provvidenza volle che in meno di cento
anni ci fossero migliaia di cattolici romani nelle isole del Giappone; ma il
diavolo seminò la zizzania in mezzo al buon grano. Nel 1638, i cristiani
ordinarono una congiura seguita da una guerra civile, nella quale furono tutti
sterminati. Allora il paese chiuse i suoi porti a tutti gli stranieri,
eccettuati gli olandesi, considerati alla stregua di semplici mercanti, e non
di cristiani, e che sulle prime furono obbligati a calpestare la croce per
ottenere il permesso di vendere le loro mercanzie nella prigione dove li si
rinchiuse, quando sbarcarono a Nagasaki.
In Cina la religione cattolica, apostolica romana fu proscritta in
epoca recente, ma in modo meno crudele. I Revv. Padri Gesuiti non avevano, a
dire il vero, risuscitato dei morti alla corte di Pechino: si erano limitati a
insegnare l'astronomia, a fondere cannoni e a diventare mandarini. Le loro
sciagurate dispute con i domenicani e con altri scandalizzarono a tal punto il
grande imperatore Yong-Cing che quel sovrano, che era la giustizia e la
bontà in persona, fu tanto cieco da non volere più permettere che
si insegnasse la nostra santa religione, sulla quale i nostri missionari non si
trovavano d'accordo. Egli li cacciò con paterna bontà, fornendo loro
viveri e veicoli fino ai confini del suo impero.
Tutta l'Asia, tutta l'Africa, metà dell'Europa, tutto
ciò che appartiene agli inglesi e agli olandesi in America, tutte le
tribù nomadi americane non sottomesse, tutte le terre australi, che sono
la quinta parte del globo, sono rimaste preda del demonio, affinché si
avverasse il santo detto: "Molti sono i chiamati, pochi gli eletti."
Se è vero che sulla terra vivono circa 1600 milioni di
uomini, come sostengono alcuni studiosi, la Santa chiesa romana cattolica
universale ne possiede all'incirca sessanta milioni: ossia più della
ventiseiesima parte degli abitanti del mondo conosciuto.
Non pretendo parlare qui della critica degli scoliasti, che restaura
e commenta, rendendola oscura, la parola di un autore antico, che prima si
capiva benissimo. Né voglio accennare a quelle vere critiche che hanno reso
chiara quanto più possibile la storia e la filosofia antiche. Mi
riferisco a quelle critiche che appartengono alla satira.
Un amatore di letteratura leggeva un giorno con me il Tasso; mise
gli occhi su questa ottava:
Chiama gli abitator dell'ombre eterne
il rauco suon de la tartarea tromba.
Treman le spaziose atre caverne;
e l'aer cieco a quel rumor rimbomba:
né sì stridendo mai da le superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né sì scossa già mai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.
Egli lesse poi a caso parecchie ottave di questa forza e armonia:
"Ah! È dunque questo," esclamò, "ciò che il
vostro Boileau chiama "orpello"? Così dunque pretende di
sminuire un grand'uomo che viveva cent'anni prima di lui, per meglio innalzare
un altro grand'uomo, Virgilio, vissuto milleseicento anni prima, e che avrebbe
certo reso giustizia al Tasso?" "Consolatevi," risposi,
"prendiamo i melodrammi di Quinault."
Trovammo subito, ad apertura di libro, di che incollerirci con la
critica: ecco qua il mirabile poema Armide, in cui leggemmo questi
versi:
Sidonie
La haine est affreuse et barbare,
L'amour contraint les
coeurs dont il s'empare
À souffrir des maux rigoureux.
Si votre sort est en votre puissance,
Faites choix de
l'indifférence:
Elle assure un sort plus
heureux.
Armide
Non, non, il ne m'est pas possible
De passer de mon trouble en un état paisible,
Mon coeur ne se peut plus calmer;
Renaud m'offense trop, il n'est que trop
aimable;
C'est pour moi désormais un choix
indispensable
De le haïr ou de l'aimer.
Leggemmo tutto il dramma, in cui il genio del Tasso riceve ancora
nuove grazie dal talento di Quinault. "Ebbene!" dissi al mio amico,
"questo è proprio quel Quinault che Boileau si sforzò sempre
di considerare come il più spregevole degli scrittori; persuase persino
Luigi XIV che questo scrittore grazioso, commovente, patetico, elegante, non
aveva altri meriti se non quelli che traeva dalla musica di Lulli."
"È facile capirlo," rispose il mio amico; "Boileau non
era geloso del musicista, ma del poeta. Che credito possiamo dare al giudizio
di un uomo che, per rimare un verso che finisce in aut, denigra ora
Boursault, ora Hénault, ora Quinault, a seconda che si trovi in buoni o cattivi
rapporti con questi signori?
"Ma, per non lasciar raffreddare il vostro zelo contro
l'ingiustizia, ecco, affacciatevi a quelle finestre, guardate quella bella
facciata del Louvre, con cui Perrault si è immortalato: quell'uomo di
merito era fratello di un dottissimo accademico, con cui Boileau aveva avuto
qualche scontro: ed eccone abbastanza perché Perrault venisse trattato da
architetto ignorante."
Il mio amico, dopo essere rimasto un poco assorto, riprese
sospirando: "Cosiffatta è la natura umana. Il duca di Sully, nelle
sue Memorie, scrive che il cardinale D'Ossat e il segretario di stato Villeroi
furono dei cattivi ministri; e Louvois le pensava tutte per non accordare la
sua stima al grande Colbert."
"Ma essi almeno non stampavano nulla l'uno contro l'altro,
finché erano in vita!" risposi, "questa è una sciocchezza
riservata alla letteratura, alla procedura penale e alla teologia."
"Abbiamo avuto un uomo di merito: Lamotte, che compose
bellissime strofe:
Quelquefois au feu qui la charme
Résiste une jeune beauté,
Et contre elle-même elle s'arme
D'une pénible fermeté.
Hélas! cette contrainte extréme
La prive du vice qu'elle aime
Pour fuir la honte qu'elle hait.
Sa sévérité n'est que faste,
Et l'honneur de passer pour chaste
La résout à l'être en effet.
En vain ce sévère stoïque,
Sous mille défauts abattu,
Se vante d'une âme héroïque
Toute vouée à la vertu:
Ce n'est point la vertu qu'il aime;
Mais son coeur, ivre de lui-même,
Voudrait usurper les autels,
Et par sa sagesse frivole
Il ne veut que parer l'idole
Qu'il offre au culte des mortels.
Les champs de Pharsale et d'Arbelle
IOnt vu triompher deux vainqueurs,
L'un et l'autre digne modèle
Que se proposent les grands coeurs.
Mais le succès a fait leur gloire;
Et, si le sceau de la victoire
N'eût consacré ces demi-dieux,
Alexandre, aux yeux du vulgaire,
N'aurait été qu'un téméraire,
Et César qu'un séditieux.
"Questo autore," disse, "era un saggio che
prestò più di una volta il fascino dei versi alla filosofia. Se
ci avesse dato sempre strofe simili, sarebbe il primo dei poeti lirici; eppure,
proprio mentre componeva questi bei brani, uno dei suoi contemporanei lo
chiamava
Certain oison, gibier de basse-cour.
"In un altro passo dice di Lamotte:
De ses discours l'ennuyeuse beauté.
"E in un altro:
... Je n'y vois qu'un défaut:
C'est que l'auteur les devait faire en prose.
Ces odes-là sentent bien le Quinault.
"Lo perseguita in ogni suo scritto: sempre gli rimprovera
l'aridità e il difetto d'armonia. Sareste curioso di vedere le odi che
scrisse, qualche anno dopo, questo stesso censore che giudicava Lamotte
dall'alto in basso e lo denigrava da vero nemico? Leggete:
Cette influence souveraine
N'est pour lui qu'une illustre chaîne
Qui l'attache au bonheur d'autrui;
Tous les brillants qui l'embellissent,
Tous les talents qui l'ennoblissent,
Sont en lui, mais non pas à lui.
Il n'est rien que le temps n'absorbe, ne dévore,
Et les faits qu'on ignore
Sont bien peu différents des faits non
avenus.
La bonté qui brille en elle
De ses charmes les plus doux
Est une image de celle
Qu'elle voit briller en vous.
Et, par vous seule enrichie,
Sa politesse, affranchie
Des moindres obscurités,
Est la lueur réfléchie
De vos sublimes clartés.
Ils ont vu par ta bonne foi
De leurs peuples troublés d'effroi
ILa crainte heureusement déçue,
Et déracinée à jamais
La haine si souvent reçue
En survivance de la paix.
Dévoile a ma vue empressée
Ces déités d'adoption,
Synonymes de la pensée,
Symboles de l'abstraction.
N'est-ce pas une fortune,
Quand d'une charge commune
Deux moitiés portent le faix,
Que la moindre le réclame,
Et que du bonheur de l'âme,
Le corps seul fasse les frais?
"Certo," disse allora il mio giudizioso amatore della
letteratura, "non bisognava dare opere così detestabili come
modelli a chi si criticava con tanta acredine; sarebbe stato meglio lasciare il
proprio avversario godere in pace del suo merito, e conservare quello che si
aveva. Ma che volete? Il genus irritabile vatum è malato di
quella stessa bile che lo tormentava in passato. Il pubblico perdona queste
miserie agli uomini di talento, perché non pensa che a divertirsi. Vede, in
un'allegoria intitolata Plutone, dei giudici condannati ad essere
scorticati e a sedere, negli inferi, su seggi ricoperti della loro pelle,
anziché di gigli; il lettore non si preoccupa di sapere se essi lo meritino o
no, se il querelante che li cita davanti a Plutone abbia torto o ragione. Legge
quei versi solo per il suo piacere; se gliene danno, non chiede altro; se gli
dispiacciono, lascia lì l'allegoria e non farebbe un solo passo per far
confermare o annullare la sentenza.
"Le inimitabili tragedie di Racine sono state tutte
criticate, e molto negativamente: però dai suoi rivali. Gli artisti sono
i giudici competenti dell'arte, è vero; ma sono quasi sempre dei giudici
corrotti.
"Un ottimo critico dovrebbe essere un artista di gran cultura
e di gran gusto, senza pregiudizi e senza invidia. Ma e difficile
trovarlo."
Che un giovane contadino, cercando delle asine, trovi un regno,
non è un fatto molto comune; che un altro contadino guarisca il suo re da
un accesso di follia suonando l'arpa, è un fatto quasi incredibile; ma
che quel piccolo suonatore d'arpa diventi re perché ad un angolo della strada
s'è trovato davanti un prete di villaggio che gli ha versato sul capo
una bottiglia d'olio d'oliva, questo è un fatto davvero prodigioso.
Quando e da chi furono scritte tali meraviglie? Io non lo so, ma
sono ben sicuro che non furono scritte né da un Polibio, né da un Tacito.
Riverisco profondamente quel degno e buon giudeo, chiunque sia stato, che
scrisse la storia vera del potente regno degli ebrei per l'istruzione
dell'universo, sotto la dettatura del Dio che lo ispirò; ma mi duole
vivamente che il mio amico David cominci col radunare una banda di ladroni in
numero di quattrocento, che alla testa di questa truppa di gentiluomini si
accordi con Abimelec, il gran sacerdote, il quale lo arma con la spada di Golia
e gli dà i pani consacrati (I Re, XXI, 13).
Sono anche un po' scandalizzato che David, l'unto del Signore,
l'uomo secondo il cuore di Dio, ribellatosi a Saul, altro unto del Signore, se
ne vada con quattrocento banditi a taglieggiare il paese, a derubare quel
brav'uomo di Nabal, e che immediatamente dopo costui muoia e David ne sposi
subito la vedova. (I Re, XXV, 10-11).
Provo qualche scrupolo per la sua condotta col re Achish,
possessore, se non sbaglio, di cinque o sei villaggi nel cantone di Gat. David,
allora, alla testa di seicento banditi, compiva scorrerie contro gli alleati
del suo benefattore Achish; saccheggiava tutto, ammazzava tutti, vecchi, donne,
bambini, lattanti. E perché sgozzava i lattanti? "Perché," dice il
divino autore giudeo, "temeva che questi lattanti avrebbero raccontato le
sue imprese a re Achish" (I Re, XXVII, 8-9-11).
I banditi si adirano contro di lui, lo vogliono lapidare. Che fa
allora questo Mandrin giudeo? Consulta il Signore. E il Signore gli risponde
che deve andare ad attaccare gli Amaleciti: così i suoi banditi vi
guadagneranno un buon bottino e si arricchiranno (I Re, XXX).
Intanto, l'unto del Signore, Saul, perde una battaglia contro i
filistei e si fa ammazzare. Un ebreo ne porta la notizia a David. David, che a
quanto pare non aveva un soldo da dare come mancia al corriere, per tutta
ricompensa lo fa assassinare (II Re, I, 10).
Isboset succede a suo padre Saul. David è abbastanza forte
per fargli guerra; alla fine Isboset viene assassinato.
David s'impadronisce di tutto il regno: sorprende la piccola
città o villaggio di Rabbat, e ne fa morire tutti gli abitanti con
supplizi abbastanza eccezionali; segandoli in due, straziandoli con erpici di
ferro, bruciandoli in forni da mattoni: un modo di fare la guerra davvero
nobile e generoso (II Re, XII).
Dopo queste belle imprese, il paese è afflitto da una
carestia che dura tre anni. Lo credo bene, perché, dato il modo con cui il buon
David faceva la guerra, le terre non dovevano essere molto ben seminate. Si
consulta il Signore e gli si domanda perché c'è la carestia. La risposta
sarebbe stata molto facile: senza dubbio perché, in un paese che produce a
stento del grano, quando si son fatti cuocere i contadini in forni da mattoni e
li si è segati in due, restano poche braccia per coltivare la terra;
invece il Signore risponde che è perché Saul tempo prima aveva ucciso
dei Gabaoniti.
Che fa allora il buon David? Riunisce i Gabaoniti; dice loro che
Saul aveva avuto gran torto di fare loro la guerra, che Saul non era come lui
un uomo secondo il cuore di Dio, e che era giusto punire la sua stirpe; e
così dà loro da ammazzare sette nipotini di Saul, i quali furono
impiccati perché c'era la carestia. (II Re, XXI).
È un piacere vedere come quell'imbecille di don Calmet
giustifichi e canonizzi tutte queste azioni, che farebbero fremere d'orrore se
non fossero incredibili.
Non parlerò qui dell'assassinio abominevole di Uria e
dell'adulterio di David con Betsabea: la storia è abbastanza nota, e le
vie del Signore sono così diverse da quelle degli uomini ch'egli permise
che Gesù Cristo discendesse da quell'infame Betsabea, pur restando
purificato da quel santo mistero.
Ora, non domando come mai il predicatore Jurieu abbia avuto
l'insolenza di perseguitare il saggio Bayle per non aver approvato tutte le
azioni del buon re David; ma domando come si sia potuto permettere che un
miserabile come Jurieu molestasse un uomo come Bayle.
Percorrete tutta la terra: troverete che il furto, l'omicidio, la
calunnia sono considerati delitti che la società condanna e reprime; ma
quello che è approvato in Inghilterra, e condannato in Italia, deve essere
punito in Italia come un attentato contro l'intera umanità? È
questo che io chiamo "delitto locale". Ciò che è
criminale solo entro la cerchia di alcune montagne, o tra due fiumi, non esige
forse dai giudici più indulgenza di quegli attentati che suscitano
orrore in tutti i paesi? Il giudice non dovrebbe dire a se stesso: "Non
oserei punire a Ragusa quel che punisco a Loreto"? Questa riflessione non
dovrebbe addolcire nel suo cuore quella durezza che egli troppo facilmente ha
contratto nel lungo esercizio del suo ufficio?
Sono note le Kermesses della Fiandra: nel secolo scorso
arrivavano a un'indecenza che poteva disgustare occhi non abituati a simili
spettacoli.
Ecco come si celebrava la festa di Natale in alcune città.
Per primo appariva un giovanotto seminudo, con le ali sulla
schiena; recitava l'Ave Maria a una ragazza che gli rispondeva
"fiat", e l'angelo la baciava sulla bocca. Poi un bambino, rinchiuso
in un gran gallo di cartone, gridava, imitando il canto del gallo: "Puer
natus est nobis." Un grosso bove, muggendo, diceva "ubi?", che
pronunziava "oubi". Una pecora belava forte: "Bethleem". Un
asino ragliava: "Hihànus", per significare eamus; una
lunga processione, preceduta da quattro buffoni con sonagli e bastoni, chiudeva
il corteo. Restano ancora oggi tracce di queste devozioni popolari, che presso
popoli più istruiti sarebbero considerate profanazioni. Uno svizzero di
cattivo umore, e forse più ubriaco di coloro che facevano la parte del
bove e dell'asino, si prese a parole con costoro a Louvanio; ci fu uno scambio
di botte; si voleva far impiccare lo svizzero, che si salvò a stento.
Lo stesso uomo ebbe una violenta lite all'Aja, in Olanda, per aver
preso apertamente le difese di Barneveldt contro un fanatico gomarista. Fu
messo in prigione ad Amsterdam, per aver detto che i preti sono il flagello
dell'umanità e la fonte di tutti i nostri mali. "Ma come!"
diceva. "Se uno crede che le buone opere possono servire alla nostra
salvezza, finisce in galera; se si fa beffe d'un gallo e d'un asino, rischia la
forca." Questa avventura, per quanto burlesca, dimostra abbastanza
chiaramente che si può essere reprensibili in uno o due punti del nostro
emisfero, ed essere del tutto innocenti nel resto della terra.
Di tutti gli scritti giunti fino a noi, il più antico
è quello di Omero: è qui che si trovano i costumi
dell'antichità profana: rozzi eroi, rozzi dei, fatti a immagine
dell'uomo; ma vi si trovano anche i germi della filosofia, e soprattutto l'idea
del destino, che è signore degli dei, come gli dei sono i signori del
mondo.
Invano Giove vorrebbe salvare Ettore: consulta i Fati, pesa su una
bilancia i destini di Ettore e di Achille; si rende conto che il troiano deve
assolutamente essere ucciso dal greco, e non può opporsi; e da quel
momento Apollo, il genio protettore di Ettore, è obbligato ad
abbandonarlo. Non che Omero non prodighi spesso nel suo poema idee del tutto
contrarie, secondo il privilegio dell'antichità, ma, infine, è il
primo in cui si trovi la nozione di destino. Ai suoi tempi, essa era dunque
molto diffusa.
I farisei, presso il piccolo popolo ebreo, non adottarono tale
concetto che molti secoli dopo: infatti i farisei, che furono i primi uomini
istruiti fra i giudei, erano molto "moderni".
Mischiarono in Alessandria una parte dei dogmi degli stoici con le
antiche idee ebraiche. San Girolamo pretende anzi che la loro setta non sia
stata di molto anteriore alla nostra era volgare.
I filosofi non ebbero mai bisogno né di Omero né dei farisei per
convincersi che tutto accade secondo leggi immutabili, che tutto è
preordinato, che tutto è un effetto necessario.
O il mondo sussiste per sua propria natura, per le sue leggi
fisiche, o è stato formato da un Essere supremo secondo le sue leggi
superne: nell'un caso o nell'altro queste leggi sono immutabili; nell'un caso o
nell'altro, tutto è necessario; i corpi gravi tendono verso il centro
della terra, senza poter tendere a riposarsi nell'aria; i peri non possono mai
fruttare ananassi; l'istinto di uno spaniel non può essere l'istinto di
uno struzzo. Tutto è predisposto, ingranato e limitato.
L'uomo non può avere che un certo numero di denti, di
capelli e di idee; e viene il momento in cui perde necessariamente i suoi
denti, i suoi capelli e le sue idee.
È contraddittorio credere che ciò che fu ieri non
sia stato, che ciò che è oggi non sia; ed è altrettanto
contraddittorio credere che ciò che deve essere possa non dover essere.
Se tu potessi mutare il destino di una mosca, non ci sarebbe
nessuna ragione che potrebbe impedirti di mutare il destino di tutte le altre
mosche, di tutti gli altri animali, di tutti gli uomini, di tutta la natura:
alla fine ti troveresti più potente di Dio.
Certi imbecilli dicono: "Il mio medico ha salvato mia zia da
una malattia mortale: l'ha fatta vivere dieci anni più di quanti ne
avrebbe dovuto vivere." Altri, che fanno i saputi, dicono "L'uomo
accorto foggia lui stesso il proprio destino."
Nullum numen abest, si sit prudentia, sed nos
te facimus, fortuna, deam coeloque locamus.
Ma spesso l'uomo accorto soccombe al suo destino, anziché
foggiarselo; è il destino che fa gli uomini accorti.
Certi profondi politici sostengono che, se Cromwell, Ludlow,
Ireton, e una dozzina di altri parlamentari fossero stati assassinati otto
giorni prima che venisse decapitato Carlo I, questo re avrebbe potuto vivere
ancora e morire poi nel suo letto: hanno ragione; potrebbero anche aggiungere
che se tutta l'Inghilterra fosse stata inghiottita dal mare, quel monarca non
sarebbe morto sul patibolo nei pressi di Whitehall; ma i fatti erano ordinati
in modo che Carlo dovesse avere il collo mozzato.
Il cardinale d'Ossat era senza dubbio più prudente di un
pazzo delle Petites-Maisons; ma non è anche evidente che gli organi del
saggio d'Ossat erano diversi da quelli del pazzo, così come gli organi
di una volpe sono differenti da quelli di una gru e di un'allodola?
Il tuo medico ha salvato tua zia; ma è certo che in questo
egli non ha contraddetto l'ordine naturale; lo ha seguito. È chiaro che
tua zia non poteva fare a meno di nascere in una determinata città, non
poteva fare a meno di avere in un determinato momento una certa malattia; che
il medico non poteva essere altrove che nella città dov'era; che tua zia
doveva chiamarlo, e che egli doveva prescriverle le droghe che
l'hanno guarita.
Un contadino crede che sia grandinato per puro caso nel suo campo;
ma il filosofo sa che il caso non esiste, e che era impossibile, data la
costituzione di questo mondo, che quel giorno, in quel luogo, non grandinasse.
C'è gente che, spaventata da questa verità,
l'accetta soltanto a mezzo, come quei debitori che offrono la metà ai
loro creditori, e chiedono respiro per il resto. Ci sono - dicono - avvenimenti
necessari, e altri che non lo sono. Sarebbe ben strano che una parte di questo
mondo fosse preordinata e l'altra no; che una parte di quanto accade dovesse
veramente accadere, e un'altra di quanto accade non dovesse accadere. Se la si
esamina da vicino, si vede che la dottrina contraria a quella del destino
è assurda; ma c'è molta gente destinata a ragionare male, altri a
non ragionare affatto, altri a perseguitare coloro che ragionano.
C'è gente che vi dice: "Non credete al fatalismo;
perché allora (tutto sembrandovi inevitabile) vi guarderete dal lavorare;
marcirete nell'indifferenza; non amerete né le ricchezze né gli onori, né le
lodi; non vorrete acquistare nulla; vi crederete senza merito come senza
potere; nessun talento sarà più coltivato, tutto perirà
per apatia."
Non temete, signori miei; noi avremo sempre passioni e pregiudizi,
perché il nostro destino è di essere soggetti ai pregiudizi e alle
passioni; e dunque, potremo ben sapere che non dipende da noi possedere grandi
meriti e gran talenti, come non dipende dalla nostra volontà l'avere
capelli ben radicati e una bella mano; potremo essere convinti che non dobbiamo
attribuirci nessun merito e tuttavia saremo sempre vanitosi.
Io ho necessariamente la passione di scrivere questo; tu hai la
passione di condannarmi: siamo entrambi egualmente inutili, egualmente balocchi
del destino. La tua natura è di fare il male, la mia è d'amare la
verità e di pubblicarla tuo malgrado.
Il gufo, che si nutre di topi dentro il suo rifugio, disse
all'usignolo: "Piantala di cantare fra le tue belle fronde e vieni nel mio
buco, affinché ti divori." E l'usignolo rispose: "Io sono nato per
cantare qui, e per farmi beffe di te."
Ora mi chiedete a cosa si riduce la libertà. Non vi
capisco: non so cosa sia questa libertà di cui parlate; avete consumato
tanto di quel tempo a disputare sulla sua natura che certamente non ne sapete
niente. Se volete (o piuttosto se potete) esaminare pacatamente con me che
cos'è, passate alla lettera L.
Sotto l'impero di Arcadio, Logomaco, teologo di Costantinopoli,
andò nella Scizia e si fermò ai piedi del Caucaso, nelle fertili
pianure di Zefirim, alle frontiere della Colchide. Il buon vecchio Dondindac
era nel suo basso salone tra il grande ovile e il vasto granaio; stava in
ginocchio con la moglie, i cinque figli e le cinque figlie, i parenti e i
servitori, e tutti cantavano le lodi del Signore, dopo un pasto frugale.
"Che fai, idolatra?" gli disse Logomaco. "Io non
sono idolatra," disse Dondindac. "Non puoi non essere idolatra,"
disse Logomaco, "poiché sei scita e non greco. Dimmi un poco, che cosa
cantavi nel tuo barbaro idioma di Scizia?" "Tutte le lingue sono
uguali agli orecchi di Dio," rispose lo scita: "cantavamo le sue
lodi." "Questa è proprio straordinaria," ribatté il
teologo: "una famiglia scita che prega Dio senza essere stata istruita da
noi!" Ben presto s'impegnò in una conversazione con lo scita
Dondindac: poiché il teologo sapeva un po' di scita e l'altro un po' di greco.
Questa conversazione è stata ritrovata in un manoscritto conservato
nella biblioteca di Costantinopoli.
LOGOMACO
Vediamo se sai il tuo catechismo. Perché preghi Dio?
DONDINDAC
Perché è giusto adorare l'Essere supremo, che ci elargisce
tutti i suoi beni.
LOGOMACO
Mica male per un barbaro! E che cosa gli chiedi?
DONDINDAC
Lo ringrazio dei beni di cui godo, e anche dei mali con cui mi
mette alla prova; ma mi guardo dal chiedergli qualcosa: egli sa meglio di me
quel che ci occorre, e del resto temerei di chiedergli il bel tempo mentre il
mio vicino gli sta chiedendo la pioggia.
LOGOMACO
Ah, me l'aspettavo che avrebbe detto qualche sciocchezza.
Guardiamo le cose più dall'alto. Barbaro, chi ti ha detto che c'è
un Dio?
DONDINDAC
La natura tutta.
LOGOMACO
Questo non basta. Che idea hai di Dio?
DONDINDAC
L'idea del mio creatore, del mio signore, che mi
ricompenserà se faccio bene e mi punirà se faccio male.
LOGOMACO
Quisquilie, bazzecole! Veniamo all'essenziale. Dio è
infinito secundum quid, oppure secondo l'essenza?
DONDINDAC
Non vi capisco.
LOGOMACO
Bestia bruta! Dio è in un luogo, o fuori i qualsiasi luogo,
o in ogni luogo.
DONDINDAC
Non ne so niente... come preferite voi.
LOGOMACO
Ignorante! Può fare che ciò che è stato non
sia stato, che un bastone non abbia due estremità? Vede il futuro come
futuro o come presente? Come fa per trarre l'essere dal nulla e per annientare
l'essere?
DONDINDAC
Non ho mai esaminato queste cose.
LOGOMACO
Che zoticone! Suvvia, bisogna abbassarsi, proporzionarsi. Dimmi un
poco, amico mio, credi che la materia possa essere eterna?
DONDINDAC
E che m'importa che esista o non esista dall'eternità? Io
no, non esisto dall'eternità. Dio è sempre il mio signore: mi ha
dato la nozione della giustizia, devo seguirla; non voglio essere filosofo,
voglio essere uomo.
LOGOMACO
Che fatica con queste teste dure. Su, andiamo passo passo: che
cos'è Dio?
DONDINDAC
Il mio sovrano, il mio giudice, mio padre.
LOGOMACO
Non ti chiedo questo. Qual è la sua natura?
DONDINDAC
Di essere potente e buono.
LOGOMACO
Ma è corporeo o spirituale?
DONDINDAC
Come volete che lo sappia?
LOGOMACO
Come? Non sai che cosa è uno spirito?
DONDINDAC
Non ne ho idea: a che cosa mi servirebbe? Sarei più giusto
per questo? Sarei miglior marito, miglior padre, miglior padrone, miglior
cittadino?
LOGOMACO
Bisogna assolutamente insegnarti che cosa è uno spirito.
Ascolta: è, è, è... te lo dirò un'altra volta.
DONDINDAC
Ho paura che mi parlerete più di quel che non è che
di quel che è. Permettetemi di farvi a mia volta una domanda. Ho visto
una volta uno dei vostri templi: perché dipingete Dio con una gran barba?
LOGOMACO
È una domanda molto difficile, che richiede certe
istruzioni preliminari.
DONDINDAC
Prima di ricevere le vostre istruzioni, vi devo raccontare quel
che mi è accaduto un giorno. Avevo appena fatto costruire un capanno in
fondo al mio giardino; udii una talpa che ragionava con un maggiolino:
"Ecco una bella costruzione," diceva la talpa; "dev'essere stata
una talpa molto potente a far questo lavoro." "Voi scherzate,"
disse il maggiolino, "l'architetto di questo edificio è stato un
maggiolino pieno di genio." Da quella volta, ho deciso di non discutere
più.
I sociniani, che sono considerati dei bestemmiatori, non
riconoscono la divinità di Gesù Cristo. Essi osano pretendere,
con i filosofi dell'antichità, con gli ebrei, i musulmani e tanti altri
popoli, che l'idea di un Dio-uomo è mostruosa, che la distanza tra Dio e
l'uomo è infinita, e che è impossibile che l'Essere infinito,
immenso, eterno, sia stato contenuto in un corpo perituro.
Essi non temono di citare in loro favore Eusebio, vescovo di
Cesarca, il quale, nella sua Storia ecclesiastica, libro I cap. XI,
dichiara assurdo che la natura increata, immutabile di Dio onnipotente, assuma
la forma di un uomo. Citano i Padri della Chiesa, Giustino e Tertulliano, che
hanno detto la stessa cosa: Giustino nel suo Dialogo con l'ebreo Trifone,
e Tertulliano nel suo discorso Adversus Praxean.
Citano anche san Paolo, che non chiama mai Gesù Cristo
"Dio", e che lo chiama molto spesso "uomo". Spingono la
loro audacia fino al punto di affermare che i cristiani ci misero tre secoli
interi per formare a poco a poco l'apoteosi di Gesù, e che elevarono
questo stupefacente edificio seguendo l'esempio dei pagani, che avevano
divinizzato dei mortali. Dapprima secondo costoro, si considerò
Gesù solo come un uomo ispirato da Dio; poi, come una creatura
più perfetta delle altre. Qualche tempo dopo gli fu dato un posto al di
sopra degli angeli, come dice san Paolo. Ogni giorno aumentava la sua
grandezza. Diventò un'emanazione di Dio prodotta nel tempo. E non ci si
fermò lì, lo si fece nascere prima del tempo. Infine lo si fece
Dio, consustanziale a Dio. Crellius, Voquelsius, Natalis Alexander, Hornebeck
sostennero tutte queste bestemmie con argomenti che sbalordiscono i saggi e
pervertono i deboli. Fu soprattutto Fausto Socino a diffondere in Europa i semi
di questa dottrina; e, verso la fine del XVI secolo, poco mancò che non
stabilisse una nuova specie di cristianesimo: ce ne erano già più
di trecento specie.
Il 18 febbraio dell'anno 1763 dell'era volgare, entrando il sole
nella costellazione dei Pesci, fui trasportato in cielo, come sanno tutti i
miei amici. Non salii a cavallo della giumenta Borac di Maometto, non ebbi per
vettura il carro infiammato di Elia; non fui portato né sull'elefante del
siamese Sammonocodom, né sul cavallo di san Giorgio, patrono d'Inghilterra, né
sul porco di sant'Antonio: confesso ingenuamente che non so come feci quel
viaggio.
Immaginerete bene come restai sbalordito; ma quel che non vorrete
credere è che vidi giudicare tutti i morti. E chi erano i giudici?
Erano, non vi dispiaccia, tutti coloro che fecero del bene agli uomini:
Confucio, Solone, Socrate, Tito, gli Antonini, Epitteto, tutti i grandi uomini
che, avendo insegnato e praticato le virtù che Dio esige, sembravano i
soli in diritto di pronunciare le sue sentenze.
Non vi dirò su quali troni erano assisi, né quanti milioni
di esseri celesti erano prosternati davanti al creatore di tutti i mondi, né
quale folla di abitanti di questi innumerevoli mondi comparve davanti ai
giudici. Renderò conto, qui, soltanto di alcuni piccoli particolari,
molto interessanti, da cui fui colpito.
Osservai che ogni morto che perorava la propria causa e che
esibiva i propri buoni sentimenti, aveva accanto a sé i testimoni delle sue
azioni. Per esempio, quando il cardinale di Lorena si vantò d'aver fatto
accogliere alcune sue opinioni dal concilio di Trento, e, per premio della sua
ortodossia, chiese la vita eterna, subito apparvero attorno a lui venti
cortigiane o dame di corte, che portavano scritto sulla fronte il numero dei
loro convegni col cardinale. E si vedevano anche coloro che avevano gettato con
lui le fondamenta della Lega: tutti i complici dei suoi perversi disegni
venivano a circondarlo.
Di fronte al cardinale di Lorena era Calvino che si vantava, nel
suo rozzo dialetto, d'aver preso a calci l'idolo papale dopo che altri
l'avevano abbattuto. "Ho scritto contro la pittura e la scultura,"
diceva, "ho dimostrato nel modo più evidente che le buone opere non
servono a nulla e ho provato che è diabolico ballare il minuetto;
presto, buttate fuori di qui il cardinale di Lorena, e mettetemi a fianco di
san Paolo."
Mentre parlava, si vide accanto a lui un rogo ardente: uno
spaventevole spettro, che portava al collo una gorgiera spagnola mezzo
bruciata, uscì da quelle fiamme gridando orribilmente: "Mostro!
Mostro esecrabile, trema! Riconosci quel Serveto che facesti morire col
più atroce dei supplizi, perché aveva disputato con te sulla maniera in
cui tre persone possono costituire una sola sostanza!"
Tutti i giudici ordinarono allora che il cardinale di Lorena fosse
precipitato nell'abisso, ma che Calvino fosse punito ancor più
crudelmente.
Vidi una folla prodigiosa di morti che dicevano: "Ho creduto,
ho creduto"; ma sulla loro fronte era scritto: "Ho fatto"; ed
erano condannati.
Il gesuita Le Tellier apparì, fiero, con in mano la bolla Unigenitus.
Ma al suo fianco sorse improvvisamente un mucchio di duemila mandati d'arresto.
Un giansenista gli diede fuoco: Le Tellier fu bruciato fino alle ossa; e il
giansenista, che non aveva meno intrigato di lui, ebbe la sua parte di
bruciature. Vedevo arrivare da ogni parte schiere di fachiri, di talapoini, di
bonzi, di monaci bianchi, neri e grigi che si eran tutti immaginati che, per fare
la corte all'Essere supremo, bisognasse o cantare, o frustarsi, o camminare
nudi. Udii una voce terribile che chiedeva loro: "Che bene avete fatto
agli uomini?" A queste parole seguì un cupo silenzio; nessuno
osò rispondere, e tutti furono spinti nel manicomio dell'universo:
è uno dei più grandi edifici che si possano immaginare.
Un tale gridava: "È alle metamorfosi di Xaca che
bisogna credere." E un altro: "No! A quelle di Sammonocodom!"
"Bacco fermò il sole e la luna," diceva questo. "Gli dei
risuscitarono Pelope," diceva quello. "Ecco la bolla In coena
Domini," annunciava l'ultimo venuto. E l'usciere dei giudici gridava:
"Al manicomio! Al manicomio!"
Quando tutti questi processi furono conclusi, udii promulgare
questa sentenza: "In nome dell'eterno creatore, conservatore,
remuneratore, vendicatore, misericorde eccetera, sia noto a tutti gli abitanti
dei centomila milioni di miliardi di mondi che ci piacque creare, che noi non
giudicheremo mai nessuno dei detti abitanti sulle sue idee contorte, ma unicamente
sulle sue azioni; perché tale è la nostra giustizia."
Confesso che fu la prima volta che sentii un tale editto: tutti
quelli che avevo letto sul granellino di sabbia ove sono nato finivano invece
con queste parole: "Perché tale è il nostro beneplacito."
Che cosa deve un cane a un cane, e un cavallo a un cavallo?
Niente, nessun animale dipende dal suo simile; ma l'uomo, che ha ricevuto il
raggio della Divinità chiamato ragione, che frutto ne ha? Quello
d'essere schiavo in quasi tutta la terra.
Se questa terra fosse quella che sembra dover essere, vale a dire
se l'uomo vi trovasse ovunque una sussistenza facile e assicurata e un clima
confacente alla sua natura, è chiaro che sarebbe impossibile ad un uomo
asservirne un altro. Se la terra abbondasse di frutti salutari; se l'aria che
deve contribuire alla nostra vita non ci desse anche le malattie e la morte; se
l'uomo non avesse bisogno d'altro alloggio e letto se non quelli dei daini e
dei caprioli, allora i Gengis Khan e i Tamerlani non avrebbero altri servi che
i loro figli, i quali sarebbero abbastanza umani da aiutarli in vecchiaia.
In questo stato così naturale di cui godono tutti i
quadrupedi, gli uccelli e i rettili, l'uomo sarebbe felice come loro, e il
predominio diventerebbe una chimera, un'assurdità cui nessuno potrebbe
pensare: perché infatti cercare dei servi quando non si ha bisogno di nessun
servizio?
Se poi passasse in mente a qualche individuo dalla natura
tirannica e dal braccio nerboruto di asservire il suo vicino meno forte di lui,
la cosa sarebbe impossibile: l'oppresso si troverebbe lontano cento leghe prima
che l'oppressore riuscisse a prendere le sue misure.
Tutti gli uomini sarebbero dunque necessariamente uguali se
fossero senza bisogni. La miseria connessa alla nostra specie subordina un uomo
a un altro uomo; la vera sciagura non è l'ineguaglianza, è la
dipendenza.
Importa ben poco che un tale si chiami Sua Altezza, e il talaltro
Sua Santità; ma è duro servire l'uno o l'altro.
Una famiglia numerosa ha coltivato un buon terreno; due famigliole
vicine hanno dei campi ingrati e ribelli: è naturale che le due famiglie
povere servano la famiglia ricca, oppure che ne sgozzino tutti i suoi membri,
questo è chiaro. Una delle due famiglie indigenti va ad offrire le sue
braccia alla ricca per avere del pane; l'altra l'aggredisce ed è
battuta. La famiglia serva è l'origine dei domestici e dei manovali; la
famiglia battuta è l'origine degli schiavi.
È impossibile, nel nostro disgraziato globo, che gli uomini
che vivono in società non siano divisi in due classi, l'una di
oppressori, l'altra di oppressi; e queste due classi si suddividono in mille, e
queste mille hanno ancora sfumature diverse.
Non tutti gli oppressi sono assolutamente infelici. La maggioranza
è nata in questo stato, e il lavoro continuo impedisce loro di soffrir
troppo della propria situazione; ma, quando non ne possono più, allora
si vedono le guerre, come quella del partito popolare contro il partito del
senato a Roma; quelle dei contadini in Germania, in Inghilterra, in Francia.
Tutte queste guerre finiscono, prima o poi, con l'asservimento del popolo,
perché i potenti hanno il denaro, e il denaro è padrone di tutto in uno
Stato: dico in uno Stato, perché le cose non vanno nello stesso modo da nazione
a nazione. La nazione che saprà meglio servirsi del ferro
soggiogherà sempre quella che avrà più oro e meno
coraggio.
Ogni uomo nasce con un'inclinazione piuttosto violenta per il
dominio, la ricchezza e i piaceri, e con altrettanta inclinazione per la
pigrizia: di conseguenza ogni uomo vorrebbe avere il denaro e le donne o le
figlie degli altri, esserne padrone, sottometterli a tutti i suoi capricci, e
non far niente, o a meno non fare nient'altro che cose molto piacevoli. Vedete
bene che con queste belle disposizioni, è tanto impossibile che gli
uomini siano uguali com'è impossibile che due predicatori o due
professori di teologia non siano gelosi l'uno dell'altro.
Il genere umano, così com'è, non può
sussistere, a meno che non ci sia un'infinità di uomini utili che non
possiedano niente del tutto: perché, certamente, un uomo che se la passa bene
non lascerà la propria terra per venire ad arare la vostra; e, se avete
bisogno di un paio di scarpe, non sarà certo un ministro a farvele.
L'eguaglianza è dunque ad un tempo la cosa più naturale e la
più chimerica.
Poiché gli uomini, quando lo possono, sono eccessivi in tutto, si
è portata all'estremo quest'ineguaglianza; si è preteso in vari
paesi che non fosse lecito a un cittadino uscire dalla contrada in cui il caso
l'ha fatto nascere; il senso di questa legge è senza possibilità
di dubbio: Questo paese è tanto cattivo e così mal governato
che vietiamo a qualsiasi individuo di uscirne, per paura che ne escano tutti.
Comportatevi meglio: date a tutti i vostri sudditi la voglia di restare nel
vostro paese, e agli stranieri di venirci.
Ogni uomo, in fondo al cuore, ha il diritto di credersi
interamente eguale agli altri uomini; non ne consegue che il cuoco di un
cardinale debba ordinare al suo padrone di preparargli il pranzo; ma il cuoco
può dire: "Sono un uomo come il mio padrone; sono nato come lui
piangendo; egli morirà con le mie stesse angosce e con le stesse
cerimonie. Facciamo ambedue le stesse funzioni animali. Se i turchi
s'impadroniscono di Roma, e se allora io divento cardinale e il mio padrone
cuoco, lo prenderò al mio servizio." Tutto questo discorso è
ragionevole e giusto; ma aspettando che il gran Turco s'impadronisca di Roma,
il cuoco deve fare il suo dovere, o qualsiasi società umana è
sovvertita.
Quanto a colui che non è né cuoco di cardinale né riveste
alcuna carica statale; quanto al privato che non deve niente a nessuno, ed
è seccato d'essere ricevuto dappertutto con aria di protezione o di
disprezzo, e sa bene che parecchi monsignori non hanno né maggior cultura,
né maggior acume, né maggiore virtù di lui, e che alla fine si stufa di
fare anticamera, quale partito dovrà prendere? Quello di andarsene.
Questa parola greca significa "commozione di viscere,
agitazione interiore". I greci inventarono questa parola per indicare le
scosse dei nervi, la dilatazione e la contrazione degli intestini, le violente
palpitazioni del cuore, il corso precipitoso di quegli spiriti di fuoco che
salgono dalle viscere al cervello quando si è violentemente commossi?
Oppure si diede il nome di entusiasmo, di turbamento delle viscere
alle contorsioni di quella Pizia che, sul tripode di Delfi, riceveva lo spirito
di Apollo per una via che non sembra fatta altro che per ricevere dei corpi?
Cosa intendiamo, noi, per entusiasmo? Quante sfumature nei nostri
sentimenti! Approvazione, sensibilità, emozione, turbamento, affanno,
passione, impeto, demenza, furore, rabbia: ecco tutti gli stati per i quali
può passare questa povera anima umana.
Un geometra assiste a una tragedia commovente: nota soltanto che
è ben rappresentata. Un giovane al suo fianco è commosso e non
nota nulla; una donna piange; un altro giovane è talmente eccitato che,
per sua sventura, si mette a scrivere anche lui una tragedia: si è preso
la malattia dell'entusiasmo.
Il centurione o il tribuno militare, che consideravano la guerra
solo come un mestiere nel quale si poteva fare un po' di soldi, andavano
tranquilli a combattere, come un muratore sale su un tetto. Cesare piangeva
contemplando la statua di Alessandro.
Ovidio parlava d'amore con spirito; Saffo esprimeva l'entusiasmo
di questa passione; e se è vero che essa le costò la vita, fu
perché in lei l'entusiasmo si convertì in demenza.
Lo spirito di partito dispone in modo sbalorditivo all'entusiasmo:
non c'è fazione che non abbia i propri energumeni.
L'entusiasmo è soprattutto il retaggio della
religiosità male intesa. Il giovane fachiro che, nel dire le sue
preghiere, vede la punta del suo naso, si monta a poco a poco sino a credere
che, se si carica di catene del peso di cinquanta libbre, l'Essere supremo
gliene sarà molto grato. Si addormenta con la fantasia piena di Brahma,
e naturalmente lo vede in sogno. Qualche volta, fra il sonno e la veglia, dai
suoi occhi sprizzano scintille: vede Brahma splendente di luce, cade in estasi,
e questa malattia diventa spesso incurabile.
La cosa più difficile è il saper congiungere ragione
ed entusiasmo; la ragione consiste nel vedere sempre le cose come sono; chi,
nell'ubriachezza, vede doppio, è in quel momento privo di ragione.
L'entusiasmo è come il vino: può suscitare tanto
tumulto nei vasi sanguigni e così violente vibrazioni nei nervi, che la
ragione ne viene ottenebrata. Può anche causare soltanto leggere scosse,
che provocano nel cervello un'attività un poco più intensa del
normale: è quello che accade nei grandi moti d'eloquenza, e soprattutto
nella poesia sublime. L'entusiasmo ragionevole è il dono dei grandi
poeti.
Questo entusiasmo ragionevole è la perfezione della loro
arte; è quel che fece credere un tempo che essi fossero ispirati dagli
dei; ed è ciò che non fu mai detto degli altri artisti.
Come può la ragione governare l'entusiasmo? Un poeta
traccia dapprima l'ordito della sua opera; e la ragione guida la sua penna. Ma,
se vuole animare i personaggi e infondere loro la forza delle passioni, allora
l'immaginazione si accende e subentra l'entusiasmo; è come un corsiero
che prenda la mano, ma corra lungo una strada regolarmente tracciata.
(Di alcuni passi singolari di questo profeta, e alcune antiche
usanze)
Quasi tutti abbiamo capito, ormai, che non bisogna giudicare le
usanze antiche sul modello di quelle moderne: chi volesse riformare la corte di
Alcinoo nell'Odissea sul modello di quella del gran Turco o di Luigi
XIV, non sarebbe approvato dai dotti; e chi biasimasse Virgilio per aver
rappresentato il re Evandro coperto di una pelle d'orso e accompagnato da due
cani, mentre riceve degli ambasciatori, sarebbe un cattivo critico.
I costumi degli antichi ebrei sono ancor più diversi dai
nostri di quelli del re Alcinoo, di sua figlia Nausicaa e del buon Evandro.
Ezechiele, schiavo presso i caldei, ebbe una visione accanto al
fiumicello Chebar, che si perde nell'Eufrate. Non c'è da meravigliarsi
che egli abbia visto animali con quattro teste e quattro ali, con piedi di
vitello, né delle ruote che andavano da sole e avevano in sé lo spirito di
vita; anzi, questi simboli piacciono all'immaginazione. Ma molti critici si
sono ribellati contro l'ordine che il Signore gli dette di mangiare, per
trecentonovanta giorni, pane d'orzo, di frumento e di miglio, spalmato di
merda.
Il profeta esclamò: "Puah, puah, puah! la mia anima
non si è ancora mai contaminata." E il Signore gli rispose:
"Ebbene io ti concedo sterco di bove invece d'escrementi d'uomo:
impasterai di sterco il tuo pane."
Poiché non si usa affatto mangiare simile marmellata col pane, la
maggior parte degli uomini trovano tali ordini indegni della maestà
divina. Tuttavia bisogna riconoscere che la merda di vacca e tutti i diamanti del
Gran Mogol sono perfettamente uguali, non solo agli occhi di un essere divino,
ma a quelli di un vero filosofo; e in quanto alle ragioni che Dio poteva avere
per ordinare al profeta una colazione simile, non sta a noi indagarle.
Ci basta ricordare che questi comandamenti, che a noi sembrano
bizzarri, non apparvero tali agli ebrei. È vero che, ai tempi di san
Girolamo, la Sinagoga non permetteva la lettura di Ezechiele prima
dell'età di trent'anni; ma solo perché, ne capitolo XVIII, egli dice che
i figli non porteranno più l'iniquità dei padri, e non si
dirà più: "I padri mangiarono uva acerba, e i denti dei
figli si sono allegati."
In questo, Ezechiele si trovava in aperta contraddizione con
Mosè che, nel capitolo XXVIII dei Numeri, assicura che i figli si
portano addosso l'iniquità dei padri fino alla terza e quarta
generazione.
Ezechiele, nel capitolo XX, fa anche dire al Signore che Egli
dette agli ebrei "precetti non buoni". Ecco perché la Sinagoga
proibiva ai giovani una lettura che poteva far dubitare
dell'irrefragabilità delle leggi di Mosè.
I censori dei nostri giorni sono ancor più disorientati dal
capitolo XVI di Ezechiele: ecco come questo profeta si esprime per far
conoscere i delitti di Gerusalemme. Egli finge che il Signore parli a una
giovinetta così: "Quando tu nascesti, non ti fu reciso il cordone
ombelicale, non fosti detersa con sale, eri ignuda, e io ebbi pietà di
te. Sei diventata grande, il tuo seno s'è formato, t'è spuntato
il pelo; io sono passato, t'ho vista, ho capito che era giunto il tempo degli
amori; ho coperto la tua vergogna; mi sono steso su di te col mio mantello; sei
stata mia: io t'ho lavata, profumata, ben vestita, ben calzata; t'ho donato una
sciarpa di cotone, dei braccialetti, una collana; ti ho messo al naso una pietra
preziosa, degli orecchini alle orecchie, una corona sulla testa ecc. Allora,
confidando nella tua bellezza, hai fornicato per conto tuo con tutti i
passanti... Hai costruito un bordello... Ti sei prostituita perfino sulle
pubbliche piazze, aprendo le gambe davanti a tutti i passanti... Sei andata a
letto con gli egiziani... e infine hai anche pagato i tuoi amanti, hai fatto
loro dei doni perché fornicassero con te...; e, pagando, invece d'essere
pagata, hai fatto il contrario delle altre donne... Il proverbio dice:
"Tale la madre, tale la figlia", ed è quanto si dice di
te..."
Ancor più insorge il censore contro il capitolo XXIII. Una
madre aveva due figlie, che avevan perduto di buon'ora la loro
verginità: la maggiore si chiamava Oolla, la minore Ooliba: "Oolla
andò pazza per dei giovani signori, magistrati e cavalieri;
fornicò con gli egiziani fin dalla sua prima giovinezza... Ooliba, sua
sorella, fornicò ben più con ufficiali, magistrati e bei
cavalieri; mise a nudo la sua turpitudine, moltiplicò le sue fornicazioni,
ricercò con ardore gli amplessi di coloro che hanno il membro grosso
come quello di un asino, e che spandono la loro semenza come cavalli..."
Queste descrizioni, che scandalizzano tanti cervelli deboli,
stanno solo a significare le iniquità di Gerusalemme e di Samaria: le
espressioni, che ci sembrano troppo libere, non lo erano allora. La stessa
ingenuità si palesa senza timore in più di un passo della
Scrittura. Vi si parla spesso di aprire la vulva; i termini che servono a indicare
l'accoppiamento di Bòoz con Ruth, di Giuda con la nuora, non sono
affatto disdicevoli in ebraico, mentre lo sarebbero nella nostra lingua.
Non ci si copre con un velo quando non ci si vergogna della
propria nudità; perché a quei tempi si sarebbe dovuto arrossire nel
nominare i genitali, se quando qualcuno faceva una promessa a qualcun'altro gli
toccava, appunto, i genitali? Era un segno di rispetto, un simbolo di
fedeltà, come in altri tempi, da noi, i signori dei castelli mettevano
le loro mani tra quelle del loro sovrano.
Noi abbiamo tradotto i genitali con "coscia". Eleazaro
mette la mano sotto la coscia di Abramo, Giuseppe mette la mano sotto quella di
Giacobbe. Questo costume era antichissimo in Egitto. Gli egiziani erano
così lontani dal ritenere indecente quel che noi non osiamo né scoprire
né nominare, che portavano in processione un'enorme immagine del membro virile,
chiamato phallum, per ringraziare gli dei della bontà che essi
hanno di far servire questo membro alla propagazione del genere umano.
Tutto ciò dimostra che le nostre convenienze non sono
quelle degli altri popoli. In quale tempo, fra i romani, ci fu maggior
civiltà che nel secolo di Augusto? Eppure Orazio non teme di scrivere:
Nec metuo ne, dum futuo, vir rure recurrat.
Augusto si serve della stessa espressione in un epigramma contro
Fulvia.
Un uomo che, fra noi, pronunciasse la parola che corrisponde a futuo
sarebbe considerato come un facchino ubriaco. Questa parola e tante altre di
cui si servono Orazio e altri autori, ci sembra ancora più indecente
delle espressioni di Ezechiele. Liberiamoci da tutti i nostri pregiudizi quando
leggiamo gli antichi scrittori, o quando viaggiamo in paesi lontani. La natura
è la medesima dappertutto, e le usanze dappertutto diverse.
N.B. Un giorno incontrai ad Amsterdam un rabbino cui era molto
piaciuto questo capitolo: "Ah, amico mio," mi disse, "quanto ve
ne siamo grati. Avete fatto conoscere tutta la sublimità della legge
mosaica, il pasto d'Ezechiele, le sue belle attitudini quando giaceva sul
fianco sinistro. Oolla e Ooliba sono ammirevoli; sono tipi, fratello mio, tipi
che simboleggiano che un giorno il popolo ebreo sarà padrone di tutta la
terra; ma perché avete omesso tante altre cose che sono quasi della stessa forza?
Perché non avete rappresentato il Signore quando dice al saggio Osea, nel
secondo versetto del primo capitolo: "Osea, prendi una puttana, e fa' con
lei dei figli di puttana." Sono le sue precise parole. Osea si prese la
ragazza, ne ebbe un figlio, poi una bambina, poi ancora un maschio: ed era un
simbolo, un simbolo che durò tre anni. "Non basta," disse il
Signore, nel terzo capitolo, "devi prendere una donna che non sia solo
dissoluta, ma adultera." Osea ubbidì, però la cosa gli
costò quindici scudi e uno staio e mezzo di orzo; perché voi sapete che
nella terra promessa c'era pochissimo grano: Quale sarà il significato
di tutto ciò?" "Non lo so," risposi. "E io
nemmeno," disse il rabbino.
Si avvicinò un gran dotto, e ci disse che erano ingegnose
finzioni, molto affascinanti. "Ah, signore," gli rispose un giovane
istruito, "se volete delle finzioni, datemi retta, preferite quelle di
Omero, di Virgilio e di Ovidio. Chiunque ama le profezie di Ezechiele merita di
far colazione con lui."
Quando il duca di La Rochefoucauld ebbe scritto le sue massime
sull'amor proprio, ed ebbe messo in rilievo questa molla che tiene in piedi
l'uomo, un tale signor Esprit, dell'Oratoire, scrisse un libro capzioso,
intitolato De la fausseté des vertus humaines. In esso sostiene che non
esiste alcuna virtù; ma, per fortuna, termina ogni capitolo rinviandoci
alla carità cristiana. Così, secondo messer Esprit, né Catone, né
Aristide, né Marco Aurelio, né Epitteto erano gente perbene; gente perbene se
ne può trovare soltanto fra i cristiani. Fra i cristiani, non c'è
virtù se non fra i cattolici; fra i cattolici, bisogna ancora eccettuare
i gesuiti, nemici degli oratoriani; pertanto, la virtù non si troverebbe
che tra i nemici dei gesuiti.
Il signor Esprit comincia col dire che la prudenza non è
una virtù; infatti, argomenta, è spesso ingannata. È come
se si dicesse che Cesare non era un grande condottiero, perché fu sconfitto a
Durazzo.
Se il signor Esprit fosse stato un filosofo, non avrebbe
considerato la prudenza una virtù, ma un dono, una qualità utile,
felice; perché uno scellerato può essere prudentissimo, e ne ho
conosciuti di questa specie. Oh, la follia di pretendere che
Nul n'aura de vertu que nous et nos amis!
Che cos'è la virtù, amico mio? È il fare del
bene; fanne, e questo basterà. Sulle ragioni non staremo a indagare. E
che! Secondo te non ci sarebbe nessuna differenza fra il presidente De Thou e
Ravaillac, fra Cicerone e quel Popilio cui aveva salvato la vita, e che lo
decapitò per denaro? E dichiarerai che Epitteto e Porfirio erano dei
furfanti perché non seguirono i nostri dogmi? Una tale insolenza mi disgusta.
Non aggiungerò altro, per non lasciarmi trasportare dalla collera.
Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre,
come le furie alla collera. Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i
sogni per la realtà, e le immaginazioni per profezie, è un
entusiasta; chi sostiene la propria follia con l'omicidio è un fanatico.
Juan Diaz, ritiratosi a Norimberga, fermamente convinto che il papa fosse
l'Anticristo dell'Apocalisse e che avesse addosso il segno della Bestia, era
soltanto un entusiasta; suo fratello Bartolomeo Diaz, che partì da Roma
per andare ad assassinare santamente il proprio fratello, e lo uccise per amore
di Dio, era uno dei più abominevoli fanatici che mai la superstizione
abbia potuto produrre.
Poliuto, che va al tempio, in un giorno di solennità, per
rovesciare e infrangere le statue e i paramenti, è un fanatico meno
orribile di Diaz, ma non meno sciocco. Gli assassini del duca Francesco di
Guisa, di Guglielmo principe d'Orange, del re Enrico III, del re Enrico IV, e
tanti altri, erano energumeni malati della stessa rabbia di Diaz.
Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei
borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare,
sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini
che non andavano a messa.
Esistono fanatici di sangue freddo: sono i giudici che condannano
a morte coloro che non hanno commesso altro crimine che quello di non pensarla
come loro; e questi giudici sono tanto più colpevoli, tanto più
degni dell'esecrazione del genere umano, in quanto, non trovandosi in un
accesso di furore come i Clément, i Châtel, i Ravaillac, i Gérard, i Damiens,
potrebbero, ci sembra, ascoltare la ragione.
Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la
malattia è quasi incurabile. Ho visto certi epilettici che, parlando dei
miracoli di san Paride, a poco a poco, loro malgrado, prendevano fuoco; gli
occhi si infiammavano, le loro membra tremavano, il furore sfigurava loro il
viso, e avrebbero ammazzato chiunque li avesse contraddetti.
A questa malattia epidemica non c'è altro rimedio che lo
spirito filosofico, il quale, man mano diffondendosi, addolcirà
finalmente i costumi degli uomini, prevenendo gli accessi del male: perché, non
appena questo male fa dei progressi, bisogna correr via, e aspettare che l'aria
si sia purificata. Le leggi e la religione non bastano contro questa peste degli
animi; la religione, invece di essere per loro un alimento salutare, si tramuta
in veleno nei cervelli infetti. Questi miserabili hanno continuamente fitto in
capo l'esempio di Aod, che assassina re Eglon; di Giuditta, che taglia la testa
di Oloferne, dopo aver giaciuto con lui; di Samuele, che fa a pezzi re Agag.
Non vedono che questi esempi, rispettabili nell'antichità, sono
abominevoli oggi; essi attingono il loro furore nella stessa religione che lo
condanna.
Le leggi sono ancora impotenti contro questi accessi di furore;
è come se leggeste un decreto del consiglio a un frenetico. Quella gente
è persuasa che lo spirito santo che li pervade stia al di sopra delle
leggi, e che il loro fanatismo sia la sola legge cui debbano ubbidire.
Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce
ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, e sicuro di meritare il
cielo sgozzandovi?
Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in
mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice,
gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro
un'eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio, a
condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato.
C'è stata al mondo una sola religione che non sia stata
insozzata da fanatismo: quella dei letterati cinesi. Le sette dei filosofi non
solo erano esenti da questa peste, ma ne erano il rimedio: perché l'effetto
della filosofia è di rendere tranquillo l'animo, e il fanatismo è
incompatibile con la tranquillità.
Se la nostra santa religione è stata tanto spesso corrotta
da questo furore infernale, bisogna prendersela con la pazzia degli uomini.
Così delle penne che ebbe
perverti Icaro l'uso;
donate a sua salvezza,
le volse a proprio danno.
(Bertaud, vescovo di Séez)
Le più antiche favole non sono forse chiaramente
allegoriche? La prima che conosciamo, secondo la nostra maniera di computare il
tempo, non è quella che viene narrata nel nono capitolo del libro dei Giudici?
Bisognava scegliere un re tra gli alberi; l'ulivo non volle abbandonare la cura
del suo olio, né il fico quella dei suoi fichi, né la vigna quella del suo
vino, né gli altri alberi quella dei loro frutti; e invece il cardo, che non
era buono a niente, si fece re, perché era fornito di spine e poteva fare del
male.
L'antica favola di Venere, così com'è narrata da
Esiodo, non è forse un'allegoria dell'intera natura? Le parti della
generazione caddero dall'Etere sulla riva del mare; Venere nacque da questa
spuma preziosa; il suo primo nome è quello di amante della generazione.
