HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
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ENEIDE
Trad. di Annibal Caro
INDICE
Quell'io che già tra selve e tra
pastori
di
Titiro sonai l'umil sampogna,
e
che, de' boschi uscendo. a mano a mano
fei
pingui e cólti i campi, e pieni i vóti
d'ogn'ingordo
colono, opra che forse
agli
agricoli è grata; ora di Marte
L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che
pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia
e di Lavinio errando venne;
e
quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e
di terra e di mar perigli incorse,
come
il traea l'insuperabil forza
del
cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e
con che dura e sanguinosa guerra
fondò
la sua cittade, e gli suoi dèi
ripose
in Lazio: onde cotanto crebbe
il
nome de' Latini, il regno d'Alba,
e
le mura e l'imperio alto di Roma.
Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
tu
le mi detta. Qual dolor, qual onta
fece
la dea ch'è pur donna e regina
de
gli altri dèi, sí nequitosa ed empia
contra
un sí pio? Qual suo nume l'espose
per
tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono
ancor là su l'ire e gli sdegni?
Grande, antica, possente e bellicosa
colonia
de' Fenici era Cartago,
posta
da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a
la foce del Tebro: a Giunon cara
sí,
che le fûr men care ed Argo e Samo.
Qui
pose l'armi sue, qui pose il carro,
qui
di porre avea già disegno e cura
(se
tale era il suo fato) il maggior seggio,
e
lo scettro anco universal del mondo.
Ma già contezza avea ch'era di Troia
per
uscire una gente, onde vedrebbe
le
sue torri superbe a terra sparse,
e
de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto
avanzar d'orgoglio e di potenza,
che
ancor de l'universo imperio avrebbe:
tal
de le Parche la volubil rota
girar
saldo decreto. Ella, che téma
avea
di ciò, non posto anco in oblio
come,
a difesa de' suoi cari Argivi,
fosse
a Troia acerbissima guerriera,
ripetendone
i semi e le cagioni,
se
ne sentia nel cor profondamente
or
di Pari il giudicio, or l'arroganza
d'Antígone,
il concúbito d'Elettra,
lo
scorno d'Ebe, alfin di Ganimede
e
la rapina e i non dovuti onori.
Da tante, oltre al timor, faville accesa,
quei
pochi afflitti e miseri Troiani
ch'avanzaro
agl'incendi, a le ruine,
al
mare, ai Greci, al dispietato Achille,
tenea
lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti
da' vènti e dal destino,
per
tutti i mari andâr raminghi e sparsi:
di
sí gravoso affar, di sí gran mole
fu
dar principio a la romana gente.
Eran di poco, e del cospetto a pena
de
la Sicilia navigando usciti,
e
già, preso de l'alto, a piene vele
se
ne gian baldanzosi, e con le prore
e
co' remi facean l'onde spumose,
quando,
punta Giunon d'amara doglia:
«Dunque,
- disse - ch'io ceda? e che di Troia
venga
a signoreggiar Italia un re,
ch'io
nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi
sieno: osò pur Pallade, e poteo
ardere
e soffocar già degli Argivi
tanti
navili, e tanti corpi ancidere
per
lieve colpa e folle amor d'un solo,
Aiace
d'Oïlèo. Contra costui
ella
stessa vibrò di Giove il tèlo
giú
dalle nubi; ella commosse i vènti
e
turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:
e
quando ei già dal fulminato petto
sangue
e fiamme anelava, a tale un turbo
in
preda il diè, che per acuti scogli
miserabil
ne fe' rapina e scempio.
Tanto
può Palla? Ed io, io de gli dèi
regina,
io sposa del gran Giove e suora,
son
di quest'una gente omai tant'anni
nimica
in vano? E chi piú de' mortali
sarà
che mi sacrifichi, e m'adori?»
Ciò fra suo cor la dea fremendo
ancora,
giunse
in Eòlia, di procelle e d'àustri
e
de le furie lor patria feconda.
Eolo
è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le
sonore tempeste e i tempestosi
vènti,
sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino
impetuosi e ribellanti
tal
fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che
ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed
ei lor sopra, realmente adorno
di
corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira
e gl'impeti lor mitiga e molce.
Se
ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati
da lor, confusi e sparsi
con
essi andrian per lo gran vano a volo;
ma
la possa maggior del padre eterno
provvide
a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi
e di caverne; e moli e monti
lor
sopra impose; ed a re tale il freno
ne
diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli
con
certa legge o rattenere o spingere.
A
cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor
umíle e supplichevol disse:
«Eölo,
poi che 'l gran padre del cielo
a
tanto ministerio ti prepose
di
correggere i vènti e turbar l'onde,
gente
inimica a me, mal grado mio,
naviga
il mar Tirreno; e giunta a vista
è
già d'Italia, al cui reame aspira;
e
d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco
v'adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli,
spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,
aggiragli,
confondigli, sommergigli,
o
dispergigli almeno. Appo me sono
sette
e sette leggiadre ninfe e belle;
e
di tutte piú bella e piú leggiadra
è
Deiopèa. Costei vogl'io, per merto
di
ciò, che sia tua sposa; e che tu seco
di
nodo indissolubile congiunto,
viva
lieto mai sempre, e ne divenga
padre
di bella e di te degna prole».
Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi
che tu scopra i tuoi desiri,
ed
a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu
mi dài questo scettro e questo regno;
se
re può dirsi un che comandi a' vènti.
Io,
tua mercé, su co' celesti a mensa
nel
ciel m'assido; e co' mortali in terra
son
di nembi possente e di tempeste».
Cosí dicendo, al cavernoso monte
con
lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde
repente a stuolo i vènti usciro.
Avean
già co' lor turbini ripieni
di
polve e di tumulto i colli e i campi,
quando
quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s'avventaron
nel mare, e fin da l'imo
lo
turbâr sí, che ne fêr valli e monti;
monti,
ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti
l'un dopo l'altro, a mille a mille
volgendo,
se ne gian caduchi e mobili
con
suono e con ruina i liti a frangere.
Il
grido, lo stridore, il cigolare
de'
legni, de le sarte e de le genti,
i
nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano,
la
buia notte, ond'era il mar coverto,
i
tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto
ciò che s'udia, ciò che vedevasi
rappresentava
orror, perigli e morte.
Smarrissi
Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi,
che tremante al ciel si volse
con
le man giunte, e sospirando disse:
«O mille volte fortunati e mille
color
che sotto Troia e nel cospetto
de'
padri e de la patria ebbero in sorte
di
morir combattendo! O di Tidèo
fortissimo
figliuol, ch'io non potessi
cader
per le tue mani, e lasciar ivi
questa
vita affannosa, ove lasciolla
vinto
per man del bellicoso Achille,
Ettor
famoso e Sarpedonte altero?
E
se d'acqua perire era il mio fato,
perché
non dove Xanto o Simoenta
volgon
tant'armi e tanti corpi nobili?»
Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone
una
buffa a rincontro, che stridendo
squarciò
la vela, e 'l mar spinse a le stelle,
Fiaccârsi
i remi; e là 've era la prua,
girossi
il fianco; e d'acqua un monte intanto
venne
come dal cielo a cader giú.
Pendono
or questi or quelli a l'onde in cima;
or
a questi or a quei s'apre la terra
fra
due liquidi monti, ove l'arena,
non
men ch'ai liti, si raggira e ferve.
Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
-
Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da
l'altezza de l'onde allor celato,
che
sorgea primo in alto mare altissimo -
e
tre ne fûr dal pelago a le Sirti,
(miserabile
aspetto) ne le secche
tratte
da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una,
che 'l carco avea del fido Oronte
con
le genti di Licia, avanti agli occhi
di
lui perí. Venne da Bora un'onda,
anzi
un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che
'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e
lei girò sí che 'l suo giro stesso
le
si fe' sotto e vortice e vorago,
da
cui rapita, vacillante e china,
quasi
stanco palèo, tre volte volta,
calossi
gorgogliando, e s'affondò.
Già per l'ondoso mar disperse e rare
le
navi e i naviganti si vedevano;
già
per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme,
tavole, arnesi a nuoto andavano;
già
quel ch'era piú valido e piú forte
legno
d'Ilïonèo, già quel d'Acate
e
quel d'Abante e quel del vecchio Alete,
ed
alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidïali
aveano i fianchi aperti;
quando,
a tanto rumor, da l'antro uscito
il
gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi
i piú riposti fondi:
«Oh
- disse irato - ond'è questa importuna
tempesta?»
E grazïoso il capo fuori
trasse
de l'onde; e rimirando intorno,
per
lo mar tutto dissipati e laceri
vide
i legni d'Enea; vide lo strazio
de'
suoi ch'a la tempesta, a la ruina
e
del mare e del cielo erano esposti.
E
ben conobbe in ciò, come suo frate,
che
ne fôra cagion l'ira e la froda
de
l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,
e
'n tal guisa acremente li rampogna:
«Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza
perversa? Voi, voi, senza me,
nel
regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e
far nel mare un sí gran moto osate?
Io
vi farò... Ma di mestiero è prima
abbonazzar
quest'onde. Altra fiata
in
altra guisa il fio mi pagherete
del
fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti
malvagi; e da mia parte dite
al
vostro re che questo regno e questo
tridente
è mio, e che a me solo è dato.
Per
lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case
degne di voi; quella è sua reggia;
quivi
solo si vanti; e per regnare,
de
la prigion de' suoi vènti non esca».
Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la
tempesta cessò, s'acquetò 'l mare,
si
dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe
e Triton, l'una con l'onde,
l'altro
col dorso, le tre navi indietro
ritirâr
da lo scoglio in cui percossero.
Le
tre che ne l'arena eran sepolte,
egli
stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò
col tridente ed a sé trassele.
Poscia
sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo
lievemente, ovunque apparve,
agguagliò
'l mare, e lo ripose in calma.
Come addivien sovente in un gran popolo,
allor
che per discordia si tumultua,
e
imperversando va la plebe ignobile,
quando
l'aste e le faci e i sassi volano
e
l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se
grave personaggio e di gran merito
esce
lor contro, rispettosi e timidi,
fatto
silenzio, attentamente ascoltano,
ed
al detto di lui tutti s'acquetano;
cosí
d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu
'l mar disgombro, allor che umíle e placido
a
ciel aperto il gran rettor del pelago
co'
suoi lievi destrier volando scórselo.
Stanchi
i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro
il corso, e 'n Libia si trovarono.
È di là lungo a la riviera un
seno,
anzi
un porto; ché porto un'isoletta
lo
fa, che in su la bocca al mare opponsi.
Questa
si sporge co' suoi fianchi in guisa
ch'ogni
vento, ogni flutto, d'ogni lato
che
vi percuota, ritrovando intoppo,
o
si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci
e quindi alti scogli e rupi altissime,
sotto
cui stagna spazïoso un golfo
securo
e queto: e v'ha d'alberi sopra
tale
una scena, che la luce e 'l sole
vi
raggia, e non penètra: un'ombra opaca,
anzi
un orror di selve annose e folte.
D'incontro
è di gran massi e di pendenti
scogli
un antro muscoso, in cui dolci acque
fan
dolce suono; e v'ha sedili e sponde
di
vivo sasso: albergo veramente
di
ninfe, ove a fermar le stanche navi
né
d'àncora v'è d'uopo, né di sarte.
Qui
sol con sette, che raccolse a pena
di
tanti legni, Enea ricoverossi.
Qui
stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor
paurosi, i liti a pena attinsero,
che
a terra avidamente si gittarono.
Acate
fece in pria selce e focíle
scintillar
foco, e dièlli esca e fomento.
Altri
poscia d'intorno ad altri fuochi
(come
quei che di vitto avean disagio,
e
le biade trovâr corrotte e molli)
si
diêr con vari studi e vari ordigni
a
rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso,
quanto
si discopria con l'occhio intorno,
stava
mirando s'alcun legno fosse
per
alcun luogo apparso, o quel d'Antèo,
o
quel di Capi, o pur quel di Caíco
che
in poppa avea la piú sublime insegna.
Nïun
ne vide: ma ben vide errando
gir
per la spiaggia tre gran cervi, e dietro
d'altri
minori innumerabil torma,
che
in sembianza d'armenti empian le valli.
Fermossi:
e pronto a cotal uso avendo
l'arco
e 'l turcasso (ché quest'armi appresso
gli
portava mai sempre il fido Acate),
diè
lor di piglio: e saettando prima
i
primi tre, che piú vide altamente
erger
le teste e inalberar le corna,
contra
'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco,
ovunque
gli scorgea, folgorò tutto.
Ne
cacciò, ne ferí, strage ne fece
a
suo diletto; né si vide prima
sazio
che, come sette eran le navi,
sette
non ne vedesse a terra stesi.
In
questa guisa ritornando al porto,
gli
spartí parimente a' suoi compagni;
e
con essi del vin, che 'l buon Aceste
a
l'uscir di Sicilia in don gli diede,
molt'urne
dispensò per ricrearli;
poscia
a conforto lor cosí lor disse:
«Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi
n'avete infiniti omai sofferti
vie
piú gravi di questi. E questi fine,
(quando
che sia) la dio mercede, avranno.
Voi
la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di
tutti i mari omai, voi de' Ciclopi
varcaste
i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete
l'ardir, sgombrate i petti
di
téma e di tristizia. E' verrà tempo
un
dí che tante e cosí rie venture,
non
ch'altro, vi saran dolce ricordo.
Per
vari casi e per acerbi e duri
perigli
è d'uopo far d'Italia acquisto.
Ivi
riposo, ivi letizia piena
vi
promettono i fati, e nuova Troia
e
nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite,
mantenetevi, serbatevi
a
questo, che dal ciel si serba a voi,
sí
glorioso e sí felice stato».
Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso
d'alti
e gravi pensier, tenea velato
con
la fronte serena il cuor doglioso.
Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
già
rivolti a la preda, altri le tèrgora
le
svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre
è tiepida ancor, mentre che palpita,
lunghi
schidioni e gran caldaie apprestano,
e
l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.
Poscia
d'un prato e seggio e mensa fattisi,
taciti
prima sopra l'erba agiandosi,
d'opima
carne e di vin vecchio empiendosi,
quanto
puon lietamente si ricreano.
Poiché fûr sazi, a ragionar si
diêro,
con
voce or di timore or di cordoglio,
de'
perduti compagni, in dubbio ancora
se
fosser vivi, e se pur giunti al fine
piú
de' richiami lor nulla curassero.
Enea
vie piú di tutti e di pietate
e
di dolor compunto, il caso acerbo
or
d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e Gía
ne'
sospir richiamava e 'l buon Cloanto.
Erano al fine omai; quando il gran Giove
da
l'alta spera sua mirando in giuso
la
terra e 'l mar di questo basso globo,
mentre
di lito in lito, e d'uno in altro
scerne
i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi,
e ne la Libia il guardo affisse.
Venere,
allor ch'a le terrene cose
lo
vide intento, dolcemente afflitta
il
volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli
si fece davanti, e cosí disse:
« Padre, che de' mortali e de' celesti
siedi
eterno monarca, e folgorando
empi
di téma e di spavento il mondo,
e
quale ha contra te fallo sí grave
commesso
Enea mio figlio, o i suoi Troiani,
che,
dopo tanti affanni e tante stragi,
c'han
di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,
non
trovin pace, né pietà, né loco
pur
che gli accetti? In cotal guisa omai
del
mondo son, non che d'Italia, esclusi.
Io
mi credea, signor (quel che promesso
n'era
da te), che tornasse anco un giorno,
quando
che fosse, il generoso germe
di
Dardano a produr quei glorïosi
eroi,
quei duci invitti, quei Romani
de
l'universo domatori e donni:
e
tu ne 'l promettesti. Or come, padre,
il
ciel cangia destino, e tu consiglio?
Questa
sola credenza era cagione
di
consolarmi in parte de l'eccidio
de
la mia Troia, ch'io soffrissi in pace
tante
ruine sue, fato con fato
ricompensando.
Or la fortuna stessa
e
vie piú fera la persegue e dura.
E
quanto durerà, signore, ancora?
Tal
non fu già d'Antènore l'esilio;
ch'ei
non piú tosto de l'achive schiere
per
mezzo uscio, che con felice corso
penetrò
d'Adria il seno; entrò securo
nel
regno de' Liburni; andò fin sopra
al
fonte di Timavo; e là 've il fiume
fremendo
il monte intuona, e là 've aprendo
fa
nove bocche un mare, e, mar già fatto,
inonda
i campi e rumoreggia e frange,
Padoa
fondò, pose de' Teucri il seggio,
e
diè lor nome e le lor armi affisse.
Ivi
ridotto il suo regno, e composto
quïetamente,
or lo si gode in pace.
E
noi, noi del tuo sangue, e che da te
avemo
anco del cielo arra e possesso,
ad
una sola indegnamente in ira,
perdute,
ohimè! le proprie navi, fuori
siamo
d'Italia e di speranza ancora
di
non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio
che
si deve a pietade? E questo è il regno
che
da te, padre mio, ne si promette?»
Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con
che 'l ciel rasserena e le tempeste,
rimirolla,
basciolla, e cosí disse:
«Non temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno
i fati de' tuoi. S'adempieranno
le
mie promesse; sorgeran le torri
de
la novella Troia; vedrai le mura
di
Lavinio; porrai qui fra le stelle
il
magnanimo Enea. Ché né 'l destino
in
ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.
Ma
per trarti d'affanni, io te 'l dirò
piú
chiaramente; e scoprirotti intanto
de'
fati i piú reconditi secreti.
Figlia,
il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà;
farà gran guerra, vincerà:
domerà
fere genti: imporrà leggi:
darà
costumi, e fonderà città:
e
di già, vinti i Rutuli, tre verni
e
tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio
giovinetto, or detto Iulo,
ed
Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,
succederagli;
e trenta giri interi
del
maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo
in Alba: Alba la lunga
sarà
la reggia sua possente e chiara.
Qui
regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre
un dopo l'altro un corso d'anni
tre
volte cento; finch'Ilia regina
d'un
parto produrrà gemella prole.
Indi
capo ne fia Romolo invitto.
Questi,
in vece di manto, adorno il tergo
de
la sua marzïal nudrice lupa,
di
Marte fonderà la gran cittade:
e
dal nome di lui Roma diralla.
A
Roma non pongo io termine o fine:
ché
fia del mondo imperatrice eterna.
E
l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e
'l ciel per téma intorbida e scompiglia,
con
piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà
che la romana gente
in
arme e 'n toga a l'universo imperi.
E
cosí stabilisco: e cosí tempo
ancor
sarà ch'Argo, Micene e Ftia
e
i Greci tutti tributari e servi
de
la casa di Assàraco saranno.
Di
questa gente, e de la Iulia stirpe,
che
da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare
nascerà, di cui l'impero
e
la gloria fia tal, che per confine
l'uno
avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.
Questi,
già vinto il tutto, poi che onusto
de
le spoglie sarà de l'Orïente,
anch'egli
avrà da te qui seggio eterno,
e
là giú fra' mortali incensi e vóti.
L'aspro
secolo allor, l'armi deposte,
si
farà mite. Allor la santa Vesta
e
la candida Fede e 'l buon Quirino
col
frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor
con salde e ben ferrate sbarre
de
la guerra saran le porte chiuse:
e
dentro in fra la ruggine sepolto
con
cento nodi incatenato e stretto
gran
tempo si starà l'empio Furore;
e
rabbioso fremendo orribilmente,
con
fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà
l'armi e le catene indarno».
Cosí detto, spedí tosto da l'alto
di
Maia il figlio a far sí ch'a' Troiani
fosse
Cartago e il suo paese amico,
perché
del fato la regina ignara,
non
fosse lor, per ferità de' suoi
o
per sua téma, inospitale e cruda.
Vassene
il messaggier per l'aria a volo
velocemente,
e ne la Libia giunto,
quel
ch'imposto gli fu ratto eseguisce.
E
già, la dio mercé, lasciano i Peni
la
lor fierezza; e la regina in prima
s'imbeve
d'un affetto e d'una mente
verso
i Troiani affabile e benigna.
La notte intanto, del pietoso Enea
molti
furo i sospir, molti i pensieri.
Conchiuse
alfin ch'a l'apparir del giorno
spïar
dovesse, e riportarne avviso
a
suoi compagni, in qual paese il vento
gli
avesse spinti; e s'uomini o pur fere
(perché
incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosí
tra selve ombrose e cave rupi
fatti
i legni appiattar, sol con Acate,
e
con due dardi in mano in via si pose.
In mezzo de la selva una donzella,
ch'era
sua madre, sí com'era avanti
che
madre fosse incontro gli si fece.
Donzella
a l'armi, a l'abito, al sembiante
parea
di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice
leggiera
e sciolta, il dorso affaticando
di
fugace destrier, l'Ebro varcava.
Al
collo avea di cacciatrice un arco
abile
e lesto, i crini a l'aura sparsi,
nudo
il ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea
raccolto della gonna il seno.
Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani,
de le mie sorelle alcuna
vista
errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
o
che gli omeri vesta d'una pelle
di
cervier maculato, o che gridando
d'un
zannuto cignal segua la traccia?»
Cosí
Venere disse. Ed, a rincontro,
di
Venere il figliuol cosí rispose:
«Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,
vergine...
qual ti dico, e di che nome
chiamar
ti deggio? Ché terreno aspetto
non
è già 'l tuo, né di mortale il suono.
Dea
sei tu veramente, o suora a Febo,
o
figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e
chïunque tu sii, propizia e pia
vèr
noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne
sotto qual cielo, in qual contrada
siamo
or del mondo: ché raminghi andiamo;
e
qui dal vento e da fortuna spinti
nulla
o de gli abitanti o de' paesi
notizia
abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti,
di
nostra man cadrà piú d'una vittima».
Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo
celeste
onore. In Tiro usan le vergini
di
portar arco, e di calzar coturni;
e
di Tiro e d'Agènore le genti
traggon
principio, che qui seggio han posto:
ma
'l paese è di Libia, ed avvi in guerra
gente
feroce. Or n'è capo e regina
Dido
che, da l'insidie del fratello
fuggendo,
è qui venuta. A dirne il tutto
lunga
fôra novella e lungo intrico.
Ma
toccandone i capi, avea costei
Sichèo
per suo consorte, uno il piú ricco
di
terra e d'oro, che in Fenicia fosse,
da
la meschina unicamente amato,
anzi
il suo primo amore. Il padre intatta
nel
primo fior di lei seco legolla.
Ma
del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon
suo frate, un signor empio,
un
tiranno crudele e scellerato
piú
ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal,
che Sichèo da questo avaro e crudo,
per
sete d'oro, ove men guardia pose,
fu
tra gli altari ucciso; e non gli valse
che
la germana sua tanto l'amasse.
Ciò
fe' celatamente: e per celarlo
vie
piú, con finzïoni e con menzogne
deluse
un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma
nel fin, di Sichèo la stessa imago,
fuor
d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida,
macilenta e spaventevole,
le
apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli
empi altari ove cadde, il crudo ferro
che
lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte
scelleraggini le aperse.
Poscia:
"Fuggi di qua, fuggi" le disse
"tostamente,
e lontano". E per sussidio
de
la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra,
ov'era inestimabil somma
d'oro
e d'argento, di molt'anni ascoso.
Quinci
Dido commossa, ordine occulto
di
fuggir tenne, e d'adunar compagni;
ché
molti n'adunò, parte per odio,
parte
per téma di sí rio tiranno.
Le
navi che trovâr nel lito preste,
caricâr
d'oro, e fêr vela in un súbito.
Cosí
'l vento portossene la speme
de
l'avaro ladrone. E fu di donna
questo
sí degno e memorabil fatto.
Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai
sorger
la gran cittade e l'alta ròcca
de
la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa
nomossi, per l'astuta merce
che,
per fondarla, fêr di tanto sito
quanto
cerchiar di bue potesse un tergo.
Ma voi chi siete? onde venite? e dove
drizzate
il corso vostro?» A tai richieste
pensando
Enea, dal piú profondo petto
trasse
la voce sospirosa, e disse:
«O
dea, se da principio i nostri affanni
io
contar ti volessi, e tu con agio
udissi
una da me sí lunga istoria,
non
finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi
siam Troiani (se di Troia antica
il
nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e
la tempesta che per tanti mari
già
cotant'anni ne travolve e gira,
n'ha
qui, come tu vedi, al fin gittati.
Io
sono Enea, quel pio che da' nemici
scampati
ho meco i miei patrii Penati,
fino
a le stelle ormai noto per fama.
Italia
vo cercando, che per patria
Giove
m'assegna, autor del sangue mio.
Con
diece e diece ben guarnite navi
uscii
di Frigia, il mio destin seguendo
e
lo splendor de la materna stella.
Or
sette me ne son restate appena,
scommesse,
aperte e disarmate tutte.
Ed
io mendíco, ignoto e peregrino,
de
l'Asia in bando, da l'Europa escluso,
e
'n fin dal mar gittato or ne la Libia
vo
per deserti inospiti e selvaggi.
E
qual m'è piú del mondo or luogo aperto?»
Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant'amara
doglienza non soffrendo,
cosí
'l duol con la voce gl'interruppe:
«Chïunque sei, tu non sei già,
cred'io,
al
cielo in ira; poi ch'a sí grand'uopo
ti
diè ricovro a sí benigno ospizio.
Segui
pur francamente: e quinci in corte
va'
di questa magnanima regina;
ch'io
già t'annunzio le tue navi, e i tuoi
da
miglior vènti in miglior parte addotti
salvi
e securi omai, se i miei parenti
non
m'ingannâr quando gli augúri appresi.
Mira
là sovra a quel tranquillo stagno
dodici
allegri cigni, che pur dianzi
confusi
e dissipati a cielo aperto
erano
in preda al fero augel di Giove,
com'or
sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi
in lunga ed ozïosa riga
si
rivolgono a terra, e già la radono.
E
sí com'essi con gioiose ruote
trattando
l'aria, col cantar, col plauso
mostrato
han d'allegria segno e di scampo;
cosí,
placato il mare, a piene vele,
e
le tue navi e gli tuoi naviganti
o
preso han porto, o tosto a prender l'hanno:
vattene
or lieto ove 'l sentier ti mena».
Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro
e
le rose del collo e de le chiome,
come
l'aura movea, divina luce
e
divino spirâr d'ambrosia odore:
e
la veste, che dianzi era succinta,
con
tanta maestà le si distese
infino
a' piè, ch'a l'andar anco, e dea
veracemente
e Venere mostrossi.
Poscia che la conobbe, e la sua fuga
o
fermare, o seguir piú non poteo,
con
un rammarco tal dietro le tenne:
«Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,
a
che tuo figlio con mentite larve
tante
volte deludi? A che m'è tolto
di
congiunger la mia con la tua destra?
Quando
fia mai ch'io possa a viso aperto
vederti,
udirti, ragionarti, e vera
riconoscerti
madre?» Egli in tal guisa
si
querelava; e verso la cittade
se
ne giano invisibili ambidue:
ché
la dea, sospettando non tra via
fossero
distornati o trattenuti,
di
folta nebbia intorno gli coverse.
Ella
in alto levossi, e Cipri e Pafo
lieta
rivide, ov'entro al suo gran tempio
da
cento altari ha cento volte il giorno
d'incensi
e di ghirlande odori e fumi.
Ed
essi intanto in vèr le mura a vista
giunser
de la città, ch'al colle incontro
fe'
lor superba e specïosa mostra.
Maravigliasi Enea che sí gran macchina
già
sorga, ove pur dianzi non vedevasi
fors'altro
che foreste, o che tuguri.
Mira
il travaglio, mira la frequenzia
e
le porte e le vie piene di strepito.
Vede
con quanto ardor le turbe tirie
altri
a le mura, altri a la ròcca intendono
e
i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi,
che i siti ai propri alberghi insolcano;
e
quei, che del senato e de gli offici
piantan
le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge
là presso al mar che 'l porto cavano,
qua,
sotto al colle, che un teatro fondano,
per
le cui scene i gran marmi che tagliano,
e
le colonne, che tant'alto s'ergono,
le
rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
Con tal sogliono industria a primavera
le
sollecite pecchie al sole esposte
per
fiorite campagne esercitarsi,
quando
le nuove lor cresciute genti
mandano
in campo a côr manna e rugiada,
di
celeste liquor le celle empiendo;
o
quando incontro a scaricare i pesi
van
de l'altre compagne; o quando a stuolo
scacciano
i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che,
solo intente a logorar l'altrui,
de
le conserve lor si fan presepi,
allor
che l'opra ferve, allor che 'l mèle
sparge
di timo d'ogn'intorno odore.
«O fortunati voi, di cui già sorge
il
desïato seggio!», Enea dicendo,
a
parte a parte lo contempla e loda.
Arriva
intanto a la muraglia, e chiuso
ne
la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra
gente e gente va, che non è visto.
Era
nel mezzo a la cittade un bosco
di
sacro rezzo e grato, ove sospinti
da
la tempesta capitaro i Peni
primieramente;
e nel fondar trovaro
quel
che pria da Giunon fu lor predetto
di
barbaro destrier teschio fatale,
la
cui sembianza imagine e presagio
fu
poi che quella gente e quella terra
saria
per molte età ferace e fera.
Qui
fabbricava la sidonia Dido
un
gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e
i doni e la materia e l'artificio
lo
facean prezïoso e venerando.
Mura
di marmo avea; colonne e fregi
di
mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di
risonante e solido metallo.
Qui
si ristette Enea: qui vide cosa
che
téma gli scemò, speme gli accrebbe,
e
di pace affidollo e di salute;
ché
mentre, in aspettando la regina
ch'ivi
s'attende, la città vagheggia,
mentre
nel tempio l'apparato e l'opre
e
'l valor degli artefici contempla,
a
gli occhi una parete gli s'offerse,
in
cui tutta per ordine dipinta
era
di Troia la famosa guerra.
E,
conosciuti a le fattezze conte
prima
il troiano re, poscia l'argivo
e
'l fero d'ambidue nimico Achille,
fermossi,
e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira
fin dove è la notizia aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo
loco
che pien non sia de' nostri affanni?
Ecco
Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor
virtú; ché ferità non regna
là
've umana miseria si compiagne.
Or
ti conforta, ché tal fama ancora
di
pro ti fia cagione e di salvezza».
Cosí dicendo, e la già nota istoria
mirando,
or con sospiri, ed or con lutto
va
di vana pittura il cor pascendo.
E
come quei ch'a Troia il tutto vide,
i
siti rammentandosi e le zuffe,
col
sembiante riscontra il vivo e 'l vero.
Quinci
vede fuggir le greche schiere,
quindi
le frigie: a quelle Ettorre infesto,
a
queste Achille, a cui parea d'intorno
che
solo il suon del carro e solo il moto
del
cimiero avventasse orrore e morte.
Né senza lagrimar Reso conobbe
ai
destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,
fatti
di sangue in mille parti rossi:
che
sotto v'era Dïomede, anch'egli
insanguinato;
e si facea d'intorno
alta
strage di gente che nel sonno,
prima
che da lui morta, era sepolta.
Vedea
quindi i cavalli al campo addotti,
che
non potêr (fato a' Troiani avverso!)
di
Troia erba gustare, o ber del Xanto.
Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto
Troïlo,
già senz'armi e senza vita:
giovinetto
infelice, che di tanto
diseguale
ad Achille, ebbe ardimento
di
stargli a fronte. Egli in su 'l vòto carro
giacea
rovescio, e strascinato e lacero
da'
suoi cavalli, avea la destra ancora
a
le redini involta, e 'l collo e i crini
traea
per terra; e l'asta, onde trafitto
portava
il petto, con la punta in giuso
scrivea
note di sangue in su la polve.
Ecco intanto venir di Palla al tempio
in
lunga schiera ed ordinata pompa
le
donne d'Ilio a far del peplo offerta.
Battonsi
i petti, e scapigliate e scalze
paion
pregar divotamente afflitte
perdóno
e pace; ed ella irata e fera,
vòlte
le luci a terra e 'l tergo a loro,
mostra
fastidio di mirarle e sdegno.
Vede
il misero Ettòr che già tre volte
tratto
era d'Ilio a la muraglia intorno.
Vede
il padre piú misero, ch'in forza
del
dispietato e suo nimico Achille,
oro
in premio gli dà del suo cadavero;
spettacolo
crudel che gli trafigge
profondamente
e piú d'ogn'altro il core,
ove
il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso
vede
d'un tanto amico, ed un re tale,
che
solo e disarmato e supplichevole
stassi
a l'ucciditor del figlio avanti.
Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era
a
dura mischia incontro a' greci eroi.
Riconobbe
lo stuol che d'Orïente
addusse
de l'Aurora il negro figlio:
e
lui raffigurò, che di Vulcano
avea
lo sbergo e l'armatura in dosso.
Scorge d'altronde di lunati scudi
guidar
Pentesilèa l'armate schiere
de
l'Amazzoni sue: guerriera ardita,
che
succinta, e ristretta in fregio d'oro
l'adusta
mamma, ardente e furïosa
tra
mille e mille, ancor che donna e vergine,
di
qual sia cavalier non teme intoppo.
Stava da tante meraviglie ad una
sola
vista ristretto, attento e fiso
Enea
pien di vaghezza e di stupore:
quand'ecco
la regina accompagnata
da
real corte, con real contegno
entro
al tempio bellissima comparve.
Qual
su le ripe de l'Eurota suole,
o
ne' gioghi di Cinto, allor Dïana
ch'a
l'Orèadi sue la caccia indíce,
a
mille che le fan cerchio d'intorno,
divisar
vari offici, e faretrata
da
la faretra in su gir sovra l'altre
neglettamente
altera, onde a Latona
s'intenerisce
per dolcezza il core;
tale
era Dido, e tal per mezzo a' suoi
se
ne gia lieta, e dava ordine e forma
al
nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.
Giunta
al cospetto de la diva, in mezzo
de
la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta
d'armati, in maestà si pose:
e
mentre con dolcezza editti e leggi
porge
a la gente, e con egual compenso
l'opre
distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi
Enea, nel tempio stesso
vede
da gran concorso attorneggiati
entrar
Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani,
che da sé disgiunti e sparsi
avea
dianzi del mar l'aspra tempesta.
Stupor,
timor, letizia, tenerezza
e
disio d'abbracciarli e di mostrarsi
assaliro
in un tempo Acate e lui.
Ma,
dubii del successo, entro la nube
dissimulando
se ne stêro, e cheti,
per
ritrar che seguisse e che seguito
fosse
già de le navi e de' compagni,
di
cui questi eran primi e li piú scelti
di
ciascun legno. E già pieno era il tempio
di
tumulto e di vóti ch'altamente
si
sentian vènia risonare e pace.
Poiché furo entromessi, e ch'udïenza
fur
lor concessa, il saggio Ilïoneo
prese
umilmente in cotal guisa a dire:
«Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar
nuova cittade, e con giustizia
por
freno a gente indomita e superba,
noi
miseri Troiani, a tutti i vènti,
a
tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti
dopo l'onde in preda al foco
che
da' tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti
a proveder che nel tuo regno
non
si commetta un sí nefando eccesso.
Fa
cosa di te degna, abbi di noi
pietà,
che pii, che giusti, ch'innocenti
siamo,
non predatori, non corsari
de
le vostre marine o de l'altrui:
tanto
i vinti d'ardire, e gl'infelici
d'orgoglio
e di superbia, ohimè! non hanno.
Una parte d'Europa è, che da' Greci
si
disse Esperia, antica, bellicosa
e
fertil terra, dagli Enotrei cólta.
Prima
Enotria nomossi, or, come è fama,
preso
d'Italo il nome, Italia è detta.
Qui
'l nostro corso era diritto, quando
Orïon
tempestoso i vènti e 'l mare
sí repente commosse, e mar sí fero,
vènti
sí pertinaci, e nembi e turbi
cosí
rabbiosi, che sommersi in parte
e
dispersi n'ha tutti: altri a le secche,
altri
a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e
noi pochi, di tanti, ha qui condotti.
Ma qual sí cruda gente, qual sí fera
e
barbara città quest'uso approva,
che
ne sia proibita anco l'arena?
Che
guerra ne si muova, e ne si vieti
di
star ne l'orlo de la terra a pena?
Ah!
se de l'armi e de le genti umane
nulla
vi cale, a dio mirate almeno,
che
dal ciel vede e riconosce i meriti
e
i demeriti altrui. Capo e re nostro
era
pur dianzi Enea, di cui piú giusto,
piú
pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace
guerrier
non fu già mai. Se questi è vivo,
se
spira, se il destin non ce l'invidia,
quanto
ne speriam noi, tanto potresti
tu
non pentirti a provocarlo in prima
a
cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem
terre, avem armi, avemo Aceste
che
n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.
Quel
che vi domandiamo è spiaggia, è selva,
è
vitto da munir, da risarcire
i
vòti e stanchi e sconquassati legni,
per
poter lieti (ritrovando il duce
e
gli altri nostri, o se pur mai n'è dato
veder
l'Italia) ne l'Italia addurne;
ma
se nostra salute in tutto è spenta,
se
te, nostro signor, nostro buon padre,
di
Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna
non
ci riman del giovinetto Iulo,
almen
tornar ne la Sicania, ond'ora
siam
qui venuti e dove il buon Aceste
n'è
parato mai sempre ospite e rege».
Al dir d'Ilïoneo fremendo tutti
assentirono
i Teucri, e la regina
con
gli occhi bassi e con benigna voce
brevemente
rispose: «O miei Troiani,
toglietevi
dal cuore ogni timore,
ogni
sospetto. Gli accidenti atroci,
la
novità di questo regno a forza
mi fan sí rigorosa, e sí guardinga
de' miei confini. E chi di Troia il nome,
chi
de' Troiani i valorosi gesti,
e
l'incendio non sa di tanta guerra?
Non
han però sí rozzo core i Peni:
non
sí lunge da lor si gira il sole,
che
né pietà né fama unqua v'arrive.
Voi
di qui sempre, o de la grand'Esperia
e
di Saturno che cerchiate i campi,
o
che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice
tornare
ai liti, in ogni caso liberi
ve
n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta
scarsa
non vi sarò, né di sussidio:
e
se qui dimorar meco voleste,
questa
è vostra città. Tirate al lito
vostri
navili: ché da' Teucri a' Tiri
nulla
scelta farò, nullo divario.
Cosí
qui fosse il vostro re con voi!
cosí
ci capitasse! Ma cercando
io
manderò di lui fino a l'estremo
de'
miei confini la riviera tutta,
se
per sorte gittato in queste spiagge
per
selve errando o per cittadi andasse».
Rincorossi a tal dire il padre Enea
e
'l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan
già disïosi. Acate il primo
mosse
dicendo: «Omai, signor, che pensi?
Tutto
è sicuro, e tutti a salvamento
i
nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol
un ne manca; e questo a noi davanti
il
mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di
tua madre risponde». A pena Acate
ciò
disse, che la nugola s'aperse,
assottigliossi
e col ciel puro unissi.
Rimase
in chiaro Enea, tale ancor egli
di
chiarezza e d'aspetto e di statura,
che
come un dio mostrossi: e ben a dea
era
figliuol, che di bellezza è madre.
Ei
degli occhi spirava e de le chiome
quei
chiari, lieti e giovenili onori
ch'ella
stessa di lui madre gl'infuse.
Tale
aggiunge l'artefice vaghezza
a
l'avorio, a l'argento, al pario marmo,
se
di fin oro li circonda e fregia.
Cotal,
comparso d'improvviso a tutti,
si
fece avanti a la regina, e disse:
«Quegli che voi cercate, Enea troiano,
son
qui, dal mar ritolto. A te ricorro,
vera
regina, a te sola pietosa
de
le nostre ineffabili fatiche.
Tu
noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde
d'ogni
strazio bersaglio, d'ogni cosa
bisognosi
e mendíci, nel tuo regno
e
nel tuo albergo umanamente accogli.
A
renderti di ciò merito eguale
bastante
non son io, né fôran quanti
de
la gente di Dardano discesi
vanno
per l'universo oggi dispersi.
Ma
gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura,
se
nel mondo è giustizia, se si truova
chi
d'altamente adoperar s'appaghe)
te
ne dian guiderdone. Età felice!
Avventurosi
genitori e grandi
che
ti diedero al mondo! Infin che i fiumi
si
rivolgono al mare, infin ch'a' monti
si
giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,
i
tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi
mi
saran sempre, ovunque io sia, davanti».
Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto,
al
caro Ilïonèo la destra porse,
la
sinistra a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto,
al forte Gía: l'un dopo l'altro
tutti
gli salutò. Stupí Didone
nel
primo aspetto d'un sí nuovo caso,
e
d'un uom tale; indi riprese a dire:
«Qual forza o qual destino a tanti rischi
t'hanno
in sí strani, in sí feri paesi
esposto,
o de la dea famoso figlio?
E
sei tu quell'Enea che in su la riva
di
Simoenta il gran dardanio Anchise
di
Venere produsse? Io mi ricordo
quel
che n'intesi già da Teucro, quando,
fuor
di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi
regni cercava. Egli a Sidone
venne
in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo
mio padre allor facea l'impresa
e
'l conquisto di Cipro. Infin d'allora
io
del caso di Troia e del tuo nome
e
de l'oste de' Greci ebbi notizia.
Ed
ei ch'era sí rio nimico vostro,
celebrava
il valor di voi Troiani,
e
trar volea da Troia il suo legnaggio.
Voi
da me dunque amico e fido ospizio,
giovini,
arete. E me fortuna ancora,
a
la vostra simíle, ha similmente
per
molti affanni a questi luoghi addotta:
sí
che natura e sofferenza e pruova
de'
miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa
e sovvenevole a gli altrui».
Ciò detto, Enea cortesemente adduce
ne
la sua reggia. In ogni tempio indíce
feste
e preci solenni. Ordina appresso
che
si mandino al mar venti gran tori,
cento
gran porci, cento grassi agnelli,
con
cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni
per
vitto e per letizia è di mestiero.
Dentro
al real palagio, realmente,
de'
piú gentili e sontuosi arnesi
il
convito e le stanze orna e prepara;
cuopre
d'ostro le mura; empie le mense
d'argento
e d'oro, ove per lunga serie
son
de' padri e degli avi i fatti egregi.
Enea, cui la paterna tenerezza
quetar
non lascia, a le sue navi innanzi
ratto
spedisce Acate, che di tutto
Ascanio
avvisi, ed a sé tosto il meni;
ché
in Ascanio mai sempre intento e fiso
sta
del suo caro padre ogni pensiero.
Gli
comanda, oltre a ciò, ch'a la regina
porti
alcune a donar spoglie superbe
che
si salvâr da la ruina appena
e
dal foco di Troia: un ricco manto
ricamato
a figure, e di fin'oro
tutto
contesto: un prezïoso velo,
cui
di pallido acanto un ampio fregio
trapunto
era d'intorno: ambi ornamenti
d'Elena
argiva, e di sua madre Leda
mirabil
dono. In questo avea le bionde
sue
chiome avvolte il dí che di Micene
a
nuove nozze, e non concesse, uscio;
e
porti anco lo scettro, onde superba
Ilïone
di Prïamo sen giva
primogenita
figlia, e 'l suo monile
di
gran lucide perle; e quella stessa,
onde
'l fronte cingea, doppia corona,
di
gemme orïentali ornata e d'oro.
Tutto
ciò procurando il fido Acate
in
vèr le navi accelerava il piede.
Venere in tanto con nuov'arte e nuovi
consigli
s'argomenta a far che in vece
e
'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído
se
ne vada in Cartago; e con quei doni,
con
le dolcezze sue, con la sua face
alletti,
incenda, amor desti e furore
nel
petto a la regina, onde sospetto
piú
non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia
de
la sua gente, o di Giunon l'insidie,
che
da pensare e da vegghiar le danno
tutte
le notti. E fatto a sé venire
l'alato
dio, cosi seco ragiona:
«Figlio, mia forza e mia maggior possanza:
figlio,
che del gran padre anco non temi
l'orribil
tèlo, onde percosso giacque
chi
ne diè fin nel ciel briga e spavento,
a
te ricorro e dal tuo nume aíta
chieggio
a l'altro mio figlio Enea tuo frate.
Come
Giuno il persegua, e come l'aggia
per
tutti i mari omai spinto e travolto,
tu
'l sai che del mio duol ti sei doluto
piú
volte meco. Or la sidonia Dido
l'ave
in sua forza, e con benigni e dolci
modi
fin qui l'accoglie e lo trattiene.
Ma
là dov'è, lassa! che val, comunque
sia
caramente accolto? in casa a Giuno
da
le carezze ancor chi m'assicura?
Ch'ella
piú neghittosa o meno atroce,
in
un caso non fia di tanto affare.
E
però con astuzia e con inganno
cerco
di prevenirla, e del tuo foco
ardere
il cuor de la regina in guisa,
ch'altro
nume nol mute, e meco l'ami
d'immenso
affetto. Or come agevolmente
ciò
porre in atto e conseguir si possa,
ascolta.
Enea manda testé chiamando
il
suo regio fanciullo, amor supremo
del
caro padre, e mio sommo diletto,
perché
de' Tiri a la città sen vada
con
doni a la regina, che di Troia
a
l'incendio avanzarono ed al mare.
Questo
vinto dal sonno, o sopra l'alta
Citèra,
o dentro al sacro bosco Idalio
terrò
celato sí ch'ei non s'accorga,
ed
accorto di ciò non faccia altrui
con
alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo,
il noto fanciullesco aspetto
mentire
acconciamente, in lui ti cangia
sola
una notte, e gli suoi gesti imita.
E
quando Dido al suo real convito
riceveratti,
e, come a mensa fassi,
sarà,
bevendo e ragionando, allegra;
quando,
come farà, cortese in grembo
terratti,
abbracceratti, e dolci baci
porgeratti
sovente, a poco a poco
il
tuo foco le spira e 'l tuo veleno».
Al voler della sua diletta madre
pronto
mostrossi e baldanzoso Amore,
e
gittò l'ali; ed in un tempo l'abito
e
'l sembiante e l'andar prese di Iulo.
Ciprigna
intanto al giovinetto Ascanio
tale
un profondo e dolce sonno infuse,
e
'n guisa l'adattò, che agiatamente
in
grembo lo si tolse; e ne la cima
de
la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di
lieti fiori e d'odorata persa,
a
la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.
Cupído
co' suoi doni allegramente,
per
far quanto gli avea la madre imposto,
con
la guida si pon d'Acate in via.
Giunse
che giunta era Didone appunto
ne
la gran sala, che di fini arazzi,
di
fior, di frondi e di festoni intorno
era
tutta vestita, ornata e sparsa.
E
già sopra la sua dorata sponda
con
real maestà s'era nel mezzo
a
tutti gli altri alteramente assisa.
Appresso
Enea, poscia di mano in mano
sopra
drappi di porpora e di seta
si
stendea la troiana gioventute.
Già
con l'acqua e con Cerere a le mense
gli
aurati vasi e i nitidi canestri
e
i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano
dentro, a le vivande intorno,
intorno
a' fuochi, a dar ordine a' cibi,
cinquanta
ancelle, ed altre cento fuori
con
altrettanti di una stessa etade
tra
scudieri e pincerni; e gli atrii tutti
si
rïempiêr di Tiri, a cui le mense
di
tappeti dipinti eran distese.
A l'apparir del giovinetto Iulo
corser
tutti a mirare il manto e 'l velo
e
gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,
a
sentir quelle sue finte parole,
a
contemplar quel grazïoso aspetto,
ch'ardore
e deità raggiava intorno.
Ma
sopra tutti l'infelice Dido
non
potea né la vista, né 'l pensiero
saziar,
mirando or gli suoi doni, or lui;
e
com' piú gli rimira, e piú s'accende.
Poiché lunga fïata umile e dolce
del
non suo genitor pendé dal collo,
e
finse di figliuol verace affetto,
si
volse a la regina. Ella con gli occhi,
col
pensier tutto lo contempla e mira:
lo
palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.
Misera!
che non sa quanto gran dio
s'annidi
in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando
il precetto, a poco a poco
de
la mente Sichèo comincia a trarle,
con
vivo amore e con visibil fiamma
rompendole
del core il duro smalto,
e
'ntroducendo il suo già spento affetto.
Cessati i primi cibi, e da' ministri
già
le mense rimosse, ecco di nuovo
comparir
nuove tazze e vino e fiori,
per
lietamente incoronarsi e bere.
Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che
d'allegrezza empian le sale e gli atrii.
E
i torchi e le lumiere che pendevano
da
i palchi d'oro, poiché notte fecesi,
vinceano
'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.
Qui
fattosi Didone un vaso porgere
d'oro
grave e di gemme, ov'era solito
ne'
conviti e ne' dí solenni e celebri
ber
Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di
fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,
orò,
cosí dicendo: «Eterno Giove,
che,
Albergator nomato, hai de gli alberghi
e
de le cortesie cura e diletto,
priegoti
ch'a' Fenici ed a' Troiani
fausto
sia questo giorno, e memorando
sempre
a' posteri loro. E te, Lièo,
largitor
di letizia, e te, celeste
e
bionda Giuno, a questa prece invoco.
Voi
co' vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate
a' prieghi miei divoto assenso».
Ciò detto, riversollo, e lievemente
del
sacrato liquor la mensa asperse,
poscia
ella in prima con le prime labbia
tanto
sol ne sorbí quanto n'attinse.
Indi
con dolce oltraggio e con rampogne
a
Bizia il diè, che valorosamente
a
piena bocca infino a l'aureo fondo
vi
si tuffò col volto, e vi s'immerse.
Ciò
seguîr gli altri eroi. Comparve intanto
co'
capei lunghi e con la cetra d'oro
il
biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantò
del ciel le meraviglie e i moti
che
dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò
le vie che drittamente torte
rendon
vaga la luna e buio il sole;
come
prima si fêr gli uomini e i bruti;
com'or
si fan le piogge e i venti e i folgori:
cantò
l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,
e
perché tanto a l'Oceàno il verno
vadan
veloci i dí, tarde le notti.
Un novo plauso incominciaro i Tiri:
seguiro
i Teucri: e l'infelice Dido,
che
già fea dolce con Enea dimora,
quanto
bevesse amor non s'accorgendo,
a
lungo ragionar seco si pose
or
di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi
venisse
a Troia de l'Aurora il figlio,
or
qual fosse Diomede, or quanto Achille.
«Anzi,
se non t'è grave, - al fin gli disse -
incomincia
a contar fin da principio
e
l'insidie de' Greci e la ruina
e
l'incendio di Troia, e 'l corso intero
de
gli errori vostri: già che 'l settim'anno
e
per terra e per mar raminghi andate».
Stavan taciti, attenti e disïosi
d'udir
già tutti, quando il padre Enea
in
sé raccolto, a cosí dir da l'alta
sua
sponda incominciò: «Dogliosa istoria
e
d'amara e d'orribil rimembranza,
regina
eccelsa, a raccontar m'inviti:
come
la già possente e glorïosa
mia
patria, or di pietà degna e di pianto,
fosse
per man de' Greci arsa e distrutta.
E
qual ne vid'io far ruina e scempio:
ch'io
stesso il vidi, ed io gran parte fui
del
suo caso infelice. E chi sarebbe,
ancor
che Greco e Mirmidóne e Dòlopo,
che
a ragionar di ciò non lagrimasse?
E
già la notte inchina, e già le stelle
sonno,
dal ciel caggendo,
a
gli occhi infondono:
ma
se tanto d'udire i nostri guai,
se
brevemente di saver t'aggrada
l'ultimo
eccidio, ond'ella arse e cadeo,
benché
lutto e dolor mi rinnovelle,
e
sol de la memoria mi sgomente,
io
lo pur conterò. Sbattuti e stanchi
di
guerreggiar tant'anni, e risospinti
ancor
da' fati, i greci condottieri
a
l'insidie si diêro; e da Minerva
divinamente
instrutti, un gran cavallo
di
ben contesti e ben confitti abeti
in
sembianza d'un monte edificaro.
Poscia,
finto che ciò fosse per vóto
del
lor ritorno, di tornar sembiante
fecero
tal, che se ne sparse il grido.
Dentro
al suo cieco ventre e ne le grotte,
che
molte erano e grandi, in sí gran mole,
rinchiuser
di nascosto arme e guerrieri
a
ciò per sorte e per valore eletti.
Giace di Troia un'isola in cospetto
(Tènedo
è detta) assai famosa e ricca,
mentre
ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto
è
sol di naviganti e di navili,
infido
seno, e mal sicura spiaggia.
Qui,
poiché di Sigèo sciolse e spario,
la
greca armata si rattenne, e dietro
appiattossi
al suo lito ermo e deserto:
e
noi credemmo che veracemente
fosse
partita, e che a spiegate vele
gisse
a Micene. Onde la Teucria tutta,
già
cotant'anni lagrimosa e mesta,
volta
ne fu subitamente in gioia.
S'aprîr
le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno
le
genti tutte, disïose e liete
di
veder vòti i campi e sgombri i liti,
ch'eran
coverti pria di navi e d'armi.
"Qui s'accampava Achille, e qui de'
Dòlopi
eran
le tende, ivi solean le zuffe
farsi
de' cavalieri e là de' fanti"
dicean
parte vagando; e parte accolti
facean
mirando al gran destriero intorno
meraviglie
e discorsi: e chi per sacro,
e
chi per esecrando il vóto e 'l dono
avean
di Palla. Il primo fu Timete
a
dir ch'entro le mura, e ne la ròcca
quindi
si conducesse, o froda, o fato
che
ciò fosse de' miseri Troiani.
Ma
Capi e gli altri, il cui piú sano avviso
o
per insidïose, o per sospette,
quantunque
sacre, avea le greche offerte,
voleano
o che del mar fosse nel fondo
precipitato,
o che di fiamme ardenti
si
circondasse, o che forato e lacero
gli
fosse il petto e sviscerato il fianco.
Stava tra questi due contrari in forse
in
due parti diviso il volgo incerto;
quando
con gran caterva e con gran furia
da
la ròcca discese, e di lontano
gridò
Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o
sfortunati! agli nemici, a' Greci
date
credenza? a lor credete voi
che
sian partiti? e sarà mai che doni
siano
i lor doni, e non piú tosto inganni?
Cosí
v'è noto Ulisse? O in questo legno
sono
i Greci rinchiusi, o questa è macchina
contra
alle nostre mura, o spia per entro
ai
nostri alberghi, o scala o torre o ponte
per
di sopra assalirne. E che che sia,
certo
o vi cova o vi si ordisce inganno,
ché
de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".
Ciò detto, con gran forza una
grand'asta
avventogli,
e colpillo, ove tremante
stette
altamente infra due coste infissa:
e
'l destrier, come fosse e vivo e fiero,
fieramente
da spron punto cotale,
si
storcé, si crollò, tonogli il ventre,
e
rintonâr le sue cave caverne.
E
se 'l fato non era a Troia avverso,
se
le menti eran sane, avea quel colpo
già
commossi infiniti a lacerarlo,
e
del tutto a scovrir l'agguato argolico:
ond'oggi
e tu, grand'Ilio, e tu, diletta
Troia,
staresti. Ma si vide intanto
de'
pastor paesani una masnada
venir
gridando al re, ch'ivi era giunto,
e
trargli avanti un giovine prigione
ch'avea
dietro le mani al tergo avvinte.
Questi
era greco; e da' suoi Greci avea
di
salvare il destrier, d'aprir lor Troia
assunto
impresa; e per condurla, a tempo
ascosto,
a tempo a quei pastori offerto
s'era
per se medesmo, in sé disposto
e
fermo di due cose una a finire,
o
quest'opra, o la vita. A ciò concorso,
per
desio di vedere, il popol tutto
dal
caval si distolse, e diessi a gara
a
schernire il prigione. Or ascoltate
le
malizie de' Greci; e da quest'uno
conosceteli
tutti. Egli nel mezzo
cosí
com'era a le nemiche schiere,
turbato,
inerme e di catene avvinto,
fermossi:
e poi che rimirolle intorno,
con
voce di pietà proruppe, e disse:
"Or quale o terra, o mare, o loco
altrove
sarà,
misero me! che mi raccolga,
o
che m'affidi omai? poiché tra' Greci
non
ho dov'io ricovri, e da' Troiani
non
deggio altro aspettar che strazio e morte?"
Ne
commosse a pietà, n'acquetò l'ira
sí
doglioso rammarco: e con dolcezza
e
con promesse il confortammo a dire
chi,
di che loco e di che sangue fosse,
e
che portasse, e qual fidanza avesse
a
darnesi prigione. Egli, in tal guisa
assecurato,
al re si volse e disse:
"Signor,
segua che vuole, in tuo cospetto
io
dirò tutto; e dirò vero. E prima
d'esser
greco io non niego; ché fortuna
può
ben far che Sinon sia gramo e misero,
ma
non già mai che sia bugiardo e vano.
Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
ti
venne mai di Palamède il nome,
che
nomato e pregiato e glorïoso,
e
da Belo altamente era disceso;
se
ben con falso e scelerato indizio
di
tradigion, per detestar la guerra,
ei
fu da' Greci indegnamente occiso:
com'or,
che ne son privi, i Greci stessi
lo
piangon tutti! A questo Palamede,
a
cui per parentela era congiunto,
il
pover padre mio ne' miei prim'anni
pria
per valletto nel mestier de l'armi
poi
per compagno a questa guerra diemmi.