C'è forse un'immagine il cui senso sia più preciso? Questa Venere
è la dea della bellezza; la bellezza cessa d'essere amabile se non
s'accompagna alle grazie; la bellezza fa nascere l'amore; l'amore ha dardi che
trafiggono il cuore e porta una benda che nasconde i difetti dell'oggetto
amato.
La saggezza viene concepita nel cervello del signore degli dei
sotto il nome di Minerva; l'anima dell'uomo è un fuoco divino che
Minerva mostra a Prometeo, il quale si serve di questo fuoco per animare
l'uomo.
Impossibile non riconoscere in queste favole una pittura vivente
dell'intera natura. La maggior parte delle altre favole sono o la corruzione di
quelle antiche o il capriccio dell'immaginazione. Delle favole antiche, come
dei nostri racconti moderni, ce ne sono di morali, deliziosi, e ce ne sono di
banali.
Le favole degli antichi popoli ingegnosi furono rozzamente imitate
dai popoli rozzi; ad esempio, quelle di Bacco, di Ercole, di Prometeo, di
Pandora e tante altre; esse erano il passatempo del mondo antico. I barbari,
che ne udirono parlare in modo confuso, le introdussero nella loro selvaggia
mitologia; e poi osarono dire: "Le abbiamo inventate noi." Poveri
popoli ignorati e ignoranti, che non avete conosciuto nessun'arte né piacevole
né utile, e mai nemmeno il nome della geometria, come potete dire di aver
inventato qualcosa? Non avete saputo né scoprire delle verità né mentire
abilmente.
I
Un giorno il principe Pico della Mirandola incontrò papa
Alessandro VI in casa della cortigiana Emilia, mentre Lucrezia, figlia del
Santo Padre, stava per partorire, e a Roma non si sapeva se il nascituro fosse
del papa o di suo figlio, il duca di Valentinois, o del marito di Lucrezia,
Alfonso d'Aragona che passava per impotente. La conversazione fu sulle prime
assai brillante. Il cardinale Bembo ne riferisce una parte. "Mio caro
Pico," disse il papa, "chi credi che sia il padre del mio
nipotino?" "Vostro genero," rispose Pico. "Ma come puoi
credere una sciocchezza simile?" "Lo credo per fede." "Ma
non sai che un impotente non fa figli?" "La fede," ribatté Pico,
"consiste nel credere in cose che sono impossibili; per di più
l'onore della vostra casa esige che il figlio di Lucrezia non passi per il
frutto di un incesto. Voi mi fate credere in misteri ancor più
incomprensibili. Non devo forse essere convinto che un serpente parlò e
che da allora tutti gli uomini furono dannati; che l'asina di Balaam abbia
parlato anch'essa con grande eloquenza, e che le mura di Gerico crollarono al
suono delle trombe?" E Pico infilò prontamente una lunga litania di
cose ammirabili in cui credeva. Alessandro, ridendo a crepapelle, piombò
su un sofà. "Anch'io credo a tutto questo come te," diceva,
"perché mi rendo conto che non potrò salvarmi che in grazia della
fede: non certo per le mie opere." "Ah, Santo Padre," disse
Pico, "voi non avete bisogno né di opere né di fede: queste cose valgono
per dei poveri profani come noi, ma voi che siete vice-Dio, potete credere e
operare come più vi piace. Voi avete le chiavi del cielo; e, senza
dubbio, san Pietro non vi sbatterà la porta in faccia. Ma, in quanto a
me, vi dico che avrei bisogno di una potente protezione se, non essendo altro
che un povero principe, fossi andato a letto con mia figlia e mi fossi servito
dello stiletto e di certe polverine così spesso come Vostra
Santità." Alessandro vi sapeva stare allo scherzo. "Parliamo
seriamente," disse al principe della Mirandola. "Dimmi, che merito
può esserci nel dire a Dio che siamo persuasi di cose delle quali non
possiamo affatto essere persuasi? Che piacere può fare, questo, a Dio?
Detto tra noi: dire di credere in quel che è impossibile credere,
significa mentire."
Pico della Mirandola si fece un gran segno di croce: "Ah, mio
Dio!" esclamò, "Vostra Santità mi perdoni, ma voi non
siete cristiano!" "No, in fede mia," disse il papa. "Lo
sospettavo," replicò Pico della Mirandola.
(Scritto da un discendente di Rabelais)
II
Che cos'è la fede? È il credere in ciò che
appare evidente? No: per me è evidente che esiste un Essere necessario,
eterno, supremo, intelligente; ma questa non è fede, è ragione.
Non ho nessun merito nel pensare che questo Essere eterno, infinito, che
è la virtù, la bontà stessa, voglia che io sia buono e
virtuoso. La fede consiste nel credere non a ciò che sembra vero, ma a
ciò che sembra falso al nostro intelletto. Gli asiatici possono credere
soltanto per fede al viaggio di Maometto nei sette pianeti, alle incarnazioni
del dio Fo, di Visnù, di Xaca, di Brahma di Sammonocodom ecc. Essi
sottomettono il loro intelletto, hanno paura d'esaminare, non vogliono né
essere impalati né bruciati; dicono soltanto: "Io credo."
C'è la fede in cose stupefacenti, e la fede in cose
contraddittorie e impossibili.
Visnù s'è incarnato cinquecento volte; questo
è sbalorditivo, ma, infine, non fisicamente impossibile, perché se
Visnù ha un'anima, può averla messa in cinquecento corpi, tanto
per divertirsi. L'indiano, in verità, non ha una fede molto viva; non
è intimamente persuaso di queste metamorfosi; però dice al suo
bonzo: "Ho la fede: voi volete che Visnù sia passato per
cinquecento incarnazioni; ciò vi frutta cinquecento rupie di rendita. E
va bene; ma se io non l'ho, questa fede, voi andrete in giro a berciare contro
di me, mi denuncerete, e rovinerete il mio commercio. Ebbene, questa fede ce
l'ho, e in più eccovi dieci rupie in regalo." L'indiano può
giurare a quel bonzo che gli crede, senza fare un falso giuramento perché, dopo
tutto, non gli è dimostrato che Visnù non sia venuto nelle Indie
cinquecento volte.
Ma se il bonzo esige da lui ch'egli creda in una cosa
contraddittoria, impossibile - per esempio, che due più due fanno
cinque, che lo stesso corpo può trovarsi in mille luoghi diversi, che
essere e non essere sono assolutamente la medesima cosa - in questo caso, se
l'indiano dice che egli ha la fede, mente; e se giura che crede, commette uno
spergiuro. Dice dunque al bonzo: "Reverendo padre, io non posso
assicurarvi che credo a queste assurdità, anche se esse vi fruttassero
diecimila rupie di rendita, invece di cinquecento." "Figlio
mio," risponde il bonzo, "dammi venti rupie, e Dio ti farà la
grazia di credere in tutto ciò in cui non credi." "Ma come
potete pensare," risponde l'indiano, "che Dio operi su di me quel che
non può operare su se stesso? Non è possibile che Dio faccia o
creda in cose contraddittorie: non sarebbe Dio, altrimenti. Io sono pronto, per
farvi piacere, a credere in ciò che è oscuro; ma non posso dirvi
che credo nell'impossibile. Dio vuole che noi siamo virtuosi, non che siamo
assurdi. Vi ho già dato dieci rupie, eccone ancora venti: credete in
trenta rupie; siate, se ci riuscite, un uomo onesto, e non rompetemi più
le scatole."
Filosofo, "amante della saggezza", ossia "della
verità". Tutti i filosofi hanno avuto questa duplice
facoltà: non c'è nessun filosofo dell'antichità che non
abbia dato esempi di virtù agli uomini e lezioni di verità
morali. Essi poterono ingannarsi tutti nella fisica, ma questa è
così poco necessaria alla condotta della vita che i filosofi non ne
avevano nessun bisogno. Sono occorsi secoli per conoscere una parte delle leggi
della natura. Un giorno solo basta a un saggio per conoscere i doveri dell'uomo.
Il filosofo non è un entusiasta, non s'erige a profeta, non
si dice ispirato dagli dei; e così non porrò nel novero dei
filosofi né l'antico Zoroastro, né Ermete, né l'antico Orfeo, né alcuno di quei
legislatori di cui si gloriavano le nazioni della Caldea, della Persia, della
Siria, dell'Egitto e della Grecia. Coloro che si proclamarono figli degli dei
erano padri dell'impostura; e, se si servirono della menzogna per insegnare
alcune verità, erano indegni d'insegnarle; non erano filosofi: erano
tutt'al più dei prudentissimi mentitori.
Per quale fatalità, forse vergognosa per i popoli
occidentali, dobbiamo arrivare fino all'estremo Oriente per trovare un saggio
semplice, alieno dal fasto e dall'impostura, che insegnava agli uomini a vivere
felici seicento anni prima della nostra era, in un tempo in cui da noi tutto il
nord ignorava l'alfabeto e i greci cominciavano appena a distinguersi per la
loro saggezza? Questo saggio è Confucio, che, unico fra tutti i
legislatori, non volle mai ingannare gli uomini. Quale più bella regola
di condotta fu mai data, dopo di lui, in tutta la terra? "Governate uno
Stato come si deve governare una famiglia: non si può ben governare la
propria famiglia che dandole il buon esempio.
"La virtù deve essere comune al contadino e al
monarca.
"Abbi cura di prevenire i delitti, se vuoi toglierti il peso
di punirli.
"Sotto i buoni re Yao e Xu i cinesi furono buoni; sotto i
cattivi re Kie e Chu furono cattivi.
"Fa' agli altri quel che faresti a te stesso.
"Ama gli uomini in generale; ma prediligi quelli virtuosi.
Dimentica le ingiurie, mai i benefici.
"Ho veduto uomini incapaci di scienza, non ne ho mai visti
incapaci di virtù."
Riconosciamo che non c'è mai stato legislatore che abbia
annunciato verità più utili al genere umano.
Una folla di filosofi insegnò, dopo di lui, una morale
altrettanto pura. Se si fossero limitati ai loro vani sistemi di fisica, oggi
non si pronunzierebbe il loro nome che per prenderli in giro. Se li rispettiamo
ancora, è perché furono giusti e insegnarono agli uomini ad esserlo.
Non possiamo leggere certi passi di Platone e, soprattutto,
l'ammirevole esordio delle leggi di Zaleuco, senza sentire in cuore l'amore per
le azioni oneste e generose. I romani ebbero il loro Cicerone, che vale da
solo, forse, tutti i filosofi della Grecia. Dopo di lui vi furono uomini ancor
più degni di rispetto, ma che si dispera quasi di poter imitare:
Epitteto, nella sua condizione di schiavo, gli Antonini e i Giuliani sul trono.
Quale cittadino fra noi si priverebbe, come Giuliano, Antonino e
Marco Aurelio, di tutte le delicatezze della nostra vita molle ed effeminata?
Chi dormirebbe come loro sulla nuda terra? Chi vorrebbe imporsi la loro
frugalità? Chi marcerebbe come loro a piedi nudi e capo scoperto, alla
testa degli eserciti, esposto al sole ardente come al gelo? Chi saprebbe
dominare come loro le proprie passioni? Tra noi ci sono dei devoti; ma dove
sono i saggi? Dove sono le anime incrollabili, giuste e tolleranti?
Abbiamo avuto grandi filosofi speculativi, in Francia; e tutti,
meno Montaigne, sono stati perseguitati. Questo, mi sembra, è l'estremo
grado della malignità della nostra natura: voler opprimere quegli stessi
filosofi che vogliono correggerla.
Capisco che dei fanatici di una setta vogliano scannare gli
entusiasti di un'altra; che i francescani odino i domenicani, e che un cattivo
artista intrighi per diffamare chi gli è superiore; ma che il saggio
Charron sia stato minacciato di morte; che il dotto e generoso Ramus sia stato
assassinato; che Descartes sia stato obbligato a fuggire in Olanda per
sottrarsi al furore degli ignoranti; che Gassendi sia stato costretto
più volte a ritirarsi a Digne, al riparo dalle calunnie di Parigi,
queste sono vergogne eterne per una nazione.
Uno dei filosofi più perseguitati fu l'immortale Bayle,
onore dell'umana natura. Mi si dirà che il nome di Jurieu, suo
calunniatore e persecutore, è diventato esecrabile: lo riconosco. Anche
il nome del gesuita Le Tellier è divenuto tale; ma i grandi uomini che
costui oppresse, non hanno ugualmente consumato i loro giorni nell'esilio e
nella miseria?
Uno dei pretesti di cui ci si servì per perseguitare Bayle
e ridurlo alla povertà fu la voce David del suo utile dizionario.
Lo si accusava di non aver lodato azioni in sé ingiuste, sanguinarie, atroci, o
contrarie alla buona fede, o che fanno arrossire il pudore.
Bayle, infatti, non lodò David per aver radunato, secondo i
libri ebraici, seicento vagabondi carichi di debiti e di delitti; per aver
saccheggiato i suoi compatrioti alla testa di quei banditi; per essersi deciso a
sgozzare Nabal e tutta la sua famiglia perché non aveva voluto pagare le
taglie; per essere andato a vendere i suoi servigi al re Achis, nemico della
sua nazione; per aver tradito questo re, suo benefattore; per aver saccheggiato
i villaggi alleati del medesimo re; per aver massacrato in quei villaggi
persino i lattanti, per paura che qualcuno di loro un giorno potesse denunciare
le sue rapine; per aver fatto morire tutti gli abitanti di alcuni altri
villaggi sotto seghe, erpici di ferro, e in fornaci da mattoni; per aver
rubato, con una azione perfida, il trono a Isboset, figlio di Saul; per aver
spogliato e fatto morire Mifiboset, nipote di Saul e figlio del suo amico, del
suo protettore Gionata; per aver consegnato ai gabaoniti altri due figli e
cinque nipoti di Saul che morirono impiccati.
Non parlo dell'incredibile incontinenza di David, delle sue
concubine, del suo adulterio con Betsabea e dell'assassinio di Uria.
Ma come! I nemici di Bayle avrebbero voluto che egli elogiasse
tutte queste crudeltà e tutti questi delitti? Bayle avrebbe dovuto dire:
"Principi della terra, imitate l'uomo secondo il cuore di Dio; massacrate
senza pietà gli alleati del vostro benefattore; sgozzate o fate sgozzare
la famiglia del vostro re; andate a letto con tutte le donne dopo aver fatto
trucidare tutti gli uomini, e sarete un modello di virtù, non appena si
dirà che avete composto dei salmi"?
Bayle non aveva forse ragione di dire che David fu un uomo secondo
il cuore di Dio, non per i suoi misfatti, ma per la sua penitenza? Bayle non
rendeva un servigio al genere umano affermando che Dio, il quale senza dubbio
aveva dettato tutta la storia ebraica, non canonizzò i crimini riferiti
in essa?
Tuttavia Bayle fu perseguitato. E da chi? Da uomini anch'essi
perseguitati, da esuli che nella loro patria sarebbero stati condannati al
rogo; e costoro erano combattuti da altri esuli chiamati giansenisti, cacciati
dal loro paese dai gesuiti, i quali, più tardi, furono cacciati a loro
volta.
Cosi tutti i persecutori si dichiararono una guerra mortale,
mentre il filosofo, oppresso da tutti loro, si accontentava di compiangerli.
Non è molto noto che Fontanelle, nel 1713, fu sul punto di
perdere le sue pensioni, la sua carica e la sua libertà per aver
redatto, in Francia, vent'anni prima, il Trattato sugli oracoli del
dottor Van Dale, da cui aveva eliminato prudentemente tutto quanto poteva far
divampare il fanatismo. Un gesuita aveva scritto contro di lui, ed egli non
s'era degnato di rispondere; e ciò bastò perché il gesuita Le
Tellier, confessore di Luigi XIV, accusasse Fontanelle di ateismo presso il re.
Senza l'intervento del signor D'Argenson, quel degno figlio d'un
falsario, procuratore di Vire, e riconosciuto poi falsario anche lui, avrebbe
proscritto la vecchiaia del nipote di Corneille.
È talmente facile sedurre il proprio penitente che dobbiamo
ringraziare Dio se quel Le Tellier non fece più male ancora. Ci sono due
luoghi nel mondo dove non si può resistere alla seduzione e alla
calunnia: il letto e il confessionale.
Abbiamo sempre visto i filosofi perseguitati da fanatici. Ma
è possibile che anche i letterati siano dei fanatici, e che essi stessi
affilino spesso le armi contro i loro fratelli, che vengono l'uno dopo l'altro
abbattuti?
Dannati uomini di lettere! Sta a voi fare i delatori? Ditemi se ci
furon mai, presso i romani, dei Garasse, degli Chaumeix, degli Hayer che
accusassero i Lucrezio, i Posidonio, i Varrone, i Plinio!
Essere ipocriti, che bassezza! Ma essere ipocriti e malvagi, che
orrore! Nell'antica Roma, dei cui sudditi eravamo piccola parte, non ci furono
mai ipocriti. Ci furono delle canaglie, lo ammetto, ma non degli ipocriti
religiosi, che sono la specie più vile e più crudele di tutte.
Perché in Inghilterra non ce ne sono affatto? Perché mai in Francia ce ne sono
tanti? Filosofi, vi sarà facile risolvere questo problema.
Bisogna essere dei gran pazzi per negare che lo stomaco sia fatto
per digerire, gli occhi per vedere, le orecchie per udire.
D'altra parte, bisogna avere uno strano amore delle cause finali,
per sostenere che la pietra è stata creata allo scopo di costruire case
e che i bachi da seta sono nati in Cina perché noi potessimo avere del satin
in Europa.
Ma, si osserva, se Dio ha creato una cosa per un fine, ne
consegue che ha creato tutte le cose per un fine. È ridicolo
ammettere la Provvidenza in un caso e negarla negli altri. Tutto ciò che
è, è stato previsto, preordinato. Non c'è ordine che non
abbia un senso, non c'è effetto senza causa: dunque tutto è
egualmente il risultato, il prodotto di una causa finale; ed è
altrettanto legittimo dire che i nasi sono stati fatti per portare gli occhiali
e le dita per essere ornate di diamanti, quanto lo è il dire che le
orecchie sono state formate per udire i suoni e gli occhi per vedere la luce.
Io credo che si possa facilmente chiarire questa
difficoltà. Quando gli effetti sono invariabilmente i medesimi, in tutti
i luoghi e in tutti i tempi, quando questi effetti uniformi sono indipendenti dagli
esseri ai quali appartengono, allora c'è, in modo evidente, una causa
finale.
Tutti gli animali hanno occhi, e vedono; tutti hanno orecchie e
odono; hanno una bocca con la quale mangiano, uno stomaco o qualcosa di simile
con cui digeriscono, un orifizio da cui espellono gli escrementi e uno
strumento per la generazione; e questi doni della natura operano in essi senza
l'ausilio di nessun'arte. Ecco delle cause finali chiaramente stabilite;
sarebbe pervertire la nostra facoltà il pensare di negare una verità
così universale.
Ma le pietre non servono, in ogni luogo e tempo, a costruire case;
né tutti i nasi portano occhiali, né tutte le dita anelli, né tutte le gambe
vestono calze di seta. Il baco da seta non è stato dunque creato per
coprirmi le gambe, come la vostra bocca è fatta per mangiare e il nostro
deretano per andare al gabinetto. Ci sono, dunque, effetti prodotti da cause
finali e altri, in grandissimo numero, che non possono chiamarsi con questo
nome.
Ma gli uni e gli altri fanno parte egualmente del disegno della
Provvidenza generale; niente, indubbiamente, accade contro di essa o senza di
essa. Tutto ciò che appartiene alla natura è uniforme,
immutabile, è l'opera immediata del Signore: è lui che ha creato
le leggi per cui la luna conta per tre quarti nella causa del flusso e del
riflusso dell'oceano, e il sole per un quarto; è lui che ha dato un
movimento di rotazione al sole, per cui questo astro, in cinque minuti e mezzo,
invia raggi di luce negli occhi degli uomini, dei coccodrilli e dei gatti.
Ma se, dopo tanti secoli, ci è successo di inventare
forbici e spiedi, di tosare con le prime la lana dei montoni, e di farli
cuocere con i secondi per mangiarli, che altro si può inferire se non
che Dio ci ha fatti in modo che un giorno dovessimo diventare industriosi e
carnivori?
Senza dubbio, i montoni non furono certo creati per essere cotti e
mangiati, poiché molti popoli si astengono da questo orrore; gli uomini non
furono certo creati per massacrarsi a vicenda, poiché i bramini e i quaccheri
non ammazzano nessuno; ma la pasta di cui siam fatti produce spesso massacri,
come produce calunnie, vanità, persecuzioni e impertinenze. Non che la
conformazione dell'uomo sia precisamente la causa finale dei nostri furori e
delle nostre sciocchezze: perché una causa finale è universale e
invariabile in ogni tempo e in ogni luogo; ma gli orrori e le assurdità
della specie umana fanno parte egualmente dell'ordine eterno delle cose. Quando
noi battiamo il grano, il correggiato è la causa finale della separazione
del grano. Ma se questo correggiato, battendo il mio grano, schiaccia mille
insetti, ciò non avviene affatto perché lo voglio, e nemmeno per caso:
è solo perché quegli insetti si son trovati in quel momento sotto il mio
correggiato, e dovevano trovarcisi.
È una conseguenza della natura delle cose che un uomo sia
ambizioso, che un altro arruoli talvolta altri uomini, che sia vincitore o che
sia sconfitto. Ma mai si potrà dire: "L'uomo è stato creato
da Dio per essere ucciso in guerra."
Gli strumenti che ci ha dato la natura non possono essere sempre
cause finali in azione, che abbiano il loro immancabile effetto: gli occhi dati
per vedere non sono sempre aperti; ogni senso ha i suoi momenti di riposo. Vi
sono anche dei sensi di cui non si fa mai uso. Per esempio: una povera sciocca
sventurata, rinchiusa in un chiostro a quattordici anni, chiude per sempre in
sé la porta da cui sarebbe dovuta uscire una nuova generazione; ma la causa
finale sussiste lo stesso: essa agirà, non appena sarà libera.
Non è il caso di rivolgerci al libro di Erasmo, che oggi
sarebbe soltanto un insieme di luoghi comuni e abbastanza insipidi.
Noi chiamiamo "follia" quella malattia degli organi del
cervello che impedisce ad un uomo di pensare e agire come gli altri. Se costui
non può amministrare i suoi beni, lo si interdice; se non riesce ad
avere idee consone alla società, lo si esclude; se e pericoloso, lo si
rinchiude; se è furioso, lo si lega.
Ciò che importa osservare è che quest'uomo non
è affatto privo di idee; ne ha come tutti gli altri, durante la veglia,
e spesso anche quando dorme. Ci si può domandare come mai la sua anima
spirituale, immortale, situata nel suo cervello, pur ricevendo attraverso i
sensi tutte le idee ben nette e distinte, non ne ricavi mai pero un retto
giudizio. Essa vede gli oggetti come li vedeva l'anima di Aristotele e di
Platone, di Locke e di Newton; ode gli stessi suoni, ha la stessa sensazione
del tatto: come mai, dunque, ricevendo le stesse percezioni delle persone
più sagge, non può fare a meno di combinarle in modo stravagante?
Se questa sostanza semplice ed eterna ha per le sue azioni gli
stessi strumenti che hanno le anime dei cervelli sani, dovrebbe ragionare come
loro. Chi può impedirglielo? Concepisco chiaramente che, se un pazzo
vede rosso e i sani vedono blu; se quando questi odono una musica, lui ode il
raglio di un asino; se quando i sani sono alla predica, costui crede di essere
a teatro; se quando essi intendono "sì", egli intende
"no", allora la sua anima deve pensare il contrario di quel che
pensano gli altri. Ma il pazzo ha le medesime percezioni loro; non c'è
nessuna ragione apparente perché la sua anima, avendo ricevuto dai suoi sensi
tutti i suoi strumenti, non possa farne uso. Essa è pura, dicono; non
è di per sé soggetta ad alcuna infermità: eccola fornita di tutti
gli ausili necessari; qualsiasi cosa accada nel corpo, niente può mutare
l'essenza di quest'anima; con tutto ciò, la si porta, col suo involucro,
al manicomio!
Questa riflessione può far sospettare che la facoltà
di pensare, data da Dio all'uomo, sia soggetta a guasti, come gli altri sensi.
Un pazzo è un infermo il cui cervello soffre, come il gottoso è
un infermo che ha male ai piedi e alle mani: egli pensava con il cervello, come
camminava con i piedi, senza nulla sapere né della sua incomprensibile
facoltà di camminare, né della sua non meno incomprensibile
facoltà di pensare. Si ha la gotta al cervello come la si ha ai piedi.
Infine, dopo mille ragionamenti, forse solo la fede può convincerci che
una sostanza semplice e immateriale possa essere malata.
I dotti o i dottori diranno al pazzo: "Amico mio, sebbene tu
abbia perduto il senso comune, la tua anima è altrettanto spirituale,
pura, immortale della nostra. Ma la nostra è alloggiata bene, e la tua,
male; le finestre della casa sono ostruite per lei, le manca l'aria,
soffoca." Il pazzo, nei suoi momenti di lucidità, potrebbe
rispondere: "Amici miei, voi, come al solito, presupponete quel che invece
è in discussione. Le mie finestre sono aperte altrettanto bene che le
vostre, poiché vedo gli stessi oggetti e odo le stesse parole; bisogna dunque,
necessariamente, che la mia anima faccia un cattivo uso dei suoi sensi, o che
essa stessa sia un senso viziato, una qualità depravata. In poche
parole: o la mia anima è di per sé pazza, o io non ho anima."
Uno dei dottori potrà rispondere: "Fratello mio, Dio
forse ha creato anime folli, come ha creato anime sagge." Il pazzo
replicherà: "Se credessi a quel che dite, sarei ancora più
pazzo di quel che sono. Di grazia, voi che ne sapete tante, ditemi: perché sono
pazzo?" Se i dottori hanno ancora un po' di buon senso, gli risponderanno:
"Non ne sappiamo un'acca." Essi non comprenderanno perché un cervello
abbia idee incoerenti; del resto, non comprenderanno nemmeno perché un altro
cervello possa avere idee normali e coerenti. Si crederanno saggi, e invece
saranno altrettanto pazzi quanto lui.
Il fachiro Bambabef incontrò un giorno un discepolo di Kung
Fu-tzu, che noi chiamiamo Confucio, e questo discepolo si chiamava Uang.
Bambabef sosteneva che il popolo ha bisogno di essere ingannato. Uang invece
affermava che non bisogna mai ingannare nessuno. Eccovi, riassunta, la loro
discussione.
BAMBABEF
Bisogna imitare l'Essere supremo, che non ci mostra le cose quali
sono in realtà: egli ci fa vedere il sole con un diametro di due o tre
piedi, sebbene questo astro sia un milione di volte più grande della
terra; ci fa vedere la luna e le stelle attaccate sullo stesso fondo azzurro,
mentre si trovano a distanze diverse. Vuole che, vista da lontano, una torre
quadrata ci sembri rotonda; vuole che il fuoco ci sembri caldo, sebbene in sé
non sia né caldo né freddo. Insomma, ci circonda di errori convenienti alla
nostra natura.
UANG
Quelli che voi chiamate errori non sono tali. Il sole, quale si
trova a milioni di milioni di li di là dal nostro globo, non
è quello che noi vediamo. Noi non vediamo, in realtà, e non
possiamo vedere che il sole che si riflette sulla nostra retina, sotto un
determinato angolo. I nostri occhi non ci sono stati dati per conoscere le
grandezze e le distanze; per conoscerle occorrono altri ausili e altre
operazioni.
Bambabef sembrò molto stupito a queste parole. Uang, che
era molto paziente, gli spiegò la teoria dell'ottica; e Bambabef, che
non era affatto stupido, si arrese alle dimostrazioni del discepolo di
Confucio. Poi riprese la disputa in questi termini:
BAMBABEF
Se Dio non ci inganna per mezzo dei nostri sensi, come io credevo,
ammettete almeno che i medici ingannano sempre i bambini per il loro bene;
dicono che daranno loro dello zucchero, e invece danno loro del rabarbaro. E
dunque, io, fachiro, posso ingannare il popolo, che è ignorante come i
bambini.
UANG
Io ho due figli, e non li ho mai ingannati. Ho detto loro, quando
erano malati: "Ecco una medicina molto amara, bisogna avere il coraggio di
berla; vi farebbe male se fosse dolce." Non ho mai sopportato che
governanti e precettori incutessero loro paura degli spiriti, dei fantasmi, dei
folletti, degli stregoni. E così ne ho fatti dei giovani cittadini
coraggiosi e saggi.
BAMBABEF
Il popolo non è nato in una condizione felice come quella
della vostra famiglia.
UANG
Tutti gli uomini si somigliano: sono nati con le stesse
disposizioni. Sono i fachiri che corrompono la natura degli uomini,
BAMBABEF
Noi insegnamo loro degli errori, lo confesso, ma per il loro bene.
Noi facciamo credere loro che, se non comprano i nostri chiodi benedetti, se
non espiano i loro peccati dandoci del denaro, diventeranno, in un'altra vita,
cavalli da posta, cani o lucertole: ciò li sgomenta, e così
diventano gente per bene.
UANG
Ma non vi accorgete di pervertire questa povera gente? Ce ne sono
fra loro, più che non si creda, che ragionano, e che se la ridono dei
vostri miracoli, delle vostre superstizioni; che sanno benissimo che non
saranno cambiati né in lucertole né in cavalli da posta; e allora, che accade?
Essi hanno abbastanza buon senso da capire che gli insegnate una religione
balorda, ma non ne hanno abbastanza per elevarsi verso una religione pura e
libera da superstizioni come la nostra. Le passioni li portano a credere che
non c'è religione, perché la sola che si insegna loro è ridicola;
voi diventate colpevoli di tutti i vizi in cui affondano.
BAMBABEF
Niente affatto, perché noi insegnamo loro una buona morale.
UANG
Vi fareste lapidare dal popolo, se gli insegnaste una morale
impura. Gli uomini sono cosiffatti che accettano volentieri di commettere il
male, ma non accettano che glielo si predichi. Bisognerebbe soltanto non
mischiare una morale saggia con favole assurde, perché così voi
indebolite, con le vostre imposture, di cui potreste fare a meno, quella morale
che siete obbligati a insegnare.
BAMBABEF
E che! Voi credete che si possa insegnare la verità al
popolo senza sostenerla con delle favole?
UANG
Lo credo fermamente. I nostri letterati sono della stessa pasta
dei nostri sarti, dei nostri tessitori e dei nostri contadini. Essi adorano un
Dio creatore, remuneratore e vendicatore. Essi non macchiano il loro culto né
con sistemi assurdi, né con cerimonie stravaganti; e ci sono molto meno delitti
fra i letterati che non tra il popolo. Perché non degnarsi di istruire i nostri
operai, come istruiamo i nostri letterati?
BAMBABEF
Fareste una grossa sciocchezza. È come se voleste che
fossero forniti delle stesse doti, che fossero tutti giureconsulti. Occorre
pane bianco per i padroni e pane bigio per i domestici.
UANG
Ammetto che non tutti gli uomini debbano avere la stessa scienza;
ma ci sono cose necessarie a tutti. È necessario che ognuno sia giusto,
e il modo più sicuro di insegnare la giustizia a tutti è di
insegnare la religione senza superstizioni.
BAMBABEF
È bel progetto, ma impraticabile. Pensate forse che agli
uomini basti credere in un Dio che punisce e ricompensa? Voi mi avete detto che
spesso succede, tra il popolo, che i più intelligenti si ribellano alle
mie favole: costoro si ribelleranno ugualmente alla vostra verità.
Diranno: "Chi mi assicura che Dio punisce e ricompensa? Che prova
c'è? E che missione avete, voi? Che miracolo avete compiuto perché vi
creda?" E si burleranno di voi molto più che di me.
UANG
Ecco dov'è il vostro errore. Voi vi immaginate che si
scuoterà il giogo di un'idea onesta, verosimile, utile a tutti, concorde
con la ragione umana, solo perché si rifiutano cose disoneste, assurde,
inutili, pericolose, che suscitano avversione in chi è dotato di buon
senso.
Il popolo è dispostissimo a credere ai suoi magistrati;
quando questi gli propongono una credenza ragionevole, la fa sua volentieri.
Non c'è nessun bisogno di miracoli per credere in un Dio giusto, che
legge nel cuore dell'uomo: è un'idea troppo naturale per essere
combattuta. Non è necessario precisare in qual modo Dio punirà e
ricompenserà: basta che si creda alla sua giustizia. Vi assicuro che ho
visto intere città che non avevano quasi altri dogmi, e sono quelle dove
ho trovato più virtù.
BAMBABEF
Fateci caso: in queste città troverete anche dei filosofi
che vi negheranno e le pene e le ricompense.
UANG
Ma ammetterete che questi filosofi negheranno ancor più
vivamente le vostre invenzioni: Perciò non avete niente da guadagnarci.
E quand'anche vi fossero dei filosofi che rifiutassero i miei principi, non
sarebbero per questo meno onesti né meno ricchi di quella virtù che deve
essere praticata per amore, non per paura. Ma c'è di più: lo vi
assicuro che nessun filosofo potrebbe mai essere certo che la Provvidenza non
riservi pene ai malvagi e ricompense ai buoni; perché se essi mi chiederanno chi
mi ha detto che Dio punisce, io chiederò loro chi gli ha detto che Dio
non punisce. Insomma, sostengo che i filosofi mi aiuteranno, lungi dal
contraddirmi. Volete essere filosofo anche voi?
BAMBABEF
Volentieri. Ma non ditelo ai fachiri.
Non anticiperemo qui quanto diciamo di Mosè nella voce a
lui dedicata; seguiremo, per ordine, qualche passo principale del Genesi.
"Nel principio Iddio creò il cielo e la terra."
Così è stato tradotto, ma la traduzione non è
esatta. Non c'è uomo un po' istruito che non sappia che il testo porta:
"Nel principio, gli dei fecero" oppure "gli dei fece il cielo e
la terra". D'altronde, questa lezione è conforme all'antica idea
dei fenici, i quali avevano immaginato che Dio, avesse impiegato
divinità inferiori per dare ordine al caos, lo sciautereb. I fenici
erano da molto tempo un popolo potente, che aveva già la sua teogonia
prima che gli ebrei si fossero impadroniti di qualche villaggio sui confini del
loro paese. È ben naturale pensare che, quando gli ebrei ebbero
finalmente un piccolo insediamento presso la Fenicia, abbiano cominciato ad
apprenderne la lingua, soprattutto quando vi furono schiavi. Allora, coloro che
impararono a scrivere, si misero bellamente a copiare qualcosa dell'antica
teologia dei loro padroni: è così che avanza lo spirito umano.
Nei tempi in cui si crede che Mosè sia vissuto, i filosofi
fenici ne sapevano probabilmente abbastanza per considerare la terra come un
punto, a paragone della infinita moltitudine di mondi che Dio ha posti nell'immensità
dello spazio chiamato "cielo". Ma quell'idea, così antica e
così falsa che il cielo sia stato fatto per la terra, è sempre
prevalsa nel volgo ignorante. È press'a poco come se si dicesse che Dio
creò tutte le montagne e un granello di sabbia, e ci si immaginasse che
le montagne siano state fatte per quel granello! Non è possibile che i
fenici, così abili navigatori, non avessero dei buoni astronomi; ma i
vecchi pregiudizi prevalevano, e questi vecchi pregiudizi furono la sola scienza
degli ebrei.
"La terra era tohu-bohu e vuota; le tenebre erano
sopra la faccia dell'abisso, e lo spirito di Dio era portato sulle acque."
Tohu-bohu significa precisamente caos, disordine; è
uno di quei vocaboli imitativi che si trovano in tutte le lingue, come
"sottosopra", "frastuono", "trictrac". La terra
non aveva ancora la forma di adesso, la materia esisteva, ma la potenza divina
non l'aveva ancora formata. Lo spirito di Dio significa il soffio, il
vento, che agitava le acque. Quest'idea è espressa nei frammenti
dell'autore fenicio Sanchuniathon. I fenici, come tutti gli altri popoli,
credevano all'eternità della materia. Non c'è un solo autore,
nell'antichità, che abbia mai detto che qualcosa sia stato tratto dal
nulla. In tutta la Bibbia non si trova nemmeno un passo in cui si dice che la
materia venne creata dal nulla.
Gli uomini furono sempre divisi sulla questione
dell'eternità del mondo, ma mai su quella dell'eternità della
materia.
Ex nihilo nihil, in nihilum nil posse reverti.
Ecco l'opinione di tutta l'antichità.
"Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu; ed egli vide che
la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e Dio chiamò la
luce "giorno" e le tenebre "notte": e la sera e il mattino
furono un giorno. E Dio disse anche: Sia fatto il firmamento in mezzo alle
acque, ed esso separi le acque dalle acque. E Dio fece il firmamento e divise
le acque al di sopra del firmamento da quelle al di sotto del firmamento; e Dio
chiamò il firmamento "cielo". E la sera e il mattino furono il
secondo giorno ecc. E Dio vide che ciò era buono."
Cominciamo con l'esaminare se il vescovo di Avranches, Huet, e
Leclerc non abbiano avuto veramente ragione contro coloro che pretendono di
trovare in questo passo un tratto di eloquenza sublime.
Questo tipo di eloquenza non appartiene a nessuna storia scritta
dagli ebrei. Lo stile è qui della massima semplicità, come nel
resto dell'opera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, si
servisse di questa sola espressione: "Egli disse: Sia fatta luce, e la
luce fu", sarebbe veramente sublime. Tale è quel passo di un salmo:
"Dixit, et facta sunt". È un tratto che, unico in quel passo e
posto in modo da rendere una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma
qui siamo davanti a una narrazione di una semplicità assoluta. L'autore
ebreo non parla della luce diversamente da come parla degli altri oggetti della
creazione; ripete egualmente ad ogni versetto: "E Dio vide che ciò
era buono.". Tutto è sublime nella creazione, non c'è
dubbio: ma quella della luce non lo è più di quella dell'erba dei
campi. Sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, mentre
qui lo stesso tono regna in tutto il capitolo.
Era anche opinione antichissima che la luce non venisse dal sole.
Vedendola diffondersi prima del levarsi e dopo il tramontare del sole, gli
uomini immaginavano che il sole servisse solo a darle maggior forza.
Così l'autore del Genesi si conforma a questo errore popolare; e,
per una singolare inversione dell'ordine delle cose, fa creare il sole e la
luna addirittura quattro giorni dopo la luce. Non riusciamo a capire come ci
possano essere un mattino e una sera prima che ci sia un sole: c'è qui
una confusione che è impossibile sbrogliare. Quell'autore
"ispirato" si conformava ai vaghi e rozzi pregiudizi del suo popolo.
Dio non pretendeva di insegnare la filosofia agli ebrei; certo, avrebbe potuto
innalzare il loro spirito fino alla verità, ma preferì abbassarsi
fino a loro.
La separazione della luce e delle tenebre non appartiene a una
fisica migliore; sembra che la notte e il giorno fossero mescolati assieme come
grani di specie diversa che debbano venir separati. È abbastanza noto
che le tenebre non sono altro che la privazione della luce, e che non
c'è luce, in realtà, se non in quanto i nostri occhi ne ricevono la
sensazione; ma a quei tempi si era ben lontani dal conoscere queste
verità.
Anche l'idea di un firmamento appartiene alla più remota
antichità. Ci si immaginava che i cieli fossero del tutto solidi, perché
vi si vedevano sempre gli stessi fenomeni. I cieli ruotavano sul nostro capo, e
dunque dovevan essere fatti di una materia durissima. E il modo di calcolare
come le esalazioni della terra e dei mari potevano fornire acqua alle nubi? Non
c'era nessun Halley che potesse fare questo calcolo. Ci dovevan essere dunque
dei serbatoi d'acqua, nel cielo.
Questi serbatoi non potevano essere sostenuti che da una volta
molto solida: vi si vedeva attraverso, e dunque essa doveva essere di
cristallo. Perché le acque superiori cadessero da questa volta sulla terra, era
necessario che ci fossero porte, chiuse, cateratte, che s'aprissero e si
chiudessero. Tale era l'astronomia ebraica; e poiché si scriveva per gli ebrei,
bisognava pur adottare le loro idee.
"E Dio fece due grandi luminari: uno per presiedere al
giorno, l'altro alla notte; e fece anche le stelle."
Sempre la stessa ignoranza della natura. Gli ebrei non sapevano
che la luna illumina solo di luce riflessa. E l'autore parla qui delle stelle
come di una bagattella, sebbene esse siano altrettanti soli ciascuno dei quali
ha dei mondi che ruotano attorno a lui. Lo Spirito Santo si proporzionava allo
spirito dei tempi.
"Dio disse ancora: "Facciamo l'uomo a nostra immagine,
che sia padrone dei pesci del mare"..."
Che intendevano gli ebrei per "facciamo l'uomo a nostra
immagine"? Quel che intendeva tutta l'antichità:
Finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.
Si fanno immagini solo di corpi. Nessun popolo immaginò un
Dio senza corpo, ed è impossibile rappresentarselo altrimenti. Si
può ben dire: "Dio non è nulla di tutto ciò che
conosciamo", ma non si può avere alcuna idea di quello che egli
è. Gli ebrei credettero sempre a un Dio corporeo, come tutti gli altri
popoli. Tutti i primi Padri della Chiesa credettero anch'essi a un Dio
corporeo, finché non ebbero abbracciato le idee di Platone.
"Egli li creò maschio e femmina."
Se Dio o gli dei secondari crearono l'uomo maschio e femmina,
sembra, in questo caso, che gli ebrei credessero Dio e gli dei maschi e femmine.
D'altronde non si capisce se l'autore voglia dire che l'uomo aveva dapprima in
sé i due sessi, o se intende che Dio creò Adamo ed Eva lo stesso giorno.
Il senso più naturale è che Dio formò Adamo ed Eva
contemporaneamente, ma questo sarebbe in contraddizione con la formazione della
donna, fatta con una costola dell'uomo molto tempo dopo i sette giorni.
"Ed egli il settimo giorno si riposò."
I fenici, i caldei, gli indiani dicevano che Dio aveva creato il
mondo in sei tempi, che l'antico Zoroastro chiama i sei gâhânbâr,
così celebri tra i persiani.
È incontestabile che tutti questi popoli avevano una
teologia prima che l'orda ebraica abitasse i deserti di Horeb e del Sinai,
prima che potesse avere degli scrittori. È dunque assai verosimile che
la storia dei sei giorni sia stata imitata da quella dei sei tempi.
"Dal luogo di voluttà usciva un fiume che irrigava il
giardino, e di lì si divideva in quattro fiumi; il primo si chiama
Pishon (Fison), che gira nel paese di Havila da cui viene l'oro... Il secondo
si chiama Ghihon, che circonda l'Etiopia... Il terzo è il Tigri e il
quarto l'Eufrate."
Secondo questa versione il paradiso terrestre avrebbe occupato
quasi un terzo dell'Asia e dell'Africa. L'Eufrate e il Tigri hanno la loro
sorgente a più di sessanta leghe l'una dall'altra, tra montagne orribili
che non somigliano certo ad un giardino. Il fiume che costeggia l'Etiopia, e
che non può essere che il Nilo o il Niger, comincia a più di
settecento leghe dalle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate; e, se il Fison
è il Fasi, è ben strano che sia stata messa nello stesso luogo la
sorgente di un fiume della Scizia e quella di un fiume dell'Africa.
Del resto, il giardino dell'Eden è chiaramente quello di
Eden a Saana, nell'Arabia Felice, famosa in tutta l'antichità. Gli
ebrei, popolo molto recente, erano un'orda araba. E menavano vanto di quel che
c'era di più bello nel miglior cantone dell'Arabia. Essi si son sempre
serviti delle antiche tradizioni delle grandi nazioni in cui si trovavano incorporati.
"Il Signore prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di
voluttà perché lo coltivasse."
È una bellissima cosa "coltivare il proprio
giardino", ma è molto improbabile che Adamo potesse coltivare un
giardino di sette od ottocento leghe d'estensione. O forse gli furon dati degli
aiutanti.
"Non mangiate il frutto della scienza del bene e del
male."
È difficile concepire che ci sia stato un albero che
insegnasse il bene e il male, come ci sono peri e albicocchi. E poi, perché Dio
non vuole che l'uomo conosca il bene e il male? Il contrario non è molto
più degno di Dio e molto più necessario all'uomo? Secondo la
nostra povera ragione parrebbe giusto che Dio ordinasse di mangiarne molto di
quel frutto; ma bisogna che la nostra ragione si sottometta.
"Come ne avrete mangiato, morirete."
Tuttavia Adamo ne mangiò e non morì. Molti Padri
hanno considerato tutto ciò un'allegoria. In effetti, si potrebbe dire
che gli animali non sanno di dover morire, mentre l'uomo lo sa per merito della
sua ragione. Questa ragione è l'albero della scienza che gli fa
prevedere la sua fine. Una spiegazione che potrebbe essere forse la più
ragionevole.
"Il Signore disse anche: "Non è bene che l'uomo
sia solo, facciamogli un aiuto simile a lui.""
Ci si aspetta che il Signore dia ad Adamo una donna.
Nient'affatto: il Signore gli dà come compagni tutti gli animali.
"E il nome che Adamo diede a ciascuno degli animali è
il loro vero nome."
Per "vero nome" di un animale si può intendere un
nome che designi tutte le proprietà della sua specie, o almeno le
principali. Ma questo non si trova in nessuna lingua del mondo. In ognuna vi
sono solo alcuni nomi imitativi, come "coq" in lingua celtica e
"lupus" in latino. Ma questi nomi imitativi sono in numero minimo. E
poi, se Adamo avesse conosciuto tutte le proprietà degli animali, o
aveva già mangiato il frutto della scienza, o non c'era bisogno che Dio
gli vietasse di mangiarlo.
Osservate che questa è la prima volta che Adamo è
nominato nel Genesi. Presso gli antichi brahmani, enormemente anteriori
agli ebrei, il primo uomo si chiamava Adimo, "il figlio della terra",
e sua moglie Procriti, "la vita": è quel che dice il Veidam,
che è forse il libro più antico del mondo. I nomi di Adamo e di
Eva avevano lo stesso significato, nella lingua fenicia.
"Mentre Adamo era addormentato, Dio prese una delle sue
costole, e mise della carne al suo posto, e, con la costola tolta ad Adamo,
fece una donna e la condusse ad Adamo."
Il Signore, nel capitolo precedente, aveva già creato il
maschio e la femmina; perché dunque togliere una costola all'uomo per farne una
donna che già esisteva? Si suol rispondere che l'autore annuncia in un
luogo quel che spiega nell'altro.
"Ora il serpente era il più astuto degli animali della
terra... Esso disse alla donna..."
In tutto questo passo non si fa nessuna menzione del diavolo;
tutto qui è puramente fisico. Il serpente era considerato da tutti i
popoli orientali non solo come l'animale più astuto di tutti, ma anche
come immortale. In una favola dei caldei si narrava di una lite tra Dio e il
serpente; questa favola era stata conservata da Ferecide. Origene la cita nel
suo sesto libro Contro Celso. Nelle feste di Bacco si portava in
processione un serpente. A quanto dice Eusebio, nella sua Praeparatio
Evangelica, libro I, capitolo X, gli egiziani attribuivano al serpente un
carattere divino. In Arabia e nelle Indie e nella Cina stessa, il serpente era
considerato come il simbolo della vita; è questa la ragione per cui gli
imperatori cinesi, anteriori a Mosè, portarono sempre sul petto
l'immagine di un serpente.
Eva non è affatto stupita che il serpente le parli. Gli
animali han sempre parlato, in tutte le antiche storie; è per questo che
quando Pilpai e Loqman fecero parlare gli animali, nessuno ne restò
sorpreso.
Tutta questa avventura è talmente fisica e spoglia d'ogni
allegoria, che vi si spiega perché, da allora, il serpente striscia sul ventre,
perché noi cerchiamo sempre di schiacciarlo e perché esso cerca sempre di
morderci; precisamente come si spiegava nelle antiche storie di metamorfosi
perché il corvo, che in altri tempi era bianco, oggi è nero; perché il
gufo esce dal suo buco solo di notte; perché il lupo ama la strage ecc.
"Io moltiplicherò le tue miserie e le tue gravidanze:
partorirai nel dolore; sarai sotto il potere dell'uomo ed egli ti
dominerà."
Non si capisce perché la moltiplicazione delle gravidanze sia una
punizione. Era, al contrario, una grandissima benedizione, soprattutto per gli
ebrei. I dolori del parto sono forti solo nelle donne delicate: quelle che sono
abituate al lavoro partoriscono senza difficoltà, soprattutto nei climi
caldi. E invece ci sono animali che soffrono molto durante il parto, e ce ne
sono anche che ne muoiono. Quanto poi alla superiorità dell'uomo sulla
donna, è cosa assolutamente naturale: è l'effetto della maggior
forza fisica, e anche spirituale. Gli uomini in generale hanno organi
più capaci di un'applicazione continua e sono più adatti ai
lavori della mente e del braccio. Ma quando una donna ha più polso e più
acume del marito, ella ne è in tutto la padrona: in questo caso il
marito è soggetto alla moglie.
"Il Signore fece loro tuniche di pelle."
Questo passo prova chiaramente che gli ebrei credevano in un Dio
corporeo, dato che gli fanno esercitare il mestiere di sarto. Un rabbino
chiamato Eliezer scrisse che Dio coprì Adamo ed Eva con la stessa pelle
del serpente che li aveva tentati; e Origene pretende che questa tunica di
pelle era una nuova carne, un nuovo corpo che Dio fece all'uomo.
"E il Signore disse: "Ecco Adamo che è diventato
come uno di noi.""
Bisogna rinunciare al senso comune per non convenire che gli ebrei
ammisero da principio più dei. Più difficile è sapere che
cosa intendessero con la parola Dio, Elôhîm. Qualche commentatore ha
preteso che questa parola, che significa "uno di noi", alluda alla
Trinità; ma nella Bibbia è certo che non si parla mai della
Trinità. La Trinità non è un insieme di più dei,
è lo stesso Dio triplice; e gli ebrei non intesero mai parlare di un Dio
in tre persone. Con queste parole "simili a noi", è molto
probabile che gli ebrei intendessero gli angeli, Elôhîm, e quindi che
questo libro fu scritto quando essi adottarono la credenza di queste
divinità inferiori.
"Il Signore lo mandò via dal giardino di
voluttà perché coltivasse la terra."
Ma il Signore lo aveva messo in quel giardino perché lo
"coltivasse". Se Adamo da giardiniere diventò agricoltore,
bisogna riconoscere che il suo stato non peggiorò molto: un buon
agricoltore val bene un buon giardiniere.
Tutta questa storia in generale si riferisce all'idea che ebbero
tutti gli uomini e che hanno ancora: che i primi tempi fossero migliori dei
nuovi. Sempre ci siamo lamentati del presente e abbiamo rimpianto il passato.
Gli uomini sovraccarichi di lavoro posero la felicità nell'ozio, senza
pensare che la peggiore delle condizioni è quella di non aver niente da
fare. E quando l'uomo si sentì infelice, si foggiò l'idea di un
tempo in cui tutti erano stati felici. Su per giù è come se si
dicesse: "Ci fu un tempo in cui nessun albero moriva, nessuna bestia era
né malata né debole, né divorata da un'altra." Di qui l'idea
dell'età dell'oro, dell'uovo bucato da Arimane, del serpente che
rubò all'asino la ricetta della vita felice e immortale, che l'uomo
aveva messo sul suo basto; di qui il combattimento di Tifone contro Osiride, di
Ofioneo contro gli dei, e quel famoso vaso di Pandora, e tutte quelle antiche
favole delle quali qualcuna è divertente, ma nessuna è
istruttiva.
"Ed egli mise nel giardino di voluttà un cherubino con
una spada volteggiante e fiammeggiante per custodire l'accesso all'albero della
vita."
La parola Kerub significa "bue". Un bue armato di
una spada fiammeggiante fa una curiosa figura davanti a una porta. Ma gli ebrei
rappresentarono più tardi degli angeli in figura di buoi e di sparvieri,
sebbene fosse loro proibito fare qualsiasi immagine. Sicuramente essi presero
quei buoi e quegli sparvieri dagli egiziani, da cui imitarono tante cose. Gli
egiziani venerarono dapprima il bue come simbolo dell'agricoltura, e lo
sparviero come quello dei venti; ma non fecero mai di un bue un portinaio.
"E i figli di Elôhîm, vedendo che le figlie degli uomini
erano belle, presero per mogli quelle che scelsero."
Anche quest'immaginazione fu comune a tutti i popoli: non
c'è paese, esclusa la Cina, in cui qualche dio non sia sceso a fare
figli con qualche ragazza. Questi dei corporei discendevano spesso sulla terra
per visitare i loro domini; vedevano le nostre ragazze e sceglievano le
più belle; i figli nati dal connubio di questi dei con donne mortali
dovevano essere superiori agli altri uomini; così il Genesi non
manca di dire che questi dei che si unirono alle nostre ragazze misero al mondo
dei giganti.
"E io farò scendere sulla terra le acque del diluvio."
Osserverò soltanto che sant'Agostino, nel suo De
civitate Dei, dice: "Maximum illud diluvium graeca nec latina novit
historia": né la storia greca, né quella latina conoscono questo grande
diluvio. Infatti, in Grecia, si sapeva solo di quelli di Deucalione e di Ogige,
considerati come universali nelle favole raccolte da Ovidio, ma del tutto
ignorati nell'Asia orientale.
"Dio disse a Noè: "Io stringerò un patto
di alleanza con te e con la tua progenie dopo di te e con tutti gli
animali.""
Dio che si allea con le bestie? Bella unione!, dicono gli
increduli. Ma se egli si allea con l'uomo, perché non con la bestia? Anch'essa
è dotata di sentimento, e nel sentimento c'è qualcosa di
altrettanto divino che nel pensiero più metafisico. D'altronde gli animali
sentono molto più di quanto non pensi la maggior parte degli uomini.
Molto probabilmente, proprio in virtù di quel patto, Francesco d'Assisi,
fondatore dell'ordine serafico, diceva alle cicale e alle lepri: "Canta,
sorella cicala; bruca, fratello leprotto." Ma quali furono le condizioni
del patto? Che tutti gli animali si sarebbero divorati l'un l'altro; che si
sarebbero nutriti del nostro sangue, e noi del loro; che, oltre a mangiarli, li
avremmo ferocemente sterminati; ci resta soltanto di mangiare i nostri simili
scannati con le nostre mani. Se ci fosse stato un tale patto, sarebbe stato un
patto col diavolo.
Probabilmente tutto questo passo non vuol dire altro che Dio
è ugualmente padrone assoluto di tutto ciò che respira.
"E io metterò il mio arco nelle nubi e questo
sarà un segno del mio patto..."
Notate che l'autore non dice: "Ho messo il mio arco nelle
nubi", ma dice: "metterò"; il che evidentemente
presuppone che era opinione comune che l'arcobaleno non fosse sempre esistito.
È un fenomeno causato dalla pioggia; e qui lo si presenta come qualcosa
di soprannaturale, per avvertire che la terra non sarà più
inondata. È strano scegliere il segno della pioggia per rassicurare che
non moriremo annegati. Ma si può anche rispondere che, nel pericolo dell'inondazione,
si è rassicurati dall'arcobaleno.
"E, verso sera, i due angeli arrivarono a Sodoma..."
Tutta la storia dei due angeli che i sodomiti volevano violentare
è forse la più straordinaria che l'antichità abbia
inventato. Ma bisogna considerare che quasi tutta l'Asia credeva nei demoni,
incubi e succubi; che per di più quei due angeli erano creature
più perfette degli uomini, e dovevan essere più belli e
suscitare, in un popolo corrotto, desideri più violenti che non gli
uomini ordinari.
Quanto a Lot, che propone ai sodomiti le sue due figlie al posto
dei due angeli, e alla moglie di Lot, mutata in una statua di sale, e a tutto
il resto di questa storia, che si può dire? L'antica favola araba di
Ciniro e Mirra ha qualche affinità con la storia dell'incesto di Lot con
le sue figlie; e l'avventura di Filemone e Bauci non è priva di analogie
con quella dei due angeli che apparvero a Lot e a sua moglie. Quanto alla
statua di sale, non sappiamo a che somigli: forse alla storia di Orfeo e di Euridice?
Ci sono stati dei dotti che hanno preteso che si togliessero dai
libri canonici tutte queste storie incredibili che scandalizzano i deboli di
spirito, ma si è risposto che questi dotti erano cuori corrotti, persone
da mandare al rogo; e che è impossibile essere un onest'uomo se non si
crede che i sodomiti vollero violentare due angeli. È così che
ragiona una genìa di mostri che vorrebbero dominare le menti.
Alcuni celebri Padri della Chiesa hanno avuto la prudenza
d'interpretare tutte queste storie come allegorie, secondo l'esempio degli
ebrei, e soprattutto di Filone. Alcuni papi, più prudenti ancora,
vollero impedire che si traducessero in volgare questi libri, per timore che
gli uomini fossero in grado di giudicare quel che si proponeva loro di adorare.
Dobbiamo concludere che coloro che intendono perfettamente questo
libro devono essere tolleranti verso coloro che non lo intendono, infatti, se
questi non ci capiscono niente, non è colpa loro; ma chi non ci capisce
niente, deve a sua volta essere tollerante verso chi capisce tutto.
Buongiorno, Giobbe, amico mio, tu sei uno dei più originali
tra i personaggi antichi di cui i libri facciano menzione. Tu non eri ebreo: si
sa che il libro che porta il tuo nome è più antico del Pentateuco.
E se gli ebrei, che lo tradussero dall'arabo, si servirono della parola
"Jehovah" per significare Dio, presero questa parola dai fenici e
dagli egiziani, come i veri dotti non dubitano. La parola "Satana"
non era ebraica, ma caldea: anche questo è abbastanza noto.
Tu abitavi ai confini della Caldea. Certi commentatori, degni
della loro professione, pretendono che tu credessi nella resurrezione, perché,
quand'eri sdraiato sul tuo letamaio, dicesti, nel tuo XIX capitolo, che un
giorno o l'altro "te ne saresti risollevato". Un infermo che spera
nella guarigione, non spera per questo nella resurrezione. Ma voglio parlarti
d'altro. Confessa che eri un gran chiacchierone; ma i tuoi amici lo erano
più di te. Si dice che tu possedessi settemila montoni, tremila cammelli,
mille buoi e cinquecento asine. Vediamo di fare i conti.
Settemila montoni a tre lire e dieci soldi
l'uno, fanno ventiduemilacinquecento
lire tornesi, scrivo 22.500
Valuto i tremila cammelli a cinquanta
scudi l'uno 450.000
Mille buoi non possono essere stimati
in media meno di 80.000
E cinquecento asine, a venti franchi
l'una 10.000
---------
Il tutto ammonta a 562.500
senza contare i tuoi mobili, gli anelli e i gioielli.
Io sono stato molto più ricco di te; e quantunque abbia
perduto gran parte dei miei beni, e sia malato come te, non ho mormorato contro
Dio, come sembra che i tuoi amici t'abbiano rimproverato qualche volta.
Né mi convince molto quel Satana che, per indurti al peccato e
farti dimenticare Dio, gli domanda il permesso di toglierti i tuoi averi e di affibbiarti
la rogna. È proprio in una condizione simile che gli uomini ricorrono
sempre alla Divinità: sono gli uomini felici che la dimenticano. Satana
non conosceva abbastanza il mondo, s'è fatto furbo poi; e adesso, quando
vuole impadronirsi di qualcuno, ne fa un appaltatore generale delle imposte o
qualcosa di meglio, se possibile. È quello che il nostro amico Pope ci
ha chiaramente dimostrato nella storia del cavaliere Balaam.
Tua moglie era un'impertinente; ma i tuoi pretesi amici, Elifaz,
nativo di Teman in Arabia, Bildad di Suez, e Sofar di Naamat, erano molto
più insopportabili di lei. T'esortavano alla pazienza in modo da
spazientire il più mansueto degli uomini: ti facevano lunghe prediche,
più noiose di quelle dello scaltro V... ad Amsterdam e del ... eccetera.
È vero che tu stesso non sai quel che dici quando esclami:
"Oh, mio Dio, sono forse un mare o una balena per essere stato rinchiuso
da te come in una prigione?" Ma i tuoi amici non ne sanno di più
quando ti rispondono che "il giorno non può rinverdire senza
umidità e l'erba dei prati non può crescere senz'acqua".
Niente è meno consolante di quest'assioma.
Sofar di Naamat ti rimprovera d'essere un chiacchierone: ma
nessuno di questi bravi amici ti presta uno scudo. Io non t'avrei trattato così.
Niente di più comune della gente che dà consigli, e niente di
più raro di quella che t'aiuta. Vale proprio la pena di avere tre amici
per non riceverne nemmeno una goccia di brodo quando si è ammalati!
M'immagino che quando Dio ti ebbe restituito le tue ricchezze e la tua salute,
quegli eloquenti personaggi non abbiano osato presentarsi a te: non per niente
"gli amici di Giobbe" sono passati in proverbio.
Dio fu assai malcontento di loro, e gli disse chiaro e tondo, nel
capitolo XLII, che erano "noiosi e imprudenti", e li condannò
a un'ammenda di sette tori e di sette arieti per aver detto delle sciocchezze.
Io li avrei condannati per non aver aiutato il loro amico.
Ti prego di dirmi se è vero che sei vissuto
centoquarant'anni dopo quell'avventura. Sono felice di vedere che le persone
perbene vivono a lungo; bisogna proprio che gli uomini d'oggi siano dei gran
birbanti, tanto è più breve la loro vita!
(Lettera di un malato alle acque di Aquisgrana)
Del resto, il libro di Giobbe è uno dei più preziosi
di tutti l'antichità. È evidente che questo libro è di un
arabo vissuto prima del tempo in cui collochiamo Mosè. Vi è detto
che Elifaz, uno degli interlocutori, è di Teman, che è un'antica
città dell'Arabia. Bildad era di Suez, altra città araba. Sofar
era di Naamat, contrada ancor più orientale dell'Arabia.
Ma quel che è più importante e che dimostra che
questa favola non può essere di un ebreo, è il fatto che vi si
parla delle tre costellazioni che chiamiamo oggi l'Orsa, Orione e le Iadi. Gli ebrei
non ebbero mai la minima cognizione dell'astronomia, non avevano nemmeno un
termine per indicare questa scienza; e tutto quel che riguarda le arti della
mente era loro sconosciuto, persino la parola "geometria".
Gli arabi, al contrario, abitando sotto le tende, ed essendo
sempre in condizione di osservare gli astri, furono forse i primi che
calcolarono gli anni investigando il cielo. Un'osservazione ancor più
importante è che in questo libro si parla di un solo Dio. È un
errore assurdo avere immaginato che gli ebrei fossero i soli a riconoscere un
unico Dio: era la dottrina di quasi tutto l'Oriente, e gli ebrei non furono che
dei plagiari, come lo furono in ogni altra cosa.
Nel capitolo XXXVIII, Dio parla lui stesso dal centro di un
turbine: e questo fu più tardi imitato nel Genesi. Non si
ripeterà mai abbastanza che i libri ebraici sono assai recenti.
L'ignoranza e il fanatismo gridano che il Pentateuco è il
più antico libro del mondo. È evidente che i libri di
Sanchoniaton, quelli di Thoth, anteriori di ottocento anni a quelli di
Sanchoniaton, quelli del primo Zoroastro, il Shasta, il Veidam degli
indiani, che abbiamo ancora, i cinque King dei cinesi e infine il libro
di Giobbe sono assai più antichi di qualunque libro giudaico.
È dimostrato che quel piccolo popolo poté avere degli annali solo quando
ebbe un governo stabile; che non ebbe questo governo che sotto i suoi re; che
il suo gergo si formò col tempo, da un misto di fenicio e d'arabo. Ci
sono prove incontestabili che i fenici coltivarono le lettere molto tempo prima
degli ebrei. La professione di costoro fu il brigantaggio e la senseria; non
furono scrittori se non per caso. Sono andati perduti i libri degli egiziani e
dei fenici; ma i cinesi, i brahmani, i ghebri, gli ebrei hanno conservato i
loro. Sono tutti monumenti singolari, ma sono solo monumenti dell'immaginazione
umana, dai quali non si può imparare una sola verità, sia fisica
che storica. Oggi qualsiasi libricino di fisica è più utile di
tutti i libri dell'antichità.
Il buon Calmet o don Calmet (perché i benedettini vogliono che gli
si dia del "don"), quell'ingenuo compilatore di tante fantasticherie
e stupidaggini, quell'uomo la cui ingenuità ha procurato tanto spasso a
chi vuol ridere delle corbellerie antiche, riporta fedelmente le opinioni di
coloro che vollero indovinare la malattia da cui era stato colpito Giobbe, come
se Giobbe fosse stato un personaggio reale. Egli non esita a dire che Giobbe
aveva la sifilide e, come al solito, accumula citazioni su citazioni, per
provare ciò che non è. Non aveva letto la storia della sifilide
di Astruc: perché, non essendo Astruc né un Padre della Chiesa, né un dottore
di Salamanca, ma un medico dottissimo, il bravo Calmet non sapeva nemmeno che
fosse esistito. Questi monaci compilatori non sono che dei poveri diavoli.
Non sono mai stato in Giudea, grazie a Dio, e non ci andrò
mai. Ho parlato con gente d'ogni nazione, che tornava di laggiù; tutti
m'han detto che la posizione di Gerusalemme è orribile, che il paese
intorno è tutto sassoso; che le montagne sono brulle; che il famoso
fiume Giordano non è più largo di quarantacinque piedi; che la
sola regione buona di quel paese è Gerico; insomma, tutti ne parlano
come ne parlava san Girolamo, che abitò così a lungo a Betlemme,
e che dipinge quella contrada come il rifiuto della natura. Egli dice che in
estate non c'è neppure acqua da bere. Questo paese, tuttavia, dové
sembrare agli ebrei un luogo di delizie in confronto ai deserti di cui erano
originari. Dei miserabili che avessero lasciato le Lande per abitare in qualche
montagna del Lampourdan, vanterebbero la loro nuova sede; e se sperassero di
poter penetrare nelle parti migliori della Linguadoca, la crederebbero la terra
promessa.
Ecco esattamente la storia degli ebrei: Gerico e Gerusalemme sono
Tolosa e Montpellier, e il deserto del Sinai è il paesaggio tra Bordeaux
e Baiona.
Ma se il Dio che guidava gli ebrei voleva dar loro una buona
terra, e se quegli sventurati avevano effettivamente dimorato in Egitto, perché
non ve li lasciò? A tale domanda non si risponde che con disquisizioni
teologiche.
La Giudea, si dice, era la terra promessa. Dio disse ad Abramo:
"Io vi darò tutto quel paese, dal fiume d'Egitto sino
all'Eufrate."
Ahimè, amici miei, voi non avete mai avuto quelle fertili
rive dell'Eufrate e del Nilo. Ci si è burlati di voi. I padroni del Nilo
e dell'Eufrate furono volta per volta i vostri padroni. Voi siete stati quasi
sempre schiavi. Promettere e mantenere sono due cose diverse, miei poveri
ebrei. Voi avete un vecchio rabbino, il quale, leggendo le vostre sagge
profezie, che vi annunciano una terra di miele e di latte, esclamò che
vi fu promesso più burro che pane. Sapete che se il Gran Turco mi
offrisse oggi la signoria di Gerusalemme, io non la vorrei?
Federico II, vedendo quel detestabile paese disse pubblicamente
che Mosè era stato assai sconsiderato a condurvi la sua banda di
lebbrosi. "Perché non andò a Napoli?" diceva Federico. Addio,
miei cari ebrei, mi dispiace che terra promessa significhi terra perduta.
(Dal barone di Brukana)
Talvolta si rende giustizia troppo tardi. Due o tre scrittori, o
prezzolati o fanatici, parlano del barbaro ed effeminato Costantino come di un
dio, e trattano da scellerato il giusto, il saggio, il grande Giuliano. Tutti
gli altri, copiando i primi, ripetono l'adulazione e la calunnia. Esse
diventano quasi un articolo di fede. Giunge finalmente il tempo della sana
critica e, dopo quattordici secoli, alcuni uomini illuminati fanno la revisione
di un processo giudicato dall'ignoranza. In Costantino si vede un ambizioso
fortunato, che beffa Dio e gli uomini. Egli ha l'impudenza di fingere che Dio
gli abbia inviato nell'aria un'insegna che gli assicura la vittoria. Si bagna
nel sangue di tutti i suoi congiunti e s'addormenta nelle mollezze: ma era
cristiano, fu canonizzato.
Giuliano è sobrio, casto, disinteressato, valoroso e
clemente; ma non era cristiano, e fu considerato a lungo come un mostro.
Oggi, dopo aver paragonato i fatti, i monumenti, gli scritti di
Giuliano e quelli dei suoi nemici, si è costretti a riconoscere che, se
non amava il cristianesimo, fu scusabile nell'odiare una setta che si era
macchiata del sangue di tutta la sua famiglia; e che, essendo stato
perseguitato, imprigionato, esiliato, minacciato di morte dai galilei sotto il
regno del barbaro Costanzo, non li perseguitò mai; che, al contrario
perdonò a dieci soldati cristiani che avevano congiurato contro la sua
vita. Si leggono le sue lettere, e lo si ammira:
"I galilei," dice, "patirono sotto il mio
predecessore l'esilio e la prigione; si massacrarono a vicenda coloro che si
chiamavano a turno "eretici"; io li ho richiamati dall'esilio, li ho
liberati dalle prigioni; ho restituito i beni ai proscritti, li ho costretti a
vivere in pace. Ma tale è l'inquieto furore dei galilei, che si
lamentano di non potersi più divorare fra di loro." Che lettera!
Che sentenza della filosofia contro il fanatismo persecutore!
Finalmente, esaminati i fatti, siamo stati obbligati a riconoscere
che Giuliano aveva tutte le qualità di Traiano, tranne quei gusti
così a lungo perdonati ai greci e ai romani; tutte le virtù di
Catone, senza la sua rigidezza e la sua acredine; tutto quel che fu ammirato in
Giulio Cesare, senza i suoi vizi; che aveva, inoltre, la continenza di
Scipione. Insomma fu del tutto pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini.
Nessuno osa più ripetere, oggi, sulla scorta del
calunniatore Teodoreto, che egli immolò una donna nel tempio di Carre,
per rendersi gli dei propizi. Nessuno ripete più che, morendo,
gettò con la mano qualche goccia del suo sangue verso il cielo, dicendo
a Gesù Cristo: "Hai vinto, Galileo!" come se avesse combattuto
contro Gesù nel fare la guerra ai persi; come se questo filosofo, che
morì con tanta rassegnazione, avesse riconosciuto Gesù; come se
avesse creduto che Gesù fosse nell'aria e che questa fosse il cielo!
Queste assurdità di coloro che vengon chiamati "Padri della
Chiesa" oggi non si ripetono più.
Si tenta perfino di metterlo in ridicolo, come facevano i frivoli
cittadini di Antiochia. Gli si rimprovera la barba mal pettinata e la maniera
di camminare. Ma, signor abate de La Bletterie, voi non l'avete visto
camminare, e avete invece letto le sue lettere e le sue leggi, monumento delle
sue virtù. Che importa se aveva la barba sudicia e il passo precipitoso,
se il suo cuore era magnanimo e ogni suo impulso tendeva alla virtù?
Resta un fatto importante da esaminare. Si rimprovera a Giuliano
di aver voluto smentire la profezia di Gesù Cristo, ricostruendo il
tempio di Gerusalemme. Si dice che uscissero di sotterra fuochi che impedirono
l'opera. Si dice che questo è un miracolo, e che questo miracolo non
convertì né Giuliano, né Alipio, sovrintendente di quell'impresa, né
nessuno della sua corte. E su ciò l'abate de La Bletterie s'esprime
così: "Egli e i filosofi della sua corte misero senza dubbio in
opera ciò che sapevano di fisica per sottrarre a Dio un miracolo
così spettacoloso. La natura fu sempre la risorsa degli increduli, ma
serve la religione così a proposito, che essi dovrebbero perlomeno
sospettarla di collusione."
Anzitutto, non è vero che nel Vangelo sia detto che mai il
tempio ebraico sarebbe stato ricostruito. Il Vangelo di Matteo, scritto
sicuramente dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, profetizza,
è vero, che non sarebbe rimasta pietra su pietra di quel tempio
dell'idumeo Erode: ma nessun evangelista dice che non sarebbe mai stato
ricostruito.
In secondo luogo, che importa alla Divinità che ci sia un
tempio ebraico o un magazzino, o una moschea nel luogo dove gli ebrei
ammazzavano buoi e vacche?
In terzo luogo, non si sa se fu dalla cinta delle mura di
Gerusalemme o dalla cinta del tempio che scaturirono quei pretesi fuochi che,
secondo alcuni, bruciarono gli operai. Ma non si capisce perché Gesù
avrebbe bruciato gli operai dell'imperatore Giuliano e non quelli del califfo
Omar che, molto tempo dopo, costruì una moschea sulle rovine del tempio;
o quelli del gran Saladino, che restaurò tale moschea. Gesù aveva
tanta predilezione per le moschee dei musulmani?
In quarto luogo, Gesù, pur avendo predetto che non sarebbe
rimasta pietra su pietra in Gerusalemme, non aveva impedito che venisse
ricostruita.
In quinto luogo, Gesù predisse molte cose di cui Dio non
permise l'adempimento. Predisse la fine del mondo e il suo avvento sulle nubi,
con una gran potenza e una gran maestà, alla fine della generazione che
viveva allora (Luca, XXI): eppure il mondo dura ancora, e durerà
quasi certamente ancora abbastanza a lungo.
In sesto luogo, se Giuliano avesse scritto di questo miracolo,
direi che fu ingannato con un ridicolo trucco: crederei che i cristiani suoi
nemici ce l'abbiano messa tutta per opporsi alla sua impresa: che abbiano
ucciso gli operai, e fatto credere ch'essi erano morti a causa di un miracolo.
Ma Giuliano non ne fece parola. La guerra contro i persi lo teneva impegnato,
allora; differì per il momento la ricostruzione del tempio e morì
prima che i lavori cominciassero.
In settimo luogo, questo miracolo viene riferito da Ammiano Marcellino,
che era pagano. Son quasi certo che si tratta di un'interpolazione cristiana:
ne sono state rimproverate loro tante altre, scoperte più tardi!
Ma è anche verosimile che, in un'età in cui non si
parlava che di prodigi e di stregonerie, Ammiano Marcellino abbia basato questa
favola sulla fede di qualche spirito ingenuo. Da Tito Livio fino a De Thou
incluso, tutte le storie sono infettate di prodigi.
In ottavo luogo, se Gesù faceva miracoli, li avrebbe fatti
proprio per impedire che si ricostruisse un tempio dove lui stesso
sacrificò e fu circonciso? Non avrebbe fatto piuttosto miracoli per
rendere cristiani tanti popoli che si beffavano del cristianesimo, o piuttosto
per rendere più umili e più umani i suoi cristiani, i quali, da
Ario e Atanasio fino a Rolando e ai cavalieri delle Cévenne, versarono torrenti
di sangue e si comportarono da cannibali?
Da ciò concludo che la "natura" non è
"in collusione" col cristianesimo, come scrive La Bletterie, ma
piuttosto che La Bletterie è in collusione con favole da vecchierelle,
come dice Giuliano: "Quibus cum stolidis aniculis negotium erat".
La Bletterie, dopo aver reso giustizia ad alcune virtù di
Giuliano, termina pertanto la storia di questo grand'uomo dicendo che la sua
morte fu dovuta alla "vendetta divina". Se così fosse, tutti
gli eroi morti giovani, da Alessandro a Gustavo Adolfo, sarebbero morti per
punizione di Dio. Giuliano morì della più bella morte, inseguendo
i suoi nemici dopo molte vittorie. Gioviano, che gli succedette, regnò
molti anni meno di lui, e con vergogna. Io non ci vedo affatto la vendetta
divina, e non vedo in La Bletterie che un declamatore in mala fede. Ma dove
sono gli uomini che osano dire la verità? (voi: ma non ho intenzione di
imitarvi).
Lo stoico Libanio fu uno di questi uomini rari: egli
celebrò il valoroso e clemente Giuliano davanti a Teodosio, lo
sterminatore dei Tessalonicesi; ma Le Beau e La Bletterie han paura di lodarlo
davanti a coloro che bazzicano le sacrestie.
(Tratto dal signor Boulanger)
La storia di Giuseppe, a considerarla solo come oggetto di
curiosità e di letteratura, è uno dei più preziosi
monumenti dell'antichità a noi pervenuto. Sembra essere il modello di
tutti gli scrittori orientali; ed è più commovente dell'Odissea
di Omero, perché un eroe che perdona è più commovente di un eroe
che si vendica.
Noi consideriamo gli arabi come i primi autori di quelle ingegnose
finzioni passate poi in tutte le lingue; ma non scorgo presso di loro nessuna
avventura paragonabile a quella di Giuseppe. In essa quasi tutto è
meraviglioso, e la fine può commuovere fino alle lacrime. Si tratta di
un giovane sedicenne di cui i fratelli sono gelosi; egli viene venduto da loro
ad una carovana di mercanti ismaeliti, condotto in Egitto e comperato da un eunuco
del re. Questo eunuco aveva moglie, e ciò non deve sorprendere molto: il
Kizlar-Aga, eunuco completo, cui tutto è stato tagliato, ha oggi un
serraglio a Costantinopoli: gli han lasciato gli occhi e le mani, e la natura
non ha perduto i suoi diritti nel suo cuore. Gli altri eunuchi a cui sono stati
tagliati soltanto i due complementi dell'organo della generazione, spesso
impiegano ancora quest'organo; e Putifar, a cui fu venduto Giuseppe, poteva
benissimo far parte di questo genere di eunuchi.
La moglie di Putifar si innamora del giovane Giuseppe, il quale,
fedele al suo padrone e benefattore, respinge le pressioni della donna. Questa,
infuriata, accusa Giuseppe d'aver voluto sedurla. È la storia di
Ippolito e di Fedra, di Bellerofonte e di Stenobea, di Ebro e di Damasippe, di
Tanis e di Peribea, di Mirtilo e di Ippodamia, di Peleo e di Demenetta.
È difficile sapere, tra tutte queste storie, quale sia
l'originaria, ma negli antichi autori arabi c'è un particolare, a
proposito dell'avventura di Giuseppe e della moglie di Putifar, che è
assai ingegnoso. L'autore suppone che Putifar, incerto fra sua moglie e
Giuseppe, non considerò la tunica di Giuseppe, che la moglie aveva
strappato, come una prova della colpa del giovane.
Nella camera della donna c'era un bambino in una culla; Giuseppe
diceva che la donna gli aveva strappato e tolto la tunica alla presenza del
bambino. Putifar consultò il piccolo, il cui ingegno era molto precoce,
data l'età; il bambino disse a Putifar: "Guarda se la tunica
è strappata davanti o dietro: se lo è davanti, è una prova
che Giuseppe ha voluto prendere con la forza tua moglie, che si difendeva; se
lo è dietro, è una prova che tua moglie lo inseguiva."
Putifar, grazie alla genialità di questo bambino, riconobbe l'innocenza
del suo schiavo. Così è riferita la storia nel Corano,
secondo l'antico scrittore arabo. Questi non si preoccupa di farci sapere a chi
appartenesse il bambino che ragionò con tanta perspicacia: se era figlio
della moglie di Putifar, allora Giuseppe non era il primo uomo che la donna
aveva agguantato.
Comunque sia, Giuseppe, secondo il Genesi, viene messo in
prigione, e qui si trova in compagnia del coppiere e del panettiere del re
d'Egitto. Questi due prigionieri di Stato sognano, durante la notte, e Giuseppe
spiega i loro sogni: predice che entro tre giorni il coppiere rientrerà
in grazia del sovrano e il panettiere sarà impiccato. Il che non
mancò di succedere.
Due anni dopo anche il re d'Egitto fa un sogno: il suo coppiere
gli dice che c'è un giovane ebreo in prigione, che è il primo al
mondo a interpretare i sogni: il re fa venire in sua presenza il giovane, che
gli predice sette anni d'abbondanza e sette anni di carestia.
Interrompiamo per un poco il racconto, per notare quanto
straordinariamente antica sia l'arte d'interpretare i sogni. Giacobbe aveva
visto in sogno la scala misteriosa in cima alla quale stava Dio stesso. E
imparò in sogno il metodo per moltiplicare le sue greggi: metodo che
riuscì solo a lui. Lo stesso Giuseppe aveva saputo da un sogno che un giorno
avrebbe dominato sui suoi fratelli. E, molto tempo prima, Abimelec: era stato
avvertito in sogno che Sara era moglie di Abramo.
Ritorniamo a Giuseppe. Non appena ebbe spiegato il sogno al
Faraone, divenne primo ministro. Dubitiamo che oggi si possa trovare un re, anche
in Asia, che regali una tale carica per l'interpretazione di un sogno. Il
Faraone fece sposare a Giuseppe una figlia di Putifar; si dice che questo
Putifar fosse un gran sacerdote di Eliopolis: non era dunque l'eunuco, suo
primo padrone; o, se era lui, aveva certamente anche un altro titolo oltre a
quello di gran sacerdote, e sua moglie era stata madre più di una volta.
Frattanto, come Giuseppe aveva previsto, sopravvenne la carestia,
e Giuseppe, per meritare le buone grazie del suo re, obbligò tutto il popolo
a vendere le sue terre al Faraone. L'intera nazione si fece schiava per avere
del grano: fu questa, a quanto pare, l'origine del potere dispotico. Bisogna
ammettere che mai re fece migliore affare; ma anche il popolo non doveva certo
benedire il primo ministro.
Infine, anche il padre e i fratelli di Giuseppe ebbero bisogno di
grano, perché "la carestia desolava allora tutta la terra". Non vale
la pena di raccontare qui come Giuseppe accolse i suoi fratelli, come li
perdonò e li arricchì. Si trova in questa storia tutto ciò
che costituisce un poema epico interessante: esposizione, nodo drammatico,
riconoscimento, peripezia e meraviglioso. Nulla reca meglio il marchio del
genio orientale.
Quel che rispose il buon Giacobbe, padre di Giuseppe, al Faraone,
deve ben colpire coloro che sanno leggere: "Quanti anni hai?" gli
chiese il re. "Centotrenta," rispose il vecchio, "e in questo
breve pellegrinaggio non ho mai avuto un giorno felice."
Chi ci ha dato il sentimento del giusto e dell'ingiusto? Dio, che
ci ha fornito di un cervello e di un cuore. Ma quand'è che la ragione ci
illumina sul vizio e la virtù? Quando ci insegna che due più due
fanno quattro. Non c'è conoscenza innata, per la stessa ragione per cui
non c'è albero che sorga dalla terra già carico di foglie e di
frutti. Niente è, come si dice, innato, ossia nato sviluppato; ma,
ripetiamo ancora, Dio ci fa nascere con organi i quali, man mano che si
sviluppano, ci fanno sentire tutto ciò che la nostra specie deve sentire
per la conservazione di se stessa.
Come si produce questo mistero continuo? Ditemelo voi, gialli
abitanti dell'isola della Sonda, neri africani, imberbi canadesi, e voi,
Platone, Cicerone, Epitteto. Voi tutti sentite egualmente che è meglio
dare ciò che avanza del vostro pane, del vostro riso, o della vostra
manioca al povero che ve lo chiede umilmente, anziché ammazzarlo o cavargli gli
occhi. È chiaro a tutti che un beneficio è più onesto di
un oltraggio, che la mitezza è preferibile all'ira.
Si tratta dunque solo di servirci della nostra ragione per
discernere le sfumature dell'onesto e del disonesto. Il bene e il male sono
spesso vicini; le nostre passioni li confondono: chi ci illuminerà? Noi
stessi, se siamo in tranquillità d'animo. Chiunque ha scritto sui nostri
doveri, ha scritto bene in tutti i paesi del mondo, perché ha scritto ubbidendo
alla sua ragione. Tutti hanno detto la stessa cosa: Socrate ed Epicuro,
Confucio e Cicerone, Marco Antonio e Murad II ebbero la stessa morale.
Ripetiamolo ogni giorno a tutti gli uomini: "La morale
è una: essa viene da Dio; i dogmi sono diversi: vengono da noi."
Gesù non insegnò nessun dogma metafisico; non
scrisse opuscoli teologici; non disse: "Io sono consustanziale, ho due
volontà e due nature in una sola persona." Egli lasciò ai
cordiglieri e ai giacobini, che dovevano venire dodici secoli dopo di lui, il
compito di argomentare per stabilire se sua madre fosse stata concepita o no
nel peccato originale; non disse mai che il matrimonio è il segno
visibile di una cosa invisibile; non disse una parola della grazia
concomitante; non istituì né monaci né inquisitori; non prescrisse
niente di quel che vediamo oggi.
Dio aveva dato la conoscenza del giusto e dell'ingiusto in tutti i
tempi che precedettero il cristianesimo. Dio non è mutato e non
può mutare; il fondo della nostra anima, i nostri principi di ragione e
di morale saranno eternamente i medesimi. A che servono alla virtù le
distinzioni teologiche, i dogmi fondati su queste distinzioni, le persecuzioni
fondate su questi dogmi? La natura, sgomenta e fremente d'orrore contro tutte
queste invenzioni barbare, grida a tutti gli uomini: "Siate giusti, e non
dei sofisti persecutori!"
Leggete nel Sadder, che è il compendio delle leggi
di Zoroastro, questa saggia massima: "Quando non è sicuro se
un'azione che ti viene proposta sia giusta o ingiusta, astieniti." Chi mai
dette una regola più ammirevole? Quale legislatore si espresse meglio?
Non è questo il sistema delle opinioni probabili, inventate da gente che
si chiamava "la Società di Gesù".
Ben-al-Betif, quel degno capo dei dervisci, diceva loro un giorno:
"Fratelli miei, sarà bene che vi serviate spesso di quella sacra
formula del nostro Corano: "In nome di Dio molto
misericordioso", perché Dio usa misericordia, e voi imparerete a usarla
ripetendo spesso le parole che raccomandano una virtù senza la quale non
resterebbero sulla terra che ben pochi uomini. Ma guardatevi bene, fratelli
miei, d'imitare quei temerari che si vantano ogni momento di lavorare per la
gloria di Dio. Se un giovane imbecille sostiene una tesi sulle categorie
davanti a un ignorante in toga impellicciata, non manca di scrivere in grossi
caratteri a capo della sua tesi: "Ek Allâh abron doxa: ad majorem Dei
gloriam". Se un buon musulmano fa imbiancare il suo salotto, subito fa
dipingere sull'uscio queste quattro parole; se un "saka" porta
dell'acqua, lo fa per la maggior gloria di Dio. È un uso empio piamente
praticato. Che direste di un umile servitore che, vuotando il vaso da notte del
nostro sultano, esclamasse "Alla maggior gloria del nostro invincibile
monarca"? Eppure, c'è ben maggior distanza dal sultano a Dio che
dal sultano all'umile servitore.
"Che avete in comune, miserabili vermi della terra chiamati uomini,
con la gloria dell'Essere infinito? Può egli amare la gloria? Può
riceverne da voi? Può goderne? Fino a quando, animali bipedi e implumi,
concepirete Dio a vostra immagine? E che! Perché voi siete vanitosi, perché
amate la gloria, volete che anche Dio l'ami. Se esistessero molti dei, forse
ognuno di loro vorrebbe ottenere i suffragi dei suoi simili. Questa sarebbe la
gloria di un dio. Se si può paragonare la grandezza infinita con
l'estrema piccolezza, questo Dio sarebbe come il re Alessandro, o Iskander, il
quale voleva entrare in lizza solo contro dei re. Ma voi, poveri vermi, quale
gloria potete procurare a Dio? Cessate di profanare il suo santo nome! Un
imperatore, chiamato Ottaviano Augusto, proibì che lo si lodasse nelle
scuole di Roma, per timore che il suo nome venisse avvilito. Ma voi non potete
né avvilire l'Essere supremo né onorarlo. Annientatevi, adorate e tacete."
Così parlava Ben-al-Betif; e i dervisci gridarono:
"Gloria a Dio! Ben-al-Betif ha parlato da saggio!"
Sacri consultori della Roma moderna, illustri e infallibili
teologi, nessuno rispetta più di me le vostre divine decisioni; ma se
Paolo Emilio, Scipione, Catone, Cicerone, Cesare, Tito, Traiano, Marco Aurelio
tornassero in quella Roma cui un giorno dettero una certa fama, dovete
riconoscere ch'essi sarebbero un po'stupiti delle vostre decisioni intorno alla
grazia. Che direbbero se udissero parlare della grazia di salvezza secondo san
Tommaso, e della grazia medicinale secondo il Caietano; della grazia esteriore
e interiore, della gratuita, della santificante, dell'attuale, dell'abituale,
della cooperante; dell'efficace, che qualche volta resta senza effetto; della
sufficiente, che qualche volta non basta;della versatile e della congrua? In
buona fede, essi ne capirebbero più di voi e di me?
Che bisogno avrebbe questa povera gente delle vostre sublimi
istruzioni? Mi sembra di udirli dire:
Reverendi Padri, voi siete dei terribili geni; noi pensavamo
stoltamente che l'Essere eterno non si conducesse mai secondo leggi
particolari, come i vili umani, ma secondo le sue leggi generali, eterne come
lui. Nessuno ha mai immaginato fra noi che Dio fosse simile a un padrone
insensato, che dà un peculio a uno schiavo e rifiuta il nutrimento a un
altro; che ordina a un monco d'impastare farina, a un muto di leggergli qualcosa,
a un paralitico di fargli da corriere.
Tutto è grazia da parte di Dio: egli ha fatto al mondo che
abitiamo la grazia di formarlo; agli alberi, la grazia di farli crescere; agli
animali, quella di nutrirli. Ma si potrà dire che, se un lupo trova
sulla sua strada un agnello per la sua cena, e un altro lupo muore di fame, Dio
ha concesso al primo una grazia particolare? O che si è preso cura, con
una grazia preveniente, di far crescere una quercia a preferenza di un'altra,
cui manca la linfa? Se in tutta la natura tutti gli esseri sono soggetti alle
leggi generali, perché mai una sola specie d'animali non dovrebbe esservi
soggetta?
Perché il padrone assoluto di tutto dovrebbe prendersi cura di
dirigere la vita intima di un solo uomo, più che di governare il resto
dell'intera natura? Per quale bizzarria dovrebbe cambiare qualcosa nel cuore di
un curlandese o di un biscaglino, mentre non cambia mai nulla alle leggi che ha
imposto a tutti gli astri?
Che miseria supporre ch'egli faccia, disfi e rifaccia di continuo
i nostri sentimenti! E che audacia crederci diversi da tutti gli esseri! Per di
più, soltanto in coloro che vanno a confessarsi avverrebbero questi
mutamenti. E così, un savoiardo, un bergamasco avrà il
lunedì la grazia di far dire una messa per dodici soldi; il
martedì, andrà all'osteria e la grazia lo pianterà in
asso; il mercoledì avrà una grazia cooperante che lo
spingerà a confessarsi, ma non avrà la grazia efficace della
perfetta contrizione; il giovedì avrà invece una grazia
sufficiente, che però, come si è detto, non lo assisterà
sufficientemente. Dio lavorerà di continuo nella testa di quel
bergamasco, ora con forza, ora debolmente, mandando al diavolo il resto della
terra. Non si degnerà di occuparsi dell'intimo degli indiani e dei
cinesi! Reverendi Padri, se vi resta un granello di ragione, non trovate questo
sistema enormemente ridicolo?
Sciagurati, guardate quella quercia la cui cima si tende verso le
nuvole, e quella canna che striscia ai suoi piedi: voi non dite che la grazia
efficace è stata concessa alla quercia e negata alla canna. Alzate gli
occhi al cielo, guardate l'eterno Demiurgo che crea milioni di mondi che
gravitano tutti gli uni verso gli altri in virtù di leggi universali ed
eterne. Vedete la stessa luce riflettersi dal sole a Saturno, e da Saturno a
noi; e in questo accordo di tanti astri trascinati in rapido moto, in questa
generale obbedienza di tutta la natura, osate credere, se potete, che Dio si
preoccupi di dare una grazia versatile a suor Teresa e una concomitante a suor
Agnese!
Atomo, al quale uno stupido atomo ha detto che l'Eterno ha leggi
particolari per alcuni atomi del tuo vicinato, che concede la sua grazia a
questo e la rifiuta a quello, che un tale, che non aveva la grazia ieri,
l'avrà domani: non ripetere questa sciocchezza. Dio ha fatto l'universo,
e non creerà certo nuovi venti per smuovere qualche fuscello di paglia
in un angolino dell'universo. I teologi sono come i guerrieri di Omero, i quali
credevano che gli dei si armassero ora contro di loro, ora in loro favore. Se
Omero non fosse considerato un poeta, sarebbe certo considerato un
bestemmiatore.
È Marco Aurelio che parla così, non io. Perché Dio,
che vi ispira, mi fa la grazia di credere a tutto quello che voi dite, a tutto
quello che avete detto e a tutto quello che direte.
La carestia, la peste e la guerra sono i tre più famosi
ingredienti di questo basso mondo. Si possono collocare nella classe della
carestia tutti i cattivi nutrimenti cui la penuria ci costringe a ricorrere per
abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla.
Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che sono
in numero di due o tremila. Questi due presenti ci vengono dalla provvidenza.
Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dall'inventiva di tre o
quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di
principi o di governanti; è forse per questo motivo che costoro, in
molte dediche, vengono chiamati "immagini viventi della
divinità".
L'ottimista più risoluto ammetterà senza fatica che
la guerra trascina sempre con sé la peste e la fame, per poco che abbia visto
gli ospedali degli eserciti in Germania, o che sia passato in qualche villaggio
dove è stata compiuta qualche impresa bellica.
Non c'è dubbio che non sia una bellissima arte, quella che
devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa crepare, normalmente, in un
anno, quarantamila uomini su centomila. Quest'invenzione fu dapprima coltivata
da nazioni che s'erano riunite per il bene comune; per esempio la dieta dei greci
dichiarò alla dieta della Frigia e dei popoli vicini che sarebbe partita
su un migliaio di barche da pesca per andare a sterminarli, se poteva.
Il popolo romano adunato in assemblea giudicava che era suo
interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio, o
contro i volsci. E qualche anno dopo tutti i romani, avendocela a morte contro
tutti i cartaginesi, combatterono a lungo per mare e per terra. Oggi le cose
vanno altrimenti.
Un genealogista prova a un principe che egli discende in linea
diretta da un conte i cui parenti, tre o quattrocent'anni prima, avevano fatto
un patto di famiglia con un casato di cui non rimane nemmeno la memoria. Quel
casato aveva lontane pretese su una provincia il cui ultimo possessore è
morto di apoplessia: il principe e il suo consiglio concludono senza
difficoltà che quella provincia gli appartiene per diritto divino. La
provincia in questione, che si trova a qualche centinaio di leghe di distanza,
ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha nessuna voglia di essere
governata da lui; che, per dar leggi alla gente, bisogna almeno avere il loro
consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno agli orecchi del principe, il
cui diritto è incontestabile. Egli trova di botto una quantità di
uomini che non hanno niente da fare e niente da perdere; li veste d'un grosso
panno turchino a cento soldi il braccio, orla il loro cappello d'un cordoncino
bianco, li fa girare a destra e a sinistra e marcia verso la gloria.
Gli altri principi, che sentono parlare di questa spedizione, vi
prendono parte, ciascuno secondo il suo potere, e coprono pochi palmi di terra
di più mercenari omicidi di quanti ne trascinassero al loro seguito
Gengis-Khân, Tamerlano, o Bâyazîd.
Popoli lontani sentono dire che qualcuno sta per battersi, e che
ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare se vogliono essere della
partita: subito si dividono in due schiere come i mietitori, e vanno a vendere
i loro servizi a chiunque voglia assoldarli.
Queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre non
soltanto senza avere alcun interesse nella faccenda, ma senza neppure sapere di
che si tratti.
E così si trovano contemporaneamente cinque o sei potenze
belligeranti, ora tre contro tre, ora due contro quattro, ora una contro
cinque; e tutte si detestano allo stesso modo, e di volta in volta si alleano e
s'attaccano; tutte d'accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile.
La cosa più strabiliante di questa impresa infernale
è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca
solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto
la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma
quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per
colmo di grazia, è stata distrutta fino all'ultima pietra qualche
città, allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga,
composta in una lingua ignota a tutti coloro che hanno combattuto, e per di
più infarcita di barbarismi. La medesima canzone serve per i matrimoni e
per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile,
soprattutto nel paese più famoso per le canzoni nuove che inventa a
getto continuo.
La religione naturale ha innumerevoli volte impedito ai cittadini
di commettere crimini. Un'anima bennata non ne ha la volontà; un'anima
tenera ne ha orrore; essa si figura un dio giusto e vendicativo. Invece la
religione artificiale incoraggia tutte le crudeltà che si commettono in
gruppo: congiure, rivolte, rapine, imboscate, assalti alle città,
saccheggi, stragi. Ognuno allegramente va incontro al delitto sotto la bandiera
del proprio santo.
Ovunque viene pagato un certo numero d'oratori per celebrare
quelle giornate di sangue; gli uni sono vestiti di un lungo giustacuore nero e
di mantelluccio; gli altri indossano una camicia sopra una veste; alcuni
portano sopra la camicia due strisce penzolanti di stoffa screziata. Tutti
parlano a non finire: citano quel che si è fatto un giorno in Palestina
a proposito di un combattimento in Veteravia.
Il resto dell'anno, questi tali declamano contro i vizi. Provano
in tre punti e per antitesi che le dame che stendono un lieve strato di
carminio sulle loro guance fresche saranno oggetto eterno delle eterne vendette
dell'Eterno; che Polyeucte e Athalie sono opere del demonio; che
un uomo che si fa servire in tavola duecento scudi di merluzzo in un giorno di
quaresima ottiene immancabilmente il premio del paradiso, e che un pover'uomo
che mangia due soldi e mezzo di montone è dannato per sempre
all'inferno.
Su cinque o seimila declamazioni di questa specie, ce ne sono al
massimo tre o quattro, composte da un gallo di nome Massillon, che un uomo
retto può leggere senza disgusto; ma in tutti quei discorsi, non ce
n'è uno in cui l'oratore osi ergersi contro quel flagello e quel crimine
che è la guerra, la quale comprende in sé tutti i flagelli e tutti i
crimini. Quegli sciagurati oratori parlano continuamente contro l'amore, che
è la sola consolazione del genere umano e il solo modo di ridargli vita;
non dicono niente degli sforzi esecrandi che facciamo per distruggerlo.
Hai fatto un gran brutto sermone sull'impurità, o
Bourdaloue! ma non hai fiatato contro quegli omicidi compiuti in mille modi
diversi, quelle rapine, quei brigantaggi, quella rabbia universale che devasta
il mondo. Tutti i vizi riuniti di tutte le età e di tutti i luoghi non
eguaglieranno mai i mali che produce una sola campagna di guerra.
Miserabili medici delle anime, state a gridare per cinque quarti
d'ora su qualche puntura di spillo, e non dite niente sulla malattia che ci
lacera in mille pezzi! Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri!
Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di
nostri fratelli, la parte del genere umano che si consacra all'eroismo
sarà quanto c'è di più infame nell'intera natura.
Che diventano e che m'importano l'umanità, la beneficenza,
la modestia, la temperanza, la dolcezza, la saggezza, la pietà, mentre
mezza libbra di piombo sparata da seicento passi mi dilania il corpo, e muoio a
vent'anni tra tormenti indicibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi,
mentre i miei occhi, che s'aprono per l'ultima volta, vedono la città
dove sono nato distrutta dal ferro e dalle fiamme, e gli ultimi suoni che odono
le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini agonizzanti sotto le
rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo?
E il peggio è che la guerra è un flagello
inevitabile. A guardar bene, tutti gli uomini hanno adorato il dio Marte:
Sabaoth, per gli ebrei, significa il dio degli eserciti; ma Minerva, in Omero,
chiama Marte un dio furioso, insensato, infernale.
Che cos'è un'idea?
È un'immagine che si dipinge nel mio cervello.
Tutti nostri pensieri sono dunque immagini?
Certamente, perché le idee più astratte nascono dalla mia
percezione degli oggetti. Io pronuncio la parola "essere" in
generale, solo perché ho conosciuto esseri particolari. Pronuncio la parola
"infinito" solo perché, avendo visto dei limiti, allontano nel mio
intelletto questi limiti quanto più posso. Io ho idee solo perché ho
immagini in testa.
E qual è il pittore che fa questo quadro?
Non sono io, non sono un disegnatore tanto bravo: colui che mi ha
fatto, fa le mie idee.
Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva che noi
vediamo tutto in Dio?
Per lo meno sono ben sicuro che, se non vediamo le cose in Dio, le
vediamo grazie alla sua azione onnipotente.
E come si effettua questa azione?
V'ho detto cento volte, nelle nostre conversazioni, che non ne
sapevo nulla, e che Dio non ha rivelato il suo segreto a nessuno. Io ignoro
cos'è che fa battere il mio cuore, correre il mio sangue nelle vene;
ignoro il principio di tutti i miei movimenti; e voi vorreste che vi dicessi in
quale modo sento o penso? Non è giusto.
Ma sapete almeno se la vostra facoltà d'avere idee è
congiunta all'estensione?
Non ne so nulla. È ben vero che Taziano, nel suo discorso
ai greci, dice che l'anima è manifestamente composta di un corpo.
Ireneo, nel capitolo LXII del secondo libro, dice che il Signore ha insegnato
che le nostre anime conservano l'aspetto del nostro corpo per conservarne la
memoria. Tertulliano assicura, nel secondo libro del suo De anima,
ch'essa è un corpo. Arnobio, Lattanzio, Ilario, Gregorio di Nissa,
Ambrogio non sono di parere diverso. Si vuole che altri Padri della Chiesa
abbiano asserito che l'anima è del tutto priva d'estensione, e in
ciò la pensassero come Platone; ma questo è assai dubbio. Quanto
a me, non oso avere alcun parere; io non vedo che cose incomprensibili nell'uno
e nell'altro sistema; e dopo essermi dedicato tutta la vita, sono rimasto al
punto di prima.
Non valeva dunque la pena di pensarci.
È vero: chi gode ne sa più di chi riflette, o almeno
sa meglio, è più felice. Ma che volete? Non è dipeso da me
né di ricevere né di respingere tutte le idee che son piombate nel mio cervello
per combattersi a vicenda, prendendo le mie cellule midollari come campo di
battaglia. E dopo che si sono ben combattute, non ho raccolto dalle loro
spoglie altro che l'incertezza.
È triste avere tante idee, e non conoscere con precisione
la loro natura.
Lo ammetto: ma è assai più triste e stupido credere
di sapere quello che non si sa.
Idolo viene dal greco $åqäïò$, figura;
$ånäùëïí$, rappresentazione di una figura;
$ëáôñåýåéí$, servire, riverire, adorare. La parola
"adorare" è latina e ha molti significati diversi: significa
portare la mano alla bocca parlando con rispetto, inchinarsi, mettersi in
ginocchio, salutare e, infine, nel senso più comune, rendere un culto
supremo.
È utile rilevare a questo punto che le Mémoires de
Trévoux cominciano questa voce col dire che tutti i pagani erano idolatri,
e che gli indiani sono tuttora tali. Per prima cosa, nessuno fu mai chiamato
"pagano" prima del tempo di Teodosio il Giovane; questo nome fu dato
allora agli abitanti dei borghi d'Italia - pagorum incolae, pagani - i
quali conservarono la loro antica religione. In secondo luogo, l'Indostan
è maomettano, e i maomettani sono implacabili nemici delle immagini e
dell'idolatria. In terzo luogo, non bisogna affatto chiamare
"idolatri" molti popoli dell'India, che osservano l'antica religione
dei parsi, né certe caste che non hanno idoli.
Se sia mai esistito uno stato idolatra
Sembra che non sia mai esistito nessun popolo della terra che si
sia autodefinito idolatra. Questa parola è un'ingiuria, un termine
oltraggioso, come quello di gavaches che gli spagnoli davano un tempo ai
francesi, o quello di marrani che i francesi davano agli spagnoli. Se si
fosse chiesto al senato di Roma, all'areopago di Atene, alla corte di Persia:
"Siete idolatri?" difficilmente avrebbero inteso questa domanda.
Nessuno avrebbe risposto: "Sì, noi adoriamo delle immagini, degli
idoli." La parola "idolatra, idolatria" non si trova né in Omero
né in Esiodo, né in Erodoto, né in nessun altro autore della religione dei
gentili. Non ci fu mai alcun editto, alcuna legge che ordinasse di adorare
degli idoli, di servirli e considerarli come dei.
Quando i condottieri romani e cartaginesi stipulavano un trattato,
chiamavano a testimoni tutti i loro dei. "Davanti a loro," dicevano,
"noi giuriamo la pace." Ora le statue di tutti questi dei, il cui
elenco era lunghissimo, non stavano certo nella tenda dei generali. Essi
consideravano gli dei come presenti alle azioni degli uomini, come testimoni,
come giudici. E certamente la divinità non si riduceva al suo simulacro.
Con che occhio vedevano dunque le statue delle loro false
divinità nei templi? Con lo stesso occhio, se è permesso
esprimersi così, col quale noi vediamo le immagini degli oggetti della
nostra venerazione. L'errore non era quello d'adorare un pezzo di legno o di
marmo, ma di adorare una falsa divinità rappresentata da quel legno e
quel marmo. La differenza fra loro e noi non consiste nel fatto che essi
avessero immagini, mentre noi non ne abbiamo; ma che le loro immagini
raffiguravano esseri fantastici in una religione falsa, mentre le nostre
raffiguravano esseri reali in una religione vera. I greci avevano la statua di
Ercole, e noi quella di san Cristoforo; essi avevano Esculapio e la sua capra,
e noi san Rocco e il suo cane; avevano Giove armato del tuono, e noi
sant'Antonio da Padova e san Giacomo di Compostella.
Quando il console Plinio, nell'esordio del suo Panegirico a
Traiano, rivolge le sue preghiere "agli dei immortali", non
è a delle immagini ch'egli si rivolge. Quelle immagini non erano certo
immortali.
Né gli ultimi tempi del paganesimo né quelli più remoti
offrono un solo esempio che possa far concludere che si adorassero idoli. Omero
parla solo degli dei che abitano l'alto Olimpo. Il palladium, benché
caduto dal cielo, non era che un sacro pegno della protezione di Pallade: in
esso si venerava la dea.
Ma i romani e i greci s'inginocchiavano davanti alle statue degli
dei, offrivano loro corone, incenso, fiori, e le portavano in trionfo nelle
pubbliche piazze. Noi abbiamo santificato queste usanze, senza per questo
essere idolatri.
Le donne, in tempo di siccità, portavano in giro le statue
degli dei dopo aver digiunato. Camminavano a piedi nudi, i capelli sciolti, e
presto si metteva a piovere a secchi, come dice Petronio: "et statim
urceatim pluebat". Non abbiamo forse consacrato quest'uso, illegittimo
presso i gentili, e indubbiamente legittimo fra noi? In quante città non
si portano in giro, camminando a piedi nudi, le reliquie dei santi per ottenere
con la loro intercessione le benedizioni del cielo? Se un turco o un letterato
cinese fosse testimone di queste cerimonie, potrebbe sulle prime per ignoranza
accusarci di riporre la nostra fiducia nei simulacri che portiamo in
processione: ma basterebbe una parola per disingannarlo.
Si resta stupiti del numero straordinario di declamazioni rivolte
in tutti i tempi conto l'idolatria dei romani e dei greci; e poi si resta
ancora più stupiti quando si vede che essi non erano affatto idolatri.
Ci sono sempre stati templi più privilegiati degli altri.
La grande Diana di Efeso godeva di una maggior reputazione di una Diana da
villaggio. Avvenivano più miracoli nel tempio di Esculapio a Epidauro
che in altri suoi templi. La statua di Giove Olimpio attirava più
offerte di quella di Giove Paflagone. Ma, poiché bisogna sempre opporre le
usanze di una religione vera a quelle di una religione falsa, non sentiamo anche
noi da tanti secoli più devozione per certi altari che per altri? Non
portiamo forse più offerte alla Madonna di Loreto che non alla Madonna
delle Nevi? Sta a noi vedere se si deve prendere questo pretesto per accusarci
d'idolatria.
Si era immaginata una sola Diana, un solo Apollo, un solo
Esculapio e non tanti Apolli, tante Diane e tanti Esculapi quante erano le loro
statue o i loro templi. È dunque provato, quanto può esserlo un
fatto storico, che gli antichi non credevano che una statua fosse una divinità,
che il culto non poteva essere riferito a quella statua, a quell'idolo, e che,
di conseguenza, gli antichi non erano idolatri.
Un volgo rozzo e superstizioso che non ragionava, che non sapeva
né dubitare, né negare, né credere, che accorreva ai templi per ozio, e perché
in essi i poveri sono eguali ai ricchi, che portava la sua offerta per
abitudine, che parlava continuamente di miracoli senza averne esaminato
nessuno, e che non era molto superiore alle vittime che recava; questo volgo,
dico, poteva certo, alla vista della grande Diana e di Giove tonante essere
colpito da religioso orrore, e adorare, senza saperlo, la statua stessa.
È quello che è accaduto e accade talvolta nei nostri templi, con
i nostri rozzi contadini; eppure non si è mancato di insegnar loro che
devono chiedere la loro intercessione ai Beati, agli immortali accolti in
cielo, non a figure di legno o di pietra, e che devono adorare soltanto Dio.
I greci e i romani aumentarono il numero dei loro dei mediante le
apoteosi. I greci divinizzavano i conquistatori, come Bacco, Ercole, Perseo.
Roma innalzò altari ai suoi imperatori. Le nostre apoteosi sono di
genere diverso: noi abbiamo santi in luogo dei loro semidei, dei loro dei
secondari; ma non guardiamo né al rango né alle conquiste. Abbiamo dedicato
templi a uomini semplicemente virtuosi, i quali sarebbero per la maggior parte
ignorati sulla terra, se non fossero stati posti in cielo. Le apoteosi degli
antichi venivan fatte per adulazione; le nostre, per rispetto alle
virtù. Ma quelle prime apoteosi sono un'altra prova convincente che i
greci e i romani non erano propriamente idolatri. È chiaro che non
attribuivano maggior virtù divina alle statue di Augusto e di Claudio
che ai medaglioni con la loro immagine.
Cicerone, nelle sue opere filosofiche, non lascia nemmeno
sospettare che si potesse ingannare nei riguardi delle statue degli dei e
confonderle con gli dei stessi. I suoi interlocutori lanciano fulmini contro la
religione ufficiale; ma nessuno di loro si sogna di accusare i romani di scambiare
dei pezzi di marmo o di bronzo per delle divinità. Lucrezio, pur
così severo contro i superstiziosi, non rimprovera questa sciocchezza a
nessuno. Dunque, ancora una volta, questa opinione non esisteva, non se ne
aveva nessuna idea: non c'erano idolatri.
Orazio fa parlare una statua di Priapo, e le fa dire: "Io una
volta ero un tronco di fico; un falegname, non sapendo se fare di me un dio o
un sedile, decise infine di farmi dio" ecc. Che dobbiamo concludere da
questa storiella faceta? Priapo era una di quelle divinità inferiori, di
cui era permesso ridere; e questa stessa storiella è la prova più
certa che la figura di Priapo, che veniva posta nei frutteti per spaventare gli
uccelli, non era molto riverita.
Dacier, abbandonandosi al suo spirito di commentatore, non ha
mancato d'osservare che Baruch aveva predetto questo fatto, dicendo, "Essi
non saranno altro che quello che vorranno gli artefici"; ma poteva anche
osservare che si può dire lo stesso di tutte le statue.
Si può trarre, da un blocco di marmo, tanto una conca che
una statua di Alessandro o di Giove, o di qualcuno ancor più
rispettabile. La materia di cui erano fatti i cherubini del Santo dei Santi
avrebbe potuto servire ugualmente alle funzioni più vili. Un trono, un
altare sono forse meno riveriti perché l'artefice avrebbe potuto farne invece
una tavola da cucina?
Dacier, anziché concludere che i romani adoravano la statua di
Priapo, e che Baruch l'aveva predetto, avrebbe dovuto dunque concludere che i
romani ne ridevano. Consultate tutti gli autori che parlano delle statue dei
loro dei, non ne troverete nessuno che parli d'idolatria: dicono esattamente il
contrario.
Leggete in Marziale:
Qui finxit sacros auro vel marmore vultus,
Non facit ille deos...
In Ovidio:
Colitur pro Jove forma Jovis.
In Stazio:
Nulla autem effigies, nulli commissa metallo
Forma Dei; mentes habitare ac pectora gaudet.
In Lucano:
Estne Dei sedes, nisi terra et pontus et aer?
Si farebbe un volume di tutti i passi che asseriscono che quelle immagini
non erano altro che immagini.
Soltanto nel caso di statue che pronunciavano oracoli, si è
potuto pensare che esse avessero in sé qualcosa di divino. Ma certo l'opinione
predominante era che gli dei avessero scelto certi altari, certi simulacri per
risiedervi ogni tanto, darvi udienza agli uomini e rispondere loro. In Omero e
nei cori delle tragedie greche si trovano preghiere dedicate solo ad Apollo, il
quale dà i suoi responsi sulle montagne, nel tal tempio, nella tal
città: in tutta l'antichità non c'è la minima traccia
d'una preghiera rivolta a una statua.
Coloro che praticavano la magia, che la credevano una scienza, o
fingevano di crederlo, pretendevano di possedere il segreto di far scendere gli
dei nelle statue: non gli dei maggiori, ma quelli secondari, i geni. Era quel
che Mercurio Trismegisto chiamava "fare dei" e che sant'Agostino
confutava nella sua Città di Dio. Ma ciò stesso mostra con
evidenza che i simulacri non avevano in sé niente di divino, poiché bisognava
che un mago li animasse. E mi sembra che succedesse di rado che un mago fosse
tanto abile da animare una statua e farla parlare. In due parole, le immagini
degli dei non erano dei. Giove, e non la sua immagine, lanciava il fulmine; e
non era la statua di Nettuno ad agitare i mari né quella di Apollo a diffondere
la luce. I greci e i romani erano gentili, politeisti, ma non erano idolatri.
Se i persiani, i sabei, gli egizi, i tartari, i turchi siano stati
idolatri e quanto antica sia l'origine dei simulacri chiamati idoli. Storia del
loro culto
È un grande errore chiamare "idolatri" i popoli
che adorarono il sole e le stelle. Queste nazioni non ebbero per molto tempo né
simulacri né templi. Se si ingannarono fu nel rendere agli astri il culto
dovuto al creatore di questi. Per di più, il dogma di Zoroastro, o
Zardust, raccolto nel Sadder, indica un Essere supremo, vendicatore e
remuneratore: e questo è ben lontano dall'idolatria. Il governo della
Cina non ebbe mai nessun idolo; conservò sempre il semplice culto del
signore del cielo, King-tien. Gengis-Khân, fra i tartari, non era idolatra e
non adorava nessun simulacro. I musulmani, di cui sono piene la Grecia, l'Asia
Minore, la Siria, la Palestina, l'India e l'Africa, chiamano i cristiani
"idolatri", "giaurri", perché credono che i cristiani
osservino il culto delle immagini. Fecero a pezzi molte statue che trovarono a
Costantinopoli, in Santa Sofia, nella chiesa dei Santi Apostoli e in altre che
convertirono in moschee. L'apparenza li ingannò, come sempre inganna gli
uomini, e fece loro credere che dei templi dedicati a santi che un giorno erano
stati uomini, e le immagini di quei santi riverite in ginocchio, e i miracoli
compiuti in quei templi fossero prove inconfutabili della più completa
idolatria. Ma non è affatto così. In effetti i cristiani non
adorano che un solo Dio e nei beati onorano soltanto la virtù stessa di
Dio, che agisce nei suoi santi. Gli iconoclasti e i protestanti lanciarono la
stessa accusa d'idolatria alla Chiesa, e si dette loro la stessa risposta.
Dato che gli uomini hanno avuto molto raramente idee precise, e
ancor meno le hanno espresse con parole precise e non equivoche, noi chiamammo
"idolatri" i gentili, e soprattutto i politeisti. Sono stati scritti
volumi immensi e avanzate varie opinioni sull'origine di questo culto reso a
Dio e a parecchi dei sotto figure sensibili: questa gran massa di libri e tante
opinioni non provano che l'ignoranza.
Non si sa chi inventò gli abiti e le calzature, e vorremmo
sapere chi fu il primo a inventare gli idoli? Che importanza ha quel passo di
Sanchoniaton, che viveva prima della guerra di Troia? Che ci insegna quando
dice che il caos, lo spirito, ovvero "il soffio", amando i suoi
principi, ne trasse il limo, rese l'aria luminosa; e che il vento Colp e sua
moglie Bau generarono Eon, che Eon generò a sua volta Genos; che Cronos,
loro discendente, aveva due occhi dietro e due davanti, che divenne dio e che
donò l'Egitto a suo figlio Thoth? Ecco uno dei più rispettabili
monumenti dell'antichità.
Orfeo, anteriore a Sanchoniaton, non ci dirà molto di
più con la sua Teogonia, conservataci da Damascio. Egli
rappresenta il principio del mondo sotto la figura di un dragone con due teste:
una di toro, l'altra di leone, un viso in mezzo, che chiama
"volto-dio"; e, sulle spalle, ali dorate.
Ma da queste idee bizzarre potrete trarre due grandi
verità: la prima, che le immagini sensibili e i geroglifici appartengono
alla più remota antichità; la seconda, che tutti gli antichi
filosofi riconobbero un primo principio.
Quanto al politeismo, il buon senso vi dirà che, da quando
ci furono uomini, ossia animali deboli, capaci di ragione e di follia, soggetti
a tutti gli accidenti, alla malattia e alla morte, questi uomini avvertirono la
loro debolezza e il loro stato di dipendenza: riconobbero facilmente che esiste
qualcosa di più potente di loro; sentirono una forza nella terra che
fornisce loro gli alimenti, una nell'aria che spesso li distrugge, una nel
fuoco che consuma e nell'acqua che sommerge. Che di più naturale, per
uomini ignoranti, dell'immaginare esseri che presiedevano a tali elementi? del
riverire la forza invisibile che faceva risplendere ai nostri occhi il sole e
le stelle? E, appena ci si volle fare un'idea di quelle potenze superiori
all'uomo, che di più naturale del figurarsele in maniera sensibile? Era
forse possibile pensare altrimenti? La religione ebraica, che precedette la
nostra e che fu data da Dio stesso, era tutta piena di quelle immagini sotto le
quali viene rappresentato Dio. Egli si degna di parlare in un roveto il linguaggio
umano; appare su una montagna; gli spiriti celesti che invia si presentano
tutti sotto forma umana; infine, il santuario è affollato di cherubini,
che hanno corpi d'uomini e ali e teste d'animali. Fu questo che dette origine
all'errore di Plutarco, di Tacito, d'Appiano e di tanti altri, che
rimproverarono agli ebrei di adorare una testa di somaro. Dio, nonostante il
suo divieto di dipingere o scolpire qualsiasi immagine, si degnò dunque
di conformarsi ai sensi per mezzo di immagini.
Isaia, nel capitolo VI, vede il Signore seduto su un trono, e il
lembo della sua veste che riempie il tempio. Il Signore stende la mano e tocca
la bocca di Geremia, nel capitolo I del libro di questo profeta. Ezechiele, nel
capitolo III, vede un trono di zaffiro e Dio gli appare come un uomo seduto su
quel trono. Queste immagini non alterano affatto la purezza della religione
ebraica, che non fece mai uso di quadri, di statue, di idoli, per rappresentare
Dio agli occhi del popolo.
I letterati cinesi, i parsi, gli antichi egiziani non ebbero
idoli; ma ben presto Iside e Osiride furono raffigurati; ben presto Bel, a
Babilonia, fu un gran colosso e, nella penisola indiana, Brâhmâ fu un mostro
bizzarro. I greci, più degli altri, moltiplicarono i nomi degli dei, le
statue e i templi, ma attribuendo sempre il supremo potere al loro Zeus,
chiamato dai latini Giove, signore degli dei e degli uomini. I romani imitarono
i greci. Sede di tutti gli dei fu sempre, per questi popoli, il cielo, pur
senza che essi sapessero cosa intendevano per cielo e per il loro Olimpo; non
era molto probabile che questi esseri superiori abitassero nelle nuvole, che
non sono che acqua. In un primo tempo ne collocarono sette in sette pianeti,
fra i quali era compreso il sole; ma, più tardi, la dimora di tutti gli
dei fu l'immensa distesa del cielo.
I romani ebbero i loro dodici grandi dei, sei maschi e sei
femmine, che chiamarono Dii majorum gentium: Giove, Nettuno, Apollo,
Vulcano, Marte, Mercurio, Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Venere, Diana.
Plutone fu allora dimenticato: Vesta prese il suo posto.
Venivano poi gli dei minorum gentium: gli dei indigeni, gli
eroi, come Bacco, Ercole, Esculapio; gli dei infernali, Plutone e Proserpina;
quelli del mare, come Tetide, Anfitrite, le Nereidi, Glauco, le Driadi, le Naiadi;
gli dei degli orti, quelli dei pastori. Ce n'erano per ogni professione, per
ogni azione della vita, per i bambini, le ragazze nubili, le sposate, le
puerpere; ci fu anche il dio Peto. Infine si divinizzarono gli imperatori. Per
la verità, né questi imperatori, né il dio Peto, né la dea Pertunda, né
Priapo, né Rumilia, la dea delle mammelle, né Stercuzio, il dio dei cessi,
furono mai considerati come i signori del cielo e della terra. Gli imperatori
ebbero qualche volta dei templi, i piccoli dei penati non ne ebbero mai, ma
tutti ebbero la loro figura, il loro idolo.