Infin
ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,
fioriro
anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome
e
'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.
Estinto
lui (che per invidia avvenne,
com'ognun
sa, del traditore Ulisse),
amaramente
il piansi. E 'l caso indegno
d'un
tanto amico, e la mia vita oscura
tra
me sdegnando, come soro e folle
ch'io
fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte
mel
consentisse, o se mai fossi in Argo
vincitor
ritornato, alta vendetta
ne
gli promisi, e con minacce e motti
acerbi
acerbamente il provocai.
Questo fu del mio mal prima radice;
e
quinci de' suoi falli e del mio duolo
consapevole
Ulisse, a spaventarmi,
a
travagliarmi, a seminar susurri
si
diè nel volgo, e procurarmi inciampi
ond'io
cadessi. E non cessò, ch'ordimmi
per
mezzo di Calcante... Ma dov'entro,
lasso!
senza profitto a fastidirvi
con
noiose novelle? A voi sol basta
di
saver ch'io son greco, già che i Greci
tutti
egualmente per nimici avete.
Or
datemi, signor, supplizio e morte
qual
a voi piace, ché piacere e gioia
n'aranno
i regi ancor d'Itaca e d'Argo".
E
qui si tacque. Allor brama ne venne,
non
che disio, di piú sapere avanti;
non
ben sapendo ancor, miseri noi!
quanta
scelleratezza e quanta astuzia
fosse
ne' Greci. Egli, a seguir costretto,
mostrossi
in prima paventoso, e poscia
di
nuovo assicurossi, e finse, e disse:
"Hanno molte fïate i Greci,
afflitti
già
da la guerra, e dal disagio astretti,
disïato
e tentato anco piú volte
di
qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.
Cosí
fatto l'avessero! Ma sempre
or
il verno, or i vènti, or le procelle
gli
han distornati. E pur dianzi che l'opra
del
caval che vedete era fornita,
di
nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,
di
tempeste, di turbini e di nembi
risonò
'l cielo, e conturbossi il mare.
Onde,
sospesi, Eurípilo mandammo
a
spïar sopra a ciò quel che da Febo
ne
s'avvertisse. Riportonne un empio
e
spaventoso oracolo; e fu questo:
-
Col sangue e con la morte d'una vergine
placaste
i vènti per condurvi in Ilio;
col
sangue e con la morte ora d'un giovine
convien
placarli per ridurvi in Grecia. -
A
cosí fiera voce sbigottissi,
impallidissi,
e tremò 'l volgo tutto,
ciascun
per sé temendo; e nessun certo
qual
di loro accennasse Apollo e 'l fato.
Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo
con
gran tumulto appresentar Calcante:
e
del volere in ciò de' santi numi
interrogollo.
Ed ei rispose in guisa
che
la sua fellonia, benché da tutti
fusse
prevista, fu però da molti
simulata
e taciuta, e da molti anco
a
me predetta: pur ei tacque ancora
per
dieci giomi; e scaltramente al niego
si
mise di voler che per suo detto
fosse
alcun destinato o spinto a morte.
Ma
poi, come da gridi astretto e vinto,
di
conserto con lui ruppe il silenzio,
sí
ch'io fui dichiarato al fin per vittima;
consentîr
tutti, perché tutti ancora
finian
con la mia morte il lor periglio.
Era già da vicino il giorno orribile,
in
che doveano al sacrificio offrirmi:
e
già 'l farro e già 'l sale e già le bende
erano
a le mie tempie intorno avvolte,
quando,
rotto (io nol niego) ogni ritegno,
da
la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti
desser
le vele (ch'eran presti a darle)
di
buia notte in un pantan m'ascosi,
ove
nel fango infra le scarde e i giunchi
stava
qual mi vedete. Ora son qui
privo
d'ogni conforto e d'ogni speme
di
mai piú riveder la patria antica,
i
dolci figli e 'l desïato padre,
che
saran, lasso me! per la mia fuga,
benché
innocenti, ancor forse in mia vece
incarcerati,
e tormentati, e morti.
Or io, signor, per quelli eterni dèi
che
scorgon di là su se 'l vero io parlo,
per
quella pura e 'ntemerata fede
(se
tra' mortali in alcun loco è tale)
ond'io
già tutto a rivelar ti vegno,
priegoti
che pietà di me ti prenda,
e
de' miei tanti e sí gravosi affanni
ch'indegnamente
io soffro". A cotal pianto
commossi,
e da noi fatti anco pietosi,
vita
e vènia gli diamo. E di sua bocca
comanda
il re che si disferri e sciolga;
poi
dolcemente in tal guisa gli parla:
"Qual
tu ti sia, de' tuoi perduti Greci
ti
dimentica omai; ché per innanzi
sarai
de' nostri. Or mi rispondi il vero
di
quel ch'io ti domando. A che fine hanno
qui
sí grande edificio i Greci eretto?
Per
consiglio di cui? Con qual avviso
l'han
fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?
Che
trama è questa?" Avea 'l re detto a pena,
quand'ei,
d'inganni e d'arte greca instrutto,
le
già disciolte mani al cielo alzando,
disse:
"Voi fochi eterni e 'nvïolabili,
voi
fasce ond'io portai le tempie avvinte,
voi
sacri altari, e voi cultri nefandi,
cui
fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico
per
testimoni invoco. A me lece ora
ch'io
mi disciolga, e mi dissacri in tutto
da
l'obbligo de' Greci. E mi lece anco
che
non gli ami, e che gli odii, e che divolghi
quel
che da lor si cela, già ch'astretto
piú
non son de la patria a legge alcuna.
Tu,
se vero io ti dico, e se gran merto
di
ciò ti rendo, e te, Troia, conservo,
conserva
a me la già promessa fede.
Nel cominciar di questa guerra i Greci
riposero
ogni speme, ogni fidanza
ne
l'aiuto di Palla; e ben riposte
fûr
sempre, infin che l'empio Dïomede,
e
l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,
il
sacro tempio suo non vïolaro:
come
fêr quando, ne la ròcca ascesi,
n'uccisero
i custodi, e n'involaro
il
Palladio fatale, osando impuri
por
le man sanguinose al sacrosanto
suo
simulacro; e macular le intatte
e
'ntemerate sue verginee bende.
Da
indi in qua d'ardir sempre e di forze
scemâr,
non che di speme; e Palla infesta
ne
fu lor sempre; e ne diè chiari segni
e
portentosi, allor ch'al campo addotta
fu
la sua statua, che, posata a pena,
torvamente
mirogli, e lampi e fiamme
vibrò
per gli occhi, e per le membra tutte
versò
salso sudore. Indi tre volte,
meraviglia
a contarlo! alto da terra
surse,
e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.
Allor
gridando indovinò Calcante
che
fuggir si dovesse, e tosto a' vènti
spiegar
le vele: ché di Troia in vano
era
l'assedio, se con altri augúri
d'Argo
non si tornava un'altra volta,
e
de la dea non si placava il nume,
ch'or,
per ciò fare, han seco in Grecia addotto.
Onde
giunti a Micene, incontinente
si
daranno a dispor l'armi e le genti
e
gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.
Poi,
ripassando il mar, con maggior forza
di
nuovo assaliranvi e d'improvviso:
cosí
Calcante interpreta, e predice.
Or questa mole, che tant'alto sorge,
qui
per consiglio di Calcante è posta
in
vece del Palladio, e per ammenda
del
nume offeso, a bello studio intesta
di
legni cosí gravi e cosí grandi,
ed
a sí smisurata altezza eretta,
a
fin che per le porte entro a le mura
quinci
addur non si possa, ove per segno
e
per memoria poi del nume antico
riverita
da voi, sacrata e cólta
sia
ricovro e tutela al popol vostro.
Ché
allor che questo dono a Palla offerto
per
vostra man sia vïolato e guasto,
ruina
estrema (la qual sopra lui
caggia
piú tosto) a voi vuol che ne venga,
ed
al gran vostro impero: ed, a rincontro,
quando
da voi sia dentro al vostro cerchio
condotto
e custodito, allor che l'Asia
congiurerà
con le sue forze tutte
a
l'esterminio d'Argo, e che tal fato
sopra
a' nostri nepoti in cielo è fisso".
Con tal arte Sinon, con tali insidie
fe'
sí che gli credemmo; e quelli stessi
cui
non potêr né 'l figlio di Tideo,
né
di Larissa il bellicoso alunno,
né
diece anni domar, né mille navi,
furon
da lagrimette e da menzogne
sforzati
e vinti. In questa a gl'infelici
un
altro sopravvenne assai maggiore
e
piú fiero accidente; onde a ciascuno
d'improvviso
spavento il cor turbossi.
Era Laocoonte a sorte eletto
sacerdote
a Nettuno; e quel dí stesso
gli
facea d'un gran toro ostia solenne:
quand'ecco
che da Tènedo (m'agghiado
a
raccontarlo) due serpenti immani
venir
si veggon parimente al lito,
ondeggiando
coi dorsi onde maggiori
de
le marine allor tranquille e quete.
Dal
mezzo in su fendean coi petti il mare,
e
s'ergean con le teste orribilmente,
cinte
di creste sanguinose ed irte.
Il
resto con gran giri e con grand'archi
traean
divincolando, e con le code
l'acque
sferzando sí che lungo tratto
si
facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti
a la riva, con fieri occhi accesi
di
vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrâr
le lingue, e gittâr fischi orribili.
Noi,
di paura sbigottiti e smorti,
chi
qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui
s'affilâr
drittamente a Laocoonte,
e
pria di due suoi pargoletti figli
le
tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen
fêro crudo e miserabil pasto.
Poscia
a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto
in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser
sí che le scagliose terga
con
due spire nel petto e due nel collo
gli
racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro
al suo capo fieramente infisse,
gli
addentarono il teschio. Egli, com'era
d'atro
sangue, di bava e di veleno
le
bende e 'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar
con le man tentava indarno,
e
d'orribili strida il ciel feriva;
qual
mugghia il toro allor che dagli altari
sorge
ferito, se del maglio appieno
non
cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I
fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati,
in vèr la ròcca insieme
strisciando
e zufolando, al sommo ascesero:
e
nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti,
a' piè di lei si raggrupparo.
Rinnovossi
di ciò nel volgo orrore
e
tremore e spavento; e mormorossi
che
degnamente avea Laocoonte
di
sua temerità pagato il fio,
e
del furor che contra al sacro legno
gli
armò l'impura e scelerata mano:
e
gridâr tutti che di Palla al tempio
si
conducesse, e con preghiere e vóti
de
la dea si facesse il nume amico.
A
ciò seguire immantinente accinti,
ruiniamo
la porta, apriam le mura,
adattiamo
al cavallo ordigni e travi,
e
ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosí
mossa e tirata agevolmente
la
macchina fatale il muro ascende,
d'armi
pregna e d'armati, a cui d'intorno
di
verginelle e di fanciulli un coro,
sacre
lodi cantando, con diletto
porgean
mano a la fune. Ella, per mezzo
tratta
de la città, mentre si scuote,
mentre
che ne l'andar cigola e freme,
sembra
che la minacci. O patria, o Ilio,
santo
de' numi albergo! inclita in arme
dardania
terra! Noi la pur vedemmo
con
tanti occhi a l'entrar, che quattro volte
fermossi,
e quattro volte anco n'udimmo
il
suon de l'armi: e pur, da furia spinti,
ciechi
e sordi che fummo, i nostri danni
ci
procurammo: ché 'l dí stesso addotto
e
posto in cima a la sacrata ròcca
fu
quel mostro infelice. Allor Cassandra
la
bocca aperse, e quale esser solea
verace
sempre e non creduta mai,
l'estremo
fine indarno ci predisse:
e
noi di sacra e di festiva fronde
velammo
i templi il dí, miseri noi,
che
de' lieti dí nostri ultimo fue.
Scende da l'Oceàn la notte intanto,
e
col suo fosco velo involve e copre
la
terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme
l'ordite
insidie. I Teucri a i loro alberghi,
a
i lor riposi addormentati e queti
giacean
securamente; e già da Tènedo
a
l'usata riviera in ordinanza
vèr
noi se ne venia l'argiva armata,
col
favor de la notte occulta e cheta;
quando
da la sua poppa il regio legno
ne
diè cenno col foco. Allor Sinone,
che
per nostra ruina era da noi
e
dal fato maligno a ciò serbato,
accostossi
al cavallo, e 'l chiuso ventre
chetamente
gli aperse, e fuor ne trasse
l'occulto
agguato. Usciro a l'aura in prima
i
primi capi baldanzosi e lieti,
tutti
per una fune a terra scesi.
E
fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse,
Atamante
e Toante e Macaóne
e
Pirro e Menelao con lo scaltrito
fabbricator
di questo inganno, Epèo.
Assalîr
la città che già ne l'ozio
e
nel sonno e nel vino era sepolta;
ancisero
le guardie; aprîr le porte;
miser
le schiere congiurate insieme;
e
diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora
che
nel primo riposo hanno i mortali
quel
ch'è dal cielo a i loro affanni infuso
opportuno
e dolcissimo ristoro:
quand'ecco
in sogno (quasi avanti gli occhi
mi
fosse veramente) Ettòr m'apparve
dolente,
lagrimoso, e quale il vidi
già
strascinato, sanguinoso e lordo
il
corpo tutto, e i piè forato e gonfio.
Lasso
me! quale e quanto era mutato
da
quell'Ettòr che ritornò vestito
de
le spoglie d'Achille, e rilucente
del
foco ond'arse il gran navile argolico!
Squallida
avea la barba, orrido il crine
e
rappreso di sangue; il petto lacero
di
quante unqua ferite al patrio muro
ebbe
d'intorno. E mi parea che 'l primo
foss'io
che lagrimando gli dicessi:
"O
splendor di Dardania, o de' Troiani
securissima
speme, e quale indugio
t'ha
fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni
tanto
da noi bramato? Ahi, dopo quanta
strage
de' tuoi, dopo quanti travagli
de
la nostra città già stanchi e domi
ti
riveggiamo! E qual fero accidente
fa
sí deforme il tuo volto sereno?
E
che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla
rispose,
come a vani miei quesiti:
ma
dal profondo petto alti sospiri
traendo:
"Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -
togliti
a queste fiamme. Ecco che dentro
sono
i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio
arde
tutto e ruina. Infino ad ora
e
per Priamo e per Troia assai s'è fatto.
Se
difendere omai piú si potesse,
fôra
per questa man difesa ancora:
ma
dovendo cader, le sue reliquie
sacre
e gli santi suoi numi Penati
a
te solo accomanda; e tu li prendi
per
compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo,
cerca
loro altre terre, ergi altre mura;
ché
dopo lungo e travaglioso esilio
l'ergerai
piú di Troia altere e grandi".
Detto
ciò, da le chiuse arche riposte
trasse,
e mi consegnò le sacre bende
e
l'effigie di Vesta e 'l foco eterno.
Spargonsi intanto per diverse parti
de
la presa città le grida e 'l pianto
e
'l tumulto de l'armi; e rinforzando
via
piú di mano in man, tanto s'avanza
che
a l'antica magion del padre Anchise
(come
che fosse assai remota, e chiusa
d'alberi
intorno) il gran rumore aggiunge.
Allor
dal sonno mi riscuoto, e salgo
subitamente
d'un terrazzo in cima,
e
porgo per udir gli orecchi attenti.
Cosí rozzo pastor, se da gran suono
è
da lunge percosso, in alto ascende,
e
mirando si sta confuso e stupido
o
foco che al soffiar d'un torbid'Austro
stridendo
arda le biade e le campagne;
o
tempestoso e rapido torrente
che
dal monte precipiti, e le selve
ne
meni e i cólti e le ricolte e i campi.
Allor
tardi credemmo; allor le insidie
ne fûr conte de' Greci. E già 'l palagio
era
di Deïfòbo arso e distrutto;
già
'l suo vicino Ucalegón ardea,
e
l'incendio di Troia in ogni lato
rilucea
di Sigèo ne la marina;
e
s'udian gridar genti e sonar tube.
Io
m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi
non
veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
raunati
i compagni, avventurarmi,
menar
le mani, e ne la ròcca addurmi;
mi
fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio
precipitoso;
e solo a mente vienmi
che
un bel morir tutta la vita onora.
Eravam mossi; quando ecco tra via
ne
si fa Panto d'improvviso avanti,
Panto
figlio d'Otrèo, che de la ròcca
era
custode, e sacerdote a Febo.
Questi,
scampato da' nemici a pena,
inverso
il lito attonito fuggendo,
i
sacri arredi e i santi simulacri
de
gli dèi vinti, e 'l suo picciol nipote
si
traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -
a
che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,
se
la ròcca è già presa?". Ei sospirando
e
piangendo rispose: " È giunto, Enea,
l'ultimo
giorno e 'l tempo inevitabile
de
la nostra ruina. Ilio fu già;
e
noi Troiani fummo: or è di Troia
ogni
gloria caduta. Il fero Giove
tutto
in Argo ha rivolto; e tutti in preda
siam
de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
ch'era
a Palla devoto, altero in mezzo
stassi
de la cittade, e d'ogni lato
arme
versa ed armati. Il buon Sinone
gode
de la sua frode, e d'ogn'intorno
scorrendo
si rimescola, e s'aggira
gran
maestro d'incendi e di ruine.
A
porte spalancate entran le schiere
senza
ritegno ed a migliaia, quante
né
d'Argo usciron mai né di Micene.
Gli
altri che prima entraro, han già le strade
assedïate:
e stan con l'armi infeste,
parate
a far di noi strage e macello.
Soli
son fino a qui sorti in difesa
i
corpi de le guardie: e questi al buio
fanno
con lievi e repentini assalti
tale
una cieca resistenza a pena".
Dal parlar di costui, dal nume avverso
spinto,
mi caccio tra le fiamme e l'armi,
ove
mi chiama il mio cieco furore,
e
de le genti il fremito e le strida
che
feriscono il cielo. E per compagni
primieramente
al lume de la luna
mi
si scopron Rifèo, Ifito il vecchio
ed
Ipane e Dimante: indi comparve
il
giovine Corèbo. Era costui
figlio
a Migdóne, insanamente acceso
de
l'amor di Cassandra; e, come fosse
già
suo consorte, pochi giorni avanti
in
soccorso del suocero e de' Frigi
s'era
a Troia condotto. Infortunato!
che
non avea la sua sposa indovina
ben
anco intesa. A questi insieme accolti,
per
accendergli piú mi volgo e dico:
"Giovini forti e valorosi, in vano
omai
fia la fortezza e 'l valor vostro;
poiché
perduti siamo e che Troia arde,
e
gli dèi tutti, a cui tutela e cura
si
reggea questo impero, in abbandono
lasciano
i nostri templi e i nostri altari.
Ma
se voi cosí fermi e cosí certi
siete
pur, com'io veggio, a seguitarmi,
ancor
che a morte io vada, in mezzo a l'armi
avventiamci,
e moriamo. Un sol rimedio
a
chi speme non have è disperarsi".
Cosí l'ardir di quegli animi accesi
furor
divenne. Usciam di lupi in guisa
che
rapaci, famelici e rabbiosi,
col
ventre vòto e con le canne asciutte
sentan
de' lupicini urlar per fame
pieno
un digiun covile. Andiam per mezzo
de'
nemici e de l'armi a morte esposti,
senza
riservo, e via dritti fendiamo
la
città tutta, a la buia ombra occulti,
che
l'altezza facea de gli edifici.
Or chi può dir la strage e la ruina
di
quella notte? E qual è pianto eguale
a
tante occisïoni, a tanto eccidio?
Troia
ruina, la superba, antica
e
glorïosa Troia, che tant'anni
portò
scettro e corona. Era, dovunque
s'andava,
di cadaveri, di sangue,
d'ogni
calamità pieno ogni loco,
le
vie, le case, i templi. E non pur soli
caddero
i Teucri, ché l'antico ardire
destossi,
e surse alcuna volta ancora
negli
lor petti. I vincitori e i vinti
giacean
confusamente, e d'ogni lato
s'udian
pianti e lamenti; e questi e quelli
eran
da la paura e da la morte
in
mille guise aggiunti. Andrògeo il primo
de'
Greci fu ch'avanti ne s'offerse,
condottier
di gran gente. Egli, avvisando
parte
sollecitar de la sua schiera:
"Affrettatevi,
- disse - a che badate?
che
'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa
e
depredata han di già Troia, e voi
testé
venite?" Avea ciò detto a pena,
che
'l segno e la risposta indarno attesa,
tra
nemici si vide; e come attonito
restando,
con la voce il piè ritrasse.
Come
repente il vïator s'arretra,
se
d'improvviso fra le spine un angue
avvien
che prema, ed ei premuto e punto
d'ira
gonfio e di tosco gli s'avventi;
cosí
dal nostro subitano incontro
sovraggiunto
in un tempo e spaventato,
Andrògeo
per fuggir ratto si volse.
Ma
noi che, impauriti e sconcertati,
a
la sprovvista gli assalimmo in lochi
a
lor non consueti, in breve spazio
li
circondammo, e gli uccidemmo alfine:
tanto
nel primo assalto amica e presta
ne fu la sorte. E qui fatto Corèbo
d'un
tal successo e di coraggio altero:
"Compagni,
- disse - poi che la fortuna
con
questo sí felice agli altri incontri
ne
porge aíta, a nostro scampo usiamla.
Mutiam
gli scudi, accomodiamci gli elmi
e
l'insegne de' Greci. O biasmo o lode
che
ciò ne sia, chi co' nemici il cerca?
L'arme
ne daranno essi". E, cosí detto,
la
celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso
e
la sua scimitarra e la sua targa
per
lui si prese, armi onorate e conte,
Cosí
fece Rifèo, cosí Dimante,
e
cosí tutti: ché per sé ciascuno
di
nuove spoglie allegramente armossi.
Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii
non
eran nosco; e ne l'oscura notte
con
ogni occasïone in ogni loco
ci
azzuffammo con essi; e di lor molti
mandammo
a l'Orco, e ritirar molt'altri
ne
facemmo a le navi: e fûr di quelli
che
per viltà nel cavernoso e cieco
ventre
si racquattâr del gran cavallo.
Ma
che? Contra 'l voler de' regi eterni
indarno
osa la gente. Ecco dal tempio
trar
veggiam di Minerva, con le chiome
sparse,
e con gli occhi indarno al ciel rivolti,
la
vergine Cassandra. Io dico gli occhi,
perché
le regie sue tenere mani
eran
da' lacci indegnamente avvinte.
A sí fero spettacolo Corèbo
infurïato,
e di morir disposto,
anzi
che di soffrirlo, a quella schiera
scagliossi
in mezzo; e noi ristretti insieme
tutti
il seguimmo. Or qui fessi di noi
una
strage crudele e miserabile
e
da' nostri medesmi, che la cima
tenean
del tempio, e dardi e sassi e travi
ne
versarono addosso, imaginando
da
l'armi, da' cimieri e da l'insegne
di
ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,
tratti
dal gran rumore e da lo sdegno
de
la ritolta vergine, s'uniro
ai
nostri danni. Il bellicoso Aiace,
i
fieri Atridi, i Dòlopi e gli Argivi,
tutti
ne furon sopra in quella guisa
ch'opposti
un contra l'altro Affrico e Bora
e
Garbino e Volturno accolte in mezzo
han
le selve stridenti o 'l mare ondoso,
quando
col suo tridente in fin dal fondo
il
gran Nereo il conturba. E tornâr anco
incontro
a noi quei che da noi pur dianzi
sen
gîr rotti e dispersi; e questi in prima
scoprîr
le nostre insidie, e fêr palesi
le
cangiate armi e gli mentiti scudi,
e
'l parlar che dal greco era diverso.
Cosí
ne fu subitamente addosso
un
diluvio di gente. E qui per mano
di
Penelèo, davanti al sacro altare
de
l'armigera Dea cadde Corèbo:
cadde
Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume
di
bontà, di giustizia e d'equitate
(cosí
a Dio piacque); ed Ipane e Dimante
caddero
anch'essi; e questi, ohimè! trafitti
per
le man pur de' nostri. E tu, pietoso
Panto,
cadesti; e la tua gran pietate,
e
l'ínfola santissima d'Apollo
in
ciò nulla ti valse. O fiamme estreme,
o
ceneri de' miei! fatemi fede
voi
che nel vostro occaso io rischio alcuno
non
rifiutai né d'arme, né di foco,
né
di qual fosse incontro, né di quanti
ne
facessero i Greci: e se 'l fato era
ch'io
dovessi cader, caduto fôra:
tal
ne feci opra. Ne spiccammo al fine
da
quel mortale assalto. Ifito e Pelia
ne
venner meco: Ifito afflitto e grave
già
d'anni; e Pelia indebolito e tardo
d'un
colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.
Quinci divelti, al gran palagio andammo
da
le grida chiamati. Ivi era un fremito,
un
tumulto, un combatter cosí fiero,
come
guerra non fosse in altro loco,
e
quivi sol si combattesse, e quivi
ognun
morisse, e nessun altro altrove:
tal
v'era Marte indomito, e de' Greci
tanto
concorso. Avean la porta cinta
di
schiere e di testuggini e di travi,
e
d'ambi i lati a la parete in alto
appoggiate
le scale; onde saliti
e
spinti un dopo l'altro, con gli scudi
si
ricoprian di sopra, e con le destre
rampicando
salian di grado in grado.
A rincontro i Troiani, altri di sopra
muri
e tetti versando e torri intere,
i
travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
de
la reggia e de' regi avean per armi;
fermi
a far sí (poich'eran giunti al fine)
ch'ogni
cosa con lor finisse insieme;
ed
altri unitamente entro a la porta
stavan
coi ferri bassi, in folta schiera
a
guardia de l'entrata. E qui di novo
a
sovvenir la corte, a far difesa
per
entro, a dare a' vinti animo e forza
mi
posi in core: e 'n cotal guisa il fei.
Era
un andito occulto ed una porta
secretamente
accomodata a l'uso
de
le stanze reali, onde solea
Andromaca
infelice al suo buon tempo
gir
a' suoceri suoi soletta, e seco
per
domestica gioia al suo grand'avo
il
pargoletto Astïanatte addurre.
Quinci
entromesso, me ne salsi in cima
a
l'alto corridore, onde i meschini
facean
di sopra a le nemiche schiere
tempesta
in vano. Era dal tetto a l'aura
spiccata,
e sopra la parete a filo
un'altissima
torre, onde il paese
di
Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto
si
scopria de' nemici. A questa intorno
co'
ferri ci mettemmo e co' puntelli;
e
da radice ov'era al palco aggiunta,
e
da' suoi tavolati e da' suoi travi
recisa
in parte la tagliammo in tutto,
e
la spingemmo. Alta ruina e suono
fece
cadendo; e di piú greche squadre
fu
strage e morte e sepoltura insieme.
Gli
altri vi salîr sopra; e d'ogni parte
senz'intermissïon
d'ogni arme un nembo
volava
intanto. In su la prima entrata
stava
Pirro orgoglioso; e d'armi cinto
sí
luminose, e da' riflessi accese
di
tanti incendi, che di foco e d'ira
parean
lunge avventar raggi e scintille.
Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio,
di
tana uscito, ove la fredda bruma
lo
tenne ascoso, a l'aura si dimostra,
quando,
deposto il suo ruvido spoglio,
ringiovenito,
alteramente al sole
lubrico
si travolve, e con tre lingue
vibra
mille suoi lucidi colori.
Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga
d'Achille,
Automedonte, e lo stuol tutto
era
de' Sciri: e di già sotto entrati,
fiamme
a' tetti avventando, ogni difesa
ne
facean vana. E qui co' primi, avanti
Pirro
con una in man grave bipenne
le
sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno
de
la ferrata porta abbatte e frange,
e
per disgangherarla ogni arte adopra.
Tanto
al fin ne recide che nel mezzo
v'apre
un'ampia finestra. Appaion dentro
gli
atrii superbi, i lunghi colonnati,
e
di Priamo e degli altri antichi regi
i
reconditi alberghi. Appaion l'armi
che
davanti eran pronte a la difesa.
S'ode
piú dentro un gemito, un tumulto,
un
compianto di donne, un ululato,
e
di confusïone e di miseria
tale
un suon che feria l'aura e le stelle.
Le
misere matrone spaventate,
chi
qua, chi là per le gran sale errando,
battonsi
i petti; e con dirotti pianti
dànno
infino a le porte amplessi e baci.
Pirro
intanto non cessa, e furïoso,
in
sembianza del padre, ogni riparo,
ogni
intoppo sprezzando, entro si caccia.
Già l'arïete a fieri colpi e
spessi
aperta,
fracassata, e d'ambi i lati
da'
cardini divelta avea la porta;
quand'egli
a forza urtò, ruppe e conquise
i
primi armati; e quinci in un momento
di
Greci s'allagò la reggia tutta.
Qual
è se, rotti gli argini, spumoso
esce
e rapido un fiume, allor che gonfio
e
torbo e ruinoso i campi inonda,
seco
i sassi traendo e i boschi interi,
e
gli armenti e le stalle e ciò che avanti
gli
s'attraversa; in cotal guisa io stesso
vidi
Pirro menar ruina e strage;
e
vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;
vidi
Ecúba infelice, ed a lei cento
nuore
d'intorno; e Prïamo vid'anco
ch'estinguea
col suo sangue, ohimè! quei fochi
che
da lui stesso eran sacrati e cólti.
Cinquanta maritali appartamenti
eran
ne' suo serraglio: quale, e quanta
speranza
de' figlioli e de' nipoti!
Quanti
fregi, quant'oro, quante spoglie,
e
quant'altre ricchezze! e tutte insieme
periro
incontinente: e dove il foco
non
era, erano i Greci. Or, per contarvi
qual
di Prïamo fosse il fato estremo,
egli,
poscia che presa, arsa e disfatta
vide
la sua cittade, e i Greci in mezzo
ai
suoi piú cari e piú riposti alberghi;
ancor
che vèglio e debole e tremante,
l'armi,
che di gran tempo avea dismesse,
addur
si fece; e d'esse inutilmente
gravò
gli omeri e 'l fianco; e come a morte
devoto,
ove piú folti e piú feroci
vide
i nemici, incontr' a lor si mosse.
Era nel
mezzo del palazzo a l'aura
scoperto
un grand'altare, a cui vicino
sorgea
di molti e di molt'anni un lauro
che
co' rami a l'altar facea tribuna,
e
con l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui,
come d'atra e torbida tempesta
spaventate
colombe, a l'ara intorno
avea
le care figlie Ecuba accolte;
ove
agl'irati dèi pace ed aíta
chiedendo,
agli lor santi simulacri
stavano
con le braccia indarno appese.
Qui,
poiché la dolente apparir vide
il
vecchio re giovenilmente armato:
"O,
- disse - infelicissimo consorte,
qual
dira mente, o qual follia ti spinge
a
vestir di quest'armi? Ove t'avventi,
misero?
Tal soccorso a tal difesa
non
è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti
fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto
rimanti
qui; ché questo santo altare
salverà
tutti; o morren tutti insieme".
Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo
seggio
in
maestate il pose. Ecco davanti
a
Pirro intanto il giovine Polite,
un
de' figli del re, scampo cercando
dal
suo furore, e già da lui ferito,
per
portici e per logge armi e nemici
attraversando,
in vèr l'altar sen fugge:
e
Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza
sí
che già già con l'asta e con la mano
or
lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,
fatto
di mano in man di forza esausto
e
di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi
i parenti suoi cadde, e spirò.
Qui, perché si vedesse a morte esposto,
Prïamo
non di sé punto oblïossi,
né
la voce frenò, né frenò l'ira:
anzi
esclamando: "O scelerato, - disse -
o
temerario! Abbiati in odio il cielo,
se
nel cielo è pietate; o se i celesti
han
di ciò cura, di lassú ti caggia
la
vendetta che merta opra sí ria.
Empio,
ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto
mio
proprio fai governo e scempio tale
d'un
tal mio figlio, e di sí fera vista
le
mie luci contamini e funesti.
Cotal
meco non fu, benché nimico,
Achille,
a cui tu menti esser figliolo,
quando,
a lui ricorrendo, umanamente
m'accolse,
e riverí le mie preghiere;
gradí
la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi
rendé 'l corpo esangue: e me securo
nel
mio regno ripose". In questa, acceso,
il
debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla
sí
che senza colpir languida e stanca
ferí
lo scudo, e lo percosse a pena,
che
dal sonante acciaro incontinente
risospinta
e sbattuta a terra cadde.
A
cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero
a mio padre, e da te stesso,
le
mie colpe accusando e i miei difetti,
fa'
conto a lui come da lui traligno:
e
muori intanto". Ciò dicendo, irato
afferrollo,
e, per mezzo il molto sangue
del
suo figlio, tremante e barcolloni,
a
l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con
la sinistra il prese, e con la destra
strinse
il lucido ferro, e fieramente
nel
fianco infino agli elsi gliel'immerse.
Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Prïamo, un re sí grande, un sí superbo
dominator
di genti e di paesi,
un
de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata
e combusta; a giacer quasi
nel
lito un tronco desolato, un capo
senza
il suo busto, e senza nome un corpo.
Allor pria mi sentii dentro e d'intorno
tale
un orror, che stupido rimasi.
E,
di Prïamo pensando al caso atroce,
mi
si rappresentò l'imago avanti
del
padre mio, ch'era a lui d'anni eguale.
Mi
sovvenne l'amata mia Creúsa,
il
mio picciolo Iulo, e la mia casa
tutta
a la vïolenza, a la rapina,
ad
ogni ingiuria esposta. Allora in dietro
mi
volsi per veder che gente meco
fosse
de' miei seguaci; e nullo intorno
piú
non mi vidi: ché tra stanchi e morti
e
feriti e storpiati, altri dal ferro,
altri
da le ruine, altri dal foco,
m'avean
già tutti abbandonato. In somma
mi
trovai solo. Onde, smarrito errando,
e
d'ogn'intorno rimirando, al lume
del
grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi
di
Tindaro la figlia, che nel tempio
se
ne stava di Vesta, in un reposto
e
secreto ridotto ascosa e cheta:
Elena,
dico, origine e cagione
di
tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo
furia
comune. Onde comunemente
e
de' Greci temendo e de' Troiani
e
de l'abbandonato suo marito,
s'era
in quel loco, e 'n se stessa ristretta,
confusa,
vilipesa ed abborrita
fin
dagli stessi altari. Arsi di sdegno,
membrando
che per lei Troia cadea;
e
'l suo castigo e la vendetta insieme
de
la mia patria rivolgendo: "Adunque -
dicea
meco - impunita e trïonfante
ritornerà
la scelerata in Argo?
E
regina vedrà Sparta e Micene?
Goderà
del marito, de' parenti,
de'
figli suoi? Farà pompe e grandezze,
e
d'Ilio avrà per serve e per ministri
l'altere
donne e i gran donzelli intorno?
E
qui Priamo sarà di ferro anciso,
e
Troia incensa, e la dardania terra
di
tanto sangue tante volte aspersa?
Non
fia cosí; che se ben pregio e lode
non
s'acquista a punire o vincer donna,
io
lodato e pregiato assai terrommi,
se
si dirà ch'aggia d'un mostro tale
purgato
il mondo. Appagherommi almeno
di
sfogar l'ira mia: vendicherommi
de
la mia patria; e col fiato e col sangue
di
lei placherò l'ombre, e farò sazie
le ceneri de' miei". Ciò vaneggiando,
infurïava;
quand'ecco una luce
m'aprio
la notte, e mi scoverse avanti
l'alma
mia genitrice in un sembiante,
non
come l'altre volte in altre forme
mentito
o dubbio, ma verace e chiaro,
e
di madre e di dea, qual, credo, e quanta
su
tra gli altri Celesti in ciel si mostra.
Cotal
la vidi, e tale anco per mano
mi
prese; e con pietà le sante luci
e
le labbia rosate aperse, e disse:
"Figlio,
a che tanto affanno? a che tant'ira?
Ché
non t'acqueti omai? Questa è la cura
che
tu prendi di noi? Ché non piú tosto
rimiri
ov'abbandoni il vecchio Anchise
e
la cara Creúsa e 'l caro Iulo,
cui
sono i Greci intorno? E se non fosse
che
in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco
fôran
già tutti. Ah! figlio, non il volto
de
l'odïata Argiva, non di Pari
la
biasmata rapina, ma del cielo
e
de' celesti il voler empio atterra
la
troiana potenza. Alza su gli occhi,
ch'io
ne trarrò l'umida nube, e 'l velo
che
la vista mortal t'appanna e grava:
poscia
credi a tua madre, e senza indugio
tutto
fa' che da lei ti si comanda:
vedi
là quella mole, ove quei sassi
son
da' sassi disgiunti, e dove il fumo
con
la polve ondeggiando al ciel si volve,
come
fiero Nettuno infin da l'imo
le
mura e i fondamenti e 'l terren tutto
col
gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi
qui su la porta come Giuno
infurïata
a tutti gli altri avanti
si
sta cinta di ferro, e da le navi
le
schiere d'Argo a' nostri danni invita:
vedi
poi colà su Pallade in cima
a
l'alta rocca, entro a quel nembo armata,
con
che lucenti e spaventosi lampi
il
gran Górgone suo discopre e vibra.
Che
piú? mira nel ciel, che Giove stesso
somministra
a gli Argivi animo e forza,
e
incontro a le vostre armi a l'arme incita
gli
eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi,
poi
che indarno t'affanni. Io sarò teco
ovunque
andrai, sí che securamente
ti
porrò dentro a' tuoi paterni alberghi".
Cosí disse; e per entro a le folt'ombre
de
la notte s'ascose. Allor vid'io
gl'invisibili
aspetti, e i fieri volti
de'
numi a Troia infesti, e Troia tutta
in
un sol foco immersa, e fin dal fondo
sottosopra
rivolta. In quella guisa
che
d'alto monte in precipizio cade
un
orno antico, i cui rami pur dianzi
facean
contrasto a' vènti e scorno al sole,
quando
con molte accette al suo gran tronco
stanno
i robusti agricoltori intorno
per
atterrarlo, e gli dan colpi a gara,
da
cui vinto e dal peso, a poco a poco
crollando
e balenando, il capo inchina,
e
stride e geme e dal suo giogo al fine
e
con parte del giogo si diveglie,
o
si scoscende; e ciò che intoppa urtando,
di
suono e di ruina empie le valli.
Allor
discesi; e la materna scorta
seguendo,
da' nemici e da le fiamme
mi
rendei salvo: ché dovunque il passo
volgea,
cessava il foco, e fuggian l'armi.
Poi ch'io fui giunto a la magione antica
del
padre mio, di lui prima mi calse
e
del suo scampo, e per condurlo a' monti
m'apparecchiava,
quand'ei disse:"O figlio,
io
decrepito, io misero, che avanzi
ai
dí de la mia patria? Io posso, io deggio
sopravvivere
a Troia? E fia ch'io soffra
sí
vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni
siete
di sangue e di vigore intieri,
voi
vi salvate. A me, s'io pur dovea
restare
in vita, avrebbe il ciel serbato
questo
mio nido. Assai, figlio, e pur troppo
son
vissuto fin qui; poi ch'altra volta
vidi
Troia cadere, e non cadd'io.
Fatemi
or di pietà gli ultimi offici;
iteratemi
il vale, e per defunto
cosí
composto il mio corpo lasciate,
ch'io
troverò chi mi dia morte; e i Greci
medesmi
o per pietate, o per vaghezza
de
le mie spoglie, mi trarran di vita
e
di miseria: e se d'esequie io manco,
se
manco di sepolcro, il danno è lieve.
Da
l'ora in qua son io visso a la terra
disutil
peso, ed al gran Giove in ira,
che
dal vento percosso e da le fiamme
fui
dal folgore suo". Ciò memorando
stava
il misero padre a morte additto;
e
d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo,
la
casa tutta con preghiere e pianti
stringendolo
a salvarsi, a non trar seco
ogni
cosa in ruina, a non offrirsi
da
se stesso a la morte. Ei fermo e saldo
né
di proponimento, né di loco
punto
si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,
di
morir desïoso. E qual v'era altro
rimedio
o di consiglio, o di fortuna?
"Ah!
che di questa soglia io tragga il piede,
padre
mio, per lasciarti? Ah! che tu possa
creder
tanto di me? Da la tua bocca
tanto
di sceleranza e di viltate
è
d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino
che
di sí gran città nulla rimanga,
se
piace a te, se nel tuo core è fermo
che
né di te, né de gli tuoi si scemi
la
ruina di Troia; e cosí vada,
e
cosí fia: ch'io veggio a mano a mano
qui
del sangue del re tutto cosperso,
e
bramoso del nostro, apparir Pirro,
ch'i
padri occide anzi a gli altari, e i figli
anzi
agli occhi de' padri. Ah! madre mia,
per
questo fine qui salvo e difeso
m'hai
da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia
con
gli occhi miei ne la mia casa stessa
i
miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio
e
la mia donna crudelmente occisi
l'un
nel sangue de l'altro? Mano a l'arme!
Chi
mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo
a
morte ne chiama. Or mi lasciate
ch'io
torni infra i nimici, e che di nuovo
mi
razzuffi con essi: ché non tutti
abbiam
senza vendetta oggi a perire".
E già di ferro cinto, a la sinistra
m'adattavo
lo scudo, e fuori uscia,
quand'ecco
in su la soglia attraversata
Creúsa
avanti a' piè mi si distende,
e
me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo
m'appresenta,
e mi dice: "Ah! mio consorte,
dove
ne lasci? S'a
morir ne vai,
ché
non teco n'adduci? E se ne l'armi
e
nell'esperïenza hai speme alcuna,
ché
non difendi la tua casa in prima?
ove
Ascanio abbandoni? ove tuo padre?
ove
Creúsa tua, che tua s'è detta
per
alcun tempo?". E ciò gridando empiea
di
pianto e di stridor la magion tutta:
quand'ecco
innanzi a gli occhi, e fra le mani
de
gli stessi parenti, un repentino
e
mirabile a dir portento apparve;
ché
sopra il capo del fanciullo Iulo
chiaro
un lume si vide, e via piú chiara
una
fiamma che tremola e sospesa
le
sue tempie rosate e i biondi crini
sen
gia come leccando, e senza offesa
lievemente
pascendo. Orrore e téma
ne
presi in prima. Indi a quel santo foco
d'intorno,
altri con acqua, altri con altro,
ognun
facea per ammorzarlo ogn'opra.
Ma
'l padre Anchise a cotal vista allegro,
le
man, gli occhi e la voce al ciel rivolto,
orò
dicendo: "Eterno onnipotente
signor,
se umana prece unqua ti mosse,
vèr
noi rimira, e ne fia questo assai.
Ma
se di merto alcuno in tuo cospetto
è
la nostra pietà, padre benigno,
danne
anco aíta; e con felice segno
questo
annunzio ratifica e conferma".
Avea di ciò pregato il vecchio appena,
che
tonò da sinistra e dal convesso
del
ciel cadde una stella, che per mezzo
fendé
l'ombrosa notte, e lunga striscia
di
face e di splendor dietro si trasse.
Noi
la vedemmo chiaramente sopra
da'
nostri tetti ire a celarsi in Ida,
sí
che lasciò, quanto il suo corso tenne,
di
chiara luce un solco; e lunge intorno
fumò
la terra di sulfureo odore.
Allor vinto si diede il padre mio;
e
tosto a l'aura uscendo, al santo segno
de
la stella inchinossi, e con gli dèi
parlò
devotamente: "O de la patria
sacri
numi Penati, a voi mi rendo.
Voi
questa casa, voi questo nipote
mi
conservate. Questo augurio è vostro,
e
nel poter di voi Troia rimansi".
Poscia,
rivolto a noi: " Fa', figliuol mio,
ormai
- disse - di me che piú t'aggrada;
ch'al
tuo voler son pronto, e d'uscir teco
piú
non recuso". Avea già 'l foco appresa
la
città tutta, e già le fiamme e i vampi
ne
ferian da vicino, allor che 'l vecchio
cosí
dicea: "Caro mio padre, adunque, -
soggiuns'io
- com'è d'uopo, in su le spalle
a
me ti reca, e mi t'adatta al collo
acconciamente:
ch'io robusto e forte
sono
a tal peso: e sia poscia che vuole:
ch'un
sol periglio, una salute sola
fia
d'ambedue. Seguami Iulo al pari;
Creúsa
dopo: e voi, miei servi, udite
quel
ch'io diviso. È de la porta fuori
un
colle, ov'ha di Cerere un antico
e
deserto delúbro, a cui vicino
sorge
un cipresso, già molt'anni e molti
in
onor de la dea serbato e cólto.
Qui
per diverse vie tutti in un loco
vi
ridurrete; e tu con le tue mani
sosterrai,
padre mio, de' santi arredi
e
de' patrii Penati il sacro incarco,
che
a me, sí lordo e sí recente uscito
da
tanta uccisïon, toccar non lece
pria
che di vivo fiume onda mi lave".
Ciò detto, con la veste e con la pelle
d'un
villoso leon m'adeguo il tergo;
e
'l caro peso a gli omeri m'impongo.
Indi
a la destra il fanciulletto Iulo
mi
s'aggavigna e non con moto eguale
ei
segue i passi miei, Creúsa l'orme.
Andiam
per luoghi solitari e bui:
e
me, cui dianzi intrepido e sicuro
vider
de l'arme i nembi e de gli armati
le
folte schiere, or ogni suono, ogni aura
empie
di téma: sí geloso fammi
e
la soma e 'l compagno. Era vicino
a
l'uscir de la porta, e fuori in tutto,
com'io
credea, d'ogni sinistro incontro;
quand'ecco
d'improvviso udir mi sembra
un
calpestío di gente, a cui rivolto
disse
il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio,
fuggi,
ché ne son presso. Io veggio, io sento
sonar
gli scudi, e lampeggiar i ferri".
Qui
ridir non saprei come, né quale
avverso
nume a me stesso mi tolse:
ché
mentre da la fretta e dal timore
sospinto
esco di strada, e per occulte
e
non usate vie m'aggiro e celo,
restai,
misero me! senza la mia
diletta
moglie, in dubbio se dal fato
mi
si rapisse, o travïata errasse,
o
pur lassa a posar posta si fosse.
Basta
ch'unqua di poi non la rividi,
né
per vederla io mi rivolsi mai,
né
mai me ne sovvenne, infin che giunti
di
Cerere non fummo al sagro poggio.
Ivi
ridotti, ne mancò di tanti
sola
Creúsa, ohimè! con quanto scorno
e
con quanto dolor del suo consorte
e
del figlio e del suocero e di tutti!
Io
che non feci allora, e che non dissi?
Qual
degli uomini, folle! e degli dèi
non
accusai! Qual vidi in tanto eccidio,
o
ch'io provassi, o che avvenisse altrui,
caso
piú miserando e piú crudele?
Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi
lascio
in guardia a' compagni, ed io de l'armi
pur
mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,
disposto
a ritentar ogni fortuna,
a
cercar Troia tutta, a por la vita
ad
ogni repentaglio. Incominciai
in
prima da le mura e da la porta,
ond'era
uscito; e le vie stesse e l'orme
ripetei
tutte per cui dianzi io venni,
gli
occhi portando per vederla intenti.
Silenzio,
solitudine e spavento
trovai
per tutto. A casa aggiunsi in prima,
cercando
se per sorte ivi smarrita
si
ricovrasse. Era già presa e piena
di
nemici e di foco; e già da' tetti
uscian
da' vènti e da le furie spinte
rapide
fiamme e minacciose al cielo.
Torno
quinci al palagio; indi a la ròcca:
seguo
a le piazze, a' portici, a l'asilo
di
Giunon, che già fatti eran conserve
de
la preda di Troia, a cui Fenice
e
'l fiero Ulisse eran custodi eletti.
Qui
d'ogni parte le troiane spoglie
fin
de le sacristie, fin de gli altari
le
sacre mense, i prezïosi vasi
di
solid'oro, e i paramenti e i drappi
e
le delizie e le ricchezze tutte
a
gli incendi ritolte, erano addotte.
D'intorno
innumerabili prigioni
stavan
di funi e di catene avvinti,
e
matrone e donzelle e pargoletti,
che
di sordi lamenti e di muggiti
facean
ne l'aria un tuono; e men fra loro
era
la donna mia: né dove fosse,
piú
ripensar sapendo, osai dolente
gridar
per le vie tutte; e, benché in vano,
mille
volte iterai l'amato nome.
Mentre
cosí tra furïoso e mesto
per
la città m'aggiro, e senza fine
la
ricerco e la chiamo, ecco davanti
mi
si fa l'infelice simulacro
di
lei, maggior del solito. Stupii,
m'aggricciai,
m'ammutii. Prese ella a dirmi,
e
consolarmi: "O mio dolce consorte,
a
che sí folle affanno? A gli dèi piace
che
cosí segua. A te quinci non lece
di
trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io
sia teco a provar gli affanni tuoi;
ché
soffrir lunghi esigli, arar gran mari
ti
converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,
che
fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno
Tebro
con placid'onde opimi campi
di
bellicosa gente impingua e riga.
Ivi
riposo e regno e regia moglie
ti
si prepara. Or
de la tua diletta
Creúsa,
signor mio, piú non ti doglia:
ché
i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni
non
vedranno già me, dardania prole,
e
di Prïamo figlia, e nuora a Venere,
né
donna lor, né di lor donne ancella:
ché
la gran genitrice degli dèi
appo
sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro
comune amore, ama in mia vece;
e
lui conserva, e te consola. Addio".
Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto
era
impedito, ed avea molto a dirle,
me
le avventai, per ritenerla, al collo;
e
tre volte abbracciandola, altrettante,
come
vento stringessi o fumo o sogno,
me
ne tornai con le man vòte al petto.
E cosí scorsa e consumata indarno
tutta
la notte, al poggio mi ritrassi
a'
miei compagni, ove trovai con molta
mia
maraviglia d'ogni parte accolta
una
gran gente, un miserabil volgo
d'ogni
età, d'ogni sesso e d'ogni grado,
a
l'esiglio parati, e 'nsieme additti
a
seguir me, dovunque io gli adducessi,
o
per mare o per terra. Uscia già d'Ida
la
mattutina stella, e 'l dí n'apria,
quando
in dietro mi volsi, e vidi Troia
fumar
già tutta; e de la ròcca in cima,
e
di sovr'ogni porta inalberate
le
greche insegne; onde né via, né speme
rimanendomi
piú di darle aíta,
cedei;
ripresi il carco, e salsi al monte».
«Poi che fu d'Asia il glorïoso regno
e
'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,
com'al
cielo piacque, indegnamente estinto,
Ilio
abbattuto e la nettunia Troia
desolata
e combusta; i santi augúri
spïando,
a vari esigli, a varie terre
per
ricovro di noi pensando andammo:
e
ne la Frigia stessa, a piè d'Antandro,
ne'
monti d'Ida, a fabbricar ne demmo
la
nostra armata, non ben certi ancóra
ove
il ciel ne chiamasse, e quale altrove
ne
desse altro ricetto. Ivi le genti
d'intorno
accolte, al mar ne riducemmo,
e
n'imbarcammo alfine. Era de l'anno
la
stagion prima, e i primi giorni a pena,
quando,
sciolte le sarte e date a' venti
le
vele, come volle il padre Anchise,
piangendo
abbandonai le rive e i porti
e
i campi ove fu Troia, i miei compagni
meco
traendo e 'l mio figlio e i miei numi
a
l'onde in preda, e de la patria in bando.
È de la Frigia incontro un gran paese
da'
Traci arato, al fiero Marte additto,
ampio
regno e famoso, e seggio un tempo
del
feroce Licurgo. Ospiti antichi
s'eran
Traci e Troiani; e fin ch'a Troia
lieta
arrise fortuna, ebbero entrambi
comuni
alberghi. A questa terra in prima
drizzai
'l mio corso, e qui primieramente
nel
curvo lito con destino avverso
una
città fondai, che dal mio nome
Enèade
nomossi; e mentre intorno
me
ne travaglio, e i santi sacrifici
a
Venere mia madre ed agli dèi,
che
sono al cominciar propizi, indico:
mentre
che 'n su la riva un bianco toro
al
supremo Tonante offro per vittima,
udite
che m'avvenne. Era nel lito
un
picciol monticello, a cui sorgea
di
mirti in su la cima e di corniali
una
folta selvetta. In questa entrando
per
di fronde velare i sacri altari,
mentre
de' suoi piú teneri e piú verdi
arbusti
or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile
a veder, stupendo a dire,
m'apparve
un mostro: ché, divelto il primo
da
le prime radici, uscîr di sangue
luride
gocce, e ne fu 'l suolo asperso.
Ghiado
mi strinse il core; orror mi scosse
le
membra tutte; e di paura il sangue
mi
si rapprese. Io le cagioni ascose
di
ciò cercando, un altro ne divelsi;
ed
altro sangue uscinne: onde confuso
vie
piú rimasi; e nel mio cor diversi
pensier
volgendo, or de l'agresti ninfe,
or
del scitico Marte i santi numi
adorando,
porgea preghiere umíli,
che
di sí fiera e portentosa vista
mi
si togliesse, o si temprasse almeno
il
diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo
al terzo virgulto, e con piú forza
mentre
lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e
lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),
un
sospiroso e lagrimabil suono
da
l'imo poggio odo che grida e dice:
"Ahi! perché sí mi laceri e mi scempi?
Perché
di cosí pio, cosí spietato,
Enea,
vèr me ti mostri? A che molesti
un
ch'è morto e sepolto? A che contamini
col
sangue mio le consanguinee mani?
Ché
né di patria, né di gente esterno
son
io da te; né questo atro liquore
esce
da sterpi, ma da membra umane.
Ah!
fuggi, Enea, da questo empio paese:
fuggi
da questo abbominevol lito:
ché
Polidoro io sono, e qui confitto
m'ha
nembo micidiale, e ria semenza
di
ferri e d'aste che, dal corpo mio
umor
preso e radici, han fatto selva".
A cotal suon, da dubbia téma oppresso,
stupii,
mi raggricciai, muto divenni,
di
Polidoro udendo. Un de' figliuoli
era
questi del re, ch'al tracio rege
fu
con molto tesoro occultamente
accomandato
allor che da' Troiani
incominciossi
a diffidar de l'armi,
e
temer de l'assedio. Il rio tiranno,
tosto
che a Troia la fortuna vide
volger
le spalle, anch'ei si volse, e l'armi
e
la sorte seguí de' vincitori;
sí
che, de l'amicizia e de l'ospizio
e
de l'umanità rotta ogni legge,
tolse
al regio fanciul la vita e l'oro.
Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!
E
che per te non osa, e che non tenta
quest'umana
ingordigia? Or poi che 'l gelo
mi
fu da l'ossa uscito, a' primi capi
del
popol nostro ed a mio padre in prima
il
prodigio refersi, e di ciascuno
il
parer ne spiai. "Via, - disser tutti
concordemente
- abbandoniam quest'empia
e
scelerata terra; andiam lontano
da
questo infame e traditore ospizio;
rimettiamci
nel mare". Indi l'esequie
di
Polidoro a celebrar ne demmo;
e,
composto di terra un alto cumulo,
gli
altar vi consacrammo a i numi inferni,
che
di cerulee bende e di funesti
cipressi
eran coverti. Ivi le donne
d'Ilio,
com'è fra noi rito solenne,
vestite
a bruno e scapigliate e meste
ulularono
intorno; e noi di sopra
di
caldo latte e di sacrato sangue
piene
tazze spargemmo, e con supremi
richiami
amaramente al suo sepolcro
rivocammo
di lui l'anima errante.
Né
pria ne si mostrâr l'onde sicure,
e
fidi i venti, che, del porto usciti,
incontinente
ne vedemmo avanti
sparir
l'odiosa terra, e gir da noi
di
mano in man fuggendo i liti e i monti.
È nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori
ed
a Nettuno, un'isola famosa,
che
già mobile e vaga intorno a' liti
agitata
da l'onde errando andava,
ma
fatta di Latona e de' suoi figli
ricetto
un tempo, dal pietoso arciero
tra
Gïaro e Micon fu stretta in guisa,
ch'immota,
e cólta, e consacrata a lui,
ebbe
poi le tempeste e i vènti a scherno.
Qui
porto placidissimo e securo
stanchi
ne ricevette, e già smontati
veneravam
d'Apollo il santo nido;
quand'ecco
Anio suo rege, e rege insieme
e
sacerdote, che di sacre bende
e
d'onorato alloro il crine adorno,
ne
si fa 'ncontro. Era al mio padre Anchise
già
di molt'anni amico; onde ben tosto
lo
riconobbe, e con sembiante allegro
lui
primamente, indi noi tutti accolti,
n'abbracciò,
ne 'nvitò, seco n'addusse.
Quinci al delúbro, ch'ad Apollo in cima
era
d'un sasso anticamente estrutto,
tutti
salimmo; ed io devoto orai:
"Danne,
padre Timbrèo, propria magione,
e
propria terra, ove già stanchi abbiamo
posa
e ristoro, e ne da' stirpe e nido
opportuno,
durabile e securo;
danne
Troia novella; e de' Troiani
serba
queste reliquie, che avanzate
sono
a pena agli storpi, a le ruine,
al
foco, a' Greci, al dispietato Achille.
Mostrane
chi ne guidi, ove s'indrizzi
il
nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.
Coi
tuoi piú chiari e manifesti augúri,
signor,
tu ne predici e tu n'ispira".