Erano piccoli fantocci con cui si ornavano le stanze, lo spasso
delle vecchiette e dei bambini, ma non erano autorizzati da nessun culto
pubblico. Si lasciava agire a suo piacimento la superstizione di ognuno. Si
trovano ancora questi piccoli idoli nelle rovine delle antiche città.
Se nessuno sa quando gli uomini cominciarono a fabbricare idoli,
si sa che essi risalgono alla più remota antichità: Tare, padre
di Abramo, ne fabbricava a Ur, in Caldea; Rachele rubò e portò
via con sé gli idoli di suo suocero Labano. Non possiamo risalire più
lontano.
Ma che concetto avevano gli antichi popoli di tutti questi
simulacri? Quale virtù, quale potenza si attribuiva loro? Credevano
forse che gli dei scendessero dal cielo per venire a nascondersi in quelle
statue, o che comunicassero ad esse una parte dello spirito divino, o che non
comunicassero niente? Anche su questo punto si è scritto molto e
inutilmente: è chiaro che ogni uomo giudicava secondo il grado della sua
ragione, o della sua credulità, o del suo fanatismo. È evidente
che i preti attribuivano la maggior divinità possibile alle loro statue,
per ricevere più offerte. Sappiamo che i filosofi riprovavano queste superstizioni,
che i guerrieri ne ridevano, che i magistrati le tolleravano, e che il popolo,
sempre ottuso, non sapeva quel che faceva. È, in poche parole, la storia
di tutti i popoli cui Dio non si è fatto conoscere.
Ci si può fare la stessa idea del culto che tutto l'Egitto
tributò a un bue, e molte città a un cane, a una scimmia, a un
gatto, a delle cipolle. Molto probabilmente furono in un primo tempo solo dei
simboli. Poi, un certo bue Api, un certo cane chiamato Anubi, vennero adorati;
si mangiò sempre del bue, e si mangiarono delle cipolle; ma è
difficile sapere che cosa pensassero delle cipolle sacre e dei buoi le
vecchiette egiziane.
Gli idoli parlavano abbastanza spesso. A Roma, in occasione della
festa di Cibele, si commemoravano le belle parole che la statua aveva
pronunziato il giorno in cui se ne fece la traslazione dal palazzo del re
Attalo:
Ipsa peti volui; ne sit mora, mitte volentem: Dignus
Roma locus quo deus omnis eat.
Anche la statua della Fortuna aveva parlato: gli Scipioni,
Cicerone, i Cesari, per la verità non ci credevano affatto, ma la
vecchia, cui Encolpo dette uno scudo perché si comperasse delle oche e degli
dei, poteva benissimo crederlo.
Gli idoli pronunciavano anche oracoli, e i sacerdoti nascosti nel
cavo delle statue, parlavano in nome della Divinità.
Come mai, fra tanti dei e tante teogonie diverse e culti
particolari non ci furono mai guerre di religione fra i popoli chiamati
"idolatri"? Quella pace fu un bene che nacque da un male, dall'errore
stesso, perché ogni popolo, riconoscendo molti dei inferiori, reputò
conveniente che i suoi vicini avessero i loro. Se eccettuate Cambise, cui si
rimproverava d'avere ucciso il bue Api, non si trova nella storia profana
nessun conquistatore che abbia maltrattato gli dei del popolo vinto. I gentili
non avevano nessuna religione esclusiva, e i sacerdoti non pensavano che a far
moltiplicare le offerte e i sacrifici.
Le prime offerte furono di frutta; ma ben presto occorsero degli
animali per la tavola dei sacerdoti; li sgozzavano essi stessi; diventarono
sanguinari e crudeli; infine introdussero l'orrenda usanza di sacrificare
vittime umane, e soprattutto bambini e fanciulle. Mai i cinesi, né i parsi, né
gli indiani si resero colpevoli di tali abominii. Ma in Egitto, a Ieropoli, a
detta di Porfirio, si immolarono uomini.
Nella Tauride si sacrificavano gli stranieri; per fortuna, i
sacerdoti della Tauride non dovevano avere molto lavoro. I primi greci, i
ciprioti, i fenici, i tiri, i cartaginesi praticarono quest'abominevole
superstizione. Gli stessi romani caddero in tale delitto di religione, e
Plutarco ci fa sapere che furori sacrificati due greci e due galli, per espiare
i peccati d'amore di tre vestali. Procopio, contemporaneo del re dei franchi
Teodeberto, dice che quando i franchi entrarono con quel principe in Italia,
immolarono degli uomini. Per i galli e i germani tali orribili sacrifici erano
pratica comune. Non si può quasi leggere la storia senza concepire
orrore per il genere umano.
È vero che, presso gli ebrei, Jefte sacrificò sua figlia,
e che Saul fu sul punto d'immolare suo figlio; è vero che coloro che
eran votati al Signore per anatema non potevano essere riscattati come si
riscattavano gli animali, e bisognava che morissero. Samuele, sacerdote ebreo,
tagliò a pezzi con una sacra mannaia il re Agag, prigioniero di guerra
cui Saul aveva perdonato; e Saul fu anzi riprovato per aver osservato il
diritto delle genti con quel re. Solo Dio, signore degli uomini, può
togliere loro la vita quando vuole, e per mezzo di chi vuole; e non spetta agli
uomini mettersi al posto del Signore della vita e della morte e usurpare i
diritti dell'Essere supremo.
Per consolare il genere umano di quest'orribile quadro, di questi
pii sacrilegi, è importante sapere che, presso quasi tutte le nazioni
chiamate "idolatre", c'erano la teologia sacra e l'errore popolare,
il culto segreto e le cerimonie pubbliche, la religione dei saggi e quella del
volgo. Nei misteri si apprendeva agli iniziati l'esistenza di un solo Dio: non
c'è che da gettare gli occhi sull'inno attribuito all'antico Orfeo, che
si cantava nei misteri di Cerere Eleusina, così celebre in Europa e in
Asia: "Contempla la natura divina, illumina il tuo spirito, governa il tuo
cuore; cammina nelle vie della giustizia: che il Dio del cielo e della terra
sia sempre presente ai tuoi occhi egli è unico, esiste solo per se
stesso: tutti gli esseri ricevono da lui la loro esistenza; egli li sostiene
tutti; non è mai stato visto dai mortali, e vede ogni cosa."
Si legga anche questo passo del filosofo Massimo di Madaura, nella
sua Lettera a sant'Agostino: "Quale uomo è così rozzo
e ottuso da dubitare dell'esistenza di un Dio supremo, eterno, infinito, che
niente ha generato di simile a lui, e che é il padre comune di tutte le
cose?"
Sappiamo, in base a mille testimonianze, che i saggi aborrivano
non solo l'idolatria, ma anche il politeismo.
Epitteto, quel modello di rassegnazione e di pazienza, quell'uomo
così grande in una condizione così bassa, non parla mai che di un
solo Dio. Ecco una delle sue massime: "Dio mi ha creato, Dio è
dentro di me; io lo porto dappertutto. Potrei insozzarlo con pensieri osceni,
con azioni ingiuste, con desideri infami? Il mio dovere è di ringraziare
Iddio di tutto, lodarlo di tutto e non cessare di benedirlo se non cessando di
vivere." Tutte le idee di Epitteto si basano su questo principio.
Marco Aurelio, tanto grande, forse, sul trono dell'impero romano,
quanto Epitteto nella sua condizione di schiavo, parla spesso, in
verità, degli dei, sia per conformarsi al linguaggio comune, sia per
indicare esseri intermedi fra l'Essere supremo e gli uomini. Ma in questi passi
mostra di non riconoscere che un solo Dio, eterno, infinito. "La nostra
anima," dice, "è un'emanazione della Divinità. I miei
figli, il mio corpo, il mio spirito mi vengono da Dio."
Gli stoici, i platonici ammettevano una natura divina e
universale; gli epicurei la negavano. I pontefici, nei misteri, parlavano di un
solo Dio. Dov'erano dunque gli idolatri?
Del resto, uno dei grandi errori del Dictionnaire del
Moréri è l'aver detto che dal tempo di Teodosio il Giovane non restarono
più idolatri fuorché nei remoti paesi dell'Asia e dell'Africa. C'erano
in Italia molti popoli ancora pagani perfino nel VII secolo. Il Nord della
Germania, al di là del Weser, non era ancora cristiano, al tempi di
Carlo Magno. La Polonia e tutto il Settentrione rimasero a lungo, dopo di lui,
nella cosiddetta idolatria. Metà dell'Africa, tutti i regni al di
là del Gange, il Giappone, la plebe della Cina, cento orde di tartari
hanno conservato il loro antico culto. Non restano in Europa che alcuni
lapponi, alcuni samoiedi e alcuni tartari, i quali hanno perseverato nella
religione dei loro avi.
Concludiamo con l'osservare che, nel tempo che da noi vien
chiamato medioevo, chiamavamo "Pagania" il paese dei maomettani;
trattavamo da "idolatri", da "adoratori di immagini" un
popolo che ha in orrore proprio le immagini. Riconosciamo ancora una volta che
i turchi sono più che scusabili se, quando vedono i nostri altari carichi
di immagini e di statue, ci credono idolatri.
Da quando gli uomini vissero in società, dovettero
accorgersi che molti colpevoli sfuggivano al rigore delle leggi. Essi punivano
i crimini pubblici: fu necessario stabilire un freno per quelli privati; solo
la religione poteva essere tale freno. I persiani, i caldei, gli egiziani, i
greci immaginarono così delle punizioni dopo la vita; e, fra tutti gli
antichi popoli che conosciamo, gli ebrei furono gli unici che ammisero solo
castighi temporali. È ridicolo credere o fingere di credere, sulla base
di passi molto oscuri, che l'inferno fosse ammesso dalle antiche leggi degli
ebrei, dal loro Levitico, dal loro Decalogo, quando l'autore di
queste leggi non dice una sola parola che possa avere il minimo rapporto con i
castighi della vita futura. Si avrebbe il diritto di dire al redattore del Pentateuco:
"Siete un uomo incoerente, senza probità e senza ragione,
assolutamente indegno del nome di legislatore che vi arrogate. Come! Voi
conoscete un dogma tanto repressivo e tanto necessario al popolo come quello
dell'inferno, e non lo proclamate a chiare lettere? E mentre tale dogma
è ammesso da tutti i popoli che vi circondano, vi limitate a lasciarlo
indovinare da alcuni commentatori che verranno quattromila anni dopo di voi e che
si metteranno a spaccare in quattro qualche vostra parola per trovarvi
ciò che non avete detto? O siete un ignorante che non sa che tale
credenza era universale in Egitto, in Caldea, in Persia, o siete un uomo assai
sprovveduto se, conoscendo quel dogma, non ne avete fatto la base della vostra
religione."
Gli autori delle leggi ebraiche potrebbero tutt'al più
rispondere: "Confessiamo d'essere estremamente ignoranti; d'aver imparato
a scrivere molto tardi; confessiamo che il nostro popolo era un'orda selvaggia
e barbara che errò per quasi mezzo secolo in deserti impraticabili; che
usurpò infine, un piccolo paese con le rapine più odiose e le
crudeltà più esecrabili che la storia ricordi. Non avevamo nessun
commercio con le nazioni civili: come pretendete che noi, i più
terrestri degli uomini, potessimo inventare un sistema del tutto spirituale?
Noi ci serviamo della parola "anima" solo per designare la vita: non
concepimmo il nostro Dio e gli angeli suoi ministri che come esseri corporei:
la distinzione dell'anima e del corpo, l'idea di una vita dopo la morte non
possono essere che il frutto di una lunga meditazione e di una sottilissima
filosofia. Domandate agli ottentotti e ai negri, che abitano un paese cento
volte più grande del nostro, se conoscono la vita futura. Abbiamo
ritenuto sufficiente persuadere il nostro popolo che Dio punisce i malfattori
fino alla quarta generazione, sia con la lebbra, sia con morti improvvise, sia
con la perdita di quel po' di beni che potevano possedere."
A questa apologia si potrebbe replicare: "Avete inventato un
sistema il cui ridicolo salta agli occhi; perché il malfattore che godeva buona
salute e la cui famiglia prosperava, doveva necessariamente beffarsi di
voi."
Certo, l'apologeta della legge giudaica potrebbe rispondere:
"Vi sbagliate: perché per un criminale che ragionava rettamente, ce
n'erano cento che non ragionavano affatto. Chi, dopo aver commesso un delitto
non si sentiva punito né nel proprio corpo, né in quello di suo figlio, temeva
per il nipote. Inoltre, se non soffriva oggi di qualche ulcera puzzolente, cui
andavamo spesso soggetti, ne avrebbe sofferto nel corso di qualche anno: in una
famiglia piombano sempre delle sventure, e noi facevamo facilmente credere che
esse fossero inviate da una mano divina, vendicatrice delle colpe
segrete."
Sarebbe facile replicare a tale risposta: "La vostra
giustificazione non vale niente, perché accade tutti i giorni che delle
onestissime persone perdano la salute o i beni; e se non c'è famiglia
cui non sia capitata qualche sventura, se tali sventure sono castighi di Dio,
tutte le vostre famiglie erano dunque famiglie di farabutti."
Il sacerdote ebreo potrebbe replicare ancora; direbbe che vi sono
sventure inerenti alla natura umana, ed altre che vengono espressamente inviate
da Dio. Ma si farebbe vedere a questo raziocinatore quanto sia ridicolo pensare
che la febbre e la grandine siano una volta una punizione divina e un'altra un
fenomeno naturale.
Infine, presso gli ebrei, i farisei e gli esseni accolsero la
credenza di un inferno a loro modo: questo dogma era già passato dai
greci e dai romani, e fu adottato dai cristiani.
Molti Padri della Chiesa non credettero all'eternità delle
pene: sembrava loro assurdo bruciare per tutta l'eternità un poveraccio
che avesse rubato una capra. Ha un bel dire Virgilio nel suo sesto canto
dell'Eneide:
...Sedet aeternumque sedebit
Infelix Theseus.
Egli pretende invano che Teseo sia seduto per sempre su una sedia
e che questa posizione sia il suo supplizio. Altri hanno creduto che Teseo
fosse un eroe e che non se ne stesse seduto all'inferno, ma dimorasse nei Campi
Elisi.
Non molto tempo fa un bravo e onesto ministro ugonotto
predicò e scrisse che i dannati sarebbero stati un giorno graziati, che
era necessaria una proporzione tra il peccato e la pena, e che la colpa di un
momento non può meritare un castigo senza fine. I preti, suoi
confratelli, deposero questo giudice indulgente. Uno di loro gli disse:
"Amico mio, non credo più di voi all'eternità dell'inferno;
ma è bene che la vostra domestica, il vostro sarto e anche il vostro
procuratore ci credano."
Ci fu un tempo in cui il globo fu interamente inondato? La cosa
è fisicamente impossibile.
Può essere che il mare abbia via via sommerso una dopo
l'altra tutte le terre; però questo può essere avvenuto soltanto
con una lenta gradazione, nel corso di un numero prodigioso di secoli. Il mare,
in cinquant'anni, si è ritirato da Aigues-Mortes, da Frèjus, da
Ravenna, che erano dei grandi porti, lasciando circa due leghe di terreno a
secco. Con tale progressione, è evidente che gli ci vorrebbero due
milioni e duecentocinquantamila anni per fare il giro del nostro globo. Va
sottolineato che questo spazio di tempo si avvicina di molto a quello che
occorre all'asse della terra per sollevarsi e coincidere con l'equatore:
movimento assai verosimile, che da cinquant'anni s'è cominciato a
prospettare, e che non può effettuarsi che nello spazio di due milioni e
più di trecentomila anni.
Gli alvei marini, gli strati di conchiglie che sono stati scoperti
da ogni parte, a sessanta, a ottanta, perfino a cento leghe dal mare, sono una
prova incontestabile che esso ha deposto a poco a poco queste produzioni marine
su terreni che una volta erano le rive dell'oceano. Ma che l'acqua abbia
ricoperto per intero tutto il globo nel medesimo tempo, è una chimera
assurda in fisica, dimostrata impossibile dalle leggi della gravitazione, dalle
leggi dei fluidi, dall'insufficienza della quantità di acqua. Non
pretendiamo certo condurre il minimo attacco contro la grande verità del
diluvio universale raccontato nel Pentateuco; al contrario, è un
miracolo, e dunque bisogna crederci; è un miracolo, e dunque non
può essere stato messo in atto dalle forze fisiche.
Tutto è miracolo nella storia del diluvio: un miracolo che quaranta
giorni di pioggia abbiano sommerso le quattro parti del mondo, e che l'acqua si
sia elevata di quindici cubiti al di sopra di tutte le più alte
montagne; un miracolo che ci siano state cateratte, porte, aperture nel cielo;
un miracolo che tutti gli animali si siano recati nell'arca da tutte le parti
del mondo; un miracolo che Noè abbia trovato di che nutrirli per dieci
mesi; un miracolo che tutti gli animali e le relative provviste abbian potuto
prendere posto nell'arca; un miracolo che la maggior parte non siano morti; un
miracolo che abbian trovato di che nutrirsi, sbarcando dall'arca; un miracolo
ancora, però di un'altra specie, che un tale chiamato Le Pelletier abbia
creduto di spiegare come tutti gli animali sian potuti entrare nell'arca di
Noè e si siano potuti nutrire in modo naturale.
Ora, essendo la storia del diluvio la cosa più miracolosa
di cui si sia mai sentito parlare, sarebbe insensato spiegarla: sono misteri
che si credono per fede; e la fede consiste nel credere a quello che la ragione
non comprende: il che è ancora un altro miracolo.
Così la storia del diluvio universale è come quella
della torre di Babele, dell'asina di Balaam, della caduta di Gerico al suono
delle trombe, delle acque tramutate in sangue, del passaggio del mar Rosso e di
tutti i miracoli che Dio si degnò di compiere in favore degli eletti del
suo popolo; sono profondità che la mente umana non può sondare.
L'Inquisizione è, come si sa, un'invenzione mirabile e
autenticamente cristiana per rendere più potenti il papa e i monaci e
per rendere ipocrita un intero regno.
Si considera di solito san Domenico il primo cui si deve questa
santa istituzione. In effetti, abbiamo ancora una patente rilasciata da questo
grande santo, e concepita in questi precisi termini: "Io, frate Domenico,
riconcilio con la chiesa il nominato Ruggero, latore della presente, a
condizione che egli si faccia frustare da un prete per tre domeniche
consecutive, dall'entrata della città fino alla porta della chiesa; che
mangi di magro tutta la vita; che digiuni per tre quaresime all'anno; che non
beva mai vino; che porti il san-benito con le croci; che reciti il
breviario tutti i giorni, dieci Pater al giorno, e venti all'ora di
mezzanotte; che osservi d'ora in poi la continenza, e che si presenti tutti i
mesi al curato della sua parrocchia ecc. Il tutto sotto pena d'essere trattato
come eretico, spergiuro e impenitente."
Sebbene Domenico sia stato il vero fondatore dell'Inquisizione,
nondimeno Luigi da Paramo, uno dei più rispettabili scrittori e dei
più brillanti luminari del Sant'Uffizio, asserisce, nel titolo secondo
del suo secondo libro, che il primo istitutore del Sant'Uffizio fu Dio, e che
egli esercitò il potere dei frati predicatori contro Adamo. Dapprima
Adamo fu citato in tribunale: "Adam, ubi es?"; e infatti, aggiunge il
Paramo, il difetto di citazione avrebbe reso nulla la procedura di Dio.
Gli abiti di pelle che Dio fece ad Adamo e a Eva furono il modello
del san-benito che il Sant'Uffizio fa indossare agli eretici. È
vero che con questo argomento si prova che Dio fu il primo sarto; ma non
è meno evidente che fu anche il primo inquisitore.
Adamo fu privato di tutti i beni immobili che possedeva nel
paradiso terrestre: è per questo che il Sant'Uffizio confisca i beni di
tutti coloro che ha condannato.
Luigi da Paramo nota che gli abitanti di Sodoma furono bruciati
come eretici, perché la sodomia è un'eresia formale. Da qui egli passa
alla storia ebraica, dove trova dappertutto il Sant'Uffizio.
Gesù Cristo è il primo inquisitore della nuova
legge; i papi furono inquisitori per diritto divino, e finalmente comunicarono
questo loro potere a san Domenico.
Fa, poi, l'enumerazione di tutti coloro che l'Inquisizione ha
messo a morte, e ne novera molto più di centomila.
Il suo libro fu stampato nel 1589, a Madrid, con l'approvazione
dei teologi, gli elogi del vescovo, e il privilegio del re. Noi, oggi, non
riusciamo a concepire orrori così pazzeschi e insieme così
abominevoli; ma allora niente sembrava più naturale ed edificante. Tutti
gli uomini assomigliano a Luigi da Paramo, quando sono fanatici.
Questo Paramo era un uomo semplice, esattissimo nelle date, che
non ometteva nessun fatto interessante, e che computava con scrupolo il numero
delle vittime umane immolate in tutti i paesi dal Sant'Uffizio.
Egli racconta col più grande candore come venne istituita
l'Inquisizione in Portogallo, ed è perfettamente d'accordo con altri
quattro storici, che hanno scritto le stesse cose. Ecco cosa riferiscono
unanimi.
Già da gran tempo, ai primi del XV secolo, papa Bonifacio
IX aveva delegato dei frati domenicani che andavano in Portogallo, di
città in città, a bruciare gli eretici, i musulmani e gli ebrei;
ma erano frati itineranti, e gli stessi re si lamentarono talvolta delle loro
vessazioni. Papa Clemente VII volle dar loro un insediamento fisso in
Portogallo, come già l'avevano in Aragona e in Castiglia. Ci furono
delle difficoltà fra la corte di Roma e quella di Lisbona; gli animi si
inasprirono, l'Inquisizione ne soffriva, non potendo ancora funzionare a suo
agio.
Nel 1539 comparve a Lisbona un legato del papa, venuto, diceva,
per stabilire la Santa Inquisizione su fondamenta incrollabili. Egli reca a re
Giovanni III lettere di papa Paolo III. Aveva anche altre lettere di Roma per i
principali personaggi della corte; le sue patenti di legato erano debitamente
sigillate e firmate; egli mostrò di detenere i più ampi poteri di
nominare un grande inquisitore e tutti i giudici del Sant'Uffizio. Si trattava
di un truffatore, di nome Saavedra, che sapeva contraffare tutte le scritture,
fabbricare e applicare falsi sigilli e falsi bolli. Aveva imparato questo
mestiere a Roma e si era perfezionato a Siviglia, da dove arrivava con altri
due furfanti. Il suo seguito era magnifico: aveva al suo servizio più di
centoventi domestici. Per sovvenire a quest'enorme spesa, lui e i suoi due
confidenti si erano fatti prestare a Siviglia somme ingenti a nome della camera
apostolica di Roma. Tutto era concertato col più abbagliante artificio.
Sulle prime il re del Portogallo restò stupito che il papa
gli inviasse un legato a latere senza averlo prevenuto. Il legato
rispose fieramente che in una cosa di tale urgenza, come l'istituzione stabile
dell'Inquisizione, Sua Santità non poteva tollerare indugi, e che il re
doveva sentirsi abbastanza onorato che il primo corriere che gliene portava
notizia fosse un legato del Santo Padre. Il re non osò replicare. Il
legato, il giorno stesso, nominò un grande inquisitore, mandò
dappertutto a riscuotere decime e, prima che la corte potesse avere risposta da
Roma, aveva già fatto bruciare duecento persone e raccolto più di
duecentomila scudi.
Frattanto, il marchese di Villanova, un nobile spagnolo da cui il
legato si era fatto prestare a Siviglia una somma assai ragguardevole su dei
biglietti falsi, ebbe l'ottima idea di pagarsi con le sue mani, invece di
andare a compromettersi con quel truffatore a Lisbona. Il legato stava allora
facendo il suo giro sui confini della Spagna. L'altro lo raggiunge con
cinquanta uomini armati, lo cattura e lo conduce a Madrid.
La truffa fu presto scoperta a Lisbona; il consiglio di Madrid
condannò il legato Saavedra alla frusta e a dieci anni di galera; ma
l'incredibile fu che in seguito papa Paolo IV confermò tutto quello che
aveva dichiarato quell'uomo infame: con la pienezza dei suoi poteri divini
rettificò tutte le piccole irregolarità di procedura e rese sacro
quel che era stato puramente umano.
Qu'importe de quel bras Dieu daigne se servir?
Ecco come l'Inquisizione si stabilì a Lisbona, e tutto il
regno ammirò la Provvidenza.
Del resto, sono abbastanza conosciute tutte le procedure di quel
tribunale; si sa bene quanto siano contrarie alla falsa equità e alla
cieca ragione di tutti gli altri tribunali del mondo. Si è imprigionati
dietro la semplice denuncia delle persone più scellerate; un figlio
può denunciare il padre, una donna il marito; non si è mai messi
a confronto con i propri accusatori, i beni vengono confiscati a favore dei
giudici: così almeno si è comportata l'Inquisizione fino ai
giorni, nostri. V'è in ciò qualcosa di divino, perché è
incomprensibile che gli uomini abbiano sopportato con tanta pazienza questo
giogo.
Finalmente il conte d'Aranda fu benedetto dall'Europa intera per
avere spuntato gli artigli e limato i denti del mostro. Ma esso respira ancora.
Risulta evidente, dal testo del libro dei Giudici, che
Jefte promise di sacrificare la prima persona che uscisse dalla sua casa a
congratularsi con lui per la sua vittoria contro gli ammoniti. Gli venne incontro
la sua unica figlia: egli si strappò le vesti e la immolò, dopo
averle permesso d'andare a piangere sulle montagne la disgrazia di morire
vergine. Le fanciulle ebree celebrarono a lungo questo evento, piangendo la
figlia di Jefte per quattro giorni.
In qualsiasi tempo sia stata scritta questa storia, se sia stata
imitata dalla storia greca di Agamennone o d'Idomeneo, o ne sia stata il
modello; ch'essa sia anteriore o posteriore ad analoghe storie assire non
è questo che voglio esaminare. Io mi attengo al testo: Jefte votò
sua figlia in olocausto e adempì al suo voto.
Era espressamente comandato dalla legge ebraica di immolare gli
uomini votati al Signore: "Ogni uomo votato non sarà riscattato, ma
verrà messo a morte senza remissione". La Vulgata traduce:
"Non redimetur, sed morietur" (Levitico XXVII, 29). È
in virtù di tale legge che Samuele fece a pezzi il re Agag, cui Saul
aveva perdonato; e proprio per aver risparmiato Agag, Saul fu riprovato dal
Signore e perdette il suo regno. Ecco, dunque, i sacrifici di sangue umano
chiaramente stabiliti: nessun punto della storia è meglio appurato. Di
una nazione si può giudicare soltanto rivolgendosi ai suoi archivi e in
base a quel che riferisce di sé.
I
Al tempo di Vespasiano e di Tito, mentre i romani sventravano i
giudei, un israelita molto ricco, che non voleva essere sventrato, fuggì
portandosi via tutto l'oro che aveva guadagnato con il suo mestiere d'usuraio,
e condusse verso Esion Gheber tutta la sua famiglia, composta della vecchia
moglie, di un figlio e di una figlia. Aveva al suo seguito due eunuchi, uno dei
quali gli serviva da cuoco, e l'altro era zappatore e vignaiolo. Un buon
esseno, che sapeva a memoria il Pentateuco, gli faceva da elemosiniere.
Costoro s'imbarcarono nel porto di Esion Gheber, attraversarono il mare
chiamato Rosso e che non è per niente tale, ed entrarono nel
golfo Persico, per andare a cercare la terra di Ofir, senza sapere dove fosse.
Ed ecco abbattersi una terribile tempesta che spinse la famiglia ebraica verso
le coste delle Indie; il vascello fece naufragio presso una delle isole
Maldive, oggi chiamata Padrabranca, che era a quel tempo deserta.
Il vecchio riccone e la vecchia annegarono; il figlio, la figlia,
i due eunuchi e l'elemosiniere si salvarono: trassero come poterono qualche
provvista dal vascello, costruirono delle capannucce nell'isola, e qui vissero
abbastanza comodamente. Sapete come l'isola di Padrabranca sia situata a cinque
gradi dall'equatore, e come vi si trovino le più grosse noci di cocco e
i migliori ananas del mondo; era dolce viverci al tempo in cui altrove si
sgozzava il resto della nazione diletta, ma l'esseno piangeva pensando che
forse non restavano più altri ebrei sulla terra, e che il seme di Abramo
si sarebbe estinto.
"Sta in voi risuscitarlo," disse il giovane ebreo:
"sposate mia sorella" "Lo farei volentieri," disse
l'elemosiniere, "ma la legge vi si oppone. Sono esseno, ho fatto voto di
non sposarmi; la legge esige che si adempiano i propri voti; s'estingua pure la
razza ebrea, ma certo io non sposerò vostra sorella, per quanto graziosa
sia."
"I miei due eunuchi non possono darle dei figli,"
riprese l'ebreo; "perciò gliene darò io, se vi sta bene, e
sarete voi a benedire il matrimonio."
"Preferirei mille volte essere sventrato dai soldati
romani," disse l'elemosiniere, "che autorizzarvi a commettere un
incesto; fosse almeno vostra sorella da parte di padre, passi ancora, la legge
lo permette; ma è vostra sorella da parte di madre, e ciò
è abominevole."
"Capisco," disse il giovane, "che sarebbe un
delitto a Gerusalemme, dove potrei trovare altre ragazze; ma nell'isola di
Padrabranca, dove non vedo altro che noci di cocco, ananas e ostriche, credo
che la cosa sia più che permessa."
L'ebreo, nonostante le proteste dell'esseno sposò dunque la
sorella, e ne ebbe una figlia: fu l'unico frutto di un matrimonio che l'uno
reputava legittimo e l'altro abominevole.
In capo a quattordici anni, la madre morì; il padre disse
all'elemosiniere: "Vi siete finalmente sbarazzato dei vostri vecchi pregiudizi?
Volete sposare mia figlia?" "Dio mi guardi!" disse l'esseno.
"Ebbene, allora la sposerò io," disse il padre, "e
avvenga quel che può; ma io non voglio che il seme d'Abramo sia
annientato." L'esseno, spaventato da questo orribile proposito, non volle
più restare con un uomo che trasgrediva tanto la legge, e fuggì.
Il novello sposo aveva un bel gridargli: "Restate, amico mio; osservo la
legge naturale, servo la patria, non abbandonate i vostri amici." L'altro
lo lasciava gridare, ossessionato dalla legge, e fuggì a nuoto
nell'isola vicina.
Era la grande isola d'Attolo molto popolosa e molto civile; non
appena vi approdò, lo fecero schiavo. Imparò a balbettare la
lingua attolica; si lamentava amaramente del modo inospitale con cui l'avevano
ricevuto; gli dissero che quella era la legge, e che, da quando l'isola era
stata sul punto d'essere sorpresa dagli abitanti di Adà, si era
saggiamente decretato che tutti gli stranieri che fossero approdati in Attolia
venissero fatti schiavi. "Non può essere una legge," disse
l'esseno "perché non è nel Pentateuco." Gli risposero
che però era nel Digesto del paese, e così restò schiavo:
per sua fortuna, aveva un ottimo e ricchissimo padrone, che lo trattò
bene, e al quale si affezionò molto.
Un giorno degli assassini vennero per uccidere il padrone e rubare
i suoi tesori; chiesero agli schiavi se il padrone era in casa, e se aveva
molto denaro. "Vi giuriamo," dissero gli schiavi, "che non ha un
soldo, e che non è in casa." Ma l'esseno disse: "La legge non
permette di mentire; vi giuro che è in casa, e che ha un sacco di
soldi." E così il padrone fu ucciso e derubato. Gli schiavi
accusarono l'esseno davanti ai giudici di aver tradito il padrone; l'esseno
disse che non voleva mentire, e che non avrebbe mentito per niente al mondo; e
fu impiccato.
Mi raccontavano questa storia, e molte altre, nell'ultimo viaggio
che feci dall'India in Francia. Arrivato, andai a Versailles per certi miei
affari; vidi passare una bella donna seguita da molte altre bellezze. "Chi
è quella bella donna?" chiesi al mio avvocato in parlamento, che
era venuto con me: perché avevo un processo in parlamento a Parigi per gli
abiti che m'ero fatto fare nelle Indie, e volevo avere sempre a fianco il mio
avvocato. "È la figlia del re," disse; "è incantevole
e di ottimo cuore; peccato che in nessun caso possa diventare regina di
Francia." "Come!" gli dissi, "se le toccasse la disgrazia
di perdere tutti i suoi parenti e i principi del sangue (Dio non voglia!), essa
non potrebbe ereditare il regno del padre!" "No," disse
l'avvocato, "la legge salica vi si oppone formalmente." "E chi
ha fatto questa legge salica?" chiesi all'avvocato. "Non ne so
niente: ma si pretende che presso un antico popolo, detto dei sali, che non
sapevano né leggere né scrivere, esistesse una legge scritta la quale diceva
che in terra salica una ragazza non può ereditare nemmeno un podere; e
questa legge è stata adottata in terra non salica." "E
io," dissi, "la abrogo; mi avete assicurato che questa principessa
è dolce e generosa; dunque avrebbe un diritto incontestabile alla
corona, se sventura volesse che non restasse altri che lei di sangue reale: mia
madre ha ereditato da suo padre; e voglio che una principessa erediti dal
suo."
L'indomani la mia causa fu giudicata in una camera del parlamento,
e la perdetti per un voto; il mio avvocato mi disse che l'avrei vinta per un
voto in un'altra camera. "Questa poi è comica," gli dissi.
"Dunque, ad ogni camera una legge." "Sì," disse,
"ci sono venticinque commenti sul diritto consuetudinario di Parigi; vale
a dire che si è provato venticinque volte che il diritto consuetudinario
di Parigi è equivoco; e, se ci fossero venticinque camere di consiglio,
ci sarebbero venticinque giurisprudenze diverse. Abbiamo,"
proseguì, "a venticinque leghe da Parigi una provincia chiamata
Normandia, dove sareste stato giudicato in tutt'altro modo." Questo mi
fece venir voglia di vedere la Normandia. Vi andai con uno dei miei fratelli.
Incontrammo, nella prima locanda, un giovane che si disperava; gli chiesi quale
fosse mai la sua sventura, mi rispose che era quella d'avere un fratello
maggiore. "Ma che sventura è avere un fratello maggiore?" gli
dissi; "mio fratello è maggiore di me, e viviamo benissimo
insieme." "Ahimè, signore" mi disse, "qui la legge
dà tutto ai maggiori e non lascia niente ai minori," "Avete
ragione," dissi, "d'essere in collera; dalle mie parti si divide in
parti uguali, e non per questo, a volte, i fratelli si amano di
più."
Queste piccole avventure mi indussero a fare alcune belle e
profonde riflessioni sulle leggi, e vidi che anche per queste è come per
i nostri vestiti: ho dovuto portare un dolman a Costantinopoli e un giustacuore
a Parigi.
Se tutte le leggi umane sono convenzioni, dicevo, non resta altro
che far bene i propri affari. I borghesi di Delhi e di Agra dicono di aver
fatto un pessimo affare con Tamerlano; i borghesi di Londra si congratulano di
aver fatto un ottimo affare con re Guglielmo d'Orange. Un cittadino di Londra
mi diceva un giorno: "È la necessità a fare le leggi, e la
forza a farle osservare." Gli domandai se talvolta non facesse le leggi
anche la forza, e se Guglielmo il Bastardo e il Conquistatore non avesse dato
ordini nel paese senza fare con loro alcun contratto. "Sì,"
disse, "allora eravamo tanti buoi; Guglielmo ci mise un giogo, e ci fece
marciare a forza di pungolo; più tardi ci mutammo in uomini, ma le corna
ci sono rimaste, e con quelle colpiamo chiunque voglia farci lavorare per sé e
non per noi."
Assorto in tutte queste riflessioni, mi compiacevo di pensare che
c'è una legge naturale, indipendente da tutte le convenzioni umane: il
frutto del mio lavoro dev'essere mio; devo onorare il padre e la madre; non ho
alcun diritto sulla vita del mio prossimo, e il mio prossimo non ne ha sulla
mia ecc. Ma quando pensai che da Shodorlahomor fino a Mentzel colonnello degli
ussari, ognuno può assassinare lealmente e depredare il suo prossimo con
una patente in tasca ne restai molto afflitto.
Mi dissero che anche tra i ladri ci sono certe leggi, e che ce ne
sono perfino in guerra. Domandai che cosa fossero queste leggi di guerra.
"Sono," mi dissero, "quella d'impiccare un valoroso ufficiale
che abbia resistito in una cattiva postazione, senza cannone, contro un
esercito regio; quella di far impiccare un prigioniero, se ne hanno impiccato
uno dei vostri; di mettere a ferro e a fuoco i villaggi che non vi abbiano
portato tutte le loro provviste nel giorno prescritto, secondo gli ordini del
grazioso sovrano del vicinato." "Bene," dissi, "ecco Lo
spirito delle leggi."
Dopo essere stato istruito per bene, scoprii che esistono sagge
leggi per le quali un pastore è condannato a nove anni di galera per
aver dato ai suoi montoni un po' di sale proveniente dall'estero. Il mio vicino
è stato rovinato da un processo per due querce che gli appartenevano, e
che aveva fatto tagliare nel suo bosco, perché non aveva potuto osservare una
formalità di cui non poteva essere a conoscenza. Sua moglie è
morta in miseria, suo figlio tira avanti ancor più miseramente.
Riconosco che queste leggi sono giuste, per quanto la loro esecuzione sia
piuttosto dura: ma non sono certo soddisfatto delle leggi che autorizzano
centomila uomini ad andare legalmente a sgozzare centomila vicini. Mi è
parso che la maggior parte degli uomini abbia ricevuto dalla natura abbastanza
buon senso per fare le leggi, ma che non tutti abbiano abbastanza giudizio per
farne di buone.
Radunate da un capo all'altro della terra i semplici e tranquilli
agricoltori: converranno tutti facilmente che dev'essere lecito vendere al
vicino l'eccedenza del proprio grano, e che la legge contraria è inumana
e assurda; che le monete, rappresentative delle derrate, non devono essere
alterate più che non lo siano i frutti della terra; che un padre di
famiglia dev'essere padrone in casa sua; che la religione deve raccogliere gli
uomini per unirli, e non per farne dei fanatici e dei persecutori; che quelli
che lavorano non devono privarsi del frutto del proprio lavoro per dotarne la
superstizione e l'ozio: insomma, potranno fare in un'ora trenta leggi di questa
specie, tutte utili al genere umano.
Ma lasciate che arrivi Tamerlano e soggioghi l'India: allora non
vedrete altro che leggi arbitrarie. L'una opprimerà una provincia per
arricchire un pubblicano di Tamerlano; Per un'altra sarà un crimine di
lesa maestà l'aver detto male dell'amante del primo cameriere di un
rajah; una terza porterà via all'agricoltura metà del raccolto, e
gli contesterà il resto; infine ci saranno leggi per le quali un usciere
tartaro verrà a prendervi i vostri figli in culla, farà del
più robusto un soldato e del più debole un eunuco, e
lascerà il padre e la madre senza soccorso e senza consolazione.
Ora, è meglio essere il cane di Tamerlano o un suo suddito?
È chiaro che la condizione del suo cane è di gran lunga
preferibile.
II
I montoni vivono del tutto pacificamente in società; si
crede che la loro natura sia molto mite, perché nessuno vede la prodigiosa
quantità di animaletti che divorano. C'è da credere anzi che essi
li mangino innocentemente, senza saperlo, come quando noi mangiamo del
formaggio di Sassenage. La repubblica dei montoni è l'immagine fedele
dell'età dell'oro.
Un pollaio è chiaramente lo Stato monarchico più
perfetto. Non c'è nessun re che possa essere paragonato a un gallo. Il
gallo, se cammina fiero in mezzo al suo popolo, non lo fa per vanità. Se
il nemico si avvicina, esso non ordina ai suoi sudditi di andare a farsi
ammazzare per lui, in virtù della sua scienza e onnipotenza; ci va lui
stesso, schiera dietro di sé le sue galline e combatte fino alla morte. Se la
vittoria è sua, canta lui stesso il Te Deum. Nella vita civile,
nessuno è tanto galante, onesto, disinteressato. Ha tutte le
virtù. Se ha nel suo becco regale un chicco di grano o un vermiciattolo,
lo dona alla prima delle sue suddite che gli capita davanti. Insomma, Salomone
nel suo serraglio non somigliava nemmeno da lontano a un gallo del suo pollaio.
Se è vero che le api sono governate da una regina con cui
tutti i sudditi fanno l'amore, il loro è un governo ancora più
perfetto.
Il mondo delle formiche passa per un'eccellente democrazia. Essa
è al di sopra di tutti gli altri Stati perché tutti vi sono eguali e il
singolo lavora per la felicità di tutti.
La repubblica dei castori è ancora superiore a quella delle
formiche, almeno a giudicare dalle loro costruzioni.
Le scimmie somigliano più a saltimbanchi che a un popolo
ben ordinato, e non sembra che siano riunite sotto leggi fisse e fondamentali,
come le specie precedenti.
Noi assomigliamo più alle scimmie che ad ogni altro
animale, per il dono dell'imitazione, per la superficialità delle nostre
opinioni, e per la nostra incostanza, che non ci ha mai permesso di avere leggi
uniformi e durature.
Quando la natura formò la nostra specie e ci diede alcuni
istinti - l'amor proprio per la nostra conservazione, la benevolenza per quella
degli altri, l'amor, che è comune a tutte le specie e il dono
inesplicabile di combinare più idee di tutti gli altri animali riuniti
assieme - dopo averci assegnata la nostra parte, ci disse: "Fate come potrete."
In nessun paese del mondo c'è un buon codice. La ragione
è evidente: le leggi sono state fatte via via, secondo i tempi, i
luoghi, i bisogni ecc.
Quando i bisogni cambiano, le leggi, che restano immutate,
diventano ridicole. Così la legge che proibiva di mangiare carne di
maiale e di bere vino, era assai ragionevole in Arabia, dove il maiale e il
vino sono perniciosi; a Costantinopoli è assurda.
La legge che assegna tutto il feudo al primogenito è ottima
in tempi di anarchia e di saccheggio. Allora, il primogenito è il capitano
del castello che prima o poi i briganti assaliranno; i cadetti saranno i suoi
ufficiali, e i contadini i suoi soldati. Tutto quello che c'è da temere
è che il cadetto assassini o imprigioni il signore salico, suo fratello
maggiore, per diventare a sua volta il padrone della bicocca, ma questo avviene
raramente perché la natura ha combinato in tale modo i nostri istinti e le
nostre passioni che proviamo più orrore di assassinare il nostro
fratello maggiore che non desiderio di prendere il suo posto. Ora tale legge,
conveniente per i possessori di castelli al tempo di Chilperico, è
detestabile quando si tratti di spartire le rendite in una città.
A vergogna degli uomini, si sa che le leggi del gioco sono le sole
che dappertutto siano giuste, chiare, inviolabili e osservate. Perché l'indiano
che ha dettato le regole del gioco degli scacchi è obbedito di buon
grado in tutto il mondo, e invece le decretali dei papi, per esempio, sono ai
nostri giorni oggetto di orrore e di disprezzo? Perché l'inventore degli
scacchi combinò ogni cosa con esattezza per la soddisfazione dei
giocatori, mentre i papi, nelle loro decretali, non mirarono che al loro
interesse. L'indiano volle, nello stesso tempo, esercitare l'ingegno degli
uomini e procurare loro un divertimento; i papi vollero invece abbrutire lo
spirito umano. Così, da cinquemila anni, le regole fondamentali del
gioco degli scacchi sono rimaste immutate e sono comuni a tutti gli uomini
della terra; mentre le decretali sono osservate soltanto a Spoleto, a Orvieto,
a Loreto, dove il più meschino giureconsulto le detesta e le disprezza
in segreto.
Tra le carte di un giureconsulto si sono trovate queste note, che
forse meritano d'esser prese in esame.
Che nessuna legge ecclesiastica abbia vigore se non quando riceva
l'esplicita sanzione del governo. Appunto con questo mezzo Atene e Roma non
ebbero mai lotte religiose. Queste discordie sono proprie delle nazioni
barbare, o imbarbarite.
Che solo al magistrato sia dato di permettere o vietare il lavoro
nei giorni festivi, perché non sta ai sacerdoti proibire agli uomini di
coltivare il proprio campo.
Che tutto ciò che riguarda i matrimoni dipenda unicamente
dal magistrato, e i sacerdoti si limitino all'augusta funzione di benedirli.
Che il prestito a interesse sia oggetto solo della legge civile,
perché questa sola presiede al commercio.
Che tutti gli ecclesiastici siano sottomessi in tutti i casi al
governo, perché sono tutti sudditi dello Stato.
Che non si cada mai nella ridicola vergogna di pagare a un
sacerdote straniero la prima annata del reddito di una terra che dei cittadini
han donato a un sacerdote loro cittadino.
Che nessun sacerdote possa mai privare un cittadino della minima
prerogativa, sotto pretesto che quel cittadino è un peccatore, perché il
prete, anch'egli peccatore, deve pregare per i peccatori e non giudicarli.
Che i magistrati, i lavoratori e i preti paghino egualmente le
imposte dello Stato, perché tutti appartengono egualmente allo Stato.
Che ci sia un solo peso, una sola misura, un solo diritto.
Che i supplizi dei criminali siano utili. Un uomo impiccato non
è utile a nessuno, mentre un uomo condannato ai lavori forzati serve
ancora la patria ed è una lezione vivente.
Che ogni legge sia chiara, uniforme e precisa: interpretarla porta
quasi sempre a corromperla.
Che niente sia infame se non il vizio.
Che le imposte siano sempre proporzionali.
Che la legge non sia mai in contraddizione con la consuetudine:
perché, se la consuetudine è buona, la legge non vale.
Nei tempi barbari, quando i franchi, i germani, i bretoni, i
longobardi, i mozarabi spagnoli non sapevano né leggere né scrivere, furono
istituite scuole, università, composte quasi tutte di ecclesiastici, i
quali, non conoscendo che il loro gergo, lo insegnarono a coloro che vollero
impararlo; le accademie vennero molto tempo dopo; esse hanno disprezzato le
sciocchezze delle scuole, ma non sempre hanno osato levarsi contro di esse,
perché ci sono sciocchezze che si rispettano, se sono collegate a cose
rispettabili.
Gli uomini di lettere che hanno reso i maggiori servigi al piccolo
numero d'esseri pensanti sparsi per il mondo sono i letterati isolati, i veri
dotti chiusi nel loro studio, che non hanno né argomentato sui banchi delle
università, né detto le cose a metà nelle accademie; e costoro
sono stati quasi tutti perseguitati. La nostra miserabile specie è fatta
in modo tale che quelli che camminano sulle vie battute gettano sempre pietre
contro quelli che insegnano vie nuove.
Montesquieu dice che gli sciti cavavano gli occhi ai loro schiavi
perché, nel fare il burro, non si distraessero: così fa l'Inquisizione,
e nei paesi dove questo mostro regna, quasi tutti sono ciechi. Da oltre
cent'anni, in Inghilterra si hanno due occhi; i francesi cominciano adesso ad
aprirne uno; ma talvolta si trovano degli uomini altolocati che non vogliono
nemmeno permettere che si sia monocoli.
Questi poveri diavoli sono come il dottor Balanzone della commedia
italiana, che non vuole essere servito che dal balordo Arlecchino, e teme di
avere un valletto troppo furbo.
Scrivete odi in lode di monsignor Superbus Fadus, e madrigali per
la sua amante; dedicate al suo portiere un libro di geografia, sarete ben
ricevuto; illuminate gli uomini, e sarete schiacciato.
Descartes è obbligato a lasciare la sua patria, Gassendi
è calunniato; Arnauld trascina i suoi giorni in esilio; ogni filosofo
è trattato come i profeti presso gli ebrei.
Chi crederebbe che, nel XVIII secolo, un filosofo sia stato trascinato
davanti ai tribunali secolari, e trattato da empio dai tribunali ecclesiastici
per aver detto che gli uomini non potrebbero esercitare le arti se non avessero
le mani? Non dispero di sapere ben presto che è stato condannato alle
galere il primo che avrà avuto l'insolenza di dire che un uomo non
penserebbe, se fosse senza testa: "Infatti," gli dirà un
cancelliere, "l'anima è puro spirito, la testa non è che
materia; Dio può collocare l'anima nel calcagno altrettanto bene che nel
cervello; e dunque vi denunzio come empio."
La più grande sventura di un uomo di lettere non è
forse d'essere oggetto della gelosia dei suoi confratelli, vittima degli
intrighi, disprezzato dai potenti del mondo: è di essere giudicato dagli
stupidi. Gli stupidi arrivano lontano, qualche volta, soprattutto quando il
fanatismo si sposa alla stupidità, e la stupidità allo spirito di
vendetta. Un'altra grande sventura per un uomo di lettere è, di solito,
quella di non essere appoggiato da nessuno e da niente. Un borghese compera una
piccola carica, ed eccolo sostenuto dai suoi confratelli; se è colpito
da un'ingiustizia, trova subito chi lo difende. L'uomo di lettere non trova
aiuti: assomiglia ai pesci volanti. Se si innalza un poco, gli uccelli lo
divorano; se si immerge, lo divorano i pesci.
Ogni uomo pubblico paga il proprio tributo alla malignità,
ma ne è ripagato con denaro e onori. L'uomo di lettere paga lo stesso
tributo, senza ricevere niente; è sceso nell'arena per suo diletto, si
è condannato da solo alle belve.
A Ecco una batteria di cannoni che ci assorda:
avete la libertà di udirla o di non udirla?
B Senza dubbio, non posso fare a meno di udirla.
A Volete che quel cannone tronchi la vostra
testa, quella di vostra moglie e di vostra figlia, che passeggiano al vostro
fianco?
B Che discorso mi fate? Io non posso, finché mi
funziona il cervello, volere una cosa simile: ciò m'è
impossibile.
A Bene, voi udite di necessità questo
cannone, e di necessità non volete morire per una cannonata, voi e la
vostra famiglia, mentre passeggiate. Voi non avete né il potere di non udire né
il potere di voler restare qui.
B Questo è chiaro.
A Di conseguenza, avete fatto una trentina di
passi per mettervi al riparo dal cannone e avete avuto il potere di camminare
con me in questo breve spostamento?
B Anche questo è chiarissimo.
A Al contrario, se foste stato paralitico non
avreste potuto evitare di restare esposto a quella batteria; non avreste avuto
il potere di essere dove adesso siete; avreste necessariamente sentito e
ricevuto un colpo di cannone, e sareste necessariamente morto?
B Niente di più vero.
A E in che consiste dunque la vostra
libertà se non nel potere che la vostra persona ha esercitato, di fare
quel che la vostra volontà esigeva per assoluta necessità?
B Voi mi mettete in imbarazzo: la libertà
non sarebbe altro che il potere di fare ciò che voglio?
A Rifletteteci, e vedete se la libertà
può essere intesa in altro modo.
B In questo caso, il mio cane da caccia è
libero quanto me; egli ha necessariamente la volontà di correre quando
vede una lepre, e il potere di correre se non ha male alle zampe. Io non ho
dunque niente al di sopra del mio cane: voi mi riducete allo stato delle
bestie.
A Ecco qua i miseri sofismi dei poveri sofisti
che vi hanno istruito. Eccovi sconvolto di sapervi libero come il vostro cane.
Ebbene, non assomigliate al vostro cane in mille cose? La fame, la sete, la
veglia, il sonno, i cinque sensi, non li avete tutti e due tali e quali? Vorreste
sentire gli odori altrimenti che con il naso? Perché volete avere una
libertà diversa da quella che ha lui?
B Ma io ho un'anima che ragiona molto, e il mio
cane ragiona a malapena. Ha poco più che qualche idea elementare, mentre
io ho mille idee metafisiche.
A Ebbene, voi siete mille volte più
libero di lui; ossia avete mille volte più di lui il potere di pensare,
ma non siete libero in modo diverso da lui.
B Cosa? Non sono libero di volere quel che
voglio?
A Che intendete con ciò?
B Quel che intendono tutti. Non diciamo forse
tutti i giorni: "le volontà sono libere"?
A Un proverbio non è un argomento:
spiegatevi meglio.
B Intendo dire che sono libero di volere come mi
piacerà.
A Col vostro permesso, questo non ha senso. Non
vi rendete conto che è ridicolo dire "Io voglio volere"? Voi
volete necessariamente, in conseguenza delle idee che vi sono balzate alla
mente. Volete sposarvi, sì o no?
B E se vi dicessi che non voglio né l'una cosa
né l'altra?
A Rispondereste come quel tale che diceva:
"Gli uni credono che il cardinal Mazzarino sia morto, gli altri che sia
ancora vivo, e io non credo né l'una cosa né l'altra".
B Va bene. Voglio sposarmi.
A Questa è una risposta. Perché volete
sposarvi?
B Perché amo una ragazza bella, dolce, bene
educata, abbastanza ricca, che canta benissimo, i cui genitori sono gente
civile, e perché mi lusingo d'essere riamato da lei e molto ben visto dalla sua
famiglia.
A Giuste ragioni. Vedete che non potete volere
senza ragione. Io vi dichiaro che siete libero di sposarvi: ossia, che avete il
potere di firmare il contratto nuziale.
B Come? Non posso volere senza ragione? Che ne
sarebbe allora di quest'altro proverbio: "Sit pro ratione voluntas",
la mia volontà è la mia ragione, voglio perché voglio?
A Questo è assurdo, mio caro amico, ci
sarebbe in voi un effetto senza causa.
B Come? Quando gioco a pari o dispari, ho forse
una ragione di scegliere pari piuttosto che dispari?
A Sì, senza dubbio.
B E qual è questa ragione, se non vi
spiace?
A È il fatto che alla vostra mente si
è presentata l'idea del pari prima dell'idea opposta. Sarebbe buffo se
ci fossero casi in cui voi volete perché c'è una causa di volere, e casi
in cui invece volete senza causa. Quando vi volete sposare, ne sentite
indubbiamente la ragione dominante; quando giocate a pari o dispari, non la
sentite: e tuttavia bisogna bene che ce ne sia una.
B Ma, ancora una volta, io dunque non sono
libero?
A La vostra volontà non è libera,
ma le vostre azioni lo sono. Voi siete libero di agire solo se avete il potere
di agire.
B Ma tutti i libri che ho letto sulla
libertà d'indifferenza?...
A Sono sciocchezze: la libertà
d'indifferenza non esiste; è un modo di dire privo di senso, inventato
da gente abbastanza scriteriata.
Verso l'anno 1707, quando gli inglesi vinsero la battaglia di
Saragozza, posero sotto la loro protezione il Portogallo, e diedero per qualche
tempo un re alla Spagna; milord Boldmind, ufficiale generale, che era rimasto
ferito, si trovava alle acque di Barèges. Vi incontrò il conte
Medroso, il quale, caduto da cavallo dietro le salmerie, a una lega e mezzo dal
campo di battaglia, era venuto anche lui a passare le acque. Costui era
familiare con l'Inquisizione; milord Boldmind non era familiare che nella
conversazione; un giorno, dopo aver bevuto, ebbe con Medroso questo scambio
d'idee:
BOLDMIND
Voi dunque, siete sergente dei domenicani? Fate davvero un gran
brutto mestiere!
MEDROSO
È vero; ma preferisco essere il loro servo che la loro
vittima, e la sventura di bruciare il mio prossimo a quella di venir bruciato
io.
BOLDMIND
Che orribile alternativa! Eravate cento volte più felici
sotto il giogo dei mori, che vi lasciavano liberamente marcire in tutte le
vostre superstizioni, e che, pur essendo i vostri padroni, non si arrogavano il
diritto inaudito di tenere incatenate le anime.
MEDROSO
Che volete? Non ci è permesso né di scrivere, né di
parlare, né di pensare. Se parliamo, è facile interpretare le nostre
parole e ancor più i nostri scritti. Infine, poiché non ci possono
condannare in un autodafè per i nostri pensieri segreti, siamo
minacciati d'essere bruciati in eterno per ordine di Dio stesso, se non la
pensiamo come i domenicani. Essi hanno persuaso il governo che, se usassimo il
senso comune, tutto lo stato andrebbe a fuoco, e la nazione diventerebbe la
più sfortunata della terra.
BOLDMIND
Trovate che siamo tanto sventurati, noi inglesi, che copriamo i
mari di vascelli, e veniamo a vincere battaglie per voi, qua, nella punta
estrema dell'Europa? Vi pare che gli olandesi, i quali vi hanno portato via
quasi tutte le terre da voi scoperte in India, e oggi sono vostri protettori,
siano maledetti da Dio per aver concesso piena libertà di stampa e per
fare commercio dei pensieri degli uomini? L'impero romano è stato forse
meno potente perché Cicerone scriveva in libertà?
MEDROSO
Chi è questo Cicerone? Non ne ho mai sentito parlare; qui
non si tratta di Cicerone, ma del nostro Santo Padre e di sant'Antonio da
Padova; e io ho sempre sentito dire che la religione romana è perduta,
se gli uomini si mettono a pensare.
BOLDMIND
Non sta a voi crederlo, perché voi siete sicuro che la vostra
religione è divina, e che le porte dell'inferno non possono prevalere
contro di lei. Se è così, niente potrà mai distruggerla.
MEDROSO
No, ma può venir ridotta a ben poca cosa; per aver pensato,
la Svezia, la Danimarca, tutta la vostra isola, mezza Germania gemono nella
tremenda sventura di non essere più sudditi del papa. Si dice perfino
che, se gli uomini continueranno a seguire i loro falsi lumi, si riduranno ben
presto alla semplice adorazione di Dio e alla virtù. Se le porte
dell'inferno dovessero prevalere sino a quel punto, che ne sarebbe del
Sant'Uffizio?
BOLDMIND
Non è forse vero che, se i primi cristiani non avessero
avuto la libertà di pensare, non ci sarebbe stato il cristianesimo?
MEDROSO
Che volete dire? Non vi capisco.
BOLDMIND
Lo credo. Voglio dire che se Tiberio e i primi imperatori avessero
avuto dei domenicani che avessero impedito ai primi cristiani di usare penne e
inchiostro; se non fosse stato, per lungo tempo, permesso, nell'impero romano,
di pensare liberamente, sarebbe stato impossibile ai cristiani stabilire i loro
dogmi. Se dunque il cristianesimo si affermò solo in grazia della
libertà di pensiero, per quale contraddizione, per quale ingiustizia,
vorrebbe oggi annientare quella libertà su cui sola si è fondato?
Quando vi propongono qualche affare pecuniario, non lo esaminate a
lungo prima di concluderlo? Quale maggior interesse può esserci al mondo
di quello della nostra felicità o della nostra infelicità eterna?
Ci sono cento religioni sulla terra, che tutte vi dannano se credete ai vostri
dogmi, che, esse, credono assurdi ed empi: esaminate, dunque, questi dogmi.
MEDROSO
Come posso esaminarli? Non sono un domenicano, io.
BOLDMIND
Siete un uomo, e tanto basta.
MEDROSO
Ahimè, voi siete molto più uomo di me.
BOLDMIND
Dipende solo da voi imparare a pensare: siete nato con un intelletto:
siete come un uccello nella gabbia dell'Inquisizione; il Sant'Uffizio v'ha
spezzato le ali, ma esse possono ricrescere. Chi non sa la geometria,
può impararla; chiunque può istruirsi; è vergognoso
abbandonare la propria anima nelle mani di gente cui non affidereste il vostro
denaro: osate pensare col vostro cervello!
MEDROSO
Si dice che, se tutti pensassero col proprio cervello, regnerebbe
una ben strana confusione.
BOLDMIND
Tutto il contrario. Quando si assiste a uno spettacolo, ognuno
esprime liberamente il suo parere, e l'ordine non viene affatto turbato: ma se
il protettore insolente di un pessimo poeta volesse costringere tutte le
persone di buongusto ad applaudire ciò che loro trovano brutto, allora i
fischi si farebbero sentire, e i due partiti avversi potrebbero tirarsi addosso
patate, come avvenne una volta a Londra. Sono i tiranni delle menti a causare
una parte delle sventure del mondo. Noi, in Inghilterra, viviamo felici solo da
quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire la propria opinione.
MEDROSO
Anche noi viviamo tranquilli a Lisbona, dove nessuno è
libero di dire la sua.
BOLDMIND
Vivete tranquilli, ma non siete felici. La vostra è la
tranquillità dei galeotti, che remano in cadenza e in silenzio.
MEDROSO
Dunque credete che la mia anima sia in galera?
BOLDMIND
Sì, e vorrei liberarla.
MEDROSO
E se mi trovassi bene in galera?
BOLDMIND
In tal caso meritereste di restarci.