Avea ciò detto a pena, che repente
il
limitare, il tempio, e 'l monte tutto
crollossi
intorno; scompigliârsi i lauri;
aprissi,
e dagli interni suoi ridotti
mugghiò
la formidabile cortina.
Noi
riverenti a terra ne gittammo;
e
'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,
articolossi,
e cosí dire udissi:
"Dardanidi robusti, onde l'origine
traeste
in prima, ivi ancor lieto e fertile
di
vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di
lei dunque cercate; a lei tornatevi:
ch'ivi
sovr'ogni gente, in tutti i secoli
domineranno
i glorïosi Enèadi,
e
la posterità de gli lor posteri".
Ciò disse Apollo: e del suo detto
fessi
infra
noi gran letizia e gran bisbiglio,
interrogando
e ricercando ognuno
qual
paese, qual madre, qual ricetto
ne
s'accennasse. Allora il padre Anchise
da
lunge i tempi ripetendo e i casi
dei
nostri antichi eroi: "Signori, udite -
ne
disse, - ch'io darò lume e compenso
a
le vostre speranze. È del gran Giove
Creta
quasi gran cuna in mezzo al mare
isola
chiara, e regno ampio e ferace,
che
cento gran città nodrisce e regge.
Ivi
sorge un'altr'Ida, onde nomata
fu
l'Ida nostra; ond'ha seme e radice
nostro
legnaggio: onde primieramente
Teucro,
padre maggior de' maggior nostri
(se
ben me ne rammento), errando venne
a
le spiagge di Reto, ov'egli elesse
di
fondare il suo regno. Ilio non era,
né
di Pergamo ancor sorgean le mura
fino
in quel tempo: e sol ne l'ime valli
abitavan
le genti. Indi a noi venne
la
gran Cibele madre; indi son l'armi
de'
Coribanti, indi la selva idea,
e
quel fido silenzio, onde celati
son
quei nostri misteri, e quei leoni
ch'al
carro de la dea son posti al giogo.
Di
là dunque veniamo, e là vuol Febo
che
si ritorni. Or via seguiamo il fato:
plachiamo
i vènti e ne la Creta andiamo,
che
non è lunge; e se n'è Giove amico,
anzi
tre dí n'approderemo ai liti".
Ciò detto, a ciascun dio, come
conviensi,
sacrificando,
due gran tori occise:
e
l'un diede a Nettuno e l'altro a Febo:
una
pecora negra a la Tempesta;
al
Sereno una bianca. Era in quei giorni
fama
che Idomeneo, cretese eroe,
da
la sua patria e da' paterni regni
era
scacciato; onde di Creta i liti
d'armi,
di duce e di seguaci suoi,
nostri
nimici, in gran parte spogliati,
stavano
a noi senza contesa esposti.
Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
trapassammo
di Nasso i pampinosi
colli,
e Bacco onorammo: i verdi liti
di
Dònisa, e d'Olëaro varcammo:
giungemmo
a Paro, e le sue bianche ripe
lasciammo
indietro: indi di mano in mano
l'altre
Cícladi tutte e 'l mar che rotto
da
tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;
e
seguendo, com'è de' naviganti
marinaresca
usanza, - in Creta! in Creta! -
lietamente
gridando, con un vento
che
ne feria senza ritegno in poppa,
quasi
a volo andavamo; onde ben tosto
de'
Cureti appressammo i liti antichi;
e
gli scoprimmo, e v'approdammo alfine.
Giunti
che fummo, avidamente diemmi
a
fabricar le desïate mura,
e
Pergamea da Pergamo le dissi.
Con
questo amato nome amore e speme
destai
di nuova patria, e studio intenso
d'alzar
le mura e di fondar gli alberghi.
Eran
le navi in su la rena addotte
per
la piú parte; era la gente intenta
a
l'arti, a la coltura, ai maritaggi,
ad
ogni affare; ed io lor ministrava
leggi
e ragioni, e facea templi e strade,
quando
fera, improvvisa pestilenza,
ne
sopravvenne; e la stagione e l'anno
e
gli uomini e gli armenti e l'aria e l'acque
e
tutto altro infettonne; onde ogni corpo
o
cadeva o languiva; e la semente
e
i frutti e l'erbe e le campagne stesse
da
la rabbia di Sirio e dal veleno
de
l'orribil contage arse e corrotte,
ci
negavano il vitto. Il padre mio
per
consiglio ne diè che un'altra volta,
rinavigando
il navigato mare,
si
tornasse in Ortigia, e che di nuovo
ricorrendo
di Febo al santo oracolo,
perdon
gli si chiedesse, aíta e scampo
da
sí maligno e velenoso influsso,
ed
alfin del cammino e de la stanza
chiaro
ne si traesse indrizzo e lume.
Era già notte, e già dal sonno
vinta
posa
e ristoro avea l'umana gente,
quando
le sacre effigi de' Penati,
quelle
che meco avea tratte dal foco
de
la mia patria, quelle stesse in sogno
vive
mi si mostrâr veraci e chiare:
tal
piena, avversa e luminosa luna
penetrava,
per entro al chiuso albergo,
di
puri vetri i lucidi spiragli;
e
com'eran visibili, appressando
la
sponda ov'io giacea, soavemente
mi
si fecero avanti, e 'n cotal guisa
mi
confortaro: "Quel che Apollo stesso,
se
tornaste in Ortigia, a voi direbbe,
qui
mandati da lui vi diciam noi:
e
noi siam quei che dopo Troia incensa
per
tanti mari a tanti affanni teco
n'uscimmo,
e te seguiamo e l'armi tue.
Noi
compagni ti siamo, e noi saremo
ch'a
la nova città, che tu procuri,
daremo
eterno imperio, e i tuoi nipoti
ergeremo
a le stelle. Alto ricetto
tu
dunque e degno de l'altezza loro
prepara
intanto; e i rischi e le fatiche
non
rifiutar di piú lontano esiglio.
Cerca
loro altro seggio; ergi altre mura
vie
piú chiare di queste: ché di Creta
né
curiam noi, né lo ti dice Apollo.
Una parte d'Europa è, che da' Greci
si
disse Esperia, antica, bellicosa
e
fertil terra. Dagli Enotri cólta,
prima
Enotria nomossi: or, com'è fama,
preso
d'Italo il nome, Italia è detta.
Questa
è la terra destinata a noi.
Quinci
Dardano in prima e Iasio usciro;
e
Dardano è l'autor del sangue nostro.
Sorgi
dunque e riporta al padre Anchise
quel
ch'or noi ti diciam, ché diciam vero:
e
tu cerca di Còrito e d'Ausonia
l'antiche
terre, ché da Giove in Creta
regnar
ti s'interdice". Io di tal vista,
e
di tai voci, ch'eran voci e corpi
de'
nostri dèi, non simulacri e sogni
(ché
ne vid'io le sacre bende e i volti
spiranti
e vivi), attonito e cosperso
di
gelato sudore, in un momento
salto
dal letto; e con le mani al cielo
e
con la voce supplicando, spargo
di
doni intemerati i santi fochi.
Riveriti
i Penati, al padre Anchise
lieto
men vado, e del portento intera-
mente
il successo e l'ordine gli espongo.
Incontinente
riconobbe il doppio
nostro
legnaggio, e i due padri e i due tronchi
de'
cui rami siam noi vette e rampolli;
e
d'erro uscito: "Ora io m'avveggio, - disse -
figlio,
che segno sei de le fortune
e
del fato di Troia; e ciò rincontro
che
Cassandra dicea: sola Cassandra
lo
previde e 'l predisse. Ella al mio sangue
augurò
questo regno; e questa Italia
e
questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma
chi mai ne l'Esperia avria creduto
che
regnassero i Teucri? E chi credea
in
quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,
cediamo
a Febo; e ciò che 'l dio del vero
ne
dà per meglio, per miglior s'elegga".
Ciò disse, e i detti suoi tosto
eseguimmo;
ed
ancor questa terra abbandonammo,
se
non se pochi. N'andavamo a vela
con
second'aura; e già d'alto mirando,
non
piú terra apparia, ma cielo ed acqua
vedevam
solamente, quando oscuro
e
denso e procelloso un nembo sopra
mi
stette al capo, onde tempesta e notte
ne
si fece repente e di piú siti
rapidi
uscendo imperversaro i vènti;
s'abbuiò
l'aria, abbaruffossi il mare,
e
gonfiaro altamente e mugghiâr l'onde.
Il
ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori
si
squarciò d'ogni parte. Il giorno notte
fessi,
e la notte abisso: e l'un da l'altro
non
discernendo, Palinuro stesso
de
la via diffidossi e de la vita.
Cosí tolti dal corso, e quinci e quindi
per
lo gran golfo dissipati e ciechi,
da
buio e da caligine coverti,
tre
soli interi senza luce errammo,
tre
notti senza stelle. Il quarto giorno
vedemmo
al fin, quasi dal mar risorta,
la
terra aprirne i monti e gittar fumo.
Caggion
le vele; e i remiganti a pruova,
di
bianche schiume il gran ceruleo golfo
segnando,
inverso i liti i legni affrettano.
Né
prima fui di sí gran rischio uscito,
che
giunto nelle Stròfadi mi vidi.
Stròfadi
grecamente nominate
son
certe isole in mezzo al grande Ionio,
da
la fera Celeno e da quell'altre
rapaci
e lorde sue compagne Arpie
fin
d'allora abitate, che per téma
lasciâr
le prime mense, e di Finèo
fu
lor chiuso l'albergo. Altro di queste
piú
sozzo mostro, altra piú dira peste
da
le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran
vergini a' volti; uccelli e cagne
a
l'altre membra: hanno di ventre un fedo
profluvio,
ond'è la piuma intrisa ed irta,
le
man d'artigli armate: il collo smunto,
la
faccia per la fame e per la rabbia
pallida
sempre e raggrinzata e magra.
Tosto che qui sospinti in porto entrammo,
ecco
sparsi veggiam per la campagna
senza
custodi andar gran torme errando
di
cornuti e villosi armenti e greggi.
Smontiamo
in terra; e per far carne, prese
l'armi,
a predare andiamo, e de la preda
gli
dèi chiamiamo e Giove stesso a parte.
Fatta la strage e già parati i cibi
e
distese le mense, eravam lungo
al
curvo lito a ricrearne assisi,
quand'ecco
che da' monti in un momento
con
dire voci e spaventoso rombo
ne
si fan sopra le bramose Arpie;
e
con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni,
col
tetro, osceno, abbominevol puzzo
ne
sgominâr le mense, ne rapiro,
ne
infettâr tutti e i cibi e i lochi e noi.
Era presso un ridotto, ove alta e cava
rupe
d'arbori chiusa e d'ombre intorno
facea
capace ed opportuno ostello.
Ivi
ne riducemmo, e ne le mense
riposti
i cibi e ne gli altari i fochi,
a
convivar tornammo; ed ecco un'altra
volta
d'un'altra parte per occulte
e
non previste vie ne si scoverse
l'orribil
torma; e con gli adunchi artigli,
co'
fieri denti e con le bocche impure
ghermîr
la preda, e ne lasciâr di novo
vòte
le mense e scompigliate e sozze.
Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra
è d'uopo
contra
sí dira gente". E tutti a l'arme
ed
a battaglia incito. Eglino, in guisa
ch'io
li disposi, i ferri ignudi e l'aste
e
gli scudi e le frombe e i corpi stessi
infra
l'erba acquattaro; il lor ritorno
stêro
aspettando. Era Miseno in alto
a
la veletta asceso; e non piú tosto
scoprir
le vide, e schiamazzare udille,
che
col canoro suo cavo oricalco
ne
diè cenno a' compagni. Uscîr d'agguato
tutti
in un tempo, e nuova zuffa e strana
tentâr
contra i marini uccelli in vano:
ché
le piume e le terga ad ogni colpo
aveano
impenetrabili e secure;
onde
securamente al ciel rivolte
se
ne fuggiro, e ne lasciâr la preda
sgraffiata,
smozzicata e lorda tutta.
Sola
Celèno a l'alta rupe in cima
disdegnosa
fermossi e, d'infortuni
trista
indovina infurïossi, e disse:
"Dunque
non basta averne, ardita razza
di
Laomedonte, depredati e scórsi
gli
armenti e i campi nostri, che ancor guerra,
guerra
ancor ne movete? E le innocenti
Arpie
scacciar del patrio regno osate?
Ma
sentite, e nel cor vi riponete
quel
ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema
ch'annunzio
a voi quel che 'l gran Giove a Febo,
e
Febo a me predice. Il vostro corso
è
per l'Italia, e ne l'Italia arete
e
porto e seggio. Ma di mura avanti
la
città che dal ciel vi si destina
non
cingerete, che d'un tale oltraggio
castigo
arete; e dira fame a tanto
vi
condurrà, che fino anco le mense
divorerete".
E, cosí detto, il volo
riprese
in vèr la selva, e dileguossi.
Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;
e
prieghi, invece d'armi, e voti oprando,
mercé
chiesero e pace, o dive o dire
che
si fosser l'alate ingorde belve:
e
'l padre Anchise in su la riva sporte
al
ciel le palme, e i gran celesti numi
umilmente
invocando, indisse i sacri
a
lor dovuti onori: "O dii possenti,
o
dii benigni, voi rendete vane
queste
minacce; voi di caso tale
ne
liberate; e voi giusti e voi buoni
siate
pietosi a noi ch'empi non siamo".
Indi ratto comanda che dal lito
si
disciolgano i legni. Entriam nel mare,
spieghiam
le vele agli austri, e via per l'onde
spumose
a tutto corso in fuga andiamo
là
've 'l vento e 'l nocchier ne guida e spinge.
E
già d'alto apparir veggiam le selve
di
Zacinto; passiam Dulichio e Same;
varchiam
Nèrito alpestro; e via fuggendo,
e
bestemmiando, trapassiam gli scogli
d'Itaca,
imperio di Laerte, e nido
del
fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
il
nimboso Leucàte, e quel che tanto
a'
naviganti è spaventoso, Apollo.
Ivi
stanchi approdammo; ivi gittate
l'àncore,
ed accostati i legni al lito,
ne
la picciola sua cittade entrammo.
Grata vie piú quanto sperata meno
ne
fu la terra; onde purgati ergemmo
altari
e vóti, ed ostie a Giove offrimmo.
E
d'Azio in su la riva festeggiando,
ignudi
ed unti, uscîr de' miei compagni
i
piú robusti, e, com'è patria usanza,
varie
palestre a lotteggiar si diêro:
gioiosi
che per tanto mare e tante
greche
terre inimiche a salvamento
fosser
tant'oltre addotti. Era de l'anno
compito
il giro, e i gelidi aquiloni
infestavano
il mare; ond'io lo scudo,
che
di forbito e concavo metallo
fu
già del grande Abante insegna e spoglia,
con
un tal motto in su le porte appesi:
A'
GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,
ED
A TE 'L SACRA, APOLLO. Indi al mar giunti
ne
rimbarcammo: e remigando a gara,
fummo
in un tempo de' Feaci a vista,
e
gli varcammo: poi rivolti a destra,
costeggiammo
l'Epiro, e di Caonia
giungemmo
al porto, ed in Butroto entrammo.
Qui
cosa udii, che meraviglia e gioia
mi
porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio
di
Prïamo re nostro, era a quel regno
di
greche terre assunto, e che di Pirro
e
del suo scettro e del suo letto erede
troiano
sposo a la troiana Andromache
s'era
congiunto. Arsi d'immenso amore
di
visitarlo, e di spïar da lui
come
ciò fosse; e de l'armata uscendo,
scesi
nel lito, e me n'andai con pochi
a
ritrovarlo. Era quel giorno a sorte
Andromache
regina in su la riva
del
nuovo Simoenta a far solenne
sepolcral
sacrificio; e, come è rito
de
la mia patria, avea, fra due grand'are
di
verdi cespi una gran tomba eretta,
monumento
di lagrime e di duolo.
ove
con tristi doni e con lugúbri
voci
del grand'Ettòr l'anima e 'l nome
chiamando,
il finto suo corpo onorava.
Poiché venir mi vide, e che di Troia
avvisò
l'armi, e me conobbe, un mostro
veder
le parve, e forsennata e stupida
fermossi
in prima; indi gelata e smorta
disvenne
e cadde; e dopo molto, a pena
risensando,
mirommi, e cosí disse:
"Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea?
Sei
corpo od ombra? Se da' morti udito
è
il mio richiamo, Ettòr perché te manda?
Perch'ei
teco non viene? E sei tu certo
nunzio
di lui?" Ciò detto, lagrimando,
empia
di strida e di lamenti i campi.
Io di pietà e di duol confuso, a pena
in
poche voci, e quelle anco interrotte,
snodai
la lingua: "Io vivo, se pur vita
è
menar giorni sí gravosi e duri:
ma
cosí spiro ancora, e veramente
son
io quel che ti sembro. O da qual grado
scaduta,
e da quanto inclito marito!
Andromache
d'Ettòr a Pirro, a Pirro
fosti
congiunta? Or qual altra piú lieta
t'incontra,
e piú di te degna fortuna?"
Abbassò
'l volto, e con sommessa voce
cosí
rispose: "O fortunata lei
sovr'ogni
donna, che regina e vergine,
ne
la sua patria a sacrificio offerta,
del
nimico fu vittima e non preda,
né
del suo vincitor serva né donna:
io
dopo Troia incensa, e dopo tanti
e
tanti arati mari, a servir nata,
de
la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto,
e
'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.
Questi
poi con Ermïone congiunto,
e
lei, che de la razza era di Leda
e
del sangue di Sparta, a me preposta,
volle
ch'Eleno ed io, servi ambidue,
n'accoppiassimo
insieme. Oreste intanto,
che
tôr l'amata sua donna si vide,
da
l'amore infiammato e da le faci
de
le furie materne, anzi agli altari
del
padre Achille, insidïosamente
tolse
la vita a lui. Per la sua morte
fu
'l suo regno diviso; e questa parte
de
la Caonia ad Eleno ricadde,
che
dal nome di Càone troiano
cosí
l'ha detta, come disse ancora
Ilio
da l'Ilio nostro questa ròcca
che
qui su vedi; e Simoenta e Pergamo
queste
picciole mura e questo rivo.
Ma
te quai vènti, o qual nostra ventura
ha
qui condotto, fuor d'ogni pensiero
di
noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro
vive?
cresce? che fa? come ha sentito
la
morte di Creúsa? E qual presagio
ne
dà ch'Enea suo padre, Ettor suo zio
si
rinnovino in lui?" Cotali Andromache
spargea
pianti e parole; ed ecco intanto
il
teucro eroe che de la terra uscendo,
con
molti intorno a rincontrar ne venne.
Tosto
che n'adocchiò, meravigliando
ne
conobbe, n'accolse, e lietamente
seco
n'addusse, de' comuni affanni
molto
con me, mentre andavamo, anch'egli
ragionando
e piangendo. Entrammo al fine
ne
la picciola Troia, e con diletto
un
arido ruscello, un cerchio angusto
sentii
con finti e rinnovati nomi
chiamar
Pergamo e Xanto; e de la Scea
porta
entrando abbracciai l'amata soglia.
Cosí
fecero i miei, meco godendo
l'amica
terra, come propria e vera
fosse
lor patria. Il re le sale e i portici
di
mense empiendo, fe' lor cibi e vini
da'
regii servi realmente esporre
con
vaselli d'argento e coppe d'oro.
Passato il primo giorno e l'altro appresso,
soffiâr
prosperi i vènti; ond'io commiato
a
l'indovino re chiedendo, seco
mi
ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,
cui
non son degli dèi le menti occulte,
che
Febo spiri e 'l tripode e gli allori
del
suo tempio dispensi, e de le stelle
e
de' volanti ogni secreto intendi,
danne
certo, ti priego, indicio e lume
de
le nostre venture. Il nostro corso,
com'ogni
augurio accenna ed ogni nume
ne
persuade, è per l'Italia; e lieto
e
fortunato ancor ne si promette
infino
a qui. Sola Celeno Arpia
novi
e tristi infortuni, e fame ed ira
degli
dèi ne minaccia. Io da te chieggio
avvertenze
e ricordi, onde sia saggio
a
tai perigli, e forte a tanti affanni".
Qui pria solennemente Eleno, occisi
i
dovuti giovenchi, in atto umíle
impetrò
dagli dèi favore e pace;
poscia,
raccolto in sé, le bende sciolse
del
sacro capo; e me, cosí com'era
a
tanto officio attonito e sospeso,
per
man prendendo, a la febèa spelonca
m'addusse
avanti, e con divina voce
intonando
proruppe: "O de la dea
pregiato
figlio (quando a gran fortuna
è
chiaro in prima che 'l tuo corso è vòlto;
tal
è del ciel, de' fati e di colui
che
gli regge, il voler, l'ordine e 'l moto),
io
di molte e gran cose che antiveggo
del
tuo peregrinaggio, acciò piú franco
navighi
i nostri mari, e 'l porto ausonio,
quando
che sia, securamente attinga,
poche
ne ti dirò, ch'a te le Parche
vietan
che piú ne sappi; ed a me Giuno,
ch'io
piú te ne riveli. In prima il porto,
e
l'Italia che cerchi, e sí vicina
ti
sembra, è da tal via, da tanti intrichi
scevra
da te, ch'anzi che tu v'aggiunga,
ti
parrà malagevole, e lontana
piú
che non credi; e ti fia d'uopo avanti
stancar
piú volte i remiganti e i remi,
e 'l mar de la Sicilia e 'l mar Tirreno,
e
i laghi inferni e l'isola di Circe
cercar
ti converrà, pria che vi fondi
securo
seggio. Io di ciò chiari segni
darotti,
e tu ne fa nota e conserva.
Quando piú stanco e travagliato a riva
sarai
d'un fiume, u' sotto un'elce accolta
sarà
candida troia, ed arà trenta
candidi
figli a le sue poppe intorno,
allor
di': - Questo è 'l segno e 'l tempo e 'l loco
da
fermar la mia sede, e questo è 'l fine
de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame
addur
ti deggia a trangugiar le mense,
comunque
avvenga, i fati a ciò daranno
opportuno
compenso; e questo Apollo
invocato
da voi presto saravvi.
Queste
terre d'Italia e questa riva
vèr
noi vòlta e vicina ai liti nostri,
è
tutta da' nimici e da' malvagi
Greci
abitata e cólta: e però lunge
fuggi
da loro. I Locri di Narizia
qui
si posaro; e qui ne' Salentini
i
suoi Cretesi Idomeneo condusse;
qui
Filottete il melibeo campione
la
piccioletta sua Petilia eresse.
Fuggili,
dico, e quando anco varcato
sarai
di là ne l'alto lito, intento
a
sciôrre i vóti, di purpureo ammanto
ti
vela il capo, acciò tra i santi fochi,
mentre
i tuoi numi adori, ostile aspetto
te
coi tuoi sacrifici non conturbi:
e
questo rito poi sia castamente
da
te servato e da' nepoti tuoi.
Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai
la Sicilia, e di Peloro
ti
si discovrirà l'angusta foce,
tienti
a sinistra, e del sinistro mare
solca
pur via quanto a di lungo intorno
gira
l'isola tutta, e da la destra
fuggi
la terra e l'onde. È fama antica
che
questi or due tra lor disgiunti lochi
erano
in prima un solo, che per forza
di
tempo, di tempeste e di ruine
(tanto
a cangiar queste terrene cose
può
de' secoli il corso), un dismembrato
fu
poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto
urtò, tanto róse, che l'esperio
dal
sicolo terreno alfin divise:
e
i campi e le città, che in su le rive
restaro,
angusto freto or bagna e sparte.
Nel
destro lato è Scilla; nel sinistro
è
l'ingorda Cariddi. Una vorago
d'un
gran baratro è questa, che tre volte
i
vasti flutti rigirando assorbe,
e
tre volte a vicenda li ributta
con
immenso bollor fino a le stelle.
Scilla
dentro a le sue buie caverne
stassene
insidïando; e con le bocche
de'
suoi mostri voraci, che distese
tien
mai sempre ed aperte, i naviganti
entro
al suo speco a sé tragge e trangugia.
Dal
mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
ha
di donna e di vergine; il restante,
d'una
pistrice immane, che simíli
a'
delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio
è con lungo indugio e lunga volta
girar
Pachino e la Trinacria tutta,
che,
non ch'altro, veder quell'antro orrendo,
serntir
quegli urli spaventosi e fieri
di
quei cerulei suoi rabbiosi cani.
Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
sembrar
ti può che sian d'Eleno i detti,
e
se scarso non m'è del vero Apollo,
sovr'a
tutto io t'accenno, ti predico,
ti
ripeto piú volte e ti rammento,
la
gran Giunone invoca: a Giunon vóti
e
preghi e doni e sacrifici offrisci
devotamente;
che, lei vinta alfine,
terrai
d'Italia il desïato lito.
Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
sarai
di Cuma, il sacro averno lago
visita,
e quelle selve e quella rupe,
ove
la vecchia vergine Sibilla
profetizza
il futuro, e 'n su le foglie
ripone
i fati: in su le foglie, dico,
scrive
ciò che prevede, e ne la grotta
distese
ed ordinate, ove sian lette,
in
disparte le lascia. Elle serbando
l'ordine
e i versi, ad uopo de' mortali
parlan
de l'avvenire, e quando, aprendo
talor
la porta, il vento le disturba,
e
van per l'antro a volo, ella non prende
piú
di ricôrle e d'accozzarle affanno;
onde
molti delusi e sconsigliati
tornan
sovente, e mal di lei s'appagano.
Tu
per soverchio che ti sembri indugio,
per
richiamo de' vènti o de' compagni,
non
lasciar di vederla, e d'impetrarne
grazia,
che di sua bocca ti risponda,
e
non con frondi. Ella daratti avviso
d'Italia,
de le guerre e de le genti
che
ti fian contra; e mostreratti il modo
di
fuggir, di soffrir, d'espugnar tutte
le
tue fortune, e di condurti in porto.
Questo
è quel che m'occorre, o che mi lice
ch'io
ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti
te
porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".
Poscia che ciò come profeta disse,
comandò
come amico ch'a le navi
gli
portassero i doni, opre e lavori
ch'avea
d'oro e d'avorio apparecchiati,
e
gran masse d'argento e gran vaselli
di
dodonèo metallo: una lorica
di
forbite azzimine; e rinterzate
maglie,
dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,
una
targa, un cimiero, una celata,
ond'era
a pompa ed a difesa armato
Nëottòlemo
altero. Il vecchio Anchise
ebbe
anch'egli i suoi doni: ebber poi tutti
cavalli
e guide; e fu di remi e d'armi
ciascun
legno provvisto; e perché 'l vento
che
secondo feria, non punto indarno
spirasse,
ordine avea di sciôr le vele
già
dato Anchise, a cui con molto onore
si
fece Eleno avanti, e cosí disse:
"O ben degno a cui fosse amica e sposo
la
gran madre d'Amore: o de' celesti
sovrana
cura, ch'a l'eccidio avanzi
già
due volte di Troia, eccoti a vista
giunto
d'Italia. A questa il corso indrizza:
ma
fa mestier di volteggiarla ancora
con
lungo giro, poiché lunge assai
è
la parte di lei che Apollo accenna.
Or
lieto te ne va, padre felice
di
sí pietoso figlio. Io, già che l'aura
sí
vi spira propizia, indarno a bada
piú
non terrovvi". Indi la mesta Andromache
fece
con tutti, e con Ascanio al fine
la
suprema partenza. Arnesi d'oro
guarniti
e ricamati, e drappi e giubbe
di
moresco lavoro, ed altri degni
di
lui vestiti e fregi, e ricca e larga
copia
di biancherie donogli, e disse:
"Prendi, figlio, da me quest'opre uscite
da
le mie mani, e per memoria tienle
del
grande e lungo amor che sempre avratti
Andromache
d'Ettorre; ultimi doni
che
ricevi da' tuoi. Tu mi sei, figlio,
quell'unico
sembiante che mi resta
d'Astïanatte
mio. Cosí la bocca,
cosí
le man, cosí gli occhi movea
quel
mio figlio infelice; e, d'anni eguale
a
te, del pari or saria teco in fiore".
Ed io da loro, anzi da me partendo,
con
le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:
"Vivete
lieti voi, cui già la sorte
vostra
è compita: noi di fato in fato,
di
mare in mar tapini andrem cercando
quel
che voi possedete. A noi l'Italia
tanto
ognor se ne va piú lunge, quanto
piú
la seguiamo; e voi già la sembianza
d'Ilio
e di Troia in pace vi godete,
regno
e fattura vostra. Ah! che de l'altra
sia
sempre e piú felice e meno esposta
a
le forze de' Greci. Io, s'unqua il Tebro
vedrò,
se fia giammai che ne' suoi campi
sorgan
le mura destinate a noi;
come
la nostra Esperia e 'l vostro Epiro
si
son vicini, e come ambe le terre
fien
vicine e cognate, ed ambe avranno
Dardano
per autore, e per fortuna
un
caso stesso; cosí d'ambedue
mi
proporrò che d'animi e d'amore
siamo
una Troia: e ciò perpetua cura
sia
de' nostri nipoti". Entrati in mare,
ne
spingemmo oltre a gli Ceràuni monti
a
Butroto vicini, onde a le spiagge
si
fa d'Italia il piú breve tragitto.
Già
dechinava il sole, e crescean l'ombre
de'
monti opachi, quando a terra vòlti
col
desire e co' remi in su la riva
pur
n'adducemmo, e procurammo a' corpi
cibo,
riposo e sonno. Ancor la notte
non
era al mezzo, che del suo stramazzo
surse
il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe
con
gli orecchi spiati il vento e 'l mare,
mirò
le stelle, contemplò l'Arturo,
l'Iadi
piovose, i gemini Trïoni,
ed
Orïone armato; e, visto il cielo
sereno
e 'l mar sicuro, in su la poppa
recossi,
e 'l segno dienne. Immantinente
movemmo
il campo, e quasi in un baleno
giunti
e posti nel mar, vela facemmo.
Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
scolorite
le stelle, allor che lunge
scoprimmo,
e non ben chiari, i monti in prima,
poscia
i liti d'Italia. - Italia! - Acate
gridò
primieramente. - Italia! Italia! -
da
ciascun legno ritornando allegri
tutti
la salutammo. Allora Anchise
con
una inghirlandata e piena tazza
in
su la poppa alteramente assiso:
"O
del pelago - disse - e de la terra,
e
de le tempeste numi possenti,
spirate
aure seconde, e vèr l'Ausonia
de'
nostri legni agevolate il corso".
Rinforzaronsi i vènti; apparve il
porto
piú
da vicino; apparve al monte in cima
di
Pallade il delúbro. Allor le vele
calammo,
e con le prore a terra demmo.
È di vèr l'Orïente un
curvo seno
in
guisa d'arco, a cui di corda in vece
sta
d'un lungo macigno un dorso avanti,
ove
spumoso il mar percuote e frange.
Ne'
suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
che
con due braccia il mar dentro accogliendo,
lo
fa porto e l'asconde; e sovra al porto
lunge
dal lito è 'l tempio. Ivi smontati,
quattro
destrier vie piú che neve bianchi,
che
pascevano il campo, al primo incontro
per
nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -
guerra
ne si minaccia; a guerra additti
sono
i cavalli; o pur sono anco al carro
talvolta
aggiunti, e van del pari a giogo:
guerra
fia dunque in prima, e pace dopo".
Quinci
devoti venerammo il nume
de
l'armigera Palla, a cui gioiosi
prima
il corso indrizzammo. In su la riva
altari
ergemmo; e noi d'intorno, come
Eleno
ci ammoní, le teste avvolte
di
frigio ammanto, a la gran Giuno argiva
preghiere
e doni e sacrifici offrimmo.
Poiché solennemente i prieghi e i vóti
furon
compiti, al mar ne radducemmo
immantinente;
e rivolgendo i corni
de
le velate antenne, il greco ospizio
e
'l sospetto paese abbandonammo.
E prima il tarentino erculeo seno
(se
la sua fama è vera) a vista avemmo;
poscia
a rincontro di Lacinia il tempio,
la
ròcca di Caulóne e 'l Scillacèo,
onde
i navili a sí gran rischio vanno;
indi
ne la Trinacria al mar discosto
d'Etna
il monte vedemmo, e lunge udimmo
il
fremito, il muggito, i tuoni orrendi
che
facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi
e
dentro a le caverne i flutti e i fuochi,
al
ciel ruttando insieme il mare e 'l monte
fiamme,
fumo, faville, arene e schiuma.
Qui disse il vecchio Anchise:
"È
forse questa
quella
Cariddi? Questi scogli certo,
e
questi sassi orrendi Eleno dianzi
ne
profetava. Via, compagni, a' remi
tutti
in un tempo, e vincitori usciamo
d'un
tal periglio". Palinuro il primo
rivolse
la sua vela e la sua proda
al
manco lato; e ciò gli altri seguendo,
con
le sarte e co' remi in un momento
ne
gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo
prima
al ciel ne sospinse; indi calando,
ne
l'abisso ne trasse. In ciò tre volte
mugghiar
sentimmo i cavernosi scogli,
e
tre volte rivolti in vèr le stelle
d'umidi
sprazzi e di salata schiuma
il
ciel vedemmo rugiadoso e molle.
Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme
ne
mancâr sí, che del vïaggio incerti
disavvedutamente
a le contrade
de'
Ciclopi approdammo. È per se stesso
a'
vènti inaccessibile e capace
di
molti legni il porto ove giugnemmo;
ma
sí d'Etna vicino, che i suoi tuoni
e
le sue spaventevoli ruine
lo
tempestano ognora. Esce talvolta
da
questo monte a l'aura un'atra nube
mista
di nero fumo e di roventi
faville,
che di cenere e di pece
fan
turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano
ad ora ad or lucide fiamme
che
van lambendo a scolorir le stelle;
e
talvolta, le sue viscere stesse
da
sé divelte, immani sassi e scogli
liquefatti
e combusti al ciel vomendo
in
fin dal fondo romoreggia e bolle.
È fama, che dal fulmine percosso
e
non estinto, sotto a questa mole
giace
il corpo d'Encèlado superbo;
e
che quando per duolo e per lassezza
ei
si travolve, o sospirando anela,
si
scuote il monte e la Trinacria tutta;
e
del ferito petto il foco uscendo
per
le caverne mormorando esala,
e
tutte intorno le campagne e 'l cielo
di
tuoni empie e di pomici e di fumo.
A questi mostri tutta notte esposti,
entro
una selva stemmo, non sapendo
le
cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso
ne
si togliea, poiché 'l paese conto
non
c'era: né stellato, né sereno
si
vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,
e
tra le nubi era la luna ascosa.
Già del giorno seguente era il
mattino,
e
'l chiaro albore avea l'umido velo
tolto
dal mondo, quando ecco dal bosco
ne
si fa 'ncontro un non mai visto altrove
di
strana e miserabile sembianza,
scarno,
smunto e distrutto: una figura
piú
di mummia che d'uomo. Avea la barba
lunga,
le chiome incolte, indosso un manto
ricucito
di spini: orrido tutto,
e
squallido e difforme, con le mani
verso
il lito distese, a lento passo
venia
mercé chiedendo. Era costui,
come
prima ne parve e poscia udimmo,
greco,
e di quei che militaro a Troia.
Onde
noi per Troiani e i nostri arnesi
e
le nostr'armi conoscendo, in prima
attonito
fermossi; e poscia quasi
rincomato
a noi venne e con preghiere
e
con pianto ne disse: "Oh! se le stelle,
se
gli dèi, se quest'aura onde spiriamo,
generosi
e magnanimi Troiani,
serbin
la vita a voi, quinci mi tolga
la
pietà vostra, e vosco m'adducete,
ove
che sia; ché mi fia questo assai;
poi
ch'io son greco, e di quei Greci ancora
che
venner (lo confesso) a i danni vostri.
Se
'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto
ch'io
ne deggia morir, morte mi date,
e
(se cosí v'aggrada) a brano a brano
mi
lanïate, e ne fate esca a' pesci;
ché
se per man d'umana gente io pèro,
perir
mi giova". E, cosí detto, a' piedi
ne
si gittò. Noi l'esortammo a dire
chi
fosse e di che patria e di che sangue,
e
qual era il suo caso. Il vecchio Anchise
la
sua destra gli porse, e con tal pegno
l'affidò
di salute; ond'ei securo
tosto
soggiunse: "Itaca è patria mia,
Achemènide
il nome. Io fui compagno
de
l'infelice Ulisse; e venni a Troia,
la
povertà del mio padre Adamasto
fuggendo
(cosí povero mai sempre
foss'io
stato con lui!); qui capitai
con
esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia
con
gli altri suoi questo crudele ospizio,
per
téma abbandonommi e per oblio
ne
l'antro del Ciclopo. È questo un antro
opaco,
immenso, che macello è sempre
d'umana
carne, onde ancor sempre intriso
è
di sanie e di sangue: ed è 'l Ciclopo
un
mostro spaventoso, un che col capo
tocca
le stelle (o Dio, leva di terra
una
tal peste!), ch'a mirarlo solo,
solo
a parlarne, orror sento ed angoscia.
Pascesi
de le viscere e del sangue
de
la misera gente; ed io l'ho visto
con
gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender
le branche e, due presi de' nostri,
rotargli
a cerco e sbattergli e schizzarne
infra
quei tufi le midolle e gli ossi.
Vist'ho
quando le membra de' meschini
tiepide,
palpitanti e vive ancora,
di
sanguinosa bava il mento asperso,
frangea
co' denti a guisa di maciulla.
Ma nol soffrí senza vendetta Ulisse;
né
di se stesso in sí mortal periglio
punto
oblïossi; ché non prima steso
lo
vide ebbro e satollo a capo chino
giacer
ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio
ruttar
pezzi di carne e sangue e vino,
che
ne restrinse; ed invocati in prima
i
santi numi, divisò le veci
sí
che parte il tenemmo in terra saldo,
parte,
con un gran palo al foco aguzzo,
sopra
gli fummo; e quel ch'unico avea
di
targa e di febèa lampade in guisa
sotto
la torva fronte occhio rinchiuso,
gli
trivellammo, vendicando alfine,
col
tôr la luce a lui, l'ombre de' nostri.
Ma voi che fate qui? ché non fuggite,
miseri
voi? Fuggite, e senza indugio
tagliate
il fune e v'allargate in mare;
che
cosí smisurati e cosí fieri,
com'è
costui che Polifemo è detto,
ne
son via piú di cento in questo lito,
tutti
Ciclopi, e tutti antropofàgi,
che
vanno il dí per questi monti errando.
Già
visto ho la cornuta e scema luna
tornar
tre volte luminosa e tonda,
da
che son qui tra selve e tra burroni
con
le fere vivendo. Entro una rupe
è
'l mio ricetto; e quindi, benché lunge
gli
miri, ad or ad or d'avergl'intorno
mi
sembra, e 'l suon n'abborro e 'l calpestio
de
la voce e de' piè. Pascomi d'erbe,
di
còccole e di more e di corniali,
e
di tali altri cibi acerbi e fieri:
vita
e vitto infelice. In questo tempo,
quanto
ho scoperto intorno, unqua non vidi
ch'altro
legno giammai qui capitasse,
salvo
ch'i vostri. A voi dunque del tutto
m'addico:
e, che che sia, parrammi assai
fuggir
questa nefanda e dira gente.
Voi,
pria che qui lasciarmi, ogni supplicio
mi
date ed ogni morte". A pena il Greco
avea
ciò detto, ed ecco in su la vetta
del
monte avverso Polifemo apparve.
Sembrato
mi sarebbe un altro monte
a
cui la gregge sua pascesse intorno,
se
non che si movea con essa insieme,
e
torreggiando, inverso la marina
per
l'usato sentier se ne calava.
Mostro
orrendo, difforme e smisurato,
che
avea come una grotta oscura in fronte
in
vece d'occhio, e per bastone un pino,
onde
i passi fermava. Avea d'intorno
la
greggia a' piedi, e la sampogna al collo,
quella
il suo amore, e questa il suo trastullo,
ond'orbo
alleggeriva il duolo in parte.
Giunto
a la riva, entrò ne l'onde a guazzo:
e
pria de l'occhio la sanguigna cispa
lavossi,
ad or ad or per ira i denti
digrignando
e fremendo: indi si stese
per
entro 'l mare, e nel piú basso fondo
fu
pria co' piè che non fûr l'onde a l'anche.
Noi
per paura, ricevuto in prima,
come
ben meritò, l'ospite greco,
di
fuggir n'affrettammo; e chetamente
sciolte
le funi, a remigar ne demmo
piú
che di furia. Udí 'l Ciclopo il suono
e
'l trambusto de' remi; e vòlti i passi
vèr
quella parte e 'l suo gran pino a cerco,
poiché
lungi sentinne, e lungamente
pensò
seguirne per l'Ionio in vano,
trasse
un mugghio, che 'l mare e i liti intorno
ne
tremâr tutti; ne sentí spavento
fino
a l'Italia; ne tonaron quanti
la
Sicania avea seni, Etna caverne.
L'udir
gli altri Ciclopi, e da le selve
e
da' monti calando, in un momento
corsero
al porto, e se n'empiero i liti.
Gli
vedevam da lunge in su l'arena,
quantunque
indarno, minacciosi e torvi
stender
le braccia a noi, le teste al cielo:
concilio
orrendo, ché ristretti insieme
erano
quai di querce annose a Giove,
di
cipressi coniferi a Dïana
s'ergono
i boschi alteramente a l'aura.
Fero timor n'assalse; e da l'un canto
pensammo
di lasciar che 'l vento stesso
ne
portasse a seconda ovunque fosse,
purché
lunge da loro; ma da l'altro,
d'Eleno
ce 'l vietava il detto espresso,
che
per mezzo di Scilla e di Cariddi
passar
non si dovesse a sí gran rischio,
e
di sí poco spazio e quinci e quindi
scevri
da morte. In questa, che già fermi
eravam
di voltar le vele a dietro,
ecco
che da lo stretto di Peloro,
ne
vien Bora a grand'uopo, onde repente
a
la sassosa foce di Pantagia,
al
megarico seno, ai bassi liti
ne
trovammo di Tapso. In cotal guisa
riferiva
Achemenide, compagno
che
s'è detto d'Ulisse, esser nomati
quei
lochi, onde pria seco era passato.
Giace de la Sicania al golfo avanti
un'isoletta
che a Plemmirio ondoso
è
posta incontro, e dagli antichi è detta
per
nome Ortigia. A quest'isola è fama
che
per vie sotto al mare il greco Alfeo
vien
da Dòride intatto, infin d'Arcadia
per
bocca d'Aretusa a mescolarsi
con
l'onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo
i gran numi; indi varcammo
del
paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo
di Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo
Camarina, e 'l fato udimmo,
che
mal per lei fôra il suo stagno asciutto.
La
pianura passammo de' Geloi,
di
cui Gela è la terra, e Gela il fiume.
Molto
da lunge il gran monte Agragante
vedemmo,
e le sue torri e le sue spiagge
che
di razze fur già madri famose.
Col
vento stesso indietro ne lasciammo
la
palmosa Seline; e 'n su la punta
giunti
di Lilibeo, tosto girammo
le
sue cieche seccagne, e 'l porto alfine
del
mal veduto Drepano afferrammo.
Qui, lasso me! da tanti affanni oppresso,
a
tanti esposto, il mio diletto padre,
il
mio padre perdei. Qui stanco e mesto,
padre,
m'abbandonasti; e pur tu solo
m'eri
in tante gravose mie fortune
quanto
avea di conforto e di sostegno.
Ohimè!
che indarno da sí gran perigli
salvo
ne ti rendesti. Ah, che fra tanti
orrendi
e miserabili infortuni,
ch'Eleno
ci predisse e l'empia Arpia,
questo
non era già, ch'era il maggiore!
Oh
fosse questo ancor l'ultimo affanno,
com'è
l'ultimo corso! Ché partendo
da
Drepano, se ben fera tempesta
qui
m'ha gittato, certo amico nume
m'ha,
benigna regina, a voi condotto».
Cosí da tutti con silenzio udito,
poich'ebbe
Enea distesamente esposto
la
ruina di Troia e i rischi e i fati
e
gli error suoi, fece qui fine e tacque.
Ma la regina d'amoroso strale
già
punta il core, e ne le vene accesa
d'occulto
foco, intanto arde e si sface;
e
de l'amato Enea fra sé volgendo
il
legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
e
quel che piú le sta ne l'alma impresso,
soave
ragionar, dolce sembiante,
tutta
notte ne pensa e mai non dorme.
Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella
cui
le piume parean già stecchi e spini;
e
con la sua diletta e fida suora
si
ristrinse e le disse: «Anna sorella,
che
vigilie, che sogni, che spaventi
son
questi miei? che peregrino è questo
che
qui novellamente è capitato?
Vedestu
mai sí grazioso aspetto?
Conoscesti
unqua il piú saggio, il piú forte,
e
'l piú guerriero? Io credo (e non è vana
la
mia credenza) che dal ciel discenda
veracemente.
L'alterezza è segno
d'animi
generosi. E che fortune,
e
che guerre ne conta! Io, se non fusse
che
fermo e stabilito ho nel cor mio
che
nodo marital piú non mi stringa,
poiché
'l primo si ruppe, e se d'ognuno
schiva
non fossi, solamente a lui
forse
m'inchinerei. Ché, a dirti 'l vero,
Anna
mia, da che morte e l'empio frate
mi
privâr di Sichèo, sol questi ha mosso
i
miei sensi e 'l mio core, e solo in lui
conosco
i segni de l'antica fiamma.
Ma
la terra m'ingoi, e 'l ciel mi fulmini,
e
ne l'abisso mi trabocchi in prima
ch'io
ti vïoli mai, pudico amore.
Col
mio Sichèo, con chi pria mi giungesti,
giungimi
sempre, e 'ntemerato e puro
entro
al sepolcro suo seco ti serba».
E
qui piangendo e sospirando tacque.
Anna
rispose: «O piú de la mia vita
stessa,
amata sorella, adunque sola
vuoi
tu vedova sempre e sconsolata
passar
questi tuoi verdi e florid'anni?
Abbiti
insino a qui fatto rifiuto
e
del getúlo Iarba e di tant'altri
possenti,
generosi e ricchi duci
peni
e fenici; ch'io di ciò ti scuso,
com'allor
dolorosa, e non amante.
Ma
poich'ami, ad amor sarai rubella,
e
ritrosa a te stessa? Ah! non sovvienti
qual
cinga il tuo reame assedio intorno?
com'ha
gl'insuperabili Getúli
da
l'una parte, i Numidi da l'altra,
fera
gente e sfrenata? indi le secche,
quinci
i deserti, e piú da lunge infesti
i
feroci Barcèi? Taccio le guerre
che
già sorgon di Tiro, e le minacce
del
fiero tuo fratello. Io penso certo
che
la gran Giuno, e tutto 'l ciel benigno
ne
si mostrasse allor che a' nostri liti
questi
legni approdaro. O qual cittade,
qual
imperio fia questo ! Quanto onore,
quanto
pro, quanta gloria a questo regno
ne
verrà, quando ei teco, e l'armi sue
saran
giunte a le nostre! Or via, sorella,
porgi
preci a gli dèi, fa' vezzi a lui,
assecuralo,
onoralo, intrattienlo:
ché
'l crudo verno, il tempestoso mare,
il
piovoso Orïone, i vènti, il cielo,
le
sconquassate navi in ciò ne dànno
mille
scuse di mora e di ritegno».
Con questo dir, che fu qual aura al foco
ond'era
il cor de la regina acceso,
l'infiammò,
l'incitò, speme le diede
e
vergogna le tolse. Andaro in prima
a
visitare i templi, a chieder pace
e
favor de' celesti, a porger doni,
a
far d'elette pecorelle offerta
a
Cerere, ad Apollo, al padre Bacco,
e,
pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno,
cui
son le nozze e i maritaggi a cura.
La
regina ella stessa ornata e bella
tien
d'oro un nappo, e fra le corna il versa
d'una
candida vacca; o si ravvolge
intorno
a' pingui altari, ed ogni giorno
rinnova
i doni, e de le aperte vittime
le
palpitanti fibre, i vivi moti,
e
le spiranti viscere contempla,
e
con lor si consiglia. O menti sciocche
de
gl'indovini! E che ponno i delúbri,
e
i vóti, esterni aiuti, a mal ch'è dentro?
Nel
cor, ne le midolle e ne le vene
è
la piaga e la fiamma, ond'arde e père.
Arde
Dido infelice, e furïosa
per
tutta la città s'aggira e smania:
qual
ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso
arcier fugge lo strale
che
l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo
porta al fianco infisso. Or a diporto
va
con Enea per la città, mostrando
le
fabbriche, i disegni e le ricchezze
del
suo novo reame; or disïosa
di
scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi
non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va
dechinando, a convivar ritorna,
e
di nuovo a spïar de gli accidenti
e
de' fati di Troia, e nuovamente
pende
dal volto del facondo amante.
Tolti
da mensa, allor che notte oscura
in
disparte gli tragge, e che le stelle
sonno,
dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente,
in solitudine ridotta,
ritirata
da gli altri, è sol con lui
che
le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta
Ascanio, il pargoletto figlio
per
sembianza del padre in grembo accolto,
tenta,
se cosí può, l'ardente amore
o
spegnere, o scemare, o fargli inganno.
Le torri, i templi, ogn'edificio intanto
cessa
di sormontar; cessa da l'arme
la
gioventú. Le porte, il porto, il molo
non
sorgon piú; dismesse ed interrotte
pendon
l'opere tutte e la gran macchina
che
fea dianzi ira a' monti e scorno al cielo.
Vide
da l'alto la saturnia Giuno
il
furor di Didone, e tal che fama
e
rispetto d'onor piú non l'affrena;
onde
Venere assalse, e 'n cotal guisa
disdegnosa
le disse: «Una gran loda
certo,
un gran merto, un memorabil nome
tu
col fanciullo tuo, Ciprigna, acquisti
d'aver
due sí gran dii vinta una femina!
Io
so ben che guardinga e sospettosa
di
me ti rende e de la mia Cartago
il
temer di tuo figlio. Ma fia mai
che
questa téma e questa gelosia
si
finisca tra noi? Ché non piú tosto
con
una eterna pace e con un saldo
nodo
di maritaggio unitamente
ne
ristringemo? Ecco hai già vinto; e vedi
quel
che piú desïavi. Ama, arde, infuria:
con
ogni affetto è verso Enea tuo figlio
la
mia Dido rivolta. Or lui si prenda;
e
noi concordemente in pace abbiamo
ambedue
questo popolo in tutela;
né
ti sdegnar che sí nobil regina
serva
a frigio marito, e ch'ei le genti
n'aggia
di Tiro e di Cartago in dote».
Venere, che ben vide ove mirava
il
colpo di Giunone; e che l'occulto
suo
bersaglio era sol con questo avviso
distor
d'Italia il destinato impero
e
trasportarlo in Libia, incontro a lei
cosí
scaltra rispose: «E chi sí folle
sarebbe
mai ch'un tal fesse rifiuto
di
quel ch'ei piú desia, per teco averne,
teco
che tanto puoi, gara e tenzone,
quando
ciò che tu di' possibil fosse?
Ma
non so che si possa, né che 'l fato,
né
che Giove il permetta, che due genti
diverse,
come son Tiri e Troiani,
una
sola divenga. Tu consorte
gli
sei; tu ne 'l dimanda, e tu l'impetra,
ch'io,
per me, me n'appago ». «Ed io, - soggiunse
Giuno
- sopra di me l'incarco assumo,
ch'ei
ne 'l consenta. Or odi brevemente
il
modo che a ciò far già ne si porge.
Tosto
che 'l sol dimane uscirà fuori,
uscire
ancor l'innamorata Dido
col
troian duce a caccia s'apparecchia.
Ove
opportunamente a la foresta,
mentre
de' cacciatori e de' cavalli
andran
le schiere in volta, io loro un nembo
spargerò
sopra tempestoso e nero,
con
un turbo di grandine e di pioggia,
e
di sí fieri tuoni il cielo empiendo,
ch'indi
percossi i lor seguaci tutti,
andran
dispersi e d'atra nube involti.
Solo
con sola Dido Enea ridotto
in
un antro medesimo accôrrassi.
Io
vi sarò; saravvi anco Imeneo;
e
se del tuo voler tu m'assecuri,
io
farò sí ch'ivi ambidue saranno
di
nodo indissolubile congiunti».
Venere
in ciò non disdicendo, insieme
chinò
la testa: e de la dolce froda
dolcemente
sorrise. Uscio del mare
l'Aurora
intanto; ed ecco fuori armati
di
spiedi e di zagaglie, a suon di corni,
venirne
i cacciatori, altri con reti,
altri
con cani. Ha questi un gran molosso,
quegli
un veltro a guinzaglio, e lunghe file
van
di segugi incatenati avanti.
Scorrono
intorno i cavalier Massíli:
e
i maggior Peni, e' piú chiari Fenici
stanno
in sella aspettando anzi al palagio,
mentre
ad uscir fa la regina indugio;
e
presto intanto d'ostro e d'oro adorno
il
suo ginnetto, e, vagamente fiero,
ringhia,
e sparge la terra, e morde il freno.
Esce a la fine accompagnata intorno
da
regio stuolo, e non con regio arnese,
ma
leggiadro e ristretto. È la sua veste
di
tirio drappo, e d'arabo lavoro
riccamente
fregiata: è la sua chioma
con
nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
tutta
di gemme come stelle aspersa;
e
d'oro son le fibbie, onde sospeso
le
sta d'intorno de la gonna il lembo.
Da
gli omeri le pende una faretra,
dal
fianco un arco. I Frigi, e 'l bello Iulo
le
cavalcano avanti; e via piú bello,
ma
di beltà feroce e grazïosa,
le
giva Enea con la sua schiera a lato.
Qual
se ne va da Licia e da le rive
di
Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,
a
la materna Delo il biondo Apollo,
allor
che festeggiando accolti e misti
infra
gli altari i Drïopi, i Cretesi,
e
i dipinti Agatirsi in varie tresche
gli
s'aggirano intorno; o quando spazia
per
le piagge di Cinto, a l'aura sparsi
i
bei crin d'oro, e de l'amata fronde
le
tempie avvolto, e di faretra armato;
tal
fra la gente si mostrava, e tale
era
ne' gesti e nel sembiante Enea,
sovra
d'ogni altro valoroso e vago.
Poscia che furo a' monti, e nel piú folto
penetrâr
de le selve, ecco da i balzi
de
l'alte rupi uscir capri e camozze;
e
cervi altronde, che, d'armenti in guisa,
quasi
in un gruppo, spaventati a torme
fuggono
al piano, e fan nubi di polve.
Di
ciò gioioso il giovinetto Iulo
sul
feroce destrier per la campagna
gridando
e traversando, or questo arriva,
or
quel trapassa: e nel suo core agogna
tra
le timide belve o d'un cignale
aver
rincontro, o che dal monte scenda
un
velluto leone. In questa il cielo
mormorando
turbossi, e pioggia e grandine
diluvïando,
d'ogni parte in fuga
Ascanio,
i Teucri, i Tiri ai piú propinqui
tetti
si ritiraro; e fiumi intanto
sceser
da' monti, ed allagaro i piani.
Solo
con sola Dido Enea ridotto
in
un antro medesimo s'accolse.
Diè,
di quel che seguí, la terra segno
e
la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr
de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni
assistenti e consapevoli
sol
ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon
le ninfe. Il primo giorno
fu
questo, e questa fu la prima origine
di
tutti i mali, e de la morte alfine
de
la Regina; a cui poscia non calse
né de l'indegnità, né de l'onore,
né de la secretezza. Ella si fece
moglie
chiamar d'Enea; con questo nome
ricoverse
il suo fallo; e di ciò tosto
per
le terre di Libia andò la Fama.
È questa Fama un mal, di cui
null'altro
è
piú veloce; e com' piú va, piú cresce;
e
maggior forza acquista. È da principio
picciola
e debil cosa, e non s'arrischia
di
palesarsi; poi di mano in mano
si
discopre e s'avanza, e sopra terra
sen
va movendo e sormontando a l'aura,
tanto
che 'l capo infra le nubi asconde.
Dicon che già la nostra madre antica,
per
la ruina de' Giganti irata
contr'a'
celesti, al mondo la produsse,
d'Encèlado
e di Ceo minor sorella;
mostro
orribile e grande, d'ali presta
e
veloce de' piè; che quante ha piume,
tanti
ha sotto occhi vigilanti, e tante
(meraviglia
a ridirlo) ha lingue e bocche
per
favellare, e per udire orecchi.
Vola
di notte per l'oscure tenebre
de
la terra e del ciel senza riposo,
stridendo
sempre, e non chiude occhi mai.
Il
giorno sopra tetti, e per le torri
sen
va de le città, spïando tutto
che
si vede e che s'ode: e seminando,
non
men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso
di
rumor empie e di spavento i popoli.
Questa,
gioiosa, bisbigliando in prima,
poscia
crescendo, del seguíto caso
molte
cose dicea vere e non vere.
Dicea, ch'un di troiana stirpe uscito,
venuto
era in Cartago, a cui degnata
s'era
la bella Dido esser congiunta.