Essi sono dappertutto, mio povero dottore. Vuoi sapere perché il
tuo braccio e il tuo piede obbediscono alla tua volontà, e il tuo
fegato, invece, non t'obbedisce? Cerchi di sapere come si formi il pensiero nel
tuo debole intelletto, o il bambino nell'utero di quella donna? Ti lascio tempo
per rispondermi. E che cos'è la materia? I tuoi pari hanno scritto su
questo argomento diecimila volumi; e hanno trovato solo certe qualità di
questa sostanza: i bambini le conoscono come te. Ma questa sostanza
cos'è, in fondo? E cos'è quel che tu hai chiamato "spirito",
dal vocabolo latino che significa "respiro", non potendo far di
meglio perché non ne hai nessuna idea?
Guarda questo chicco di grano che getto in terra, e dimmi come mai
germina per produrre uno stelo carico d'una spiga. Spiegami come mai il
medesimo terreno produce su quella pianta una mela, e sull'albero vicino una
castagna. Potrei scriverti un volume in folio di problemi, cui dovresti
rispondere solo con queste quattro parole: "non ne so niente". E
tuttavia hai raggiunto i più alti gradi, indossi toghe e berretti
foderati di pelliccia, e ti chiamano maestro. E quell'altra faccia tosta che ha
comprato una carica, crede d'aver conquistato il diritto di giudicare e
condannare ciò che non capisce! Il motto di Montaigne era: "Che
cosa so?" e il tuo è: "Che cosa non so?"
Da duemila anni si declama contro il lusso, in versi e in prosa, e
lo si è sempre amato.
Che cosa non si è detto dei primi romani? Quando quei
briganti devastarono e saccheggiarono le messi dei vicini, quando per
accrescere il loro misero villaggio distrussero i miseri villaggi dei volsci e
dei sanniti, erano uomini disinteressati e virtuosi: non avevano ancora potuto
rubare né oro , né argento, né gemme, perché nelle borgate che depredarono non
ce n'era. I loro boschi e le loro paludi non producevano né pernici, né
fagiani, e si loda la loro temperanza.
Quando, da un paese all'altro, ebbero saccheggiato tutto,
depredato tutto, dal fondo del golfo Adriatico all'Eufrate, ed ebbero la bella
idea di godersi il frutto delle loro rapine per sette o otto secoli; quando
coltivarono tutte le arti, gustarono tutti i piaceri, e li fecero gustare
perfino ai vinti, allora cessarono, si dice, d'essere saggi e dabbene.
Tutte queste declamazioni si riducono a provare che un ladro non
deve mai né mangiare il pranzo che ha portato via a qualcuno né indossare
l'abito che ha rubato, né ornarsi dell'anello che ha rapinato. Bisognava, si
dice, buttar tutto nel fiume, per vivere da galantuomini; dite piuttosto che
non si doveva rubare. Condannate i briganti quando depredano, ma non trattateli
da insensati quando godono i frutti dei loro misfatti; in buona fede, quando
molti marinai inglesi si arricchirono alla presa di Pondichéry e dell'Avana,
ebbero torto a prendersi poi un po' di piacere a Londra in premio delle pene
sopportate nel fondo dell'Asia e dell'America?
Questi declamatori vorrebbero forse che si seppellissero le
ricchezze ammassate con la fortuna delle armi, con l'agricoltura, con il
commercio e con l'industria? Citano Sparta: perché non citano anche la
repubblica di San Marino? Che bene fece Sparta alla Grecia? Ebbe mai dei
Demostene, dei Sofocle, degli Apelle e dei Fidia? Il lusso di Atene creò
grandi uomini di tutti i generi; Sparta ebbe solo qualche capitano, e ancora in
minor numero che altre città. Ma alla buon'ora, che una repubblica
così piccola come Sparta conservi la sua povertà. S'arriva alla
morte tanto mancando di tutto quanto godendo di ciò che può
rendere gradevole la vita. Il selvaggio del Canada vive e arriva alla vecchiaia
come il cittadino d'Inghilterra che ha cinquemila ghinee di rendita. Ma chi
paragonerà mai il paese degli irochesi all'Inghilterra?
Che la repubblica di Ragusa e il cantone di Zug facciano pure
leggi suntuarie: hanno ragione, il povero non deve spendere al di là
delle sue forze; ma ho letto da qualche parte
Sappiate innanzitutto che il lusso arricchisce
un grande stato, pur se perde uno piccolo.
Se per lusso intendete l'eccesso, si sa che l'eccesso è
pernicioso in tutto: nell'astinenza come nella ghiottoneria, nell'economia come
nella liberalità. Non so come accada che nei miei villaggi, dove la
terra è ingrata, le imposte grevi, e il divieto d'esportare il grano che
si è seminato addirittura intollerabile, non si trovi tuttavia un colono
che non abbia il suo bravo vestito di panno e non sia ben calzato e ben
nutrito. Se quel colono ara i campi col suo abito buono, con la biancheria
candida, con i capelli arricciati e incipriati, ecco certamente il lusso
più eccessivo, più impertinente; ma un borghese di Parigi o di
Londra che si presenti a teatro vestito come quel contadino, ecco è la
taccagneria più grossolana e ridicola.
Est modus in rebus, sunt certi denique
fines
quos ultra citraque nequit consistere rectum.
Quando furono inventate le forbici, che non risalgono certo alla
più remota antichità, che cosa non si disse contro i primi che si
spuntarono le unghie e si tagliarono una parte dei capelli che gli cadevano sul
naso? Furono indubbiamente trattati da damerini e da prodighi, che comperavano
a caro prezzo uno strumento di vanità per guastare l'opera del Creatore.
Quale enorme peccato accorciare le unghie che Iddio ci fa nascere sulla punta
delle dita! Era un oltraggio alla divinità. Fu molto peggio quando
s'inventarono le camicie e i calzini. Tutti sanno con quale furore i vecchi
consiglieri, che non ne avevano mai portati, gridarono contro i giovani
magistrati che caddero in preda a quel lusso funesto.
Ci gridano che la natura umana è essenzialmente perversa,
che l'uomo è figlio del demonio e malvagio. Niente di più stupido:
perché, caro amico, tu che mi predichi che tutti sono perversi, mi fai capire
con ciò che anche tu sei nato tale, che bisogna che io diffidi di te
come di una volpe o di un coccodrillo. "Nient'affatto!" mi rispondi.
"Io sono rigenerato, non sono né un eretico, né un infedele: di me ci si
può fidare." Ma il resto del genere umano, che è o eretico o
ciò che tu chiami infedele, non sarà dunque che un insieme di
mostri: e tutte le volte che ti accadrà di parlare con un luterano o un
turco, sarai sicuro che essi ti deruberanno o ti assassineranno: perché sono
figli del demonio; sono nati malvagi; l'uno non è rigenerato, l'altro
è degenerato.
Sarebbe ben più ragionevole, ben più bello dire agli
uomini: "Siete nati tutti buoni; pensate quanto sarebbe orribile
corrompere la purezza del vostro essere!" Dovremmo comportarci con il
genere umano come ci si comporta con tutti gli uomini presi singolarmente. Se
un canonico conduce una vita scandalosa, gli diciamo: "È possibile
che voi disonoriate la dignità di canonico?" E così a un
magistrato facciamo presente che egli ha l'onore di essere consigliere del re e
che deve dare il buon esempio; diciamo a un soldato, per incoraggiarlo:
"Pensa che fai parte del reggimento di Champagne!" Ad ogni individuo
si dovrebbe dire: "Ricordati della tua dignità di uomo."
E infatti, nonostante tutto, si torna sempre a questo punto:
perché cos'altro significa quella frase così frequentemente ripetuta
presso tutti i popoli: "Rientra in te stesso!"? Se fossimo figli del
demonio, se la nostra origine fosse criminale, se il nostro sangue fosse
composto di un liquido infernale, questa frase: "Rientra in te
stesso!" significherebbe: consulta, segui la tua natura diabolica, sii
impostore, ladro, assassino: è la legge di tuo padre.
L'uomo non nasce malvagio, lo diventa, come diventa malato. Se dei
medici gli si presentano e gli dicono: "Sei nato malato", è
certo che essi, qualunque cosa dicano e facciano, non lo guariranno mai se la
sua malattia è inerente alla sua natura: son loro, questi ragionatori, i
veri malati.
Riunite tutti i bambini del mondo: non vedrete in loro che
innocenza, tenerezza e timore; se fossero nati malvagi, malefici, crudeli, ne
mostrerebbero qualche segno, come i serpentelli cercano di mordere e i tigrotti
di sbranare. Ma la natura, non avendo dato all'uomo più armi offensive
che ai piccioni e ai conigli, non ha potuto dar loro un istinto che li porti a
distruggere.
L'uomo non è dunque nato malvagio. E allora perché tanti
uomini sono infetti da questa peste della malvagità? Perché quelli che
si trovano alla loro testa, essendo affetti da tale malattia, la comunicano al
resto degli uomini, come una donna colpita dal male che Cristoforo Colombo
riportò dall'America ne diffonde il veleno da un capo all'altro dell'Europa.
Il primo ambizioso ha corrotto la terra.
Voi mi direte che quel primo mostro ha sviluppato i germi di
orgoglio, di rapina, di frode, di crudeltà che sono in tutti gli uomini.
Riconosco che, in genere, la maggior parte dei nostri fratelli può
acquistare questi difetti; ma abbiamo forse tutti il tifo, il mal della pietra
o la renella, perché tutti vi siamo esposti?
Ci sono interi popoli che non sono malvagi: i cittadini di
Filadelfia, i baniani non hanno mai ucciso nessuno; i cinesi, le popolazioni
del Tonchino, del Laos, del Siam, dello stesso Giappone da più di
cent'anni non conoscono guerre. E appena ogni dieci anni succede di venire a
conoscenza di uno di quegli orrendi delitti che lasciano sbigottita la natura
umana, nelle città di Roma, di Venezia, di Parigi, di Londra, di
Amsterdam, dove la cupidigia, madre di tutti i delitti, è estrema.
Se gli uomini fossero essenzialmente malvagi, se nascessero tutti
soggetti a un essere tanto malefico quanto sventurato, che, per vendicarsi del
suo supplizio, ispirasse loro tutti i suoi furori, vedremmo ogni mattina i
mariti assassinati dalle mogli e i padri dai loro figli, così come si
vedono all'alba delle galline sgozzate da una faina venuta a suggerne il
sangue.
Se c'è un miliardo di uomini sulla terra, ed è
già molto, ciò significa, all'incirca, cinquecento milioni di
donne che cuciono, filano, nutrono i loro figli, tengono in ordine la loro casa
o la loro capanna e sparlano un po' delle loro vicine. Non vedo quale gran male
possano fare sulla terra queste povere innocenti. Su questo numero di abitanti
del globo, ci sono almeno duecento milioni di bambini, che certamente non
ammazzano né saccheggiano, e circa altrettanti vecchi o malati, che non ne
hanno la capacità. Restano tutt'al più cento milioni di giovani
robusti e capaci di delitti. Di questi cento milioni, ce ne sono novanta
continuamente occupati a lavorare la terra, tenacemente, perché fornisca loro
cibo e vesti; a costoro non resta molto tempo per commettere il male.
Nei restanti dieci milioni sono comprese le persone oziose e i
buontemponi, che vogliono passarsela tranquillamente; gli uomini di talento,
dediti alle loro professioni; i magistrati, i sacerdoti, evidentemente
interessati a condurre una vita pura, almeno in apparenza. Non resteranno,
dunque, che alcuni politici, sia secolari, sia regolari, che vogliono sempre
far tremare il mondo, e alcune migliaia di vagabondi che vendono i loro servigi
a questi politici. Ora, non c'è mai un milione di queste bestie feroci
impiegate insieme nello stesso momento; e in questo numero comprendo anche i
briganti da strada. Avremo dunque, al massimo, sulla terra, anche nei tempi
più disastrosi, un uomo su mille che potrà dirsi malvagio; e non
sempre è tale.
C'è, dunque, infinitamente meno male sulla terra di quel
che si dica e si creda. Senza dubbio ce n'è ancora troppo: si vedono
sventure e delitti orrendi; ma il piacere di lamentarsi e di esagerare è
tanto grande che, al minimo graffio, si grida che la terra gronda sangue. Siete
stato ingannato? Tutti gli uomini per voi sono spergiuri. Un uomo di
temperamento malinconico che abbia patito un'ingiustizia vede l'universo pieno
di dannati, così come un giovane gaudente che, dopo l'opera, va a cena
con la sua bella, non pensa affatto che nel mondo esistono anche degli sventurati.
Ci raccontano, a proposito dei martiri, tali sciocchezze da far
morir dal ridere. Tito, Traiano, Marco Aurelio, quei modelli di virtù,
ci vengono dipinti come dei mostri di crudeltà. Fleury, abate del Loc-Dieu,
ha disonorato la sua storia ecclesiastica con favole che una vecchietta di buon
senso non racconterebbe ai nipotini.
È possibile ripetere seriamente che i romani condannarono
sette vergini settantenni a passare per le mani di tutti i giovani della
città di Ancira, essi che punivano a morte le vestali per la minima
infrazione in fatto di sesso?
È probabilmente per far piacere agli osti che
s'immaginò che un oste cristiano, di nome Teodoto, pregò Dio di
far morire quelle sette vergini piuttosto che esporle a perdere la più
ammuffita delle verginità. Dio esaudì quell'oste pudibondo, e il
proconsole fece annegare in un lago le sette damigelle. Non appena furono
annegate, esse andarono a lamentarsi da Teodoto del tiro mancino ch'egli aveva
giocato loro, supplicandolo d'impedire che fossero mangiate dai pesci. Teodoto
prende con sé tre bevitori della sua taverna, va al lago con loro, preceduto da
una fiaccola celeste e da un cavaliere celeste, ripesca le sette. vecchie, le
sotterra, e finisce impiccato.
Diocleziano incontra un ragazzino, di nome san Romano,
balbuziente; vuol farlo bruciare perché cristiano; tre ebrei, che si trovano
là, si mettono a ridere perché Gesù Cristo lascia bruciare un
ragazzino che gli appartiene; gridano che la loro religione è superiore
a quella cristiana, perché Dio liberò Sidrac, Misac e Abdenago dalla
fornace ardente; subito le fiamme che circondano il piccolo Romano, senza
fargli male, si allontanano da lui e vanno a bruciare i tre ebrei.
L'imperatore, sbalordito, dice che non vuole avere brighe con Dio;
ma un giudice di villaggio, meno scrupoloso, condanna il piccolo balbuziente e
gli fa tagliare la lingua. Il protomedico dell'imperatore è abbastanza
onesto da fare lui stesso l'operazione; ma, appena ha tagliato la lingua al piccolo
Romano, questi si mette a cianciare con una volubilità che manda tutti
in visibilio.
Nei martirologi si trovano cento favole di questa specie. Si
è creduto di rendere odiosi gli antichi romani, e ci si è resi
ridicoli. Volete proprio delle vere barbarie bene accertate, dei buoni massacri
bene assodati, dei fiumi di sangue effettivamente versati, e padri, madri,
mogli, bambini lattanti realmente sgozzati e ammucchiati gli uni sopra gli
altri? Mostri persecutori, non cercate queste verità nei vostri annali:
le troverete nelle crociate contro gli albigesi, nei massacri di Merindol e di
Cabrières, nella spaventosa notte di san Bartolomeo, nelle stragi
d'Irlanda, nelle valli valdesi. Sta proprio a voi, barbari, d'imputare ai
migliori imperatori crudeltà stravaganti, voi che avete inondato
l'Europa di sangue e l'avete coperta di corpi agonizzanti, per provare che lo
stesso corpo si può trovare nello stesso tempo in mille luoghi diversi ,
e che il papa può vendere indulgenze! Cessate di calunniare i romani, vostri
legislatori, e chiedete perdono a Dio delle infamie dei vostri padri!
Non è il supplizio, voi dite, che fa il martire, ma la
causa. Ebbene, vi concedo che le vostre vittime non debbano essere chiamate col
nome di "martire", che significa testimone; ma quale nome daremo ai
vostri carnefici? I Falaride e i Busiride furono i più miti degli uomini
in confronto a voi; la vostra Inquisizione, che sussiste ancora, non fa forse
fremere la ragione, la natura, la religione? Gran Dio, se si riducesse in
cenere quel tribunale infernale, dispiacerebbe al vostro animo vendicatore?
I saggi cui si domanda che cos'è l'anima, rispondono che
non ne sanno niente. E se si domanda loro che cosa è la materia,
rispondono allo stesso modo. È vero che certi professori, e soprattutto
certi scolari sanno perfettamente tutto ciò; e quando hanno ripetuto che
la materia è estesa e divisibile, credono di aver detto tutto. Ma quando
sono pregati di dire che cosa sia questa cosa estesa, si trovano confusi. "È
composta di parti," dicono. E queste parti di che cosa sono composte? Gli
elementi di queste parti sono divisibili? Allora, o ammutoliscono o parlano
molto, il che è egualmente sospetto. Questo essere quasi del tutto
sconosciuto, che noi chiamiamo materia, è eterno? Tutta
l'antichità lo ha creduto. Ha in sé una forza attiva? Molti filosofi lo
hanno pensato. Quelli che lo negano hanno il diritto di negarlo? Voi non
concepite che la materia possa avere per sé delle proprietà. Ma come
potete asserire che non ha per sé le proprietà che le sono necessarie?
Ignorate quale sia la sua natura e poi le rifiutate modalità che pure
sono nella sua natura. Perché, infine, dato che esiste, bisogna pure che esista
in un certo modo, che sia figurata; e una volta dato che essa è
necessariamente figurata, è forse impossibile che non abbia altre
modalità inerenti alla sua configurazione? La materia esiste, voi non la
conoscete che attraverso le vostre sensazioni. Ahimè! a che servono
tutte le sottigliezze del nostro cervello, dal momento che si ragiona? La
geometria ci ha insegnato molte verità, la metafisica pochissime. Noi
pensiamo la materia, la misuriamo, la scomponiamo; ma più in là
di queste rozze operazioni, se vogliamo fare un passo, troviamo in noi
l'impotenza, e davanti a noi l'abisso.
Perdonate, di grazia, all'intero universo che si è
ingannato credendo che la materia esistesse per se stessa! Poteva forse fare
altrimenti? Come immaginare che ciò che è senza successione non
sia sempre esistito? E, se non era necessario che la materia esistesse, perché
esiste? E se bisognava che esistesse, perché non sarebbe sempre esistita?
Nessun assioma fu mai più universalmente accettato di questo:
"Nulla si genera dal nulla." In effetti, il contrario è
incomprensibile. Presso tutti i popoli, il caos precede l'ordine che una mano
divina ha dato al mondo intero. L'eternità della materia non ha nociuto
presso nessun popolo al culto della Divinità. La religione non fu mai
turbata dal fatto che un Dio eterno fosse riconosciuto come il signore di una
materia eterna. Noi siamo abbastanza soddisfatti, oggi, di sapere, grazie alla
fede, che Dio trasse la materia dal nulla; ma nessuna nazione era stata
informata di questo dogma: gli stessi ebrei l'ignorarono. Il primo versetto del
Genesi dice che gli dei Elôhîm, non Eloah fecero il cielo
e la terra; non dice che il cielo e la terra furono creati dal nulla.
Filone, vissuto nel solo periodo in cui gli ebrei ebbero una
qualche erudizione, dice nel suo capitolo sulla creazione: "Dio, essendo
buono per natura, non disdegnò la sostanza, la materia, che per se
stessa non aveva niente di buono, e che per sua natura è soltanto
inerzia, confusione, disordine. Egli si degnò di renderla buona da
cattiva che era."
L'idea del caos ordinato da un Dio si trova in tutte le antiche
teogonie. Esiodo ripeteva quel che pensava l'Oriente, quando diceva nella sua Teogonia:
"Il caos è ciò che esistette per primo." Ovidio era
l'interprete di tutto l'impero romano, quando diceva
Sic ubi dispositam, quisquis fuit ille
deorum Congeriem secuit...
La materia era dunque considerata nelle mani di Dio come l'argilla
sotto la ruota del vasaio, se è permesso di servirsi di queste deboli
immagini per esprimere la potenza divina.
La materia, essendo eterna, doveva avere proprietà eterne,
come la configurazione, la forza d'inerzia, il movimento e la
divisibilità. Ma la divisibilità non è che una conseguenza
del movimento, perché senza movimento niente si divide, né si separa, né si
ordina. Si considerava, dunque, il movimento come essenziale alla materia. Il
caos era stato un movimento confuso, e l'ordinamento dell'universo, un
movimento regolare, impresso a tutti i corpi dal signore del mondo. Ma in che
modo la materia avrebbe avuto il movimento per se stessa? Nello stesso modo per
cui, secondo tutti gli antichi, ha l'estensione e l'impenetrabilità.
Ma se è impossibile concepirla senza estensione, è
possibile concepirla senza moto. A ciò si rispondeva: "È
impossibile che la materia non sia permeabile, bisogna pure che qualcosa passi
di continuo nei suoi pori; a che pro dei passaggi, se non vi passa nulla?"
Di replica in replica non si finirebbe mai; il sistema della
materia eterna presenta, come tutti i sistemi, gravi difficoltà. Quello
della materia formata dal nulla non è meno incomprensibile. Bisogna
ammetterlo e non illudersi di spiegarlo: la filosofia non rende ragione di
tutto. Quante cose incomprensibili siamo obbligati ad ammettere, anche in
geometria! Si possono concepire due linee che si avvicinano sempre e non
s'incontrano mai?
I matematici, per la verità, ci risponderanno: "Le
proprietà delle asintoti vi sono dimostrate, non potete fare a meno di
ammetterle, ma la creazione non è dimostrata. Perché la ammettete,
dunque? Quale difficoltà trovate nel credere eterna la materia, come han
creduto gli antichi?" D'altra parte il teologo vi incalzerà,
dicendovi: "Se voi credete eterna la materia, riconoscete dunque due
principi: Dio e la materia; e così cadete nell'errore di Zoroastro, di
Mani."
Ai matematici non risponderemo nulla, perché costoro non conoscono
che le loro linee, le loro superfici e i loro solidi. Ma potremo rispondere al
teologo: "In che cosa sono manicheo? Ecco delle pietre che un architetto
non ha fatte; con esse egli ha costruito un grandioso edificio; io non ammetto
due architetti: le pietre brute hanno obbedito al potere e al genio."
Per fortuna, in qualunque dei due sistemi si creda, nessuno di
loro nuoce alla morale; poiché cosa importa che la materia sia stata creata o
ordinata? Dio resta pur sempre il nostro signore assoluto. Noi abbiamo il
dovere di essere virtuosi sia su un caos riportato all'ordine sia in un mondo
creato dal nulla. Quasi nessuna di queste questioni metafisiche influisce sulla
condotta della vita; e tali dispute sono come le chiacchiere vane che si
tengono a tavola: ognuno, appena pranzato, dimentica quel che ha detto e se ne
va dove il suo interesse e i suoi gusti lo chiamano.
Masciah o Mashîah, in ebraico; $×ñéóôüò
ï EÇëáéùìÝíïò$, in greco; Unctus, in
latino; Unto.
Leggiamo nell'Antico Testamento che il nome di "Messia"
fu dato spesso a principi idolatri o infedeli. È detto che Dio
inviò un profeta per ungere Iehu, re d'Israele, e che annunziò la
sacra unzione a Azaele, re di Damasco e di Siria, essendo questi due principi i
"Messia" dell'Altissimo per punire la casa di Achab.
Nel capitolo XLV di Isaia il nome di "Messia" vien dato
espressamente a Ciro: "Così parlò l'Eterno a Ciro, suo unto,
suo Messia, del quale ho preso la destra, per abbattere le nazioni davanti a lui
ecc."
Ezechiele, nel capitolo XXVIII delle sue rivelazioni, dà il
nome di "Messia" al re di Tiro, ch'egli chiama anche
"Cherubino": "Figlio dell'uomo," dice l'Eterno al profeta,
"pronunzia ad alta voce una lamentazione sul re di Tiro, e digli:
Così ha detto il Signore, l'Eterno. Tu eri il suggello della
rassomiglianza a Dio, pieno di saggezza e di perfetta bellezza; tu sei stato il
giardino d'Eden del Signore (o, secondo altre versioni: tu eri tutte le delizie
del Signore). Le tue vesti erano di sardonico, di topazio, di diaspro, di
crisolito, di onice, di berillo, di zaffiro, di carbonchio, di smeraldo e
d'oro. Quanto sapevan fare i tuoi tamburi e i tuoi flauti era al tuo servizio:
tutti pronti il giorno in cui fosti creato. Eri un Cherubino, un Messia."
Il nome di "Messia", di "Cristo", era dato ai
re, ai profeti e ai grandi sacerdoti degli ebrei. Leggiamo nel libro I de I
Re, XII, 5: "Il Signore e il suo Messia sono testimoni", ossia:
"Il Signore e il re cui ha dato il trono". E altrove: "Non
toccate i miei Unti e non fate nessun male ai miei profeti." David,
animato dallo spirito di Dio, in più di un passo dà a Saul, suo
suocero reprobo, che lo perseguitava, il nome e il titolo di "Unto",
di "Messia" del Signore. "Dio mi guardi," dice di
frequente, "dal portare la mia mano sull'unto del Signore, sul Messia di
Dio!"
Erode, essendo stato unto, fu chiamato "Messia" dagli
erodiani, che costituirono per qualche tempo una piccola setta.
Se il nome di "Messia", di unto dell'Eterno venne dato a
re idolatri e reprobi, fu molto spesso usato nei nostri antichi oracoli per
designare il vero unto del Signore, il "Messia" per eccellenza, il
Cristo, figlio di Dio; insomma Dio stesso.
Se riuniamo tutti i diversi oracoli che si riferiscono di solito
al "Messia", possono risultarne alcune apparenti difficoltà,
di cui gli ebrei si sono valsi per giustificare, potendolo, la loro
ostinazione. Molti grandi teologi riconoscono che, nello stato di oppressione
sotto il quale gemeva il popolo ebraico, e dopo tutte le promesse che l'Eterno
gli aveva fatte, esso poteva sospirare l'avvento di un "Messia"
vincitore e liberatore; e che esso è così in qualche modo
scusabile per non aver riconosciuto subito questo liberatore nella persona di
Gesù; tanto più che non c'è un solo passo nell'Antico
Testamento in cui sia detto: "Credete al Messia."
Era nei disegni della saggezza eterna che le idee spirituali del
vero Messia restassero sconosciute alla moltitudine cieca; e lo restarono a tal
punto che i dottori ebrei furono d'accordo nel negare che i passi allegati da
noi cristiani potessero riferirsi al Messia. Molti di loro dicono che il Messia
era già venuto nella persona di Ezechia: tale era l'opinione del famoso
Hillel. Altri, in gran numero, pretendono che la credenza della venuta di un
Messia non sia un articolo fondamentale di fede e che questo dogma, non
trovandosi né nel Decalogo né nel Levitico, non sia altro che una
speranza consolatrice.
Molti rabbini vi diranno di non dubitare che, secondo gli antichi
oracoli, il Messia sia venuto nel tempo prestabilito; che egli resta nascosto
su questa terra, senza invecchiare, e aspetta, per manifestarsi, che Israele
abbia celebrato come si deve il sabato.
Il famoso rabbino Salomone Isaacide, o Rashî, vissuto all'inizio
del XII secolo, dice nelle sue Talmudiche che gli antichi ebrei
credettero che il Messia fosse nato il giorno dell'ultima distruzione di
Gerusalemme da parte degli eserciti romani: un po', come si dice, chiamare il
medico dopo che il malato è morto.
Il rabbino Kimhi, vissuto anche lui nel XII secolo, annunziava che
il Messia, di cui credeva prossimo l'avvento, avrebbe scacciato dalla Giudea i
cristiani che in quel momento l'occupavano. È vero che i cristiani
perdettero la Terra Santa, ma chi li vinse fu il Saladino: se solo questo conquistatore
avesse protetto gli ebrei e si fosse schierato dalla loro parte, è
verosimile che, nel loro entusiasmo, essi avrebbero fatto di lui il loro
Messia.
Gli autori sacri, e lo stesso Nostro Signore Gesù,
paragonano spesso il regno del Messia e la beatitudine eterna a giorni di
nozze, a banchetti, ma i talmudisti abusarono bizzarramente di queste parabole:
secondo loro, il Messia darà al suo popolo, radunato nella terra di
Canaan un banchetto in cui il vino sarà quello che lo stesso Adamo fece
nel Paradiso terrestre, e che si conserva in vaste cantine scavate dagli angeli
al centro della Terra.
Per primo piatto verrà servito il famoso pesce chiamato il
grande Leviatano, che inghiotte in un boccone un pesce meno grande di lui e che
misura ben trecento leghe di lunghezza. Tutta la massa delle acque poggia sul
Leviatano. Dio, in principio, ne creò uno maschio e uno femmina, ma, per
timore che mettessero sossopra la Terra e riempissero il mondo di loro simili,
uccise la femmina e la mise in salamoia per il banchetto del Messia.
I rabbini aggiungono che, per quel banchetto, verrà ucciso
il toro Behemoth, così grosso che mangia ogni giorno il fieno di mille
montagne; la femmina di quel toro fu uccisa quando il mondo ebbe inizio, per
impedire che una specie così prodigiosa si moltiplicasse, il che non
avrebbe potuto che nuocere alle altre creature; ma affermano che l'Eterno non
la mise in salamoia, perché la vacca salata non è buona come la
leviatana. Gli ebrei prestano ancora tanta fede a tutte queste fantasie rabbiniche
che spesso giurano sulla loro porzione del bue Behemoth.
Con idee tanto grossolane sull'avvento del Messia e sul suo regno,
c'è da meravigliarsi se gli ebrei, sia antichi, sia moderni, e con loro
anche molti dei primi cristiani, disgraziatamente imbevuti di tutte queste
fantasticherie, non si sian potuti elevare sino all'idea della natura divina
dell'unto del Signore, e non abbiano attribuito al Messia la qualità di
Dio? Guardate come gli ebrei si esprimono a questo riguardo nell'opera intitolata
Judaei Lusitani Quaestiones ad christianos: "Riconoscere un uomo-Dio
significa ingannare se stessi, costruirsi un mostro, un centauro, un bizzarro
composto di due nature, che non possono congiungersi assieme." Aggiungono
che i profeti non insegnano affatto che il Messia sia uomo-Dio, che distinguono
nettamente tra Dio e David; che chiamano il primo "Signore", il
secondo "servitore" ecc.
È abbastanza noto che gli ebrei, schiavi della lettera, non
hanno mai penetrato come noi il senso delle Scritture.
E, infatti, quando il Salvatore comparve, i pregiudizi ebraici si
levarono contro di lui. Gesù Cristo stesso, per non sconvolgere quelle
menti cieche, si mostrò estremamente riservato sulla questione della
propria divinità: "Egli voleva," dice san Crisostomo, "convincere
insensibilmente i suoi uditori a credere in un mistero tanto più alto
della nostra ragione." Se assume l'autorità di un Dio nel perdonare
i peccati, quest'azione gli mette contro tutti coloro che ne sono testimoni; i
suoi miracoli più evidenti non valgono a convincere della sua
divinità nemmeno coloro in favore dei quali egli li compie. Quando,
davanti al tribunale del supremo sacrificatore, egli confessa, con una modesta
perifrasi, di essere il figlio di Dio, il gran sacerdote si strappa le vesti e
grida alla bestemmia. Prima della discesa dello Spirito Santo, gli apostoli non
sospettano neppure la divinità del loro maestro; egli li interroga su
quel che il popolo pensa di lui, ed essi rispondono che gli uni lo prendono per
Elia, altri per Geremia, o per qualche altro profeta. San Pietro ha bisogno di
una rivelazione particolare per capire che Gesù è il Cristo, il
figlio del Dio vivente.
Gli ebrei, ribellandosi contro la divinità di Gesù
Cristo, fanno ricorso ad ogni sorta di cavilli per distruggere quel grande
mistero; alterano il senso dei loro stessi oracoli o non li applicano al
Messia; pretendono che il nome di Dio, Elóhim, non è dato dagli autori
sacri solo alla Divinità, ma anche ai giudici, ai magistrati e in genere
alle autorità; e citano, in effetti, un grandissimo numero di passi
delle Sacre Scritture che giustificano tale asserzione, ma che non alterano
affatto il senso esplicito degli antichi oracoli attinenti al Messia.
Infine pretendono che se il Salvatore e, dopo di lui, gli
evangelisti, gli apostoli e i primi cristiani chiamano Gesù "il
figlio di Dio", questo termine augusto non significa altro, nei tempi
evangelici, che l'opposto di "figlio di Belial", ossia uomo virtuoso,
servo di Dio, in opposizione a malvagio, a uomo che non teme Dio.
Se gli ebrei hanno contestato a Gesù Cristo la
qualità di Messia e la sua divinità, nulla hanno trascurato per
renderlo spregevole, per gettare sulla sua nascita, sulla sua vita e sulla sua
morte tutto il ridicolo e tutto l'obbrobrio che il loro criminale accanimento
ha potuto immaginare.
Di tutte le opere prodotte dalla loro cecità, nessuna
è così odiosa e stravagante come l'antico libro intitolato: Sepher
Toldos Jeschut, disseppellito dal signor Wagenseil, nel secondo tomo della
sua opera intitolata: Tela ignea ecc.
È in questo Sepher Toldos Jeschut che si legge una
storia mostruosa della vita del nostro Salvatore, fabbricata con tutta la
passione e la malafede possibili. Così, per esempio, si è osato
scrivere che un tale Panther o Pandera, abitante a Betlemme, si era innamorato
di una giovane donna maritata a Jochanan. Egli ebbe da questo commercio impuro
un figlio chiamato Jesua o Gesù. Il padre del bambino fu costretto a
fuggire e si rifugiò a Babilonia. Quanto al piccolo Gesù, fu
mandato a scuola; ma, aggiunge l'autore, ebbe l'insolenza di alzare la testa e
di scoprirsi il capo davanti ai sacrificatori, invece di presentarsi davanti a
loro a testa bassa e col viso coperto, com'era costume: arditezza che fu
vivamente riprovata, e indusse a esaminare la sua nascita, che fu trovata
impura ed espose ben presto il bimbo alla pubblica ignominia.
Questo detestabile Sepher Toldos Jeschut era conosciuto fin
dal II secolo: Celso lo cita con rispetto, e Origene lo confuta nel suo nono
capitolo.
C'è un altro libro, anch'esso intitolato Toldos Jeschut,
pubblicato nel 1705 da Huldrich, che segue più da presso il Vangelo
dell'infanzia, zeppo di anacronismi e di errori grossolani. Fa nascere e
morire Gesù Cristo sotto il regno di Erode il Grande e pretende che
davanti a questo principe sia stata mossa l'accusa di adulterio fra Panther e
Maria, madre di Gesù.
L'autore, che prende il nome di Jonathan e si dice contemporaneo
di Gesù Cristo e abitante di Gerusalemme, sostiene che Erode
consultò, a proposito della nascita di Gesù Cristo, i senatori di
una città nella terra di Cesarea. Non seguiremo un autore così
assurdo in tutte le sue contraddizioni.
È col favore di tante e tali calunnie che gli ebrei si
mantengono nel loro odio implacabile contro i cristiani e contro il Vangelo;
niente han trascurato per alterare la cronologia del Vecchio Testamento e
spargere dubbi e difficoltà sul tempo della venuta del nostro Salvatore.
Ahmed ben-Cassum al-Andalusi, un moro di Granata, vissuto sul finire
del XVI secolo, cita un antico manoscritto arabo che fu scoperto con sedici
lamine di piombo, incise in caratteri arabi, in una grotta nei pressi di
Granata. Don Pedro y Quinones, arcivescovo di questa città, ne ha reso
lui stesso testimonianza. Queste lamine di piombo, dette "di
Granata", furon poi portate a Roma, dove, dopo un esame durato molti anni,
furono alla fine condannate come apocrife sotto il pontificato di Alessandro
VII: esse contengono storie favolose sulla vita di Maria e di suo figlio.
Il nome di "Messia", accompagnato dall'epiteto di
"falso", si dà inoltre a quegli impostori che, in vari tempi,
hanno cercato di ingannare il popolo ebraico. Ce ne furono, di questi falsi
Messia, anche prima della venuta del vero unto di Dio. Il saggio Gamaliele
parla di un certo Teuda, la cui storia si legge nelle Antichità
giudaiche di Giuseppe, libro XX, cap. II. Egli si vantava di attraversare
il Giordano a piedi asciutti; attirò molta gente al suo seguito; ma i
romani, piombati sulla sua schiera, la dispersero, mozzarono la testa allo
sventurato e la esposero a Gerusalemme.
Gamaliele parla anche di Giuda, il galileo, che è senza
dubbio lo stesso che Giuseppe cita nel capitolo XII del secondo libro della Guerra
giudaica. Egli sostiene che quel falso profeta aveva raccolto attorno a sé
circa tremila uomini; ma l'iperbole è caratteristica degli storici
ebrei.
Nei tempi apostolici, si vide Simone, soprannominato il Mago che
aveva saputo sedurre gli abitanti di Samaria al punto che essi lo consideravano
come "la virtù di Dio".
Nel secolo seguente, nel 178 e 179 d.C., sotto l'impero di
Adriano, comparve il falso Messia Bar Kôkebâ, alla testa di un esercito.
L'imperatore inviò contro di lui Giulio Severo, che, dopo molti scontri,
riuscì a chiudere i rivoltosi nella città di Bither; essa
sostenne un durissimo assedio e infine fu espugnata; Bar Kôkèbâ fu preso
e messo a morte. Adriano decise di prevenire le continue rivolte degli ebrei
proibendo loro, con un editto, di recarsi a Gerusalemme, e mise delle guardie alle
porte della città per impedire l'accesso al resto del popolo d'Israele.
Si legge in Socrate, storico ecclesiastico, che nell'anno 434
comparve, nell'isola di Candia, un falso Messia, che si chiamava Mosè.
Egli proclamava d'essere l'antico liberatore degli ebrei, resuscitato per
liberarli un'altra volta.
Un secolo dopo, nel 530, ci fu in Palestina un falso Messia
chiamato Giuliano; costui si presentò come un gran conquistatore che, a
capo della sua nazione, avrebbe distrutto con le armi tutto il popolo cristiano;
sedotti dalle sue promesse, gli ebrei si armarono e massacrarono parecchi
cristiani. L'imperatore Giustiniano inviò contro di lui delle truppe: fu
data battaglia al falso Cristo che, catturato, fu condannato all'estremo
supplizio.
Agli inizi dell'VIII secolo, Sereno, ebreo spagnolo, si
proclamò Messia, predicò, ebbe dei discepoli, e morì come
loro nella miseria.
Nel XII secolo comparvero molti falsi Messia: anche in Francia,
sotto Luigi il Giovane, ce ne fu uno, che venne impiccato insieme con i suoi
seguaci. I loro nomi rimasero per sempre ignoti.
Il XIII secolo fu fertile di falsi Messia: se ne contano sette od
otto, in Arabia, in Persia, in Spagna, in Moravia. Uno di loro, che si chiamava
David el Re, passa per essere stato un grandissimo mago; sedusse gli ebrei, si
trovò a capo di un grosso partito, ma morì assassinato.
Giacomo Zieglerne, moravo, che visse verso la metà del XVI
secolo, annunziò la prossima manifestazione del Messia, nato, a quel che
assicurava, da quattordici anni. L'aveva visto, diceva, a Strasburgo, e
conservava con cura una spada e uno scettro per metterli nelle sue mani, non
appena avesse raggiunto l'età d'insegnare.
Nell'anno 1624, un altro Zieglerne confermò la predicazione
del primo.
Nel 1666, Shabbetày-Sebî, nato ad Aleppo, dichiarò
di essere il Messia predetto dagli Zieglerne. Cominciò col predicare
sulle strade maestre e in mezzo alle campagne; i turchi lo deridevano, ma i
suoi discepoli lo ammiravano. Sembra che, da principio, egli non riuscisse ad
interessare il grosso della nazione ebraica, giacché i capi della sinagoga di
Smirne pronunciarono contro di lui una sentenza di morte; ma egli se la
cavò con la paura e l'esilio.
Contrasse tre matrimoni, e si afferma che non ne consumasse
nessuno, dicendo che l'atto sessuale era indegno di lui. Si associò un
certo Natan Levi, il quale sosteneva la parte del profeta Elia, che doveva
precedere il Messia. Ambedue si recarono a Gerusalemme, dove Natan
presentò Shabbêtày-Sêbî come il liberatore delle
nazioni. La plebaglia ebrea si schierò dalla loro parte, ma quanti
avevano qualcosa da perdere li anatemizzarono.
Sebî, per fuggire la tempesta, si ritirò a Costantinopoli,
e di là a Smirne. Natan Levi gl'inviò quattro ambasciatori, che
lo riconobbero e lo salutarono pubblicamente come Messia: questa ambasceria
colpì favorevolmente il popolo, ed anche alcuni dottori, i quali
dichiararono Shabbetày-Sebî "Messia" e re degli ebrei. Ma la
sinagoga di Smirne condannò il suo re a venire impalato.
Shabbetày si mise sotto la protezione del cadì di
Smirne, ed ebbe ben presto dalla sua parte tutto il popolo ebreo. Si fece
innalzare due troni, uno per sé e l'altro per la sua sposa favorita, assunse il
nome di re dei re e conferì a Giuseppe Sebî, suo fratello, quello di re
di Giudea. Promise agli ebrei la sicura conquista dell'impero ottomano. E
spinse la sua insolenza al punto di far togliere dalla liturgia ebraica il nome
del sultano e di farlo sostituire con il suo.
Fu messo in prigione ai Dardanelli. Gli ebrei proclamarono che la
sua vita veniva risparmiata perché i turchi sapevan bene che era immortale. Il
governatore dei Dardanelli si arricchì con i doni che gli ebrei gli
prodigavano per poter visitare il loro re, il loro "Messia"
prigioniero, il quale, in catene, conservava tutta la sua dignità e si
faceva baciare i piedi.
Tuttavia il sultano, che teneva la sua corte ad Adrianopoli, volle
metter fine a questa commedia: fece chiamare Sebî e gli disse che, se era il
Messia, doveva essere invulnerabile. Sebî ne convenne. Il sultano lo fece
allora porre come bersaglio per le frecce dei suoi arcieri; il
"Messia" subito confessò di non essere invulnerabile e
dichiarò che Dio non l'aveva inviato che per rendere testimonianza alla
santa religione musulmana. Fustigato dai ministri della legge, si fece maomettano,
e visse e morì tanto disprezzato dagli ebrei quanto dai musulmani:
questo screditò talmente la professione di "falso Messia", che
dopo di lui non ne comparvero più.
Non è del tutto naturale che le metamorfosi di cui la terra
abbonda abbiano fatto immaginare in Oriente, dove tutto è stato
immaginato, che le nostre anime passino da un corpo a un altro? Un punto quasi
impercettibile diventa un verme, questo verme diventa farfalla; una ghianda si
trasforma in quercia, un uovo in uccello; l'acqua diventa nuvola e tuono, il
legno si muta in fuoco e cenere: tutto, nella natura, sembra insomma subire una
metamorfosi. Così, ben presto si attribuì alle anime, immaginate
come lievi figure, quel che si osserva in modo sensibile nei corpi più
grossolani. L'idea della metempsicosi è forse il più antico dogma
dell'universo conosciuto e vive ancora in gran parte dell'India e della Cina.
È anche assai naturale che tutte le metamorfosi di cui
siamo testimoni abbiano prodotto quelle antiche favole che Ovidio ha raccolto
nella sua opera mirabile. Gli ebrei stessi ebbero le loro metamorfosi. Se Niobe
fu mutata in sasso, Edith, la moglie di Lot, fu mutata in una statua di sale.
Se Euridice restò negli inferi per aver guardato dietro di sé, è
per la medesima indiscrezione che la moglie di Lot fu privata della natura
umana. Il borgo dove abitavano, in Frigia, Filemone e Bauci, si tramutò
in un lago; lo stesso successe di Sodoma. Le figlie di Anio mutarono l'acqua in
olio; nelle Scritture si narra di una metamorfosi pressoché simile, ma
più vera e più santa. Cadmo fu mutato in serpente; la verga di
Aronne diventò anch'essa un serpente.
Gli dei si trasformavano spessissimo in uomini; gli ebrei non
videro mai gli angeli che sotto forma umana: gli angeli mangiarono in casa di
Abramo. Paolo, nella sua Epistola ai Corinzi, dice che l'angelo di
Satana lo schiaffeggiò: "Angelus Satanae me colaphiset".
Un miracolo, in virtù della parola stessa, è una
cosa mirabile. In questo caso, tutto è miracolo, l'ordine prodigioso
della natura, la rotazione di cento milioni di globi intorno a un milione di
soli, l'attività della luce, la vita degli animali, sono perpetui
miracoli.
Secondo le idee acquisite, chiamiamo miracolo la violazione
di queste leggi divine ed eterne. Che ci sia un'eclissi di sole durante la luna
piena, che un morto faccia a piedi due leghe di cammino portando tra le braccia
la propria testa, lo chiamiamo miracolo. Molti fisici sostengono che in questo
senso non esistono miracoli: ed ecco i loro argomenti.
Un miracolo è la violazione delle leggi matematiche,
divine, immutabili, eterne. Per questa sola definizione, un miracolo è
una contraddizione in termini. Una legge non può essere nello stesso tempo
immutabile e violata. Ma una legge, si oppone, stabilita da Dio stesso, non
può essere sospesa dal suo autore? I fisici di cui sopra hanno l'ardire
di rispondere di no, e che è impossibile che l'Essere infinitamente
saggio abbia fatto delle leggi per poi violarle. Non potrebbe, dicono, alterare
la sua macchina se non per farla andare meglio; ora, è chiaro che
essendo Dio, egli ha fatto quest'immensa macchina tanto bene quanto ha potuto:
se ha visto che ci sarebbe stata qualche imperfezione, risultante dalla natura
della materia, vi ha provveduto fin da principio; e perciò non vi
apporterà mai alcun mutamento.
Inoltre, Dio non può,far nulla senza ragione: ora, quale
ragione lo indurrebbe a sfigurare per qualche tempo la propria opera?
A favore degli uomini, si dice. Sarà dunque almeno a favore
di tutti gli uomini, si ribatte: poiché è impossibile concepire che la
natura divina operi per qualche uomo in particolare, e non per tutto il genere
umano; e perfino il genere umano è ben poca cosa: è molto meno di
un piccolo formicaio a paragone di tutti gli esseri che riempiono
l'immensità. Ora non è la più assurda delle pazzie
immaginare che l'Essere infinito sovverta a favore di tre o quattro centinaia
di formiche, su questo mucchietto di fango, il gioco eterno delle molle immense
che fanno muovere tutto l'universo?
Ma supponiamo che Dio abbia voluto distinguere un piccolo numero
di uomini con certi favori particolari: dovrà mutare ciò che
stabilì per tutti i tempi e tutti i luoghi? Non ha certo alcun bisogno
di questo mutamento, di questa incostanza per favorire le sue creature: i suoi
favori sono nelle sue stesse leggi. Per esse ha tutto previsto, tutto disposto;
tutte obbediscono irrevocabilmente alla forza che egli ha impresso per sempre
nella natura.
Perché Dio farebbe un miracolo? Per rendere perfetto un certo
disegno su alcuni esseri viventi! Egli dovrebbe dire, dunque: "Con la
fabbrica dell'universo, con i miei decreti divini, con le mie leggi eterne non
mi è riuscito di venire a capo di un certo disegno; cambierò le
mie idee eterne, le mie leggi immutabili, per cercare di eseguire ciò
che con esse non ho potuto fare." Sarebbe una confessione della sua
debolezza, e non della sua potenza. Sarebbe in lui, mi pare, la più
inconcepibile contraddizione. Così dunque, osare attribuire a Dio dei
miracoli è veramente insultarlo (se mai gli uomini possono insultare
Dio); è come dirgli: "Sei un essere debole e incoerente."
È dunque assurdo credere ai miracoli, è disonorare in qualche
modo la Divinità.
Si insiste con questi filosofi, dicendo loro: "Voi avete un
bell'esaltare l'immutabilità dell'Essere supremo, l'eternità
delle sue leggi, la regolarità dei suoi mondi infiniti; questo nostro
piccolo ammasso di fango è stato sempre visitato dai miracoli; le storie
sono tanto ricche di prodigi quanto di eventi naturali. Le figlie del gran
sacerdote Anio tramutavano tutto quel che volevano in grano, vino o olio;
Atalide, figlia di Mercurio, risuscitò diverse volte Ippolito; Ercole
strappò Alcesti alla morte; Heres ritornò nel mondo dopo aver
passato quindici giorni negli inferi; Romolo e Remo nacquero da un dio e da una
vestale; il Palladio cadde dal cielo nella città di Troia; la chioma di
Berenice diventò una costellazione; la capanna di Filemone e Bauci fu mutata
in un superbo tempio; la testa di Orfeo pronunziava oracoli, dopo la sua morte;
le mura di Tebe si costruirono da sole, al suono del flauto, al cospetto dei
greci; le guarigioni avvenute nel tempio d'Esculapio furono innumerevoli, e noi
possediamo ancora dei monumenti pieni di nomi e di testimoni oculari dei
miracoli d'Esculapio."
Nominatemi un popolo presso il quale non siano avvenuti degli
incredibili prodigi, soprattutto nei tempi in cui si sapeva appena leggere e
scrivere.
I filosofi rispondono a queste obiezioni limitandosi a ridere e ad
alzare le spalle; ma i filosofi cristiani dicono: "Noi crediamo ai
miracoli operati nella nostra santa religione; li crediamo per fede, e non per
la nostra ragione, che ci guardiamo bene dall'ascoltare; perché, quando parla
la fede, si sa che la ragione deve restare muta. Noi crediamo fermamente nei
miracoli di Gesù Cristo e degli apostoli; ma permetteteci di dubitare un
poco di parecchi altri. Consentite, ad esempio, che noi sospendiamo il nostro
giudizio su ciò che ci narra un uomo semplice, cui è stato dato
il nome di "grande". Egli assicura che un umile frate era così
solerte nel fare miracoli che il suo priore infine gli proibì di
esercitare questo dono. Il frate obbedì. Ma un giorno, vedendo un povero
muratore piombare giù dal tetto, esitò fra il desiderio di
salvargli la vita e la santa obbedienza. Ordinò soltanto al muratore di
restare sospeso in aria sino a nuovo ordine, e andò di corsa dal priore
a raccontargli come stavano le cose. Il priore l'assolse del peccato che aveva
commesso, cominciando a fare un miracolo senza il suo permesso, e gli
consentì di portarlo a termine, a patto però che la facesse
finita e non ricominciasse più. Concordiamo con i filosofi che bisogna
un po' diffidare di questa storia."
"Ma come osereste negare," si dice loro, "che san
Gervasio e san Protasio siano apparsi in sogno a sant'Ambrogio e gli abbiano
indicato il luogo ove si trovavano le loro reliquie? che sant'Ambrogio le abbia
dissotterrate e che esse abbiano guarito un cieco? Sant'Agostino era allora a
Milano; è lui che riferisce questo miracolo: "Immenso populo
teste", scrive nel suo De civitate Dei, libro XXII. Ecco un
miracolo fra i meglio assodati." I filosofi rispondono che non credono a
niente di tutto ciò; che Gervasio e Protasio non appaiono a nessuno; che
al genere umano importa assai poco sapere dove si trovano i resti delle loro
carcasse; che credono tanto poco alla guarigione di quel cieco quanto a quella
del cieco di Vespasiano; che fu un miracolo inutile, e che Dio non fa niente di
inutile; e restano fermi nei loro principi. Il mio rispetto per san Gervasio e
san Protasio non mi permette di essere dell'avviso di questi filosofi; mi
limito solo a riferire la loro incredulità. Essi fanno gran caso del
passo di Luciano che si trova nella Morte di Peregrino: "Quando un
abile prestigiatore si fa cristiano, è sicuro di far fortuna." Ma,
dato che Luciano è un autore profano, non deve godere di nessuna
autorità fra di noi.
Questi filosofi non possono risolversi a credere ai miracoli
operati nel II secolo. Invano alcuni testimoni oculari hanno scritto che quando
il vescovo di Smirne, san Policarpo, fu condannato al rogo e gettato tra le
fiamme, udirono una voce dal cielo che gridava: "Coraggio, Policarpo! Sii
forte, mostrati uomo!"; e allora le fiamme del rogo si scostarono dal suo
corpo e formarono una cupola di fuoco sopra la sua testa, e dal mezzo del rogo
uscì una colomba: e così si fu obbligati a tagliare la testa a
Policarpo. "A che pro questo miracolo?" dicono gli increduli.
"Perché le fiamme hanno perduto la loro natura, e la mannaia del boia non
ha perduto la sua? Com'è che tanti martiri uscirono sani e salvi
dall'olio bollente e non poterono invece resistere al filo della spada?"
Si risponde che tale fu la volontà di Dio. Ma i filosofi avrebbero
voluto vedere tutto ciò con i loro occhi, prima di crederci.
Quelli poi che rafforzano i loro ragionamenti con la scienza, vi
diranno che gli stessi Padri della Chiesa hanno più volte ammesso che ai
tempi loro non si facevano più miracoli. San Crisostomo dice
esplicitamente: "I doni straordinari dello Spirito erano concessi anche
agli indegni, perché la Chiesa aveva allora bisogno di miracoli; ma oggi essi
non sono più concessi nemmeno ai degni, perché la Chiesa non ne ha più
bisogno." E confessa poi che ai suoi tempi non c'era più nessuno
che risuscitasse i morti, e nemmeno che guarisse i malati.
Sant'Agostino stesso, nonostante il miracolo di Gervasio e
Protasio, scrive nel De Civitate Dei: "Perché quei miracoli che
avvenivano un tempo oggi non avvengono più?" E ne dà la
stessa ragione di san Crisostomo: "Cur, inquiunt, nunc illa miracula quae
praedicatis facta esse non fiunt? Possem quidem dicere necessaria prius fuisse
quam crederet mundus, ad hoc ut crederet mundus."
Si obietta ai filosofi che sant'Agostino, nonostante questa
confessione, narra tuttavia di un vecchio ciabattino di Ippona, il quale,
avendo perduto il suo abito, andò a pregare nella cappella "dei
venti martiri"; che, tornandosene via, trovò un pesce nel cui corpo
c'era un anello d'oro; e che il cuoco che gli cucinò il pesce disse al
ciabattino: "Ecco ciò che ti donano i venti martiri."
Ma i filosofi rispondono che non c'è niente in questa
storia che contraddica alle leggi della natura; che la fisica non è
affatto offesa se un pesce ha inghiottito un anello d'oro e un cuoco ha
regalato quell'anello a un ciabattino; che non v'è in ciò alcun
miracolo.
Se si ricorda a questi filosofi che, secondo san Girolamo, nella
sua Vita di Paolo l'eremita, il detto eremita parlò molto spesso
con satiri e fauni; che un corvo gli portò tutti i giorni, per
trent'anni, mezzo pane per desinare, e un pane intero il giorno in cui
sant'Antonio venne a trovarlo, potranno ancora rispondere che tutto ciò
non è assolutamente in contrasto con la fisica; che satiri e fauni
possono pur essere esistiti e che, in ogni caso, se questo racconto è
una favoletta, essa non ha niente in comune con i veri miracoli del Salvatore e
dei suoi apostoli. Molti buoni cristiani hanno contestato la storia di san
Simeone Stilita, scritta da Teodoreto. E molti miracoli, stimati autentici
dalla Chiesa greca, furono invece messi in dubbio da parecchi latini, allo
stesso modo che dei miracoli latini apparvero sospetti alla Chiesa greca;
vennero in seguito i protestanti, che contestarono vivamente i miracoli
dell'una e dell'altra Chiesa.
Un dotto gesuita, che predicò a lungo nelle Indie, si
lamenta che né lui né i suoi confratelli sian mai riusciti a fare miracoli.
Saverio si duole, in molte delle sue lettere, di non possedere il dono delle
lingue; dice di trovarsi, fra i giapponesi, come una statua muta. Eppure i
gesuiti scrissero che aveva risuscitato otto morti: son parecchi; ma bisogna
anche considerare che egli li risuscitava a seimila leghe di qui. Si è
trovata in seguito della gente convinta che l'abolizione dell'ordine dei
gesuiti in Francia sia stata un miracolo ben più grande di quelli di
Saverio e Ignazio.
Comunque sia, tutti i cristiani convengono che i miracoli di
Gesù Cristo e degli apostoli sono assolutamente autentici, ma che si
può fortemente dubitare di certi miracoli avvenuti nei nostri tempi, la
cui autenticità non è sicura affatto.
Sarebbe augurabile, ad esempio, perché un miracolo venisse ben
appurato, che fosse fatto in presenza dell'Accademia delle Scienze di Parigi, o
della Società Reale di Londra, e della Facoltà di medicina,
assistite da un distaccamento del reggimento delle guardie per contenere la
folla, che potrebbe con la sua indiscrezione impedire il manifestarsi del
miracolo.
Un giorno qualcuno chiese a un filosofo che cosa avrebbe detto se
avesse veduto fermarsi il sole, cioè se fosse venuto a cessare il moto
della terra intorno a quest'astro; se tutti i morti fossero risuscitati e tutte
le montagne fossero andate a buttarsi nel mare: il tutto per provare qualche
verità importante, come per esempio la grazia versatile. "Che cosa
direi?" rispose il filosofo. "Mi farei manicheo; direi che c'è
un principio che disfa ciò che l'altro ha fatto."
Ho appena letto queste parole in una declamazione in quattordici
volumi, intitolata Histoire du Bas- Empire:
"I cristiani avevano una morale; ma i pagani non ne avevano
nessuna."
Ah, signor Le Beau, autore di questi quattordici volumi, chi vi ha
messo in testa tale panzana? Che cosa sarebbe dunque la morale di Socrate, di
Zaleuco, di Caronda, di Cicerone, di Epitteto, di Marco Antonino?
Non c'è che una morale, signor Le Beau, come non c'è
che una geometria. Ma mi si risponderà che la maggior parte degli uomini
ignora la geometria. Sì, ma se ci si applica un po', ognuno concorda con
i suoi principi. Gli agricoltori, i manovali, gli artigiani non hanno mai
seguito corsi di morale; non hanno letto né il De finibus bonorum et malorum
di Cicerone né le Etiche di Aristotele; però, non appena si
mettono a riflettere, diventano senza saperlo discepoli di Cicerone: il tintore
indiano, il pastore tartaro e il marinaio inglese conoscono il giusto e
l'ingiusto. Confucio non inventò un sistema di morale come si costruisce
un sistema di fisica: lo trovò nel cuore di tutti gli uomini.
Questa morale era nel cuore del pretore Festo quando i giudei lo
sollecitarono a far morire Paolo, che aveva condotto degli stranieri nel loro
tempio. "Sappiate," rispose Festo, "che i romani non condannano
nessuno senza averlo prima ascoltato."
Se i giudei mancavano di morale, o mancavano alla morale, i romani
la conoscevano e le rendevano onore.
La morale non sta nella superstizione, non sta nelle cerimonie,
non ha nulla in comune con i dogmi. Non si ripeterà mai abbastanza che
tutti i dogmi sono diversi, mentre la morale è la medesima in tutti gli
uomini che fanno uso della ragione. La morale viene dunque da Dio, come la
luce. Le nostre superstizioni non sono che tenebre. Lettore, rifletti: sviluppa
questa verità e traine le conseguenze.
Molti dotti han sostenuto che il Pentateuco non può
essere stato scritto da Mosè. Essi dicono che, dalla stessa scrittura,
è accertato che il primo esemplare conosciuto fu trovato al tempo del re
Giosia, che quest'unico esemplare fu portato al re dal segretario Safan. Ora,
tra Mosè e questa azione del segretario Safan, corrono, secondo il
computo ebraico, millecentosessantasette anni. Dio, infatti, apparve a
Mosè nel roveto ardente l'anno 2213 dalla creazione del mondo, e il
segretario Safan pubblicò il libro della legge l'anno 3380. Questo
libro, trovato sotto Giosia, rimase sconosciuto fino al ritorno degli ebrei
dalla cattività di Babilonia; ed è scritto che fu Esdra, ispirato
da Dio, a portare alla luce tutte le Sante Scritture.
Ora, che a comporre il Pentateuco sia stato Esdra o un
altro, è assolutamente indifferente, dato che questo libro è
veramente ispirato. Non è detto, nel Pentateuco, che Mosè
ne è l'autore: potrebbe, quindi, essere permesso attribuirlo a un altro
uomo, cui lo Spirito Divino lo abbia dettato, se la Chiesa non avesse deciso
che esso è opera di Mosè.
Alcuni contradditori aggiungono che nessun profeta ha mai citato i
libri del Pentateuco, che non se ne fa menzione né nei salmi, né nei
libri attribuiti a Salomone, né in Geremia, o in Isaia, né infine in alcun
libro canonico. Le parole che corrispondono a quelle di Genesi, Esodo,
Numeri, Levitico, Deuteronomio non si trovano in nessun
altro scritto né del Vecchio, né del Nuovo Testamento.