Queste e cose altre assai, la sozza dea
per
le bocche degli uomini spargendo,
tosto
in Getulia al gran Iarba pervenne;
e
con parole e con punture acerbe
sí
de l'offeso re l'animo accese,
ch'arse
d'ira e di sdegno. Era d'Ammone,
e
de la garamantide Napea,
già
rapita da lui, questo re nato,
onde
a Giove suo padre entro a' suoi regni
cento
gran templi e cento pingui altari
avea
sacrati, e di continui fochi
mantenendo
agli dèi vigilie eterne
di
vittime, di fiori e di ghirlande
gli
tenea sempre riveriti e cólti.
Ei
sí com'era afflitto e conturbato
da
l'amara novella, anzi agli altari
e
fra gli dèi, le mani al cielo alzando,
cotali,
umile insieme e disdegnoso,
porse
prieghi e querele: «Onnipotente
padre,
a cui tanti opimi e sontuosi
conviti,
e di Lenèo sí larghi onori
offrisce
oggi de' Mauri il gran paese,
vedi
tu queste cose? o pure invano
tonando
e folgorando ci spaventi?
Una
femina errante, una che dianzi
ebbe
a prezzo da me nel mio paese,
per
fondar la sua terra un picciol sito:
una
ch'arena ha per arare, ha vitto,
loco
e leggi da me, me per marito
rifiuta;
e di sé donno e del suo regno
ha
fatto Enea. Questo or novello Pari
mitrato
il mento e profumato il crine,
va
del mio scorno e del suo furto altero:
ed
io qui me ne sto vittime e doni
a
te porgendo, e son tuo figlio indarno».
Cosí Iarba dicea; né da l'altare
s'era
ancor tolto, quando il padre udillo;
e
gli occhi in vèr Cartagine torcendo
vide
gli amanti ch'a gioire intesi
avean
posti in oblio la fama e i regni.
Onde
vòlto a Mercurio: «Va, figliuolo, -
gli
disse, - chiama i vènti, e ratto scendi
là
've sí neghittoso il troian duce
bada
in Cartago, e 'l destinato impero
non
gradisce e non cura; e ciò gli annunzia
da
parte mia, che Venere sua madre
non
per tal lo mi diede, e ch'a tal fine
non
è stato da lei da l'armi greche
già
due volte scampato. EIla promise
ch'ei
sarebbe atto a sostener gl'imperi
e
le guerre d'Italia, a trar qua suso
la
progenie di Teucro, a porre il freno,
a
dar le leggi al mondo. A ciò se 'l pregio
di
sí gran cose e de la gloria stessa
non
muove lui, perché non guarda al figlio?
Perché
di tanta sua grandezza il froda,
di
quanta fian Lavinio ed Alba e Roma
ne'
secoli a venire? E con che speme,
con
che disegno in Libia fa dimora,
e
co' nemici suoi? Navighi in somma.
Questo
dilli in mio nome». Udito ch'ebbe
Mercurio,
ad eseguir tosto s'accinse
i
precetti del padre; e prima a' piedi
i
talari adattossi. Ali son queste
con
penne d'oro, ond'ei l'aria trattando,
sostenuto
da' vènti, ovunque il corso
volga,
o sopra la terra, o sopra al mare,
va
per lo ciel rapidamente a volo.
Indi
prende la verga, ond'ha possanza
fin
ne l'inferno, onde richiama in vita
l'anime
spente, onde le vive adduce
ne
l'imo abisso, e dà sonno e vigilia
e
vita e morte; aduna e sparge i vènti,
e
trapassa le nubi. Era volando
giunto
là 've d'Atlante il capo e 'l fianco
scorgea,
de le cui spalle il cielo è soma;
d'Atlante
la cui testa irta di pini,
di
nubi involta, a piogge, a vènti, a nembi
è
sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
e
per nevi e per gel canuto e gobbo,
è
da fiumi rigato. In questo monte,
che
fu padre di Maia, avo di lui,
primamente
fermossi. Indi calando
si
gittò sovra l'onde, e lungo al lito
di
Libia se n'andò, l'aure secando
in
quella guisa che marino augello
d'un'alta
ripa, a nuova pesca inteso,
terra
terra sen va tra rive e scogli
umilmente
volando. A pena giunto
era
in Cartago, che davanti Enea
si
vide, intento a dar siti e disegni
ai
superbi edifici. Avea dal manco
lato
una storta, di dïaspro e d'oro
guarnita,
e di stellate gemme adoma.
Dal
tergo gli pendea di tiria ardente
porpora
un ricco manto, arnesi e doni
de
la sua Dido, ch'ella stessa intesta
avea
la tela, e ricamati i fregi.
Né
'l vide pria, che gli fu sopra, e disse:
«Tu te ne stai sí neghittosamente,
Enea,
servo d'amor, ligio di donna,
a
fondar l'altrui regno; e 'l tuo non curi?
A
te mi manda il regnator celeste,
ch'io
ti dica 'n sua vece: "Che pensiero,
che
studio è il tuo? con che speranza indugi
in
queste parti? Se 'l tuo proprio onore,
se
la propria grandezza non ti spinge;
ché
non miri a' tuoi posteri, al destino,
a
la speranza del tuo figlio Iulo,
a
cui si deve il glorïoso impero
de
l'Italia e di Roma?"» E piú non disse,
né
piú risposta attese; anzi dicendo,
uscio
d'umana forma, e dileguossi.
Stupí, si raggricciò, tremante e fioco
divenne
il troian duce, il gran precetto,
e
chi 'l portava, e chi 'l mandava udendo.
Già
pensa di ritrarsi. Ma che modo
terrà
con Dido ad impetrar commiato?
Con
quai parole assalirà, con quali
disporrà
mai la furïosa amante?
Pensa,
volge, rivolge: in un momento
or
questo, or quel partito, or tutti insieme
va
discorrendo; ed ora ad un s'appiglia,
ed
ora a l'altro. Si risolve al fine:
e
fatto a sé venir Memmo, Sergesto,
e
l'ardito Cloanto: «Andate, - disse -
raunate
i compagni; itene al porto,
e
con bel modo chetamente l'arme
apprestate
e l'armata; e non mostrate
segno
di novità, né di partenza.
Intanto
io troverò loco opportuno,
e
tempo accomodato e destro modo
d'ottener
da quest'ottima regina
che
da lei con dolcezza mi diparta,
nulla
sapendo ancor di mia partita,
né
sperando tal fine a tanto amore».
A l'ordine d'Enea lieti i compagni
obbedîr
tutti; e prestamente in punto
fu
ciò che impose. Ma Didon del tratto
tosto
s'avvide: e che non vede amore?
Ella
pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea,
benché secura. E già la stessa
Fama
importunamente le rapporta
armarsi
i legni, esser i Teucri accinti
a
navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa,
infurïata, e fuori uscita
di
se medesma, imperversando scorre
per
tutta la città. Quale a i notturni
gridi
di Citeron Tïade, allora
che
'l trïennal di Bacco si rinnova,
nel
suo moto maggior si scaglia e freme,
e
scapigliata e fiera attraversando,
e
mugolando al monte si conduce;
tal
era Dido, e da tal furia spinta
Enea
da sé con tai parole assalse:
«Ah perfido! Celar dunque sperasti
una
tal tradigione, e di nascosto
partir
de la mia terra? E del mio amore,
de
la tua data fé, di quella morte
che
ne farà la sfortunata Dido,
punto
non ti sovviene, e non ti cale?
Forse
che non t'arrischi in mezzo al verno
tra'
piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele!
Or che faresti, se straniere
non
ti fosser le terre, ignoti i lochi
che
tu procuri? E che faresti, quando
fosse
ancor Troia in piede? A Troia andresti
di
questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh!
per queste mie lagrime, per quello
che
tu della tua fé pegno mi desti
(poiché
a Dido infelice altro non resta
che
a sé tolto non aggia), per lo nostro
marital
nodo, per l'imprese nozze,
per
quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo
o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti
unqua da me; ti priego ch'abbi
pietà
del dolor mio, de la ruina
che
di ciò m'avverrebbe; e (se piú luogo
han
le preci con te) che tu del tutto
lasci
questo pensiero. Io per te sono
in
odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a'
miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo
a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite
sol mi resta di chiamarti,
di
marito che m'eri. E perché deggio,
lassa,
viver io piú? Per veder forse
che
'l mio fratel Pigmalïon distrugga
queste
mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in
servitú m'adduca? Almeno avanti
la
tua partita avess'io fatto acquisto
d'un
pargoletto Enea che per le sale
mi
scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e
non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser
non mi parrebbe abbandonata,
né
delusa del tutto». A tai parole
Enea
di Giove al gran precetto affisso
tenea
il pensiero e gli occhi immoti e saldi;
e
brevemente le rispose al fine:
«Regina, e' non fia mai ch'io non mi tenga
doverti
quanto forse unqua potessi
rimproverarmi.
E non fia mai ch'Elisa
non
mi ricordi, infin che ricordanza
avrò
di me medesmo, e che 'l mio spirto
reggerà
queste membra. Ora in discarco
di
me dirò sol questo, che sperato,
né
pensato ho pur mai d'allontanarmi
da
te, come tu di'. Se 'l mio destino
fosse
che la mia vita e i miei pensieri
a
mia voglia reggessi, a Troia in prima
farei
ritorno: raccôrrei le dolci
sue
disperse reliquie: a la mia patria
di
nuovo renderei la vita e i figli,
e
la reggia e le torri e me con loro.
Ma
ne l'Italia il mio fato mi chiama.
Italia
Apollo in Delo, in Licia, ovunque
vado,
o mando a spïarne, mi promette.
Quest'è
l'amor, quest'è la patria mia.
Se
tu, che di Fenicia sei venuta,
siedi
in Cartago, e ti diletti e godi
del
tuo libico regno; qual divieto,
qual
invidia è la tua, che i miei Troiani
prendano
Ausonia? Non lece anco a noi
cercar
de' regni esterni? E non cuopre ombra
la
terra mai, non mai sorgon le stelle,
che
del mio padre una turbata imago
non
veggia in sogno, e che di ciò ricordo
non
mi porga e spavento. A tutte l'ore
del
mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria
che
riceve da me sí caro pegno,
se
del regno d'Italia io lo defraudo,
che
gli son padre, quando il fato e Giove
ne
'l privilegia. E pur dianzi mi venne
dal
ciel mandato il messaggier celeste
a
portarmi di ciò nuova imbasciata
dal
gran re degli dèi. Donna, io ti giuro
per
la lor deità, per la salute
d'ambedue
noi, che con quest'occhi il vidi
qui
dentro in chiaro lume; e la sua voce
con
quest'orecchi udii. Rimanti adunque
di
piú dolerti; e con le tue querele
né te, né me piú conturbare. Italia
non
a mia voglia io seguo». E piú non disse.
Ella, mentre dicea, crucciata e torva
lo
rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza
far motto. Alfin, da sdegno vinta
cosí
proruppe: «Tu, perfido, tu
sei
di Venere nato? Tu del sangue
di
Dardano? Non già; ché l'aspre rupi
ti
produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri
ti fûr nutrici. A che tacere?
Il
simular che giova? E che di meglio
ne
ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha
mai questo crudel tratto un sospiro,
o
gittata una lagrima, o pur mostro
atto
o segno d'amore, o di pietade?
Di
che prima mi dolgo? di che poi?
Ah!
che né Giuno omai, né Giove stesso
cura
di noi: né con giust'occhi mira
piú
l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede?
E
chi piú la mantiene? Era costui
dianzi
nel lito mio naufrago, errante,
mendíco.
Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i
suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran
morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!)
a parte con me del regno mio,
e
di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir
mi sento! Ora il profeta Apollo,
or
le sorti di Licia, ora un araldo,
che
dal ciel gli si manda, a gran faccende
quinci
lo chiama. Un gran pensiero han certo
di
ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo
a
lor quïete. Or va', che per innanzi
piú
non ti tegno, e piú non ti contrasto.
Va'
pur, segui l'Italia, acquista i regni
che
ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son
pietosi, e se ponno, io spero ancora
che
da' vènti e da l'onde e da gli scogli
n'avrai
degno castigo; e che piú volte
chiamerai
Dido, che lontana ancora
co'
neri fuochi suoi ti fia presente:
e
tosto che di morte il freddo gelo
l'anima
dal mio corpo avrà disgiunta,
passo
non moverai che l'ombra mia
non
ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa
a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto
me ne verrà lieta novella».
Qui
'l suo dire interruppe; e lui per téma
confuso
e molto a replicarle inteso
lasciando,
con disdegno e con angoscia
gli
si tolse davanti. Incontanente
le
fûr l'ancelle intorno; e sí com'era
egra
e dolente, entro al suo ricco albergo
le
diêr sovra le piume agio e riposo.
Enea, quantunque pio, quantunque afflitto
e
d'amore infiammato e di desire
di
consolar la dolorosa amante,
nel
suo core ostinossi. E fermo e saldo
d'obbedire
a gli dèi fatto pensiero,
calossi
al mare, e i suoi legni rivide.
Allor
furo in un tempo unti e rispinti
e
posti in acqua; e, per la fretta, i remi
diventarono
i rami che dal bosco
si
portavano allor frondosi e rozzi.
Era a veder da la cittade al porto
de' Teucri, de le ciurme, e de le robe
ch'al
mar si conducean, pieno il sentiero:
qual
è, quando le provvide formiche
de
le lor vernaricce vettovaglie
pensose
e procaccevoli, si dànno
a
depredar di biade un grande acervo;
che
va dal monte ai ripostigli loro
la
negra torma, e per angusta e lunga
sèmita
le campagne attraversando,
altre
al carreggio intese o lo s'addossano,
o
traendo o spingendo lo conducono;
altre
tengon le schiere unite, ed altre
castigan
l'infingarde; e tutte insieme
fan
che tutta la via brulica e ferve.
Che cor, misera Dido, che lamenti
erano
allora i tuoi, quando da l'alto
un
tal moto scorgevi, e tanti gridi
ne
sentivi dal mare? Iniquo amore,
che
non puoi tu ne' petti de' mortali?
Ella
di nuovo al pianto, a le preghiere,
a
sottoporsi a l'amoroso giogo
da
la tua forza è suo malgrado astretta.
Ma
per fare ogni schermo, anzi che muoia,
la
sorella chiamando: «Anna, - le disse -
tu
vedi che s'affrettano, e sen vanno.
Vedi
già loro in su la spiaggia accolti,
le
vele in alto, e le corone in poppa.
Sorella
mia, s'avessi un tal dolore
antiveder
potuto, io potrei forse
anco
soffrirlo. Or questo solo affanno
prendi
per la tua misera sirocchia,
poiché
te sola quel crudele ascolta,
e
sol di te si fida, e i lochi e i tempi
sai
d'esser seco e di trattar con lui;
truova
questo superbo mio nimico,
e
supplichevolmente gli favella.
Dilli
che Dido io sono, e che non fui
in
Aulide co' Greci a far congiura
contra
a' Troiani; e che di Troia a' danni
né
i miei legni mandai, né le mie genti.
Dilli
che né le ceneri, né l'ombre
né
del suo padre mai, né d'altri suoi
non
vïolai. Qual dunque o mio demerto
o
sua durezza fa ch'ei non ascolti
il
mio dire, e me fugga, e sé precipiti?
Chiedili
per mercé dell'amor mio,
per
salvezza di lui, per la mia vita,
ch'indugi
il suo partir tanto che 'l mare
sia
piú sicuro e piú propizi i vènti.
Né
piú del maritaggio io lo richieggio,
c'ha
già tradito, né vo' piú che manchi
del
suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un
picciol tempo, e d'ogni obbligo sciolto
io
gli dimando, e tanto o di quïete,
o
d'intervallo al mio cieco furore,
ch'in
parte il duol disacerbando, impari
a
men dolermi. Questo è 'l dono estremo
che
da lui per tuo mezzo agogna e brama
questa
tua miserabile sorella:
e
se tu lo m'impetri, altro che morte
forza
non avrà mai ch'io me n'oblii».
Queste e tali altre cose ella piangendo
dicea
con Anna, ed Anna al frigio duce
disse,
ridisse, e riportò piú volte
or
da l'una or da l'altro, e tutte in vano;
ché
né pianti, né preci, né querele
punto
lo muovon piú. Gli ostano i fati,
e
solo in ciò gli ha dio chiuse l'orecchie;
benché
dolce e trattabile e benigno
fusse
nel resto. Come annosa e valida
quercia,
che sia ne l'alpi esposta a Borea,
s'or
da l'uno or da l'altro de' suoi turbini
è
combattuta, si scontorce e títuba:
stridono
i rami e 'l suol di frondi spargesi,
e
'l tronco al monte infisso immoto e solido
se
ne sta sempre; e quanto sorge a l'aura
con
la sua cima, tanto in giú stendendosi
se
ne va con le barbe infino agl'inferi:
cosí,
da preci e da querele assidue
battuto,
duolsi il gran Troiano ed angesi,
e
con la mente in sé raccolta e rigida
gitta
indarno per lei sospiri e lagrime.
La sfortunata Dido, poiché tronca
si
vide ogni speranza, spaventata
dal
suo fato, e di sé schiva e del sole,
disïò
di morire; e gran portenti
di
ciò presagio e fretta anco le fêro.
Ella,
mentre a gli altari incensi e doni
offria
devota (orribil cosa a dire!),
vide
avanti di sé cogli occhi suoi
farsi
lurido e negro ogni liquore,
e
'l puro vin cangiarsi in tetro sangue:
e
'l vide, e 'l tacque, e 'nfino a la sorella
lo
tenne ascoso. Entro al suo regio albergo
avea
di marmo un bel delúbro eretto,
e
dedicato al suo marito antico.
Questo
con molto studio, e molt'onore
fu
mai sempre da lei di bianchi velli
e
di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci
notturne voci udir le parve
del
suo caro Sichèo che la chiamasse;
e
nel suo tetto un solitario gufo
molte
fïate con lugúbri accenti
fe'
di pianto una lunga querimonia.
Oltre
a ciò da l'antiche profezie,
da
pronostici orrendi e spaventosi
de
la vicina morte era ammonita.
Vedeasi
Enea tutte le notti avanti
con
fera imago, che turbata e mesta
la
tenea sempre. Le parea da tutti
restare
abbandonata, e per un lungo
e
deserto cammino andar solinga
de'
suoi Tiri cercando. In cotal guisa
le
schiere de l'Eumènidi vedea
Pèntëo
forsennato, e doppio il sole
e
doppia Tebe. In cotal guisa Oreste
per
le scene imperversa, e furïoso
vede,
fuggendo, la sua madre armata
di
serpenti e di faci, e 'n su le porte
le
Furie ultrici. Or poi che la meschina
fu
da tanto furor, da tanto affanno
oppressa
e vinta, e di morir disposta,
divisò
fra se stessa il tempo e 'l modo:
ed
Anna, sí com'era afflitta e mesta,
a
sé chiamando, il suo fiero consiglio
celò
nel core, e nel sereno volto
spiegò
gioia e speranza: «Anna, - dicendo -
rallegrati
con me, che al fin trovato
ho
com'io debba o racquistar quell'empio,
o
ritôrmi da lui. Nel lito estremo
de
l'Oceàn, là dove il sol si corca,
de
l'Etïopia a l'ultimo confino,
e
presso a dove Atlante il ciel sostiene,
giace
un paese, ond'ora è qui venuta
una
sacerdotessa incantatrice,
che,
massíla di gente, è stata poi
del
tempio de l'Espèridi ministra,
e
del drago nudrice, e de le piante
del
pomo d'oro guardïana un tempo.
Questa, d'umido mèle e d'oblïosi
papaveri
composto un suo miscuglio,
promette
con parole e con malíe
altri
sciôr da l'amore, altri legare,
com'a
lei piace; distornare i fiumi,
ritrar
le stelle, e convocar per forza
le
notturne fantasme. Udrai la terra
mugghiar
sotto a' tuoi piè. Vedrai da' monti
calar
gli orni e le querce. Io per gli dèi,
per
te, per la tua vita a me sí cara,
ti
giuro, suora mia, che mal mio grado
m'adduco
a questi magici incantesmi;
ma
gran forza mi spinge. Or va, sorella;
scegli
per entro a le mie stanze un luogo
il
piú remoto e solo, a l'aura esposto.
Ivi
ergi una gran pira, e vi conduci
l'armi
che a la mia camera sospese
lasciò
quel disleale, e quelle spoglie,
in
somma ogni suo arnese. Ché la maga
cosí
m'impone, e vuol ch'ogni memoria,
ogni
segno di lui si spenga e pèra».
Cosí detto, si tacque, e di pallore
tutta
si tinse. Non però s'avvide
Anna
che sotto a' nuovi sacrifici
si
celasse di lei morte sí fera:
ché
sí fero concetto non le venne,
e
non temé che peggio le avvenisse
che
in morte di Sichèo. Tosto fe' dunque
quel
ch'imposto le fu. Fatta la pira,
e
d'ilici e di tede aride e scisse
altamente
composta, la regina
d'atre
ghirlande e di funeste frondi
ornar
la fece intorno: indi le spoglie
e
la spada e l'effigie de l'amante
sopra
a giacer vi pose, ben secura
di
ciò che n'avverrebbe. Eran d'intorno
gli
altari eretti; era tra lor la maga
scapigliata
e discinta; e con un tuono
di
voce formidabile invocava
trecento
deità, l'Erebo, il Cao,
Ècate
con tre forme, e con tre facce
la
vergine Dïana. Avea già sparse
le
finte acque d'Averno, e i suffumigi
fatti
de le nocive erbe novelle
che
per punti di luna, e con la falce
d'incantato
metallo eran segate.
Si
fe' venir la malïosa carne
che
de la fronte al tenero pulledro
con
l'amor de la madre si divelle.
Essa
stessa regina il farro e 'l sale
con
le man pie sovr'a gli altari impone,
e
d'un piè scalza, e di tutt'altro sciolta,
solo
accinta a morir, per testimoni
chiama
li dèi. Protestasi a le stelle
del
suo fato consorti: e s'alcun nume
mira
a gli afflitti e sfortunati amanti,
questo
prega e scongiura che ragione
e
ricordo ne tenga, e ne gli caglia.
Era la notte; e già di mezzo il corso
cadean
le stelle; onde la terra e 'l mare,
le
selve, i monti e le campagne tutte,
e
tutti gli animali, i bruti, i pesci,
e
i volanti e i serpenti e ciò che vive
avea
da ciò che la lor vita affanna
tregua,
silenzio, oblio, sonno e riposo.
Ma
non Dido infelice, a cui la notte
né
gli occhi grava, né 'l pensiero alleggia;
anzi
maggior col tramontar del sole
in
lei risorge l'amorosa cura:
e
non men che d'amor, d'ira avvampando,
cosí
fra sé farnetica e favella:
«E che farò cosí delusa poi?
Chi
piú mi seguirà de' primi amanti?
Proferirommi
per consorte io stessa
d'un
Zingaro, d'un Moro, o d'un Aràbo,
quando
n'ho vilipesi e rifiutati
tanti
e tai, tante volte? Andrò co' Teucri
in
su l'armata? Mi farò soggetta,
di
regina ch'io sono, e serva a loro?
Sí
certo, che gran pro fin qui riporto
de
le mie loro usate cortesie;
e
grado me n'avranno, e grazia poi.
Ma
ciò, dato ch'io voglia, chi permette
ch'io
l'eseguisca? Chi cosí schernita
volentier
mi raccoglie? Ahi sfortunata
Dido!
ch'ancor non vedi a che sei giunta,
e
le frodi non sai di questa iniqua
schiatta
di Laomedonte. E poi, che fia
per
questo? Deggio sola in compagnia
di
marinari andar femina errante?
o
condur meco i miei Fenici tutti
con
altra armata? e trarli un'altra volta
d'un'altra
patria in mare, in preda a' vènti
senz'alcun
pro, senza cagione alcuna,
quando
anco a pena di Sidon gli trassi
per
ritôrli da man d'empio tiranno?
Ah!
muor piú tosto, come degnamente
hai
meritato; e pon col ferro fine
al
tuo grave dolore. Ah, mia sorella!
tu
sei prima cagion di tanto male;
tu,
vinta dal mio pianto, in quest'angoscia
m'hai
posta, e data ad un nemico in preda;
ché
dovea vita solitaria e fera
menar
piú tosto, che commetter fallo
sí
dannoso e sí grave, e romper fede
al
cener di Sichèo». Questi lamenti
uscian
del petto a l'affannata Dido;
quando
già di partir fermo e parato
Enea,
per riposar pria che sciogliesse,
s'era
a dormir sopra la poppa agiato.
Ed
ecco un'altra volta in sogno, avanti
del
medesmo celeste messaggiero
gli
appar l'imago, con quel volto stesso,
con
quel color, con quella chioma d'oro
con
che lo vide pria giovane e bello;
e
da la stessa voce udir gli parve:
«Tu corri, Enea, sí gran fortuna, e dormi?
Non
senti qual ti spira aura seconda?
Dido
cose nefande ordisce ed osa
certa
già di morire, e d'ira accesa
a
dire imprese è vòlta; e tu non fuggi,
mentre
fuggir ti lece? A mano a mano
di
legni travagliar vedrassi il mare,
di
fochi il lito, e di furor le genti
incontra
a te, se tu qui 'l giorno aspetti.
Via
di qua tosto: da' le vele a' vènti.
Femina
è cosa mobil per natura,
e
per disdegno impetuosa e fera».
E
qui tacendo entrò nel buio, e sparve.
Enea, preso da súbito spavento,
destossi,
e fe' destar la gente tutta:
«Via,
compagni, - dicendo - a i banchi, e a i remi;
ch'or
d'altro uopo ne fa che di riposo.
Fate
vela, sciogliete: ché di nuovo
precetto
ne si fa dal cielo e fretta.
Ecco,
qual tu ti sia, messo celeste,
che
'l tuo detto seguiamo; e tu benigno
n'aíta
e 'l cielo e 'l mar ne rendi amico».
Ciò detto, il ferro strinse, e
fulminando
del
suo legno la gómona recise.
Cosí
fêr gli altri, e col medesmo ardore
tutti
insieme sciogliendo, travasando,
e
spingendosi in alto, in un momento
lasciaro
il lito; e 'l mar, da i legni ascoso,
si
fe' per tanti remi e tante vele
spumoso
e bianco. Era vermiglio e rancio
fatto
già de la notte il bruno ammanto,
lasciando
di Titon l'Aurora il letto:
quando
d'un'alta loggia la regina
tutto
scoprendo, poi ch'a piene vele
vide
le frige navi irne a dilungo,
e
vòti i liti, e senza ciurma il porto;
contra
sé fatta ingiurïosa e fera,
il
delicato petto e l'auree chiome
si
percoté, si lacerò piú volte;
e
'ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove!, - disse -
dunque
pur se n'andrà? Dunque son io
fatta
d'un forestier ludibrio e scherno
nel
regno mio? Né fia chi prenda l'armi?
Né
chi lui segua, né i suoi legni incenda?
Via
tosto a le lor navi, a l'armi, al foco;
mano
a le vele, a' remi; oltre, nel mare!
Che
parlo? O dove sono? E che furore
è
'l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera,
ti persegue. Allor fu d'uopo
ciò
che tu di', quando di te signore
e
del tuo regno il festi. Ecco la destra,
ecco
la fede sua. Questi è quel pio
che
seco adduce i suoi patrii Penati,
e
'l vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non
potea farlo prendere e sbranarlo?
e
gittarlo nel mare? ancider lui
con
tutti i suoi? dilanïare il figlio,
e
darlo in cibo al padre? Oh, perigliosa
fôra
stata l'impresa! E di periglio
la
si fosse, e di morte; in ogni guisa
morir
dovendo, a che temere indarno?
Arsi
avrei gli steccati, incesi i legni,
occiso
il padre, il figlio, il seme in tutto
di
questa gente, e me spenta con loro.
Sole, a cui de' mortali ogni opra è
conta;
Ècate,
che ne' trivi orribilmente
sei
di notte invocata; ultrici Furie,
spiriti
inferni, e dii de l'infelice
Dido
ch'a morte è giunta, il mio non degno
caso
riconoscete, e insieme udite
queste
dolenti mie parole estreme.
Se
forza, se destino, se decreto
è
di Giove e del cielo, e fisso e saldo
è
pur che questo iniquo in porto arrivi
e
terra acquisti; almen da fiera gente
sia
combattuto, e, de' suoi fini in bando,
da
suo figlio divelto implori aiuto,
e
perir veggia i suoi di morte indegna.
Né
leggi che riceva, o pace iniqua
che
accetti, anco gli giovi; né del regno,
né
de la vita lungamente goda:
ma
caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena
giaccia
insepolto. Questi prieghi estremi
col
mio sangue consacro. E voi, miei Tiri,
coi
discesi da voi, tenete seco
e
co' posteri suoi guerra mai sempre.
Questi
doni al mio cenere mandate,
morta
ch'io sia. Né mai tra queste genti
amor
nasca, né pace; anzi alcun sorga
de
l'ossa mie, che di mia morte prenda
alta
vendetta, e la dardania gente
con
le fiamme e col ferro assalga e spenga
ora,
in futuro e sempre; e sian le forze
a
quest'animo eguali: i liti ai liti
contrari
eternamente, l'onde a l'onde,
e
l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro
in
ogni tempo». E ciò detto, imprecando,
schiva
di piú veder l'eterea luce,
affrettò
di morire. E Barce in prima
vistasi
intorno, una nutrice antica
del
suo Sichèo (ché la sua propria in Tiro
era
cenere già): «Cara nutrice, -
le
disse - va', mi chiama Anna mia suora,
e
le di' che solleciti, e che l'onda
del
fiume e l'ostie e i suffumigi adduca,
e
ciò ch'è d'uopo, come pria le dissi,
a
prepararmi: ché finire intendo
il
sacrifizio che a Plutone inferno
solennemente
ho di già fare impreso,
per
fine imporre a' miei gravi martiri,
e
dar foco a la pira, ov'è l'imago
di
quell'empio Troiano». A tal precetto
mossa
la vecchiarella, a suo potere
lentamente
affrettossi ad eseguirlo.
Dido nel suo pensiero immane e fiero
fieramente
ostinata, in atto prima
di
paventosa, poi di sangue infetta
le
torve luci, di pallore il volto,
e
tutta di color di morte aspersa,
se
n'entrò furïosa ove secreto
era
il suo rogo a l'aura apparecchiato.
Sopra
vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe
da lui non a tal uso in dono,
distrinse:
e rimirando i frigi arnesi
e
'l noto letto, poich'in sé raccolta
lagrimando
e pensando alquanto stette,
sopra
vi s'inchinò col ferro al petto,
e
mandò fuor quest'ultime parole:
«Spoglie,
mentre al ciel piacque, amate e care
a
voi rendo io quest'anima dolente.
Voi
l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi
liberate. Ecco, io son giunta al fine
de
la mia vita, e di mia sorte il corso
ho
già compito. Or la mia grande imago
n'andrà
sotterra: e qui di me che lascio?
Fondata
ho pur questa mia nobil terra;
viste
ho pur le mie mura; ho vendicato
il
mio consorte; ho castigato il fiero
mio
nimico fratello. Ah, che felice,
felice
assai morrei, se a questa spiaggia
giunte
non fosser mai vele troiane!»
E
qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto
vi
tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrò
senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque
sia. Cosí, cosí mi giova
girne
tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre
meco era, il mio foco non vide,
veggalo
di lontano; e 'l tristo augurio
de
la mia morte almen seco ne porte».
Avea
ciò detto, quando le ministre
la
vider sopra al ferro il petto infissa,
col
ferro e con le man di sangue intrise
spumante
e caldo. In pianti, in ululati
di
donne in un momento si converse
la
reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro
voci
alte e fioche, e suon di man con elle.
N'andò
per la città grido e tumulto,
come
se presa da' nemici a forza
fosse
Tiro, o Cartago arsa e distrutta.
Anna, tosto ch'udillo, il volto e 'l petto
battessi
e lacerossi; e fra la gente
verso
la moribonda sua sorella,
stridendo,
e 'l nome suo gridando corse:
«E
per questo, - dicea - suora, son io
da
te cosí tradita? Io t'ho per questo
la
pira e l'are e 'l foco apparecchiato?
Deserta
me! Di che dorrommi in prima?
Perché,
morir dovendo, una tua suora
per
compagna rifiuti? E perché teco,
lassa!
non m'invitasti? Ch'un dolore,
un
ferro, un'ora stessa ambe n'avrebbe
tolte
d'affanno. Ohimé! con le mie mani
t'ho
posto il rogo. Ohimé! con la mia voce
ho
gli dèi de la patria a ciò chiamati.
Tutto,
folle! ho fatt'io, perché tu muoia,
perch'io
nel tuo morir teco non sia.
Con
te, me, questo popol, questa terra
e
'l sidonio senato hai, suora, estinto.
Or
mi date che 'l corpo omai componga,
che
lavi la ferita, che raccolga
con
le mie labbia il suo spirito estremo,
se
piú spirto le resta». E, ciò dicendo,
già
de la pira era salita in cima.
Ivi
lei che spirava in seno accolta,
la
sanguinosa piaga, lagrimando,
con
le sue vesti le rasciuga e terge.
Ella
talor, le gravi luci alzando,
la
mira a pena, che di nuovo a forza
morte
le chiude; e la ferita intanto
sangue
e fiato spargendo anela e stride.
Tre
volte sopra il cubito risorse:
tre
volte cadde, ed a la terza giacque:
e
gli occhi vòlti al ciel, quasi cercando
veder
la luce, poiché vista l'ebbe,
ne
sospirò. De l'affannosa morte
fatta
Giuno pietosa, Iri dal cielo
mandò,
che 'l groppo disciogliesse tosto,
che
la tenea, malgrado anco di morte,
col
suo mortal sí strettamente avvinta;
ch'anzi
tempo morendo, e non dal fato,
ma
dal furore ancisa, non le avea
Prosèrpina
divelto anco il fatale
suo
dorato capello; né dannata
era
ancor la sua testa a l'Orco inferno.
Ratto spiegò la rugiadosa dea
le
sue penne dorate, e 'ncontra al sole
di
quei tanti suoi lucidi colori
lunga
striscia traendo; indi sospesa
sopra
al capo le stette, e d'oro un filo
ne
svelse e disse: «Io qui dal ciel mandata
questo
a Pluto consacro, e te disciolgo
da
le tue membra». Ciò dicendo, sparve.
Ed
ella, in aura il suo spirto converso,
restò
senza calore e senza vita.
Intanto Enea, spinto dal vento in alto,
veleggiava
a dilungo; e pur con gli occhi,
da
la forza d'amor rivolto indietro,
rimirava
a Cartago. Ardea la pira
già
d'Elisa infelice; e le sue fiamme
raggiavan
di lontan gran luce intorno.
La
cagion non sapea; ma la temenza
lo
rimordea del vïolato amore,
e
'l saper quel che puote e quel che ardisce
femina
furïosa; e 'l tristo augurio
del
foco, che lugúbre era e funesto,
lo
tenea con lo stuol de' Teucri tutti
disanimato
e mesto. Eran di vista
già
de la terra usciti, e cielo ed acqua
apparian
solamente d'ogn'intorno,
allor
ch'un denso e procelloso nembo
si
fe' lor sopra; onde tempesta e notte
surse
repente, e Palinuro stesso
da
l'alta poppa il ciel mirando: «Oh! - disse -
che
fia con tante intorno accolte nubi?
E
che pensi e che fai, padre Nettuno?»
Indi
cornanda: «Via, compagni, armiamci,
opriamo
i remi, accomodiam le vele,
tegniamo
al vento avverso obliquo il seno».
E
rivolto ad Enea: «Con questo cielo,
signor,
- diss'egli - ormai piú non m'affido
prender
Italia, ancor che Giove stesso
nel
promettesse, ed ei nocchier ne fosse.
Vedi
il vento mutato, vedi il mare
di
vèr ponente, che s'annera e gonfia:
vedi
nel ciel qual ne s'accampa stuolo
di
folte nubi. Traversia di certo
n'assalirà
sí che né girle incontro,
né
durar la potremo. Or poi ch'a forza
cosí
ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla;
ché già presso i porti
ne
son de la Sicilia e 'l fido ospizio
d'Èrice
tuo fratello, s'abbastanza
de
l'arte mi rammento e de le stelle».
Rispose Enea: «Ben conosch'io che duro
è
'l contrasto de' vènti; e 'l nostro è vano.
Volgi
le vele. E qual piú grata altrove,
o
piú commoda riva, o piú sicura
aver
mai ponno le mie stanche navi,
di
quella che ne serba il caro Aceste,
e
l'ossa accoglie del buon padre mio?»
Cosí, vòlti a levante, e preso in
poppa
il
vento e 'l flutto, a tutta vela il golfo
correndo,
fûr subitamente a proda
de
l'amica riviera. Avea di cima
visto
d'un monte il cacciatore Aceste
venir
la frigia armata: onde in un tempo
fu
con essi a la riva; e rincontrolli
allegramente,
sí com'era incolto,
di
dardi armato e d'irta pelle cinto
di
libic'orso, umano insieme e rozzo,
de
la troiana Egesta e di Criniso
fiume
onorato figlio. Ei degli antichi
suoi
parenti membrando, con gioioso
volto,
se ben con rustico apparecchio,
gl'invita,
gli riceve e gli consola.
Era de l'altro dí l'aurora e 'l sole
già
fuor de l'onde, allor che 'l frigio duce,
convocati
i suoi tutti, alto in un greppo
posto
in mezzo di lor cosí lor disse:
«Generosi e magnanimi Troiani,
degna
prole di Dardano e del cielo,
questa
è l'amica terra, ove oggi è l'anno
ch'a
le sante ossa del mio padre Anchise
demmo
requie e sepolcro, e i mesti altari
gli
consecrammo. Oggi è, s'io non m'inganno,
quel
sempre acerbo ed onorato giorno,
ché
onorato ed acerbo mi fia sempre
(poi
che sí piacque a dio), quantunque ovunque
questo
esiglio infelice mi trasporti:
pongami
ne l'arene e ne le secche
de
la Getulia; spingami agli scogli
del
mar di Grecia; ne la Grecia stessa
mi
chiugga, e dentro al cerchio di Micene;
ch'io
l'arò sempre per solenne, e vóti
farogli
ogni anno e sacrifici e ludi.
Or
poi che da' celesti, oltre ogni avviso
nostro,
tra' nostri siamo in pruova addotti
per
onorar le sue ceneri sante,
onoriamle,
adoriamle, e dal suo nume
imploriamo
devoti amici i vènti,
e
stabil seggio, ove gli s'erga un tempio,
in
cui sian quest'esequie e questi onori
rinnovellati
eternamente ogni anno.
Due
pingui buoi per ciascun nostro legno
vi
profferisce il buon troiano Aceste.
Voi
d'Aceste e di Troia i patri numi
ne
convitate; ed io, quando l'Aurora
tranquillo
e queto il nono giorno adduca,
a'
solenni spettacoli v'invito
di
navi, di pedoni e di cavalli,
al
corso, a la palestra, al cesto, a l'arco.
Ognun
vi si prepari, ognun ne speri
degna
del suo valor mercede e palma.
E
voi datevi assenso, e tutti insieme
v'inghirlandate».
E, ciò dicendo, il primo
del
suo mirto materno il crin si cinse.
Èlimo
lo seguí, seguillo Alete,
un
di verd'anni e l'altro di maturi;
poscia
il fanciullo Iulo; e dietro a loro
d'ogni
età gli altri tutti. Enea disceso
dal
parlamento, in mezzo a quante intorno
avea
schiere di genti, umile e mesto
al
sepolcro d'Anchise appresentossi:
e
con rito solenne in terra sparte
due
gran coppe di vino e due di latte
e
due di sangue, di purpurei fiori
vi
nevigò di sopra un nembo, e disse:
«A voi sant'ossa, a voi ceneri amate
e
famose e felici, anima ed ombra
del
padre mio, torno di nuovo indarno
per
onorarvi; poi che Italia e 'l Tebro
(se
pur Tebro è per noi) ne si contende.
Or,
quel ch'io posso con devoto affetto
v'adoro
e 'nchino come cosa santa».
Mentre cosí dicea, di sotto al cavo
de
l'alto avello un gran lubrico serpe
uscio
placidamente; e sette volte
con
sette giri al tumulo s'avvolse.
Indi,
strisciando infra gli altari e i vasi,
le
vivande lambendo, in dolce guisa,
con
le cerulee sue squamose terga
sen
gio divincolando, e quasi un'Iri
a
sole avverso scintillò d'intorno
mille
vari color di luce e d'oro.
Stupissi
Enea di cotal vista; e l'angue
di
lungo tratto infra le mense e l'are,
ond'era
uscito alfin si ricondusse.
Rinnovellò
gl'incominciati onori
il
frigio duce, del serpente incerto,
se
del loco era il genio, o pur del padre
sergente
o messo. E com'era uso antico,
cinque
pecore elette e cinque porci,
con
cinque di morello il tergo aspersi
grassi
giovenchi anzi a la tomba occise,
nuove
tazze versando, e nuovamente
fin
d'Acheronte richiamando il nome
e
l'anima d'Anchise. Indi i compagni,
ciascun
secondo la sua possa offrendo,
lieti
colmâr di doni i santi altari:
altri
di lor le vittime immolaro;
altri
cibi ne fêro; e tutti insieme
sul
verde prato a convivar si diêro.
Era già 'l nono destinato giorno
sereno
e lieto a l'orïente apparso,
e
già la vaga fama e 'l chiaro nome
avea
d'Aceste convocati intorno
i
vicin tutti, e pieni erano i liti
di
gente, cui traea parte vaghezza
di
vedere i Troiani, e parte ardire
di
provarsi con loro. In prima esposti
con
pompa riguardevole e solenne
furo
in mezzo del circo armi indorate,
purpuree
vesti, e tripodi e corone,
e
piú guise d'arnesi e di monete,
d'argento
e d'oro, e palme ed altri premi
di
vincitori. Indi sonora tromba
d'alto
diè segno ai desïati ludi,
e
dal mar cominciossi. Avean di tutta
la
teucra armata quattro legni scelti
piú
di remi e di rémigi guarniti,
e
di tutti piú destri. Un fu la Pistri,
e
Memmo la reggea: Memmo che poi
l'Italo
fu nomato, e diede il nome
a
la stirpe de' Memmi. La Chimera
fu
l'altro, a cui preposto era il gran Gía,
un
gran vascello che a tre palchi avea
disposti
i remi; e i remiganti tutti
eran
troiani e giovani e robusti.
Fu
'l gran Centauro il terzo; e di quest'era
Sergesto
il capo, che a la Sergia prole
diede
principio. L'ultimo, la Scilla
guidata
da Cloanto, onde i Cluenti
trasser
nome e legnaggio. È lunge incontra
a
la spumosa riva un basso scoglio
che
da' flutti percosso, è talor tutto
inondato
e sommerso. Il verno i vènti
vi
tendon sopra un nubiloso velo
che
ricuopre le stelle, e quando è il tempo
tranquillo,
ha ne l'asciutto una pianura
ch'è
di marini uccelli aprica stanza.
Qui d'un elce frondoso il segno pose
il
padre Enea, fin dove il corso avanti
stender
pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi,
sortiti i luoghi, al suo ciascuno
si
pose in fila. I capitani in poppa
addobbati
di bisso e d'ostro e d'oro,
risplendean
di lontano; e gli altri tutti
d'una
livrea di pioppo incoronati
stavano
con le terga ignudi ed unti,
sí
che tra l'olio e 'l sol lumiere e specchi
parean
da lunge. E già ne' banchi assisi,
tese
a' remi le braccia, al suon l'orecchie,
aspettavano
il segno. I cori intanto
palpitando
movea disio d'onore
e
timor di vergogna. Avea la tromba
squillato
appena, che in un tempo i remi
si
tuffâr tutti, e tutti i legni insieme
si
spiccâr da le mosse. I gridi al cielo
n'andâr de' marinari. Il mar di schiuma
s'asperse
intorno; e 'n quattro solchi eguali
fu
con molto stridor da' rostri aperto,
e
da' remi stracciato. Impeto pari
non
fêr nel Circo mai bighe o quadrighe
da
le carceri uscendo, allor ch'a sciolte
ed
ondeggianti redini gli aurighi
ai
volanti destrier sferzan le terga.
Le
grida, il plauso, il fremito e le voci,
in
favore or di questi ed or di quelli,
tra
i curvi liti avvolte, e da le selve
e
da' colli riprese e ripercosse,
facean
l'aria intonar fino a le stelle.
Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si
vide Gía, mentre la gente freme;
e
dopo lui Cloanto, che de' remi
migliore
assai, per la gravezza indietro
rimanea
del suo legno. Indi del pari,
o
di poco infra loro avean contesa
il
Centauro e la Pistri; e quando questa,
quando
quello era avanti; e quando entrambi
or
le fronti avean giunte ed or le code.
Eran del sasso già presso a la
mèta
e
di buon tratto vincitore avanti
Gía
se ne gía, quand'ei sen vide in alto
da
la ripa piú lunge; onde rivolto
al
suo nocchiero: «E dove - disse - andrai,
Menete?
Attienti al lito e radi il sasso:
vadano
gli altri in alto». Ei tuttavia
d'urtar
temendo, in pelago si mise;
e
Gía di nuovo: «In qua, Menete, al sasso,
al
sasso, a la sinistra, a la sinistra!»
dicea
gridando; e vòlto indietro, vide
ch'avea
Cloanto addosso. Era Cloanto
già
tra lo scoglio e la Chimera entrato;
e
via radendo la sinistra riva,
tenne
giro sí breve e sí propinquo,
che
lui tosto e la mèta anco varcando,
si
vide avanti il mare ampio e sicuro.
Grand'ira,
gran dolore e gran vergogna
ne
sentí 'l fiero giovine; e piangendo
di
stizza, e non mirando il suo decoro,
né
che Menete del suo legno seco
fosse
guida e salute, in mezzo il prese,
e
da la poppa in mar lunge avventollo.
Poscia,
ei nocchiero e capitano insieme
diè
di piglio al timone e, rincorando
i
suoi compagni, al sasso lo rivolse.
Menete, che di veste era gravato,
e
via piú d'anni, infino a l'imo fondo
ricevé
'l tuffo; e risorgendo a pena
rampicossi
a lo scoglio, e sí com'era
molle
e guazzoso, de la rupe in cima
qual
bagnato mastino al sol si scosse.
Rise
tutta la gente al suo cadere;
rise
al notare: e piú rise anco allora
che'a
flutti vomitar gli vide il mare.
Memmo intanto e Sergesto, che del pari
erano
addietro, parimente accesi,
su
l'indugio di Gía preser baldanza.
Sergesto
in vèr lo scoglio avea 'l vantaggio
del
primo loco; ma non tutto ancora
era
il suo legno avanti, che la Pistri
premea
col rostro del Centauro il fianco.
E
Memmo, confortando i suoi compagni,
e
'n su e 'n giú per la corsia gridando:
«Via fratelli, - dicea - via degni alunni
d'Ettore
invitto, via! compagni eletti
al
grand'uopo di Troia. Ora è mestiero
de'
remi, de le forze e del coraggio,
ch'a
le Sirti, a Cariddi, a la Malèa
mostraste
già. Non piú vincer contendo,
che
pur dovrei, se pur Memmo son io:
vinca
cui ciò da te, Nettuno, è dato.
Ma
ch'ultimi arriviamo, ah! non, fratelli,
questa
vergogna; e ciò vincasi almeno
che
di tanto rossor tinti non siamo».
A cotal dir tutti insorgendo, a gara
steser
le braccia, ed inarcaro i dorsi,
e
fêr per avanzarsi estremo sforzo.
Tremava
a i colpi il ben ferrato legno;
fuggia
di sotto il mare: ansando i rémigi
aprian
l'asciutte bocche; e spesso i fianchi
battendo,
a gronde di sudor colavano.
Diè lor fortuna il desïato onore:
ché,
mentre furïoso oltre si spinge
Sergesto,
e con la prora arditamente
rade
la ripa, ebbe il meschino intoppo,
urtando
de lo scoglio in una roccia
che
nel mar si sporgea. Scheggiossi il sasso:
fiaccârsi
i remi: si scoscese il rostro;
e
d'un lato pendente e scossa tutta
tremò
la nave, e scompigliossi, e stette.
I
remiganti attoniti, con gridi,
con
ferrate aste, con tridenti e pali
stavan
pingendo e puntellando il legno,
e
ripescando i remi. Intanto allegro,
e
del successo coraggioso e baldo
Memmo
ratto s'avanza, e vince il sasso;
e
via vogando ed invocando i vènti
fende
a la china ed a l'aperto il mare.
Qual d'una grotta, ov'aggia i dolci figli
e
'l caro nido, spaventata in prima
da
súbito schiamazzo esce rombando
ed
arrostando una colomba a l'aura;
che
poi, giunta ne' campi, a l'aer queto
quetamente
per via dritta e sicura
sen
va con l'ali immobili e veloci;
cosí
la Pistri pria travolta e vaga
venia
da sezzo; indi affilata e stretta
passò
prima Sergesto che nel sasso,
come
da vischio rattenuto augello
e
spennacchiato, i suoi spezzati remi
dibattendo,
chiedea soccorso invano;
poscia,
spingendo, la Chimera aggiunse
e
trapassolla: ché la sua gran mole
e
'l perduto nocchier la fea piú tarda.
Sol restava Cloanto: e verso lui
affilandosi,
al fin quasi del corso
con
ogni sforzo il segue, e già l'incalza.
Levossi
al cielo un'altra volta il grido
del
favor che facea la gente tutta,
perché
i secondi divenisser primi.
Quelli
caccia lo sdegno e la vergogna
di
non tener il conseguito onore,
ché
la gloria antepongono a la vita;
questi
il successo inanima e la speme
di
ciò poter; poich'altrui par che possano.
S'eran
già presso e, pareggiati i rostri,
del
pari i premi avrian forse ottenuti,
se
non ch'ambe le mani al cielo alzando,
cotal
fece a gli dèi Cloanto un vóto:
«Santi numi del pelago ch'io corro,
se
'l corso agevolate al legno mio,
nel
medesimo lito un bianco toro
lieto
consacrerovvi e de l'opime
sue
viscere, e di vin limpido e puro
l'arena
spargerovvi e l'onde salse».
Furon da l'imo fondo i preghi uditi
del
buon Cloanto da la schiera tutta
de
le ninfe di Nerëo e di Forco,
e
da la Panopèa vergine intatta:
e
'l gran padre Portunno di sua mano
gli
spinse il legno; onde, qual vento o strale,
lanciossi
a terra, e si scagliò nel porto.
Il padre Enea (com'è costume) avanti
convocati
a sé tutti, a suon di tromba
dichiarò
vincitor Cloanto il primo,
e
le tempie di lauro incoronogli.
Poscia
a ciascuna de le navi in dono
diè
tre grassi giovenchi, e tre grand'urne
di
prezïoso vino, e di contanti
un
gran talento. Ornò di maggior doni
i
primi condottieri. Al vincitore
presentò
di broccato un ricco arnese,
che
d'ostro a' groppi sopra l'oro avea
doppio
un lavoro di ricamo e d'ago.
Nel mezzo entro al frondoso bosco idèo
un
real giovinetto era tessuto,
ch'anelo
e fiero con un dardo in mano
seguia
per la foresta i cervi in caccia;
e
poco indi lontano un'altra volta
era
il medesmo da l'uccel di Giove
rapito
in alto; e i suoi vecchi custodi
e
i fidi cani lo miravan sotto,
quegli
indarno le mani al cielo alzando,
e
questi il muso, ed abbaiando a l'aura.
A l'altro poi, che, per valore il primo,
fu
per sorte secondo, in premio diede
per
ornamento e per difesa in arme
una
lorica che d'antica maglia
e
di lucente e rinterzato acciaro,
di
massiccio oro avea le fibbie e gli orli.
Questa
di Simoenta in su la riva
sotto
l'alto Ilio, e di sua propria mano
tolse al vinto Demòleo. Era sí
grave,
che
da Fegèo e da Sàgari, due forti
e
robusti sergenti, ivi condotta
era
stata a gran pena; e pur indosso
l'avea
Demòleo il dí che combattendo
mise
in quella riviera i Teucri in volta.
I
terzi doni due gran nappi fôro
di
forbito metallo, e due gran coppe,
di
puro argento figurate intorno
con
mirabile intaglio. E già donati,
e
de' lor doni altieri e festeggianti
se
ne gian tutti di purpuree bende
le
tempie avvinti, e di lentischio adorni;
quando
ecco da lo scoglio con grand'arte
e
con molta fatica appena svelto
Sergesto,
col suo legno infranto e monco
e
tarpato de' remi, in vèr la terra
se
ne venia disonorato e mesto.
Com'angue suol, ch'o sia da ruota oppresso
tra
la ripa e 'l sentiero, o sia di sasso
dal
vïator percosso o di randello,
procacciando
fuggir, con lunghe spire
s'arrosta
indarno, e inalberato e fiero
dal
mezzo in suso arde negli occhi e fischia:
e
d'altra parte dilombato e tardo
debilmente
guizzando, in se medesmo
si
ripiega, s'attorce e si raggroppa:
cosí
co' remi la fiaccata nave
se
ne gia lenta, e con le vele a volo,
ch'a
piene vele alfine in porto aggiunse.
Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna
il
padre Enea, di ricovrar contento
il
suo buon legno e i suoi fidi compagni,
e
furo i doni una Cretese ancella,
Fòloe
di nome, e di telaro e d'ago
maestra
esperta e da Minerva instrutta,
giovine
e bella, e con due figli al petto.
Questo primo spettacolo compito,
Enea
per gli altri una pianura elegge
che
di teatro in guisa d'ogn'intorno
ha
selve e colli, ed un gran circo avanti,
ove
in un palco alteramente estrutto
tra
molti mila collocossi in mezzo.
Qui
prima al corso i corridori invita
con
prezïosi premi, e i premi espone;
e
de' Teucri e de' Sicoli mostrârsi
i
piú famosi. Appresentossi in prima
Eurïalo
con Niso. Un giovinetto
di
singolar bellezza Eurïalo era;
e
Niso un di lui fido e casto amante.
dopo
questi Dïòro. Era costui
del
legnaggio di Prïamo un rampollo,
giovine
generoso; e Sàlio e Patro
vennero
appresso: d'Acarnania l'uno,
d'Arcadia
I'altro e del tegèo paese:
e
due Sicilïani, Èlimo e Pànope,
ambedue
cacciatori, ambi seguaci
del
vecchio Aceste; e con questi, altri assai
d'oscura
nominanza. A cui nel mezzo
stando
il gran padre Enea, cosí ragiona:
«Nissun da me di questa schiera eletta
andrà
senza mie' doni, e parimente
una
coppia di dardi avrà ciascuno
di
rilucente acciaro, ed una d'oro
e
d'argento commesso a l'arabesca
non
piú vista bipenne. I principali
tre
vincitori i primi pregi avranno,
e
fian tutti d'oliva incoronati.
E
'l primiero de' tre d'un buon destriero
sarà
provvisto ben guarnito e bello.
L'altro
avrà d'un'Amazzone un turcasso
pien
di tracie saette, un arco d'osso,
ed
un bel cinto, a cui sono ambi appesi,
c'han
di gemme il fermaglio e d'òr la fibbia.
Il
terzo d'un'argolica celata
se
ne vada contento; e sarà questa».
Ciò detto, e presi i luoghi, e 'l
segno dato
s'avventâr
da la sbarra: e quasi un nembo
l'un
da l'altro dispersi, insieme tutti
volâr,
mirando al fine. Il primo avanti
si
tragge Niso, e di gran lunga avanti:
ché
va di vento e di saetta in guisa.
Prossimo
a lui, ma prossimo d'un tratto
molto
lontano, è Salio. A Salio, Eurïalo;
Eurïalo
ha di poco Èlimo addietro;
ad
Èlimo Dïòro appresso tanto
che
già sopra gli anela e già l'incalza;
e
se 'l corso durava, anco l'arebbe
o
prevenuto o pareggiato almeno.
Eran
presso a la mèta, ed eran lassi,
quando
ne l'erba, pria di sangue intrisa
degli
occisi giovenchi, il piè fermando
sinistramente
e sdrucciolando a terra
cadde
Niso infelice, e 'l volto impresse
nel
sacro loto, sí che gramo e sozzo
ne
surse poi. Ma del suo amore intanto
non
obliossi: ché sorgendo, intoppo
si
fece a Salio; onde con esso avvolto
stramazzò
ne l'arena: e mentre ei giacque,
Eurïalo
del danno e del favore
s'avanzò
de l'amico, e de le grida,
con
che gli diêr le genti animo e forza:
ond'ei
fu 'l primo, ed Èlimo il secondo;
Dïòro
il terzo. E tal fin ebbe il corso.
Ma di rumor se n'empie e di tenzone
il
circo tutto; e Salio anzi il cospetto
de'
giudici e de' padri or si protesta,
or
detesta, or esclama; e del tradito
suo
valor si rammarca, e ragion chiede.
In
difesa d'Eurïalo a rincontro,
è
il favor de la gente, e quel decoro
suo
dolce lagrimare, e quell'invitta
forza
c'ha la vertú con beltà mista.
Grida
Dïòro anch'egli, e lui sovviene,
e
se stesso difende, poi ch'il terzo
essere
non può quando sia Salio il primo.