Altri, più arditi, hanno posto i seguenti quesiti:
1) In quale lingua Mosè avrebbe scritto in un selvaggio
deserto? Non poteva essere che in egiziano, perché dal testo stesso risulta che
Mosè e tutto il suo popolo erano nati in Egitto. È probabile che
essi non parlassero altra lingua. Gli egiziani non si servivano ancora del
papiro; i geroglifici venivano incisi sul marmo o sul legno. È anche
detto che le tavole dei comandamenti furono incise sulla pietra. Si sarebbero
dunque dovuti incidere su pietre polite cinque volumi, il che avrebbe richiesto
sforzi e tempo prodigiosi.
2) È verosimile che in un deserto dove il popolo ebraico
non aveva né calzolai né sarti, e dove il Dio dell'universo era obbligato a
fare continui miracoli per conservare i vecchi abiti e le vecchie scarpe degli
ebrei, si siano trovati uomini tanto abili da incidere cinque libri del Pentateuco
sulla pietra o sul legno? Si dirà che si trovarono pure operai che
fecero un vitello d'oro e che poi ridussero quell'oro in polvere; che
costruirono il tabernacolo, che l'adornarono con trentaquattro colonne di
bronzo dai capitelli d'argento, che tesserono e ricamarono i veli di lino, di
giacinto, di porpora e di scarlatto. Ma proprio questo rafforza l'opinione dei
contradditori. Essi replicano che non è possibile che, in un deserto
dove mancava tutto, si siano potute fare opere così ricercate; che
semmai si sarebbe dovuto cominciare col fare tuniche e calzari; che gente che
manca del necessario non dà nel lusso; e che è una evidente
contraddizione dire che c'erano fonditori, incisori, scultori, tintori,
ricamatori quando non c'erano né abiti, né sandali, né pane.
3) Se Mosè avesse scritto il primo capitolo del Genesi,
sarebbe stato proibito a tutti i giovani di leggere quel primo capitolo? Si
sarebbe portato così poco rispetto al legislatore? Se fosse stato
Mosè a dire che Dio punisce l'iniquità dei padri fino alla quarta
generazione, Ezechiele avrebbe osato dire il contrario?
4) Se Mosè avesse scritto il Levitico, avrebbe
potuto contraddirsi nel Deuteronomio? Il Levitico proibisce di
sposare la moglie del fratello, il Deuteronomio lo ordina.
5) Mosè avrebbe parlato nei suoi libri di città che
al suo tempo non esistevano? Avrebbe forse detto che certe città che si
trovano per lui a oriente del Giordano, erano a occidente?
6) Avrebbe assegnato ai leviti quarantotto città in un
paese dove non ce ne furono mai nemmeno dieci e in un deserto dove errò
senza avere mai una casa?
7) Avrebbe stabilito regole per i re ebrei, in un tempo in cui
quel popolo non solo non aveva re, ma li aveva in orrore, e non era probabile
che ne avrebbe avuti mai? Come? Mosè avrebbe dato precetti per la
condotta dei re, i quali vennero circa ottocento anni dopo di lui, e non
avrebbe detto niente per i giudici e i sacerdoti che gli succedettero? Questa
riflessione non ci spinge a credere che il Pentateuco sia stato composto
al tempo dei re e che le cerimonie istituite da Mosè non siano state che
una tradizione?
8) Potrebbe mai essere possibile che Mosè abbia detto agli
ebrei: "Io vi ho fatti uscire dalla terra d'Egitto in numero di seicentomila
combattenti, sotto la protezione del vostro Dio"? Gli ebrei non gli
avrebbero forse risposto: "Davvero sei stato ben timido a non condurci
contro il Faraone d'Egitto: costui non poteva opporci che un esercito di
duecentomila uomini: mai l'Egitto ha posseduto tanti soldati: noi l'avremmo
vinto senza fatica, e saremmo padroni del paese. Come! Il Dio che ti parla ha
fatto morire, per farci piacere, tutti i primogeniti d'Egitto il che significa,
ammesso che in questo paese ci siano trecentomila famiglie, che trecentomila
persone sono morte in una notte per vendicarci e tu non hai secondato il tuo
Dio, non ci hai dato quel fertile paese che niente poteva difendere? Ci hai
fatto lasciare l'Egitto come dei ladroni e dei vigliacchi, per farci poi morire
nei deserti, fra precipizi e montagne! Potevi almeno condurci per la via
più diretta in quella terra di Canaan sulla quale noi non abbiamo nessun
diritto, che ci avevi promesso e in cui non siamo ancora potuti entrare. Era
naturale che dalla terra di Goshen andassimo verso Tiro e Sidone lungo il
Mediterraneo; e invece tu ci hai fatto attraversare quasi tutto l'istmo di
Suez, ci hai fatto rientrare in Egitto, risalire sin oltre Menfi, e adesso ci
troviamo a Baal-Sefon, sulle rive del mar Rosso, volgendo le spalle alla terra
di Canaan, dopo aver percorso ottanta leghe in questo Egitto che volevamo
evitare e in continuo pericolo di morte col mare alle spalle e l'esercito del
Faraone di fronte!
"Se tu avessi voluto abbandonarci in mano ai nostri nemici,
non avresti percorso un'altra strada né preso altre misure. Dio ci ha salvati
con un miracolo, dici tu: il mare si è aperto per lasciarci passare, ma,
dopo un tale favore, bisognava proprio farci morire di fame e di fatica negli
orribili deserti di Etam, di Qadesh-Barnea, di Mara, di Elim, di Horeb e del
Sinai? Tutti i nostri padri sono morti in quelle orrende solitudini; e adesso,
dopo quarant'anni, tu ci vieni a raccontare che Dio ha manifestato un amore
particolare per i nostri padri!"
Ecco quello che quegli ebrei mormoratori, quei figli ingiusti di
ebrei vagabondi, morti nel deserto, avrebbero potuto dire a Mosè, se
egli avesse letto loro l'Esodo e il Genesi. E che cosa non
avrebbero dovuto dire e fare a proposito del vitello d'oro? "Come! Osi
raccontarci che tuo fratello fabbricò un vitello d'oro per i nostri
padri, mentre stavi con Dio sulla montagna; tu che talvolta dici di aver
parlato con Dio faccia a faccia e tal'altra di non aver potuto vederlo altro
che da dietro! Ma, infine, tu eri con Dio, e tuo fratello fonde in un sol
giorno un vitello d'oro e ce lo dà da adorare; e tu, invece di punire il
tuo indegno fratello, lo nomini nostro pontefice e ordini ai tuoi leviti di
sgozzare ventimila uomini del tuo popolo! I nostri padri lo avrebbero
tollerato? Si sarebbero lasciati ammazzare come vittime da sacerdoti
sanguinari? E in più ci racconti che, non pago di quell'incredibile
macello, facesti massacrare altri ventiquattromila dei tuoi sventurati seguaci,
perché uno di loro era andato a letto con una madianita, quando poi tu stesso
hai sposato una madianita! E dici d'essere il più mite degli uomini!
Ancora qualche altro esempio di questa bella mitezza, e non sarebbe rimasto
vivo più nessuno.
"No; se fossi stato capace di tanta crudeltà, e se
avessi potuto esercitarla, saresti il più barbaro degli uomini, e tutti
i supplizi del mondo non basterebbero a farti espiare crimini così
pazzeschi."
Tali, pressappoco, le obiezioni che fanno i dotti a coloro che
credono Mosè l'autore del Pentateuco. Ma si risponde loro che le
vie di Dio non sono quelle degli uomini; che Dio mise alla prova, guidò
e abbandonò il suo popolo con una saggezza che non ci è dato
comprendere; che gli stessi ebrei, da più di duemila anni, credono che
Mosè sia l'autore di questi libri; che la Chiesa, succeduta alla
Sinagoga, e infallibile come lei, ha deciso questo punto controverso, e che i
dotti devono tenere chiusa la bocca quando essa parla.
NOTA "Sarà vero che ci fu un Mosè? Se un uomo
che comandava all'intera natura fosse esistito presso gli egiziani, avvenimenti
così prodigiosi non avrebbero costituito la parte principale della
storia d'Egitto? E Sanchoniaton, Manetone, Megastene, Erodoto perché non ne
avrebbero parlato? Giuseppe, lo storico, raccolse tutte le testimonianze
possibili in favore degli ebrei: non osa dire che qualcuno degli autori che
cita abbia mai proferito una sola parola sui miracoli di Mosè. E come!
L'acqua del Nilo si sarebbe mutata in sangue, un angelo avrebbe sgozzato tutti
i primogeniti d'Egitto, il mare si sarebbe aperto, le sue acque sarebbero
rimaste sospese a destra e a sinistra, e nessun autore ne avrebbe parlato? E le
nazioni avrebbero dimenticato così grandi prodigi? E non ci sarebbe che
un piccolo popolo di schiavi barbari a raccontarci queste storie migliaia d'anni,
dopo l'avvenimento?
Chi è allora questo Mosè sconosciuto a tutta la
terra fino ai tempi in cui Tolomeo ebbe la curiosità di far tradurre in
greco gli scritti degli ebrei? Da secoli le favole orientali attribuivano a
Bacco tutto ciò che gli ebrei attribuirono a Mosè. Bacco aveva
passato il mar Rosso a piedi asciutti, Bacco aveva mutato le acque in sangue,
Bacco aveva quotidianamente compiuto dei miracoli con la sua verga: tutti
questi fatti venivano cantati nelle orge bacchiche prima che esistesse il minimo
commercio con gli ebrei, prima che si sapesse che questo povero popolo aveva
dei libri. Non è molto più verosimile che questo popolo,
così nuovo, così a lungo errabondo, così tardi conosciuto,
così tardi insediatosi in Palestina, si sia impadronito, con la lingua
fenicia, delle favole fenicie, su cui ricamò ancora, come fanno tutti i
rozzi imitatori? Un popolo così povero, così ignorante,
così chiuso a qualsiasi arte, che cos'altro poteva fare se non copiare i
suoi vicini? Non sappiamo forse che perfino il nome di Adonai, di Jaho, di
Elôhîm o Eloah, che significa Dio presso la nazione ebraica, era fenicio?"
(Nota aggiunta da Voltaire nel 1765, nell'ed. Varberg, dove formava i primi due
quesiti, precedendo il quinto capoverso.)
OSMIN
Voi affermate che tutto è necessario, vero?
SELIM
Se tutto non fosse tale, ne seguirebbe che Dio avrebbe fatto delle
cose inutili.
OSMIN
Vale a dire che era necessario alla natura divina fare tutto quel
che ha fatto?
SELIM
Credo di sì, o almeno lo suppongo. C'è gente che la
pensa in altro modo; non la capisco, forse ha ragione. Temo le dispute su
questo problema.
OSMIN
Vorrei parlarvi anche di un altro genere di necessità.
SELIM
Di quale? Di quel che è necessario a un onest'uomo per
vivere? Di quel che si patisce quando ci manca il necessario?
OSMIN
No, perché ciò che è necessario a uno non è
sempre tale a un altro: è necessario a un indiano avere del riso, a un
inglese avere della carne; a un russo occorre una pelliccia, e a un africano
una stoffa di velo. Uno crede che dodici cavalli da carrozza gli siano
necessari, un altro si limita a un paio di scarpe, un altro ancora cammina
allegramente a piedi nudi: io invece voglio parlarvi di quel che è
necessario a tutti gli uomini.
SELIM
A me sembra che Dio abbia dato tutto quel che è necessario
alla nostra specie: occhi per vedere, piedi per camminare, una bocca per
mangiare, un esofago per trangugiare, uno stomaco per digerire, un cervello per
ragionare, degli organi per riprodurci.
OSMIN
E come accade che certi uomini nascano privi di una parte di
queste cose necessarie?
SELIM
Perché le leggi generali della natura hanno provocato incidenti
che han fatto nascere dei mostri; ma, in genere, l'uomo è provvisto di
tutto quel che gli occorre per vivere in società.
OSMIN
Esistono nozioni comuni a tutti gli uomini, che servano a farli
vivere in società?
SELIM
Sì. Ho viaggiato con Paul Lucas, e, dappertutto dove son
passato, ho visto che si rispettavano il padre e la madre, che ci si riteneva
obbligati a mantenere le proprie promesse, si aveva pietà per gli
innocenti oppressi, si odiava la persecuzione, si considerava come un diritto
naturale la libertà di pensare, e i nemici di questa libertà come
nemici del genere umano; e quelli che la pensavano diversamente mi sono
sembrate creature male inserite, mostri come coloro che sono nati senza occhi e
senza mani.
OSMIN
Queste cose necessarie sono tali in tutti i tempi e in tutti i
luoghi?
SELIM
Sì. Altrimenti non sarebbero necessarie alla specie umana.
OSMIN
E dunque una credenza nuova non era necessaria alla nostra specie.
Gli uomini potevano vivere benissimo in società e adempiere i loro
doveri verso Dio, anche prima di credere che Maometto abbia avuto frequenti
colloqui con l'angelo Gabriele.
SELIM
Niente di più evidente: è ridicolo pensare che non
sarebbe stato possibile adempiere i propri doveri d'uomo prima che Maometto
fosse venuto al mondo; non era affatto necessario alla specie umana credere nel
Corano; prima di Maometto, il mondo andava avanti come va oggi. Se il
maomettanesimo fosse stato necessario al mondo, sarebbe esistito fin dal
principio del mondo, sarebbe esistito in ogni luogo. Dio, che ha dato a tutti
noi gli occhi per vedere il sole, ci avrebbe dato anche un'intelligenza per
scorgere la verità della religione musulmana. Questa setta è,
dunque, come le leggi positive, che cambiano a seconda dei tempi e dei luoghi;
come le mode, come le opinioni dei fisici che si susseguono le une alle altre.
Perciò la setta musulmana non poteva essere essenzialmente
necessaria all'uomo.
OSMIN
Ma, dato che esiste, Dio l'ha permessa?
SELIM
Sì, come ha permesso che il mondo sia pieno di sciocchezze,
di errori e di calamità. Non voglio dire che gli uomini siano
essenzialmente fatti per essere tutti sciocchi e infelici. Dio permette che
alcuni uomini siano mangiati dai serpenti; ma non perciò si può
dire: "Dio ha fatto l'uomo perché sia mangiato dai serpenti".
OSMIN
Che cosa intendete per "Dio permette"? Senza i suoi
ordini può forse accadere qualcosa? Permettere, volere e fare non sono
per lui la stessa cosa?
SELIM
Egli permette il delitto, ma non lo commette.
OSMIN
Commettere un delitto è agire contro la giustizia divina,
disobbedire a Dio. Ora Dio non può disobbedire a se stesso, non
può commettere delitti; eppure l'uomo, così come l'ha fatto, ne
commette molti: per quale ragione?
SELIM
C'è gente che lo sa, io no. Tutto quel che so è che
il Corano è ridicolo, sebbene qua e là vi si trovino cose
abbastanza buone. Certo, il Corano non era necessario all'uomo. Io mi
attengo a questo; vedo chiaramente quel che è falso e conosco pochissimo
quel che è vero.
OSMIN
Credevo che m'istruiste, e non mi insegnate niente.
SELIM
E vi par poco conoscere la gente che vi inganna e gli errori grossolani
e pericolosi in cui vi intrappola?
OSMIN
Mi lamenterei di un medico che mi facesse l'elenco delle piante
nocive, e poi non me ne mostrasse nemmeno una salutare.
SELIM
Io non sono medico, e voi non siete malato. Ma mi sembra che vi
darei un'ottima ricetta se vi dicessi: "Diffidate di tutte le invenzioni
dei ciarlatani, adorate Dio, siate un uomo onesto, e credete che due più
due fanno quattro."
Cicerone, in una delle sue lettere, scrive in tono familiare a un
amico: "Mandami a dire a chi vuoi ch'io faccia assegnare le Gallie."
In un'altra, si lamenta d'essere stufo delle tante lettere di non so quali
principi che lo ringraziano di aver fatto innalzare le loro province alla
dignità dei regni; e aggiunge che non sa nemmeno in che paese si trovino
questi regni.
Può darsi che Cicerone, il quale d'altronde aveva visto
spesso il popolo romano, il popolo-re, acclamarlo e obbedirgli, e che veniva
ringraziato da re che non conosceva, abbia provato qualche moto d'orgoglio e di
vanità.
Sebbene questi sentimenti non convengano affatto a un così
meschino animale qual è l'uomo, tuttavia potremmo perdonarli a un
Cicerone, a un Cesare, a uno Scipione; ma che nel fondo di una delle nostre
province semibarbare, un uomo che abbia comprato una modesta carica e fatto
stampare versi mediocri, reputi di sentirsene orgoglioso, è cosa da far
ridere parecchio.
Come poté un uomo diventare padrone di un altro, e per quale
specie d'incomprensibile magia poté diventare padrone di molti altri uomini? Su
questo fenomeno sono stati scritti parecchi buoni libri, ma io do la preferenza
a una favola indiana, perché è breve e perché le favole hanno detto
tutto.
"Adimo, padre di tutti gli indiani, ebbe due figli e due
figlie da sua moglie Procriti. Il primogenito era un gigante vigoroso, il
minore era un gobbetto, e le due ragazze erano belle. Non appena il gigante si
rese conto della sua forza, giacque con le due sorelle e si fece servire dal
piccolo gobbo. Delle due sorelle, una fu la sua cuoca, l'altra la sua
giardiniera. Quando il gigante voleva dormire, cominciava con l'incatenare a
una pianta il suo fratellino gobbo; e quando questi riusciva a scappare, lo
riacchiappava in quattro salti e gli dava venti vergate.
"Così il gobbo divenne sottomesso e il migliore
suddito che si possa desiderare. Il gigante, soddisfatto di vederlo compiere i
suoi doveri di suddito, gli permise di giacere con una delle sue sorelle di cui
era stufo. I figli che vennero al mondo da tale unione non furono proprio
gobbi, ma nemmeno ben fatti. Essi crebbero nel timore di Dio e del gigante.
Ricevettero un'ottima educazione: fu insegnato loro che il grande zio era
gigante per diritto divino, che egli poteva fare di tutta la sua famiglia quel
che a lui piaceva; che se qualche nipote o pronipote fosse cresciuta graziosa,
essa era destinata a lui solo; nessuno avrebbe potuto giacere con lei se non
dopo che egli ne avesse avuto abbastanza.
"Morto il gigante, suo figlio, che non era certo né
così forte né grande come lui, credette tuttavia di essere, come suo
padre, gigante per diritto divino. Pretese di far lavorare per sé tutti gli
uomini e di giacere con tutte le ragazze. La famiglia fece lega contro di lui,
egli fu ammazzato e ci si costituì in repubblica."
I siamesi, invece, pretendono che la famiglia abbia cominciato con
l'essere repubblicana e che il gigante non sia comparso che dopo un gran numero
di anni e di discordie; ma tutti gli autori di Benares e del Siam convengono
che gli uomini vissero una infinità di secoli prima che la loro
intelligenza fosse capace di fare delle leggi; e lo provano con un argomento
convincentissimo: oggi, che tutti si credono intelligenti, non si è
ancora trovato il mezzo di fare una ventina di leggi passabili.
In India, per esempio, resta tuttora un problema insolubile: se le
repubbliche siano state istituite prima o dopo le monarchie, se il disordine
sia sembrato agli uomini più orribile del dispotismo. Ignoro quel che
è accaduto nell'ordine dei tempi; ma in quello della natura, dobbiamo
credere che, nascendo gli uomini tutti eguali, la violenza e l'astuzia abbiano
prodotto i primi padroni; le leggi, gli ultimi.
Paolo era davvero cittadino romano, come si vanta? Se era di
Tarso, in Cilicia, Tarso non divenne colonia romana che cent'anni dopo di lui;
tutti gli storici sono d'accordo. Se era invece della cittadina o borgata di
Gishala, come credeva san Girolamo, questa si trovava in Galilea, e certamente
i galilei non erano cittadini romani.
È vero che Paolo entrò nella nascente
comunità dei cristiani, che erano allora semiebrei, perché Gamaliele, di
cui era stato discepolo, gli rifiutò sua figlia in sposa? Mi sembra che
quest'accusa si trovi solo negli Atti degli Apostoli accolti dagli
ebioniti, atti riferiti e confutati dal vescovo Epifanio, nel suo trentesimo
capitolo.
È vero che santa Tecla venne a visitare san Paolo
travestita da uomo? E gli Atti di santa Tecla sono degni di fede?
Tertulliano, nel suo libro sul battesimo, capitolo XVII, sostiene che essi
furono scritti da un prete legato a Paolo; Girolamo e Cipriano, confutando la
favola del leone battezzato da santa Tecla, affermano la verità di tali Atti.
È qui che si trova un ritratto di san Paolo abbastanza singolare:
"Egli era grosso, basso, largo di spalle: le sue sopracciglia nere si
congiungevano sul suo naso aquilino, le gambe storte, la testa calva, ed era
pieno della grazia di Dio."
Press'a poco a questo modo viene dipinto nel Filopatride di
Luciano, eccettuata la grazia di Dio,di cui Luciano non aveva sfortunatamente
cognizione alcuna.
Possiamo scusare Paolo di aver rimproverato Pietro che
giudaizzava, quando lui stesso andò a giudaizzare nel tempio di
Gerusalemme?
Quando Paolo fu tradotto dagli ebrei davanti al governatore della
Giudea, per aver fatto entrare degli stranieri nel tempio, fece bene a dire a
quel governatore che era "per la resurrezione dei morti che gli si faceva
quel processo", mentre non si trattava affatto della resurrezione dei
morti?
Paolo fece bene a circoncidere il suo discepolo Timoteo, dopo
avere scritto ai galati: "Se vi farete circoncidere, Gesù non vi
servirà a nulla?"
Fece bene a scrivere ai corinzi, cap. IX: "Non abbiamo forse
noi il diritto di vivere a vostre spese e di condurre con noi una donna
ecc"? Fece bene a scrivere ai corinzi, nella sua seconda epistola:
"Io non perdonerò a nessuno di coloro che hanno peccato, né agli
altri"? Cosa si penserebbe, oggi, di un uomo che pretendesse di vivere a
nostre spese, lui e sua moglie, di giudicarci, di punirci, e di confondere il
colpevole con l'innocente?
Che cosa s'intende con il rapimento di Paolo al terzo cielo?
Cos'è un terzo cielo?
E che cos'è, infine, più verosimile (umanamente
parlando): che Paolo si sia fatto cristiario per essere stato rovesciato dal
suo cavallo da un gran bagliore apparsogli in pieno mezzogiorno, mentre una
voce dal cielo gli gridava: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?",
oppure che Paolo fosse irritato contro i farisei, sia per il rifiuto di
Gamaliele di concedergli sua figlia, sia per qualche altra ragione?
In qualsiasi altra storia, il rifiuto di Gamaliele non sembrerebbe
più naturale di una voce che scende dal cielo, se peraltro non fossimo
obbligati a credere a questo miracolo?
Io pongo tutti questi quesiti al solo scopo di istruirmi; ed esigo
che chiunque vorrà istruirmi, parli in modo ragionevole.
IL PAPISTA
Monsignore ha già nel suo principato luterani, calvinisti,
quaccheri, anabattisti, e finanche ebrei; e voi vorreste ch'egli ammettesse anche
degli unitari?
IL TESORIERE
Se costoro ci portano lavoro e denaro, che male potranno farci?
Sarete pagato meglio anche voi.
IL PAPISTA
Confesso che la riduzione del mio stipendio mi sarebbe più
dolorosa dell'ammissione di quei signori; ma insomma, essi non credono che
Gesù Cristo sia figlio di Dio.
IL TESORIERE
E cosa ve ne importa, purché a voi sia permesso di crederlo e
siate ben nutrito, ben vestito e ben alloggiato? Anche gli ebrei non credono
affatto che Gesù sia figlio di Dio; e tuttavia voi siete ben felice di
trovar qui degli ebrei cui affidate il vostro denaro al sei per cento. Lo
stesso san Paolo non ha mai parlato della divinità di Gesù
Cristo, che chiama semplicemente "un uomo": "La morte,"
dice, "ha regnato per il peccato di un solo uomo; i giusti regneranno per
un solo uomo, che è Gesù... Voi siete di Gesù, e
Gesù è di Dio..." Tutti i primi Padri della Chiesa hanno
pensato come san Paolo; è evidente che, per trecento anni, Gesù
si è accontentato della sua umanità; figuratevi d'essere un
cristiano dei primi tre secoli.
IL PAPISTA
Ma, signore, gli unitari non credono nell'eternità delle
pene.
IL TESORIERE
E io neppure. Siate dannato per sempre, se vi fa piacere; quanto a
me, non conto affatto d'esserlo.
IL PAPISTA
Ah, signore, è ben duro non poter dannare a proprio piacere
tutti gli eretici di questo mondo! Ma la smania furiosa degli unitari nel
volere che un giorno tutte le anime siano beate non è il mio solo
cruccio. Voi sapete che quei mostri non credono più dei sadducei alla
resurrezione dei corpi; dicono che siamo tutti antropofagi, che le particelle
che componevano il vostro nonno o il vostro bisavolo, essendo state
necessariamente disperse nell'atmosfera, sono diventate carote o asparagi, e
che è impossibile che voi non abbiate mangiato qualche particella dei
vostri antenati.
IL TESORIERE
E sia. I miei nipoti faranno altrettanto con me: mi sarà
reso quel che ho fatto; e lo stesso capiterà ai papisti. Ma non è
una ragione perché mi si cacci dagli Stati di Monsignore, o perché ne vengano
banditi gli unitari. Risuscitate come meglio potrete. A me importa assai poco
che gli unitari risuscitino o no, purché ci siano utili quando sono vivi.
IL PAPISTA
E che direte, signore, del peccato originale che essi negano
sfrontatamente? Non vi scandalizzate quando asseriscono che il Pentateuco
non ne fa parola? che il vescovo d'Ippona, sant'Agostino, fu il primo ad
insegnare in modo esplicito quel dogma, sebbene esso sia molto chiaramente
indicato da san Paolo?
IL TESORIERE
In fede mia, se il Pentateuco non ne ha parlato, io non ne
ho colpa. Perché non aggiungete voi nell'Antico Testamento qualche parolina sul
peccato originale, come vi avete aggiunto, si dice, tante altre cose? Io non
m'intendo di queste sottigliezze. Il mio mestiere è quello di pagarvi
regolarmente lo stipendio, quando ho denaro...
PATRIA
Una patria è un insieme di tante famiglie; e, come si
sostiene normalmente la propria famiglia per amor proprio, quando non si abbia
un interesse contrario, per lo stesso amor proprio si sostiene la propria
città o il proprio villaggio, che chiamiamo nostra patria.
Più questa patria si ingrandisce, meno la si ama, perché
l'amore suddiviso s'affievolisce. È impossibile amare teneramente una
famiglia troppo numerosa che si conosce appena.
Chi arde dell'ambizione d'essere edile, tribuno, pretore, console,
dittatore, grida di amare la patria, ma in realtà non ama che se stesso.
Ognuno vuol essere sicuro di poter dormire in casa propria senza che un altro
si arroghi il potere di mandarlo a dormire altrove; ognuno vuol essere sicuro
dei propri beni e della propria vita. E poiché tutti formulano così gli
stessi desideri, l'interesse particolare finisce col diventare l'interesse
generale: si fanno voti per la repubblica, mentre se ne fanno soltanto per sé.
È impossibile che esista sulla terra uno Stato che da
principio non si sia retto a repubblica: è il processo naturale della
natura umana. Prima di tutto alcune famiglie si riuniscono contro gli orsi e i
lupi; quella che ha del grano ne fornisce in cambio a quella che ha soltanto
legna.
Quando scoprimmo l'America, trovammo tutte le popolazioni divise
in repubbliche; in tutta quella parte del mondo c'erano appena due regni. Di
mille nazioni, ne trovammo soltanto due soggiogate.
E così andavano le cose nel mondo antico; tutto era
repubblica in Europa, prima dei piccoli re d'Etruria e di Roma. Ancor oggi si
vedono varie repubbliche in Africa. Tripoli, Tunisi, Algeri, nella parte
settentrionale, sono repubbliche di briganti. Gli ottentotti, in quella
meridionale, vivono ancora come è fama che si vivesse nelle prime
età del mondo, liberi, eguali tra loro, senza padroni, senza sudditi,
senza denaro, e quasi senza bisogni. Li nutre la carne delle loro pecore, li
vestono le loro pelli, i loro ripari sono capanne di legno e di terra; sono i
più puzzolenti degli uomini, ma non se ne accorgono; vivono e muoiono
più tranquillamente di noi.
Restano nella nostra Europa otto repubbliche senza monarchi:
Venezia, l'Olanda, la Svizzera, Genova, Lucca, Ragusa, Ginevra e San Marino. La
Polonia, la Svezia, l'Inghilterra si possono considerare repubbliche sotto un
re; ma la Polonia è la sola che si proclami repubblica.
Ora, cosa è meglio, adesso, che la vostra patria sia uno
Stato monarchico o uno Stato repubblicano? Sono quattromila anni che la
questione viene dibattuta. Chiedete la soluzione ai ricchi, preferiscono tutti
l'aristocrazia; interrogate il popolo, vuole la democrazia: soltanto i re
preferiscono la monarchia. Com'è possibile dunque che tutta la terra sia
governata da monarchi? Domandatelo ai topi che proposero d'appendere un
campanello al collo del gatto. Ma in realtà, la vera ragione è
che gli uomini, come si è detto, sono di rado degni di governarsi da sé.
È triste che spesso, per essere un buon patriota, si sia
nemici del resto degli uomini. Catone il Vecchio, quel buon cittadino, ripeteva
sempre in Senato: "Questo è il mio parere, che si distrugga
Cartagine." Essere buon patriota è desiderare che la propria città
si arricchisca col commercio e sia potente con le armi. È chiaro che un
paese non può vincere senza che un altro perda, e che non può
vincere senza fare degli infelici.
Tale è dunque la condizione umana, che desiderare la
grandezza del proprio paese è desiderare il male dei propri vicini. Chi
volesse che la propria patria non fosse mai né più grande né più
piccola, né più ricca né più povera, sarebbe cittadino
dell'universo.
È qui il preteso trionfo dei sociniani o unitari. Essi chiamano
questo fondamento della religione cristiana il suo "peccato
originale". È oltraggiare Dio - dicono - è accusarlo della
più assurda barbarie, osar dire che egli creò tutte le
generazioni degli uomini per tormentarle con supplizi eterni, con il pretesto
che il loro primo padre mangiò un frutto in un giardino.
Tale sacrilega imputazione è tanto più
imperdonabile, presso i cristiani, in quanto su questa invenzione del peccato
originale non c'è una sola parola né nel Pentateuco, né nei
Profeti, né nei Vangeli, sia apocrifi, sia canonici, né in nessuno di quegli
scrittori che si chiamano "i primi Padri della Chiesa".
Non è neppure raccontato nel Genesi che Dio abbia
condannato Adamo a morte per aver mangiato una mela. Dio gli disse, è
vero: "Tu per certo morrai, il giorno che ne mangerai"; ma lo stesso
libro fa vivere Adamo novecentotrent'anni dopo quella criminosa colazione. Gli
animali, le piante, che non avevano mangiato quel frutto, morirono nel giorno
prescritto dalla natura. L'uomo è nato per morire, come tutto il resto.
Infine, la punizione di Adamo non cadeva in nessun modo sotto la
legge ebraica. Adamo non era ebreo più di quanto non fosse persiano o
caldeo. I primi capitoli del Genesi (in qualsiasi tempo siano stati
composti) furono considerati da tutti i dotti ebrei come un'allegoria ed anche
come una favola molto pericolosa; e infatti fu proibito leggerla prima
dell'età di venticinque anni.
In breve, gli ebrei non conobbero il peccato originale più
che le cerimonie cinesi; e, sebbene i teologi riescano a trovare tutto quel che
vogliono nella Scrittura, sia totidem verbis sia totidem litteris,
possiamo essere sicuri che nessun teologo ragionevole vi troverà mai
questo straordinario mistero.
Riconosciamo che fu sant'Agostino ad accreditare per primo questa
incredibile idea, degna della testa calda e romanzesca di un africano dissoluto
e pentito, manicheo e cristiano, tollerante e persecutore, che passò la
vita a contraddire se stesso.
"Che orrore!" esclamano gli unitari rigidi, "il
calunniare l'autore della natura fino ad imputargli continui miracoli per
condannare in eterno uomini che egli fa nascere per così poco tempo! O
egli ha creato la anime fin dall'eternità e, in questo caso, essendo
infinitamente più antiche del peccato di Adamo, non hanno alcun rapporto
con lui; o le anime vengono create ogni volta che un uomo giace con una donna,
e in questo caso Dio sta continuamente a spiare tutti gli incontri amorosi
dell'universo, per creare spiriti che renderà eternamente infelici; o
Dio è lui stesso l'anima di tutti gli uomini, e in questo caso si danna
da sé. Qual è la più orribile e la più folle di queste tre
supposizioni? Non ce n'è una quarta: perché l'opinione che Dio attenda
sei settimane per creare un'anima dannata in un feto, si unisce a quella che la
crede creata nel momento della copulazione: che cosa importano sei settimane di
più o di meno?"
Ho riferito il parere degli unitari; gli uomini sono giunti a un
tal grado di superstizione, che, nel riferirlo, ho tremato.
(Questo articolo è del defunto signor Boulanger)
Non dirò certo che Diocleziano fu un persecutore, lui che
protesse i cristiani per diciotto anni; e se, negli ultimi tempi del suo
impero, non li salvò dai risentimenti di Galerio, in ciò non fu
che un principe sedotto e trascinato dagli intrighi contro il suo buon
carattere, come tanti altri.
Ancor meno darò il nome di persecutori a Traiano o agli
Antonini: mi sembrerebbe di bestemmiare.
Chi è un persecutore? È un uomo il cui orgoglio
ferito e il cui furibondo fanatismo istigano il principe o i magistrati contro
gente innocente, che non ha altra colpa che quella di non pensare come lui.
"Impudente, tu adori un Dio, predichi la virtù e la pratichi; hai
servito gli uomini e li hai consolati, hai protetto l'orfana, soccorso il
povero, hai mutato i deserti, dove pochi schiavi trascinavano un'esistenza
miserabile, in fertili campagne popolate da famiglie felici; ma ho scoperto che
mi disprezzi, che non hai mai letto il mio libro di controversia; sai che sono
un mascalzone, che ho falsificato la firma del tale e derubato il tal'altro, e
potresti riferirlo a qualcuno: bisogna ch'io ti prevenga. Andrò dunque
dal confessore del primo ministro, o dal podestà; dimostrerò
loro, piegando il collo e storcendo la bocca, che tu hai un'opinione erronea
sulle celle in cui furon rinchiusi i Settanta; che dieci anni fa parlasti con
poco rispetto del cane di Tobia, sostenendo che era un can barbone, mentre io
dimostrai che era un levriero; ti denuncerò come nemico di Dio e degli
uomini." Tale è il linguaggio del persecutore; e se dalla sua bocca
non escono precisamente queste parole, esse sono incise nel suo cuore, con il
bulino del fanatismo immerso nel miele dell'invidia.
Così il gesuita Le Tellier osò perseguitare il
cardinale Noailles, così Jurieu perseguitò Bayle.
Quando in Francia cominciò la persecuzione dei protestanti,
non furono né Francesco I, né Enrico II, né Francesco II a spiare quegli
sventurati, ad armarsi contro di loro di un meditato furore e a consegnarli al
rogo per esercitare su di essi le loro vendette. Francesco I era troppo
occupato con la duchessa d'Étampes, Enrico II con la sua vecchia Diana, e
Francesco II era ancora ragazzo. Chi dette inizio alle persecuzioni? I preti
gelosi che armarono i pregiudizi dei magistrati e la politica dei ministri.
Se quei re non fossero stati ingannati, se avessero previsto che
la persecuzione avrebbe prodotto cinquant'anni di guerre civili, e che
metà della nazione sarebbe stata sterminata dall'altra, essi avrebbero
spento con le loro lacrime i primi roghi che lasciarono accendere.
O Dio di misericordia! Se qualche uomo può somigliare a
quell'essere malefico che, come ci vien dipinto, si dà da fare senza
posa per distruggere le tue opere, non è appunto il persecutore?
In francese, Pierre; in spagnolo, Pedro; in latino, Petrus;
in greco, $ÐÝôñïò$; in ebraico, Cefa.
Perché i successori di Pietro hanno avuto tanto potere in
Occidente e nessuno in Oriente? È come chiedere perché i vescovi di
Wurzburg e di Salisburgo si sono attribuiti diritti sovrani in tempi
d'anarchia, mentre i vescovi greci sono sempre rimasti sudditi. Il tempo,
l'occasione, l'ambizione degli uni e la debolezza degli altri hanno fatto e
faranno sempre tutto in questo mondo.
A quest'anarchia si è aggiunta l'opinione, e l'opinione
è regina degli uomini. Non che in effetti essi abbiano opinioni ben
precise; ma le parole ne tengono il luogo.
Si racconta nel Vangelo che Gesù dicesse a Pietro: "Ti
darò le chiavi del regno dei Cieli" I partigiani del vescovo di
Roma sostennero, verso l'XI secolo, che chi dà il più dà
anche il meno; che i cieli circondano la terra, e che Pietro, avendo le chiavi
del contenente, aveva anche le chiavi del contenuto. Se per cieli s'intendono
tutte le stelle e tutti i pianeti, è evidente, secondo Thomasius, che le
chiavi date a Simone figlio di Giona, soprannominato Pietro, erano buone per
aprire tutto. Se s'intendono per cieli le nubi, l'atmosfera, l'etere, lo spazio
in cui ruotano i pianeti, non ci sono fabbri, secondo Meursio, che possano fare
una chiave per quelle porte.
Le chiavi in Palestina erano un perno di legno che veniva legato
con una cinghia. Gesù disse a Simone: "Ciò che tu avrai
legato in terra sarà legato in cielo" I teologi del papa ne hanno
concluso che i papi avevano ricevuto il diritto di legare e sciogliere i popoli
dal giuramento di fedeltà fatto ai loro re, e di disporre a loro
piacimento di tutti i regni. Magnifica conclusione. Nel 1302, alla riunione
degli stati generali di Francia, i comuni dicono nella loro petizione al re che
"Bonifacio VIII era un c... il quale credeva che Dio legasse e
imprigionasse in cielo ciò che Bonifacio legava sulla terra". Un
famoso luterano tedesco (era, penso, Melantone), stentava a digerire che Gesù
avesse detto a Simone figlio di Giona, Cefa o Cephas: "Sei Pietro, e su
questa pietra costruirò la mia assemblea, la mia Chiesa." Non
poteva concepire che Dio si fosse abbassato a usare un simile gioco di parole,
un'arguzia così d'effetto, e che la potenza del papa fosse fondata su
una facezia.
Pietro ha fama di essere stato vescovo di Roma; ma è
abbastanza noto che in quei tempi e per molto tempo dopo non ci furono
vescovati. La società cristiana prese forma appena verso la fine del
secondo secolo.
Può darsi che Pietro abbia fatto il viaggio a Roma;
può darsi perfino che sia stato crocifisso a testa in giù,
sebbene questo non fosse affatto nell'uso; ma non ne abbiamo alcuna prova
Abbiamo una sua lettera, nella quale dice di trovarsi a Babilonia: certi giudiziosi
canonici hanno preteso che per Babilonia si dovesse intendere Roma.
Così, supposto che avesse datato la lettera da Roma, si sarebbe potuto
concludere che essa era stata scritta a Babilonia. Si è andati avanti
per molto tempo con questo genere di deduzioni, ed è in tal modo che il
mondo è andato avanti.
Ci fu un giorno un sant'uomo cui fecero pagare a carissimo prezzo
un beneficio a Roma, il che si chiama simonia; qualcuno gli domandò se
credesse che Simon Pietro fosse stato laggiù; rispose: "Non mi
risulta che Pietro ci sia stato, ma di Simone sono sicuro."
Quanto alla persona di Pietro, bisogna riconoscere che Paolo non
fu il solo ad essere scandalizzato dalla sua condotta; ci fu spesso chi gli
tenne testa, a lui e ai suoi successori. Questo Paolo lo rimproverava aspramente
di mangiare carni proibite, e cioè maiale, sanguinaccio, lepre,
anguille, issione e grifone; Pietro si difendeva dicendo d'aver veduto, verso
l'ora sesta, spalancarsi il cielo, e dai quattro angoli del cielo scendere una
tovaglia piena d'anguille, di quadrupedi e d'uccelli, e che la voce di un
angelo aveva gridato: "Uccidete e mangiate." Fu senza dubbio la
stessa voce che gridò poi a tanti pontefici: "Uccidete e mangiate
le midolla del popolo," dice Wollaston.
Casaubon non poteva approvare la maniera in cui Pietro aveva
trattato quel brav'uomo di Anania e sua moglie Safira. Con quale diritto, dice
Casaubon, un ebreo schiavo dei romani ordinava o tollerava che tutti coloro che
credevano in Gesù vendessero i loro beni e ne portassero il ricavato ai
suoi piedi? Se qualche anabattista a Londra facesse deporre ai suoi piedi tutto
il denaro dei suoi confratelli, non lo arresterebbero come un seduttore
sedizioso, come un ladrone? Non sarebbe immancabilmente spedito a Tyburn? Non
è orribile far morire Anania perché, venduto il suo fondo e portato a
Pietro il denaro, s'era tenuto, senza dirlo, qualche scudo per sovvenire alle
necessità sue e di sua moglie? Appena morto Anania, arriva sua moglie.
Pietro, invece di avvertirla caritatevolmente che ha fatto morire suo marito
d'apoplessia perché s'era tenuto qualche obolo, invece di dirle di badare a se
stessa, la fa cadere nel tranello. Le chiede se il marito abbia dato tutto il
suo denaro ai santi. La brava donna risponde di sì, e muore di colpo.
Questa è dura.
Coringius si chiede perché Pietro, che ammazzava tanto
tranquillamente quelli che gli avevano fatto l'elemosina, non era andato
piuttosto ad ammazzare i dottori che avevano fatto morire Gesù Cristo, e
che più di una volta avevano fatto frustare anche lui. O Pietro! fai
morire due cristiani che ti han fatto l'elemosina, e lasci vivere quelli che
hanno crocifisso il tuo Dio!
Evidentemente Coringius non si trovava in paese d'inquisizione
quando faceva queste ardite domande. Erasmo notava, a proposito di Pietro, una
cosa molto singolare: e cioè che il capo della religione cristiana
cominciò il suo apostolato col rinnegare Gesù Cristo, e che il
primo pontefice degli ebrei aveva cominciato il suo ministero col fare un
vitello d'oro, e adorarlo.
Comunque, Pietro ci viene dipinto come un povero che catechizza i
poveri. Somiglia a quei fondatori d'ordine che vivevano nell'indigenza, e i cui
successori sono diventati dei gran signori.
Il papa, successore di Pietro, ora ha guadagnato, ora ha perduto;
ma gli restano ancora circa cinquanta milioni d'uomini sulla terra sottomessi
in vari punti alle sue leggi, oltre ai suoi sudditi diretti.
Darsi un padrone che vive a tre o quattrocento leghe di distanza;
aspettare per pensare che quell'uomo abbia avuto l'aria di pensare; non osar
giudicare in ultima istanza un processo tra propri concittadini se non per
mezzo di commissari nominati da quello straniero; non osar prendere possesso
dei campi e dei vigneti ottenuti dal proprio re senza pagare una grossa somma a
quel padrone straniero; violare le leggi del proprio paese che proibiscono di
sposare la propria nipote, e sposarla legittimamente dando a quel padrone
straniero una somma ancora più grossa; non osar coltivare il proprio
campo il giorno in cui quello straniero vuole che si celebri la memoria di uno
sconosciuto che egli ha messo in cielo di propria privata autorità: ecco
in parte che cosa sia ammettere un papa; sono queste le libertà della
Chiesa gallicana.
Ci sono altri popoli ancor più duramente sottomessi.
Abbiamo visto ai giorni nostri un sovrano chiedere al papa il permesso di far
giudicare dal proprio regio tribunale certi gesuiti accusati di regicidio, non
poter ottenere quel permesso, e non osare giudicarli.
È abbastanza noto come in passato i diritti dei papi
andassero ben oltre i limiti leciti; erano ancor più sublimi degli dei
dell'antichità; perché quegli dei avevan solo fama di disporre degli
imperi, e i papi invece ne disponevano di fatto.
Sturbinus dice che si può perdonare a quelli che dubitano
della divinità e dell'infallibilità del papa, quando si riflette:
Che quaranta scismi hanno profanato la cattedra di san Pietro, e
ventisette l'hanno insanguinata;
Che Stefano VII, figlio di un prete, disseppellì il corpo
di papa Formoso, suo predecessore, e fece tagliare la testa a quel cadavere;
Che Sergio III, reo di vari omicidi, ebbe da Marozia un figlio che
ereditò il papato;
Che Giovanni X, amante di Teodora, fu strangolato nel suo letto;
Che Giovanni XI, figlio di Sergio III, fu noto soltanto per la sua
dissolutezza;
Che Giovanni XII fu assassinato in casa della sua amante;
Che Benedetto IX comperò e rivendette il pontificato;
Che Gregorio VII fu il responsabile di cinquecent'anni di guerre
civili sostenute dai suoi successori;
Che infine, tra tanti papi ambiziosi, sanguinari e dissoluti,
c'è stato un Alessandro VI il cui nome è pronunciato con
altrettanto orrore che quelli dei Neroni e dei Caligola.
È una prova, si dice, della divinità del loro
carattere, che questa sia riuscita a sussistere malgrado tanti delitti; ma, se
i califfi avessero tenuto una condotta ancora più scellerata, sarebbero
dunque stati ancora più divini. Così ragiona Dermius; ma i
gesuiti gli hanno risposto.
Il pregiudizio è un'opinione senza giudizio. Così su
tutta la terra si istillano nei bambini tutte le opinioni che si vuole prima
che essi siano in grado di giudicare.
Ci sono pregiudizi universali, necessari, che sono la virtù
stessa. In ogni paese s'insegna ai bambini a riconoscere un Dio remuneratore e
vendicatore; ad amare, a rispettare il padre e la madre; a considerare il furto
un crimine, la menzogna interessata un vizio, prima ancora che essi possano
indovinare che cosa siano vizio e virtù.
Esistono dunque ottimi pregiudizi: sono quelli che il giudizio ratifica
quando si ragiona.
Il sentimento non è un semplice pregiudizio, è
qualcosa di molto più forte. Una madre non ama il proprio figlio perché
le hanno detto che si deve amarlo: le è caro, per fortuna, suo malgrado.
Non è per pregiudizio che correte in soccorso di un bambino ignoto che
sta per cadere in un precipizio o per essere divorato da una belva.
Ma per pregiudizio rispetterete un uomo rivestito di certi abiti,
che cammina e parla con gravità. I vostri genitori vi hanno detto che
dovete inchinarvi di fronte a quell'uomo: lo rispettate prima di sapere se
merita il vostro rispetto; crescete in età e in conoscenza, vi accorgete
che quell'uomo è un ciarlatano impastato d'orgoglio, d'interesse e di
artificio; disprezzate colui che avevate riverito, e il pregiudizio cede al
giudizio. Avete creduto per pregiudizio alle favole con cui è stata
cullata la vostra infanzia: vi hanno detto che i Titani hanno fatto guerra agli
dei, e che Venere fu innamorata di Adone; a dodici anni prendete queste favole
per verità, a venti le considerate ingegnose allegorie.
Esaminiamo in breve le diverse specie di pregiudizi, per mettere
un po' d'ordine nei fatti nostri. Ci ritroveremo forse come coloro che, al
tempo del sistema di Law, s'accorsero di aver fatto calcolo su ricchezze
immaginarie.
Pregiudizi dei sensi'
Non è una cosa curiosa che i nostri occhi c'ingannino
sempre, anche quando vediamo benissimo, mentre, al contrario, i nostri orecchi
non c'ingannano mai? Se il nostro orecchio ben conformato ode: "Voi siete
bella, vi amo," è sicurissimo che non vi hanno detto: "Siete
brutta, vi odio." Ma voi vedete liscio uno specchio: mentre è
dimostrato che vi ingannate: esso ha una superficie assai scabra. Voi vedete il
sole come se avesse due piedi di diametro: è dimostrato invece che
è un milione di volte più grande della terra.
Sembra che Dio vi abbia messo la verità negli orecchi, e
l'errore negli occhi; ma studiate l'ottica, e vi accorgerete che Dio non vi ha
ingannato, e che è impossibile che gli oggetti vi appaiano diversi da
come li vedete nello stato presente delle cose.
Pregiudizi fisici
Il sole sorge, la luna anche, la terra è immobile: questi
sono pregiudizi fisici naturali. Ma che i gamberi facciano bene al sangue,
perché, quando sono cotti, son rossi come lui; che le anguille guariscano la
paralisi, perché guizzano; che la luna influisca sulle nostre malattie, perché
un giorno si notò che un malato aveva avuto un forte aumento di febbre
durante il tramontar della luna: queste idee, e mille altre, sono errori di
antichi ciarlatani, che giudicarono senza ragionare e che, essendosi ingannati,
a loro volta ingannarono gli altri.
Pregiudizi storici
La maggior parte delle storie è stata creduta senza esame,
e questa credenza è un pregiudizio. Fabio Pittore racconta che, molti
secoli prima di lui, una vestale della città di Alba, andando a prender
acqua con la sua brocca, fu violentata, che partorì Romolo e Remo, che
questi furono nutriti da una lupa ecc. Il popolo romano credette a quella
favola; non si curò di sapere se a quel tempo ci fossero vestali nel
Lazio, se fosse verosimile che la figlia di un re uscisse dal suo convento con
una brocca, se fosse probabile che una lupa allattasse due bambini invece di
mangiarli. Il pregiudizio si radicò.
Un frate scrive che Clodoveo, trovandosi in grande pericolo alla
battaglia di Tolbiac, fece voto di farsi cristiano se ne fosse scampato; ma
è naturale che in tale occasione ci si rivolga a un dio straniero? Non
è proprio in questi momenti che la religione nella quale si è
nati agisce più intensamente? Qual è il cristiano che, in una
battaglia contro i turchi, non si rivolgerà alla Madonna piuttosto che a
Maometto? Si aggiunge che un colombo portò nel becco la santa ampolla
per ungere Clodoveo, e che un angelo portò l'orifiamma per guidarlo. Il
pregiudizio credette a tutte le storielle del genere. Chi conosce la natura
umana sa bene che l'usurpatore Clodoveo, l'usurpatore Rollone o Rollo si fecero
cristiani per governare più sicuramente dei cristiani, come gli
usurpatori turchi si fecero musulmani per governare più sicuramente i
musulmani.
Pregiudizi religiosi
Se la vostra nutrice vi ha detto che Cerere presiede alle biade, o
che Visnù e Xaca si sono fatti uomini varie volte, o che Sammonocodom
è venuto a tagliare una foresta, o che Odino vi aspetta nella sua sala
verso lo Jutland, oppure che Maometto o qualcun altro ha fatto un viaggio in
cielo; se infine il precettore viene a conficcarvi nel cervello quanto vi ha
impresso la nutrice, ne avete per tutta la vita. Se il vostro giudizio vuole
ergersi contro quei pregiudizi, i vostri vicini, e soprattutto le vostre
vicine, gridano all'empio, e vi terrorizzano; il vostro derviscio, temendo di
veder diminuire le sue rendite, vi accusa presso il cadì, e questo
cadì, se può, vi fa impalare, perché vuol comandare a degli
sciocchi, sicuro com'è che gli sciocchi obbediscono meglio degli altri.
E questo durerà fino a che e i vostri vicini, e il derviscio, e il
cadì non cominceranno a capire che la stupidità porta a niente, e
che la persecuzione è abominevole.
I preti sono, in uno Stato, pressappoco quel che sono i precettori
nelle case dei cittadini; obbligati a insegnare, pregare, dare l'esempio; non
possono avere nessuna autorità sui padroni di casa, a meno che non si
provi che colui che paga un salario deve obbedire a chi lo riceve. Fra tutte le
religioni, quella che esclude nel modo più assoluto i preti da ogni
autorità civile, è senza dubbio quella di Gesù: "Date
a Cesare quel che è di Cesare." "Non ci sarà, tra voi,
né primo né ultimo." "Il mio regno non è di questo
mondo."
Le contese fra l'impero e il clero, che insanguinarono l'Europa
per più di sei secoli, non furono quindi, da parte dei preti, che
ribellioni contro Dio e gli uomini e un peccato continuo contro lo Spirito
Santo.
Da Calcante, che assassinò la figlia di Agamennone, fino a
Gregorio XIII e a Sisto V, due vescovi di Roma che vollero privare il grande
Enrico IV del regno di Francia, la potenza sacerdotale fu fatale nel mondo.
Preghiera non significa predominio, esortazione non significa
dispotismo. Un buon prete dev'essere il medico delle anime. Se Ippocrate avesse
ordinato ai suoi malati di prendere dell'elleboro, pena l'impiccagione, sarebbe
stato più pazzo e più feroce di Falaride, ed avrebbe avuto
pochissimi clienti. Quando un prete dice: "Adorate Dio, siate giusto,
indulgente, compassionevole," è un ottimo medico delle anime.
Quando dice: "Credetemi, o sarete bruciato," è un assassino.
Il magistrato deve sostenere e contenere il prete, come il padre
di famiglia deve trattar con considerazione il precettore dei suoi figli, e
impedire ch'egli ne abusi. "L'accordo tra clero e impero" è il
sistema più mostruoso: perché appena si cerca un tale accordo, si
presuppone necessariamente la loro divisione. Bisogna dire: "la protezione
accordata dall'impero al clero". Ma, nei paesi in cui il clero ha ottenuto
l'impero, come a Salem, dove Melchisedec fu prete e re, come in Giappone dove
il dairi fu tanto a lungo imperatore, cosa bisogna fare? Rispondo che i
successori di Melchisedec e dei dairi furono spodestati.
I turchi, in questo, sono saggi. Fanno, è vero, il
pellegrinaggio alla Mecca, ma non permettono allo sceriffo della Mecca di
scomunicare il sultano. Non vanno a comperare alla Mecca il permesso di non
rispettare il ramadan, o quello di sposare le loro cugine o le loro nipoti; non
sono giudicati da iman delegati dallo sceriffo; non pagano mai a costui
l'ultima annata del loro reddito. Quante cose da dire su questo argomento.
Lettore, ora spetta a te dirle.
Il profeta Jurieu fu fischiato, i profeti delle Cévennes furono
impiccati o arrotati, i profeti che dalla Linguadoca, o dal Delfinato, vennero
a Londra, furono messi alla gogna; i profeti anabattisti furono condannati a
supplizi vari; il profeta Savonarola fu arso a Firenze; il profeta Giovanni, il
battezzatore, o Battista, ebbe il capo mozzato.
Si pretende che Zaccaria sia stato assassinato, ma per fortuna
ciò non è provato. Il profeta Ieddo o Addo, inviato a Betel a
condizione che non avrebbe toccato né cibo né acqua, avendo sventuratamente
mangiato un pezzo di pane, venne mangiato a sua volta da un leone; e si
trovarono le sue ossa sulla strada, fra quel leone e il suo asino. Giona fu
inghiottito da un pesce; è vero che non restò nel suo ventre che
tre giorni e tre notti; ma per settantadue ore non dovette sentirsi molto a suo
agio.
Abacuc fu sollevato in aria per i capelli e così
trasportato fino a Babilonia: non fu in verità una grande disgrazia, ma
fu un modo di viaggiare assai poco piacevole. Si deve soffrire parecchio a
restar sospesi per i capelli per un tragitto di trecento miglia. Io avrei
preferito un paio d'ali, la giumenta Borac o l'ippogrifo.
Michea, figlio di Iemilla, avendo visto il Signore assiso sul suo
trono con le armate celesti a destra e a sinistra, e avendo il Signore chiesto
che qualcuno andasse a ingannare il re Achab, ed essendosi presentato al
Signore il diavolo, che si incaricò di tale commissione, Michea si
affrettò a render conto da parte del Signore, al re Achab, di questa
avventura celeste. È vero che, come ricompensa, egli ricevette un gran
ceffone dal profeta Sedecia; è vero che fu messo in prigione solo per
pochi giorni; ma insomma, è sgradevole, per un uomo ispirato da Dio,
venire schiaffeggiato e gettato in fondo a una segreta.
Si crede che il re Amasia fece strappare i denti al profeta Amos
per impedirgli di parlare. Non è vero che, senza i denti, sia
assolutamente impossibile parlare: si son vedute delle vecchie sdentate
ciarlare a più non posso: ma bisogna pronunziare con gran chiarezza una
profezia, e un profeta sdentato non è ascoltato col rispetto che gli si
deve.
Baruc patì molte persecuzioni. Ezechiele fu lapidato dai
suoi compagni di schiavitú. Non si sa se Geremia fu lapidato o segato in due.
Quanto a Isaia, pare sicuro che sia stato segato in due, per
ordine di Manasse, regolo di Giuda.
Bisogna convenire che quello del profeta è proprio un
brutto mestiere. Per uno che come Elia se ne va a spasso di pianeta in pianeta
in una bella carrozza luminosa, tirata da quattro cavalli bianchi, ce ne sono
cento che vanno a piedi, obbligati a mendicare un pezzo di pane di porta in
porta. Destino simile a quello di Omero, che fu obbligato, si narra, a
mendicare nelle sette città che poi si disputarono l'onore di avergli dato
i natali. I commentatori di Omero gli hanno attribuito un'infinità di
allegorie, cui egli non aveva mai pensato. Si è fatto spesso ai profeti
il medesimo onore. Non nego che vi siano stati uomini istruiti del futuro.
Basta portare il proprio animo a un certo grado d'esaltazione, come ha
benissimo immaginato un bravo filosofo o pazzo dei nostri giorni che voleva
scavare un buco fino agli antipodi, e spalmare i malati di resina. Gli ebrei
riuscirono talmente bene a esaltare le loro anime, da vedere con perfetta chiarezza
tutte le cose future; ma è difficile indovinare se per
"Gerusalemme" i profeti intendano sempre la vita eterna; se Babilonia
può significare Londra o Parigi; se, quando parlano di un gran
banchetto, dobbiamo intenderlo come un digiuno; se vino rosso significhi la
fede, e un mantello bianco la carità. L'intelligenza dei profeti indica
lo sforzo dello spirito umano. È per questo che non ne dirò di
più.
I primi che pensarono a digiunare si sottoposero a quel regime
dietro prescrizione del medico, per aver fatto indigestione?
La mancanza d'appetito che sentiamo quando siamo malinconici fu
forse la prima origine dei giorni di digiuno prescritti dalle religioni
malinconiche?
Gli ebrei presero forse l'abitudine di digiunare dagli egiziani,
di cui imitarono tutti i riti, fino alla flagellazione e al capro espiatorio?
Perché Gesù digiunò quaranta giorni nel deserto,
dove fu trasportato dal diavolo, dal Knathbull? San Matteo osserva che
dopo quella quaresima egli ebbe fame; dunque non aveva avuto fame, durante
quella quaresima?
Perché nei giorni d'astinenza la Chiesa romana considera un
delitto mangiare animali terrestri, e un'opera buona farsi servire sogliole e
salmoni? Il ricco papista che avrà avuto sulla sua mensa cinquecento
franchi di pesce sarà salvato; e il povero, che muore di fame, se
avrà mangiato quattro soldi di carne salata, sarà dannato?
Perché, per mangiare uova, bisogna chiedere il permesso al proprio
vescovo? Se un re proibisse al suo popolo di mangiare uova, non passerebbe per
il più ridicolo dei tiranni? Quale strana avversione hanno i vescovi per
le frittate?
Chi potrebbe mai credere che tra i papisti vi siano stati dei
tribunali tanto idioti, vili e barbari da condannare a morte dei poveri
cittadini che non avevano commesso altro delitto che quello d'aver mangiato
carne di cavallo di quaresima? Il fatto, purtroppo, è più che
vero: ho tra le mani una sentenza del genere. Ma quel che è davvero
incredibile è il fatto che i giudici, autori di simili sentenze, si sian
creduti superiori agli irochesi.
Preti imbecilli e crudeli, a chi ordinate la quaresima? Ai
ricchi?... si guardano bene dall'osservarla. Ai poveri? fanno quaresima tutto
l'anno. Lo sventurato contadino non mangia quasi mai carne e non ha di che
comperare pesce. Pazzi che siete, quando mai correggerete le vostre assurde
leggi?
Questione prima
Il vescovo di Gloucester, Warburton, autore di una delle
più dotte opere che siano state mai scritte, si esprime così, a
pagina 8 del tomo I:
"Una religione, una società che non sia fondata sulla
credenza in una vita futura, dev'essere sostenuta da una Provvidenza
straordinaria. Il giudaismo non è fondato sulla credenza in un'altra vita:
dunque il giudaismo fu sostenuto da una straordinaria Provvidenza."
Parecchi teologi si levarono contro di lui e, dato che non ci sono
argomenti che non si possan ritorcere, ritorsero contro di lui il suo,
dicendogli:
"Ogni religione che non sia fondata sul dogma
dell'immortalità dell'anima e delle pene e ricompense eterne è
necessariamente falsa; ora, il giudaismo non riconobbe quei dogmi; e dunque il
giudaismo, lungi dall'essere sostenuto dalla Provvidenza, era, secondo i vostri
stessi principi, una religione falsa e barbara che negava la Provvidenza."
Quel vescovo ebbe altri avversari, i quali sostenevano che
l'immortalità dell'anima era conosciuta dagli ebrei, sin dai tempi di
Mosè, ma egli provò loro nel modo più evidente che né il Decalogo,
né il Levitico, né il Deuteronomio avevano detto una sola parola
su tale credenza, e che è ridicolo voler distorcere e falsare qualche
passo degli altri libri (biblici) per tirarne fuori una verità non
annunciata nel libro della Legge.
Monsignor vescovo, avendo scritto quattro volumi per dimostrare
che la legge giudaica non proponeva né pene né ricompense dopo la morte, non
seppe mai rispondere ai suoi avversari in modo soddisfacente. Essi gli
dicevano: "O Mosè conosceva questo dogma, e allora ha ingannato gli
ebrei, non rendendolo manifesto; o lo ignorava, e in tal caso non ne sapeva
abbastanza per fondare una buona religione. E davvero, se quella religione
fosse stata buona, perché poi sarebbe stata abolita? Una religione vera deve
valere per tutti i tempi e per tutti i luoghi; dev'essere come la luce del
sole, che illumina tutti i popoli e tutte le generazioni."
Il prelato, per quanto fosse ispirato, faticò parecchio a
districarsi da tutte queste difficoltà; ma quale sistema ne va esente?
Questione seconda
Un altro dotto, molto più filosofo, uno dei più
profondi metafisici dei giorni nostri, avanza forti ragioni per provare che il
politeismo fu la prima religione degli uomini e che si cominciò col
credere a parecchi dei prima che la ragione fosse illuminata abbastanza da
riconoscere un solo Essere supremo.
Io oso credere, invece, che dapprima si sia cominciato col
riconoscere un solo Dio e che in seguito la debolezza umana ne abbia concepiti
molti altri; ed ecco come immagino la cosa.
È indubbio che ci furono villaggi, prima che si
costruissero grandi città e che tutti gli uomini vissero divisi in
piccole repubbliche, prima di riunirsi in grandi imperi. È naturale che
un villaggio, terrorizzato dal tuono, afflitto per la perdita delle sue messi, osteggiato
dal villaggio vicino, rendendosi conto ogni giorno della propria debolezza,
immaginando dappertutto un potere invisibile, si sia ben presto detto:
"C'è qualche essere sopra di noi che ci fa del bene e del
male."
Mi pare impossibile che abbia potuto dire: "Ci sono due
poteri." Perché ammetterne più d'uno? In ogni genere di cose si
comincia dal semplice, poi si passa al complesso e spesso si ritorna al
semplice, in virtù d'illuminazioni superiori. Procede così lo
spirito umano.
Quale essere si sarà per primo invocato? Il sole? La luna?
Non credo. Esaminiamo quel che accade nei bambini, che sono pressappoco quel
che sono gli uomini ignoranti. Essi non sono colpiti né dalla bellezza né
dall'utilità dell'astro che vivifica la natura, né dai soccorsi che ci
presta la luna, né dalle variazioni regolari del suo corso; non ci pensano, ci
son troppo abituati. Non si adora, non si invoca, non si vuol placare che quel
che si teme; tutti i bambini guardano il cielo con indifferenza; ma se scoppia
un tuono, tremano e vanno a nascondersi. I primi uomini hanno agito senza
dubbio nello stesso modo. Soltanto delle menti filosofiche possono aver
osservato il corso degli astri, e averli fatti ammirare e adorare; ma dei
contadini semplici e rozzi non ne potevano sapere abbastanza per abbracciare un
così nobile errore.
Un villaggio si sarà dunque limitato a dire:
"C'è una potenza che tuona, che grandina su di noi, che fa morire i
nostri bambini: plachiamola; ma in che modo placarla? Noi siamo riusciti a
calmare con piccoli doni la collera di persone adirate; facciamo dunque piccoli
doni a questa potenza. Bisogna anche darle un nome" Il primo nome che
viene in mente è quello di capo, di padrone, di signore:
e dunque questa potenza vien chiamata "mio Signore". Questa è
probabilmente la ragione per cui i primi egiziani chiamarono il loro dio Knef;
i siriaci, Adonai; i popoli vicini, Baal o Belus o Melek
o Moloch; gli sciti, Papee: tutte parole che significano
"signore", "padrone".
Quando fu scoperta l'America, la si trovò divisa in una
moltitudine di piccole popolazioni, che avevano tutte il loro dio protettore.
Gli stessi messicani e peruviani, che pur erano grandi popoli, adoravano un
solo dio: gli uni, Manco Capac, gli altri il dio della guerra. I messicani
davano al loro dio guerriero il nome di Huitzilopochtli, come gli ebrei
avevan chiamato il loro signore Sabaoth.
Non fu affatto per ragioni superiori e di cultura che tutti i
popoli cominciarono a riconoscere una sola divinità. Se fossero stati
filosofi, avrebbero adorato il dio di tutta la natura e non quello di un
villaggio; avrebbero preso in esame quei rapporti infiniti di tutti gli esseri,
che provano l'esistenza di un essere creatore e conservatore. Ma essi non
esaminarono niente: essi sentirono. Qui sta il progresso del nostro debole
intelletto. Ogni villaggio sentì la sua debolezza e il bisogno d'un
potente protettore. Immaginò quest'essere tutelare e terribile,
residente nella foresta vicina, o sulla montagna, o in una nuvola. Ne
immaginò uno solo, perché il villaggio aveva un solo capo in guerra. Se
lo immaginò corporeo, perché era impossibile rappresentarselo
altrimenti. E non poteva credere che il villaggio vicino non avesse anch'esso
il suo dio. Ecco perché Jefte dice agli abitanti di Moab: "Voi possedete
legittimamente ciò che il vostro dio Chámosh vi ha fatto conquistare;
ora dovete lasciarci godere ciò che il nostro dio ci ha dato con le sue
vittorie."
Questo discorso, tenuto da uno straniero ad altri stranieri,
è davvero singolare. Gli ebrei e i moabiti avevano spodestato i nativi
del paese; gli uni e gli altri non avevano altro diritto che quello della
forza, e l'uno dice all'altro: "Il tuo dio ti ha protetto nella tua
usurpazione; sopporta che il mio dio mi protegga nella mia."
Geremia e Amos domandano, l'uno all'altro: "Quale ragione
ebbe il dio Malcom d'impossessarsi del paese di Gad?" Appare evidente, da
questi passi, che gli antichi attribuivano a ogni paese un dio protettore. In
Omero, si trovano ancora tracce di questa teologia.
È assai naturale che, quando l'immaginazione degli uomini
s'accese e la loro mente acquistò cognizioni sia pur confuse, essi
abbiano ben presto moltiplicato i loro dei, e attribuito protettori agli
elementi, ai mari, alle foreste, alle fontane, alle campagne. E più
avranno esaminato gli astri, più saranno stati presi d'ammirazione: come
non adorare il sole, quando si adora la divinità di un ruscello?
Così, fatto il primo passo, la terra è ben presto coperta di dei,
e si scende, alla fine, dagli astri ai gatti e alle cipolle.
Tuttavia, la ragione è naturale che si sviluppi: il tempo
fa sorgere finalmente dei filosofi, i quali capiscono che né le cipolle, né i
gatti e nemmeno gli astri hanno ideato l'ordine della natura. Tutti questi
filosofi babilonesi, persiani, egiziani, sciti, greci e romani ammettono un Dio
supremo remuneratore e vendicatore.
Essi dapprima non lo dicono ai popoli: perché chiunque avesse
denigrato gatti e cipolle davanti alle vecchiette e ai preti sarebbe stato
lapidato; chiunque avesse rimproverato a certi egiziani di mangiare i loro dei
sarebbe stato mangiato lui stesso (come infatti Giovenale racconta di un
egiziano, che fu ammazzato e mangiato crudo nel bel mezzo di una disputa).
E cosa fecero allora? Orfeo ed altri istituiscono dei misteri che
gli iniziati giurano, con esecrabili giuramenti, di non rivelare mai: e il
principale di essi è l'adorazione di un solo Dio. Questa grande
verità si propaga in metà della terra: il numero degli iniziati
diventa immenso. È vero che l'antica religione sussiste sempre; ma, dato
che non è contraria al dogma dell'unità di Dio, la si lascia
sussistere. E perché abolirla? I romani riconoscono il Deus optimus maximus;
i greci hanno il loro Zeus, loro Dio supremo. Tutte le altre
divinità non sono che esseri intermedi: si innalzano eroi e imperatori
alla dignità di dei, cioè di beati, ma è sicuro che
Claudio, Ottaviano, Tiberio e Caligola non furono considerati i creatori del
cielo e della terra.
Insomma, sembra provato che, ai tempi di Augusto, tutti coloro che
avevano una religione, riconoscevano un Dio superiore, eterno, e molti ordini
di dei secondari, il cui culto fu in seguito chiamato "idolatria".
Gli ebrei non erano mai stati idolatri; perché, sebbene
ammettessero dei malakhim, degli angeli, esseri celesti d'ordine
inferiore, la loro legge non imponeva che queste divinità secondarie
avessero presso di loro un culto. Essi adoravano gli angeli, è vero: e
si prosternavano, quando li vedevano; ma, siccome questo non capitava spesso,
non c'erano né un cerimoniale né un culto legale stabilito per loro. I
cherubini dell'arca non ricevevano omaggi. È certo che gli ebrei
adoravano apertamente un solo Dio, come la folla innumerevole di iniziati lo
adoravano in segreto nei loro misteri.
Questione terza
Fu quando il culto di un Dio supremo era ormai universalmente
accolto da tutti i saggi, in Asia, in Europa e in Africa, che nacque la
religione cristiana.
Il platonismo diede un grande contributo all'intelligenza dei suoi
dogmi. Il Logos, che in Platone significava la saggezza, la ragione
dell'Essere supremo, divenne, per noi cristiani, il Verbo, e la seconda persona
di Dio. Una metafisica, profonda e superiore all'intelletto umano,
costituì un santuario inaccessibile, in cui la religione fu inviluppata.
Non ripeteremo qui come Maria venne in seguito dichiarata madre di
Dio, come si stabilì la consustanzialità del Padre e del Verbo, e
la processione del Pneuma, organo divino del divino Logos; due
nature e due volontà risultanti dall'ipòstasi; e, infine, la
manducazione superiore: l'anima nutrita, come il corpo, delle membra e del
sangue dell'Uomo- Dio, adorato e mangiato sotto le specie del pane, presente
agli occhi, sensibile al gusto e tuttavia annientato. Tutti i misteri furono
sublimi.
Fin dal II secolo si cominciò a cacciare i demoni in nome
di Gesù. Prima li si cacciava in nome di Jehovah, o Jhaho: san Matteo
narra che, avendo detto i nemici di Gesù ch'egli cacciava i demoni in
nome del principe dei demoni, egli rispose: "Se è per mezzo di
Belzebù che io caccio i demoni, per mezzo di chi li cacciano i vostri
figli?"
Non si sa in qual tempo gli ebrei abbiano riconosciuto come
principe dei demoni Belzebù, che era un dio straniero; ma sappiamo (ed
è Giuseppe Flavio che lo riferisce) che a Gerusalemme c'erano degli
esorcisti incaricati di cacciare i demoni dal corpo degli ossessi, ossia di
uomini colpiti da malattie singolari, attribuite allora, in gran parte della
terra, a geni malefici. Si cacciavano dunque, questi demoni, mediante la vera
pronuncia del nome di Jehovah, oggi perduta, e con altre cerimonie oggi
dimenticate.
Tale esorcismo in nome di Jehovah o degli altri nomi di Dio era
ancora in uso nei primi secoli della Chiesa. Origene, disputando contro Celso,
gli dice (n. 262): "Se, invocando Dio, o giurando per lui, lo si chiama il
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, si adempiranno certe cose con quei
nomi, la cui natura e forza sono tali che i demoni si sottomettono a chi li
pronunzia; ma, se lo si chiama con un altro nome, come ad esempio Dio del mare
fragoroso, questi nomi saranno senza virtù. Il nome di Israele, tradotto
in greco, niente potrà operare; ma pronunciatelo in ebraico, con le
altre parole richieste, e operate lo scongiuro."
Lo stesso Origene, al n. 19, dice queste interessanti parole:
"Ci sono nomi che hanno naturalmente una loro virtù, come quelli di
cui si servono i saggi fra gli egiziani, i maghi in Persia, i brahmani in
India. Quel che si chiama magia non è un'arte vana e chimerica, come
pretendono gli stoici e gli epicurei; né il nome di Sabaoth, né quello di Adonai
furono fatti per esseri creati; ma essi appartengono a una teologia misteriosa
che si riferisce al Creatore; di qui deriva la virtù di tali nomi,
quando li si combina e pronunzia secondo le regole ecc."
Origene, scrivendo così, non esprime il suo parere; non fa
che riferire l'opinione universale. Tutte le religioni allora conosciute
ammettevano più o meno la magia; e si distinguevano la magia celeste e
la magia infernale, la necromanzia e la teurgia: tutto era prodigio,
divinazione, oracolo. I persi non negavano i miracoli degli egiziani, né questi
i miracoli dei persi; Dio permetteva che i primi cristiani fossero persuasi
degli oracoli attribuiti alle Sibille, e perdonava loro anche alcuni errori
niente affatto importanti, che non corrompevano la sostanza della religione.
Un altro fatto degno di nota è che i cristiani dei primi
due secoli avevano in orrore i templi, gli altari e i simulacri. Lo afferma
Origene (n. 374). Tutto poi cambiò con la disciplina, quando la Chiesa
ebbe un ordinamento stabile.
Questione quarta
Una volta che una religione sia legalmente stabilita in uno Stato,
i tribunali si preoccupano subito d'impedire che si rinnovino la maggior parte
delle cose che si praticavano in tale religione, prima che fosse pubblicamente
accettata. I fondatori si riunivano in segreto, a dispetto dei magistrati: ora
non si pemettono che le pubbliche assemblee sotto gli occhi della legge, e
tutte le associazioni che si sottraggono alla legge vengono proibite. La
massima antica era che è meglio obbedire a Dio che agli uomini; ora vige
la massima opposta: ossia che obbedire alle leggi dello Stato è obbedire
a Dio. Prima non si sentiva parlare che di ossessioni e possessioni, il diavolo
era allora scatenato sulla terra: oggi il diavolo non esce più
dall'inferno. I prodigi, le predizioni erano allora necessari: ora non sono
più presi in considerazione. Un uomo che predicesse nelle pubbliche
piazze delle calamità sarebbe portato al manicomio. I fondatori
ricevevano segretamente il denaro dei fedeli: oggi, un uomo che raccogliesse
denaro per disporne senza essere autorizzato dalla legge, finirebbe in
tribunale. Così non ci si serve più di nessuna delle impalcature
che son servite ad innalzare l'edificio.
Questione quinta
Dopo la nostra santa religione, che è indubbiamente la sola
buona, quale sarebbe la meno cattiva?
Non sarebbe forse la più semplice? Non sarebbe quella che
insegnasse molta morale e pochissimi dogmi? che tendesse a rendere giusti gli
uomini, senza renderli assurdi? che non ordinasse di credere a cose impossibili,
contraddittorie, ingiuriose per la Divinità e dannose al genere umano, e
non osa minacciare pene eterne a chi si attenesse al senso comune? Non sarebbe
quella che non imponesse di credere in Dio per mezzo di carnefici e non
inondasse la terra di sangue per dei sofismi incomprensibili? quella in cui un
equivoco, un gioco di parole o due o tre documenti falsificati non facessero un
sovrano e un dio di un prete spesso incestuoso, omicida e avvelenatore? quella
che non sottomettesse i re a questo prete? e insegnasse solo l'adorazione di un
Dio, la giustizia, la tolleranza e l'umanità?
Questione sesta
Si è detto che la religione dei gentili era in molti punti
assurda, contraddittoria e dannosa; ma non le è stato imputato
più male di quanto ne compì e più sciocchezze di quante ne
predicò?
Perché vedere Giove toro
Serpente, cigno o altro,
Non lo trovo affatto bello,
E non mi stupisco che qualche volta se ne dubiti.
(Molière. Prologo di Amphitryon)
Indubbiamente, si tratta di invenzioni spudorate. Eppure mi si
mostri, in tutta l'antichità, un tempio dedicato a Leda che si accoppia
con un cigno o con un toro. In Atene o a Roma non si predicò mai nessun
sermone per incoraggiare le fanciulle a far figli con i cigni del loro cortile.
Le favole raccolte e abbellite da Ovidio eran forse religione? Non assomigliano
piuttosto alla nostra Leggenda aurea, al nostro Fiore dei santi?
Se qualche brahmano o derviscio venisse a criticarci ricordandoci la storia di santa
Maria Egiziaca la quale, non avendo denaro per pagare i marinai che l'avevano
condotta in Egitto, concesse, a ciascuno di loro, invece di moneta, quel che
chiamiamo i suoi "favori", noi diremmo al brahmano: "Reverendo
Padre, voi vi sbagliate, la nostra religione non è la Leggenda aurea."
Noi rimproveriamo agli antichi i loro oracoli, i loro prodigi; ma,
se essi ritornassero al mondo, e potessimo enumerare i miracoli della Madonna
di Loreto e quelli della Madonna di Efeso, in favore di chi penderebbe la
bilancia?
I sacrifici umani furono ammessi da quasi tutti i popoli, ma molto
raramente praticati. Fra gli ebrei, solo la figlia di Jefte e il re Agag furono
immolati: a Isacco e a Gionata venne risparmiata la vita. La storia del
sacrificio di Ifigenia non è stata mai bene accertata. Fra gli antichi
romani, i sacrifici umani sono rarissimi. In breve, la religione pagana fece
versare pochissimo sangue: la nostra ne ha inondato la terra. La nostra
è senza dubbio la sola buona, la sola vera; ma per mezzo suo abbiamo
compiuto tanto di quel male che, quando parliamo delle altre, dobbiamo farlo
con molta modestia.
Questione settima
Se un uomo vuole convertire alla sua religione degli stranieri o
dei compatrioti, non deve forse convincerli con la più insinuante dolcezza
e la più allettante moderazione? Se comincia col dire che ciò che
annuncia è chiaramente dimostrato, troverà una folla di
increduli; se osa dire che essi respingono la sua dottrina solo perché condanna
le loro passioni, e perché il loro cuore ha corrotto la loro mente e
perciò hanno una ragione falsa e orgogliosa, li muove a ribellione, li
anima contro di sé e così abbatte egli stesso quel che vuol costruire.
Se la religione che annuncia è vera, il furore e
l'insolenza la renderanno forse più vera? V'incollerite quando insegnate
che bisogna essere miti, pazienti, benefici, giusti e adempiere tutti i doveri
verso il prossimo? No, perché tutti sono del vostro parere. Perché allora
coprite d'insulti il vostro fratello quando gli predicate una metafisica
misteriosa? Perché il suo buon senso irrita il vostro amor proprio. Voi avete
l'orgogliosa smania d'esigere che il vostro fratello sottometta la sua
intelligenza alla vostra; l'orgoglio umiliato provoca la collera, la quale non
ha altra origine. Un uomo che in guerra viene colpito da venti colpi di fucile,
non va in collera. Ma un teologo ferito dal rifiuto di un assenso, diventa
furioso e implacabile.
Questione ottava
Non bisogna forse distinguere con gran cura la religione dello
Stato dalla religione teologica? Quella dello Stato esige che gli iman tengano
i registri dei circoncisi, e i parroci o i pastori quelli dei battezzati; che
vi siano moschee, chiese, templi, giorni consacrati all'adorazione e al riposo,
riti stabiliti dalla legge; che i ministri di questi riti godano di
considerazione, senza però avere nessun potere; che insegnino al popolo
i buoni costumi, e che i ministri della legge veglino sui costumi dei ministri
dei templi. Tale religione dello Stato non potrà mai provocare nessun
disordine.
Non è così nella religione teologica; essa è
la fonte di tutte le sciocchezze e di tutti i torbidi immaginabili; è la
madre del fanatismo e della discordia civile; è la nemica del genere
umano. Un bonzo pretende che Fo sia un dio; che sia stato predetto da
certi fachiri; che sia nato da un elefante bianco; che ogni bonzo possa fare un
Fo con qualche smorfia. Un talapoino dice che Fo era un sant'uomo, di cui i
bonzi hanno corrotto la dottrina, e che il vero dio è Sammonocodom. Dopo
cento argomentazioni e cento smentite, le due fazioni si accordano di
rimettersi al Dalai Lama, che abita a trecento leghe di distanza, che è
immortale e anche infallibile. Le due fazioni gli inviano una solenne
delegazione. Il Dalai Lama comincia, secondo il suo divino costume, col
distribuire loro la cacca che è nella sua seggetta.
Le due sette rivali la ricevono dapprima con uguale rispetto la
fanno seccare al sole, e la incastonano in piccoli grani di rosario che baciano
con devozione; ma, non appena il Dalai Lama e il suo consiglio si dichiarano in
favore di Fo, ecco che il partito condannato getta in faccia al vice-dio i
rosari, e gli vuol affibbiare cento staffilate. L'altro partito difende il suo
Lama, dal quale ha ricevuto delle buone terre. Tutti e due si combattono a
lungo, e quando finalmente sono stanchi di sterminarsi, d'assassinarsi, di
avvelenarsi a vicenda, continuano a lanciarsi grosse ingiurie; e il Dalai Lama,
il buon papà, se la ride e continua a distribuire la cacca che è
nella sua seggetta a chiunque devotamente aspiri a riceverla.
I
Si racconta che gli egiziani abbiano costruito le loro piramidi
solo per farne delle tombe, e che i loro corpi, imbalsamati dentro e fuori,
aspettassero che le loro anime venissero a rianimarli in capo a mille anni. Ma,
se i loro corpi dovevano risuscitare, perché la prima operazione degli
imbalsamatori era quella di perforarne il cranio con un trivello per trarne
fuori il cervello? L'idea di risuscitare senza cervello fa sospettare (se si
può usare questo verbo) che gli egiziani, da vivi, non ne avessero
molto; bisogna tuttavia considerare che la maggior parte degli antichi
credevano che l'anima risiedesse nel petto. E perché l'anima deve risiedere nel
petto piuttosto che altrove? Perché, in effetti, quando ci sentiamo agitati da
sentimenti un po' violenti, proviamo verso la regione del cuore una dilatazione
o come una stretta, e questo fece pensare che stesse lì la sede
dell'anima. Quest'anima fu immaginata come qualcosa di aereo: una lieve figura
che andava a spasso dove poteva, finché non avesse ritrovato il proprio corpo.
La credenza nella resurrezione è molto più antica
dei tempi storici. Atalide, figlia di Mercurio, poteva morire e risuscitare a
suo piacimento; Esculapio restituì la vita a Ippolito; Ercole ad
Alcesti; Pelope, tagliato a pezzi dal padre, fu fatto risorgere dagli dei.
Platone racconta che Er risuscitò soltanto per quindici giorni.
Presso gli ebrei, i farisei accolsero il dogma della resurrezione
solo parecchio tempo dopo Platone. Negli Atti degli Apostoli si legge un
episodio assai singolare e degno di nota. San Giacomo e molti dei suoi compagni
consigliano a san Paolo di entrare nel tempio di Gerusalemme a compiervi,
benché cristiano, tutte le cerimonie dell'antica legge, "affinché tutti
sappiano che ciò che si dice di te è falso e che continui ad
osservare la legge di Mosè". Il che era come dire: "Va' a
mentire, a spergiurare, a rinnegare pubblicamente la religione che
insegni."
San Paolo andò dunque per sette giorni nel tempio, ma il
settimo fu riconosciuto. Lo si accusò d'esserci andato con degli
stranieri e di averlo profanato. Ecco come si cavò d'impiccio:
"Ora, Paolo, sapendo che una parte di coloro che erano
lì erano sadducei e l'altra farisei, esclamò nell'assemblea:
"Fratelli, io sono fariseo e figlio di farisei; e mi si vuole condannare
perché spero in un'altra vita e nella resurrezione dei morti.""
In tutta questa faccenda non si era fatto cenno alcuno sulla
questione della resurrezione dei morti. Paolo lo disse soltanto per aizzare i farisei
e i sadducei gli uni contro gli altri.
V. 7 "E come Paolo ebbe detto questo, nacque contesa tra i
farisei e i sadducei; e l'assemblea fu divisa."
V. 8 "Poiché i sadducei affermano che non c'è
resurrezione, né angelo, né spirito; mentre i farisei hanno fede nell'una e
nell'altra cosa."
Si è preteso che il vecchissimo Giobbe conoscesse il dogma
della resurrezione. Si citano queste sue parole: "Io so che il mio
redentore è vivente e che un giorno la sua redenzione si eleverà
su di me (o: che mi solleverò dalla polvere); che la mia pelle si
riformerà, e che vedrò ancora Dio nella mia carne."
Ma molti commentatori sostengono che con queste parole Giobbe
sperava di guarire presto dalla sua infermità, di non restare fino alla
morte disteso in terra, come lo era stato finora. E il seguito del passo prova
a sufficienza che questa spiegazione è quella vera, perché subito dopo
Giobbe grida ai suoi falsi e duri amici: "Perché dunque dite
"Perseguitiamolo"?" (o: "Perché voi direte: "Perché
l'abbiamo perseguitato?""). Questo, evidentemente, significa:
"Voi vi pentirete d'avermi offeso, quando mi rivedrete nella mia prima
condizione di salute e di opulenza." Un malato che dice: "Io mi
alzerò," non dice: "Io risusciterò" Voler forzare
il significato di testi chiari è il modo più sicuro per non
capirsi mai o, piuttosto, per essere considerati come gente in mala fede dagli
onest'uomini.
San Girolamo colloca la nascita della setta dei farisei pochissimo
tempo prima della nascita di Gesù Cristo. Il rabbino Hillêl
sarebbe stato il fondatore della setta farisaica, e questo Hillêl era
contemporaneo di Gamaliele, il maestro di san Paolo.
Molti di questi farisei credevano che soltanto gli ebrei sarebbero
risorti: quanto al resto degli uomini, non valeva la pena che risorgesse. Altri
sostenevano che si sarebbe risorti soltanto in Palestina e che i corpi di
quanti fossero stati seppelliti altrove sarebbero stati trasportati di nascosto
presso Gerusalemme, per raggiungervi le loro anime. Ma san Paolo, scrivendo
agli abitanti di Tessalonica, dice loro che "il secondo avvento di
Gesù Cristo sarà per loro e per lui, che ne saranno
testimoni".
V. 16 "Perché, appena sarà stato dato il segnale
dall'arcangelo e dal suono della tromba di Dio, lo stesso Signore
scenderà dal cielo, e i morti in Gesù Cristo risusciteranno per
primi."
V. 17 "Poi, noi viventi, quelli che saremo rimasti sino
allora, verremo con loro portati via sulle nuvole, a incontrare il Signore
nell'aria; e così vivremo per sempre col Signore."
Questo passo importante non prova con evidenza che i primi
cristiani erano sicuri di vedere la fine del mondo, come in effetti è
predetta in san Luca, fine che sarebbe venuta mentre lui era ancora vivo? Se
essi non videro la fine del mondo, se nessuno risuscitò per allora, quel
che viene differito non viene però perduto.
Sant'Agostino crede che i bambini, anche quelli nati morti,
risusciteranno una volta raggiunta l'età di uomini maturi. Origene,
Girolamo, Atanasio, Basilio non credevano che le donne, risuscitando, dovessero
mantenere il loro sesso.
Insomma, si è sempre disputato su quel che siamo stati, su
quel che siamo, e su quel che saremo.
II
Il padre Malebranche prova la verità della resurrezione con
l'esempio dei bruchi che diventano farfalle. Questa prova, come si vede,
è altrettanto fragile delle ali degli insetti con cui la mette in
relazione. Certi pensatori, addestrati ai calcoli, avanzano obiezioni
aritmetiche contro questa verità così ben dimostrata. Essi
affermano che gli uomini e gli altri animali sono in realtà nutriti e
crescono con la sostanza dei loro predecessori. Il corpo di un uomo ridotto in
polvere, sparso nell'aria e ricaduto poi sulla superficie della terra, si
trasforma in vegetali o frumento. Così Caino mangiò una parte di
Adamo; Henoc si nutrì di Caino, Irad di Henoc, Mehuïael di Irad,
Matusalemme di Mehuiael; e troviamo che non c'è nessuno di noi che non
abbia mangiato una piccola porzione del nostro primo progenitore. È per
questo che si è detto che siamo tutti antropofagi. Niente è
più evidente dopo una battaglia: non solo ammazziamo i nostri fratelli,
ma in capo a due o tre anni, li abbiamo tutti mangiati, quando si raccolgono le
messi sul campo di battaglia; e anche noi saremo certo mangiati, a nostra
volta. Ora, quando dovremo risuscitare, come faremo a rendere ad ognuno il
corpo che gli apparteneva, senza perderne un po' del nostro?
Ecco quel che dicono coloro che dubitano della resurrezione; ma
coloro che ci credono hanno risposto loro con gran competenza.
Un rabbino di nome Samai dimostra la verità della
resurrezione con questo passo dell'Esodo: "Io sono apparso ad
Abramo, a Isacco e a Giacobbe e ho promesso loro con giuramento di dar loro la
terra di Canaan." "Ora Dio, nonostante quel giuramento," dice
questo gran rabbino, "non dette loro quella terra: dunque essi, per
goderne, dovranno risuscitare, affinché il giuramento sia adempiuto."
Il profondo filosofo don Calmet trova nei vampiri una prova ben
più precisa. Egli aveva visto dei vampiri che uscivano dai cimiteri per
andare a succhiare il sangue della gente addormentata; ora, è chiaro che
essi non potrebbero succhiare il sangue dei vivi, se ancora fossero morti:
dunque, erano risuscitati: questo ragionamento è davvero convincente.
Una cosa altrettanto sicura è che tutti i morti, il giorno
del giudizio, marceranno sotto terra come le talpe (a quanto dice il Talmud)
per sbucare nella valle di Josafat, situata tra la città di Gerusalemme
e il monte degli Olivi. Si starà assai pigiati, in questa valle; ma
basterà ridurre i corpi proporzionalmente, come i diavoli di Milton
nella sala del Pandemonio.
La resurrezione si compirà al suono della tromba, a quel
che dice san Paolo. Sarà bene che ci siano parecchie trombe, perché il
tuono stesso non si ode a più di tre o quattro leghe intorno. Potremmo
chiederci quante trombe ci saranno; i teologi non hanno ancora fatto questo
calcolo, ma lo faranno.
Gli ebrei raccontano che la regina Cleopatra, la quale credeva
senza dubbio nella resurrezione, come tutte le dame di quei tempi,
domandò a un fariseo se si sarebbe risuscitati nudi. Quel dottore le
rispose che, al contario, saremo vestiti benissimo, per la semplice ragione che
il grano che si semina, morto sotto la terra, risuscita poi in spighe con un
abito a frange. Quel rabbino era un eccellente teologo: ragionava come don
Calmet.
In Oriente il nome di Salomone fu sempre riverito. Le opere che si
credevano scritte da lui, gli annali degli ebrei, le favole degli arabi,
diffusero la sua fama fino alle Indie. Il suo regno fu l'età aurea degli
ebrei.
Egli fu il terzo re della Palestina. Il primo libro dei Re dice
che sua madre Betsabea ottenne da David che facesse incoronare Salomone al
posto del suo primogenito Adonia. Non ci sorprende che una donna, complice
dell'assassinio del suo primo marito, sia stata così abile da far
sì che l'eredità passasse al frutto del proprio adulterio,
così diseredando il figlio legittimo, che per giunta era il primogenito.
Un fatto assai degno di nota è che il profeta Natan, il
quale aveva rimproverato David per il suo adulterio, per l'uccisione di Uria e
per il matrimonio che seguì quell'assassinio, fu lo stesso uomo che
più tardi secondò Betsabea nel mettere sul trono Salomone, nato
da quel matrimonio sanguinario e infame. Tale condotta, a ragionare soltanto
"secondo la carne", proverebbe che il profeta Natan usava, secondo i
tempi, due pesi e due misure. Lo stesso libro biblico non dice che Natan avesse
ricevuto da Dio una missione particolare per far diseredare Adonia. Se ne ebbe
una, dobbiamo rispettarla; ma noi possiamo ammettere solo quel che troviamo
scritto.
Adonia, escluso dal trono da Salomone, gli chiese come unica
grazia il permesso di sposare Abisag, la giovinetta che era stata data a David
per riscaldarlo nella sua vecchiaia.
La Scrittura non dice se Salomone abbia disputato ad Adonia la
concubina del padre; ma dice che Salomone, per questa sola richiesta, lo fece
assassinare. A quel che sembra, Dio, che diede a Salomone lo spirito di
saggezza, gli rifiutò quello della giustizia e dell'umanità, come
gli rifiutò più tardi il dono della continenza.
Nello stesso Libro dei Re è detto che Salomone era
padrone di un gran regno, che si estendeva dall'Eufrate al mar Rosso e al
Mediterraneo; ma, sventuratamente, è anche detto che il re d'Egitto
aveva conquistato il paese di Gezer, nella terra di Canaan, e che diede in dote
la città di Gezer a sua figlia, che pare sia andata sposa a Salomone;
è detto che c'era un re a Damasco, e che fiorivano i regni di Sidone e
di Tiro; circondato da stati potenti, Salomone manifestò la propria
saggezza restando in pace con tutti. L'estrema abbondanza che arricchì
il suo paese non poteva essere che il frutto di quella profonda saggezza,
perché, al tempo di Saul, non c'era un operaio che sapesse lavorare il ferro,
in tutto il paese e, quando Saul dichiarò guerra ai filistei, cui gli
ebrei erano soggetti, si trovarono soltanto due spade.
Dunque, Saul, che sulle prime non possedeva in tutti i suoi Stati
che due sole spade, ebbe ben presto un esercito di trecentotrentamila uomini.
Neppure il sultano dei turchi ebbe mai armate così numerose; c'era di
che conquistare il mondo. Simili contraddizioni sembrano escludere qualsiasi
ragionamento; ma coloro che vogliono ragionare trovano assai difficile che
David, il quale successe a Saul, vinto dai filistei, abbia potuto, durante il
suo regno, fondare un vasto impero.
Ancora più incredibili sono le ricchezze da lui lasciate a
Salomone; gli diede in contanti centotremila talenti d'oro e un milione e
tredicimila talenti d'argento. Il talento d'oro degli ebrei vale circa seimila
sterline, e quello d'argento circa cinquecento sterline. La somma totale dei
lasciti in denaro contante, senza contare i preziosi e gli altri beni, e senza
il reddito corrente, senza dubbio proporzionato a tale tesoro, ammontava a un miliardo,
centodiciannove milioni di scudi tedeschi, o venticinque miliardi e
seicentoquarantotto milioni di scudi francesi. A quei tempi non c'era davvero
tanto denaro circolante, in tutto il mondo.
Dopo di che, non si capisce proprio perché Salomone si affannasse
tanto a mandare le sue flotte nel paese di Ofir per riportarne oro. E ancora
meno perché questo potente monarca non avesse nei suoi vasti Stati un solo uomo
che sapesse tagliar legna nella foresta del Libano. Fu costretto a pregare
Hiram, re di Tiro, di prestargli dei taglialegna e degli operai per mettere in
opera il legname. Bisogna confessare che queste contraddizioni mettono a dura
prova l'intelligenza dei commentatori.
Ogni giorno si servivano, per il pranzo e la cena della casa di
Salomone, cinquanta buoi e cento montoni, e pollame e cacciagione in
proporzione: il che può corrispondere a sessantamila libbre di carne al
giorno. Un bel treno di casa.
Si aggiunge poi che egli possedeva quarantamila scuderie, e
altrettante rimesse per i carri da guerra, ma soltanto dodicimila scuderie per
la sua cavalleria. Ecco un bel numero di carri per un paese fra le montagne; ed
era un bell'apparato militare per un re, il cui predecessore non aveva avuto,
alla sua incoronazione, che una mula, e per un territorio che allevava soltanto
asini.
Non si è voluto che un principe che possedeva tanti carri
si limitasse a un piccolo numero di mogli; gliene si attribuiscono settecento,
che portavano il nome di "regine"; e quel che è strano
è che egli avesse solo trecento concubine, contro il costume dei re, i
quali hanno di solito più amanti che mogli. Se poi queste storie sono
state dettate dallo Spirito Santo, bisogna ammettere che predilige il
meraviglioso.
Salomone manteneva quattrocentododicimila cavalli, senza dubbio
per andare a spasso con le sue donne lungo il lago di Gennesaret o verso quello
di Sodoma, o verso il torrente Cedron, che sarebbe uno dei luoghi più
deliziosi del mondo, se quel torrente non fosse asciutto nove mesi l'anno, e se
il terreno attorno non fosse un po'pietroso.
Quanto al tempio che egli fece costruire, e che gli ebrei
credettero la più bella opera dell'universo, se i Bramante, i e i
Palladio l'avessero veduto, non lo avrebbero certo ammirato. Era una specie di
piccola fortezza quadrata, che racchiudeva un cortile e in questo cortile c'era
un edificio lungo quaranta cubiti e un altro venti; ed è detto che
questo Michelangelo secondo edificio, che era propriamente il tempio,
l'oracolo, il Santo dei Santi, aveva venti cubiti di larghezza, venti di
lunghezza, e venti di altezza. Non c'è oggi in Europa architetto che non
considererebbe tale edificio un monumento di barbari.
I libri attribuiti a Salomone son durati più del suo
tempio. È questa, forse, una delle più evidenti prove della forza
dei pregiudizi e della debolezza del cervello umano.
Solo il nome dell'autore ha reso rispettabili quei libri: sono
stati reputati buoni perché creduti scritti da un re, e quel re era considerato
il più saggio degli uomini.
La prima opera che gli si attribuisce è quella dei Proverbi:
una raccolta di massime triviali, basse, incoerenti, senza gusto, senza scelta
e senza disegno. Possiamo davvero credere che un re illuminato abbia composto
una raccolta di sentenze delle quali non se ne trova una che accenni al modo di
governare, alla politica, ai costumi dei cortigiani e agli usi della corte? Vi
si trovano interi capitoli in cui si parla soltanto di quelle prostitute che
invitano i passanti ad andare a letto con loro.
Prendiamo a caso uno di questi proverbi:
"Ci sono tre cose che non si saziano mai, e una quarta che
mai dice: Basta!: il sepolcro, l'utero, la terra che mai si sazia d'acqua, e il
fuoco che mai dice: Basta!"
"Ci sono tre cose per me indecifrabili, e una quarta che
ignoro del tutto: la via dell'aquila nell'aria, la via del serpente sulla
roccia, la via di una nave in mezzo al mare, la via dell'uomo in una
donzella."
"Ci sono quattro animali, i più piccoli della terra e
più saggi dei saggi: le formiche, piccolo popolo che si prepara il
nutrimento per l'inverno durante l'estate; le lepri, popolo debole, che vive
sulle rocce; le locuste che, non avendo re, avanzano divise per schiere; e la
lucertola, che fa tutto con le sue zampe, e dimora nei palazzi dei re."
E si osa imputare a un grande re, al più saggio dei mortali
stupidaggini così terra terra e assurde? Quelli che lo vogliono autore
di tali piatte puerilità, e credono di ammirarle, non sono certo i
più saggi degli uomini.
I Proverbi furono attribuiti a Isaia, a Elcia, a Sobna a
Eliacim, a Ioacaz e a molti altri; ma chiunque sia stato il compilatore di
questa raccolta di sentenze orientali, non è affatto probabile che sia
stato un re a darsene la pena. Avrebbe detto: "l'ira del re è come
il ruggito del leone"? Così parla solo un suddito o uno schiavo,
che trema per la collera del suo signore. E Salomone avrebbe tanto parlato
della donna impudica? Avrebbe detto: "Non guardare il vino quando sembra
chiaro e il suo colore scintilla nel bicchiere"?
Dubito assai che, ai tempi di Salomone, ci fossero bicchieri di
vetro: si tratta di un'invenzione molto recente; tutti gli antichi bevevano in
tazze di legno o di metallo; e il passo in questione indica che quest'opera
venne composta ad Alessandria, come tanti altri libri giudaici.
L'Ecclesiaste, attribuito pure a Salomone, è di un
genere e di un gusto del tutto diversi. Chi parla, in quest'opera, è un
uomo disingannato dalle illusioni di grandezza, stanco dei piaceri e disgustato
della scienza. È un filosofo epicureo, che ripete ad ogni pagina che il
giusto e l'empio sono soggetti agli stessi accidenti; che l'uomo non ha niente
in più della bestia; che sarebbe meglio non esser nati, che non
c'è un'altra vita, e che non c'è niente di buono né di
ragionevole se non il godere in pace il frutto delle proprie fatiche assieme
alla donna amata.
L'intera opera è di un materialista a un tempo sensuale e
disgustato. Sembra soltanto che all'ultimo versetto sia stata aggiunta una
frase edificante su Dio, per diminuire lo scandalo che un tal libro doveva
provocare.
I critici stenteranno a persuadersi che quest'opera sia di
Salomone. Non è naturale che abbia detto: "Sventura al paese che ha
un re bambino!" Gli ebrei non avevano ancora avuto re simili.
Non è affatto naturale che egli abbia detto: "Io
osservo il viso del re" È assai più verosimile che l'autore
abbia voluto far parlare Salomone ma che, per quella mancanza di coerenza di
cui son piene tutte le opere degli ebrei, abbia dimenticato spesso, nel corso
del libro, che stava facendo parlare un re.
Quel che sbalordisce è che quest'opera empia sia stata
consacrata fra i libri canonici. Se si dovesse stabilire oggi il canone della Bibbia,
non ci si includerebbe certo l'Ecclesiaste; ma esso vi fu inserito in un
tempo in cui i libri erano molto rari, ed erano più ammirati che letti.
Tutto quel che si può fare oggi è mascherare il più
possibile l'epicureismo che prevale in quest'opera. Si è fatto per l'Ecclesiaste
come per tante altre cose ben più rivoltanti; esse furono accettate
in tempi d'ignoranza; e si è costretti, ad onta della ragione, a
difenderle in tempi illuminati, e a mascherare l'assurdità o l'errore
con allegorie.
Il Cantico dei Cantici è attribuito anch'esso a
Salomone, perché il nome del re vi si trova in due o tre passi, perché si fa
dire all'amante che essa è bella "come le pelli di Salomone";
e poiché essa afferma di essere "nera", si è creduto che
Salomone indicasse così la sua moglie egiziana.
Queste tre ragioni sono ugualmente ridicole:
1) Quando la donna, parlando all'amante, dice: "Il re mi ha
condotta nelle sue dispense", essa allude evidentemente a una persona
diversa dal suo amante; dunque il re non è il suo amante: è il re
del convito, il paraninfo, il padrone di casa che essa intende; e questa ebrea
è così improbabile che sia l'amante di un re, che, in tutto il
corso dell'opera, ci appare come una pastorella, una ragazza di campagna, che
va a cercare il suo amante per i campi e per le vie della città, e viene
arrestata alle porte di questa dalle guardie, che le rubano il vestito.
2) Io sono bella come le pelli di Salomone è
l'espressione d'una campagnola, che in altro modo direbbe: "Io sono bella
come gli arazzi del re"; e proprio perché in quest'opera si trova il nome
di Salomone, essa non può essere sua. Quale re farebbe un paragone
così ridicolo? "Guardate," dice la donna nel terzo capitolo,
"guardate il re Salomone con il diadema con cui lo ha incoronato la madre
il giorno del suo matrimonio." Chi non riconosce in queste espressioni i
comuni paragoni delle ragazze del popolo quando parlano dei loro amanti? Esse
dicono appunto: "È bello come un principe, ha l'aria di un re
ecc."
3) È vero che la pastora che vien fatta parlare in questo
cantico amoroso dice d'essere abbronzata dal sole, che è
"bruna". Ma se fosse stata la figlia del re d'Egitto, non sarebbe stata
tanto scura di carnagione. Le fanciulle di elevata condizione, in Egitto, erano
bianche. Cleopatra lo era; insomma, costei non poteva essere a un tempo
campagnola e regina.
Può darsi che un re, che possedeva mille donne, abbia detto
ad una di esse: "Baciami con un bacio della tua bocca, perché le tue
mammelle sono migliori del vino." Un re e un pastore, quando si tratta di
baci sulla bocca, possono esprimersi allo stesso modo. È vero che
è abbastanza strano che si sia sostenuto che era la donna a parlare, in
quel passo; che fosse lei a far l'elogio delle mammelle del suo amante.
Non negherò nemmeno che un re galante abbia potuto far dire
alla sua amante: "Il mio amato è come un mazzolino di mirra, esso
giacerà tra le mie mammelle." Io non capisco bene che cosa sia un
mazzolino di mirra; ma se una donna dice al suo amante di posarle la mano
sinistra sul collo e di abbracciarla con la destra, lo capisco benissimo.
Si potrebbe chiedere qualche spiegazione all'autore del Cantico,
quando dice: "Il tuo ombelico è come una coppa in cui c'è
sempre qualcosa da bere; il tuo ventre è come un moggio di frumento; le
tue mammelle sono come due cerbiatti e il tuo naso è come la torre del
monte Libano."
È certo che le Egloghe di Virgilio sono scritte in ben
altro stile; ma ciascuno ha il suo, e un ebreo non è obbligato a
scrivere come Virgilio.
È apparentemente un bel tratto di eloquenza orientale dire:
"Nostra sorella è ancora bambina, non ha ancora le mammelle. Che
faremo di nostra sorella? Se è un muro, costruiamoci sopra; se è
una porta, chiudiamola."
Può pur darsi che Salomone, il più saggio degli
uomini, parlasse così quand'era brillo, ma molti rabbini hanno sostenuto
non solo che questa piccola egloga voluttuosa non fu scritta da lui, ma che
essa non era autentica. Teodoro di Mopsuestia era di tale opinione; e il
celebre Grozio chiama il Cantico dei Cantici uno scritto libertino, flagitiosus.
Eppure, è un libro consacrato, considerato un'allegoria perpetua del
matrimonio di Gesù Cristo con la sua Chiesa. Bisogna riconoscere che
l'allegoria è un po' pesante, e che non si capisce cosa potrebbe
intendere la Chiesa quando l'autore dice che sua sorellina non ha ancora le
mammelle.
Ad ogni modo, questo Cantico è un monumento prezioso
dell'antichità: è il solo libro d'amore che ci sia restato degli
ebrei. È vero che è una rapsodia insensata, ma c'è molta
voluttà. Non vi si parla che di baci sulla bocca, di mammelle che sono
più inebrianti del vino, di gote che sono del colore delle tortore. Vi
si parla spesso di godimento. È un'egloga ebraica. Lo stile è
come quello di tutte le opere d'eloquenza degli ebrei, sconnesso, senza
coerenza, pieno di ripetizioni, confuso, ridicolmente metaforico; ma vi sono
passi che esprimono assai bene l'ingenuità e l'amore.
Il Libro della Saggezza ha un tono più serio; ma non
è di Salomone più del Cantico dei Cantici. Viene
comunemente attribuito a un Gesù, figlio di Sirac; e da altri a Filone
di Biblo; ma, qualunque ne sia l'autore, si direbbe che ai suoi tempi non fosse
ancora stato scritto il Pentateuco, perché esso dice, al capitolo X, che
Abramo volle immolare Isacco al tempo del diluvio; e, in un altro passo, parla
del patriarca Giuseppe come di un re d'Egitto.
Quanto all'Ecclesiaste, di cui abbiamo già parlato,
Grozio afferma che fu scritto ai tempi di Zorobabele. Abbiamo già visto
con quale libertà l'autore dell'Ecclesiaste si sia espresso;
sappiamo come egli abbia detto che gli uomini non sono superiori alle bestie;
che è meglio non essere nati che esistere; che non c'è un'altra
vita; che non c'è niente di buono, se non il godere delle proprie
fatiche assieme alla donna che si ama.
Potrebbe darsi che Salomone avesse tenuto simili discorsi con
qualcuna delle sue donne; si pretende invece che si tratti di obiezioni che
egli fa a se stesso; ma tali massime, che hanno un tono un po'libertino, non
somigliano affatto a obiezioni; e far dire a un autore il contrario di quel che
dice significa burlarsi dei lettori.
Del resto, molti Padri della Chiesa sostennero che Salomone fece
poi penitenza; così lo si può perdonare.
È assai probabile che Salomone fosse ricco e sapiente per
il suo tempo ed il suo popolo. L'esagerazione, compagna inseparabile della
rozzezza, gli attribuì ricchezze che non avrebbe potuto possedere e
libri che non avrebbe potuto scrivere. Il rispetto per l'antichità
consacrò poi questi errori.
Ma il fatto che questi libri siano stati scritti da un ebreo, che
c'importa? La nostra religione cristiana è fondata su quella ebraica, ma
non su tutti i libri scritti dai giudei.
Perché il Cantico dei Cantici dovrebbe essere per noi
più sacro delle favole del Talmud? Perché - si dice - noi
l'abbiamo incluso nel canone dei libri ebraici. E che cos'è questo
canone? Una raccolta di opere autentiche. E con ciò? Un'opera, perché
è autentica, è anche divina? Una storia dei regoli di Giuda e di
Sichem, per esempio, è forse qualcos'altro che una storia? Ecco uno
strano pregiudizio. Noi abbiamo in orrore gli ebrei, eppure pretendiamo che
tutto quanto fu scritto da loro e raccolto da noi rechi l'impronta di Dio. Non
ci fu mai più grande contraddizione.
Le ostriche hanno, si dice, due soli sensi; le talpe, quattro; gli
altri animali, come gli uomini, cinque. Certuni ne ammettono un sesto, ma
è evidente che la sensazione voluttuosa, di cui vogliono parlare, si
riduce al senso del tatto, e che questi cinque sensi dunque sono quanto ci
occorre. Ci è impossibile immaginarne e desiderarne di più.
Può darsi che in altri mondi altri esseri siano dotati di
sensi di cui noi non abbiamo idea; può darsi che il numero dei sensi
aumenti di globo in globo, e che l'essere dotato di sensi innumerevoli e
perfetti sia il termine perfetto di tutti gli esseri.
Ma noi, con i nostri soli cinque organi di senso, che potere
abbiamo? Noi sentiamo sempre nostro malgrado, e mai perché lo vogliamo; quando
un oggetto ci colpisce, ci è impossibile non provare la sensazione
destinataci dalla natura. La sensazione è in noi, ma non dipende da noi:
noi la riceviamo; e come la riceviamo? È abbastanza noto che non
c'è alcun rapporto fra l'aria che vibra e certe parole che sento cantare
e l'impressione che esse suscitano nel mio cervello.
Noi restiamo stupiti dinanzi al fenomeno del pensiero; ma il
sentire è altrettanto meraviglioso. Nella sensazione dell'ultimo degli
insetti, come nel cervello di Newton, si manifesta un potere divino. Tuttavia,
se mille animali muoiono sotto i vostri occhi, voi non vi inquietate affatto di
sapere che fine farà la loro facoltà di sentire, sebbene tale
facoltà sia opera dell'Essere degli esseri: voi considerate quegli
animali come macchine della natura, nate per morire e far posto ad altre.
Perché e come il loro sentire potrebbe sussistere, quand'essi non
esistono più? Che bisogno avrebbe l'autore di tutto quanto esiste di
conservare proprietà di cui è distrutto il soggetto? Tanto
varrebbe dire che la facoltà della pianta detta "sensitiva",
di ritirare le foglie verso i suoi rami, sussiste ancora quando la pianta
è morta. Mi domanderete come mai, se la sensazione dell'animale muore
con lui, il pensiero dell'uomo non morrà. Io non posso rispondere a
questo problema, non ne so abbastanza per risolverlo. Solo l'autore eterno
della sensazione del pensiero sa in qual modo ci dà l'una e l'altro e in
qual modo li conserva.
Tutta l'antichità sostenne che niente è nel nostro
intelletto che non sia stato prima nei sensi. Descartes, nei suoi romanzi,
pretese che noi possedessimo idee metafisiche prima ancora di conoscere le
mammelle della nostra nutrice; una facoltà di teologia proscrisse questa
tesi, non perché fosse un errore, ma perché era una novità; in seguito,
adottò quest'errore per il fatto che era stato demolito da Locke,
filosofo inglese, e bisognava pure che un inglese avesse torto. Finalmente,
dopo avere tanto spesso cambiato parere, essa tornò a proscrivere
quell'antica verità, che i sensi sono le porte dell'intelletto. Fece
come i governi oberati di debiti, che ora danno corso a certi biglietti, ora li
svalutano: ma già da un pezzo nessuno vuole più biglietti del
genere.
Tutte le università del mondo non impediranno mai ai
filosofi di credere che noi cominciamo col sentire e che la nostra memoria non
è altro che una sensazione continuata. Un uomo che nascesse privo dei
suoi cinque sensi sarebbe privo di qualsiasi idea, se potesse vivere. Le nozioni
metafisiche ci arrivano solo dai sensi: come potremmo misurare un cerchio o un
triangolo, se non avessimo mai visto e toccato cerchi e triangoli? Come farsi
un'idea imperfetta dell'infinito, se non allontanando ogni limite? E come
togliere dei limiti, senza averne mai visti o sentiti?
La sensazione avvolge tutte le nostre facoltà, disse un
gran filosofo.
Che concludere da tutto questo? Concludete voi, che leggete e
pensate.
I greci avevano inventato la facoltà
$øõ÷Þ$ per la sensazione, e la facoltà
$íï(tm)ò$ per il pensiero. Disgraziatamente noi ignoriamo cosa
siano queste due facoltà: le possediamo, ma la loro origine è
sconosciuta a noi quanto alle ostriche, alle alghe,ai polipi, ai vermi e alle
piante. Per quale misterioso meccanismo il sentire ci invade tutto il corpo, e
il pensiero soltanto la testa? Se vi tagliano la testa, non è probabile
che possiate risolvere un problema di geometria: eppure, la vostra ghiandola
pineale, il vostro corpo calloso, nel quale alloggiate l'anima, continuano a
sussistere a lungo senza alterazioni; e la vostra testa tagliata è
talmente piena di spiriti vitali, che spesso si muove pur dopo essere stata
separata dal tronco: sembra anzi che essa abbia in quel momento idee molto
chiare, e che somigli alla testa d'Orfeo che, quando la gettarono nelle acque
dell'Ebro, emanava ancora musica, cantando di Euridice.
Se voi non pensate più, appena vi han tagliato la testa,
come mai il vostro cuore continua a pulsare, se vi viene strappato via?
Voi - dite - sentite, perché tutti i nervi hanno la loro origine
nel cervello; eppure, se vi hanno trapanato il cranio e bruciato il cervello,
non sentite più niente. Chi conosce le ragioni di tutto ciò
è bravo davvero.
Si trova, qualche volta, in certi detti popolari, un'immagine che
riflette quel che avviene in fondo al cuore di tutti gli uomini. Presso i
romani, sensus communis significava non solo senso comune, ma
umanità, sensibilità. Poiché noi valiamo meno dei romani, questa
locuzione significa per noi solo la metà di quel che significava per
loro: per noi significa buonsenso, ragione grossolana, ragione incipiente,
prima nozione delle cose ordinarie, stato intermedio fra la stupidità e
l'intelligenza. "Quell'uomo non ha senso comune", è una grossa
ingiuria. "Quell'uomo ha senso comune" è ugualmente
un'ingiuria: perché significa che non è del tutto stupido, ma nemmeno
dotato di ciò che chiamiamo ingegno. Ma da dove deriva l'espressione
"senso comune" se non dai sensi? Quando la inventarono, gli uomini
credevano che nulla penetrasse nell'anima se non attraverso i sensi;
altrimenti, avrebbero usato la parola "senso" per indicare il modo
comune di ragionare?
Si dice talvolta: "Il senso comune è molto raro."
Che significa questa frase? Che in molti uomini la ragione incipiente viene
impedita a svilupparsi da qualche pregiudizio; che il tal uomo, che giudica del
tutto rettamente in una materia, s'ingannerà sempre grossolanamente in
un'altra. Quell'arabo, che pur sarà un ottimo calcolatore, un dotto
chimico, un astronomo esatto, crederà tuttavia che Maometto abbia
infilato mezza luna nella sua manica.
Perché costui, che ha superato il senso comune nelle tre scienze
di cui parlo, resta invece al di sotto di esso quando si tratta di quella mezza
luna? Perché nei primi casi egli ha veduto con i propri occhi e ha perfezionato
la propria intelligenza; e nel secondo ha veduto con gli occhi altrui, ha
chiuso i propri, e pervertito il senso comune che è in lui.
Come può avvenire questo singolare pervertimento del
giudizio? E come mai le idee, che procedono con passo tanto fermo e regolare
nel suo cervello su un gran numero d'argomenti, possono zoppicare così
miseramente a proposito di un altro argomento mille volte più tangibile
e facile da comprendere? Quell'uomo ha sempre in sé i medesimi principi d'intelligenza:
bisogna dunque che ci sia in lui qualche organo viziato, come accade talvolta
che il ghiottone più raffinato abbia un gusto depravato per qualche
specie particolare di cibo.
E in qual modo s'è viziato l'organo di quell'arabo, che
vede metà della luna nella manica di Maometto? Per paura. Gli han detto
che se non credeva a quella manica, la sua anima, immediatamente dopo la morte,
passando sul ponte aguzzo, sarebbe caduta per sempre nell'abisso. E gli hanno
detto, anche di peggio: "Se mai tu dubitassi di quella manica, un
derviscio ti tratterà da empio; un altro ti dimostrerà che sei un
insensato, perché avendo tutti i motivi possibili per credere, non hai voluto
sottomettere la tua superba ragione all'evidenza; un terzo ti deferirà
al piccolo Divano di una piccola provincia, e sarai legalmente impalato."
Tutto questo ispira un terrore panico al buon arabo, a sua moglie,
a sua sorella, a tutta la sua famigliola. Per il resto sono dotati di buon
senso; ma su questo punto la loro immaginazione è malata, come quella di
Pascal, che vedeva sempre un precipizio accanto alla sua poltrona. Ma il nostro
arabo crede veramente alla manica di Maometto? No: ma si sforza di credere, e
dice: "È una cosa impossibile, ma è vera; io credo a quel
che non credo." E così si ficca in testa, a proposito di quella
manica, un caos di idee che non osa sbrogliare: e questo, in verità,
significa non avere senso comune.
Ogni setta, di qualunque genere sia, è l'insieme del dubbio
e dell'errore. Scotisti, tomisti, realisti, nominalisti, papisti, calvinisti,
molinisti, giansenisti, non sono che nomi di guerra.
Non ci sono sette in geometria: non si dice "un
euclidiano", o "un archimediano".
Quando la verità è evidente, è impossibile che
sorgano partiti e fazioni. Mai s'è disputato se a mezzogiorno sia giorno
o notte.
Essendo ormai conosciuta la parte dell'astronomia che si riferisce
al corso degli astri e al ritorno delle eclissi, non ci sono più dispute
fra gli astronomi.
In Inghilterra, non si dice mai: "Io sono newtoniano, io sono
lockiano, io sono halleyano". Perché? Perché chiunque li abbia studiati,
non può rifiutare il suo consenso alle verità insegnate da questi
tre grandi uomini. Più vien riverito Newton, e meno ci si dice newtoniani:
parola, questa, che potrebbe far supporre che ci sono in Inghilterra degli
antinewtoniani. Noi, in Francia, abbiamo forse ancora alcuni cartesiani, ma
unicamente perché il sistema di Descartes è un tessuto di fantasie
erronee.
Lo stesso accade per quel piccolo numero di verità di fatto
che sono ben assodate. Poiché gli atti della Torre di Londra furono
scrupolosamente raccolti da Rymer, non esistono rymeriani, perché nessuno pensa
a dubitare dell'autenticità di quella raccolta. Non vi si trovano né
contraddizioni, né assurdità, né prodigi: niente che offenda la ragione;
niente, quindi, che dei settari possano sforzarsi di sostenere o di confutare
con ragionamenti assurdi. Tutti sono d'accordo, dunque, che gli Atti di
Rymer sono degni di fede.
Voi siete musulmano; dunque c'è gente che non lo è;
dunque, potreste aver torto.
Quale sarebbe la vera religione, se non esistesse il
cristianesimo? Quella in cui non ci fossero sette e in cui tutti gli animi
fossero necessariamente d'accordo.
Ora, in quale dogma gli animi si son tutti accordati?