Enea cosí decise: «Aggiate voi,
generosi
garzoni, i pregi vostri;
e
nulla in ciò de l'ordine si muti:
ch'io
supplirò con degna ammenda al caso,
ond'ha
fortuna indegnamente afflitto
l'amico
mio». Ciò detto, una gran pelle
presenta
a Salio d'un leon getúlo,
c'ha
il tergo irto di velli e l'unghie d'oro.
E
qui Niso: «O signor, - disse, - di tanto
guiderdonate
i perditori, e tale
di
chi cade pietà vi prende; ed io
di
pietà non son degno né di pregio,
io
che son di fortuna a Salio eguale,
e
di valore a tutti gli altri avanti?»
E
ciò dicendo, sanguinoso il volto
e
livido mostrossi e lordo tutto.
Rise il buon padre Enea, poscia un pregiato
e
degno scudo, ch'a le porte appeso
era
già di Nettuno, ed ei riscosso
l'avea
da' Greci, con mirabil arte
dal
saggio Didimàone construtto,
venir
tosto si fece, e Niso armonne.
Finiti i corsi e dispensati i doni,
«Or
- disse Enea - qual sia che vaglia ed osi
di
forza e d'ardimento, al cesto invito.
Chïunque
accetta, col suo braccio in alto
si
mostri accinto». E ciò dicendo, in mezzo
propon
due pregi: al vincitore un toro
di
bende il tergo adorno e d'òr le corna:
un
elmo ed un cimiero ed una spada
per
conforto del vinto. Incontinente
uscio
Darete poderoso in campo,
e
con gran plauso si mostrò del volgo.
Era
Darete un, che, di forze estreme,
fu
solo ardito a star con Pari a fronte,
e
che a la tomba del famoso Ettorre
in
su l'arena il gran Bute distese:
e
fu Bute un atleta, anzi un colosso,
di
corpo immane, che in Bebrizia nato,
d'Àmico
si vantava esser disceso.
Per
tal da tutti avuto, e tal comparso
in
su la lizza, altero ed orgoglioso
squassò
la testa: e, i grandi omeri ignudo,
le
muscolose braccia e 'l corpo tutto
brandí
piú volte, e menò colpi a l'aura.
Cercossi un pari a lui, né fu fra tanti
chi
rispondesse, o che di cesto armato
s'appresentasse.
Ond'ei lieto e sicuro,
come
d'ogni tenzon libero fosse,
al
toro avvicinossi, e 'l destro corno
con
la sinistra sua gli prese, e disse:
«Signor,
poiché non è chi meco ardisca
di
stare a prova, a che piú bado? e quanto
badar
piú deggio? Or di' che 'l pregio è mio
perch'io
meco l'adduca». A ciò fremendo
assentirono
i Teucri; e già co' gridi
de
l'onor lo facean degno e del dono;
quando
verso d'Entello il vecchio Aceste,
sí
com'egli era in un cespuglio a canto,
si
volse: e rampognando: «Ah, - disse - Entello,
tu
sei pur fra gli eroi de' nostri tempi
il
piú noto e 'l piú forte; e come soffri
ch'un
sí gradito pregio or ti si tolga
senza
contesa? Adunque è stato invano
fin
qui da noi rammemorato e cólto
Èrice,
in ciò nostro maestro e dio?
Ov'è
la fama tua che ancor si spande
per
la Trinacria tutta? Ove son tante
appese
a i palchi tue famose spoglie?»
Rispose Entello: «Né disio d'onore,
né
vaghezza di gloria unqua, signore,
mi
lasciâr mai, né mai viltà mi prese;
ma
l'incarco de gli anni, il freddo sangue,
e
la scemata mia destrezza e forza
mi
ritraggono addietro. Io quando avessi
o
men quei giorni, o non men quel vigore
onde
costui di sé tanto presume,
già
per diletto mio seco a le mani
sarei
venuto, e non dal premio indotto,
ché
premio non ne chero. E pur qui sono».
Disse,
e sorgendo, due gran cesti e gravi
gittò
nel campo, e quelli stessi, ond'era
solito
a le sue pugne Èrice armarsi.
Stupîr
tutti a quell'armi che di sette
dorsi
di sette buoi, di grave piombo
e
di rigido ferro eran conserti.
Stupí
Darete in prima, e ricusolle
a
viso aperto: onde d'Anchise il figlio
le
prese avanti, e i lor volumi e 'l pondo
stava
mirando, quando il vecchio Entello
cosí
soggiunse: «Or che diria costui
se
visto avesse i cesti e l'armi stesse
d'Ercole
invitto, e l'infelice pugna,
onde
in su questo lito Èrice cadde?
D'Èrice
tuo fratello eran quest'armi.
Vedi
che sono ancor di sangue infette
e
d'umane cervella. Il grande Alcide
con
queste Èrice assalse: e con quest'io
m'esercitai,
mentre le forze e gli anni
eran
piú verdi, e non canuti i crini.
Ma
poscia che Darete or le rifiuta,
se
piace a te, se mel consente Aceste
per
cui son qui, di ciò, Troiano ardito,
non
vo' che ti sgomenti. Io mi rimetto,
e
cedo a queste; e tu cedi a le tue:
combattiam
con altr'armi e siam del pari».
Cosí
detto spogliossi; e sí com'era
de
le braccia, de gli omeri e del collo
e
di tutte le membra e d'ossa immane,
quasi
un pilastro in su l'arena stette.
Allora Enea fece due cesti addurre
d'ugual
peso e grandezza; ed egualmente
ne
fûro armati. In prima su le punte
de'
piè l'un contra l'altro si levaro:
brandîr
le braccia; ritirârsi in dietro
con
le teste alte: in guardia si posaro
or
questi, or quelli: al fine ambi ristretti
mischiâr
le mani, ed a ferir si diêro.
Era
giovine l'uno, agile e destro
in
su le gambe: era membruto e vasto
l'altro,
ma fiacco in su' ginocchi e lento,
e
per lentezza (il fiato ansio scotendo
le
gravi membra e l'affannata lena)
palpitando
anelava. In molte guise
in
van pria si tentaro, e molte volte
s'avvisâr,
s'accennaro e s'investiro.
A
le piene percosse un suon s'udia
de'
cavi fianchi, un rintonar di petti,
un
crosciar di mascelle orrendo e fiero.
Cadean
le pugna a nembi, e vèr le tempie
miravan
la piú parte; e s'eran vòte,
rombi
facean per l'aria e fischi e vento.
Stava Entello fondato; e quasi immoto,
poco
de la persona, assai de gli occhi
si
valea per suo schermo. A cui Darete
girava
intorno, qual chi ròcca oppugna,
quantunque
indarno, che per ogni via
con
ogni arte la stringe e la combatte.
Alzò
la destra Entello, ed in un colpo
tutto
s'abbandonò contro Darete;
ed
ei, che lo previde, accorto e presto
con
un salto schivollo: onde ne l'aura
percosse
a vôto, e dal suo pondo stesso
e
da l'impeto tratto, a terra cadde.
Tal un alto, ramoso, antico pino
carco
de' gravi suoi pomi si svelle
d'un
cavo greppo, e con la sua ruina
d'Ida
una parte, o d'Erimanto ingombra.
Allor
gridò, gioí, temé la gente,
si
com'eran de' Siculi e de' Teucri
gli
animi e i vóti a i due compagni affetti.
Le
grida al ciel ne giro. Aceste il primo
corse
per sollevare il vecchio amico;
ma
né dal caso ritardato Entello,
né
da téma sorpreso, in un baleno
risurse
e piú spedito e piú feroce;
ché
l'ira, la vergogna e la memoria
del
passato valor forza gli accrebbe.
Tornò
sopra a Darete, e per lo campo
tutto
a forza di colpi orrendi e spessi
lo
mise in volta, or con la destra in alto,
or
con la manca, senza posa mai
dargli,
né spazio di fuggirlo almeno.
Non con sí folta grandine percuote
oscuro
nembo de' villaggi i tetti,
come
con infiniti colpi e fieri
sopra
Darete riversossi Entello.
Allor
il padre Enea, l'un ritogliendo
da
maggior ira, e l'altro da stanchezza
e
da periglio, entrò nel mezzo; e prima
fermato
Entello, a consolar Darete
si
rivolse dicendo: «E che follia
ti
spinge a ciò? Non vedi a cui contrasti?
Non
senti e le sue forze e i numi avversi?
Cedi
a dio, cedi». E, cosí detto, impose
fine
a l'assalto. I suoi fidi compagni
cosí
com'era afflitto, infranto e lasso,
col
capo spenzolato, e con la bocca
che
sangue insieme vomitava e denti,
lo
portaro a le navi; e fu lor dato
l'elmo,
il cimiero e la promessa spada.
Rimase
al vincitor la palma e 'l toro,
di
che lieto e superbo: «O de la dea -
disse
- famoso figlio, e voi Troiani,
quinci
vedete qual ne' miei verd'anni
fu
la mia possa, e da qual morte aggiate
liberato
Darete». E, ciò dicendo,
recossi
anzi al giovenco, e 'l duro cesto
gli
vibrò fra le corna. Al fiero colpo
s'aperse
il teschio, si schiacciaron l'ossa,
schizzò
'l cervello; e 'l bue tremante e chino
si
scosse, barcollò, morto cadé.
Ed
ei soggiunse: «Èrice, a te quest'alma
piú
degna di morire offrisco in vece
di
quella di Darete, e vincitore
qui
'l cesto appendo, e qui l'arte ripongo».
Immantinente Enea l'altra contesa
propon
de l'arco, e i suoi premi dichiara.
Ma
l'albero condur pria de la nave
fa
di Sergesto, e ne l'arena il pianta:
suvvi
una fune, e ne la fune appende
una
viva colomba, e per bersaglio
la
pon de le saette e degli arcieri.
Fêrsi
i piú chiari avanti, e i nomi loro
del
fondo si cavâr d'un elmo a sorte.
Uscio
primiero Ippocoonte, il figlio
d'Irtaco
generoso, a cui con lieto
grido
la gente applause. A lui secondo
fu
Memmo, che pur dianzi il pregio ottenne
del
naval corso: e Memmo, sí com'era,
di
verde oliva incoronato apparve.
Apparve
Eurizio il terzo; ed era questi
minor,
ma ben di te degno fratello,
Pàndaro
glorïoso, che de' Teucri
rompesti
i patti, e saettasti in mezzo
a
l'oste greca il gran campione argivo.
Ultimo
si restò de l'elmo in fondo
il
vecchio Aceste, che sí vecchio anch'egli
ardí
di porsi a giovenil contrasto.
Tesero
gli archi, e trasser le quadrella
da
le faretre. A tutti gli altri avanti
d'Irtaco
il figlio a saettare accinto
col
suon del nervo e del pennuto strale
l'aura
percosse e sí dritto fendella
che
l'albero investí. Tremonne il legno,
spaventossi
l'augello; e d'alte grida
risonò
'l campo e la riviera tutta.
Memmo vien dopo, e pon la mira, e scocca:
e
'l misero fra' piè colpisce appunto
in
su la corda, e ne recide il nodo.
Libera
la colomba a volo alzossi,
e
per lo ciel veloce a fuggir diessi.
Eurizio
allor, ch'avea già l'arco teso
e
la cocca in sul nervo, al suo fratello
votossi,
e trasse; e ne le nubi stesse
(sí
come lieta se ne giva e sciolta)
la
ferí sí che con lo strale a terra
cadde
trafitta, e lasciò l'alma in cielo.
Sol vi restava Aceste, a cui la palma
era
già tolta: ond'ei scoccò ne l'alto
lo
strale a vòto, e la destrezza e l'arte
mostrò
nel gesto e nel sonar de l'arco.
Quinci
subitamente un mostro apparve
di
meraviglia e di portento orrendo;
come
si vide, e come interpretato
fu
poi da formidabili indovini.
Ché
la saetta in su le nubi accesa
quanto
volò, tanto di fiamma un solco
si
trasse dietro, infin ch'ella nel foco,
e
'l foco in aura dileguossi e sparve.
Tal
sovente dal ciel divelta cade
notturna
stella, e trascorrendo lascia
dopo
sé lungo e luminoso il crine.
A
questo augurio attoniti i Sicani
e
i Teucri tutti, umilemente a terra
gittârsi,
ed agli dii pace chiedero.
Solo
Enea per sinistro e per infausto
non
l'ebbe; e 'l vecchio Aceste, che gioioso
era
di ciò, gioiosamente accolse,
e
molti doni appresentogli, e disse:
«Prendi, padre, da me questi che scevri
dagli
altri onori a te destina il cielo
con
questi auspici, e questa coppa in prima,
un
de' piú cari a me paterni arredi,
e
caro e prezïoso al padre mio,
e
per l'intaglio, e per la rimembranza
del
buon re Cisso, che fra gli altri doni
questo
in Tracia gli diè pegno e ricordo
de l'amor suo». Cosí dicendo, il fronte
gli
ornò di verde alloro, e dichiarollo
vincitor
primo. Né di ciò sentissi
il
buon Eurizio offeso, ancor ch'ei solo
fosse
de la colomba il feritore.
Di
lui fu poscia il guiderdon secondo.
Chi
recise la corda ottenne il terzo:
e
l'ultim'ebbe chi confisse il legno.
Non
era ancor questa contesa al fine,
quando
in disparte Epítide chiamando
un
che di Iulo era custode e guida:
«Va,
- gli disse a l'orecchio, - e fa che Ascanio
si
spinga avanti, se le schiere in punto
ha
de' fanciulli, e ch'armeggiando onori
la
memaria de l'avo». Impone intanto
che
la gente s'apparti, e il circo tutto
quanto
è largo si sgombri e quant'è lungo.
Già si mettono in via; già nel
cospetto
vengon
de' padri i pargoletti eroi
su
frenati destrier lucenti e vaghi.
Solo
a veder gli abbigliamenti e i gesti,
ne
sta di Troia e di Sicilia il volgo
meraviglioso,
e ne gioisce e freme.
Parte
ha di lor una ghirlanda in testa,
e
sotto accolto e raccorciato il crine:
parte
ha l'arco e 'l turcasso, e d'oro un fregio
che
da le spalle attraversando il petto
sen
va di serpe attorcigliato in guisa.
Eran tutti in tre schiere; avean tre duci,
e
ciascun duce conducea di loro
tre
volte quattro, e 'n tre luoghi spartiti,
facean
pomposa ed ordinata mostra.
L'una
de le tre schiere avea per capo
Priamo
novello, di Políte il figlio,
e
di cui nome avea nipote illustre,
grand'acquisto
d'Italia. Il suo destriero
era
nato di Tracia d'un mantello
vario,
balzàn d'un piè, stellato in fronte.
Ati fu l'altro, onde i Latini han dato
nome
a l'Attia famiglia: un fanciul caro
al
garzonetto Iulo. Iulo il terzo,
ma
di bellezza e di valore il primo,
cavalcava
un corsier che sorïano
era
di razza, e de la bella Dido
l'avea
per un ricardo e per un pegno
de l'amor suo. Gli altri fanciulli tutti
eran
d'Aceste in su' cavalli assisi.
Con gran letizia, e con gran plauso i Teucri
gli
ricevêr come che timidetti
fossero
in prima, e le sembianze in loro
avvisaro
e 'l valor de' padri stessi.
Poscia che passeggiando al circo intorno
girârsi
in lenta e grazïosa mostra,
si
disposero al corso; e mentre accolti
se
ne stavano a ciò schierati in fila
da
l'un de' capi, Epítide da l'altro
diè
lor col suon de la sua sferza il cenno.
Corsero
a tre per tre, pari e disgiunti
l'una
schiera da l'altra, e rivolgendo
tornâr
di dardi e di saette armati.
Indi
a cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi
in
varie assise, ad uno ad uno, a molti,
a
tutti insieme, a far volte, rivolte,
e
giri e mischie in piú modi si diêro;
or
fuggendo, or seguendo; or come infesti
or
come amici. In quante guise a zuffa
si
viene in campo; in quante si discorre
per
le molte intricate e cieche strade
del
labirinto che si dice in Creta
esser
costrutto; in tante s'aggiraro,
si
confusero insieme, e si spartiro
de'
Teucri i figli: e tali anco i delfini
per
l'Iönio scherzando o per l'Egeo
fan
giravolte e scorribande e tresche.
Questi
tornïamenti e queste giostre
rinnovò
poscia Ascanio, allor ch'eresse
Alba
la lunga; appresongli i Latini;
gli
mantenner gli Albani; e d'Alba a Roma
fur
trasportati, e vi son oggi; e come
e
l'uso e Roma e i giuochi derivati
son
da' Troiani, hanno or di Troia il nome.
Questi eran fino a qui del santo vecchio
celebrati
al sepolcro onori e ludi,
allor
che la fortuna ai Teucri infida
un
nuovo storpio agl'infelici ordio:
ché
mentre erano in ciò parte occupati,
e
tutti intesi, la saturnia Giuno
da
l'antico odio spinta, e de' lor danni
non
ancor sazia, Iri coi vènti in prima
venir
si fece; e poiché instrutta l'ebbe
di
ciò ch'er'uopo, a la troiana armata
le
commise ch'andasse. Ella veloce
infra
mille suoi lucidi colori
occulta
ed invisibile calossi.
Vide
sul lito una gran gente accolta
da
l'un de' lati; il porto abbandonato
da
l'altro, e vòti e senza guardia i legni.
Vide
poi che da gli uomini in disparte
stavan
le donne d'Ilio, il morto Anchise
piangendo
anch'esse; e ne' lor pianti il mare
mirando:
«Oh - dicean tutte - ancor di tanto,
e
con tanti perigli e tanti affanni
ne
resta a navigarlo, e siam già vinte
da
la stanchezza!», in ciò desio mostrando
di
ricetto e di posa, e téma e tedio
di
rimbarcarsi. Ella, che a nuocer luogo
e
tempo vide accomodato ed atto,
deposto
de la dea l'abito e 'l volto,
tra
lor si mise, e Bèröe si fece,
una
vecchia d'aspetto e d'anni grave,
che
del tracio Doríclo era già moglie,
di
famiglia, di nome e di figliuoli
matrona
illustre; e, tal sembrando, disse:
«O meschinelle, a cui per man de' Greci
non
fu sotto Ilio di morir concesso,
gente
infelice, a che strazio, a che scempio
la
fortuna vi serba! Ecco già volge
il
settim'anno, da che Troia cadde,
che
'l mar, la terra, il ciel, gli uomini, i sassi
avete
incontro; e pur Lazio seguite
che
vi fugge davanti? Or che vi toglie
di
qui fermarvi? Non fûr questi liti
d'un
già frate d'Enea? Non son d'Aceste,
ospite
nostro? E perché qui non s'erge
la
città che dal ciel ne si destina?
O
patria! o da' nemici invan ritolti
santi
numi Penati! Invano adunque
aspetterem
de la novella Troia
le
desïate mura! e non fia mai
che
piú Xanto veggiamo e Simoenta?
Su,
figlie; mano al foco; e queste infauste
navi
ardete con me: ch'io da Cassandra
di
cosí far son ammonita in sogno.
Ella
con un'ardente face in mano
questa
notte m'apparve, e m'era avviso
d'esser,
com'or son, vosco, e ch'ella vòlta
vêr
noi: "Prendete, - ne dicesse - e Troia
cercate
qui; ché qui posar v'è dato".
Or
questa è nostra patria, e questo è 'l tempo
di
compir l'opra che 'l prodigio accenna.
Piú
non s'indugi. Ecco Nettuno stesso
con
questi quattro a lui sacrati altari
ne
dà l'occasïon, l'animo e 'l foco».
Ciò disse; ed ella in prima un tizzo
ardente
rapí
da l'are; e 'l braccio alto vibrando
via
piú l'accese, e vèr le navi il trasse.
Confuse ne restaro e stupefatte
le
donne d'Ilio; e Pirgo, una di loro
ch'era
d'anni maggiore, e fu di molti
figli
del gran re Prïamo nutrice:
«Donne,
- disse - non è, non è costei
né
Troiana, né Bèröe, né moglie
fu
di Doríclo: è dea. Notate i segni:
com'arde
ne la vista, e quali spira
ne
l'andar, ne la voce e nel sembiante
celesti
onori. Io pur testé mi parto
da
Bèröe, che, di corpo egra, languendo
stassi,
e sdegnando che a quest'atto sola
nosco
non intervenga». E qui si tacque.
Le madri paventose e dubbie in prima
con
gli occhi biechi rimirâr le navi,
sospese
le meschine infra l'amore
di
godersi la terra, e la speranza
che
perdean de' reami, a cui chiamate
eran
dal fato. Intanto alto in su l'ali
la
dea levossi, e tra le opache nubi
per
entro al suo grand'arco ascese, e sparve.
Allor dal mostro spaventate, e spinte
da
cieca furia, s'avventâr gridando:
e
di faci e di frondi e di virgulti
spogliaro
altre gli altari, altre infocaro
i
legni sí che in un momento appresi
i
banchi, i remi e l'impeciate poppe
mandâr
fiamme e scintille e fumo al cielo.
Portò
di questo incendio Eumelo avviso
là
've al sepolcro era la gente accolta,
e
de l'incendio stesso un atro nembo
ne
diè fumando e scintillando indizio.
Ascanio il primo (sí com'era avanti,
duce
del corso) al mar si spinse in guisa
che
i suoi maestri impallidîr per téma,
e
richiamando lo seguiro in vano.
Giunto
che fu: «Che furor - disse - è questo?
Dove,
dove ne gite? e che tentate,
misere
cittadine? Ah! che non questi
de'
Greci i legni o gli steccati sono.
Voi
di voi stesse le speranze ardete.
Io
sono il vostro Ascanio». E qui l'elmetto,
onde
a la giostra era comparso armato,
gittossi
a' piè. Córsevi intanto Enea:
vi
corsero de' Teucri e de' Sicani
le
schiere tutte. Allor per téma sparse
le
donne per lo lito e per le selve
se
ne fuggiro, ed appiattârsi ovunque
ebber
di rupi o di spelonche incontro:
ché,
pentite del fallo, odiâr la luce,
cangiâr
pensieri, e con l'amor de' suoi
Iri
del petto disgombrârsi e Giuno.
Ma non però l'indomito furore
cessò
del foco; ché la secca stoppa,
e
l'unta pece, e gli aridi fomenti
l'avean
fin dentro a le giunture appreso;
onde
nel molle, ancor vivo, esalava
un
lento fumo, e penetrava i fondi
sí
ch'ogni forza, ogni argomento umano,
e
'l mare stesso, che da tante genti
sopra
gli si versava, erano in vano.
Squarciossi Enea da gli omeri la veste
ch'avea
lugúbre, e da' celesti aíta
chiedendo,
al ciel volse le palme, e disse:
«Onnipotente Giove, se de' Teucri
ancor
non t'è, senza riservo, in ira
la
gente tutta, e se, qual sei, pietoso
miri
gli umani affanni, a tanto incendio
ritogli,
padre, i male addotti legni;
ritogli
a morte queste poche afflitte
reliquie
de' Troiani; o quel che resta
tu
col tuo proprio tèlo, e di tua mano
(se
tale è il merto mio) folgora e spegni».
Ciò disse a pena, che da torbidi
Austri,
e
da nera tempesta il cielo involto
in
disusata pioggia si converse.
Tremaro
i campi, si crollaro i monti
al
suon de' tuoni: a cateratte aperte
traboccâr
da le nubi i nembi e i fiumi.
Cosí
sotto dal mar, sovra dal cielo
le
già quasi arse navi in mezzo accolte
furon
da l'acque: onde le fiamme in prima,
poscia
il vapor s'estinse, e tutte spente,
se
non se quattro, si salvaro al fine.
Di sí fero accidente Enea turbato,
molti
e gravi pensier tra sé volgendo,
stava
infra due, se per suo novo seggio
(posto
il fato in non cale) ei s'eleggesse
de
la Sicilia i campi, o pur di lungo
cercasse
Italia. In ciò Naute, un vecchione,
ch'era
(mercé di Pallade e degli anni)
di
molta esperïenza e di gran senno,
o
fosse ira di dio che lo movesse,
o
pur ch'era cosí nel ciel prescritto,
in
cotal guisa a suo conforto disse:
«Magnanimo signor, comunque il fato
ne
tragga o ne ritragga, e che che sia,
vincasi
col soffrire ogni fortuna.
Aceste
è qui, ch'è del dardanio seme
e
di stirpe celeste un ramo anch'egli.
Prendi
lui per compagno al tuo consiglio,
e
con lui ti confedera e t'aduna,
che
in grado prenderallo; e tu de' tuoi
ciò
che t'avanza per gli adusti legni,
o
fastidito è di sí lungo esiglio,
o
che langua o che tema, o che sia manco
per
etate o per sesso, a lui si lasci,
ch'è
pur troiano; ed ei lor patria assegni,
che
dal nome di lui si nomi Acesta».
S'accese al detto del suo vecchio amico
il
troian duce; e trapassando d'uno
in
un altro pensiero, era già notte,
quando
l'imago del suo padre Anchise
veder
gli parve, che dal ciel discesa
in
tal guisa dicesse: «O figlio, amato
vie
piú de la mia vita infin ch'io vissi,
figlio,
che segno sei de le fortune,
e
del fato di Troia, io qui mandato
son
dal gran Giove, che dal ciel pietoso
ti
mirò dianzi, e i tuoi legni ritolse
da
l'orribile incendio. Attendi al detto
del
vecchio Naute, e ne l'Italia adduci
(sí
come ei fedelmente ti consiglia)
de
la tua gioventú soli i piú scelti,
i
piú sani, i piú forti e i piú famosi,
ch'ivi
aspra gente e ruvida e feroce
domar
convienti. Ma convienti in prima
per
via d'Averno, ne l'inferno addurti,
e
meco ritrovarti, ov'ora io sono,
figlio,
non già nel Tartaro, o fra l'ombre
de
le perdute genti; ma felice
tra
i felici e tra' pii, per quelli ameni
elisi
campi mi diporto e godo.
A
questi lochi, allor che molto sangue
avrai
di negre pecorelle sparso,
ti
condurrà la vergine Sibilla.
Ivi
conto saratti il tuo legnaggio,
e
'l tuo seggio fatale: e qui ti lascio,
già
che varcato è de la notte il mezzo,
e
del nimico sol dietro anelando
i
veloci destrier venir mi sento».
E
ciò dicendo, allontanossi e sparve.
«Dove, padre, ne vai, dove t'ascondi? -
dicendo
Enea, - chi fuggi? o chi ti toglie
da
le mie braccia?» al già sopito foco
si
trasse, e lo raccese; e incenso e farro
offrí
devoto ai sacrosanti numi
de
l'alma Vesta e de' suoi patrii Lari.
Indi i compagni, e pria di tutti Aceste,
de
l'imperio di Giove e de' ricordi
del
caro padre incontinente avvisa,
e
'l suo parer ne porge. In un momento
si
propon, si consulta, e s'eseguisce.
Aceste
non recusa; e già descritti
i
nomi de le madri, degl'infermi,
e
de le genti che mestiero o cura
avean
piú di riposo che di lode,
essi
pochi, ma scelti, e guerrier tutti,
rivolti
a risarcir gli adusti legni,
rinnovaron
le sarte, i remi, i banchi,
e
ciò che 'l foco avea corroso ed arso.
Enea de la città le mura intanto
insolca,
e i lochi assegna; e parte Troia,
e
parte Ilio ne chiama, e re n'appella
il
buon troiano Aceste. Ei lieto il carco
ne
prende; indíce il fòro, elegge i padri,
ode,
giudica e manda. Allora in cima
de
l'Ericinio giogo il gran delúbro
surse
a Venere idalia: e i sacerdoti
gli
si addissero in prima. Allor s'aggiunse
al
tumulo d'Anchise il sacro bosco.
Avea già nove dí fatti solenni
sarifici
e conviti; e 'l mare e i vènti
eran
placidi e queti. Austro sovente
spirando,
in alto i lor legni invitava,
quando
un pianto dirotto per lo lito
levossi,
un condolersi, un abbracciarsi
che
tutto il dí durò, tutta la notte.
Le
meschinelle donne, e quegli stessi,
cui
dianzi spaventosa era la faccia
e
'l nome intollerabile del mare,
voglion
di nuovo ogni marin disagio
soffrire,
e de l'esiglio ogni fatica.
Ma
li racqueta e li consola Enea
con
dolci modi, e lagrimando alfine
da
lor si parte, ed al suo caro Aceste
quanto
può caramente gli accomanda.
Poscia,
fatta al grand'Èrice in sul lito
di
tre giovenchi offerta, e d'un'agnella
a
le Tempeste, si rimbarca e scioglie.
Ed
ei stesso altamente in su la proda,
cinto
il capo d'oliva, una gran tazza
in
man si reca, e di lenèo liquore
e
di viscere sacre il mare asperge.
Sorgea da poppa il vento, e le sals'onde
ne
gian solcando i remiganti a gara,
quando
del figlio Citerea gelosa
Nettuno
assalse, e seco querelossi
in
cotal guisa: «La grav'ira e l'odio
di
Giuno insazïabile m'inchina
ad
ogni priego; poscia che né 'l tempo,
né
la pietà, né Giove, né 'l destino
acquetar
non la ponno. E non le basta
d'aver
già Troia desolata ed arsa,
che
le reliquie, il nome e l'ossa e 'l cenere
ne
perseguita ancora. Ella ne sappia,
ella
ne dica la cagione. Io chiamo
te
per mio testimon de l'improvisa
micidïal
tempesta che pur dianzi
per
mezzo de l'eolide procelle
mosse
lor contra (tua mercede) invano.
Or
ha l'iniqua per le mani stesse
de
le teucre matrone i teucri legni
dati
sí bruttamente al foco in preda,
perché
i meschini, arse le navi loro,
sian
di lasciare i lor compagni astretti
per
le terre straniere. Or quel che resta,
e
ch'a te chieggo, è che il tuo regno omai
sia
lor sicuro, e ch'una volta alfine
tocchin
del Tebro e di Laurento i campi:
se
però quel ch'io chieggo è che dal cielo
al
mio figlio si debba, e se quel seggio
ne
dan le Parche e 'l Fato». A lei de l'onde
rispose
il domatore: «Ogni fidanza
prender
puoi, Citerea, ne' regni miei
onde
tu pria nascesti. E non son pochi
ancor
teco i miei merti; ché piú volte
ho
per Enea l'ira e il furore estinto
e
del mare e del cielo. Ed anco in terra
non
ebb'io (Xanto e Simoenta il sanno)
de
la salute sua cura minore,
allor
ch'Achille a le troiane schiere
sí
parve amaro, e che fin sotto al muro
le
cacciò d'Ilio, e tal di lor fe' strage,
che
ne gîr gonfi e sanguinosi i fiumi:
e
Xanto da' cadaveri impedito
sboccò
ne' campi, e deviò dal mare.
Era
quel giorno Enea d'Achille a fronte,
né
dii, né forze avea ch'a lui del pari
stessero
incontro. Io fui che ne la nube
allor
l'ascosi; io che di man ne 'l trassi,
quando
piú d'atterrar avea desio
quelle
mura odïose e disleali,
che
pur de le mie mani eran fattura.
Or
ti conforta che vèr lui son io
qual
fui mai sempre, e come agogni, il porto
attingerà
sicuramente; e 'l lago
vedrà
d'Averno, e de' suoi tutti un solo
gli
mancherà. Sol un convien che pèra
per
condur gli altri suoi lieti e sicuri».
Poiché di Citerea la mente queta
ebbe
de l'onde il padre, i suoi cavalli
giunti
insieme e frenati, a lente briglie
sovra
de l'alto suo ceruleo carro
abbandonossi,
e lievemente scórse
per
lo mar tutto. S'adeguaron l'onde,
si
dileguâr le nubi: ovunque apparve,
tutto
sgombrossi, del suo corso al suono,
ch'avea
di torbo il ciel, di gonfio il mare.
Cingean Nettuno allor da la man destra
torme
di pistri e di balene immani,
di
Glauco il vecchio coro, e d'Ino il figlio,
e
i veloci Tritoni, e tutto insieme
lo
stuol di Forco. Da sinistra intorno
gli
era Teti, Melite e Panopèa,
Spïo,
Nisea, Cimòdoce e Talía.
Qui per l'amara dipartenza afflitto,
il
padre Enea rasserenossi in parte,
e
ciò che a navigar facea mestiero
gioiosamente
a' suoi compagni impose.
Tirâr
l'antenne, inalberâr le vele,
sciolsero,
ammaïnâr, calaro, alzaro,
fêr
le marinaresche lor bisogne
tutti
in un tempo, ed in un tempo insieme
drizzâr
le prore al mar, le poppe al vento.
Innanzi
a tutti con piú legni in frotta
gia
Palinuro, il provvido nocchiero,
e
gli altri dietro lui di mano in mano.
Era l'umida notte a mezzo il cerchio
del
ciel salita, e già languidi e stanchi
su
i duri legni i naviganti agiati
prendean
quïete; quando ecco da l'alte
stelle
placido e lieve il Sonno sceso
si
fece quanto avea d'aëre intorno
sereno
e queto: e te, buon Palinuro,
senza
tua colpa, insidïoso assalse,
portando
a gli occhi tuoi tenebre eterne.
Ei
di Forbante, marinaro esperto,
presa
la forma, come noto, appresso
in
su la poppa gli si pose, e disse:
«Tu
vedi, Palinuro: il mar ne porta
con
le stesse onde, e 'l vento ugual ne spira.
Temp'è
che pòsi omai: china la testa,
e
fura gli occhi a la fatica un poco,
poscia
ch'io son qui teco, e per te veglio».
Cui Palinuro, già gravato il ciglio,
cosí
rispose: «Ah! tu non credi adunque
ch'io
conosca del mar le perfid'onde,
e
'l falso aspetto? A tale infido mostro
ch'io
fidi il mio signore e i legni suoi?
ch'al
fallace sereno, a i vènti instabili
presti
fede io, che son da lor deluso
già
tante volte? E, ciò dicendo, avea
le
man ferme al timon, gli occhi a le stelle.
Il Sonno allora di letèo liquore
e
di stigio veleno un ramo asperso
sovra
gli scosse, e l'una tempia e l'altra
gli
spruzzò sí che gli occhi ancor rubelli
gli
strinse, gli gravò, gli chiuse al fine.
A pena avean le prime gocce infusa
la
lor virtú, che 'l buon nocchier disteso
ne
giacque: e 'l dio col suo mentito corpo
sopra
gli si recò, pinse e sconfisse
un
gheron de la poppa, e lui con esso
e
col temon precipitò nel mare.
Né
gli valse a gridar, cadendo, aíta;
ché
l'un qual pesce, e l'altro qual augello,
questi
ne l'onda, e quei ne l'aura sparve.
Né
l'armata ne gio però men ratta,
né
men sicura; ché Nettuno stesso,
come
promesso avea, la resse e spinse.
Era delle Sirene omai solcando
giunta
agli scogli, perigliosi un tempo
a'
naviganti; onde di teschi e d'ossa
d'umana
gente si vedean da lunge
biancheggiar
tutti. Or sol, di canti in vece,
se
n'ode un roco suon di sassi e d'onde.
Era,
dico, qui giunta, allor ch'Enea
al
vacillar del suo legno s'accorse
che
di guida era scemo e di temone:
ond'egli
stesso, infin che 'l giorno apparve,
se
ne pose al governo, e 'l caso indegno
del
caro amico in tal guisa ne pianse:
«Troppo
al sereno, e troppo a la bonaccia
credesti,
Palinuro. Or ne l'arena
dal
mar gittato in qualche strano lito
ignudo
e sconosciuto giacerai,
né
chi t'onori avrai, né chi ti copra».
Cosí piangendo disse: e navigando
di
Cuma in vèr l'euboïca riviera
si
spinse a tutto corso, onde ben tosto
vi
furon sopra, e v'approdaro alfine.
Volser
le prue, gittâr l'ancore; e i legni,
sí
come stêro un dopo l'altro in fila,
di
lungo tratto ricovrîr la riva.
Lieta la gioventú nel lito esperio
gittossi:
ed in un tempo al vitto intesi,
chi
qua, chi là si diêro a picchiar selci,
a
tagliar boschi, a cercar fiumi e fonti.
Intanto
Enea verso la ròcca ascese,
ove
in alto sorgea di Febo il tempio,
e
là dov'era la spelonca immane
de
l'orrenda Sibilla, a cui fu dato
dal
gran delio profeta animo e mente
d'aprir
l'occulte e le future cose.
Avea di Trivia già varcato il bosco,
quando
avanti di marmo ornato e d'oro
il
bel tempio si vide. È fama antica
che
Dedalo, di Creta allor fuggendo
ch'ebbe
ardimento di levarsi a volo
con
piú felici e con piú destre penne
che
'l suo figlio non mosse, il freddo polo
vide
piú presso; e per sentier non dato
a
l'uman seme, a questo monte alfine
del
calcidico seno il corso volse.
Qui
giunto e fermo, a te, Febo, de l'ali
l'ordigno
appese, e 'l tuo gran tempio eresse,
ne
le cui porte era da l'un de' lati
d'Andrògëo
la morte, e quella pena
che
di Cècrope i figli a dar costrinse
sette
lor corpi a l'empio mostro ogn'anno:
miserabil
tributo! e v'era l'urna,
onde
a sorte eran tratti. Eravi Creta
da
l'altro lato, alto dal mar levata,
ch'avea
del tauro istorïata intorno
e
di Pasífe il bestïale amore,
e
la bestia di lor nata biforme,
di
sí nefando ardor memoria infame.
Eravi
l'intricato laberinto:
eravi
il filo, onde gl'intrighi suoi
e
le sue cieche vie Dedalo stesso,
per
pietà ch'ebbe a la regina, aperse.
E
tu, se 'l pianto del tuo padre e 'l duolo
nol
contendea, saresti, Icaro, a parte
di
sí nobil lavoro. Ma due volte
tentò
ritrarti in oro, ed altrettante
sí
l'abborrí, che l'opera e lo stile
di
man gli cadde. Era con gli altri Enea
tutto
a mirar sospeso, quando Acate
tornò,
ch'era precorso, e seco addusse
Deïfobe
di Glauco, una ministra
di
Dïana e d'Apollo. Ella rivolta
al
frigio duce: «Non è tempo, - disse, -
ch'a
ciò si badi. Or è d'offrir mestiero
sette
non domi ancor giovenchi, e sette
negre
pecore elette». E ciò spedito
tosto,
come s'impose, ella nel tempio
seco
i Teucri condusse. È da l'un canto
dell'euboïca
rupe un antro immenso
che
nel monte penètra. Avvi d'intorno
cento
vie, cento porte; e cento voci
n'escono
insieme, allor che la Sibilla
le
sue risposte intuona. Era a la soglia
il
padre Enea, quando: «Ora è 'l tempo - disse
la
vergine. - Di', di'; chiedi tue sorti:
ecco
lo dio ch'è già comparso e spira».
Ciò
dicendo, de l'antro in su la bocca
in
piú volti cangiossi e in piú colori;
sconmpigliossi
le chionme; aprissi il petto;
le
batté 'l fianco, e 'l cor di rabbia l'arse.
Parve
in vista maggior; maggior il tuono
fu
che d'umana voce; e poiché 'l nume
piú
le fu presso: «A che badi, - soggiunse -
figlio
d'Anchise? Se non di', non s'apre
questa
di Febo attonita cortina».
E
qui si tacque. Orror per l'ossa e gelo
corse
allor de' Troiani; e 'l teucro duce
infin
de l'imo petto orò dicendo:
«Febo, la cui pietà mai sempre a Troia
fu
propizia e benigna, onde di Pari
già
reggesti la man, drizzasti il tèlo
contro
al corpo d'Achille, io, dal tuo lume
scòrto
fin qui, tanto di mare ho corso,
tante
terre ho girate, a tanti rischi
mi
son esposto; insino a le remote
massíle
genti, insin dentro a le Sirti
son
penetrato; ed or, per tua mercede,
di
questa fuggitiva Italia il lito
ecco
già tocco, e ci son giunto al fine.
Ah,
che questo sia il fine, e qui rimanga
l'infortunio
di Troia! È tempo omai,
dii
tutti e dee, cui la dardania gente
unqua
fece onta, che perdono e pace
le
concediate. E tu, vergine santa,
del
futuro presaga, or ne dimostra
il
seggio e 'l regno che ne dànno i fati
(se
pur nel dànno) ove i Troiani afflitti,
ove
di Troia i travagliati numi,
e
i dispersi Penati alberghi e posi;
ch'allor
di saldo marmo a Trivia, a Febo
ergerò
i templi, e del suo nome i ludi
consacrerolli,
e i dí fèsti e solenni;
ed
ancor tu nel nostro regno avrai
sacri
luoghi reposti, ove serbati
per
lumi e specchi a le future genti
da
venerandi a ciò patrizi eletti
saranno
i detti e i vaticini tuoi.
Quel
che prima ti chieggio è che i tuoi carmi
s'odan
per la tua lingua, e non che in foglie
sian
da te scritti, onde ludibrio poi
sian
di rapidi vènti». E piú non disse.
Ella già presa, ma non doma ancóra
dal
febèo nume, per di sotto trarsi
a
sí gran salma, quasi poltra e fiera
scapestrata
giumenta, per la grotta
imperversando
e mugolando andava.
Ma
com' piú si scotea, piú dal gran dio
era
affrenata, e le rabbiose labbia
e
l'efferato core al suo misterio
piú
mansueto e piú vinto rendea.
Eran
da lor già della grotta aperte
le
cento porte, allor ch'ella gridando
cosí
mandò la sua risposta a l'aura:
«Compíti son del mar tutti i pericoli;
restan
quei de la terra, che terribili
saran
veracemente e formidabili.
Verranno
i Teucri al regno di Lavinio:
di
ciò t'affido. Ma ben tosto d'esservi
si
pentiranno. Guerre, guerre orribili
sorger
ne veggio, e pien di sangue il Tevere.
Saravvi
un altro Xanto, un altro Simoi,
altri
Greci, altro Achille, che progenie
ancor
egli è di dea. Giuno implacabile
allor
piú ti sarà, che supplichevole
andrai
d'Italia a quai non terre o popoli
d'aíta
mendicando e di sussidii!
E
fian di tanto mal di nuovo origine
d'esterna
moglie esterne sponsalizie.
Ma
'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo
supera
le fatiche e gl'infortunii;
ché
tua salute ancor da terra argolica
(quel
che men credi) avrà lume e principio».
Questi intricati e spaventosi detti
dal
piú reposto loco alto mugghiando,
la
cumèa profetessa empiea lo speco
d'orribil
tuoni: e come il suo furore
era
da Febo raffrenato o spinto,
o
dal suo raggio avea barbaglio o lume,
cosí
miste le tenebre col vero
sciogliea
la lingua, e disgombrava il petto.
Poiché
la furia e la rabbiosa bocca
quetossi,
Enea ricominciando, disse:
«Vergine,
a me nulla si mostra omai
faccia
né di fatica né d'affanno,
che
mi sia nuova, o non pensata in prima.
Tutto
ho previsto, tutto ho presentito,
che
da te m'è predetto; e tutto io sono
a
soffrir preparato. Or sol ti chieggio
(poscia
che qui si dice esser l'intrata
de'
regni inferni, e d'Acheronte il lago)
che
per te quinci nel cospetto io venga
del
mio diletto padre; e tu la porta,
tu
'l sentier me ne mostra, e tu mi guida.
Io
lui dal fuoco e da mill'armi infeste
tratto
ho di mezzo a le nimiche schiere
su
queste spalle; ed ei scorta e compagno
del
mio viaggio e del mio esiglio, meco
i
perigli, i disagi e le tempeste
del
mar, del cielo e de l'età soffrendo,
vèglio,
debile e stanco ha me seguíto;
ed
egli stesso m'ha nel sonno imposto
che
a te ne venga, e per tuo mezzo a lui
mi
riconduca. Abbi pietà, ti priego,
e
del padre e del figlio; ed ambi insieme,
come
puoi (che puoi tutto), or ne congiungi:
ch'Ècate
non indarno a queste selve
t'ha
d'Averno preposta. Il tracio Orfeo
(sola
mercé de la sonora cetra)
scender
potevvi, e richiamarne in vita
l'amata
donna. Ne poté Polluce
ritrarre
il frate, ed a vicenda seco
vita
e morte cangiando, irvi e redirvi
tante
fïate. Andovvi Tèseo; andovvi
il
grande Alcide; ed ancor io dal cielo
traggo
principio, e son da Giove anch'io».
Cosí pregando avea le braccia avvinte
al
sacro altare, allor che la Sibilla
a
dir riprese: Enea, germe del cielo,
lo
scender ne l'Averno è cosa agevole
ché
notte e dí ne sta l'entrata aperta;
ma
tornar poscia a riveder le stelle,
qui
la fatica e qui l'opra consiste.
Questo
a pochi è concesso, ed a quei pochi
ch'a
Dio son cari, o per uman valore
se
ne poggiano al cielo. A questi è dato
come
a' celesti. Il loco tutto in mezzo
è
da selve intricato, e da negre acque
de
l'infernal Cocíto intorno è cinto.
Ma
se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia
di veder due volte Stige
e
due volte l'abisso, e soffrir osi
un
cosí grave affanno, odi che prima
oprar
convienti. È ne la selva opaca,
tra
valli oscure e dense ombre riposto
e
ne l'arbore stesso un lento ramo
con
foglie d'oro, il cui tronco è sacrato
a
Giuno inferna: e chi seco divelto
questo
non porta, ne' secreti regni
penetrar
di Plutone unqua non pote.
Ciò
la bella Prosèrpina comanda,
che
per suo dono il chiede; e svèlto l'uno,
tosto
l'altro risorge, e parimente
ha
la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra
nel bosco, e con le luci in alto
lo
cerca, il trova, e di tua man lo sterpa;
ch'agevolmente
sterperassi, quando
lo
ti consenta il fato. In altra guisa
né
con man, né con ferro, né con altra
umana
forza mai fia che si schianti,
o
che si tronchi. Oltre di ciò, nel lito
(mentre
qui badi e la risposta attendi)
giace,
lasso! d'un tuo, che tu non sai,
disanimato
e non sepolto un corpo,
che
tutti rende i tuoi legni funesti.
A
questo procurar seggio e sepolcro
pria
converratti. Or per sua purga in prima
negre
pecore adduci; e 'n cotal guisa
vedrai
gli elisi campi, e i stigi regni
cui
vedere a' mortali anzi a la morte
non
è concesso». E qui la bocca chiuse.
Enea gli occhi abbassando, afflitto e mesto
de
l'antro uscio, tra se stesso volgendo
l'oscure
profezie. Giva con lui
il
fido Acate, e con lui parimente
traea
pensieri e passi. Erano entrambi
ragionando
in pensar di qual amico,
di
qual corpo insepolto ella parlasse,
che
coprir si dovesse: allor che giunti
nel
secco lito in su l'arena steso
vider
Miseno indegnamente estinto;
Miseno
il figlio d'Eolo, ch'araldo
era
supremo e col suo fiato solo
possente
a suscitar Marte e Bellona.
Era
costui del grand'Ettòr compagno,
e
de' piú segnalati intorno a lui
combattendo,
or la tromba ed or la lancia
adoperava:
e poi che 'l fiero Achille
Ettore
ancise, come ardito e fido,
seguí
l'arme d'Enea: ché non fu punto
inferiore
a lui. Stava sul mare
sonando
il folle con Tritone a gara,
quando
da lui, ch'astio sentinne e sdegno
(se
creder dêssi), insidïosamente
tratto
giú da lo scoglio ov'era assiso,
fu
ne l'onde sommerso. Al corpo intorno
convocati
già tutti, amaro pianto
ed
alte strida insieme ne gittaro;
e
piú de gli altri Enea. Poscia seguendo
quel
ch'era lor da la Sibilla imposto,
gli
apprestaron l'esequie. Entrâr nel bosco,
di
fere antico albergo; ed elci ed orni
e
frassini atterrando, alzâr gli altari;
poser
la tomba, fabbricâr la pira,
e
la spinsero al cielo. Il frigio duce
fra
le sue schiere di bipenne armato
a
par degli altri, e piú di tutti ardente,
di
propria mano adoperando, a l'opra
esortava
i compagni; e fra se stesso
pensoso,
inverso il bosco il guardo inteso,
cosí
pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne
si scoprisse in questa selva intanto,
come
n'ha la Sibilla, ahimè, pur troppo
di
te, Miseno, annunzïato il vero!»
Ciò disse a pena, ed ecco da traverso
due
colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti
a lui sul verde si posaro.
Conobbe
il magno eroe le messaggiere
de
la sua madre, e lieto orando: «O, - disse, -
siatemi
guide voi, materni augelli,
s'a
ciò sentier si truova; ite per l'aura
drizzando
il nostro corso, ov'è de l'ombra
del
prezïoso arbusto il bosco opaco.
E
tu, madre benigna, in sí dubbioso
passo,
del lume tuo ne porgi aíta».
E,
ciò detto, fermossi. Elle pascendo,
andando,
saltellando, a scosse, a volo,
quanto
l'occhio scorgea, di mano in mano
giunsero
ove d'Averno era la bocca:
e
'l tetro alito suo schivando, in alto
ratte
l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al
desïato loco in giú rivolte,
si
posâr sopra a la gemella pianta;
indi
tra frondi e frondi il color d'oro,
che
diverso dal verde uscia raggiando,
di
tremulo splendor l'aura percosse.
Come ne' boschi al brumal tempo suole
di
vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar
verdi le frondi e gialli i pomi,
e
con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi
intorno; cosí 'l bronco
era
de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era
surto, e cosí lievi al vento
crepitando
movea l'aurate foglie.
Tosto
che 'l vide Enea, di piglio dielli,
e
disïoso, ancor che duro e valido
gli
sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a
l'indovina vergine lo trasse.
Non s'intermise di Miseno in tanto
condur
l'esequie al suo cenere estremo.
E
primamente la gran pira estrutta,
di
pingui tede e di squarciati roveri
v'alzâr
cataste: di funeste frondi,
d'atri
cipressi ornâr la fronte e i lati,
e
piantâr ne la cima armi e trofei.
Parte
di loro al foco, e parte a l'acque,
e
parte intorno al freddo corpo intenti,
chi
lo spogliò, chi lo lavò, chi l'unse.
Poiché fu pianto, in una ricca bara
lo
collocaro, e di purpuree vesti
de'
suoi piú noti e piú graditi arnesi
gli
feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri
(pietoso e tristo ministero)
il
gran feretro agli omeri addossârsi;
altri,
com'è de' piú stretti congiunti
antica
usanza, vòlti i volti indietro,
tenner
le faci, e diêr foco a la pira;
e
gran copia d'incenso e di liquori
e
di cibi e di vasi ancor con essi,
sí
come è l'uso antico, entro gittârvi.
Poiché cessâr le fiamme, e 'ncenerissi
il
rogo e 'l corpo; le reliquie e l'ossa
furon
da Corinèo tra le faville
ricerche
e scelte; e di vin puro asperse,
poi
di sua mano acconciamente in una
di
dorato metallo urna reposte.
Lo
stesso Corinèo tre volte intorno
con
un rampollo di felice oliva
spruzzando
di chiar'onda i suoi compagni,
li
purgò tutti, e 'l vale ultimo disse.
Oltre
a ciò, fece Enea per suo sepolcro
ergere
un'alta e sontuosa mole,
e
l'armi e 'l remo e la sonora tuba
al
monte appese, che d'Aërio il nome
fino
allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno
è detto, e si dirà mai sempre.
Ciò
finito, a finir quel che gl'impose
la
profetessa, incontinente mosse.
Era un'atra spelonca, la cui bocca
fin
dal baratro aperta, ampia vorago
facea
di rozza e di scheggiosa roccia.
Da
negro lago era difesa intorno,
e
da selve ricinta annose e folte.
Uscia
de la sua bocca a l'aura un fiato
anzi
una peste, a cui volar di sopra
con
la vita agli uccelli era interdetto;
onde
da' Greci poi si disse Averno.
Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
di
negro tergo, la Sibilla in fronte
riversò
lor di vin le tazze intere;
e
da ciascun di mezzo le due corna
di
setole maggiori il ciuffo svèlto,
diè
per saggio primiero al santo foco,
Ecate
ad alta voce in ciò chiamando,
de
l'Erebo e del ciel nume possente.
Parte
di lor con le coltella in mano
le
vittime svenando, e parte in vasi
stava
il sangue accogliendo. Egli a la Notte,
che
de le Furie è madre, ed a la Terra
ch'è
sua sorella, con la propria spada
di
negro vello un'agna, ed una vacca
sterile
a te, Proserpina, percosse.
Poscia
a l'imperador de' regni inferni
notturni
altari ergendo, i tauri interi
sopra
a le fiamme impose, e di pingue olio
le
bollenti lor viscere consperse.
Ed ecco a l'apparir del primo sole
mugghiò
la terra, si crollaro i monti,
si
sgominâr le selve, urlâr le Furie
al venir de la dea». «Via, via profani, -
gridò
la profetessa, - itene lunge
dal
bosco tutto; e tu meco te n'entra,
e
la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea,
fa
d'animo e di cor costante e fermo».
Ciò
disse, e da furor spinta, con lui,
ch'adeguava
i suoi passi arditamente,
si
mise dentro a le secrete cose.
O dii, che sopra l'alme imperio avete,
o
tacit'ombre, o Flegetonte, o Cao,
o
ne la notte e nel silenzio eterno
luoghi
sepolti e bui, con pace vostra
siami
di rivelar lecito a' vivi
quel
ch'ho de' morti udito. Ivan per entro
le
cieche grotte, per gli oscuri e vòti
regni
di Dite; e sol d'errori e d'ombre
avean
rincontri: come chi per selve
fa
notturno viaggio, allor che scema
la
nuova luna è da le nubi involta,
e
la grand'ombra del terrestre globo
priva
di luce e di color le cose.
Nel primo entrar del doloroso regno
stanno
il Pianto, l'Angoscia, e le voraci
Cure,
e i pallidi Morbi e 'l duro Affanno
con
la debil Vecchiezza. Evvi la Téma,
evvi
la Fame: una ch'è freno al bene,
l'altra
stimolo al male: orrendi tutti
e
spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
la
Povertà, la Morte, e, de la Morte
parente,
il Sonno. Avvi de' cor non sani
le
non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de
le genti omicida, e de le Furie
i
ferrati covili, il Furor folle,
l'empia
Discordia, che di serpi ha 'l crine,
e
di sangue mai sempre il volto intriso.
Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un
olmo opaco e grande, ove si dice
che
s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
v'ha
la sua vana imago e 'l suo fantasma.
Molte,
oltre a ciò, vi son di varie fere
mostruose
apparenze. In su le porte
i
biformi Centauri, e le biformi
due
Scille: Brïarèo di cento doppi;
la
Chimera di tre, che con tre bocche
il
fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con
sette teste; e con tre corpi umani
Erilo
e Gerïone; e con Medusa
le
Górgoni sorelle; e l'empie Arpie,
che
son vergini insieme, augelli e cagne.
Qui preso Enea da súbita paura
strinse
la spada, e la sua punta volse
incontro
a l'ombre; e se non ch'ombre e vite
vòte
de' corpi e nude forme e lievi
conoscer
ne le fe' la saggia guida,
avrebbe
impeto fatto, e vanamente
in
vane cose ardir mostro e valore.
Quinci preser la via là 've si varca
il
tartareo Acheronte. Un fiume è questo
fangoso
e torbo, e fa gorgo e vorago,
che
bolle e frange, e col suo negro loto
si
devolve in Cocito. È guardiano
e
passeggiero a questa riva imposto
Caron
demonio spaventoso e sozzo,
a
cui lunga dal mento incolta ed irta
pende
canuta barba. Ha gli occhi accesi
come
di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso
un lordo ammanto; e con un palo,
che
gli fa remo, e con la vela regge
l'affumicato
legno, onde tragitta
su
l'altra riva ognor la gente morta.
Vecchio
è d'aspetto e d'anni; ma di forze,
come
dio, vigoroso e verde è sempre.
A questa riva d'ogn'intorno ognora
d'ogni
età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a
schiere si traean l'anime spente,
e
de' figli anco innanzi a' padri estinti.
Non
tante foglie ne l'estremo autunno
per
le selve cader, non tanti augelli
si
veggon d'alto mar calarsi a terra,
quando
il freddo li caccia ai liti aprichi,
quanti
eran questi. I primi avanti orando
chiedean
passaggio, e con le sporte mani
mostravan
il disio de l'altra ripa:
ma
'l severo nocchiero or questi or quelli
scegliendo
o rifiutando, una gran parte
lunge
tenea dal porto e da l'arena.
Enea la moltitudine, e 'l tumulto
meravigliando:
«Ond'è, vergine, - disse -
questo
concorso al fiume? e qual disio
mena
quest'alme? e qual grazia o divieto
fa
che queste dan volta, e quelle approdano?»
A ciò la profetessa brevemente
cosí
rispose: «Enea, stirpe divina
veracemente
(che di ciò n'accerta
il
qui vederti), là Cocito stagna;
quinci
va Stige, la palude e 'l nume
per
cui di spergiurar fino a gli dèi
del
cielo è formidabile e tremendo.
Questi
è Caronte, il suo tristo nocchiero:
quella
turba che passa, è de' sepolti:
questa
che torna, è de' meschini estinti
che
né tomba, né lacrime, né polve
ebber
morendo. A lor non è concesso
traiettar
queste ripe e questo fiume,
se
pria l'ossa non han seggio e coverchio.
Erran
cent'anni vagolando intorno
a
questi liti, e 'l desïato stagno
visitando
sovente, infin ch'al passo
non
sono ammessi». Enea di ciò pensando,
mosso
a pietà de la lor sorte iniqua,
fermossi;
ed ecco incontro gli si fanno
mesti,
d'esequie privi e di sepolcro,
Leucaspi,
e 'l conduttor de' Lici Oronte,
ambi
Troiani, ambi dal vento insieme
coi
Lici tutti, e con l'intera nave
nel
mar sommersi. Appresso Palinuro,
il
gran nocchier de la troiana armata,
che
dianzi nel tornar di Libia, il cielo
e
le stelle mirando, in mar fu tratto.
A
costui si rivolse, e poiché l'ebbe
per
entro una grand'ombra a pena scorto,
cosí
prima gli disse: «O Palinuro,
e
qual fu de gli dèi ch'a noi ti tolse,
ed
a l'onde ti diede? Or lo mi conta:
ché
deluso da Febo unqua non fui,
se
non se in te: Febo predisse pure
che
tu nosco del mar securo e salvo
Italia
attingeresti. Ah! dunque un dio,
e
dio del vero, in tal guisa ne froda?»
Rispose Palinuro: «Inclito duce,
né
l'oracol d'Apollo ha te deluso,
né
l'ira ha me di dio nel mar sommerso;
ché
'l temone, ond'io mai non mi divelsi
per
tua salute, ancor per man ritenni
allor
ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea,
per
l'onde irate, che di me non tanto,
quanto
del tuo periglio ebbi timore,
che
non la nave tua, del mio governo
spogliata
e del suo freno, al mar già gonfio
restasse
in preda. Austro tre notti intere
con
la sua correntia per l'ampio mare
mi
trasse a forza. Il quarto giorno a pena
discoverta
l'Italia, a poco a poco
m'accostava
a la terra; e giunto omai
cosí
com'era ancor di veste grave,
e
stanco e molle, con l'adunche mani
m'aggrappava
a la ripa, e salvo fôra:
se
non ch'ignara e fera gente incontro,
com'a
preda marina, mi si fece,
e
col ferro m'ancise. Or lungo ai liti
vassene
il corpo mio ludibrio a' vènti,
e
scherzo a' flutti. Ed io, signore invitto,
per
la superna luce, per quell'aura
onde
si vive, per tuo padre Anchise,
per
le speranze del tuo figlio Iulo,
priegoti
a sovvenirmi; o che di terra
mi
cuopra (come puoi) cercando il corpo
per
la spiaggia di Velia, o in altra guisa,
s'altra
ne ti sovviene, o ti si mostra
da
la tua diva madre; ché non senza
nume
divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi
la tua destra, e teco trammi
oltre
a quell'acque, perché morto almeno
pace
truovi e riposo». Avea ciò detto,
quando
cosí la vergine rispose:
«Ah, Palinuro, e qual dira follia
a
ciò t'invoglia? Non sepolto adunque
l'acque
di Stige e la severa foce
traiettar
de l'Eumènidi presumi?
Tu
di qui tôrti a l'altra riva intendi
senza
commiato? Indarno, indarno speri
che
per nostro pregar fato si cangi.
Ma
con questo t'acqueta, e ti conforta
de
l'infortunio tuo: ché quelle terre
vicine
al luogo, ove il tuo corpo giace,
da
pestilenza e da prodigi astrette,
lo
raccôrranno, e con solenne rito
gli
faran sacrifici, esequie e tomba;
e
da te per innanzi avrà quel loco
di
Palinuro eternamente il nome».
Lieto
d'un tanto onore, e consolato
da
tale annunzio, il travagliato spirto
restò
contento ed appagato in parte.
Indi il cammin seguendo, a la riviera
s'approssimaro;
e il passeggier da lunge,
poiché
senza far motto entro a la selva
passar
gli vide e 'ndirizzarsi al vado:
«Olà,
ferma costí, - disse gridando -
qual
che tu sei, ch'al nostro fiume armato
ten
vai sí baldanzoso; e di costinci
di'
chi sei, quel che cerchi, e perché vieni:
ché
notte solamente e sonno ed ombre
han
qui ricetto, e non le genti vive,
cui
di varcare al mio legno non lece.
E
s'Ercole e Tesèo e Piritòo
già
v'accettai, scorno e dolore n'ebbi;
ché
l'un d'essi il tartarëo custode
incatenovvi,
e, di sotto anco al seggio
del
proprio re, tremante a l'aura il trasse;
e
gli altri alfin dal maritale albergo
rapir
di Dite la regina osaro».
«Nulla di queste insidie - gli rispose
la
profetessa - a macchinar si viene.
Stanne
sicuro; e quest'arme a difesa
si
portan solamente, e non ad onta.
Spaventi
il can trifauce a suo diletto
le
pallid'ombre; eternamente latri
ne
l'antro suo; col suo marito e zio
si
stia casta Prosèrpina mai sempre,
ché
di nulla cen cale. Enea troiano
è
questi, di pietà famoso e d'armi,
che
per disio del padre infino al fondo
de
l'Èrebo discende; e se l'esempio
di
tanta carità non ti commove,
questo
almen riconosci». E, fuor del seno
d'oro
il tronco traendo, altro non disse.
Ei, rimirando il venerabil dono
de
la verga fatal, già di gran tempo
non
veduto da lui, l'orgoglio e l'ira
tosto
depose, e la sua negra cimba
a
lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi
i banchi sgombrando e 'l legno tutto,
l'anime,
che già dentro erano assise,
con
súbito scompiglio uscir ne fece,
e
'l grand'Enea v'accolse. Allor ben d'altro
parve
che d'ombre carco; e sí com'era
mal
contesto e scommesso, cigolando
chinossi
al peso, e piú d'una fissura
a
la palude aperse. Alfin pur salvi
ne
l'altra ripa, tra le canne e i giunchi,
sul
palustre suo limo ambi gli espose.
Giunti che furo, il gran Cèrbero udiro
abbaiar
con tre gole, e 'l buio regno
intonar
tutto; indi in un antro immenso
sel
vider pria giacer disteso avanti,
poi
sorger, digrignar, ràbido farsi,
con
tre colli arruffarsi, e mille serpi
squassarsi
intorno. Allor la saggia maga,
tratta
di mèle e d'incantate biade
una
tal soporifera mistura,
la
gittò dentro a le bramose canne.
Egli
ingordo, famelico e rabbioso
tre
bocche aprendo, per tre gole al ventre
trangugiando
mandolla, e con sei lumi
chiusi
dal sonno, anzi col corpo tutto
giacque
ne l'antro abbandonato e vinto.
Cèrbero addormentato, occupa Enea
d'Èrebo
il passo, e ratto s'allontana
dal
fiume, cui chi varca unqua non riede.
Sentono al primo entrar voci e vagiti
di
pargoletti infanti, che dal latte
e
da le culle acerbamente svèlti,
vider
ne' primi dí l'ultima sera.
Varcano
appresso i condannati e morti
senza
lor colpa, e non senza compenso
di
giudizio e di sorti. Han quelle genti
cosí
disposti e divisati i lochi.
Sta Minos ne l'entrata, e l'urna avanti
tien
de' lor nomi, e le lor vite esamina,
e
le lor colpe; e quale è questa o quella,
tal
le dà sito, e le rauna e parte.
Passan di mano in mano a quei che feri
incontro
a sé, la luce in odio avendo
e
l'alme a vile, anzi al prescritto giorno
si
son da loro indegnamente ancisi.
Ma
quanto ora vorrebbono i meschini
esser
di sopra, e povertà, vivendo,
soffrire
e de la vita ogni disagio!
Ma
'l fato il niega, e nove volte intorno
Stige
odïosa li ristringe e fascia.
Quinci non lunge si distende un'ampia
campagna
che del Pianto è nominata;
per
cui fra chiusi colli e fra solinghe
selve
di mirti, occulte se ne vanno
l'alme,
c'ha feramente arse e consunte
fiamma
d'amor, ch'ancor ne' morti è viva.
Qui vider Fedra e Procri ed Erifíle,
infida
moglie e sfortunata madre,
di
cui fu parricida il proprio figlio;
vider
Laodamía, Pasífe, Evadne,
e
Cènëo con esse, che di donna
in
uomo, e d'uomo alfin cangiossi in donna.
Era con queste la fenissa Dido,
che,
di piaga recente il petto aperta,
per
la gran selva spazïando andava.
Tosto
che le fu presso, Enea la scòrse
per
entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder
tal volta infra le nubi e 'l chiaro
la
nova luna, allor che i primi giorni
del
giovinetto mese appena spunta;
e
di dolcezza intenerito il core,
dolcemente
mirolla e pianse e disse:
«Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera
quell'empia
che di te novella udii,
che
col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah,
ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per
gli superni dèi, per quanta fede
ha
qua giú, se pur v'ha, donna, ti giuro
che
mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
Fato,
fato celeste, imperio espresso
fu
del gran Giove, e quella stessa forza,
che
da l'eteria luce a questi orrori
de
la profonda notte or mi conduce,
che
da te mi divelse; e mai creduto
ciò
di me non avrei, che 'l partir mio
cagion
ti fosse ond'a morir ne gissi.
Ma
ferma il passo, e le mie luci appaga
de
la tua vista. Ah, perché fuggi? e cui?
Quest'è
l'ultima volta, ohimè! che 'l fato
mi
dà ch'io ti favelli, e teco sia».
Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar
tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una
sol volta disdegnosa e torva
lo
rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o
con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette
qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin,
mentre dicea, come nimica
gli
si tolse davanti, e ne la selva
al
suo caro Sichèo, cui fiamma uguale
e
par cura accendea, si ricondusse.
Né
però men dolente, e men pietoso
restonne
il teucro duce; anzi quant'oltre
poté
con gli occhi, e lungo spazio poi
col
pianto e coi sospiri accompagnolla.
Poscia
tornando al suo fatal vïaggio
giunse
là 've accampata era in disparte
gente
di ferro e di valore armata.
Qui
'l gran Tideo, qui 'l gran figlio di Marte
Partenopèo,
qui del famoso Adrasto
la
pallid'ombra incontro gli si fece.
Quinci
de' suoi piú nobili Troiani
un
gran drappello avanti gli comparve.
Pianse
a veder quei glorïosi eroi,
tanto
di sopra disïati e pianti,
come
Glauco, Tersíloco, Medonte,
i
tre figli d'Antenore, il sacrato
a
Cerere ministro Polibete,
e
'l chiaro Idèo con l'armi anco e col carro.
Fatto
gli avean costor chi da man destra,
chi
da sinistra una corona intorno.
Né
d'averlo veduto eran contenti,
ché
ciascun desïava essergli appresso,
ragionar,
passeggiar, far seco indugio,
e
spïar come e d'onde e perché venne.
Ma degli Argivi e le falangi e i duci,
quand'egli
apparve, e che tra lor ne l'ombre
i
lampi folgorâr de l'armi sue,
da
gran timor furo assaliti; e parte
volser
le terga, come già fuggendo
verso
le navi, e parte alzâr le voci
che
per téma sembrâr languide e fioche.
Deífobo, di Prïamo il gran figlio,
vide
ancor qui, che crudelmente anciso
in
disonesta e miserabil guisa
avea
le man, gli orecchi, il naso e 'l volto
lacerato,
incischiato e monco tutto.
Per
temenza il meschino e per vergogna
d'esser
veduto, con le tronche braccia
un
sí brutto spettacolo celando,
indarno
si facea schermo e riparo;
ch'al
fin lo riconobbe, e con l'usata
domestichezza
incontro gli si fece,
cosí
dicendo: «Poderoso eroe,
gran
germoglio di Teucro, e chi sí crudo
fu
mai, chi tanto osò, cui si permise
che
facesse di te strazio sí fiero?
La
notte che seguí l'orribil caso
de
la nostra ruina, io di te seppi
ch'assaliti
i nemici e di lor fatta
strage
che memorabile fia sempre,
tra
le caterve de' lor corpi estinti,
stanco
via piú che vinto, alfin cadesti;
ed
allor io di Reto in su la riva
a
l'ombra tua con le mie mani un vòto
sepolcro
eressi, e te gridai tre volte:
e
'l nome e l'armi tue riserba ancora
il
loco stesso. Io te, dolce signore,
né
veder, né coprir di patria terra
avanti
il mio partir mai non potei».
Deífobo rispose: «Ogni pietoso,
ogni
onorato officio, Enea mio caro,
ha
l'amor tuo vèr me compito a pieno.
Ma
l'empio fato mio, l'empia e malvagia
argiva
donna a tal m'ha qui condotto;
e
tal di sé lasciò memoria al mondo.
Ben
ti ricorda (e ricordar ten dêi)
di
quell'ultima notte che sí lieta
mostrossi
in pria, poi ne si volse in pianto,
quando
il fatal cavallo il salto fece
sopra
le nostre mura, e 'l ventre pieno
d'armate
schiere ne votò fin dentro
a
l'alta ròcca. Allor ella di Bacco
fingendo
il coro, e con le frigie donne
scorrendo
in tresca, una gran face in mano
si
prese, e diè con essa il cenno a' Greci.
Io dentro alla mia camera (infelice!)
mi
ritrovai sol quella notte; e stanco
di
tante che n'avea con tanti affanni
vegghiate
avanti, un tal prendea riposo
che
a morte piú che a sonno era simíle.
Fece
la buona moglie ogn'arme intanto
sgombrar
di casa, e la mia fida spada
mi
sottrasse dal capo. Indi la porta
aperse,
e Menelao dentro v'accolse,
cosí
sperando un prezïoso dono
fare
al marito, e de' suoi falli antichi
riportar
vènia. Che piú dico? Basta
ch'entrâr
là 'v'io dormia; e con essi era
per
consultore Ulisse. O dii, se giusto
è
'l priego mio, ricompensate voi
di
quest'opere i Greci. E tu, che vivo
sei
qui, dimmi a rincontro, il caso o 'l fato
o
l'errore o 'l precetto degli dèi,
o
qual altra fortuna t'ha condotto,
ove
il sol mai non entra e buio è sempre».
Cosí tra lor parlando e rispondendo,
avea
già 'l sol del suo cerchio dïurno
varcato
il mezzo, e l'avria forse intero;
se
non che la Sibilla rampognando
cosí
li fe' del breve tempo accorti:
«Enea, già notte fassi, e noi
piangendo
consumiam
l'ore. Ecco siam giunti al loco
dove
la strada in due sentier si parte.
Questo
a man dritta a la città ne porta
del
gran Plutone e quindi ai campi Elisi;
quest'altro
a la sinistra a l'empio abisso
ne
guida, ov'hanno i rei supplizio eterno».
Il figlio a ciò di Prïamo
soggiunse:
«Non
ti crucciare, o del gran Delio amica,
ch'or
da voi mi tolgo, e mi ritiro
ne
le tenebre mie. Tu, nostro onore,
vatten
felice, già che scòrto sei
da
miglior fato; e meglio te n'avvenga».
Tanto
sol disse, e sparve. Enea si volse
prima
a sinistra, e sotto un'alta rupe
vide
un'ampia città che tre gironi
avea
di mura, ed un di fiume intorno;
ed
era il fiume il negro Flegetonte,
ch'al
Tartaro con suono e con rapina
l'onde
seco traea, le fiamme e i sassi.
Vede
nel primo incontro una gran porta
c'ha
la soglia, i pilastri e le colonne
d'un
tal diamante, che le forze umane,
né
degli stessi dèi, romper nol ponno.
Quindi
si spicca una gran torre in alto
tutta
di ferro. A guardia de l'entrata
la
notte e 'l giorno vigilando assisa
sta
la fiera Tesífone succinta,
col
braccio ignudo, insanguinata e torva.
Quinci
di lai, di pianti e di percosse
e
di stridor di ferri e di catene
cotale
un suono udissi, che spavento
Enea
sentinne; e rattenuto il passo:
«Dimmi,
vergine, - disse, - e che delitti
son
qui puniti? e che pianti son questi?»
Ed ella: «Inclito sire, a nessun lece,
che
buono e giusto sia, di portar oltre
da
quella soglia scelerata il piede.
Ma
me di ciò che dentro vi s'accoglie
Ècate
instrusse allor ch'ai sacri boschi
mi
prepose d'Averno; e d'ogni pena
e
d'ogni colpa e d'ogni loco a pieno,
quando
seco vi fui, notizia diemmi.
Questo
è di Radamanto il tristo regno,
là
dov'egli ode, esamina, condanna
e
discuopre i peccati che di sopra
son
da le genti o vanamente ascosi
in
vita, o non purgati anzi a la morte:
né
pria di Radamanto esce il precetto,
che
Tesífone è presta ad eseguirlo.
Ella
con l'una man la sferza impugna,
ne
l'altra ha serpi; ed ambe intorno arrosta,
e
grida e fère, e de le sue sorelle
le
mostruose ed empie schiere tutte
al
ministerio de' tormenti invita.
Apronsi l'esecrate orrende porte
stridendo
intanto. Tu, che quinci vedi
che
faccia è quella che di fuor le guarda,
pensa
qual a veder sia dentro un'Idra
ancor
piú fiera aprir cinquanta ingorde
rabbiose
bocche. Il Tartaro vien dopo;
una
vorago che due volte tanto
ha
di profondo, quanto in su guardando
è
da la terra al cielo: e qui ne l'imo
suo
baratro dal fulmine trafitti
son
gli antichi Titani al ciel rubelli.
Qui
vidi ambi d'Alòo gli orrendi figli,
che
scinder con le mani il cielo osaro,
e
tôr lo scettro del suo regno a Giove.
Vidivi
l'orgoglioso Salmonèo
di
sua temerità pagare il fio;
ché
temerario veramente ed empio
fu
di voler, quale il Tonante in cielo,
tonar
qua giuso e folgorare a pruova.
Questi
su quattro suoi giunti destrieri,
la
man di face armato alteramente
per
la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
d'Èlide,
ov'è di Giove il maggior tempio,
di
Giove stesso il nume, e de gli dèi
s'attribuiva
i sacrosanti onori.
Folle,
che con le fiaccole e co' bronzi,
e
con lo scalpitar de' suoi ronzoni
i
tuoni, i nembi e i folgori imitava,
ch'imitar
non si ponno: e ben fu degno
ch'ei
provasse per man del padre eterno
d'altro
fulmine il colpo e d'altro vampo
che
di tede e di fumo, e degno ancora
che
nel baratro andasse. Eravi Tizio,
quei
de la terra smisurato alunno,
che
tien disteso di campagna quanto
un
giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi
ha sopra un famelico avoltore,
che
con l'adunco rostro al cor d'intorno
gli
picchia e rode; e perché sempre il pasca,
non
mai lo scema sí che 'l pasto eterno
ed
eterna non sia la pena sua;
ché
fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
del
suo proprio martir s'avanza e cresce;
e
perché sempre langua, unqua non more.
De'
Làpiti a che parlo? d'Issïóne
di
Piritòo, e di quegli altri tutti
cui
sopra al capo un'atra selce pende,
che
grave e ruinosa ad ora ad ora
sembra
che caggia? Avvi la mensa d'oro
con
prezïosi cibi in regia guisa
apparecchiati
e proibiti insieme:
ché
la Fame, infernal furia maggiore,
gli
siede accanto; e com' piú 'l gusto incende
di
lui, piú dal gustarne indietro il tragge,
e
sorge, e la sua face estolle e grida.
Quei che son vissi ai lor fratelli amari;
quei
c'han battuti i padri; quei che frode
hanno
ordito a' clienti; i ricchi avari,
e
scarsi a' suoi, di cui la turba è grande:
gli
occisi in adulterio; i vïolenti,
gl'infidi,
i traditori in questo abisso
han
tutti i lor ridotti e le lor pene.
E
che pena e che forma e che fortuna
di
ciascun sia, non è d'uopo ch'io dica:
ma
chi sassi rivolgono, e chi vòlti
son
da le ruote, ed altri in altra guisa
son
tormentati. In un petron confitto
vi
siede e sederavvi eternamente
Tèseo
infelice; e Flegia infelicissimo
va
tra l'ombre gridando ad alta voce:
"Imparate
da me voi che mirate
la
pena mia: non vïolate il giusto,
riverite
gli dèi". Tra questi tali
è
chi vendé la patria; chi la pose
al
giogo de' tiranni; chi per prezzo
fece
leggi e disfece; e cento lingue
e
cento bocche, e voci anco di ferro,
non
basterian per divisare i nomi
e
le forme de' vizi e de le pene
ch'entro
vi sono». Poi che la Sibilla
ebbe
ciò detto: «Via - soggiunse, - attendi
a
l'impreso viaggio, e studia il passo:
ché
già le mura da' Ciclopi estrutte
mi
veggio avanti, e sotto a quel grand'arco
la
sacra porta che 'l tuo dono aspetta».
Cosí mossi ambedue, lo spazio tutto,
ch'era
nel mezzo, per sentiero opaco
tosto
varcando, anzi a la porta furo.
Incontinente
Enea l'intrata occúpa;
di
viva acqua si spruzza: e 'l sacro ramo
a
la regina de l'inferno affigge.
Ciò fatto, a i luoghi di letizia
pieni,
a
l'amene verdure, a le gioiose
contrade
de' felici e de' beati
giunsero
al fine. È questa una campagna
con
un aër piú largo, e con la terra
che
di un lume di purpura è vestita,
ed
ha 'l suo sole e le sue stelle anch'ella.
Qui
se ne stan le fortunate genti,
parte
in su' prati e parte in su l'arena
scorrendo,
lotteggiando, e vari giuochi
di
piacevol contesa esercitando;
parte
in musiche, in feste, in balli, in suoni
se
ne van diportando, ed han con essi
il
tracio Orfeo, ch'in lungo abito e sacro
or
con le dita, ed or col plettro eburno,
sette
nervi diversi insieme uniti,
tragge
del muto legno umani accenti.
Qui
di Teucro l'antica e bella razza
facea
soggiorno; quei famosi eroi
che
in quei tempi migliori al mondo furo,
Ilo,
Assàraco, Dàrdano, quei primi
de
la gran Troia fondatori e regi.
Veggon
da lunge le vane arme e i carri
a
lor d'intorno, e l'aste in terra fisse,
e
gli sciolti destrier per la campagna
vagar
pascendo; ché 'l diletto antico
e
de l'armi e de' carri e de' cavalli
gli
segue anco sotterra. Indi altri altrove
scorgono,
che da destra e da sinistra
convivando
e cantando, sopra l'erba
si
stanno assisi, ed han di lauri intorno
un
odorato bosco, onde il Po sorge
sopra
la terra, e spazïoso inonda.
E questi eran color che combattendo
non
fûr di sangue a la lor patria avari;
e
quei che sacerdoti erano in vita
castamente
vissuti, e quei veraci
e
quei pii c'han di qua parlato o scritto
cose
degne di Febo, e gl'inventori
de
l'arti, ond'è gentile il mondo e bello;
e
quei che ben oprando han tra' mortali
fatto
di fama e di memoria acquisto;
cui
tutti, in segno di celeste onore,
candida
benda il fronte orna e colora.
A questi, ch'a la vergine Sibilla
fêr
cerchio intorno, ed a Musèo tra loro,
che
dagli omeri in su gli altri avanzava,
diss'ella:
«Alme felici e tu, buon vate,
ditene
in qual contrada, e 'n qual magione
qui
tra voi si ripara il grande Anchise,
ché
lui cerchiamo, e sol per lui varcati
d'Èrebo
i fiumi e le caverne avemo».
A cui Musèo cosí breve rispose:
«Nullo
è di noi che in alcun luogo alloggi
come
in suo proprio; e tutti o per le sacre
opache
selve, o per l'amene rive
de'
chiari fiumi, o per gli erbosi prati
tra
rivi e fonti i nostri alberghi avemo.
Ma
se di ciò vi cale, itene meco
sovr'a
quel giogo; e quindi agevolmente
il
sentier ne vedrete». In ciò si mosse
come
lor guida, e sopra al colle asceso,
mostrò
lor d'alto i luminosi campi,
additò
'l calle, ed invïolli al piano.
Era per avventura in una valle
Anchise,
che da poggi era ricinta,
e
di verde coverta. Ivi in disparte
de'
suoi nepoti avea l'anime accolte
ch'a
la vita di sopra eran chiamate,
e
facendo di lor rassegna e mostra
gli
annoverava, esaminava i fati,
le
fortune, il valor di mano in mano,
gli
ordini e i tempi loro. Enea comparve
sul
campo intanto; a cui tosto che 'l vide,
lieto
Anchise avventossi e con le braccia
in
atto d'accoglienza: «O figlio, - disse
dolcemente
piangendo - io pur ti veggio.
Pur
sei venuto, ha pur la tua pietade
superati
i disagi e la durezza
di
sí strano vïaggio. Ecco m'è dato
di
veder, figlio, il tuo bramato aspetto,
e
sentirti e parlarti. Io di ciò punto
non
era in forse, e sol pensava al quando,
contando
i giorni. Oh, dopo quanti affanni,
dopo
quanti perigli, e quanti storpi
e
di mare e di terra io ti riveggio!
E
quanto ebbi timor che di Cartago
venisse
al corso tuo sinistro intoppo!»
Ed egli a lui: «La sconsolata imago,
che
m'è, padre, di te sovente apparsa,
per
te, per te veder qua giú m'ha tratto:
e
di sopra fin qui salvo a la riva
del
mar Tirreno il mio navile è sorto.
Or
dammi, padre mio, dammi ch'io giunga
la
mia con la tua destra, e grazia fammi
che
di vederti e di parlarti io goda».
Mentre cosí dicea, di largo pianto
rigava
il volto, e distendea le palme;
e
tre volte abbracciandolo, altrettante
(come
vento stringesse o fumo o sogno)
se
ne tornò con le man vòte al petto.
Intanto Enea per entro a la gran valle
vide
scevra da l'altre una foresta,
i
cui rami sonar da lunge udiva.
A
piè di questa era di Lete il rio
ch'ai
dilettosi e fortunati campi
correa
davanti; e piene avea le ripe
di
genti innumerabili, ch'intorno
a
caterve alïando ivano in guisa
che
fan le pecchie a' chiari giorni estivi,
quando
di fiore in fior, di giglio in giglio
si
van posando, e per l'apriche piagge
dolcemente
ronzando. Enea, che nulla
di
ciò sapea, di súbito stupore
fu
sopraggiunto, e la cagion spiando:
«O
- disse - padre, che riviera è quella?
e
che gente, e che mischia, e che bisbiglio?» -
«L'anime - gli rispose - a cui dovuti
sono
altri corpi, a questo fiume accolte
beon
dimenticanze e lunghi oblii
de
l'altra vita; e questi io desïava
che
tu vedessi, e che da me n'udissi
i
nomi e i gesti, onde contezza appieno
del
nostro sangue, e piena gioia avessi
dell'acquisto
d'Italia». «O padre, adunque -
soggiunse
Enea - creder si dee che l'alme,
che
son qui scarche e libere e felici,
cerchin
di nuovo a la terrena salma,
di
nuovo a la prigion tornar de' corpi?
E
qual, misere loro! empio desire
del
lume di lassú tanto le invoglia?»
«Figlio, - rispose Anchise, - acciò
sospeso
piú
non vacilli in questo dubbio, ascolta».
E
'n tal guisa per ordine gli narra:
«Primieramente il ciel, la terra e 'l mare,
l'aër,
la luna, il sol, quanto è nascosto,
quanto
appare e quant'è, muove, nudrisce
e
regge un, che v'è dentro, o spirto o mente
o
anima che sia de l'universo;
che
sparsa per lo tutto e per le parti
di
sí gran mole, di sé l'empie, e seco
si
volge, si rimescola e s'unisce.
Quinci
l'uman legnaggio, i bruti, i pesci,
e
ciò che vola, e ciò che serpe, han vita,
e
dal foco e dal ciel vigore e seme
traggon,
se non se quanto il pondo e 'l gelo
de'
gravi corpi, e le caduche membra
le
fan terrene e tarde. E quinci ancora
avvien
che téma e speme e duolo e gioia
vivendo
le conturba, e che rinchiuse
nel
tenebroso carcere, e ne l'ombra
del
mortal velo, a le bellezze eterne
non
ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
perché
sian fuor de la terrena vesta,
non
del tutto si spoglian le meschine
de
le sue macchie; ché 'l corporeo lezzo
sí
l'ha per lungo suo contagio infette,
che
scevre anco dal corpo, in nuova guisa
le
tien contaminate, impure e sozze.
Perciò
di purga han d'uopo, e per purgarle
son
de l'antiche colpe in vari modi
punite
e travagliate: altre ne l'aura
sospese
al vento, altre ne l'acqua immerse,
ed
altre al foco raffinate ed arse:
ché
quale è di ciascuna il genio e 'l fallo,
tale
è 'l castigo. Indi a venir n'è dato
negli
ampi elisi campi; e poche siamo
cui
sí lieto soggiorno si destini.
Qui
stiamo infin che 'l tempo a ciò prescritto
d'ogni
immondizia ne forbisca e terga,
sí
ch'a nitida fiamma, a semplice aura,
a
puro eterio senso ne riduca.
Quest'alme
tutte, poiché di mill'anni
han
vòlto il giro, alfin son qui chiamate
di
Lete al fiume, e 'n quella riva fanno,
qual
tu vedi colà, turba e concorso.
Dio
le vi chiama, acciò ch'ivi deposto
ogni
ricordo, men de' corpi schive,
e
piú vaghe di vita, un'altra volta
tornin
di sopra a riveder le stelle».
Ciò detto, Anchise a quelle genti in
mezzo
condusse
il figlio, e la Sibilla insieme;
e
prese un colle, ove le schiere tutte,
sí
come ne venian di mano in mano,
avea
d'incontro, e le scorgea nel volto.
«Or qui ti mostrerò, - soggiunse
Anchise, -
quanta
sarà ne' secoli futuri
la
gloria nostra; quanti e quai nepoti
de
la dardania prole a nascer hanno;
e
quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno
in Italia. Indi a te conte
le
tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi
colà quel giovinetto ardito
che
su quell'asta pura il braccio appoggia?
Quegli
a la luce è destinato in prima,
primo
che di Lavinia in Lazio avrai
figlio
postumo a te già d'anni grave,
ch'alfin
da lei fuor de le selve addutto,
re
sarà d'Alba, e degli albani regi
autore
e padre: e Silvi dal suo nome
fian
tutti i nostri, che da lui discesi
ivi
poscia gran tempo imperio avranno.
Proca è quei dopo lui, gloria e
splendore
de
la stirpe troiana: e quegli è Capi,
e
quegli è Numitore: e l'altro appresso
è
Silvio Enea, che 'l tuo nome rinnova;
e
se fia mai che 'l suo regno ricovri,
non
sarà men di te pietoso e forte.
Mira
che gioventú, mira che forze
mostran,
solo a vederli. Appo costoro
quei
che son là di quercia inghirlandati,
di
Gabi, di Nomento e di Fidene
parte
propagheranti il picciol regno,
parte
su' monti il tempio ti porranno
d'Inúo,
e la terra che da lui dirassi,
e
Collazia e Pomezia e Bola e Cora;
ché
questi nomi allor quei luoghi avranno
ch'or
ne son senza. In compagnia de l'avo
Romolo
se ne vien, di Marte il figlio,
di
Roma il padre. Al mondo Ilia darallo
de
la stirpe d'Assàraco un rampollo.
Vedil
colà, c'ha in su la testa un elmo
con
due cimieri, e tal, che il padre stesso
già
par ch'in cielo e nel suo seggio il ponga.
Questi,
figlio, sarà quel grand'eroe,
onde
i suoi primi glorïosi auspici
avrà
l'inclita Roma, quella Roma,
che,
sette monti entro al suo cerchio accolti,
tanto
si stenderà, che fia con l'armi
uguale
al mondo, e con le menti al cielo;
Roma
di cosí prodi e chiari figli
madre
felice. Tal di Berecinto
la
maggior madre infra i leoni assisa,
e
di torri altamente incoronata,
va
per la Frigia, glorïosa e lieta
che
tanti ha figli in ciel, nepoti in seno,
tutti
che dii già sono o dii si fanno.
Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa
a
mirar la tua gente e i tuoi Romani.
Cesare
è qui, qui la progenie è tutta
del
grande Iulo, a cui già s'apre il cielo.
Questi,
questi, è colui che tante volte
t'è
già promesso, il gran Cesare Augusto,
di
divo padre figlio, e divo anch'egli.
Per
lui risorgerà quel secol d'oro,
quel
del vecchio Saturno antico regno,
che
fe' il Lazio sí bello e 'l mondo tutto.
Quest'oltre
ai Garamanti ed oltre agl'Indi
impererà
fin dove il sole e l'anno
non
giunge, e piú non va se non s'arretra;
trapasserà
di là dal mauro Atlante
che
con gli omeri suoi folce le stelle.
Al
venir di costui, sol de la voce
che
ne dànno i profeti, i Caspi regni,
la
Meotica terra, e quanto inonda
il
sette volte geminato Nilo,
tremar
già veggio, e star pensoso e mesto.
Tanto
del mondo il glorïoso Alcide
non
corse mai, se ben de' Cereniti,
di
Lerna e d'Erimanto i mostri ancise:
né
tanto ne domò chi domò gl'Indi,
e
nel trionfo suo di viti e pampini
a
le tigri di Nisa il giogo impose.
E
sarà poi che 'l valor nostro manchi
di
gloria, e tu di speme e d'ardimento
di
far d'Ausonia il desïato acquisto?
Ma
chi fia questi che da lungi scorgo
sí
venerando, il crin cinto d'olivo,
con
quelle bende e con quei sacri arredi?
A
la chioma, a la barba irta e canuta
mi
sembra, ed è di Roma il santo rege,
che
dal picciolo Curi a grande impero
sarà
da lei chiamato, e sarà il primo
che
cerimonie introdurravvi e leggi.
A lui Tullo vien dopo, il forte e saggio,
ch'ai
dismessi trionfi rivocando
la
gente già per lunga pace imbelle,
la
tornerà, di neghittosa e mite,
un'altra
volta armigera e guerriera.
Anco
è quell'altro che lo segue appresso,
che
d'onor troppo e del favor del volgo
di
già si mostra ambizïoso e vago.
Or
vedi là, se di vederli agogni,
anco
i Tarquini regi, e quel superbo
vendicator
de la superbia loro,
Bruto,
consol primiero, e quei suoi fasci
e
quelle accette ond'ei, padre crudele,
de
la patria buon figlio, i figli suoi
per
l'altrui bella libertate ancide.
Infortunato
lui! che che dipoi
de
la posterità se ne favelle.
Vince
il publico amore, e 'l gran desio
d'umana
lode in lui l'affetto interno
de
la natura e del suo sangue stesso.
Mira poco in disparte i Deci, i Drusi,
il
severo Torquato e 'l buon Camillo;
l'uno
che tien già la secure in mano,
e
l'altro che da' Galli ne riporta
i
perduti vessilli. I due, che vedi
sí
risplender ne l'armi, e che rinchiusi
in
questa notte, sembrano a la vista
gir
di pari e d'accordo, oh se a la vita
vengon
di sopra, quanta guerra e quale,
con
che strage di genti e con che forze,
faran
tra loro! Il suocero da l'Alpi
e
da l'occaso, il genero da l'orto
verrà
l'un contra l'altro. Ah figli, ah figli,
non
cosí rio, non cosí fiero abuso
d'armar
voi contr'a voi, contr'a le viscere
de
la gran patria vostra! e tu che traggi
dal
ciel legnaggio, tu, mio sangue, astienti
da
tanta ferità; perdona il primo,
e
gitta l'armi in terra. Ecco chi vince
Corinto
e 'l popol greco, e 'n Campidoglio
trïonfando
ne saglie. Ecco chi d'Argo
e
di Micena ancor le torri abbatte,
e
chi Pirro debella e 'l seme estingue
del
bellicoso Achille; alta vendetta
che
ben degli avi ricompensa i danni,
e
'l tempio vïolato di Minerva.
Dove
lass'io te, gran Catone, e Cosso?
E
i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
ambedue
Scipïoni, ambi Africani,
strage
l'un di Cartago, e l'altro esizio?
Dove
Fabrizio il povero, e potente,
con
la sua povertà? Dove Serrano,
ch'e
di bifolco, al grande imperio assunto?
Dove
restano i Fabi? Eccone un solo,
Massimo
veramente, che con arte
terrà
il nemico tranquillando a bada.
Abbinsi
gli altri de l'altre arti il vanto;
avvivino
i colori e i bronzi e i marmi;
muovano
con la lingua i tribunali,
mostrin
con l'astrolabio e col quadrante
meglio
del ciel le stelle e i moti loro:
ché
ciò meglio sapran forse di voi:
ma
voi, Romani miei, reggete il mondo
con
l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre
sien
l'esser giusti in pace, invitti in guerra:
perdonare
a' soggetti, accôr gli umíli,
debellare
i superbi». In questa guisa
parlava
il santo vèglio, ed essi attenti
stavan
con maraviglia ad ascoltarlo,
quando
soggiunse: «Ecco di qua Marcello;
mira
come se n'entra adorno e carco
d'opime
spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest'è
quel generoso, ch'a grand'uopo
vien
di Roma a domare i Peni, i Galli,
e
del gallico duce i fregi e l'armi
la
terza volta al gran Quirino appende».
Qui vide Enea ch'un giovinetto a pari
gli
si traea, ch'era d'arnesi e d'armi,
e
via piú di beltà, vago e lucente;
se
non che poco lieta avea la fronte
e
chino il viso. Onde rivolto al padre:
«E
chi - disse - è costui che l'accompagna?
Saria
de' figli, o de' nipoti alcuno
del
gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
e
che mischia ha d'intorno? O quale e quanto
di
già mi sembra! Ma gli veggio al capo
d'atra
notte girar di sopra un nembo».
Anchise lagrimando gli rispose:
«Amaro
desiderio il cor ti tocca
a
voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
udir de' tuoi. Questi a la luce a pena
verrà,
che ne fia tolto. O dii superni,
troppo
parravvi la romana stirpe
possente
allor che in sul fiorir preciso
ne
fia sí vago e sí gentile arbusto.
O
che duolo, o che pianto, o che funèbre
pompa
ne vedrà Roma e 'l Marzio campo!
Qual,
Tiberino padre, a la tua riva
nuova
se n'ergerà funesta mole!
Germe
non sorgerà del seme d'Ilio
piú
di questo gradito, né che tanto
de'
latini avi suoi la speme estolla:
né
la terra di Romolo arà mai
figlio,
onde piú si pregi e piú si vanti.
O
pietà non piú vista; o fede antica!
O
virtú senza pari! E qual ne l'armi
sarà?
Chi sosterrà l'incontro suo
pedone
o cavalier ch'armato in giostra,
o
pur nel campo, il suo nemico assalga?
Miserabil
fanciullo! Cosí morte
te
non vincesse, come invitto fôra
il
tuo valore, e come tu, Marcello,
non
men de l'altro, eroica vertute,
e
piú splendore e piú fortuna avesti!
Datemi
a piene mani, ond'io di gigli
e
di purpurei fiori un nembo sparga,
ché,
se ben contro al già fisso destino
m'adopro
invano, almen con questi doni
l'ombra
d'un tanto mio nipote onori».
Dopo ciò detto, per gli aerei campi
vagando,
a parte a parte e l'ombre e i lochi
gli
mostrò, l'invaghí, tutto d'amore
de
la futura gloria il cor gli accese.
Indi
le guerre e le fortune sue
d'Italia,
di Laurento, e di Latino
la
figlia, il regno, i popoli e lo stato
tutto
gli rivelò. D'ogni suo affanno
(come
a fuggir, come a soffrir l'avesse)
gli
diè lume e compenso. Escono i Sogni
d'inferno
per due porte; una è di corno,
l'altra
è d'avorio: manda il corno i veri,
l'avorio
i falsi; e per l'eburna Anchise
diede
(quando lor diè commiato alfine)
a
la Sibilla ed al suo figlio uscita.
Enea verso le navi a' suoi compagni
fece
ritorno. Indi sciogliendo, dritto
lungo
la riva il suo corso riprese;
e
giunto ov'oggi è di Caieta il porto,
l'afferrò,
gittò l'àncore, e fermossi.
Ed ancor tu, d'Enea fida nutrice
Caieta,
ai nostri liti eterna fama
desti
morendo; ed essi anco a te diêro
sede
onorata, se d'onore a' morti
è
d'aver l'ossa consecrate e 'l nome
ne
la famosa Esperia. Ebbe Caieta
dal
suo pietoso alunno esequie e lutto,
e
sepoltura alteramente eretta.
lndi,
già fatto il mar tranquillo e queto,
spiegâr
le vele a' vènti, e i vènti al corso
eran
secondi; e 'n sul calar del sole,
la
luna, che sorgea lucente e piena,
chiare
l'onde facea tremole e crespe.
Uscîr
del porto; e pria rasero i liti
ove
Circe, del Sol la ricca figlia,
gode
felice, e mai sempre cantando
soavemente
al periglioso varco
de
le sue selve i peregrini invita:
e
de la reggia, ove tessendo stassi
le
ricche tele, con l'arguto suono
che
fan le spole e i pettini e i telari,
e
co' fuochi de' cedri e de' ginepri
porge
lunge la notte indicio e lume.
Quinci là verso il dí, lontano udissi
ruggir
lioni, urlar lupi, adirarsi,
e
fremire e grugnire orsi e cignali,
ch'eran
uomini in prima; e 'n queste forme
da
lei con erbe e con malie cangiati
giacean
di ferri e di ferrate sbarre
ne
le sue stalle incatenati e chiusi;
e
perché ciò non avvenisse ai Teucri,
che
buoni erano e pii, da cotal porto
e
da spiaggia sí ria Nettuno stesso
spinse
i lor legni, e diè lor vento e fuga,
tal
che fuor d'ogni rischio li condusse.
Già rosseggiava d'Oriente il balzo,
e
nel suo carro d'ostro ornata e d'oro
l'Aurora
si traea de l'onde fuori:
quando
subitamente ogn'aura, ogn'alito
cessò
del vento, e ne fu 'l mare in calma
sí
ch'a forza ne gian de' remi a pena.
Qui la terra mirando, il padre Enea
vede
un'ampia foresta, e dentro, un fiume
rapido,
vorticoso e queto insieme,
che
per l'amena selva, e per la bionda
sua
molta arena si devolve al mare.
Questo era il Tebro, il tanto desïato,
il
tanto cerco suo Tebro fatale:
a
le cui ripe, a le cui selve intorno,
e
di sopra volando, ivan le schiere
di
piú canori suoi palustri augelli.
Allor:
«Via, - dice a suoi - volgete il corso
itene
a riva». E tutti in un momento
rivolti
e giunti, de l'opaco fiume
preser
la foce, e lietamente entraro.
Porgimi, Èrato, aíta a dir quai regi,
quai
tempi, e quale stato avesse allora
l'antico
Lazio, quando prima i Teucri
con
questa armata a' suoi liti approdaro;
ch'io
dirò da principio le cagioni
e
gli accidenti, onde con essi a l'arme
si
venne in pria: dirò battaglie orrende,
dirò
stragi d'eserciti, e duelli
di
regi stessi, e la Toscana tutta,
e
tutta anco l'Esperia in arme accolta.
Tu,
d'Elicona dea, tu ciò mi detta;
ch'altr'ordine
di cose, altro lavoro,
e
maggior opra ordisco. Era signore,
quando
ciò fu, di Lazio il re Latino,
un
re che vèglio e placido gran tempo
avea
'l suo regno amministrato in pace.
Questi
nacque di Fauno e di Marica,
ninfa
di Laürento, e Fauno a Pico
era
figliuolo, e Pico, a te, Saturno,
del
suo regio legnaggio ultimo autore.
Non
avea questo re stirpe virile,
com'era
il suo destino; e quella ch'ebbe,
gli
fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa.
Sola
d'un sangue tal, d'un tanto regno
restava
una sua figlia unica erede,
che
già d'anni matura, e di bellezza
piú
d'ogni altra famosa, era da molti
eroi
del Lazio e de l'Ausonia tutta
desïata
e ricerca. Avanti agli altri
la
chiedea Turno, un giovine il piú bello,
il
piú possente e di piú chiara stirpe
che
gli altri tutti; e piú ch'a gli altri, a lui,
anzi
a lui sol la sua regina madre
con
mirabil affetto era inchinata.
Ma
che sua sposa fosse, avverso fato,
vari
portenti e spaventosi augúri
facean
contesa. Era un cortile in mezzo
a
le stanze reali, ove un gran lauro
già
di gran tempo consecrato e cólto
con
molta riverenza era serbato.
Si
dicea che Latino esso re stesso
nel
designare i suoi primi edifici,
là
've trovollo, di sua mano a Febo
l'avea
dicato; e ch'indi il nome diede
a'
suoi Laurenti. A questo lauro in cima
meravigliosamente
di lontano
romoreggiando
a la sua vetta intorno
venne
d'api una nugola a posarsi;
e
con l'ali e co' piè l'una con l'altra,
e
tutte insieme aggraticciate e strette
stiêr
d'uva in guisa a le sue frondi appese.
Ciò
l'indovino interpretando: «Io veggo -
disse
- venir da lunge un duce esterno,
ed
una gente che d'un loco uscita
in
un loco medesmo si rauna,
ed
altamente ivi s'alloga e regna».
Stando
un giorno, oltre a ciò, Lavinia virgo
sacrificando
col suo padre a canto,
ed
a l'altar caste facelle offrendo,
parve
(nefanda vista!) che dal foco
fossero
i lunghi suoi capelli appresi,
e
che stridendo, non pur l'oro ardesse
de
le sue trecce, ma il suo regio arnese
e
la corona stessa che di gemme
era
fregiata. Indi con rogio vampo,
con
nero fumo e con volumi attorti
s'avventasse
d'intorno, e l'alta reggia
tutta
di fiamme empiesse: orrendo mostro,
e
di gran meraviglia a chiunque il vide.
Gli
àuguri ne dicean che fama illustre
e
gran fortuna a lei si portendea;
ma
ruina a lo stato, e guerra a' popoli.
A questi mostri attonito e confuso
il
re tosto a l'oracolo di Fauno
suo
genitor ne l'alta Albúnea selva
per
consiglio ricorse. È questa selva
immensa,
opaca, ove mai sempre suona
un
sacro fonte, onde mai sempre esala
una
tetra vorago. Il Lazio tutto
e
tutta Italia in ogni dubbio caso
quindi
certezza, aíta e 'ndrizzo attende.
E
l'oracolo è tale. Il sacerdote
nel
profondo silenzio de la notte
si
fa de l'immolate pecorelle
sotto
un covile, ove s'adagia e dorme.
Nel
sonno con mirabili apparenze
si
vede intorno i simulacri e l'ombre
di
ciò ch'ivi si chiede; e varie voci
ne
sente, e con gli dèi parla e con gl'inferi.
In
questa guisa il re Latino stesso
al
vaticinio del suo padre intento
cento
pecore ancide e i velli e i terghi
nel
suol ne stende, e vi s'involve e corca:
ed
ecco un'alta repentina voce
che,
de la selva uscendo, intuona e dice:
«Invan,
figlio, procuri, invan t'imagini
che
tua figlia s'ammogli a sposo ausonio.
Vane
e nulle saran le sponsalizie
ch'or
le prepari. Di lontano un genero
venir
ti veggio, per cui sopra a l'ètera
salirà
'l nostro nome; e i nostri posteri
ne
vedran sotto i piè quanto l'Oceano
d'ambi
i lati circonda, e 'l sole illumina».
Questa risposta e questi avvertimenti,
perché
di notte e di secreta parte
fosser
da Fauno usciti, il re non tenne
in
se stesso celati; anzi la Fama
per
le terre d'Ausonia gli spargea,
quando
la frigia armata al Tebro aggiunse.
Enea col figlio e co' suoi primi duci
a
l'ombre d'un grand'albero in disparte
degli
altri a prender cibo insieme unissi.
Eran
su l'erba agiati; e, come avviso
creder
si dee che del gran Giove fosse,
avean
poche vivande; e quelle poche
gran
forme di focacce e di farrate
in
vece avean di tavole e di quadre,
e
la terra medesma e i solchi suoi
ai
pomi agresti eran fiscelle e nappi.
Altro
per avventura allor non v'era
di
che cibarsi. Onde, finiti i cibi,
volser
per fame a quei lor deschi i denti,
e
motteggiando allora: «O - disse Iulo -
fino
a le mense ancor ne divoriamo?»
E
rise e tacque. A questa voce Enea,
sí
come a fin de le fatiche loro,
avvertí
primamente, e stupefatto
del
suo misterio, subito inchinando
disse:
«O da' fati a me promessa terra,
io
te devoto adoro: e voi ringrazio,
santi
numi di Troia, amiche e fide
scorte
degli error miei. Questa è la patria,
quest'è
l'albergo nostro, e questo è 'l segno
che
'l mio padre lasciommi (or mi ricordo
de
gli occulti miei fati): "Allor - dicendo -
che
sarai, figlio, in peregrina terra
da
fame a manducar le mense astretto,
fia
'l tuo riposo: allor fonda gli alberghi,
allor
le mura. Or questa è quella fame,
ultimo
rischio ad ultimar prescritto
tutti
i nostri altri perigliosi affanni.
Or
via, dimane a l'apparir del sole,
per
diversi sentier lungi dal porto
tutti
gioiosamente investighiamo
che
paese sia questo, da che gente
sia
cólto, dove sien le terre loro.
Ora
a Giove si bea; faccinsi preci
al
padre Anchise; e sian le mense tutte
di
vin piene e di tazze». E, ciò dicendo,
di
frondi s'inghirlanda; e del paese
il
genio, e de la Terra il primo nume
primieramente
inchina, e le sue Ninfe,
e
'l fiume ancor non conto. Indi la Notte,
e
de la Notte le sorgenti stelle,
e
Giove idèo, e d'Ida la gran madre,
e
la madre di lui dal cielo invoca,
e
da l'Èrebo il padre. E qui di lampi
cinto,
di luce e d'oro, e di sua mano
folgorando
il gran Giove a ciel sereno
tonò
tre volte. In ciò repente nacque
tra
le squadre troiane un lieto grido,
ch'era
già 'l tempo di fondar venuto
le
desïate mura. A tanto annunzio
tutti
commossi, a rinnovar le mense,
ad
invitarsi, a coronarsi, a bere
lietamente
si diêro. Il dí seguente
nel
sorger de l'aurora uscîr diversi
a
spïar del paese, che contrade
e
che liti eran quelli, e di che genti.
Trovâr
che di Numíco era lo stagno,
e
che 'l fiume era il Tebro, e la cittade
da'
feroci Latini era abitata.
Allor d'Anchise il generoso figlio
cento
fra tutti i piú scelti oratori
d'oliva
incoronati al re destina
con
doni, con avvisi e con richieste
d'amicizia,
di comodi e di pace.
Questi il vïaggio lor sollecitando
se
ne van senza indugio. Ed egli intanto,
preso
nel lito il primo alloggiamento,
di
picciol fosso la muraglia insolca;
e
'n sembianza di campo e di fortezza
d'argini
lo circonda e di steccato.
Seguon gl'imbasciatori, e già da
presso
la
città, l'alte torri e i gran palagi
scoprendo
de' Latini, anzi a le mura
veggono
il fior de' giovinetti loro
su'
cavalli e su' carri esercitarsi,
lotteggiar,
tirar d'arco, avventar pali,
e
cotali altre oprar contese e prove
di
corso, d'attitudine e di forza.
Tosto che compariscono, un messaggio
quindi
si spicca in fretta, e precorrendo
riporta
al vecchio re, che nuova gente
di
gran sembiante e d'abito straniero
vien
dal mare a sua corte. Il re comanda
che
siano ammessi; e ne l'antico seggio
per
ascoltarli in maestà si reca.
Era la corte un ampio, antico, augusto
di
piú di cento colonnati estrutto
in
cima a la città sublime albergo:
Pico
di Laürento il vecchio rege
l'avea
fondata. Era d'oscure selve,
era
de' numi de' primi avi suoi
sovra
d'ogn'altra veneranda e sacra.
Qui de' lor scettri, qui de' primi fasci
s'investivano
i regi. In questo tempio
era
la curia, eran le sacre cene,
eran
de' padri i pubblici conviti
de
l'occiso arïete. Avea d'antico
cedro,
nel primo entrar, un dietro a l' altro,
de'
suoi grand'avi i simulacri eretti.
Italo
v'era, e il buon padre Sabino,
Saturno
con la vite e con la falce,
Giano
con le due teste, e gli altri regi
tutti
di mano in man, che combattendo
non
fur di sangue a la lor patria avari.
Pendean
da le pareti e da' pilastri
un
gran numero d'armi e d'altre spoglie
prese
in battaglia. Ai portici d'intorno
carri,
trofei, catene, elmi e cimieri
e
securi e corazze e scudi e lance
e
rostri di navili e ferri e sbarre
di
fracassate porte erano affisse.
In abito succinto e con la verga
che
fu poi di Quirino, e con l'ancile
ne
la sinistra esso re Pico assiso
v'era,
pria cavaliero, e poscia augello:
ch'in
augello il cangiò la maga Circe,
sdegnosa
amante; e gli suoi regi fregi
gli
converse in colori, e 'l manto in ali.
In questo tempio sovra il seggio agiato
de'
suoi maggiori, a sé Latino i Teucri
chiamar
si fece; e dolcemente in prima
cosí
parlò: «Dite, Troiani amici,
a
che venite? ché venite in luogo
c'ha
di Troia e di voi contezza a pieno;
siatevi,
o per errore o per tempesta
o
per bisogno a questi liti addotti,
come
a gente di mar sovente avviene;
ch'a
buon fiume, a buon porto, a buon ospizio
siete
arrivati. Da Saturno scesi
sono
i Latini, ed ospitali e buoni,
non
per forza o per leggi, ma per uso
e
per natura; e del buon vecchio dio
seguitiam
l'orme e de' suoi tempi d'oro.
Io
mi ricordo (ancor che questa fama
sia
per molt'anni omai debile e scura)
che
per vanto soleano i vecchi Aurunci
dir
che Dardano vostro in queste parti
ebbe
il suo nascimento; e quinci in Ida
passò
di Frigia, e ne la tracia Samo,
ch'or
Samotracia è detta. Da' Tirreni,
e
da Còrito uscio Dardano vostro,
ch'or
fatto è dio, e tra' celesti in cielo
d'oro
ha la sua magion, di stelle il seggio,
e
qua giú tra' mortali, altari e vóti».
Avea
ciò detto, quando a' detti suoi
il
saggio Ilïoneo cosí rispose:
«Alto signor, di Fauno egregio figlio,
non
tempesta di mar, non venti avversi,
non
di stelle, o di liti o di nocchieri
error
qui n'have, od ignoranza addotti.
Noi
di nostro voler, di nostro avviso
ci
siam venuti, discacciati e privi
d'un
regno de' maggiori e de' piú chiari,
ch'unqua
vedesse d'orïente il sole.
Da
Dardano e da Giove il suo legnaggio
ha
quella gente, e quel troiano Enea
ch'a te ne manda. La tempesta, i fati,
e
la ruina che ne' campi idèi
venne
di Grecia, onde l'Europa e l'Asia
e
'l mondo tutto sottosopra andonne,
cui
non è conta? chi sí lunge è posto
da
noi, che non l'udisse? o che da l'acque
de
l'estremo Oceàno, o che dal foco
de
la torrida zona sia diviso
da
la nostra notizia? Il nostro affanno
tal
fece intorno a sé diluvio e moto,
che
scosse ed allagò la terra tutta.
Da
indi in qua dispersi e vagabondi
per
tanti mari, un sol picciol ridotto
agli
dèi nostri, un lito che n'accolga,
non
da nemici, un poco d'acqua e d'aura,
lassi!
quel ch'ogn'uom ha, cercando andiamo.
Non
disutili, credo, e non indegni
sarem
del regno vostro: a voi non lieve
ne
verrà fama; e d'un tal merto tanto
vi
sarem grati, che l'ausonia terra
non
mai si pentirà d'aver i figli
de
la misera Troia in grembo accolti.
Io
ti giuro, signor, per le fatiche,
per
gli fati d'Enea, per la possente
sua
destra, già per fede e per valore
famosa
al mondo, che da molte genti
molte
fïate (e ciò vil non ti sembri,
che
da noi stessi a te ci proferiamo
e
ti preghiamo) siam pregati noi,
e
per compagni desïati e cerchi:
ma
dai fati, signor, e dagli dèi
siam
qui mandati. Dardano qui nacque,
qua
Febo ne richiama. Febo stesso,
e
quel di Delo, è ch'ai Tirreni, al Tebro,
al
fonte di Numíco, a voi c'invia.
Queste,
oltre a ciò, poche reliquie, e segni
de
l'andata fortuna e del suo amore
il
re nostro vi manda; che dal foco
son de la patria ricovrate a pena.
Con
questa coppa il suo buon padre Anchise
sacrificava.
Questo regno in testa,
quando
era in solio, il gran Prïamo avea:
questo
è lo scettro, questa è la tïara,
sacro
suo portamento; e queste vesti
son
de le donne d'Ilio opre e fatiche».