Nell'adorazione di un Dio e nella probità. Tutti i filosofi del mondo
che han creduto in una religione dissero, in tutti i tempi: "C'è un
Dio, e bisogna essere giusti." Ecco, dunque, stabilita la religione
universale da sempre e per sempre e per tutti gli uomini.
Il punto nel quale tutti si accordano è dunque vero; e i
sistemi in cui differiscono sono falsi.
"La mia setta è la migliore di tutte," mi dice un
bramino. Ma, amico mio, se la tua setta è buona, è necessaria; perché,
se non fosse assolutamente necessaria, convieni con me che sarebbe inutile; se
è assolutamente necessaria, è tale per tutti gli uomini: come va,
allora, che non tutti gli uomini hanno ciò che è loro
assolutamente necessario? Perché il resto della terra non si cura di te e del
tuo Brahma?
Quando Zoroastro, Ermes, Orfeo, Minosse e tutti i grandissimi
uomini dicono: "Adoriamo Dio e siamo giusti," nessuno ride; ma tutti
prendono a fischi chi pretende che non si può piacere a Dio se non si
muore tenendo in mano una coda di vacca, se non ci si fa tagliare
l'estremità del prepuzio, se non si consacrano coccodrilli e cipolle, se
non si fa dipendere la salvezza eterna da certi ossicini di morti che si
portano sotto la camicia, oppure da un'indulgenza plenaria che si compera a
Roma per due soldi e mezzo.
Donde viene questo universale concorso di fischi e di risate che
esplodono da un capo all'altro del mondo? Bisogna pure che le cose di cui il
mondo si burla non brillino per una loro verità evidente. Che ne diremmo
di quel segretario di Seiano, che dedicò a Petronio uno scritto
ampolloso, intitolato: "La verità degli oracoli sibillini provata
dai fatti"?
Quel segretario vi mostra anzitutto che era necessario che Dio
inviasse sulla terra parecchie Sibille, l'una dopo l'altra, perché non aveva
altri mezzi per istruire gli uomini. È dimostrato che Dio parlava a
queste sibille, perché la parola "sibilla" significa "consiglio
di Dio". Esse dovevano vivere a lungo, perché le persone cui Dio parla
devono avere almeno tale privilegio. Furono in numero di dodici, perché questo
numero è sacro. Avevano certamente predetto tutti gli eventi del mondo,
perché Tarquinio il Superbo acquistò da una vecchietta, per cento scudi,
tre dei loro libri. "Quale incredulo," aggiunge il segretario,
"oserà negare tutti questi fatti evidenti, accaduti al cospetto di
tutti gli uomini? Chi potrà negare il compimento delle loro profezie? Lo
stesso Virgilio non ne citò le predizioni? E se non possediamo
più i primi esemplari dei libri sibillini, scritti in un tempo in cui
non si sapeva né leggere, né scrivere, non ne abbiamo forse copie autentiche?
L'empietà deve tacere, davanti a queste prove." Così parlava
Huttevillus a Seiano. Sperava così d'essere compensato con un posto di
augure che gli fruttasse cinquantamila lire di rendita. Ma non ne ebbe nemmeno
una lira.
"Quel che insegna la mia setta è oscuro, lo
ammetto," dice un fanatico. "Ma è proprio a causa di questa
oscurità che bisogna credervi, perché essa stessa afferma di essere
piena di oscurità. La mia setta è stravagante, dunque è
divina: infatti, come mai quello che sembra così insensato sarebbe stato
creduto da tanti popoli, se non contenesse in sé alcunché di divino? È
proprio esattamente come il Corano, di cui i sunniti dicono che ha una
faccia d'angelo e una di bestia; non scandalizzatevi del muso della bestia, e
riverite la faccia dell'angelo." Così parla questo insensato. Ma un
fanatico di un'altra setta gli risponde: "Sei tu la bestia, e l'angelo
sono io."
Chi potrà giudicare un processo simile? Chi deciderà
tra questi due energumeni? L'uomo ragionevole, imparziale, sapiente di una
scienza che non sia puramente verbale; l'uomo libero da pregiudizi e amante
della verità e della giustizia; l'uomo, insomma, che non è una
bestia, e non crede di essere un angelo.
Somnia, quae ludunt animos volitantibus umbris,
Non delubra deum nec ab aethere numina mittunt,
Sed sua quisque facit.
Ma perché, quando tutti i vostri sensi sono spenti nel sonno, ce
n'è uno interno che resta vivo? Perché, mentre i vostri occhi non vedono
più e le vostre orecchie non odono niente, tuttavia nei vostri sogni
vedete e udite? Il cane, in sogno, va a caccia: abbaia, insegue la sua preda,
la divora. Il poeta crea versi dormendo, il matematico vede figure, il metafisico
ragiona, bene o male: ne abbiamo esempi stupefacenti.
Sono forse i soli organi della macchina corporea che agiscono?
È l'anima pura, che, sottratta all'imperio dei sensi, gode dei suoi
diritti in piena libertà?
Se gli organi da soli producono i sogni della notte, perché non
produrranno da soli le idee del giorno? Se l'anima pura, tranquilla per il
riposo dei sensi, agendo da sé, è l'unica causa, l'unico soggetto di
tutte le idee che vi vengono dormendo, perché tutte quelle idee sono quasi
sempre irregolari, irrazionali, incoerenti? Come! proprio nei momenti in cui
l'anima è meno turbata, c'è maggior turbamento in tutte le sue
fantasie? Essa è in libertà, ed è pazza! Se fosse nata con
idee metafisiche, come han confermato tanti scrittori che sognavano ad occhi
aperti, le sue idee, pure e luminose, dell'essere, dell'infinito, di tutti i
primi principi, dovrebbero ridestarsi in lei con la massima energia, quando il
suo corpo giace addormentato; e mai si sarebbe tanto buoni filosofi come quando
si sogna.
Qualunque sistema abbracciate, qualunque vano sforzo compiate per
provare a voi stessi che la memoria sommuove il vostro cervello e che questo
sommuove la vostra anima, dovete riconoscere che tutte le vostre idee vi
vengono nel sonno senza il vostro consenso, anzi vostro malgrado; la vostra
volontà non vi ha nessuna parte. È dunque certo che potete
pensare per sette o otto ore senza avere la minima volontà di pensare:
anzi, senza nemmeno esser sicuri di pensare. Riflettete su questo, e cercate
d'indovinare quale sia la composizione dell'animale.
I sogni sono sempre stati un grande oggetto di superstizione:
niente di più naturale. Un uomo, vivamente turbato per la malattia della
sua amante, sogna di vederla moribonda; essa muore l'indomani: gli dei, dunque,
gli han predetto la sua morte.
Un generale d'armata sogna di vincere una battaglia, e in effetti
la vince: gli dei l'hanno avvertito che avrebbe vinto.
Si tiene conto solo dei sogni che si sono avverati; gli altri li
dimentichiamo. I sogni hanno una grossa parte nella storia antica, così
come gli oracoli.
La Vulgata traduce così la fine del versetto 26 del
capitolo XIX del Levitico: "Non darete peso ai sogni." Ma la
parola "sogno" non è nel testo ebraico: e sarebbe strano che si
condannasse l'osservazione dei sogni nel medesimo libro in cui si narra che
Giuseppe diventò il benefattore dell'Egitto e della sua famiglia per
avere spiegato tre sogni.
L'interpretazione dei sogni era cosa tanto comune che non ci si
limitava ad essa: bisognava anche indovinare ciò che un altr'uomo aveva
sognato. Nabucodonosor, avendo dimenticato un sogno che aveva fatto,
ordinò ai suoi maghi d'indovinarlo, minacciandoli di morte se non ci
fossero riusciti; ma l'ebreo Daniele, che era della scuola dei maghi,
salvò loro la vita indovinando il sogno del re e interpretandolo. Questa
storia e molte altre potrebbero servire a provare che la legge degli ebrei non
vietava l'oniromanzia, che è la scienza dei sogni.
Fino ad oggi non ho conosciuto persona che non abbia governato
qualche Stato. Non parlo dei signori ministri, che governano in effetto, chi
per due o tre anni, chi per sei mesi e chi per sei settimane; parlo di tutti
gli altri uomini che, a cena o nel loro gabinetto, espongono il loro sistema di
governo, riformando gli eserciti, la Chiesa, la magistratura e le finanze.
L'abate di Bourzeis si mise a governare la Francia verso l'anno
1645, sotto il nome del cardinale di Richelieu e scrisse quel Testamento politico,
nel quale vuole arruolare la nobiltà nella cavalleria per tre anni; far
pagare la taglia alle camere dei conti e ai parlamenti, privare il re dei
proventi della gabella; e afferma in particolare che, per entrare in guerra con
cinquantamila uomini, bisogna, per economia, arruolarne centomila; dichiara che
"la sola Provenza ha molti più porti di mare della Spagna e
dell'Italia messe assieme".
L'abate di Bourzeis non aveva viaggiato. Del resto la sua opera
pullula di anacronismi e di errori: fa firmare il cardinale di Richelieu in una
maniera che egli non usò mai, lo fa parlare come mai parlò. Per
di più, impiega un intero capitolo per dire che "la ragione deve
essere la regola di uno Stato" e sforzandosi di provare tale scoperta.
Quest'opera delle tenebre, questo bastardo dell'abate di Bourzeis passò
a lungo per il figlio legittimo del cardinale di Richelieu; e tutti gli
accademici, nei loro discorsi di recezione, non mancavano di lodare a dismisura
questo capolavoro di politica.
Messer Gatien de Courtilz, visto il successo del Testamento
politico di Richelieu, fece stampare all'Aja il Testamento di
Colbert, con una bella lettera del signor Colbert al re. È chiaro che se
questo ministro avesse scritto un simile testamento, si sarebbe dovuto
interdirlo; tuttavia, questo libro è stato citato da qualche autore. Un
altro furfante, di cui si ignora il nome, non mancò di darci il Testamento
di Louvois, ancora peggiore, se possibile, di quello di Colbert; e un abate
di Chevremont fece testare anche Carlo, duca di Lorena. Abbiamo poi avuto i
testamenti politici del cardinale Alberoni, del maresciallo di Belle-Isle, e
infine quello di Mandrin.
Il signor de Boisguillebert, autore di Le Détail de la France,
stampato nel 1695, sotto il nome del maresciallo di Vauban, presentò il
suo ineseguibile progetto della decima regale.
Un pazzo, di nome La Jonchère, povero in canna, compose,
nel 1720, un progetto finanziario in quattro volumi; e certi stupidi hanno
citato questa produzione come un'opera di La Jonchère, tesoriere generale,
sicuri che un tesoriere non potrà mai scrivere un cattivo libro di
finanze.
Ma bisogna ammettere che uomini molto saggi, e forse molto degni
di governare, scrissero sull'amministrazione degli Stati, sia in Francia, sia
in Spagna, sia in Inghilterra. I loro libri fecero un gran bene: non che,
quando quei libri uscirono, abbiano corretto i ministri in carica, perché un
ministro non si corregge e non può correggersi: ormai sta in alto,
niente più istruzioni né consigli; non ha tempo d'ascoltarli, la corrente
degli affari lo travolge. Ma quei buoni libri formano i giovani destinati alle
cariche; formano i principi, e la seconda generazione è istruita.
Il buono e il cattivo di tutti i governi sono stati esaminati
profondamente in questi ultimi tempi. Ditemi dunque, voi che avete viaggiato,
che avete letto e veduto, in quale Stato, sotto quale specie di governo
vorreste essere nato? È chiaro che un gran signore terriero francese non
sarebbe scontento d'essere nato in Germania: sarebbe sovrano, invece d'essere
suddito; e che un pari di Francia sarebbe molto lieto di godere i privilegi
della parìa inglese: sarebbe legislatore.
Il magistrato e il finanziere si troverebbero meglio in Francia
che altrove.
Ma quale patria sceglierebbe un uomo saggio, libero, dotato di non
larghi mezzi, e senza pregiudizi?
Un membro del consiglio di Pondichéry, abbastanza colto, ritornava
in Europa per via di terra con un bramino, più istruito dei comuni
bramini. "Come trovate il Governo del Gran Mogol?" chiese il
consigliere. "Abominevole," rispose il bramino. "Come volete che
uno Stato possa essere ben governato dai tartari? I nostri ragià, i
nostri omra, i nostri nababbi ne sono molto contenti, ma i cittadini non lo
sono affatto, e milioni di cittadini contano qualcosa."
Il consigliere e il bramino attraversarono ragionando tutta l'Asia
superiore. "Avete osservato?" disse il bramino. "In questa vasta
parte del mondo non c'è neppure una repubblica." "C'è
stata una volta quella di Tiro," disse il consigliere, "ma non
è durata a lungo. Ce n'era anche un'altra verso l'Arabia Petrea, in un
piccolo paese chiamato Palestina, se si può onorare col nome di
repubblica un'orda di ladri e usurai, governata ora da giudici, ora da re, ora
da sommi pontefici, divenuta schiava sette o otto volte e infine cacciata dal
paese che aveva usurpato."
"Capisco," disse il bramino, "che sulla terra si
trovino pochissime repubbliche. Gli uomini sono ben di rado degni di governarsi
da soli. Questa fortuna non può toccare che a piccoli popoli che si
nascondono in isole o tra le montagne, come dei conigli che stanno alla larga
dagli animali carnivori; ma alla lunga vengono scoperti e divorati."
Quando i due viaggiatori arrivarono nell'Asia Minore, il
consigliere disse al bramino: "Credereste mai che ci fu una repubblica,
fondata in un angolo dell'Italia, che durò più di cinquecento
anni e che fu padrona di quest'Asia Minore, dell'Asia, dell'Africa, e ancora
della Grecia, delle Gallie, della Spagna e di tutta l'Italia?"
"Dunque ben presto si trasformò in monarchia?" disse il
bramino. "Avete indovinato," disse l'altro, "ma quella monarchia
crollò, e noi facciamo tutti i giorni belle dissertazioni per scoprire
le cause della sua decadenza e della sua caduta." "Perdete tempo e
basta," disse l'indiano: "quell'impero è caduto perché
esisteva. Bisogna pure che tutto cada; spero che capiti altrettanto all'impero
del Gran Mogol." "A proposito," disse l'europeo, "credete
anche voi che in uno Stato dispotico importi più l'onore e, in una
repubblica, la virtù?" L'indiano, dopo essersi fatto spiegare
dall'altro che cosa intendesse per onore, rispose che l'onore era più
necessario in una repubblica, e che c'era maggior bisogno di virtù in
uno Stato monarchico. "Perché," disse, "un uomo che pretende d'essere
eletto dal popolo, non lo sarà, se è disonorato; invece a corte
potrà facilmente ottenere qualche carica, secondo la massima di un
grande principe, che un cortigiano, per riuscire, non deve avere né onore né
spirito. Quanto alla virtù, a corte occorre possederne a dismisura per osar
dire la verità. L'uomo virtuoso vive molto più a suo agio in una
repubblica: non deve adulare nessuno."
"Credete" disse l'europeo, "che le leggi e le
religioni debbano adattarsi ai vari climi, come a Mosca si portano pellicce e
veli a Delhi?" "Sì, senza dubbio," rispose il bramino;
"tutte le leggi che concernono la fisica sono calcolate in rapporto al
meridiano in cui si abita; a un tedesco basta una sola donna, e a un persiano
ne occorrono tre o quattro. I riti religiosi sono della stessa natura: se fossi
cristiano, come potrei dir messa al mio paese, dove non c'è né pane né
vino? Per quel che riguarda i dogmi, è diverso: il clima non c'entra
affatto. La vostra religione non è forse nata in Asia, da dove venne
cacciata? Non si è propagata fin verso il mar Baltico, dove era
ignota?" "In quale Stato, sotto quale governo vorreste vivere?"
chiese il consigliere. "Dappertutto, fuorché nel mio paese," rispose
il suo compagno. "E ho trovato molti siamesi, tonchinesi, persiani e turchi,
che dicevano la stessa cosa." "Ma ancora una volta," disse
l'europeo, "quale Stato scegliereste?" "Quello nel quale si
obbedisce solo alle leggi," rispose il bramino. "È una vecchia
risposta," disse il consigliere. "Ma pur sempre giusta," disse
il bramino. "E dov'è mai questo paese?" chiese il consigliere.
Il bramino rispose: "Bisogna cercarlo."
Tutti i popoli scrissero la loro storia, non appena impararono a
scrivere. Anche gli ebrei scrissero la loro. Prima che avessero dei re,
vivevano sotto una teocrazia; presumevano d'essere governati da Dio stesso.
Quando gli ebrei vollero avere un re, come gli altri popoli
vicini, il profeta Samuele dichiarò loro, da parte di Dio, che essi
ripudiavano Dio stesso; così tra gli ebrei la teocrazia ebbe fine non
appena ebbe inizio la monarchia.
Si potrebbe dunque dire senza bestemmiare che la storia dei re
ebrei fu scritta come quella degli altri popoli e che Dio non si dette la pena
di dettare lui stesso la storia di un popolo che non governava più.
Si sostiene questa teoria con estrema diffidenza. Ciò che
potrebbe confermarla è il fatto che i Paralipomeni contraddicono
spessissimo il Libro dei Re, nella cronologia e nei fatti, come talvolta
si contraddicono i nostri storici profani. Inoltre, se Dio scrisse sempre la
storia degli ebrei, bisogna credere che Egli continui a scriverla, dato che gli
ebrei sono sempre il suo popolo eletto. Essi dovranno convertirsi un giorno, e
sembra che allora avranno anche il diritto di considerare come sacra la storia
della loro dispersione, così come oggi hanno il diritto di dire che Dio
scrisse la storia dei loro re.
Si può fare anche un'altra riflessione: poiché Dio fu il
loro solo re per tanto tempo, e fu in seguito il loro storico, noi dobbiamo
avere per tutti gli ebrei il rispetto più profondo.
Non c'è rigattiere ebreo che non sia infinitamente
superiore a Cesare e ad Alessandro. Come non prosternarsi davanti a un
rigattiere il quale vi dimostra che la sua storia fu scritta da Dio stesso,
mentre le storie dei greci e dei romani ci vennero trasmesse da poveri profani?
Se lo stile del Libro dei re e dei Paralipomeni è
divino, può anche darsi che le azioni raccontate in quelle storie non
siano divine: David assassina Uria; Isboset e Mifiboset muoiono assassinati; Assalonne
assassina Amnone; Joab assassina Assalonne; Salomone assassina Adonia, suo
fratello; Baasa assassina Nadab; Zimri assassina Ela; Omri assassina Zimri;
Achab assassina Naboth; Jehv assassina Achab e Joram; gli abitanti di
Gerusalemme assassinano Amasia, figlio di Joas; Sellum, figlio di Jabesh,
assassina Zaccaria, figlio di Geroboamo; Menahem assassina Sellum, figlio di
Jabesh; Facee, figlio di Romelia, assassina Faceia, figlio di Menahem; Osea,
figlio di Ela, assassina Facee, figlio di Romelia. E passiamo sotto silenzio
altri assassinii di minor conto. Bisogna riconoscere che, se fu lo Spirito
Santo a scrivere questa storia, non scelse certo un argomento molto edificante.
I
Capitolo tratto da Cicerone, da Seneca e da Plutarco
Quasi tutto quello che va oltre l'adorazione di un Essere supremo
e la sottomissione del cuore ai suoi ordini eterni è superstizione. Ce
n'è una pericolosissima: il perdono dei crimini dovuto a certe
cerimonie.
Et nigras mactant pecudes,
et manibus divis
Inferias mittunt.
Oh! faciles nimium qui tristia crimina caedis
Fluminea tolli posse putatis aqua!
Voi pensate che Dio dimenticherà il vostro omicidio, se vi
bagnate in un fiume, se immolate una pecora nera, e se vengono pronunziate su
voi certe parole. Un secondo omicidio ci sarà dunque perdonato per lo
stesso prezzo, e anche un terzo; e cento assassinii non vi costeranno che cento
pecore nere e cento abluzioni! Fate qualcosa di meglio, miserabili mortali:
niente assassinii e niente pecore nere!
Che idea infame immaginare che un sacerdote di Iside e di Cibele,
suonando cembali e nacchere, vi riconcilierà con la Divinità! E
chi è mai dunque questo sacerdote di Cibele, questo eunuco vagabondo che
vive delle vostre debolezze, per pretendere di essere il mediatore fra il cielo
e voi? Quali patenti ha ricevuto da Dio? Egli riceve del denaro da voi per
borbottare certe parole, e voi pensate che l'Essere degli esseri ratifichi le
parole di quel ciarlatano?
Ci sono superstizioni innocenti: voi danzate, nei giorni di festa,
in onore di Diana o di Pomona o di qualcuno di quegl'iddii secondari di cui
è pieno il vostro calendario: niente di male. La danza è assai
dilettevole, fa bene al corpo, rallegra l'animo, non fa male a nessuno; ma non
crediate che Pomona e Vertumno vi siano molto grati per aver fatto quattro
salti in onor loro, o che vi puniscano se non li avete fatti. Non c'è
altra Pomona o altro Vertumno che la vanga o la zappa dell'ortolano. Non siate
tanto stupidi da credere che il vostro orto sarà colpito dalla grandine
se non avrete danzato la pirrica o il cordace.
C'è forse una superstizione scusabile e che può anzi
incoraggiare la virtù: quella di porre fra gli dei i grandi uomini che
furono i benefattori del genere umano. Senza dubbio, sarebbe meglio limitarsi a
considerarli semplicemente come uomini venerabili, e, soprattutto, cercare di
imitarli. Venerate senza culto alcuno un Solone, un Talete, un Pitagora; ma non
adorate un Ercole perché pulì le stalle di Augia o perché possedette in
una sola notte cinquanta ragazze.
Guardatevi soprattutto dallo stabilire un culto per degli
esaltati, che non ebbero altro merito che l'ignoranza, l'entusiasmo e la
sozzura; che si fecero un vanto e un dovere dell'ozio e della mendicità;
coloro che furono per lo meno inutili, durante la loro vita, meritano
l'apoteosi dopo la morte?
Non dimenticate che le età più superstiziose furono
sempre quelle in cui si compirono i più mostruosi delitti.
II
Il superstizioso sta alla canaglia come lo schiavo al tiranno.
C'è di più: il superstizioso è governato dal fanatico, e
diventa tale anche lui. La superstizione, nata nel paganesimo, accolta dal
giudaismo, infettò la Chiesa cristiana sin dai suoi primi tempi. Tutti i
Padri della Chiesa, senza eccezione, credettero al potere della magia. La Chiesa
condannò sempre la magia, ma vi credette sempre: non scomunicò
gli stregoni come pazzi piombati nell'errore, ma come uomini che avevano
realmente commercio con i demoni.
Oggi, metà dell'Europa crede che l'altra metà sia
stata e sia ancora superstiziosa. I protestanti considerano le reliquie, le
indulgenze, le macerazioni, le preghiere per i defunti, l'acqua benedetta e
quasi tutti i riti della Chiesa romana una superstiziosa follia. La
superstizione, secondo loro, consiste nel considerare necessarie certe pratiche
inutili. Tra i cattolici romani, ce ne sono alcuni più illuminati dei
loro avi, che hanno rinunciato a molte di queste usanze un tempo sacre, e si
scusano delle altre, che conservano, dicendo: "Sono cose indifferenti, e
quel che è solo indifferente non può essere un male."
È difficile segnare i limiti della superstizione. Un
francese che viaggi in Italia trova quasi ovunque dei superstiziosi, e forse
non ha torto. L'arcivescovo di Canterbury reputa superstizioso l'arcivescovo di
Parigi; i presbiteriani muovono lo stesso rimprovero all'arcivescovo di
Canterbury, e sono a loro volta trattati da superstiziosi dai quaccheri, che, a
giudizio degli altri cristiani, sono i più superstiziosi di tutti.
Nessuno è d'accordo, dunque, nelle comunità
cristiane, su quel che sia la superstizione. La setta che sembra meno colpita
da questa malattia dello spirito è quella che ha meno riti. Ma se, pur
con poche cerimonie, è fortemente legata a una credenza assurda, questa
credenza equivale, essa sola, a tutte le pratiche superstiziose osservate da
Simone Mago fino al parroco Gauffridi.
Risulta perciò evidente che è l'essenziale della
religione di una setta a venir considerato come superstizione da un'altra
setta.
I musulmani accusano di superstizione tutte le comunità cristiane,
e ne sono a loro volta accusati. Chi giudicherà questo gran processo? La
ragione? Ma ogni setta pretende di avere la ragione dalla propria parte.
Sarà dunque la forza a decidere, nell'attesa che la ragione penetri in
un numero abbastanza grande di teste da poter disarmare la forza.
Per esempio, ci fu un tempo in cui, nell'Europa cristiana, non era
permesso ai novelli sposi di godere dei diritti del matrimonio, senza aver
prima acquistato tale diritto dal vescovo o dal curato.
Chiunque, nel suo testamento, non avesse lasciato parte dei suoi
beni alla Chiesa, veniva scomunicato e privato della sepoltura. Questo si
chiamava "morire non confesso", ossia senza confessare la religione
cristiana. E quando un cristiano moriva intestato, la Chiesa liberava il
defunto da tale scomunica, facendo testamento per lui, stipulando e facendosi
pagare i pii lasciti che il defunto avrebbe dovuto fare. Fu per questo che papa
Gregorio IX e san Luigi ordinarono, dopo il concilio di Narbona del 1235, che
ogni testamento per il quale non si fosse chiamato un prete, sarebbe stato
nullo; e il papa stabilì che il testatore ed il notaio sarebbero stati
scomunicati.
La tassa sui peccati fu ancora, se è possibile, più
scandalosa. Era la forza che dava validità a tutte queste leggi cui si
sottometteva la superstizione dei popoli; e solo col tempo la ragione
riuscì ad abolire queste vergognose vessazioni, pur lasciandone
sussistere parecchie altre.
Fino a qual punto la politica permette che si distrugga la
superstizione? È, questa, una questione assai spinosa, come chiedere
fino a che punto si può toglier acqua a un idropico, che potrebbe morire
durante l'operazione. Dipende dalla prudenza del medico.
Può esistere un popolo libero da qualunque pregiudizio
superstizioso? È come chiedere: "Può esistere un popolo di
filosofi?" Si dice che la magistratura della Cina non sia affatto
superstiziosa. È verosimile che non lo resteranno le magistrature di
alcune città d'Europa.
Allora quei magistrati impediranno che la superstizione del popolo
sia pericolosa. Il loro esempio non servirà a illuminare la plebaglia,
ma i più aperti fra i borghesi la terranno a freno. Non ci fu, un tempo,
un solo tumulto, un solo attentato religioso in cui i borghesi non abbiano
preso parte, perché anch'essi erano allora plebaglia; ma la ragione e i tempi
finirono col cambiarli. E i loro costumi, addolciti, addolciranno quelli della
massa più vile e feroce; ne abbiamo esempi sorprendenti in più
d'un paese. In breve, meno superstizioni, meno fanatismo; e meno fanatismo,
meno sofferenze.
Il teista è un uomo fermamente convinto dell'esistenza di
un Essere supremo tanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri
estesi, vegetanti, senzienti e pensanti; che perpetua la loro specie, punisce
senza crudeltà le colpe e ricompensa con bontà le azioni
virtuose.
Il teista non sa come Dio punisca, ricompensi e perdoni; poiché
non è tanto temerario da lusingarsi di conoscere come Dio agisce; ma sa
che Dio agisce ed è giusto. Le difficoltà contro la Provvidenza non
scuotono affatto la sua fede, perché sono soltanto grandi difficoltà,
non prove; è sottomesso a questa Provvidenza, sebbene ne scorga solo
alcuni effetti e alcune apparenze; e, giudicando le cose che non vede da quelle
che vede, pensa che essa si estenda a tutti i luoghi e a tutti i tempi.
Concorde in questo principio con il resto dell'universo, il teista
non abbraccia alcuna setta, sapendo che tutte si contraddicono. La sua
religione è la più antica e la più diffusa di tutte,
perché la semplice adorazione di un Dio precedette tutti i sistemi del mondo.
Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre essi non si
intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino alla Caienna, e considera
fratelli suoi tutti gli uomini saggi. Egli crede che la religione non consista
né nelle opinioni d'una metafisica inintelligibile, né in vani apparati, ma
nell'adorazione e nella giustizia. Fare il bene, questo il suo culto; essere
sottomesso a Dio, questa la sua dottrina. Il maomettano gli grida: "Guai a
te se non farai il pellegrinaggio alla Mecca!"; e un recolletto gli dice:
"Sventura a te se non vai a Loreto a pregare la Madonna!" Egli ride
di Loreto e della Mecca, ma soccorre il povero e difende l'oppresso.
Ho conosciuto un vero teologo; parlava perfettamente le lingue
dell'Oriente ed era istruito sugli antichi riti delle nazioni quant'è
possibile esserlo. i brahmani, i caldei, gli ignicoli, i sabei, i siriani, gli
egiziani gli erano altrettanto noti che gli ebrei; le diverse lezioni della
Bibbia gli erano familiari; per trent'anni aveva cercato di conciliare i
Vangeli e di mettere d'accordo i Padri della Chiesa. Aveva cercato di precisare
in quali anni fu composto il Simbolo attribuito agli apostoli, e quello che va
sotto il nome di Atanasio; come furono istituiti uno dopo l'altro i sacramenti;
qual era la differenza tra la sinassi e la messa; perché e in che modo la
Chiesa cristiana si divise, dopo la sua nascita, in diversi partiti e come la
comunità dominante trattò tutte le altre da eretiche. Aveva
scandagliato gli abissi della politica che si immischiava sempre in quelle
liti, e aveva distinto tra la politica e la saggezza, fra l'orgoglio che vuole
soggiogare gli animi, e il desiderio di illuminare se stessi, tra lo zelo e il
fanatismo.
La difficoltà di mettere ordine nel proprio cervello in
tante cose la cui natura invece è quella d'essere confuse, e di gettare
un po' di luce su tanto buio, lo disgustò più di una volta; ma
poiché quelle ricerche costituivano il dovere del suo stato, egli vi si impegnò
totalmente, nonostante il disgusto. E raggiunse, infine, conoscenze ignorate
dalla maggior parte dei suoi confratelli. E più crebbe la sua sapienza e
più diffidò di tutto quel che sapeva. Finché visse, fu
indulgente; e alla sua morte confessò di avere consumato inutilmente la
sua vita.
Si chiama "tiranno" quel sovrano che non conosce altre
leggi che il suo capriccio, che ruba gli averi dei suoi sudditi e poi li
arruola per andare a rubare quelli dei suoi vicini. Di tali tiranni, in Europa,
non ce ne sono.
Si distingue la tirannia di uno solo e quella di molti. Questa
tirannia di molti sarebbe quella di un corpo che usurpasse i diritti degli
altri corpi, e che esercitasse il dispotismo per mezzo delle leggi da lui
corrotte. Non esistono nemmeno queste specie di tiranni in Europa.
Sotto quale tirannia preferireste vivere? Sotto nessuna; ma, se
bisognasse scegliere, detesterei meno la tirannia di uno solo che quella di
molti. Un despota ha sempre qualche momento di buonumore; un'assemblea di despoti
non ne ha mai. Se un tiranno mi fa un'ingiustizia, potrò disarmarlo per
mezzo della sua amante, del suo confessore o del suo paggio; ma una compagnia
di cupi tiranni è inaccessibile ad ogni seduzione. Quando non è
ingiusta, è per lo meno dura; e mai concede grazie.
Se vivo sotto un solo despota, me la cavo scansandomi contro un
muro, appena lo vedo passare, o prosternandomi o battendo la fronte in terra,
secondo i costumi dei vari paesi; ma se al governo c'è una compagnia di
cento despoti, sono costretto a ripetere la cerimonia cento volte al giorno, il
che alla lunga è assai noioso, quando non si abbiano le giunture
pieghevoli. Se poi ho un podere vicino a quello di uno di questi signori,
sarò schiacciato; se ho un processo contro un parente dei suoi parenti,
sarò rovinato. Come fare? Ho paura che in questo mondo si sia ridotti ad
essere incudine o martello: beato chi sfugge a questa alternativa!
I
Che cos'è la tolleranza? È la prerogativa
dell'umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori:
perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura.
Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, o di Bassora, il
ghebro, il baniano, l'ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramino, il
cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano
quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro
un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo
scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in
poi?
Costantino cominciò col promulgare un editto che permetteva
tutte le religioni, e finì col perseguitarle. Prima di lui si era
combattuto contro i cristiani solo perché cominciavano a costituire un partito
nello Stato. I romani permettevano tutti i culti, perfino quelli degli ebrei e
degli egiziani, per i quali provavano tanto disprezzo. Perché Roma li
tollerava? Perché né gli egiziani, né gli stessi giudei, cercavano di
distruggere l'antica religione dell'Impero; non correvano per le terre e per i
mari a far proseliti: pensavano solo a far quattrini. Mentre è
incontestabile che i cristiani volevano che la loro fosse la religione
dominante. Gli ebrei non volevano che la statua di Giove stesse a Gerusalemme;
ma i cristiani non volevano ch'essa stesse in Campidoglio. San Tommaso ha il
coraggio di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori,
fu solo perché non ci riuscirono. Convinti che tutta la terra dovesse essere
cristiana, erano, dunque, necessariamente nemici di tutta la terra, finché
questa non fosse convertita.
Erano inoltre nemici gli uni degli altri su tutti i punti
controversi della loro religione. Bisogna, anzitutto, considerare Gesù
Cristo come Dio? Coloro che lo negano vengono anatemizzati sotto il nome di ebioniti,
i quali a loro volta anatemizzano gli adoratori di Gesù.
Alcuni vogliono che tutti i beni siano in comune, come si sostiene
che lo fossero al tempo degli apostoli? I loro avversari li chiamano
"nicolaiti", e li accusano dei più infami delitti. Altri
tendono a una devozione mistica? Vengono chiamati "gnostici" e ci si
scaglia contro di loro con furore. Marcione disputa sulla Trinità? Lo si
tratta da idolatra.
Tertulliano, Prassea, Origene, Novato, Novaziano, Sabellio,
Donato, sono tutti perseguitati dai loro fratelli, prima di Costantino; e
appena questi ha fatto trionfare la religione cristiana, gli atanasiani e gli
stessi eusebiani si massacrano a vicenda; e, da allora sino ad oggi, la Chiesa
cristiana s'è inondata di sangue.
Il popolo ebreo era, lo ammetto, un popolo assai barbaro. Scannava
senza pietà tutti gli abitanti di uno sventurato piccolo paese, sul
quale non aveva più diritti di quanti ne abbia oggi su Parigi e su
Londra. Tuttavia, quando Naaman guarì dalla lebbra per essersi immerso
sette volte nel Giordano; quando, per testimoniare la sua gratitudine a Eliseo,
che gli aveva insegnato quel segreto, gli disse che avrebbe adorato per
riconoscenza il Dio degli ebrei, riservandosi però la libertà di
adorare anche il Dio del suo re e ne chiese il permesso a Eliseo, il profeta
non esitò a concederglielo. Gli ebrei adoravano il loro Dio, ma non si
meravigliavano del fatto che ogni popolo adorasse il proprio. Trovavano giusto
che Chemosh avesse concesso un certo distretto ai moabiti, purché Dio ne
concedesse uno anche a loro. Giacobbe non esitò a sposare le figlie di
un idolatra. Labano aveva il suo Dio, come Giacobbe aveva il suo. Ecco degli
esempi di tolleranza presso il popolo più intollerante e crudele
dell'antichità: noi lo abbiamo imitato nei suoi assurdi furori, e non
nella sua indulgenza.
È chiaro che chiunque perseguiti un uomo, suo fratello,
perché questi non è della sua opinione, è un mostro. Questo
è indiscutibile. Ma il governo, i magistrati, i principi, come si comporteranno
con coloro che professano un culto diverso dal loro? Se sono stranieri potenti,
è certo che un principe farà alleanza con loro. Il cristianissimo
Francesco I, si alleerà con i musulmani contro Carlo V re
cristianissimo. Francesco I darà denaro ai luterani di Germania per
sostenerli nella loro rivolta contro l'imperatore, ma comincerà, secondo
l'uso, col far bruciare i luterani che sono nel suo regno: li finanzia in
Sassonia per ragioni politiche; li brucia, per le stesse ragioni, a Parigi. E
cosa succederà? Le persecuzioni fanno proseliti; e ben presto la Francia
sarà piena di nuovi protestanti. Dapprima, essi si lasceranno impiccare;
poi impiccheranno a loro volta. Ci saranno guerre civili, poi verrà la
notte di san Bartolomeo; e questo angolo del mondo sarà peggio di tutto
quanto gli antichi e i moderni dissero dell'inferno.
Insensati, che non avete mai saputo adorare con purezza di cuore
il Dio che vi creò! Sciagurati, che non avete imparato niente
dall'esempio dei noachidi, dei cinesi, dei parsi e di tutti i saggi. Mostri,
che avete bisogno di superstizioni, come il becco dei corvi ha bisogno di
carogne! Vi è già stato detto, e non c'è altro da dirvi:
se nella vostra patria ci sono due religioni, gli uomini si scanneranno a vicenda;
se ce ne sono trenta, vivranno in pace. Guardate il Gran Turco: egli governa
dei ghebri, dei baniani, dei cristiani greci, dei nestoriani e dei romani. Il
primo che tenta di provocare un tumulto viene impalato, e tutti vivono
tranquilli.
II
Di tutte le religioni, la cristiana è senza dubbio quella
che dovrebbe ispirare maggiore tolleranza, sebbene, sino ad oggi, i cristiani
si sian mostrati i più intolleranti degli uomini.
Gesù, che si degnò di nascere nella povertà e
nell'umiltà, come i suoi fratelli, non si degnò mai di praticare
l'arte dello scrivere. Gli ebrei avevano una legge scritta fin nei minimi
dettagli, e noi non possediamo una sola riga di mano di Gesù. Gli
apostoli si divisero su parecchi punti: san Pietro e san Barnaba mangiavano
carni proibite con i neocristiani stranieri e se ne astenevano con i cristiani
ebrei; san Paolo rimproverò loro tale condotta; questo stesso Paolo,
fariseo (discepolo del fariseo Gamaliele che aveva perseguitato con furore i
cristiani), rompendo poi con Gamaliele, si fece a sua volta cristiano, e,
più tardi, al tempo del suo apostolato, si recò a sacrificare nel
tempio di Gerusalemme. Osservò pubblicamente per otto giorni tutte le
cerimonie della legge giudaica, cui aveva rinunziato; vi aggiunse, anzi,
devozioni e purificazioni: insomma "giudaizzò" in tutto e per
tutto. Il più grande apostolo cristiano compì per otto giorni le
stesse cose per cui oggi gran parte dei popoli cristiani condannano gli uomini
al rogo.
Teuda, Giuda si eran detti "Messia", prima della venuta
di Gesù. Dositeo, Simone, Menandro si dissero tali dopo Gesù. Sin
dal primo secolo della Chiesa, prima ancora che fosse conosciuto il nome di
"cristiano", c'erano già una ventina di sette in Giudea.
Gli gnostici contemplativi, i dositeani, i cerinzi esistevano
già prima che i discepoli di Gesù avessero preso il nome di
"cristiani". Ci furono ben presto trenta Vangeli, ognuno dei quali
apparteneva a una diversa comunità; e sin dalla fine del I secolo si
possono contare trenta sette di cristiani in Asia Minore, in Siria, in Alessandria
ed anche in Roma.
Tutte queste sette, disprezzate dal governo romano e nascoste
nell'oscurità, si perseguitavano tuttavia le une contro le altre nei
sotteranei in cui strisciavano, scagliandosi ingiurie; era tutto quello che
potevano fare, nella loro abiezione: erano quasi tutte composte dalla feccia
del popolo.
Quando, infine, alcuni cristiani ebbero accolto i dogmi di Platone
e mescolato un po' di filosofia alla loro religione, che separarono da quella
ebraica, diventarono a poco a poco più rispettabili, ma sempre divisi in
tante sette, senza che arrivasse mai un solo momento in cui la Chiesa cristiana
fosse unita. Essa ebbe origine in mezzo alle divisioni degli ebrei, dei
samaritani, dei farisei, dei sadducei, degli esseni, dei giudaiti, dei discepoli
di Giovanni, dei terapeuti. Fu divisa fin dalla culla, lo fu perfino durante le
persecuzioni che ebbe a patire talvolta sotto i primi imperatori. Spesso il
martire era considerato un apostata dai suoi confratelli, e il cristiano
carpocraziano moriva sotto la scure del boia romano, scomunicato dal cristiano
ebionita, il quale era a sua volta anatemizzato dal sabelliano.
Questa orribile discordia, che dura da tanti secoli, è una
grande lezione che dovrebbe spingere a perdonarci l'un l'altro i nostri errori:
la discordia è la piaga mortale del genere umano, e la tolleranza ne
è il solo rimedio.
Non c'è nessuno che non convenga su questa verità,
sia che mediti a sangue freddo nel suo studio, sia che esamini pacatamente la
questione con i suoi amici. Perché allora quegli stessi uomini che, in privato,
ammettono l'indulgenza, la benevolenza, la giustizia, insorgono in pubblico con
tanto furore contro queste virtù? Perché? Perché l'interesse è il
loro dio e così sacrificano tutto a questo mostro che adorano.
"Io posseggo una dignità e una potenza, attribuitemi
dall'ignoranza e dalla credulità: cammino sulle teste degli uomini
prosternati ai miei piedi: se essi si sollevano da terra e mi guardano in
faccia, sono perduto; bisogna dunque che li tenga giù con catene di
ferro."
Così han ragionato uomini resi potentissimi da secoli di
fanatismo. Essi hanno sotto di loro altri potenti, e costoro ne hanno altri
ancora, e tutti si arricchiscono con le spoglie del povero, si ingrassano col
suo sangue, e ridono della sua imbecillità. Essi detestano tutti la
tolleranza, come i faziosi arricchitisi a spese della collettività hanno
paura di rendere i conti e, come i tiranni, temono la parola
"libertà". E per colmo, assoldano dei fanatici che urlano:
"Rispettate le assurdità del mio padrone, tremate pagate e
tacete!"
Fu così che ci si comportò per lungo tempo in gran
parte del mondo. Ma oggi, che tante sette si bilanciano con i loro poteri,
quale partito prendere nei loro confronti? Ogni setta, come si sa, è
sinonimo di errore: non ci sono sette di geometri, di algebrici, di matematici,
perché tutte le proposizioni della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica
sono vere. In tutte le altre scienze si può sbagliare. Ma quale teologo
tomista o scotista oserebbe affermare seriamente di essere sicuro del fatto
suo?
Se c'è una setta che ricordi i tempi dei primi cristiani,
essa è senza dubbio quella dei quaccheri. Nessun'altra somiglia di
più alla comunità degli apostoli. Gli apostoli ricevevano lo
Spirito, e i quaccheri anche. Gli apostoli e i loro discepoli parlavano a tre o
quattro per volta nelle loro assemblee, che si tenevano al terzo piano, e i
quaccheri fanno lo stesso a pianterreno. Alle donne era permesso, secondo san
Paolo, di predicare, e, sempre secondo lo stesso santo, era loro proibito; le
quacchere predicano in virtù della prima concessione.
Gli apostoli e i loro discepoli giuravano con un
"sì" o con un "no"; e i quaccheri giurano allo
stesso modo.
Nessun segno di distinzione addosso, nessun modo di vestire
diverso fra i discepoli e gli apostoli; e i quaccheri hanno maniche senza
bottoni e son tutti vestiti alla stessa maniera.
Gesù Cristo non battezzò nessuno dei suoi apostoli;
i quaccheri non sono battezzati.
Sarebbe facile spingere più lontano questo parallelo; e
ancora più facile mostrare quanto la religione cristiana dei nostri
giorni differisca dalla religione che Gesù praticò. Gesù
era ebreo, e noi non siamo ebrei; Gesù si asteneva dalla carne di
maiale, animale immondo, e dalla carne di coniglio, perché esso rumina e non ha
l'unghia fessa; noi mangiamo sfacciatamente il maiale perché per noi non
è immondo, e mangiamo il coniglio, che ha l'unghia fessa e non rumina.
Gesù era circonciso, e noi conserviamo intatto il nostro prepuzio.
Gesù mangiava l'agnello pasquale con la lattuga, celebrava la festa dei
tabernacoli, e noi non lo facciamo. Osservava il sabato, e noi lo abbiamo
cambiato; sacrificava, e noi non sacrifichiamo più.
Gesù nascose sempre il mistero della sua incarnazione e
della sua dignità: non disse mai di essere uguale a Dio, e san Paolo
dice apertamente nella sua Epistola agli Ebrei che Dio creò
Gesù inferiore agli angeli; ma, nonostante tutte le affermazioni di san
Paolo, Gesù fu riconosciuto Dio al concilio di Nicea.
Gesù non regalò al papa né la marca di Ancona, né il
ducato di Spoleto; e tuttavia il papa li possiede per diritto divino.
Gesù non fece un sacramento né del matrimonio né del
diaconato; eppure, per noi, il diaconato e il matrimonio sono sacramenti.
Se l'esaminiamo a fondo, la religione cattolica, apostolica e
romana è, in tutte le sue cerimonie e in tutti i suoi dogmi, l'opposto
di quella di Gesù.
E con questo? Dovremmo forse tutti giudaizzare, perché Gesù
giudaizzò per tutta la vita?
Se, in fatto di religione, fosse permesso di ragionare in modo
coerente, è chiaro che dovremmo farci tutti ebrei, perché Gesù
Cristo, nostro salvatore, nacque ebreo, visse ebreo, morì ebreo e disse
chiaramente di essere venuto per compiere e adempiere la religione ebraica. Ma
è più chiaro ancora che noi dobbiamo tollerarci a vicenda, perché
siamo tutti deboli, incoerenti, soggetti all'incostanza e all'errore. Un giunco
piegato dal vento nel fango dirà forse al giunco vicino, piegato in
senso contrario: "Striscia come me, miserabile, o presenterò
un'istanza perché ti si strappi dalla terra e ti si bruci"?
Benché vi siano poche voci che trattino di giurisprudenza in
queste mie oneste riflessioni alfabetiche, bisogna pur dire una parola sulla
tortura, altrimenti detta "interrogatorio". È un ben strano modo
d'interrogare gli uomini. Eppure non furono dei semplici curiosi a inventarla:
tutto fa credere che questa parte della nostra legislazione debba la sua prima
origine a qualche ladrone di strada. La maggior parte di questi gentiluomini
usano ancora i metodi di schiacciare i pollici, di bruciare le piante dei piedi
e d'interrogare con altri tormenti chi si rifiuta di dir loro dove ha nascosto
il suo denaro.
I conquistatori, succeduti a questi ladroni, trovarono tale
invenzione molto utile per i loro interessi; la misero in uso quando
sospettarono qualcuno di nutrire contro di loro qualche sinistro disegno,
quello per esempio di voler essere libero: delitto, questo, di lesa
maestà divina e umana. Bisognava inoltre conoscerne i complici; e, per
riuscirci, si facevano soffrire mille morti a coloro che erano sospettati
perché, secondo la giurisprudenza di questi primi eroi, chiunque fosse
sospettato di aver avuto nei loro confronti qualche pensiero poco rispettoso,
era degno di morte.
E quando uno s'è meritata così la morte, poco
importa che vi si aggiungano supplizi spaventosi, per alcuni giorni o anche per
alcune settimane: anzi, il tutto ha qualcosa di divino. Anche la Provvidenza ci
mette talvolta alla tortura, adoperando il mal della pietra, la renella, la
gotta, lo scorbuto, la lebbra, il vaiolo, la sifilide, il torcibudello, le
convulsioni nervose e altrettanti strumenti delle sue vendette.
Ora, siccome i primi despoti furono, a giudizio di tutti i loro
cortigiani, immagini della Divinità, essi la imitarono quanto poterono.
Assai singolare è il fatto che, nei libri ebraici, non si
sia mai parlato di torture. È davvero un peccato che un popolo
così mite, onesto, caritatevole, non abbia usato questo metodo per
conoscere la verità. La ragione è, a mio avviso, che non ne aveva
bisogno: Dio gliela faceva conoscere sempre, come si conviene al suo popolo
prediletto. Ora si giocava la verità ai dadi, e il colpevole sospettato
perdeva sempre. Ora si andava dal gran sacerdote, che consultava immediatamente
Dio per mezzo dell'urim e del thummim; ora ci si rivolgeva a un
veggente, a un profeta: e potete star sicuri che il veggente e il profeta
scoprivano in quattro e quattr'otto le cose più segrete, altrettanto
bene dell'urim e del thummim del gran sacerdote. Il popolo di Dio
non era uso, come noi, a interrogare, a congetturare; così la tortura da
loro non era praticata. Fu la sola cosa che mancò ai costumi di quel
popolo santo. I romani inflissero la tortura solo agli schiavi, ma questi non
erano considerati uomini. D'altronde, non è certo probabile che un
consigliere della Tournelle consideri suo simile un uomo che gli venga portato
davanti, smunto, pallido, sfatto, gli occhi spenti, la barba lunga e sporca,
coperto dei parassiti da cui è stato rosicchiato nella sua cella. E
così si concede il piacere di sottoporlo alla grande e alla piccola
tortura, in presenza di un chirurgo che gli tasta il polso, finché la vittima
non sia in pericolo di morte; dopo di che si ricomincia; e come dice benissimo
la commedia dei Plaideurs: "ciò serve sempre ad ammazzare il
tempo per un'ora o due".
Il grave magistrato, che ha comperato con un po' di denaro il
diritto di fare questi esperimenti sul suo prossimo, racconta poi alla moglie,
a pranzo, il lavoro compiuto nella mattinata. La prima volta la signora ne
resta disgustata; la seconda ci prende gusto perché, dopo tutto, le donne son
curiose; e, infine, la prima cosa che chiede, quando lui rincasa in toga,
è: "Cuoricino mio, oggi non hai messo alla tortura nessuno?"
I francesi, che sono considerati, non so proprio perché, un popolo
tanto umano, si meravigliano che gli inglesi, che hanno avuto la cattiveria di
toglierci tutto il Canada, abbiano rinunciato al piacere di usare la tortura.
Quando il cavalier de La Barre, nipote di un luogotenente generale
dell'esercito, un giovane di vivo ingegno e di grandi speranze, ma preda della
sventatezza di una gioventù sfrenata, fu accusato di aver cantato
canzoni empie, e persino di essere passato davanti a una processione di
cappuccini senza togliersi il cappello, i giudici di Abbeville, gente
paragonabile ai senatori romani, ordinarono non solo che gli si strappasse la
lingua, gli si mozzasse la mano e lo si bruciasse a fuoco lento, ma lo misero
anche alla tortura per sapere con precisione quante canzoni aveva cantato e
quante processioni aveva visto passare tenendo il cappello in testa. E
quest'avventura non è accaduta nel XII o XIV secolo, ma nel XVIII. I
popoli stranieri giudicano la Francia dai suoi spettacoli, dai suoi romanzi,
dalle sue leggiadre poesie, dalle ragazze dell'Opera, che han modi così
teneri, dai ballerini, così graziosi, dalla signorina Clairon, che
declama i versi in modo divino. Non sanno che, in fondo, non c'è nazione
più feroce di quella francese.
I russi passavano per barbari nel 1700: adesso siamo soltanto nel
1769, e un'imperatrice ha appena dato a quell'immenso Stato leggi che avrebbero
fatto onore a Minosse, a Numa e a Solone, se avessero avuto abbastanza
intelligenza per inventarle. La più importante è la tolleranza
universale; la seconda è l'abolizione della tortura. La giustizia e
l'umanità hanno guidato la sua penna, essa ha riformato tutto. Sventura
alla nazione che, da gran tempo civilizzata, è ancora governata da
così atroci usanze antiche. "Perché dovremmo cambiare la nostra
giurisprudenza?" dicono i francesi. "L'Europa si serve dei nostri
cuochi, dei nostri sarti, dei nostri parrucchieri: dunque, le nostre leggi sono
buone."
I protestanti, e soprattutto i filosofi protestanti, considerano
la transustanziazione come il grado più basso dell'impudenza dei monaci
e dell'imbecillità dei laici.
Perdono ogni misura quando parlano di questa credenza, che
chiamano "mostruosa". Sono convinti che non ci sia un solo uomo di
buon senso che, dopo avervi riflettuto, possa credervi seriamente.
"È così assurda," dicono, "così contraria a
tutte le leggi della fisica, così contraddittoria, che Dio stesso non
potrebbe compiere quest'operazione, perché, in effetti è annientare Dio
supporre che faccia cose contraddittorie. Non solo un dio in un pane, ma un dio
al posto del pane; centomila briciole di pane diventate in un istante
altrettanti iddii: la folla innumerevole di questi iddii non sarebbe che un
solo dio; bianchezza senza alcun corpo bianco, rotondità senza alcun corpo
rotondo; vino mutato in sangue e che mantiene il sapore del vino; pane mutato
in carne e fibre, ma che mantiene il sapore del pane." Tutto ciò
ispira tanto orrore e disprezzo ai nemici della religione cattolica apostolica
e romana, che l'eccesso di tali sentimenti è qualche volta esploso in
furore.
L'orrore aumenta quando si riferisce loro che tutti i giorni, nei
paesi cattolici, si vedono preti e monaci che, uscendo da un letto incestuoso,
senza neppur essersi lavate le mani sozze di impurità, vanno a produrre
iddii a centinaia; a mangiare e bere il loro dio, a cacarlo e a pisciarlo. Ma
quando poi riflettono che questa superstizione, cento volte più assurda
e sacrilega di tutte quelle degli egiziani, ha reso a un prete italiano da
quindici a venti milioni di rendita e il dominio di un paese di cento miglia di
estensione in lungo e in largo, vorrebbero andare tutti, armi in pugno, a
cacciare quel prete che si è impadronito del palazzo dei Cesari. Non so
se prenderò parte al viaggio, perché amo la pace; ma quando costoro si
saranno stabiliti a Roma, andrò sicuramente a far loro visita.
(Del signor Guillaime, ministro protestante)
È un grosso problema il riuscir a sapere quali siano stati
i primi Vangeli. È una verità assoluta, checché ne dica Abbadie,
che nessuno dei primi Padri della Chiesa, fino ad Ireneo incluso, cita mai
qualche passo dei Vangeli che noi conosciamo. Per contro, gli àlogi e i
teodosiani rifiutarono sempre il Vangelo di san Giovanni, e ne parlavano sempre
con disprezzo, come dichiara sant'Epifanio nella sua trentesimaquarta omelia. I
nostri nemici osservano ancora che non soltanto i più antichi Padri
della Chiesa non citano mai niente dei nostri Vangeli, ma riportano molti passi
che si trovano solo nei Vangeli apocrifi, non accettati dal canone.
San Clemente, per esempio, riferisce che Nostro Signore, essendo
stato interrogato sul tempo in cui sarebbe venuto il suo regno, rispose:
"Sarà quando due non faranno che uno, quando l'esterno
somiglierà all'interno, e quando non ci sarà più né
maschio né femmina." Ora, bisogna riconoscere che questo passo non si
trova in nessuno dei nostri Vangeli. Ci sono cento esempi che provano questa
verità; li si possono raccogliere nell'Examen critique del signor
Fréret, segretario perpetuo dell'Accademia di belle lettere a Parigi.
Il dotto Fabricius s'è presa la briga di riunire tutti gli
antichi Vangeli che il tempo ha conservato; quello di Giacomo sembra che sia il
primo. È certo che gode ancora di grande autorità in alcune
chiese d'Oriente. È chiamato primo Vangelo. Ci resta la passione e la
resurrezione, che si pretende siano stati scritti da Nicodemo. Questo Vangelo
di Nicodemo è citato da san Giustino e da Tertulliano; è qui che
si trovano i nomi degli accusatori del nostro Salvatore: Anna, Caifa, Summa,
Datam, Gamaliele, Giuda, Levi, Neftali; la cura con cui sono riferiti questi
nomi dà una apparenza di autenticità all'opera. I nostri
avversari hanno concluso che, come si scrissero tanti falsi Vangeli,
riconosciuti in un primo tempo come veri, così potrebbero essere falsi
anche quelli che sono oggi oggetto della nostra fede. Ci furono - aggiungono -
dei falsari, dei seduttori e dei sedotti, che morirono per l'errore; quindi,
non è una prova della verità della nostra religione, il fatto che
dei martiri siano morti per essa.
Aggiungono inoltre che mai nessuno chiese ai martiri:
"Credete nel Vangelo di Giovanni o nel Vangelo di Giacomo?" I pagani
non potevano fondarsi nei loro interrogatori su dei libri che non conoscevano:
i magistrati punirono alcuni cristiani come perturbatori della quiete pubblica,
ma non li interrogarono mai sui nostri quattro Vangeli. Questi libri
cominciarono ad essere un po' conosciuti dai romani solo al tempo di Traiano, e
non arrivarono nelle mani del pubblico che negli ultimi anni di Diocleziano.
Così i rigidi sociniani considerano i nostri quattro Vangeli come opere
clandestine, composte circa un secolo dopo Gesù Cristo, e tenute
accuratamente nascoste ai gentili per un altro secolo; opere - dicono - scritte
rozzamente da uomini rozzi, i quali si rivolsero per lungo tempo solo alla
plebaglia. Non vogliamo ripetere qui le altre loro bestemmie. Questa setta,
benché assai diffusa, se ne sta oggi altrettanto nascosta quanto lo furono i
primi Vangeli. È altrettanto difficile convertirli in quanto non credono
che alla propria ragione. Gli altri cristiani non li combattono che con la
santa voce della Scrittura; così è impossibile che gli uni e gli
altri, essendo da sempre nemici, possano mai incontrarsi.
(Dell'abate de Tilladet)
Che cos'è la virtù? Fare del bene al prossimo. Che
cosa posso chiamare virtù, se non ciò che mi fa del bene? Sono
indigente, tu sei liberale; sono in pericolo, tu mi vieni in soccorso;
m'ingannano, tu mi dici la verità; mi trascurano, tu mi consoli; sono
ignorante, tu m'istruisci: ti chiamerò senza difficoltà virtuoso.
Ma che dovremo dire delle virtù cardinali e teologali? Che qualcuna di
loro resterà nelle scuole.
Che m'importa che tu sia temperante? Osservi un precetto di
salute; starai meglio, mi congratulo con te. Hai la fede e la speranza, mi
congratulo ancora di più: ti procureranno la vita eterna. Le tue
virtù teologali sono doni celesti; le tue virtù cardinali sono
ottime qualità che ti servono ad agire rettamente; ma non sono
virtù in relazione al tuo prossimo. Il prudente fa del bene a se stesso,
il virtuoso ne fa agli uomini. San Paolo ha avuto ragione di dirti che la
carità sovrasta la fede e la speranza.
Ma come! non si ammetteranno altre virtù se non quelle che
sono utili al prossimo? E come posso ammetterne altre? Viviamo in
società: e dunque per noi non c'è nulla di veramente buono tranne
ciò che fa il bene della società. Un solitario sarà
sobrio, pio; porterà il cilicio: ebbene, sarà santo; ma io lo
chiamerò virtuoso solo quando avrà compiuto qualche atto di
virtù da cui abbiano tratto giovamento altri uomini. Finché è
solo, non è né benefico né malefico; non è niente per noi. Se san
Bruno ha portato la pace nelle famiglie, se ha soccorso l'indigenza, è
stato virtuoso; se ha digiunato, pregato in solitudine, è stato un
santo. La virtù tra gli uomini è un commercio di buone azioni;
chi non ha parte in questo commercio non deve esser preso in considerazione. Se
quel santo fosse nel mondo, senza dubbio vi farebbe del bene; ma finché non vi
sarà, il mondo avrà ragione di non dargli il nome di virtuoso:
sarà buono per sé e non per noi.
Ma, mi direte, se un solitario è goloso, ubriacone, se si
dà da solo a segrete dissolutezze, è vizioso: e dunque è
virtuoso se possiede le qualità contrarie. Non posso essere d'accordo:
è un uomo sudicio, se ha i difetti che dite; ma non è vizioso,
cattivo, punibile di fronte alla società, cui la sua depravazione non fa
alcun male. Bisogna presumere che, se rientra nella società, vi farà
del male, che commetterà molti crimini; è anzi molto più
probabile che sarà un malvagio, di quanto non sia certo che quell'altro
solitario temperante e casto sarà un uomo dabbene: perché, nella società,
i difetti aumentano e le buone qualità diminuiscono.
C'è chi fa un'obiezione molto più solida: Nerone,
papa Alessandro VI e altri mostri della stessa specie beneficarono pure
qualcuno. Rispondo arditamente che quel giorno furono virtuosi.
Certi teologi dicono che il divino imperatore Antonino non era virtuoso;
che era uno stoico testardo, il quale, non contento di comandare agli uomini,
voleva anche essere stimato da loro; che attribuiva a se stesso il bene che
faceva al genere umano; che in tutta la sua vita fu giusto, laborioso, benefico
per vanità, e che non fece nient'altro che ingannare gli uomini con le
sue virtù; e a questo punto esclamo: "Mio Dio, mandaci spesso di
queste canaglie!"