Al dir d'Ilïoneo stava Latino
fisso
col volto a terra immoto e saldo
come
in astratto, e solo avea le luci
degli
occhi intese a rimirar, non tanto
il
dipint'ostro e gli altri regi arnesi,
quanto
in pensar de la diletta figlia
il
maritaggio, e 'l vaticinio uscito
dal
vecchio Fauno. E 'n se stesso raccolto,
"Questi
è certo - dicea, - quei che da' fati
si
denunzia venir di stran paese
genero
a me, sposo a Lavinia mia,
del
mio regno partecipe e consorte.
Questi
è da cui verrà l'egregia stirpe,
che
col valor farassi e con le forze
soggetto
e tributario il mondo tutto".
Ed
al fin lieto: «O - disse, - eterni dèi,
secondate
voi stessi i vostri augúri
e
i pensier miei. Da me, Troiani, arete
tutto
che desiate; e i vostri doni
gradisco
e pregio; e mentre re Latino
sarà,
sarete voi nel regno suo
cortesemente
accolti, e 'l seggio e i campi
e
ciò ch'è d'uopo, come a Troia foste,
in
copia arete. Or s'ei tanto desia
l'amistà
nostra e 'l nostro ospizio, vegna
egli
in persona, e non abborra omai
il
nostro amico aspetto. Arra e certezza
ne
fia di pace il convenir con lui,
e
di lui stesso aver la fede in pegno.
Da
l'altra parte, a mio nome gli dite
quel
ch'io dirovvi. Io senza piú mi trovo
una
mia figlia. A questa il mio paterno
oracolo,
e del ciel molti prodigi
vietan
ch'io dia marito altro ch'esterno.
D'esterna
parte, tal d'Italia è 'l fato,
un
genero dal ciel mi si promette,
per
la cui stirpe il mio nome e 'l mio sangue
ergerassi
a le stelle. Or se del vero
punto
è 'l mio cor presago, egli è quel desso
cred'io,
che 'l fato accenna, e 'l credo, e 'l bramo».
Ciò detto, de' trecento, che mai
sempre
a'
suoi presepi avea, nitidi e pronti
destrier
di fazïone e di rispetto,
per
gli cento orator cento n'elegge,
ch'avean
le lor coverte e i lor girelli,
le
pettiere e le briglie in varie guise
d'ostro
e di seta ricamati e d'oro,
e
d'òr le ghiere, e d'òr le borchie e i freni.
Al
troian duce assente un carro invia
con
due corsier ch'eran di quei del Sole
generosi
bastardi, e vampa e foco
sbruffavan
per le nari. Al Sol suo padre
la
razza ne furò la scaltra Circe
allor
ch'a l'incantate sue giumente
Eto
e Piròo furtivamente impose.
Tali
in su tai cavalli alteramente
tornando
i Teucri al teucro duce, allegre
portâr
novelle e parentela e pace.
Ed ecco che di Grecia uscendo e d'Argo,
l'empia
moglie di Giove, alto da terra
sospesa,
infin dal sicolo Pachino
vide
i legni troiani; e vide Enea
con
tutti i suoi, che lieto e fuor del mare
e
secur de la terra, incominciava
d'alzar
gli alberghi, e di fondar le mura
già
d'un altr'Ilio. E, punta il cor di doglia
squassando
il capo: «Ah, - disse, - a me pur troppo
nimica
razza! ah troppo a' fati miei
fati
de' Frigi avversi! E forse estinti
fûr
ne' campi sigèi? forse potuti
si
son prender già presi, ed arder arsi?
Per
mezzo de le schiere e de gl'incendi
han
trovata la via. Stanca fia dunque
questa
mia deità, quando ancor sazia
non
è de l'odio? E già s'è resa, quando
ha
fin qui nulla oprato? E che mi giova
che
sian del regno, e de la patria in bando?
Che
mi val ch'io mi sia con tutto il mare
a
loro opposta? Ah! che del mar già tutte,
e
del ciel contra lor le forze ho logre.
E
che le Sirti, e che Scilla e Cariddi
a me con lor son valse? Ecco han del Tebro
la
desïata foce; e non han téma
del
mar piú, né di me. Marte poteo
disfar
la gente de' Lapíti immane;
poté
Dïana aver da Giove in preda
del
suo disegno i Calidóni antichi,
quando de' Calidóni e de' Lapíti,
vèr
le pene, era il fallo o nullo o leve:
ed
io consorte del gran Giove e suora,
misera,
incontro a lor che non ho mosso?
Che
di me non ho fatto? E pur son vinta.
Enea,
Enea mi vince. Ah se con lui
il
mio nume non può, perché d'ognuno,
chïunque
sia, non ogni aíta imploro?
Se
mover contra lui non posso il cielo,
moverò
l'Acheronte. Oh non per questo
il
fato si distorna; ed ei non meno
di
Latino otterrà la figlia e 'l regno.
Che
piú? Lo tratterrò, gli darò briga:
porrò,
s'altro non posso, in tanto affare
gara,
indugio e scompiglio: a strage, a morte,
ad
ogni strazio condurrò le genti
de
l'un rege e de l'altro; e questi avanzi
faran
primieramente i lor suggetti
de la lor amistà. Con questo in prima,
si
sian suocero e genero. Di sangue
de'
Troiani e de' Rutuli dotata
n'andrai,
regia donzella, al tuo marito;
e
del tuo maritaggio e del tuo letto
auspice
fia Bellona in vece mia.
Cotal
non partorí di face pregna
Ecuba
a Troia incendio, qual Ciprigna
arà
con questo suo novello Pari
partorito
altro foco, altra ruina
a
quest'altr'Ilio». Ciò dicendo, in terra
discese
irata, e da l'inferne grotte
a
sé chiamò la nequitosa Aletto.
De
le tre dire Furie una e costei,
cui
son l'ire, i dannaggi, i tradimenti,
le
guerre, le discordie, le ruine,
ogn'empio
officio, ogni mal'opra a core.
E
tale un mostro in tanti e cosí fieri
sembianti
si trasmuta, e de' serpenti
sí
tetra copia le germoglia intorno,
che
Pluto e le tartaree sorelle
sue
stesse in odio ed in fastidio l'hanno.
Giunon
le parla, e via piú co' suoi detti
in
tal guisa l'accende: «O de la Notte
possente
figlia, io per mio proprio affetto,
per
onor dei mio nume, per salvezza
de
la mia fama un tuo servigio agogno.
Adoprati
per me, che, mal mio grado,
questo
troiano Enea del re Latino
genero
non divenga, e nel suo regno
con
gran mio pregiudicio non s'annidi.
Tu
puoi, volendo, armar l'un contra l'altro
i
concordi fratelli: odi e zizzanie
seminar
tra' congiunti; e per le case
con
mill'arti nocendo, in mille guise
infra'
mortali indur morti e ruine.
Scuoti
il fecondo petto, e le sue forze
tutt'a
quest'opra accampa. Inferma, annulla
questa
lor pace; infiamma i cori e l'armi,
arme
ognun brami, ognun le gridi e prenda».
Di serpi e di gorgónei veneni
guarnissi
Aletto; e per lo Lazio in prima
scorrendo,
e per Laurento, e per la corte,
de
la regina Amata entro la soglia
insidiosamente
si nascose.
Era allor la regina, come donna,
e
come madre, dal materno affetto,
da
lo scorno de' Teucri, dal disturbo
de
le nozze di Turno in molte guise
afflitta
e conturbata, quando Aletto,
per
rivolgerla in furia, e co' suoi mostri
sossopra
rivoltar la reggia tutta,
da'
suoi cerulei crini un angue in seno
l'avventò
sí, che l'entrò poscia al core.
Ei
primamente infra la gonna e 'l petto
strisciando,
e non mordendo, a poco a poco
col
suo vipereo fiato non sentito
furor
le spira. Or le si fa monile
attorcigliato
al collo: or lunga benda
le
pende da le tempie, or quasi un nastro
l'annoda
il crine. Alfin lubrico errando,
per
ogni membro le s'avvolge e serpe.
Ma
fin che prima andò languido e molle
soli
i sensi occupando il suo veleno,
fin
che il suo foco penetrando a l'ossa
non
avea tutto ancor l'animo acceso,
ella
donnescamente lagrimando
sovra
la figlia e sovra le sue nozze
con
tal queto rammarco si dolea:
«Adunque si darà Lavinia mia
a
Troiani? a banditi? E tu, suo padre,
tu
cosí la collochi? E non t'incresce
di
lei, di te, di sua madre infelice?
Ch'al
primo vento ch'a' suoi legni spiri,
di
cosí caro pegno orba rimasa
(come
dir si potrà), da questo infido
fuggitivo
ladrone abbandonata
del
mar vedrolla e de' corsari in preda?
O
non cosí di Sparta anco rapita
fu
la figlia di Leda? E chi rapilla
non
fu troiano anch'egli? Ah! dov'è, sire,
quella
tua santa invïolabil fede?
quella
cura de' tuoi? quella promessa
che
s'è fatta da te già tante volte
al
nostro Turno? Se d'esterna gente
genero
ne si dee; se fisso e saldo
è
ciò nel tuo pensiero; se di Fauno
tuo
padre il vaticinio a ciò si stringe;
io
credo ch'ogni terra, ch'al tuo scettro
non
è soggetta, sia straniera a noi.
Cosí
ragion mi detta, e cosí penso
che
l'oracolo intenda. Oltre che Turno
(se
la sua prima origine si mira),
per
suoi progenitori Inaco, Acrisio,
e
per patria ha Micene». A questo dire
stava
nel suo proposito Latino
ognor
piú duro. E la regina intanto
piú
dal veleno era del serpe infetta:
e
già tutta compresa, e da gran mostri
agitata,
sospinta e forsennata,
senza
ritegno a correre, a scagliarsi,
a
gridar fra le genti e fuor d'ogni uso
a
tempestar per la città si diede.
Qual
per gli atri scorrendo e per le sale
infra
la turba de' fanciulli a volo
va
sferzato palèo ch'a salti, a scosse,
ed
a suon di guinzagli roteando
e
ronzando s'aggira e si travolve,
quando
con meraviglia e con diletto
gli
va lo stuol de' semplicetti intorno,
e
gli dan co' flagelli animo e forza;
tal
per mezzo del Lazio e de' feroci
suoi
popoli vagando, insana andava
la
regina infelice. E, quel che poscia
fu
d'ardire e di scandalo maggiore,
di
Bacco simulando il nume e 'l coro
per
tôr la figlia ai Teucri, e le sue nozze
distornare,
o 'ndugiare, a' monti ascesa
ne
le selve l'ascose: «O Bacco, o Libero, -
gridando
- Eüöè; questa mia vergine
sola
a te si convien, solo a te serbasi.
Ecco
per te nel tuo coro s'esercita,
per
te prende i tuoi tirsi, a te s'impampina,
a
te la chioma sua nodrisce e dedica».
Divolgasi di ciò la fama intanto
fra
le donne di Lazio, e tutte insieme
da
furor tratte, e d'uno ardore accese
saltan
fuor degli alberghi a la foresta.
Ed
altre ignude i colli e sciolte i crini,
d'irsute
pelli involte, e d'aste armate,
di
tralci avviticchiate e di corimbi,
orrende
voci e tremuli ululati
mandano
a l'aura. E la regina in mezzo
a
tutte l'altre una facella in mano
prende
di pino ardente, e l'imeneo
de
la figlia e di Turno imita e canta;
e
con gli occhi di sangue e d'ira infetti
al
cielo ad ora ad or la voce alzando:
«Uditemi,
- dicea - madri di Lazio,
quante
ne siete in ogni loco, uditemi.
Se
può pietade in voi, se può la grazia
de
la misera Amata, e la miseria
di
lei, ch'ad ogni madre è d'infortunio,
disvelatevi
tutte e scapigliatevi;
Eüöè;
a questo sacrificio
ne
venite con me, meco ululatene».
Cosí da Bacco e da le Furie spinta
ne
gia per selve e per deserti alpestri
la
regina infelice, quando Aletto,
ch'assai
già disturbato avea il consiglio
di
re Latino e la sua reggia tutta,
ratto
su le fosc'ali a l'aura alzossi;
e
là 've già d'Acrisio il seggio pose
l'avara
figlia, ivi dal vento esposta,
a
l'orgoglioso Turno si rivolse.
Ardea
fu quella terra allor nomata,
e
di Ardea il nome insino ad or le resta,
ma
non già la fortuna. In questo loco
entro
al suo gran palagio a mezza notte
prendea
Turno riposo. Allor ch'Aletto
vi
giunse, e 'l torvo suo maligno aspetto
con
ciò ch'avea di Furia, in senil forma
cangiando,
raggruppossi, incanutissi,
e
di bende e d'olivo il crin velossi:
Càlibe
in tutto fessi, una vecchiona
ch'era
sacerdotessa e guardïana
del
tempio di Giunone; e 'n cotal guisa
si
pose a lui davanti, e cosí disse:
«Turno, adunque avrai tu sofferto indarno
tante
fatiche, e questi Frigi avranno
la
tua sposa e 'l tuo regno? Il re, la figlia
e
la dote, ch'a te per gli tuoi merti,
per
lo sparso tuo sangue era dovuta,
e
già da lui promessa, or ti ritoglie;
e
de l'una e de l'altro erede e sposo
fassi
un esterno. O va, cosí deluso,
e
per ingrati la persona e l'alma
inutilmente
a tanti rischi esponi.
Va,
fa strage de' Toschi. Va, difendi
i
tuoi Latini, e in pace li mantieni.
Questo
mi manda apertamente a dirti
la
gran saturnia Giuno. Arma, arma i tuoi;
preparati
a la guerra; esci in campagna;
assagli
i Frigi, e snidagli dal fiume
c'han
di già preso, e i lor navili incendi.
Dal
ciel ti si comanda. E se Latino
a
le promissïon non corrisponde,
se
Turno non accetta e non gradisce
né
per suo difensor né per suo genero,
provi
qual sia ne l'armi, e quel ch'importi
averlo
per nimico». Al cui parlare
il
giovine con beffe e con rampogne
cosí
rispose: «Io non son, vecchia, ancora,
come
te, fuor de' sensi; e ben sentita
ho
la nuova de' Teucri, e me ne cale
piú
che non credi. Non però ne temo
quel
che tu ne vaneggi; e non m'ha Giuno
(penso)
in tanto dispregio e 'n tale oblio.
Ma
tu dagli anni rimbambita e scema
entri,
folle, in pensier d'armi e di stati,
ch'a
te non tocca. Quel ch'è tuo mestiero,
governa
i templi, attendi ai simulacri,
e
di pace pensar lascia e di guerra
a
chi di guerreggiar la cura è data».
Furia a la Furia questo dire accrebbe,
sí
che d'ira avvampando, ella il suo volto
riprese
e rincagnossi: ed ei, negli occhi
stupido
ne rimase, e tremò tutto:
con
tanti serpi s'arruffò l'Erinne,
con
tanti ne fischiò, tale una faccia
le
si scoverse. Indi le bieche luci
di
foco accesa, la viperea sferza
gli
girò sopra: e sí com'era immoto
per
lo stupore, ed a piú dire inteso,
lo
risospinse; e i suoi detti e i suoi scherni
cosí
rabbiosamente improverogli:
«Or vedrai ben se rimbambita e scema
sono
entrata in pensier d'armi e di stati,
ch'a
me non tocchi; e se son vecchia e folle:
guardami,
e riconoscimi; ch'a questo
son
dal Tartaro uscita, e guerra e morte
meco
ne porto». E, ciò detto, avventogli
tale
una face e con tal fumo un foco,
che
fe' tenebre agli occhi e fiamme al core.
Lo spavento del giovine fu tale,
che
rotto il sonno, di sudor bagnato
si
trovò per angoscia il corpo tutto:
e
stordito sorgendo, arme d'intorno
cercossi,
armi gridò, d'ira s'accese,
d'empio
disio, di scelerata insania,
di
scompigli e di guerra: in quella guisa
che
con alto bollor risuona e gonfia
un
gran caldar, quand'ha di verghe a' fianchi
chi
gli ministra ognor foco maggiore,
quando
l'onda piú ferve, e gorgogliando
piú
rompe, piú si volve e spuma e versa,
e
'l suo negro vapore a l'aura esala.
Cosí
Turno commosso a muover gli altri
si
volge incontinente; e de' suoi primi,
altri
al re manda con la rotta pace,
ad
altri l'apparecchio impon de l'arme,
onde
Italia difenda, onde i Troiani
sian
d'Italia cacciati, ed ei si vanta
contra
de' Teucri e contra de' Latini
aver
forze a bastanza. E ciò commesso,
e
ne' suoi vóti i suoi numi invocati,
i
Rutuli infra loro a gara armando
s'esortavan
l'un l'altro; e tutti insieme
eran
tratti da lui, chi per lui stesso
(che
giovin era amabile e gentile),
chi
per la nobiltà de' suoi maggiori,
e
chi per la virtude, e per le pruove
di
lui viste altre volte in altre guerre.
Mentre cosí de' suoi Turno dispone
gli
animi e l'armi, in altra parte Aletto
sen
vola a' Teucri; e con nuov'arte apposta
in
su la riva un loco, ove in campagna
correndo
e 'nsidïando, il bello Iulo
seguia
le fere fuggitive in caccia.
Qui
di súbita rabbia i cani accese
la
virgo di Cocíto, e per la traccia
gli
mise tutti; onde scopriro un cervo
che
fu poi di tumulto, di rottura,
di
guerra, e d'ogni mal prima cagione.
Questo era un cervo mansueto e vago,
già
grande e di gran corna, che divelto
da
la sua madre, era nel gregge addotto
di
Tirro e de' suoi figli: ed era Tirro
il
custode maggior de' regi armenti
e
de' regi poderi; ed egli stesso
l'avea
nutrito e fatto umile e manso.
Silvia,
una giovinetta sua figliuola,
l'avea
per suo trastullo; e con gran cura
di
fior l'inghirlandava, il pettinava,
lo
lavava sovente. Era a la mensa
a
lor d'intorno: e da lor tutti amava
esser
pasciuto e vezzeggiato e tocco.
Errava
per le selve a suo diletto,
e
da se stesso poi la sera a casa,
come
a proprio covil, se ne tornava.
Quel
dí per avventura di lontano
lungo
il fiume venia tra l'ombre e l'onde,
da
la sete schermendosi e dal caldo;
quando
d'Ascanio l'arrabbiate cagne
gli
s'avventaro; ed esso a farsi inteso
d'un
tale onore e di tal preda acquisto,
diede
a l'arco di piglio, e saettollo.
La
Furia stessa gli drizzò la mano,
e
spinse il dardo sí ch'a pieno il colse
ne
l'un de' fianchi, e penetrogli a l'epa.
Ferito,
insanguinato, e con lo strale
il
meschinello ne le coste infisso,
al
consueto albergo entro ai presepi
mugghiando
e lamentando si ritrasse;
ch'un
lamentarsi, un dimandar aíta
d'uomo
in guisa piú tosto che di fera,
erano
i mugghi onde la casa empiea.
Silvia
lo vide in prima, e col suo pianto,
col
batter de le mani, e con le strida
mosse
i villani a far turbe e tumulto.
Sta
questa peste per le macchie ascosa
di
topi in guisa, a razzolar la terra
in
ogni tempo, sí che d'ogni lato
n'usciron
d'improvviso; altri con pali
e
con forche, e con bronchi aguzzi al foco;
altri
con mazze nodorose e gravi,
e
tutti con quell'armi ch'a ciascuno
fecer
l'ira e la fretta. Era per sorte
Tirro
in quel punto ad una quercia intorno,
e
per forza di cogni e di bipenne
l'avea
tronca e squarciata: onde affannoso,
di
sudor pieno, fieramente ansando
con
la stessa ch'avea secure in mano
corse
a le grida, e le masnade accolse.
L'infernal
dea, ch'a la veletta stava
di
tutto che seguia, veduto il tempo
accomodato
al suo pensier malvagio,
tosto
nel maggior colmo se ne salse
de
la capanna, e con un corno a bocca
sonò
de l'armi il pastorale accento.
La
spaventosa voce che n'uscio
dal
Tartaro spiccossi. E pria le selve
ne
tremâr tutte; indi di mano in mano
di
Nemo udilla e di Diana il lago,
udilla
de la Nera il bianco fiume,
e
di Velino i fonti, e tal l'udiro,
che
ne strinser le madri i figli in seno.
A quella voce, e verso quella parte
onde
sentissi, i contadini armati,
comunque
ebber tra via d'armi rincontro,
subitamente
insieme s'adunaro.
Da
l'altro lato i giovani troiani
al
soccorso d'Ascanio in campo usciro,
spiegâr
le schiere, misersi in battaglia,
vennero
a l'armi; sí che non piú zuffa
sembrava
di villani, e non piú pali
avean
per armi, ma forbiti ferri
serrati
insieme, che dal sol percossi,
per
le campagne e fin sotto a le nubi
ne
mandavano i lampi; in quella guisa
che
lieve al primo vento il mar s'increspa,
poscia
biancheggia, ondeggia e gonfia e frange
e
cresce in tanto, che da l'imo fondo
sorge
fino a le stelle. Almone, il primo
figlio
di Tirro, primamente cadde
in
questa pugna. Ebbe di strale un colpo
in
su la strozza, che la via col sangue
gli
chiuse e de la voce e de la vita.
Caddero
intorno a lui molt'altri corpi
di
buona gente. Cadde tra' migliori,
mentre
l'armi detesta, e per la pace
or
con questi or con quelli si travaglia,
Galèso
il vecchio, il piú giusto e 'l piú ricco
de la contrada. Cinque greggi avea
con
cinque armenti; e con ben cento aratri
coltivava
e pascea l'ausonia terra.
Mentre cosí ne' campi si combatte
con
egual Marte, Aletto già compita
la
sua promessa, poi ch'a l'armi, al sangue
ed
a le stragi era la guerra addotta,
uscí
del Lazio, e baldanzosa a l'aura
levossi,
ed a Giunon superba disse:
«Eccoti
l'arme e la discordia in campo,
e
la guerra già rotta. Or di' ch'amici,
di'
che confederati, e che parenti
si
sieno omai, poiché d'ausonio sangue
già
sono i Teucri aspersi. Io, se piú vuoi,
piú
farò. Di rumori e di sospetti
empierò
questi popoli vicini;
condurrogli
in aiuto; andrò per tutto
destando
amor di guerra; andrò spargendo
per
le campagne orror, furore ed armi».
«Assai,
- Giuno rispose, - hai di terrore
e
di frode commesso: ha già la guerra
le
sue cagioni; hanno (comunque in prima
la
sorte le si regga) ambe le parti
le
genti in campo, e l'armi in mano; e l'armi
son
già di sangue tinte, e 'l sangue è fresco.
Or
queste sponsalizie e queste nozze
comincino
a godersi il re Latino,
e
questo di Ciprigna egregio figlio.
Tu,
perché non consente il padre eterno
ch'in
questa eterea luce e sopra terra
cosí
licenziosa te ne vada,
torna
a' tuoi chiostri; ed io, s'altro in ciò resta
da
finir, finirò». Ciò disse a pena
la
figlia di Saturno, che d'Aletto
fischiâr
le serpi, e dispiegârsi l'ali
in
vèr Cocíto. È de l'Italia in mezzo
e
de' suoi monti una famosa valle,
che
d'Amsanto si dice. Ha quinci e quindi
oscure
selve, e tra le selve un fiume
che
per gran sassi rumoreggia e cade,
e
sí rode le ripe e le scoscende,
che
fa spelonca orribile e vorago,
onde
spira Acheronte, e Dite esala.
In
questa buca l'odïoso nume
de
la crudele e spaventosa Erinne
gittossi,
e dismorbò l'aura di sopra.
Non però Giuno di condur la guerra
rimansi
intanto, ed ecco dal conflitto
venir
ne la città la rozza turba
de'
contadini, e riportare i corpi
del
giovinetto Almone e di Galèso,
cosí
com'eran sanguinosi e sozzi.
Gli
mostrano, ne gridano, n'implorano
dagli
dèi, da Latino e da le genti
testimonio,
pietà, sdegno e vendetta.
Evvi
Turno presente, che, con essi
tumultuando
esclama, e 'l fatto aggrava,
e
detesta e rimprovera e spaventa,
«Questi,
questi, - dicendo, - son chiamati
a
regnar ne l'Ausonia: ai Frigi, ai Frigi
dà
Latino il suo sangue, e Turno esclude».
Sopravvengono intanto i furïosi,
che,
con le donne attonite scorrendo,
gian
con Amata per le selve in tresca;
ché
grande era d'Amata in tutto il regno
la
stima e 'l nome; e d'ogni parte accolti
tutti
contra gli annunzi, contra i fati
l'armi
chiedendo e la non giusta guerra,
van
di Latino a la magione intorno.
Egli di rupe in guisa immoto stassi,
di
rupe che, nel mar fondata e salda,
né
per venti si crolla, né per onde
che
le fremano intorno, e gli suoi scogli
son
di spuma coverti e d'alga invano.
Ma
poiché superar non puote il cieco
lor
malvagio consiglio, e che le cose
givan
di Turno e di Giunone a vóto,
molto
pria con gli dèi, con le van'aure
si
protestò; poscia: «Dal fato, - disse, -
son
vinto, e la tempesta mi trasporta.
Ma
voi per questo sacrilegio vostro
il
fio ne pagherete. E tu fra gli altri,
Turno,
tu pria n'avrai supplizio e morte;
e
preci e vóti a tempo ne farai,
ch'a
tempo non saranno. Io, quanto a me,
già
de' miei giorni e de la mia quïete
son
quasi in porto: e da voi sol m'e tolto
morir
felicemente». E qui si tacque,
e
'l governo depose e ritirossi.
Era in Lazio un costume, che venuto
è
poi di mano in man di Lazio in Alba,
e
d'Alba in Roma, ch'or del mondo è capo,
che
nel muover de l'armi ai Geti, agl'Indi,
agli
Arabi, agl'Ircani, a qual sia gente
ch'elle
sian mosse, sí com'ora a' Parti
per
ricovrar le mal perdute insegne,
s'apron
le porte de la guerra in prima.
Queste son due, che per la riverenza,
per
la religïone e per la téma
del
fiero Marte, orribili e tremende
sono
a le genti; e con ben cento sbarre
di
rovere, di ferro e di metallo
stan
sempre chiuse; e lor custode è Giano.
Ma
quando per consiglio e per decreto
de'
padri si determina e s'appruova
che
si guerreggi, il consolo egli stesso,
sí
come è l'uso, in abito e con pompa
c'ha
da' Gabini origine e da' regi,
solennemente
le disferra e l'apre:
ed
egli stesso al suon de le catene
e
de la rugginosa orrida soglia
la
guerra intuona: guerra dopo lui
grida
la gioventú: guerra e battaglia
suonan
le trombe; ed è la guerra inditta.
In questa guisa era Latino astretto
d'annunzïarla
ai Teucri; a lui quest'atto
d'aprir
le triste e spaventose porte
si
dovea come a rege. Ma 'l buon padre,
schivo
di sí nefando ministero,
s'astenne
di toccarle, e gli occhi indietro
volse
per non vederle, e si nascose.
Ma per tôrre ogni indugio un'altra volta,
ella
stessa regina de' celesti
dal
ciel discese, e di sua propria mano
pinse,
disgangherò, ruppe e sconfisse
de
le sbarrate porte ogni ritegno,
sí
che l'aperse. Allor l'Ausonia tutta,
ch'era
dianzi pacifica e quïeta,
s'accese
in ogni parte. E qua pedoni,
là
cavalieri; a la campagna ognuno,
ognuno
a l'arme, a maneggiar destrieri,
a
fornirsi di scudi, a provar elmi,
a
far, chi con la cote, e chi con l'unto,
ciascuno
i ferri suoi lucidi e tersi.
Altri
s'addestra a sventolar l'insegne,
altri
a spiegar le schiere, e con diletto
s'ode
annitrir cavalli e sonar tube.
Cinque grosse città con mille incudi
a
fabbricare, a risarcir si dànno
d'ogni
sorte armi: la possente Atina,
Ardea
l'antica, Tivoli il superbo,
e
Crustumerio, e la torrita Antenna.
Qui
si vede cavar elmi e celate;
là
torcere e covrir targhe e pavesi:
per
tutto riforbire, aüzzar ferri,
annestar
maglie, rinterzar corazze,
e
per fregiar piú nobili armature,
tirar
lame d'acciar, fila d'argento.
Ogni
bosco fa lance, ogni fucina
disfà
vomeri e marre, e spiedi e spade
si
forman dai bidenti e da le falci.
Suonan
le trombe, dassi il contrassegno,
gridasi
a l'armi: e chi cavalli accoppia,
e
chi prende elmo, e chi picca, e chi scudo.
Questi
ha la piastra, e quei la maglia indosso,
e
la sua fida spada ognuno a canto.
Or m'aprite Elicona, e di conserto
meco
il canto movete, alme sorelle,
a
dir qual regi e quai genti e qual'armi
militassero
allora, e di che forze,
e
di quanto valore era in quei tempi
la
milizia d'Italia. A voi conviensi
di
raccontarlo, a cui conto e ricordo
de
le cose e de' tempi è dato eterno:
a
noi per tanti secoli rimasa
n'è
di picciola fama un'aura a pena.
Il primo, che le genti a questa guerra
ponesse
in campo, fu Mezenzio, il fiero
del
ciel dispregiatore e degli dèi.
D'Etruria
era signore, e di Tirreni
conducea
molte squadre. Avea suo figlio
Lauso
con esso, un giovine il piú bello,
da
Turno in fuori, che l'Ausonia avesse.
Gran
cavaliero, egregio cacciatore
fino
allor si mostrava; e mille armati
avea
la schiera sua, che seco uscita
fuor
d'Agillina, ne l'esiglio ancora
indarno
lo seguia; degno che fosse
ne
l'imperio del padre. A questi dopo
segue
Aventino, de l'invitto Alcide
leggiadro
figlio. Questi col suo carro
di
palme adorno, e co' vittorïosi
suoi
corridori in campo appresentossi.
Eran
di mazzafrusti, di spuntoni,
di
chiavarine, e di savelli spiedi
armate
le sue schiere. Ed egli, a piedi,
d'un
cuoio di leon velluto ed irto
vestia
gli omeri e 'l dorso, e del suo ceffo,
che
quasi digrignando ignudi e bianchi
mostrava
i denti e l'una e l'altra gota,
si
copria 'l capo. E con tal fiera mostra
d'Ercole
in guisa, a corte si condusse.
Vennero appresso i suoi fratelli argivi
Catillo
e Cora, e di Tiburte il terzo
guidâr
le genti, che da lui nomate
fûr
Tiburtine. Dai lor colli entrambi
calando
avanti a l'ordinate schiere,
due
Centauri sembravano a vedergli,
che
giú correndo da' nevosi gioghi
d'Omole
e d'Otri, risonando fansi
dar
la via da' virgulti e da le selve.
Cècolo, di Preneste il fondatore,
comparve
anch'egli: un re che da bambino
fu
tra l'agresti belve appo d'un foco
trovato
esposto; onde di foco nato
si
credé poscia, e di Volcano figlio.
Avea
costui di rustici d'intorno
una
gran compagnia, ch'eran de l'alta
Preneste,
de' sassosi Ernici monti,
de
la gabina Giuno e d'Anïene,
e
d'Amasèno e de la ricca Anagni
abitanti
e cultori: e come gli altri,
non
eran in su' carri, o d'aste armati
o
di scudi coverti. Una gran parte
eran
frombolatori, e spargean ghiande
di
grave piombo, e parte avean due dardi
ne
la sinistra, e cappelletti in testa
d'orridi
lupi: il manco piè discalzo
il
destro o d'uosa o di corteccia involto.
Messapo venne poscia, de' cavalli
il
domatore e di Nettuno il figlio,
contro
al ferro fatato e contro al foco.
Questi
subitamente armando spinse
le
genti sue per lunga pace imbelli;
deviò
dalle nozze i Fescennini,
da
le leggi i Falisci: armò Soratte,
armò
Flavinio, e tutti che d'intorno
ha
di Cimini e la montagna e 'l lago,
e
di Capena i boschi. Ivan del pari
in
ordinanza, e del suo re cantando,
come
soglion talor da la pastura
tornarsi
in vèr le rive al ciel sereno
i
bianchi cigni, e le distese gole
disnodar
gorgheggiando, e far di tutti
tale
una melodia, che di Caïstro
ne
suona il fiume e d'Asia la palude.
Né
pur un si movea di tanta schiera
da
la sua fila, in ciò lo stuol sembrando
de'
rochi augelli allor che di passaggio
vien
d'alto mare, e come intera nube
a
terra unitamente se ne cala.
Ecco di poi venir Clauso il sabino,
di
quel vero sabino antico sangue;
ch'avea
gran gente, e la sua gente tutta
pareggiava
sol egli. Il nome suo
fece
Claudia nomare e la famiglia
e
la tribú Romana allor che Roma
diessi
a' Sabini in parte. Era con lui
la
schiera d'Amiterno e de' Quiriti
di
quegli antichi. Eravi il popol tutto
d'Ereto,
di Mutisca, di Nomento
e
di Velino e quei che da l'alpestra
Tètrica,
da Severo, da Caspèria,
da
Fòruli e d'Imella eran venuti:
quei
che bevean del Fàbari e del Tebro,
che
da la fredda Norcia eran mandati;
le
squadre degli Ortini, il Lazio tutto,
e
tutti alfin che nel calarsi al mare
bagna
d'ambe le sponde Allia infelice.
Tanti
flutti non fa di Libia il golfo
quando
cade Orïon ne l'onde, il verno:
né
tante spiche hanno dal sole aduste
la
state, o d'Ermo o de la Licia i campi,
quante
eran genti. Arme sonare e scudi
s'udian
per tutto, e tutta al suon de' piedi
trepidar
si vedea l'ausonia terra.
Quindi ne vien l'agamennonio auriga
Aleso,
del troian nome nimico;
che
di mille feroci nazïoni,
in
aíta di Turno, un gran miscuglio
dietro
al suo carro avea di montanari.
Parte
de' pampinosi a Bacco amici
Màssici
colli, e parte degli Aurunci,
de'
Sidicini liti, di Volturno,
di
Cale, de' Satícoli e degli Osci.
Questi
per armi avean mazze e lanciotti
irti
di molte punte, e di soatto
scudisci
al braccio, onde erano i lor colpi,
traendo
e ritraendo, in molti modi
continüati
e doppi. E pur con essi
aveano
e per ferire e per coprirsi
targhe
ne la sinistra, e storte al fianco.
Né tu senza il tuo nome a questa impresa,
Èbalo,
te n'andrai, del gran Telone
e
de la bella Ninfa di Sebeto
figlio
onorato. Di costui si dice
che,
non contento del paterno regno,
Capri
al vecchio lasciando e i Teleboi,
fe'
d'esterni paesi ampio conquisto,
e
fu re de' Sarrasti e de le genti
che
Sarno irriga. Insignorissi appresso
di
Bàtulo, di Rufra, di Celenne
e
de' campi fruttiferi d'Avella.
Mezze
picche avean questi a la tedesca
per
avventarle, e per celate in capo
súveri
scortecciati, e di metallo
brocchieri
a la sinistra, e stocchi a lato.
Calò di Nersa e de' suoi monti
alpestri
Ufente,
un condottier ch'era in quei tempi
di
molta fama e fortunato in arme.
Equícoli,
avea seco, la piú parte
orrida
gente, per le selve avvezza
cacciar
le fere, adoperar la marra,
arar
con l'armi in dosso, e tutti insieme
viver
di cacciagioni e di rapine.
De la gente Marrubia un sacerdote
venne
fra gli altri; sacerdote insieme
e
capitan di genti ardito e forte:
Umbrone
era il suo nome; Archippo il rege
che
lo mandava. Di felice oliva
avea
il cimiero e l'elmo intorno avvolto.
Era
gran ciurmatore, e con gl'incanti
e
col tatto ogni serpe addormentava:
degl'idri,
de le vipere, e degli aspi
placava
l'ira, raddolciva il tòsco,
e
risanava i morsi. E non per tanto
poté,
né con incanti né con erbe
de'
Marsi monti, risanare il colpo
de
la dardania spada; onde il meschino
ne
fu da le foreste de l'Anguizia,
dal
cristallino Fúcino e dagli altri
laghi
d'intorno disïato e pianto.
Mandò la madre Aricia a questa guerra
Virbio,
del casto Ippolito un figliuolo
gentile
e bello; e da le selve il trasse
d'Egèria,
ove d'Imeto in su la riva
piú
cólta e piú placabile è Dïana;
ché,
per fama, d'Ippolito si dice,
poscia
che fu per froda o per disdegno
de
l'iniqua madrigna al padre in ira,
e
che gli spaventati suoi cavalli
strazio
e scempio ne fêro, egli di nuovo,
per
virtú d'erbe e per pietà che n'ebbe
la
casta dea, fu rivocato in vita.
Sdegnossi
il padre eterno ch'un mortale
fosse
a morte ritolto; e l'inventore
di
cotal arte, che d'Apollo nacque,
fulminando
mandò ne' regni bui.
Ippolito
da Trivia in parte occulta,
scevro
da tutti, a cura fu mandato
d'Egèria
ninfa, e ne la selva ascoso,
là
've solingo, e col cangiato nome
di
Virbio, sconosciuto i giorni mena
d'un'altra
vita. E quinci è che dal tempio
e
da le selve a Trivia consecrate
i
cavalli han divieto: ché, lor colpa,
fu
'l suo carro e 'l suo corpo al marin mostro,
e
poscia a morte indegnamente esposto.
Il
figlio, che pur Virbio era nomato,
non
men di lui feroce, i suoi destrieri
esercitava,
e 'n su 'l paterno carro
arditamente
a questa guerra uscio.
Turno infra' primi, di persona e d'armi
riguardevole
e fiero, e sopra tutti
con
tutto 'l capo, in campo appresentossi.
Un
elmo avea con tre cimieri in testa
e
suvvi una Chimera, che con tante
bocche
foco anelava quante a pena
non
apria Mongibello; e con piú fremito
spargea
le fiamme, come piú crudele
era
la zuffa, e piú di sangue avea.
Lo
scudo era d'acciaio, e d'oro intorno
tutto
commesso, e d'òr nel mezzo un'Io
era
scolpita, che già 'l manto e 'l ceffo,
le
setole e le corna avea di bue;
memorabil
soggetto! Eravi appresso
Argo
che la guardava; eravi il padre
Inaco
che, chiamandola, versava,
non
men de gli occhi che de l'urna, un fiume.
Dopo
Turno venia di fanti un nembo,
un'ordinanza,
una campagna piena
tutta
di scudi. Eran le genti sue
Argivi,
Aurunci, Rutuli, Sicani
e
Sacrani e Labici, che dipinti
portan
gli scudi. Avea del tiberino,
avea
del sacro lito di Numíco
e
de' rutuli colli e del Circèo,
d'Ànsure
a Giove sacro, di Feronia
diletta
a Giuno, de la paludosa
Sàtura,
e del gelato e scemo Ufente
gran
turba di villani e d'aratori.
L'ultima a la rassegna vien Camilla
ch'era
di volsca gente una donzella,
non
di conocchia o di ricami esperta,
ma
d'armi e di cavalli, e benché virgo,
di
cavalieri e di caterve armate
gran
condottiera, e ne le guerre avvezza.
Era
fiera in battaglia, e lieve al corso
tanto
che, quasi un vento sopra l'erba
correndo,
non avrebbe anco de' fiori
tocco,
né de l'ariste il sommo a pena;
non
avrebbe per l'onde e per gli flutti
del
gonfio mar, non che le piante immerse,
ma
né pur tinte. Per veder costei
uscian
de' tetti, empiean le strade e i campi
le
genti tutte; e i giovini e le donne
stavan
con meraviglia e con diletto
mirando
e vagheggiando quale andava,
e
qual sembrava; come regiamente
d'ostro
ornato avea 'l tergo, e 'l capo d'oro;
e
con che disprezzata leggiadria
portava
un pastoral nodoso mirto
con
picciol ferro in punta; e con che grazia
se
ne gia d'arco e di faretra armata.
Poscia che di Laurento in su la ròcca
fe'
Turno inalberar di guerra il segno,
e
che guerra sonâr le roche trombe,
spinti
i carri e i destrieri, e l'armi scosse
di
Marte al tempio, incontinente i cuori
si
turbâr tutti, e tutto il Lazio insieme
con
súbito tumulto si ristrinse.
Fremessi,
congiurossi, rassettossi
ognun
ne l'arme. I tre gran condottieri
Messàpo,
Ufente, e l'empio de' celesti
dispregiator
Mezenzio, usciro in prima.
Accolsero
i sussidi; armâr gli agresti;
spogliâr
d'agricoltor le ville e i campi.
In Arpi a Dïomede si destina
Vènulo
imbasciatore, e gli s'impone
che
soccorso gli chiegga, e che gli esponga
quanto
ciò de l'Italia e del suo stato
torni
a grand'uopo: con che gente Enea,
con
quale armata v'ha già posto il piede,
e
fermo il seggio, e rintegrato il culto
a'
suoi vinti Penati; come aspira
a
questo regno, e come anco per fato,
e
per retaggio del dardanio seme,
lo
si promette. Che perciò da molti
è
già seguito, e ch'ogni giorno avanza
e
di forze e di nome. Indi soggiunga:
«Quel
che 'l duce de' Teucri in ciò disegni
e
che miri e che tenti (se fortuna
gli
va seconda) a te via piú ch'a Turno
esser
può manifesto, e ch'a Latino».
Questi
andamenti e queste trame allora
correan
per Lazio, e lo scaltrito eroe
le
sapea tutte, onde in un mare entrato
di
gran pensieri, or la sua mente a questo,
or
a quel rivolgendo in varie parti,
d'ogni
cosa avea téma e speme e cura.
Cosí
di chiaro umor pieno un gran vaso,
dal
sol percosso, un tremulo splendore
vibra
ondeggiando, e rinfrangendo a volo
manda
i suoi raggi, e le pareti e i palchi
e
l'aura d'ogni intorno empie di luce.
Era la notte, e già per ogni parte
del
mondo ogni animal d'aria e di terra
altamente
giacea nel sonno immerso,
allor
che 'l padre Enea, cosí com'era
dal
pensier de la guerra in ripa al Tebro
già
stanco e travagliato, addormentossi.
Ed
ecco Tiberino, il dio del loco
veder
gli parve, un che già vecchio al volto
sembrava.
Avea di pioppe ombra d'intorno
di
sottil velo e trasparente in dosso
ceruleo
ammanto, e i crini e 'l fronte avvolto
d'ombrosa
canna. E de l'ameno fiume
placido
uscendo a consolar lo prese
in
cotal guisa: «Enea, stirpe divina,
che
Troia da' nemici ne riporti
e
la ravvivi e la conservi eterna;
o
da me, da' Laurenti e da' Latini
già
tanto tempo a tanta speme atteso,
questa
è la casa tua, questo è secura-
mente,
non t'arrestare, il fatal seggio
che
t'è promesso. Le minacce e 'l grido
non temer de la guerra. Ogn'odio, ogn'ira
cessa
già de' celesti. E perché 'l sonno
credenza
non ti scemi, ecco a la riva
sei
già del fiume, u' sotto a l'elce accolta
sta
la candida troia con quei trenta
candidi
figli a le sue poppe intorno.
Questo
fia dunque il segno e 'l tempo e 'l loco
da
fermar la tua sede. E questo è 'l fine
de'
tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio
dopo
trent'anni il memorabil regno
fonderà
d'Alba, che cosí nomata
fia
dal candore e dal felice incontro
di
questa fera. E tutto adempirassi
ch'io
ti predíco, e t'è predetto avanti.
Or
brevemente quel ch'oprar convienti,
per
uscir glorïoso e vincitore
di
questa guerra, ascolta. È di qui lunge
non
molto Evandro, un re che de l'Arcadia
è
qua venuto; e sopra a questi monti
ha
degli Arcadi suoi locato il seggio.
Il
loco, da Pallante suo bisavo,
è
stato Pallantèo da lui nomato:
ed
essi, perché son nel Lazio esterni,
son
nemici a' Latini, ed han con loro
perpetua
guerra. A te fa di mestiero
con
lor confederarti, e per compagni
a
questa impresa avergli. Io, fra le ripe
mie
stesse, incontro a l'acqua a la magione
d'Evandro
agevolmente condurrotti.
Dèstati,
de la dea pregiato figlio;
e
come pria vedrai cader le stelle,
porgi
solennemente a la gran Giuno
preghiere
e vóti; e supplicando vinci
de
l'inimica dea l'ira e l'orgoglio;
ed
a me, poi che vincitor sarai,
paga
il dovuto onore. Io sono il Tebro
cerco
da te, che, qual tu vedi, ondoso
rado
queste mie rive, e fendo i campi
de
la fertile Ausonia, al cielo amico
sovr'ogni
fiume. Quel che qui m'è dato,
è
'l mio seggio maggiore: e fia che poscia
sovr'ogni
altra cittade il capo estolla».
Cosí disse, e tuffossi. Enea dal sonno
si
scosse; il giorno aprissi, ed ei col sole
sorgendo
insieme, al suo nascente raggio
si
volse umíle, e con le cave palme
de
l'onda si spruzzò del fiume, e disse:
«Ninfe
lauremti, ninfe, ond'hanno i fiumi
l'umore
e 'l corso; e tu con l'onde tue,
padre
Tebro sacrato, al vostro Enea
date
ricetto, e da' perigli omai
lo
liberate. Ed io da qual sia fonte
che
sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(poiché
tanta di me pietà ti stringe)
sempre
t'onorerò, sempre di doni
ti
sarò largo. O de l'esperid'onde
superbo
regnatore, amico e mite
ne
sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani».
Cosí dicendo, de' suoi legni elegge
i
due migliori, e gli correda e gli arma
di
tutto punto. Ed ecco d'improvviso
(mirabil
mostro!) de la selva uscita
una
candida scrofa, col suo parto
di
candor pari, sopra l'erba verde
ne
la riva accosciata gli si mostra.
Tosto
il pietoso eroe col gregge tutto
a
l'altar la condusse, e poiché sacra
l'ebbe
al gran nume tuo, massima Giuno,
a
te l'uccise. Il Tebro quella notte
quanto
fu lunga, di turbato e gonfio
ch'egli
era, si rendé tranquillo e queto,
sí
che, senza rumore e quasi in dietro
tornando,
come stagno o come piana
palude
adeguò l'onde, e tolse a' remi
ogni
contesa. Accelerando adunque
il
cammin preso, i ben unti e spalmati
lor
legni se ne vanno incontro al fiume
com'a
seconda; sí che l'onde stesse
stavan
meravigliose, e i boschi intorno,
non
soliti a veder l'armi e gli scudi
e
i dipinti navili, che da lunge
facean
novella e peregrina mostra.
Se
ne van notte e giorno remigando
di
tutta forza, e i seni e le rivolte
varcan
di mano in mano, or a l'aperto,
or
tra le macchie occulti, e via volando
segan
l'onde e le selve. Era il sol giunto
a
mezzo il giorno, quando incominciaro
da
lunge a discovrir la ròcca e 'l cerchio
e
i rari allor del poverello Evandro
umili
alberghi, ch'ora al cielo adegua
la
romana potenza. Immantinente
volser
le prore a terra, ed appressârsi
là
've per avventura il re quel giorno
solennemente
in un sacrato bosco
avanti
a la città stava onorando
il
grande Alcide. Avea Pallante seco
suo
figlio, e del suo povero senato
e
de' suoi primi giovini un drappello
che
d'incensi, di vittime e di fumo
di
caldo sangue empiean l'are e gli altari.
Tosto che di lontan vider le gaggie,
e
per entro de' boschi occulte e chete
gir
navi esterne, insospettiti in prima
si
levâr da le mense. Ma Pallante
arditamente:
«Non movete, - disse, -
seguite
il sacrificio». E tosto a l'armi
dato
di piglio, incontro a lor si spinse.
Giunto,
gridò da l'argine: «O compagni,
qual
fin v'adduce, o qual v'intrica errore
per
cosí torta e disusata via?
Ov'andate?
chi siete? onde venite?
che
ne recate voi? la pace, o l'armi?
Enea
di su la poppa un ramo alzando
di
pacifera oliva: «Amici - disse -
vi
siamo, e siam Troiani, e coi Latini
vostri
nimici inimicizia avemo.
Questi
superbamente il nostro esiglio
perseguitando
ne fan guerra ed onta.
Ricorremo
ad Evandro. A lui porgete
da
nostra parte, che de' Teucri alcuni
son
qui venuti condottieri eletti
per
sussidi impetrarne e lega d'arme».
Stupí primieramente a sí gran nome
Pallante,
indi vèr lui rivolto umíle:
«Signor,
qual che tu sii, scendi e tu stesso
parla,
- disse, - al mio padre, e nosco alloggia».
E
lo prese per mano ed abbracciollo.
Lasciato
il fiume e ne la selva entrati,
Enea
dinanzi al re comparve e disse:
«Signor, che di bontà sovr'ogni Greco,
e
di fortuna sovr'a me ten vai
tanto
che supplichevole, e co' rami
di
benda avvolti a tua magion ne vengo;
io,
perché sia Troiano e tu di Troia
per
nazïon nimico e per legnaggio
agli
Atridi congiunto, or non pavento
venirti
avanti, ché 'l mio puro affetto,
gli
oracoli divini, il sangue antico
de'
maggior nostri, il tuo famoso grido,
e
'l fato e 'l mio voler m'han teco unito.
Dardano,
de' Troiani il primo autore,
nacque
d'Elettra, come i Greci han detto;
e
d'Elettra fu padre il grande Atlante,
che
con gli omeri suoi folce le stelle.
Vostro
progenitor Mercurio fue,
che
nel gelido monte di Cillene
de
la candida Maia al mondo nacque;
e
Maia ancor, se questa fama è vera,
venne
d'Atlante, e da lo stesso Atlante
che
fa con le sue spalle al ciel sostegno.
Cosí
d'un fonte lo tuo sangue e 'l mio
traggon
principio. E quinci è che securo
senza
opra di messaggi e senza scritti,
pria
ch'io ti tenti, e pria che tu m'affidi,
posto
ho me stesso e la mia vita a rischio,
e
supplichevolmente a la tua casa
ne
son venuto. I Rutuli ch'infesti
sono
anche a te, se de l'Italia fuori
cacceran
noi, già de l'Italia tutta
l'imperio
si promettono, e di quanto
bagna
l'un mare e l'altro. Or la tua fede
mi
porgi, e la mia prendi; ch'ancor noi
siamo
usi a guerra, e cor ne' petti avemo».
Il re,
mentre ch'Enea parlando stette,
il
volto e gli occhi e la persona tutta
gli
andò squadrando; e brevemente al fine
cosí
rispose: «Valoroso eroe,
come
lieto io t'accolgo, e come certo
raffigurar
mi sembra il volto e i gesti
e
la favella di quel grande Anchise
tuo
genitore! Io mi ricordo quando
Priamo
per riveder la sua sorella
Esïone
e 'l suo regno, in un passaggio
che
perciò fe' da Troia a Salamina,
toccò
d'Arcadia i gelidi confini.
De
le prime lanugini fiorito
era
il mio mento a pena allor ch'io vidi
quei
gran duci di Troia, e de' Troiani
lo
stesso re. Con molto mio diletto
gli
mirai, gli ammirai, notai di tutti
gli
abiti e le fattezze, e sopra tutti
leggiadro,
riguardevole ed altero
sembrommi
Anchise. Un desiderio ardente
mi
prese allor d'offrirmi, e d'esser conto
a
quel signore. Il visitai, gli porsi
la
destra, ospite il fei, nel mio Fenèo
meco
l'addussi. Ond'ei poscia partendo,
un
arco, una faretra e molti strali
di
Licia presentommi, e d'oro appresso
una
ricca intessuta sopravesta
con
due freni indorati ch'ancor oggi
son
di Pallante mio: sí che già ferma
è
tra noi quella fede e quella lega
ch'or
ne chiedete. E non fia il sol dimane
dal
balcon d'orïente uscito a pena,
che
le mie genti e i miei sussidi arete.
Intanto
a questa festa, che solenne
facciamo
ogni anno, e tralasciar non lece
(già
che venuti siete amici nostri),
nosco
restate, e come di compagni
queste
mense onorate». Avea ciò detto,
allor
che nuovi cibi e nuove tazze
ripor
vi fece, e lor tutti nel prato
a
seder pose; e sopra tutti Enea,
di
villoso leon disteso un tergo,
seco
al suo desco ed al suo seggio accolse.
Per
man de' sacerdoti e de' ministri
del
sacrificio, d'arrostite carni
de'
tori, di vin puro, di focacce,
gran
piatti, gran canestri e gran tazzoni
n'andaro
a torno; e co' suoi Teucri tutti
Enea
fu de le viscere pasciuto
del
saginato, a dio devoto, bue.
Tolte le mense, e 'l desiderio estinto
de
le vivande, a ragionar rivolti,
Evandro
incominciò: «Troiano amico,
questo
convito e questo sacrificio
cosí
solenne, e questo a tanto nume
sacrato
altare, instituiti e posti
non
sono a caso; ché del vero culto
e
de gli antichi dèi notizia avemo.
Per
memoria, per merito e per vóto
d'un
gran periglio sua mercé scampato,
son
questi onori a questo dio dovuti.
Mira
colà quella scoscesa rupe,
e
que' rotti macigni, e di quel colle
quell'alpestra
ruina, e quel deserto.
Ivi
era già remota e dentro al monte
cavata
una spelonca, ov'unqua il sole
non
penetrava. Abitatore un ladro
n'era,
Caco chiamato, un mostro orrendo
mezzo
fera e mezz'uomo, e d'uman sangue
avido
sí, che 'l suol n'avea mai sempre
tiepido.
Ne grommavan le pareti,
ne
pendevano i teschi intorno affissi,
di
pallor, di squallor luridi e marci.
Volcano
era suo padre; e de' suoi fochi
per
la bocca spirando atri vapori,
gia
d'un colosso, e d'una torre in guisa.
Contra
sí diro mostro, dopo molti
dannaggi
e molte morti, il tempo al fine
ne
diede e questo dio soccorso e scampo.
Egli
di Spagna vincitor ne venne
in
queste parti, de le spoglie altero
di
Gerïone, in cui tre volte estinse
in
tre corpi una vita, e ne condusse
tal
qui d'Ibèro un copïoso armento,
ch'avea
pien questo fiume e questa valle.
Caco ladron feroce e furïoso,
d'ogni
misfatto e d'ogni sceleranza
ardito
e frodolente esecutore,
quattro
tori involonne e quattro vacche,
ch'eran
fior de l'armento. E perché l'orme
indicio
non ne dessero, a rovescio
per
la coda gli trasse; e ne la grotta
gli
condusse e celogli. Eran l'impronte
de'
lor piè volte al campo, e verso l'antro
segno
non si vedea ch'a la spelonca
il
cercator drizzasse. Avea già molti
giorni
d'Anfitrïon tenuto il figlio
qui
le sue mandre, e ben pasciuto e grasso
era
il suo armento, sí che nel partire
tutte
queste foreste e questi colli
di
querimonia e di muggiti empiero.
Mugghiò
da l'altro canto, e 'l vasto speco
da
lunge rintonar fece una vacca
de
le rinchiuse: onde schernita e vana
restò
di Caco la custodia e 'l furto;
ch'udilla
Alcide, e d'ira e di furore
in
un súbito acceso, a la sua mazza,
ch'era
di quercia nodorosa e grave,
diè
di piglio, e correndo al monte ascese.
Quel
dí da' nostri primamente Caco
temer
fu visto. Si smarrí negli occhi,
si
mise in fuga, e fu la fuga un volo:
tal
gli aggiunse un timor le penne a' piedi.
Tosto che ne la grotta si rinchiuse,
allentò
le catene, e di quel monte
una
gran falda a la sua bocca oppose;
ch'a
la bocca de l'antro un sasso immane
avea
con ferri e con paterni ordigni
di
cataratta accomodato in guisa
con
puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco
Tirinzio arriva, e come è spinto
da
la sua furia, va per tutto in volta
fremendo,
ora ai vestigi, ora ai muggiti,
ora
a l'entrata de la grotta intento.
E
portato da l'impeto, tre volte
scórse
de l'Aventino ogni pendice:
tre
volte al sasso de la soglia intorno
si
mise indarno; e tre volte affannato
ritornò
ne la valle a riposarsi.
Era de la spelonca al dorso in cima
di
selce d'ogn'intorno dirupata
un
cucuzzolo altissimo ed alpestro
ch'ai
nidi d'avvoltoi e di tali altri
augelli
di rapina e di carogna
era
opportuno albergo. A questo intorno
alfin
si mise; e siccom'era al fiume
da
sinistra inchinato, egli a rincontro
lo
spinse da la destra, lo divelse,
col
calce de la mazza a leva il pose,
e
gli diè volta. A quel fracasso il cielo
rintonò
tutto, si crollâr le ripe,
e
'l fiume impaurito si ritrasse.
Allor di Caco fu lo speco aperto:
scoprissi
la sua reggia, e le sue dentro
ombrose
e formidabili caverne.
Come
chi de la terra il globo aprisse
a
viva forza, e de l'inferno il centro
discovrisse
in un tempo, e che di sopra
de
l'abisso vedesse quelle oscure
del
cielo abbominate orride bolge;
vedesse
Pluto a l'improvviso lume
restar
del sole attonito e confuso:
cotal
Caco da súbito splendore
ne
la sua tomba abbarbagliato e chiuso
digrignar
qual mastino Ercole vide;
e
non piú tosto il vide, che di sopra
sassi,
travi, tronconi, ogn'arme addosso
fulgurando
avventogli. Ei che né fuga
avea
né schermo al suo periglio altronde,
da
le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
vapori
e nubi a vomitar si diede
di
fumo, di caligine e di vampa,
tal
che miste le tenebre col foco
togliean
la vista agli occhi e 'l lume a l'antro.
Non
però si contenne il forte Alcide,
che
d'un salto in quel baratro gittossi
per
lo spiraglio, e là 'v'era del fumo
la
nebbia e l'ondeggiar piú denso, e 'l foco
piú
roggio, a lui che 'l vaporava indarno,
s'addusse,
e lo ghermí; gli fece un nodo
de
le sue braccia, e sí la gola e 'l fianco
gli
strinse che scoppiar gli fece il petto,
e
schizzar gli occhi; e 'l foco e 'l fiato e l'alma
in
un tempo gli estinse. Indi la bocca
aprí
de l'antro, e la frodata preda,
e
del suo frodatore il sozzo corpo
fuor
per un piè ne trasse, a cui d'intorno
corser
le genti a meraviglia ingorde
di
veder gli occhi biechi, il volto atroce,
l'ispido
petto e l'ammorzato foco.
Da indi in qua questo dí santo ogni anno
da'
nostri è lietamente celebrato:
e
ne sono i Potizi i primi autori,
e
i Pinari ministri. Allor quest'ara,
che
Massima si disse, e che mai sempre
massima
ne sarà, fu consecrata
in
questo bosco. Or via dunque, figliuoli,
per
celebrar tant'onorata festa,
coi
rami in fronte e con le tazze in mano
il
comun dio chiamate, e lietamente
l'un
con l'altro invitatevi, e beete».
Ciò detto, il divisato erculeo pioppo
tessero
altri in ghirlande, altri in festoni,
altri
i mai ne piantaro. E di già pieno
di
sacrato liquore il gran catino,
tutti
a mensa gioiosi s'adagiaro,
e
spargendo e beendo, ai santi numi
porser
preghiere e vóti. Espero intanto
era
a l'occidental lito vicino
già
per tuffarsi, quando i sacerdoti
un'altra
volta, e 'l buon Potizio avanti
con
pelli indosso e con facelle in mano,
com'è
costume, a convivar tornaro,
e
le seconde mense e l'are sante
di
grati doni e di gran piatti empiero.
I
Salii intorno ai luminosi altari
givano
in tresca, e di populea fronde
cingean
le tempie. I vecchi da l'un coro
le
prodezze cantavano e le lodi
del
grande Alcide; i giovini da l'altro
n'atteggiavano
i fatti: come prima
fanciul
da la matrigna insidïato
i
due serpenti strangolasse in culla;
come
al suolo adeguasse Ecalia e Troia,
città
famose; come superasse
mill'altre
insuperabili fatiche
sotto
al duro tiranno, e contr'ai fati
de l'empia dea. «Tu sei, - dicean cantando, -
invitto
iddio, che de le nubi i figli
Nilèo
e Folo uccidi; tu che 'l mostro
domi
di Creta: tu che vinci il fiero
nemèo
leone; te gl'inferni laghi,
te
l'inferno custode ebbe in orrore
ne
l'orrendo suo stesso e diro speco,
là,
've tra 'l sangue e le corrose membra
ha
de la morta gente il suo covile.
Cosa
non è sí spaventosa al mondo,
che
te spaventi, non lo stesso armato
incontr'al
ciel Tifèo; né quel di Lerna
con
tanti e tanti capi orribil angue
senza
avviso ti vide o senza ardire.
A
te vera di Giove inclita prole,
umilmente
inchiniamo, a te del cielo
nuovo
aggiunto ornamento. E tu benigno
mira
i cor nostri e i sacrifici tuoi».
Cosí pregando e celebrando in versi
cantavan
le sue pruove. E sopra tutto
dicean
di Caco e de la sua spelonca
e
de' suoi fochi: e i boschi e i colli intorno
rispondean
rintonando. Eran finiti
i
sacrifici, quando il vecchio Evandro
mosse
vèr la cittade; e seco a pari
da
l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio
avea,
cui s'appoggiava; e ragionando
di
varie cose, agevolava il calle.
Enea, meravigliando, in ogni parte
volgea
le luci, desïoso e lieto
di
veder quel paese e di saperne
i
siti, i luoghi e le memorie antiche.
Di
che spïando, il primo fondatore
de
la romana ròcca in cotal guisa
a
dir gli cominciò: «Questi contorni
eran
pria selve; e gli abitanti loro
eran
qui nati, ed eran fauni e ninfe,
e
genti che di roveri e di tronchi
nate,
né di costumi, né di culto,
né
di tori accoppiar, né di por viti,
né
d'altr'arti, o d'acquisto, o di risparmio
avean
notizia o cura: e 'l vitto loro
era
di cacciagion, d'erbe e di pomi,
e
la lor vita, aspra, innocente e pura.
Saturno
il primo fu che in queste parti
venne,
dal ciel cacciato, e vi s'ascose.
E
quelle rozze genti, che disperse
eran
per questi monti, insieme accolse
e
diè lor leggi: onde il paese poi
da
le latèbre sue Lazio nomossi.
Dicon
che sotto il suo placido impero
con
giustizia, con pace e con amore
si
visse un secol d'oro, in fin che poscia
l'età,
degenerando, a poco a poco
si
fe' d'altro colore e d'altra lega.
Quinci
di guerreggiar venne il furore,
l'ingordigia
d'avere, e le mischianze
de
l'altre genti. L'assalîr gli Ausoni;
l'inondaro
i Sicani; onde piú volte
questa,
che pria Saturnia era nomata,
ha
con la signoria cangiato il nome,
e
co' signori. E quinci è che da Tebro,
che
ne fu re terribile ed immane,
Tebro
fu detto questo fiume ancóra,
ch'Àlbula
si dicea ne' tempi antichi.
Ed
ancor me de la mia patria in bando,
dopo
molti perigli e molti affanni
del
mar sofferti, ha qui l'onnipotente
fortuna
e l'invincibil mio destino
portato
alfine; e qui posar mi fêro
gli
oracoli tremendi e spaventosi
di
Carmenta mia madre, e Febo stesso
che
mia madre inspirava». E fin qui detto,
si
spinse avanti; e quell'ara mostrogli,
e
quella porta che fu poi di Roma,
Carmental
detta, onore e ricordanza
de
la ninfa indovina, ch'anzi a tutti
del
Pallantèo predisse e de' Romani
la
futura grandezza. Indi seguendo,
un
gran bosco gli mostra, ove l'Asilo
Romolo
contraffece; e 'l Lupercale,
che,
quale era in Arcadia a Pan Liceo,
sotto
una fredda rupe era dicato.
Poscia
de l'Argileto gli dimostra
la
sacra selva; e d'Argo ospite il caso
gli
conta, e se ne purga e se ne scusa.
A
la Tarpeia rupe, al Campidoglio
poscia
l'addusse; al Campidoglio or d'oro,
che
di spini in quel tempo era coverto:
un
ermo colle dai vicini agresti
per
la religïon del loco stesso
insino
allor temuto e riverito:
ch'a
veder sol quel sasso e quella selva
si
paventava. E qui soggiunse Evandro:
«In questo bosco, e là 've questo
monte
è
piú frondoso, un dio, non si sa quale,
ma
certo abita un dio. Queste mie genti
d'Arcadia
han ferma fede aver veduto
qui
Giove stesso balenar sovente,
e
far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi
qui
su, quelle ruine e quei vestigi
di
quei due cerchi antichi. Una di queste
città
fondò Saturno, e l'altra Giano,
che
Saturnia e Gianicolo fûr dette».
In cotal guisa ragionando Evandro,
se
ne gian verso il suo picciolo ostello.
E
ne l'andar, là 'v'or di Roma è il Foro,
ov'è
quella piú florida contrada
de
le Carine, ad ogni passo intorno
udian
greggi belar, mugghiare armenti.
Giunti
che furo: «In questo umile albergo
alloggiò
- disse - il vincitore Alcide.
Questa
fu la sua reggia. E tu v'alloggia,
e
tu 'l gradisci, e le delizie e gli agi
spregiando,
imita in ciò Tirinzio e dio,
e
del tugurio mio meco t'appaga».
Cosí
dicendo, il grand'ospite accolse
ne
l'angusta magione, e collocollo
là
dove era di frondi e d'irta pelle
di
libic'orsa attappezzato un seggio.
Venne la notte, e le fosc'ali stese
avea
di già sovra la terra, quando
Venere
come madre, e non in vano
del
suo figlio gelosa, il gran tumulto
veggendo
e le minacce de' Laurenti,
con
Volcan suo marito si ristrinse
con
gran dolcezza; in tal guisa gli disse:
«Caro
consorte, infinché i regi Argivi
furo
a' danni di Troia, e che per fato
cader
dovea, nullo da te soccorso
volsi,
o da l'arte tua; né ti richiesi
d'armi
allor, né di macchine, né d'altro
per
iscampo de' miseri Troiani.
Le
man, l'ingegno tuo, le tue fatiche
oprar
non volli indarno, ancor che molto
con
Prïamo e co' figli obbligo avessi,
e
molto mi premesse il duro affanno
d'Enea
mio figlio. Or per imperio espresso
e
de' fati e di Giove egli nel Lazio
e
tra' Rutuli è fermo. A te, mio sposo,
ricorro,
a te, mio venerando nume;
e,
madre, per un figlio arme ti chieggio;
quel
che da te di Nèrëo la figlia,
e
di Titon la moglie hanno impetrato.
Mira
in quant'uopo io le ti chieggio, e quanti
e
che popoli sono, a mia ruina
e
de' miei, congregati; e qual fan d'armi
a
porte chiuse orribile apparecchio».
E 'l buon marito, che d'eterno amore
avea
il cor punto, le si volse, e disse:
«A
che sí lungo esordio? Ov'è, consorte,
vèr
me la tua fidanza? Io fin d'allora,
se
t'era grado, avrei d'arme provvisti
i
Teucri tuoi; né 'l padre onnipotente,
né
i fati ci vietavano che Troia
non
si tenesse, e Prïamo non fosse
restato
ancor per diece altr'anni in vita.
Ed
or s'a guerra t'apparecchi, e questo
è
tuo consiglio, quel che l'arte puote
o
di ferro o di liquido metallo,
quanto
i mantici han fiato, e forza il foco,
io
ti prometto. E tu con questi preghi
cessa
di rivocar la possa in forse
del
tuo volere, e 'l mio desir ch'è sempre
di
far le voglie tue paghe e contente».
Finito il primo sonno, e de la notte
già
corso il mezzo, come femminella
che
col fuso, con l'ago e con la spola
la
sua vita sostenta e de' suoi figli;
che
la notte aggiungendo al suo lavoro,
e
dal suo focolar pria che dal sole
procacciandosi
'l lume, a la conocchia,
a
l'aspo, a l'arcolaio esercitando
sta
le povere ancelle, onde mantenga
il
casto letto e i pargoletti suoi;
tale
in tal tempo, e con tal cura a l'opra
surse
il gran fabbro, e la fucina aperse.
Giace tra la Sicania da l'un canto,
e
Lipari da l'altro un'Isoletta
ch'alpestra
ed alta esce de l'onde, e fuma.
Ha
sotto una spelonca, e grotte intorno,
che
di feri Ciclopi antri e fucine
son,
da' lor fochi affumicati e rosi.
Il
picchiar de l'incudi e de' martelli
ch'entro
si sente, lo stridor de' ferri,
il
fremere e 'l bollir de le sue fiamme
e
de le sue fornaci, d'Etna in guisa
intonar
s'ode ed anelar si vede.
Questa
è la casa, ove qua giú s'adopra
Volcano,
onde da lui Volcania è detta;
e
qui per l'armi fabbricar discese
del
grand'Enea. Stavan ne l'antro allora
Stèrope
e Bronte e Piracmóne ignudi
a
rinfrescar l'aspre saette a Giove.
Ed
una allor n'avean parte polita,
parte
abbozzata, con tre raggi attorti
di
grandinoso nembo, tre di nube
pregna
di pioggia, tre d'acceso foco,
e
tre di vento impetuoso e fiero.
I
tuoni v'aggiungevano e i baleni,
e
di fiamme e di furia e di spavento
un
cotal misto. Altrove erano intorno
di
Marte al carro, e le veloci ruote
accozzavano
insieme, ond'egli armato
le
genti e le città scuote e commuove.
Lo
scudo, la corazza e l'elmo e l'asta
avean
da l'altra parte incominciati
de
l'armigera Palla, e di commesso
la
fregiavano a gara. Erano i fregi
nel
petto de la dea gruppi di serpi
che
d'oro avean le scaglie, e cento intrichi
facean
guizzando di Medusa intorno
al
fiero teschio, che cosí com'era
disanimato
e tronco, le sue luci
volgea
d'intorno minacciose e torve.
Tosto
che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi -
sgombratevi
davanti ogni lavoro,
e
qui meco guarnir d'arme attendete
un
gran campione. E s'unqua fu mestiero
d'arte,
di sperïenza e di prestezza,
è
questa volta. Or v'accingete a l'opra
senz'altro
indugio». E fu ciò detto a pena,
che,
divise le veci e i magisteri,
a
fondere, a bollire, a martellare
chi
qua chi là si diede. Il bronzo e l'oro
corrono
a rivi; s'ammassiccia il ferro,
si
raffina l'acciaio; e tempre e leghe
in
piú guise si fan d'ogni metallo.
Di
sette falde in sette doppi unite,
ricotte
al foco e ribattute e salde,
si
forma un saldo e smisurato scudo,
da
poter solo incontro a l'armi tutte
star de' Latini. Il fremito del vento
che
spira da' gran mantici, e le strida
che
ne' laghi attuffati, e ne l'incudi
battuti,
fanno i ferri, in un sol tuono
ne
l'antro uniti, di tenore in guisa
corrispondono
a' colpi de' Ciclopi,
ch'al
moto de le braccia or alte or basse
con
le tenaglie e co' martelli a tempo
fan
concerto, armonia, numero e metro.
Mentre in Eolia era a quest'opra intento
di
Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole,
surse
al cantar de' mattutini augelli
il
vecchio Evandro; e fuori uscio vestito
di
giubba con le guigge a' piedi avvolte,
com'è
tirrena usanza. Avea dal destro
omero
a la Tegèa nel manco lato
una
sua greca scimitarra appesa.
Avea
da la sinistra di pantera
una
picchiata pelle, che d'un tergo
gli
si volgea su l'altro; e da la ròcca
scendendo,
gli venian due cani avanti,
come
custodi i suoi passi osservando.
In
questa guisa il generoso eroe,
come
quei che tenea memoria e cura
di
compir quanto avea la sera avanti
ragionato
e promesso, a le secrete
stanze
del padre Enea si ricondusse.
Enea
da l'altra parte assai per tempo
s'era
levato: e solo in compagnia
l'un
seco avea Pallante, e l'altro Acate.
Poscia
che rincontrati e 'nsieme accolti
si
salutaro, alfin, tra loro assisi,
a
ragionar si diêro. E prima Evandro
cosí
parlò: «Signor, cui vivo, in vita
dir
si può che sia Troia, e che del tutto
non
sia caduta e vinta; in questa guerra
quel
che poss'io per tuo sussidio è poco
a
tanto affare. Il mio paese è chiuso
quinci
dal tosco fiume, e quindi ha l'armi
che
gli suonan de' Rutuli d'intorno
fin
sulle porte. Avviso e pensier mio
è
per confederati e per compagni
darti
una gente numerosa e grande
con
molti regni. In tal qui tempo a punto
sei
capitato, e tal felice incontro
ti
porge amica e non pensata sorte.
È non lunge di qui, su questi monti
d'Etruria,
una famosa e nobil terra
ch'è
sopra un sasso anticamente estrutta;
Agillina
si dice, ove lor seggio
posero
(è già gran tempo) i bellicosi
e
chiari Lidi: e floridi e felici
vi
fûr gran tempo ancora. Or sotto il giogo
son
di Mezenzio capitati al fine.
A
che di lui contar le sceleranze?
A
che la ferità? Dio le riservi
per
suo castigo e de' seguaci suoi.
Questo
crudele insino a' corpi morti
mescolava
co' vivi (odi tormento)
che
giunte mani a mani, e bocca a bocca
in
cosí miserando abbracciamento
gli
facea di putredine e di lezzo,
vivi,
di lunga morte alfin morire.
I cittadini afflitti, disperati,
e
fatti per paura alfin securi,
tesero
insidie a lui, fecero strage
de'
suoi, posero assedio, avventâr foco
a
le sue case. Ei de le mani uscito
degli
uccisori, ebbe rifugio a Turno
ch'or
l'accoglie e 'l difende. Onde commossa
e
per giusta cagione in furia volta
l'Etruria
tutta in contra al suo tiranno
grida
che muoia, e già con l'armi in mano
a
morte lo persegue. A questa gente
di
molte mila condottiero e capo
aggiungerotti.
E già d'armate navi
son
pieni i liti: ognun freme, ognun chiede
che
si spieghin l'insegne. Un vecchio solo
aruspice
e 'ndovino è, che sospesi
gli
tiene infino a qui: "Gente meonia, -
dicendo,
- fior di gente antica e nobile,
benché
giusto dolor contra a Mezenzio,
e
degn'ira v'incenda, incontro a Lazio
non
movete voi già; ch'a nessun Italo
domar
d'Italia una tal gente è lecito,
s'esterno
duce a tant'uopo non prendesi".
Cosí parato, e per timor confuso
del
vaticinio stassi il campo etrusco.
E
già Tarconte stesso a questa impresa
m'invita,
e già mandato a presentarmi
ha
la sedia e lo scettro e l'altre insegne
del
tosco regno, perch'io re ne sia,
ed
a l'oste ne vada. Ma la tarda
e
fredda mia vecchiezza, e le mie forze
debili,
smunte e diseguali al peso
fan
ch'io rifiuti. Esorterei Pallante
mio
figlio a questo impero, se non fosse
che
nato di Sabella, Italo anch'egli
è
per materna razza. Or questo incarco
dagli
anni, da la gente, dal destino,
dal
tuo stesso valore a te si deve.
E
tu il prendi, signor, ch'abile e forte
sei
piú d'ogni Troian, d'ogni Latino
a
sostenerlo. Ed io Pallante mio,
la
mia speranza e 'l mio sommo conforto,
manderò
teco; che 'l mestier de l'arme,
che
le fatiche del gravoso Marte
ne
la tua scuola a tollerare impari:
e
te da' suoi prim'anni, e i gesti tuoi
meravigliando
ad imitar s'avvezze.
Dugento
cavalieri, il nervo e 'l fiore
de'
miei d'Arcadia, spedirò con lui,
e
dugento altri il mio Pallante stesso
in
suo nome daratti». Avea ciò detto
Evandro
a pena, che d'Anchise il figlio
e
'l fido Acate stêr co' volti a terra
chinati.
E da pensier gravi e molesti
fôran
oppressi, se dal ciel sereno
la
madre Citerea segno non dava,
sí
come diè. Ché tal per l'aria un lume
vibrossi
d'improvviso e con tal suono,
che
parve di repente il mondo tutto
come
scoppiando e ruinando ardesse;
ed
in un tempo di tirrene tube
squillar
ne l'aura alto concento udissi.
Alzaron
gli occhi: e la seconda volta,
e
la terza iterar sentiro il tuono;
e
vider là 've il cielo era piú scarco
e
piú tranquillo, una dorata nube
e
d'armi un nembo che tra lor percosse,
scintillando,
facean fremiti e lampi.
Stupiron
gli altri. Ma il troiano eroe
che
'l cenno riconobbe e la promessa
de
la diva sua madre: «Ospite, - disse, -
di
saver non ti caglia quel ch'importi
questo
prodigio; basta ch'ammonito
son
io dal cielo, e questo è 'l segno e 'l tempo,
che
la mia genitrice mi predisse:
che
quandunque di guerra incontro avessi,
allora
ella dal ciel presta sarebbe
con
l'armi di Volcano a darmi aíta.
Oh
quanta di voi strage mi prometto,
infelici
Laurenti! e qual castigo
Turno,
da me n'avrai! quant'armi, quanti
corpi
volgere al mar, Tebro, ti veggio!
Via,
patto e guerra mi si rompa omai».
Cosí detto, dal soglio alto levossi:
e
con Evandro e co' suoi Teucri in prima
d'Ercole
visitando i santi altari,
il
sopito carbon del giorno avanti
lieto
desta e raccende; i Lari inchina;
i
pargoletti suoi Penati adora,
e
di piú scelte agnelle il sangue offrisce.
Indi torna a le navi, e de' compagni
fatte
due parti, la piú forte elegge
per
seco addurre a preparar la guerra:
l'altra
a seconda per lo fiume invia,
che
pianamente e senz'alcun contrasto
si
rivolga ad Ascanio, e dia novelle
de
le cose e del padre. A quei che seco
in
Etruria adducea, tosto provvisti
furo
i cavalli. A lui venne in disparte
da
tutti gli altri un palafreno eletto,
di
pelle di leon tutto coverto,
ch'i
velli avea di seta e l'ugna d'oro.
Per la piccola terra in un momento
si
sparge il grido ch'ai tirreni liti
ne
va lo stuol de' cavalieri in fretta.
Le
madri, paventose, ai templi intorno
rinnovellano
i vóti; e già per téma
piú
vicino il periglio, e piú l'aspetto
sembra
di Marte atroce. Evandro il figlio
nel
dipartir teneramente abbraccia;
né
divelto da lui, né sazio ancora
di
lagrimar, gli dice: «O se da Giove
mi
fosse, figlio, di tornar concesso
ora
in quegli anni e 'n quelle forze, ond'io
sotto
Preneste il primo incontro fei
co'
miei nemici, e vincitore i monti
arsi
de' scudi, allor ch'Èrilo stesso,
lo
stesso re con queste mani ancisi,
a
cui nascendo avea Feronia madre
date
tre vite e tre corpi, e tre volte
(meraviglia
a contarlo!) era mestiero
combatterlo
e domarlo; ed io tre volte
lo
combattei, lo vinsi, e lo spogliai
d'armi
e di vita; se tal, dico, io fossi,
mai
non sarei da te, figlio, diviso;
mai
non fôra Mezenzio oso d'opporsi
a
questa barba; né per tal vicino
vedova
resterebbe or la mia terra
di
tanti cittadini. O dii superni,
o
de' superni dii nume maggiore,
pietà
d'un re servo e devoto a voi,
e
d'un padre che padre è sol d'un figlio
unicamente
amato. E se da' fati,
se
da voi m'è Pallante preservato,
e
s'io vivo or per rivederlo mai,
questa
mia vita preservate ancora
con
quanti unqua soffrir potessi affanni.
Ma
se fortuna ad infortunio il tragge,
ch'io
dir non oso, or or, prego, rompete
questa
misera vita, or ch'è la téma,
or
ch'è la speme del futuro incerta,
e
che te, figlio mio, mio sol diletto
e
da me desïato in braccio io tengo,
anzi
ch'altra novella me ne venga,
che
'l cor pria che gli orecchi mi percuota».
Cosí
'l padre ne l'ultima partita
disse
al suo figlio; e da l'ambascia vinto,
fu
da' sergenti riportato a braccio.
A
la campagna i cavalieri intanto
erano
usciti. Enea col fido Acate,
e
co' suoi primi era nel primo stuolo;
Pallante
in mezzo risplendea ne l'armi
commesse
d'oro, risplendea ne l'ostro
che
l'arme avean per sopravesta intorno;
ma
via piú risplendea ne' suoi sembianti
ch'eran
di fiero e di leggiadro insieme.
Tale
è quando Lucifero, il piú caro
lume
di Citerea, da l'Oceàno,
quasi
da l'onde riforbito, estolle
il
sacro volto, e l'aura fosca inalba.
Stan le timide madri in su le mura
pallide
attentamente rimirando
quanto
puon lunge il polveroso nembo
de
l'armate caterve, e i lustri e i lampi
che
facean l'armi tra i virgulti e i dumi
lungo
le vie. Va per la schiera il grido
che
si cavalchi; e lo squadron già mosso
al calpitar de la ferrata torma
fa
'l campo risonar tremante e trito.
È di Cere vicino, appo il gelato
suo
fiume un sacro bosco antico e grande
d'ombrosi
abeti, che da cavi colli
intorno
è cinto, venerabil molto
e
di gran lunge. È fama che i Pelasgi,
primi
del Lazio occupatori esterni,
a
Silvan, dio de' campi e degli armenti,
consecrâr
questa selva, e con solenne
rito
gli dedicâr la festa e 'l giorno.
Quinci
poco lontano era Tarconte
co'
Tirreni accampato; e qui del campo
giunti
a la vista, là 've un alto colle
lo
scopria tutto. Enea, co' primi suoi
fermossi,
ove i cavalli e i corpi loro
già
stanchi ebbero alfin posa e ristoro.
Era Venere in ciel candida e bella
sovr'un
etereo nembo apparsa intanto
con
l'armi di Volcano; e visto il figlio
ch'oltre
al gelido rio per erma valle
sen
gia da gli altri solitario e scevro,
apertamente
gli s'offerse, e disse:
«Eccoti
'l don che da me, figlio, attendi,
di
man del mio consorte. Or francamente
gli
orgogliosi Laurenti e 'l fiero Turno
sfida
a battaglia, e gli combatti e vinci».
E,
ciò detto, l'abbraccia. Indi gli addita
d'armi
quasi un trofeo, ch'appo una quercia
dianzi
da lei diposte, incontro agli occhi
facean
barbaglio, e, contro al sol, piú soli.
D'un tanto dono Enea, d'un tale onore
lieto,
e non sazio di vederlo, il mira,
l'ammira
e 'l tratta. Or l'elmo in man si prende
e
l'orribil cimier contempla e 'l foco
che
d'ogni parte avventa: or vibra il brando
fatale;
or ponsi la corazza avanti
di
fino acciaio e di gravoso pondo,
che
di sanguigna luce e di colori
diversamente
accesi era splendente:
qual
sembra di lontan cerulea nube,
arder
col sole e varïar col moto.
Brandisce
l'asta; gli stinier vagheggia
nitidi
e lievi, che fregiati e fusi
son
di fin oro e di forbito elettro.
Meravigliando
alfin sopra lo scudo
si
ferma, e l'incredibile artificio
ond'era
intesto, e l'argomento esplora.
In questo di commesso e di rilievo
avea
fatto de' fochi il gran maestro
(come
de' vaticini e del futuro
presago
anch'egli) con mirabil arte
le
battaglie, i trionfi e i fatti egregi
d'Italia,
de' Romani e de la stirpe
che
poi scese da lui; dal figlio Ascanio
incominciando,
i discendenti tutti
e
le guerre che fêr di mano in mano.
V'avea
del Tebro in su la verde riva
finta
la marzïal nudrice lupa
in
un antro accosciata, e i due gemelli
che
da le poppe di sí fiera madre
lascivetti
pendean, senza paura
seco
scherzando. Ed ella umíle e blanda
stava
col collo in giro, or l'uno or l'altro
con
la lingua forbendo e con la coda.
V'era
poco lontan Roma novella
con
una pompa, e con un circo avanti
pien
di tumulto, ov'era un'insolente
rapina
di donzelle, un darsi a l'arme
infra
Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
E
poscia infra gli stessi regi armati,
di
Giove anzi a l'altare un tener tazze
invece
d'armi in mano, un ferir d'ambe
le
parti un porco, e far connubi e pace.
Né di qui lunge, erano a quattro a quattro
giunti
a due carri otto destrier feroci,
che,
qual Tullo imponea (stato non fossi
tu
sí mendace e traditore, Albano!)
in
due parti traean di Mezio il corpo;
e
sí com'era tratto, i brani e 'l sangue
ne
mostravan le siepi, i carri e 'l suolo.
V'era,
oltre a ciò, Porsenna, il tosco rege,
ch'imperiosamente
da l'esiglio
rivocava
i Tarquini, e 'n duro assedio
ne
tenea Roma, che del giogo schiva
s'avventava
nel ferro. Avea nel volto
scolpito
questo re sdegno e minacce,
e
meraviglia, che sol Cocle osasse
tener
il ponte; e Clelia, una donzella,
varcar
il Tebro e sciôr la patria e lei.
In cima dello scudo il Campidoglio
era
formato e la Tarpeia rupe,
e
Manlio che del tempio e de la ròcca
stava
a difesa; e la romulea reggia
che
'l comignolo avea di stoppia ancora.
Tra'
portici dorati iva d'argento
l'ali
sbattendo e schiamazzando un'oca,
ch'apria
de' Galli il periglioso agguato:
e
i Galli per le macchie e per le balze
de
l'erta ripa, da la buia notte
difesi,
quatti quatti erano in cima
già
de la ròcca ascesi. Avean le chiome,
avean
le barbe d'oro: aveano i sai
di
lucid'ostri divisati a liste,
e
d'òr monili ai bianchi colli avvolti.
Di
forti alpini dardi avea ciascuno
da
la destra una coppia, e ne' pavesi
stavan
coi corpi rannicchiati e chiusi.
Quinci de' Salii e de' Luperci ignudi,
e
de' greggi de' Flàmini scolpito
v'avea
le tresche e i cantici e i tripudi,
ed
essi tutti o coi lor fiocchi in testa,
o
con gli ancili e con le tibie in mano:
cui
le sacre carrette ivano appresso
coi
santi simulacri e con gli arredi,
che
traean per le vie le madri in pompa.
E piú lunge nel fondo era la bocca
de
la tartarea tomba, e del gran Dite
la
reggia aperta: ov'anco eran le pene
e
i castighi degli empi. E quivi appresso
stavi
tu, scellerato Catilina,
sopra
d'un ruinoso acuto scoglio
agli
spaventi de le Furie esposto.
E
scevri eran da questi i fortunati
luoghi
de' buoni, a cui 'l buon Cato è duce.
Gonfiava in mezzo una marina d'oro
con
la spuma d'argento, e con delfini
d'argentino
color, che con le code
givan
guizzando, e con le schiene in arco
gli
aurati flutti a loco a loco aprendo.
E
i liti e 'l mare e 'l promontorio tutto
si
vedea di Leucàte a l'azia pugna
star
preparati; e d'una parte Augusto
sovra
d'un'alta poppa aver d'intorno
Europa,
Italia, Roma e i suoi Quiriti,
e
'l senato e i Penati e i grandi iddii.
Di
tre stelle il suo volto era lucente.
Due
ne facea con gli occhi, ed una sempre
del
divo padre ne portava in fronte.
Ne
l'altro corno Agrippa era con lui
del
marittimo stuolo invitto duce,
ch'altero,
e 'l capo alteramente adorno
de
la rostrata sua naval corona,
i
vènti e i numi avea fausti e secondi.
Da l'altra parte vincitore Antonio,
di
vèr l'aurora e di vèr l'onde rubre
barbari
aiuti, esterne nazïoni
e
diverse armi dal Cataio al Nilo
tutto
avea seco l'Orïente addotto:
e
la zingara moglie era con lui,
milizia
infame. Ambe le parti mosse
se
ne gian per urtarsi, e d'ambe il mare
scisso
da' remi e da' stridenti rostri
lacero
si vedea, spumoso e gonfio.
Prendean
de l'alto i legni in tanta altezza,
che
Cicladi con Cicladi divelte
parean
nel mar gir a 'ncontrarsi, o 'n terra
monti
con monti: da sí fatte moli
avventavan
le genti e foco e ferro,
onde
il mar tutto era sanguigno e roggio.
Stava qual Isi la regina in mezzo
col
patrio sistro, e co' suoi cenni il moto
dava
alla pugna; e non vedea (meschina!)
quai
due colúbri le venian da tergo.
L'abbaiatore
Anúbi e i mostri tutti,
ch'eran
suoi dii, contra Nettuno e contra
Venere
e Palla armati eran con lei,
e
Marte in mezzo, che nel campo d'oro
di
ferro era scolpito, or questi or quelli
a
la zuffa infiammava: e l'empie Furie
co'
lor serpenti, la Discordia pazza
col
suo squarciato ammanto, con la sferza
di
sangue tinta la crudel Bellona
sgominavan
le genti; e l'azio Apollo
saettava
di sopra: agli cui strali
l'Egitto
e gl'Indi e gli Arabi e i Sabei
davan
le spalle. E già chiamare i vènti,
scioglier
le funi, inalberar le vele
si
vedea la regina a fuggir vòlta;
già
del pallor de la futura morte,
ond'era
dal gran fabbro il volto aspersa,
in
abbandono a l'onde, e de la Puglia
ne
giva al vento. Avea d'incontro il Nilo,
un
vasto corpo, che, smarrito e mesto,
a'
vinti aperto il seno e steso il manto,
i
latebrosi suoi ridotti offriva.
Cesare v'era alfin che trïonfando
tre
volte in Roma entrava; e per trecento
gran
templi a' nostri dii vóti immortali
si
vedean consecrati. Eran le strade
piene
tutte di plauso, di letizia,
e
di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
concorso
di matrone; ad ogni altare
vittime,
incensi e fiori. Egli di Febo
anzi
al delúbro in maestade assiso
riconoscea
de' popoli i tributi,
e
la candida soglia e le superbe
sue
porte ne fregiava. Iva la pompa
de
le genti da lui domate intanto
varie
di gonne, d'idïomi e d'armi.
Qui
di Nomadi e d'Afri era una schiera
in
abito discinta; ivi un drappello
di
Lèlegi, di Cari e di Geloni
con
archi e strali. Infin dai liti estremi
i
Mòrini condotti erano al giogo,
e
gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio
giva
l'Eufrate: ambe le corna fiacche
portava
il Reno: disdegnoso il ponte
nel
dorso si scotea l'Armenio Arasse.
A tal, da tanta madre avuto dono,
e
d'un tanto maestro, Enea mirando,
benché
il velame del futuro occulte
gli
tenesse le cose, ardire e speme
prese
e gioia a vederle; e de' nepoti
la
gloria e i fati agli omeri s'impose.
Mentre cosí de' suoi scevro e lontano,
Enea
fa d'armi e di sussidi acquisto,
Giuno
di concitar la furia e l'ira
di
Turno unqua non resta. Erasi Turno
col
pensier della guerra al sacro bosco
di
Pilunno suo padre allor ridotto,
che
mandata da lei di Taümante
gli
fu la figlia in cotal guisa a dire:
«Ecco, quel che tu mai chiedere a lingua,
o
'mpetrar dagli dèi, Turno, potessi,
per
sé l'occasïon ti porge e 'l tempo.
Enea,
mentre dagli altri implora aíta,
le
sue mura, i suoi legni e le sue genti
lascia
ora a te, se tu 'l conosci, in preda.
Ei
coi migliori al palatino Evandro
se
n'è passato, e quindi è ne l'estremo
penetrato
d'Etruria. Ora è nel campo
de'
Toschi, e favvi indugio, ed arma agresti.
E
tu qui badi or che di carri e d'armi
e
di prestezza è d'uopo? E che non prendi
i
suoi steccati che son or di tanto
per
l'assenza di lui turbati e scemi?»
Poscia
che cosí disse, alto su l'ali
la
dea levossi; e tra l'opache nubi
per
entro al suo grand'arco ascese e sparve.
Turno, che la conobbe, ambe a le stelle
alza
le palme; e nel fuggir con gli occhi
seguilla
e con la voce: «Iri, - dicendo, -
lume
e fregio del cielo, e chi ti spiega
or
da le nubi? E chi quaggiú ti manda?
Ond'è
l'aër sí chiaro e sí tranquillo
cosí
repente? Io veggio aprirsi il cielo,
vagar
le stelle. O qual tu de' celesti
sii,
ch'a l'armi m'inviti, io lieto accetto
un
tanto augurio, e lo gradisco e 'l seguo».
Cosí
dicendo al fiume si rivolse;
n'attinse;
se ne sparse; e preci e vóti
molte
fïate al ciel porse e riporse.
Eran già le sue genti a la campagna,
e
de' cavalli il condottier Messàpo
di
ricca sopraveste ornato e d'oro
movea
davanti. I giovini di Tirro
tenean
l'ultime squadre, e Turno in mezzo
con
tutto il capo a tutta la battaglia
sopravanzando,
armato cavalcava
per
l'ordinanza. In cotal guisa i campi
primieramente
inonda il Gange o 'l Nilo
con
sette fiumi; indi ristretto e queto
correndo,
entro al suo letto si raccoglie.
Qui d'improvviso d'un oscuro nembo
di
polve il ciel ravvilupparsi i Teucri
scorgon
da lunge, e 'ntorbidarsi i campi.
Caíco
il primo da l'avversa mole
gridando:
«O, - disse, - cittadini, un gruppo
vèr
noi di polverio ne l'aura ondeggia.
Ognuno
a l'armi; ognun a la muraglia:
ecco
i nemici». Di ciò corre il grido
per
tutta la città; chiuggon le porte:
empion
le mura. Tale avea, partendo,
dato
il sagace Enea precetto e norma,
ch'in
caso di rottura, a campo aperto
senza
lui non s'ardisse o spiegar schiere
o
far conflitto; e solo a la difesa
s'attendesse
del cerchio. Ira e vergogna
gli
animava a la zuffa: editto e téma
gli
ritenea del duce. Ond'entro armati
ne
le torri, in su' merli e ne' ripari
aspettaro
i nemici. A lento passo
procedea
l'ordinanza; e Turno a volo
con
venti eletti cavalieri avanti
si
spinse e d'improvviso appresentossi.
Cavalcava
di Tracia un gran corsiero,
di
bianche macchie il vario tergo asperso,
e
'l suo dorato e luminoso elmetto
d'alto
cimier copria cresta vermiglia.
Qui fermo: «Chi di voi, giovini, - disse, -
meco
sarà, contr'a' nemici il primo?»
E
quel ch'era di pugna indizio e segno,
l'asta
a l'aura avventando, alteramente
trascorse
il campo, ed ingaggiò battaglia.
Con
alte grida e con orribil voci
fremendo
lo seguiro i suoi compagni,
non
senza meraviglia che sí vili
fossero
i Teucri a non osar del pari
uscirgli
a fronte, non mostrarsi in campo,
ferir
da lunge, e di muraglia armarsi.
Turno
di qua di là turbato e fiero
si
spinge e scorre il piano, e cerchia il muro,
e
d'entrar s'argomenta ov'anche è chiuso.
Come rabbioso ed affamato lupo
al
pieno ovile insidïando, freme
la
notte, al vento ed a la pioggia esposto;
quando
sotto le madri i puri agnelli
belan
securi, ed ei la fame e l'ira
incontro
a lor che gli son lunge, accoglie;
cosí
gli occhi di foco e 'l cor di sdegno
il
Rutulo infiammato, anelo e fiero
va
de' nimici agli steccati intorno,
ogni
loco, ogni astuzia, ogni sentiero
lnvestigando,
onde o co' suoi vi salga
o
lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano.
Alfin l'armata assaglie, ch'a' ripari
da
l'un canto congiunta, entro un canale
d'onde
e d'argini cinta, era nascosta.
Qui
foco esclama, e foco di sua mano
con
un ardente pino a' suoi seguaci
dispensa,
e lor con la presenza accende:
onde
tosto e le faci e i legni appresi,
fumo,
fiamme, faville e vampi e nubi
e
volumi di pece al ciel n'andaro.
Muse, ditene or voi qual nume allora
scampò
de' Teucri i legni, e come un tanto
de
la novella Troia incendio estinse.
Fama
di tempo in tempo e prisca fede
n'avvera
il fatto, e voi conto ne 'l fate.
Dicon che quando a navigar costretto
Enea
primieramente i suoi navili
a
formar cominciò nel bosco idèo:
d'Ida,
di Berecinto e degli dèi
la
madre, al sommo Giove orando, disse:
«Figlio,
che sei per me de l'universo
monarca
eterno, a me tua cara madre
fa
quel ch'io chieggio, e tu mi devi, onore.
È
nel Gàrgaro giogo un bosco in cima
da
me diletto, ed al mio nume additto
già
di gran tempo. Era d'abeti e d'aceri
e
di pini e di peci ombroso e denso;
ma
quando de l'armata ebbe uopo in prima
il
giovine troiano, al magistero
volentier
de' suoi legni il concedei.
Quinci
uscîr le sue navi; e come figlie
di
quella selva, a me son sacre e care
sí
ch'or ne temo; e del timor che n'aggio
priego
che m'assicuri: e 'l priego mio
questo
possa appo te, che tanto puoi,
che
né da corso mai, né da fortuna
sian
di vènti, o di flutti, o di tempeste
squassate
o vinte: e lor vaglia che nate
son ne' miei monti». A cui Giove rispose:
«Madre, a che stringi i fati? E qual, per cui
cerchi
tu privilegio? A mortal cosa
farò
dono immortale? E mortal uomo
non
sarà sottoposto a' rischi umani?
Ed
a qual degli dèi tanto è permesso?
Piú
tosto allor che saran giunte al fine,
e
che in porto saranno, a quelle tutte
che,
scampate da l'onde il teucro duce
avran
ne' campi di Laurento esposto,
torrò
la mortal forma, e dee farolle,
che
qual di Nèreo, e Doto, e Galatea
fendan
coi petti e con le braccia il mare».
Cosí
detto, il torrente e la vorago
e
la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte
giurando, abbassò 'l ciglio,
e
fe' tutto tremar col cenno il mondo.
Or questo era quel dí, quest'era il fine
da
le Parche dovuto ai teucri legni:
onde
la madre idèa contra l'oltraggio
si
fe' di Turno, e gli sottrasse al foco.
Primieramente
inusitata luce
balenando
rifulse; indi un gran nembo
di
coribanti per lo ciel trascorse
di
vèr l'aurora; ed una voce udissi
ch'empié
di meraviglia e di spavento
l'un
esercito e l'altro: «O miei Troiani, -
dicendo,
- non vi caglia a' miei navili
porger
soccorso; né perciò nel campo
uscite
a rischio. Arderà Turno il mare
pria
che le sacre a me dilette navi,
e
voi, mie navi, itene sciolte: e dee
siate
del mare. Io genitrice vostra
lo
vi comando». A questa voce, in quanto
udissi
a pena, s'allentâr le funi
de'
lor ritegni; e di delfini in guisa
coi
rostri si tuffaro. Indi sorgendo
(mirabil
mostro!), quante a riva in prima
eran
le navi, tanti di donzelle
si
vider per lo mar sereni aspetti.
Sgomentaronsi i Rutuli; e Messapo
co'
suoi cavalli attonito fermossi.
Il
padre Tiberin roco mugghiando
dal
mar fuggissi. Né perciò di Turno
cessò
l'audacia, anzi via piú feroce,
gli
altri esortando e riprendendo: «Ah, - disse, -
di
che temete? Incontro ai Teucri stessi
vengon
questi prodigi; e loro ha Giove
de
le lor forze esausti. Il ferro e 'l fuoco
non
aspettan de' Rutuli: han del mare
perduta
e de la fuga ogni speranza.
Essi
del mare infino a qui son privi;
e
la terra è per noi: tante son genti
d'Italia
in arme. Nè tem'io de' vanti
che
de' lor vaticini e de' lor fati
da
lor si dànno. Assai de' fati, assai
è
l'intento di Venere adempito,
che
son nel Lazio. E 'ncontro ai fati loro
son
anco i miei, che tôr del Lazio io deggia,
anzi
del mondo, questi scellerati
de
l'altrui donne usurpatori e drudi:
ché
non soli gli Atridi, e non sola Argo
n'han
duolo e sdegno. Oh! basta ch'una volta
ne
son periti. Sí, se lor bastasse
d'aver
in ciò sol una volta errato.
Nuovo
error; nuova pena. Or non aranno
omai
quest'infelici in odio affatto
le
donne tutte, a tal di già condotti,
che
non han de la vita altra fidanza,
che
questo poco e debile steccato
che
da lor ne divide? e tanto a pena
son
lunge dal morir, quanto s'indugia
a
varcar questa fossa. In ciò riposto
han
la speme e l'ardire. O non han visto
le
mura anco di Troia, che costrutte
fûr
per man di Nettuno, a terra sparse
e
'n cenere converse? Ma chi meco
di
voi, guerrieri eletti, è che s'accinga
d'assalir
queste mura e queste genti
già
di paura offese? A me lor contra
d'uopo
non son né l'armi di Volcano,
né
mille navi. E vengane pur tutta
l'Etruria
insieme. E non furtivamente
e
non di notte, come fanno i vili,
il
Palladio involando, e de la ròcca
i
custodi occidendo, assalirogli;
né
del cavallo ne l'oscuro ventre
m'appiatterò.
Di giorno apertamente
d'armi
e di fuoco cingerogli in guisa,
ch'altro
lor sembri che garzoni e cerne
aver
di Greci e di Pelasgi intorno,
di
cui l'assedio infino al decim'anno
Ettor
sostenne. Or poscia che del giorno
s'è
buona parte insino a qui passata
felicemente,
il resto che n'avanza
attendete
a posarvi, a ristorarvi,
a
disporvi a l'assalto; e ne sperate
lieto
successo». Indi a Messapo incarco
si
dà, che sentinelle e guardie e fochi
disponga
anzi a le porte e 'ntorno al muro.
Ei
sette e sette capitani egregi,
Rutuli
tutti, a quest'impresa elesse,
con
cento che n'avea ciascuno appresso
di
purpurei cimieri ornati e d'oro.
Questi,
le mute varïando e l'ore,
scorrevano
a vicenda; e 'ntorno a' fochi
desti
in su l'erba, infra le tazze e l'urne
traean
la notte in gozzoviglie e 'n giuochi.
Stavano i Teucri il campo rimirando
da
la muraglia; e per timore, armati
visitavan
le porte, e 'n su' ripari
facean
bertesche e sferratoie e ponti.
Era
Memmo lor sopra e 'l buon Sergesto,
che
fûr dal padre Enea nel suo partire
a
guerreggiar, se guerra si rompesse,
per
condottieri e per maestri eletti.
Già
su le mura, ovunque o da periglio
o
da la vece eran disposti, ognuno
tenea
il suo luogo. Un de' piú fieri in arme
Niso,
d'Irtaco il figlio, ad una porta
era
preposto. Da le cacce d'Ida
venne
costui mandato al troian duce,
gran
feritor di dardo e di saette.
Eurïalo
era seco, un giovinetto
il
piú bello, il piú gaio e 'l piú leggiadro
che
nel campo troiano arme vestisse;
ch'a pena avea la rugiadosa guancia
del
primo fior di gioventute aspersa.
Era
tra questi due solo un amore
ed
un volere; e nel mestier de l'armi
l'un
sempre era con l'altro, ed ambi insieme
stavano
allor vegghiando a la difesa
di
quella porta. Disse Niso in prima:
«Eurïalo, io non so se dio mi sforza
a
seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero
stesso
di noi fassi a noi forza e dio.
Un
desiderio ardente il cor m'invoglia
d'uscire
a campo, e far contr'a' nemici
un
qualche degno e memorabil fatto:
sí
di star pigro e neghittoso aborro.
Tu
vedi là come securi ed ebri
e
sonnacchiosi i Rutuli si stanno
con
rari fochi e gran silenzio intorno.
L'occasione
è bella, ed io son fermo
di
porla in uso: or in qual modo, ascolta.
Ascanio, i consiglieri e 'l popol tutto,
per
richiamare Enea, per avvisarlo,
e
per avvisi riportar da lui,
cercan
messaggi. Io, quando a te promesso
premio
ne sia (ch'a me la fama sola
basta
del fatto), di poter m'affido
lungo
a quel colle investigar sentiero,
onde
a Pallanto a ritrovarlo io vada
securamente».
Eurïalo a tal dire
stupissi
in prima; indi d'amore acceso
di
tanta lode, al suo diletto amico
cosí
rispose: «Adunque ne l'imprese
di
momento e d'onore io da te, Niso,
son
cosí rifiutato? E te poss'io
lassar
sí solo a sí gran rischio andare?
A
me non diè questa creanza Ofelte
mio
genitore, il cui valor mostrossi
ne
gli affanni di Troia, e nel terrore
de
l'argolica guerra. Ed io tal saggio
non
t'ho dato di me, teco seguendo
il
duro fato e la fortuna avversa
del
magnanimo Enea. Questo mio core
è
spregiatore, è spregiatore anch'egli
di
questa vita, e degnamente spesa
la
tiene allor che gloria se ne merchi,
e
quel che cerchi, ed a me nieghi, onore».
Soggiunse Niso: «Altro di te concetto
non
ebbi io mai, né tal sei tu ch'io deggia
averlo
in altra guisa. Cosí Giove
vittorïoso
mi ti renda e lieto
da
questa impresa, o qual altro sia nume
che
propizio e benigno ne si mostri.
Ma
se per caso o per destino avverso
(come
sovente in questi rischi avvène)
io
vi perissi, il mio contento in questo
è
che tu viva, sí perché di vita
son
piú degni i tuoi giorni, e sí perch'io
aggia
chi dopo me, se non con l'arme,
almen
con l'oro il mio corpo ricovre,
e
lo ricuopra. E s'ancor ciò m'è tolto,
alfin
sia chi d'esequie e di sepolcro
lontan
m'onori. Oltre di ciò cagione
esser
non deggio a tua madre infelice
d'un
dolor tanto: a tua madre che sola
di
tante donne ha di seguirti osato,
i
comodi spregiando e la quïete
de
la città d'Aceste». A ciò di nuovo
Eurïalo
rispose: «Indarno adduci
sí
vane scuse; ed io già fermo e saldo
nel
proposito mio pensier non muto.
Affrettiamoci
a l'impresa». E, cosí detto,
destò
le sentinelle, e le ripose
in
vece loro; e l'uno e l'altro insieme
se
ne partiro, e ne la reggia andaro.
Tutti gli altri animali avean, dormendo,
sovra
la terra oblio, tregua e riposo
da
le fatiche e dagli affanni loro.
I
Teucri condottieri e gli altri eletti,
che
de la guerra avean l'imperio e 'l carco,
s'erano
e de la guerra e de la somma
di
tutto 'l regno a consigliar ristretti:
e
nel mezzo del campo altri agli scudi,
altri
a l'aste appoggiati, avean consulta
di
che far si dovesse, e chi per messo
ad
Enea si mandasse. I due compagni
d'essere
ammessi e 'ncontinente uditi
fecer
gran ressa e di portar sembiante
cosa
di gran momento e di gran danno
se
s'indugiasse. A questa fretta, il primo
si
fece Ascanio avanti, e, vòlto a Niso,
comandò
che dicesse. Egli altamente
parlando
incominciò: «Troiani, udite
discretamente,
e quel che si propone
e
si dice da noi, non misurate
da
gli anni nostri. I Rutuli sepolti
se
ne stan da la crapula e dal sonno;
e
noi stessi appostato avemo un loco
da
quella porta che riguarda al mare,
atto
a le nostre insidie, ove la strada
piú
larga in due si parte. Intorno al campo
sono
i fochi interrotti; il fumo oscuro
sorge
a le stelle. Se da voi n'è dato
d'usar
questa fortuna, e quest'onore
ne
si fa di mandarne al nostro duce,
al
Pallantèo n'andremo, e ne vedrete
assai
tosto tornar carchi di spoglie
de
gli avversari nostri, e tutti aspersi
del
sangue loro. E non fia che la strada
ne
gabbi, ché piú volte qui d'intorno
cacciando,
avemo e tutta questa valle
e
tutto il fiume attraversato e scórso».
Qui d'anni grave e di pensier maturo
Alete,
al ciel rivolto: «O patrii dii, -
disse
esclamando - il cui nome fu sempre
propizio
a Troia, pur del tutto spenta
non
volete che sia mercé di voi,
poscia
che questo ardire e questi cori
ne'
petti a' nostri giovini ponete».
E
stringendo le man, gli omeri e 'l collo
or de l'uno or de l'altro, ambi onorava,
di
dolcezza piangendo. «E qual, - dicea -
qual,
generosi figli, a voi darassi
di
voi degna mercede? Iddio, ch'è primo
degli
uomini e supremo guiderdone,
e
la vostra virtú premio a se stessa
sia
primamente. Enea poscia useravvi
sua
largitate, e questo giovinetto
che
d'un tal vostro merto avrà mai sempre
dolce
ricordo». - «Anzi io, - soggiunse Iulo -
che
senza il padre mio la mia salute
veggio
in periglio, per gli dèi Penati,
per
la casa d'Assaraco, per quanto
dovete
al sacro e venerabil nume
de
la gran Vesta, ogni fortuna mia
ponendo,
ogni mio affare in grembo a voi,
vi
prego a rivocare il padre mio.
Fate
ch'io lo riveggia, e nulla poi
sarà
di ch'io piú tema. E già vi dono
due
gran vasi d'argento, che scolpiti
sono
a figure; un de' piú ricchi arnesi
che
del sacco d'Arisba in preda avesse
il
padre mio; due tripodi, due d'oro
maggior
talenti, ed un tazzone antico
de
la sidonia Dido. E se n'è dato
tener
d'Italia il desïato regno,
e
che preda sortirne unqua mi tocchi,
quello
stesso destrier, quelle stesse armi
guarnite
d'oro, onde va Turno altero,
e
quel suo scudo, e quel cimier sanguigno
sottrarrò
dalla sorte, e di già, Niso,
gli
ti consegno; e ti prometto in nome
del
padre mio che largiratti ancora
dodici
fra mill'altri eletti corpi
di
bellissime donne e dodici altri
di
giovini prigioni, e l'armi loro
con
essi insieme, e di Latino stesso
la
regia villa. Or te, mio venerando
fanciullo,
abbraccio, a gli cui giorni i miei
van
piú vicini. Io te con tutto il core
accetto
per compagno e per fratello
in
ogni caso; e nulla o gloria o gioia
procurerommi
in pace unqua od in guerra,
che
non sii meco d'ogni mio pensiero,
e
d'ogni ben partecipe e consorte;
e
ne le tue parole e ne' tuoi fatti
somma
speme avrò sempre e somma fede».
Eurïalo rispose: «O fera o mite
che
fortuna mi sia, non sarà mai
ch'io
discordi da me: mai non uguale
lo
mio cor non vedrassi a questa impresa:
ma
sopra agli altri tuoi promessi doni
questo
solo bram'io: la madre mia
che
dal ceppo di Prïamo è discesa,
e
che per me seguire ha, la meschina
non
pur di Troia abbandonato il nido,
ma
'l ricovro d'Aceste, e la sua vita
stessa
(a tanti per me l'ha rischi esposta),
di
questo mio periglio, qual che e' sia,
nulla
ha notizia; ed io da lei mi parto
senza
che la saluti e che la veggia.
Per
questa man, per questa notte io giuro,
signor,
che né vederla, né la pieta
soffrir
de le sue lagrime non posso.
Tu
questa derelitta poverella
consola,
te ne priego, e la sovvieni
in
vece mia. Se tu di ciò m'affidi,
andrò,
con questa speme, ad ogni rischio
con
piú baldanza». Si commosser tutti
a
tai parole, e lagrimaro i Teucri;
e
piú di tutti Ascanio, a cui sovvenne
de
la pietà ch'ebbe suo padre al padre;
e
disse al giovinetto: «Io mi ti lego
per
fede a tutto ciò che la grandezza
di
questa impresa e 'l tuo valor richiede.
E
perché mia sia la tua madre, il nome
sol
di Creusa, e null'altro, le manca.
Né
di picciolo merto è ch'un tal figlio
n'aggia
prodotto; segua che che sia
di
questo fatto. Ed io per lo mio capo
ti
giuro, per lo qual solea pur dianzi
giurar
mio padre, ch'a la madre tua,
a
tutta la tua stirpe si daranno
i
doni stessi che serbar mi giova
pur
a te nel felice tuo ritorno».
Cosí disse piangendo; e la sua spada,
che
di man di Licàone guarnito
avea
d'avorio il fodro, e l'else d'oro,
distaccossi
dal fianco, e lui ne cinse.
Memmo
al tergo di Niso un tergo impose
di
villoso leone; e 'l fido Alete
gli
scambiò l'elmo. Cosí tosto armati
se
n'uscîr da la reggia; e i primi tutti,
giovini
e vecchi, in vece d'onoranza
fino
a la porta con preconi e vóti
gli
accompagnaro. Il giovinetto Iulo
con
viril cura e con pensier maturi
innanzi
agli anni, ragionando in mezzo
giva
d'entrambi: ed or l'uno ed or l'altro
molto
avvertendo, molte cose a dire
mandava
al padre: le quai tutte al vento
furon
commesse, e dissipate a l'aura.
Escono
alfine. E già varcato il fosso,
da
le notturne tenebre coverti,
si
metton per la via che gli conduce
al
campo de' nemici, anzi a la morte.
Ma
non morranno, che macello e strage
faran
di molti in prima. Ovunque vanno
veggion
corpi di genti, che sepolti
son
dal sonno e dal vino. In carri vòti
con
ruote e briglie intorno, uomini ed otri
e
tazze e scudi in un miscuglio avvolti.
Disse d'Irtaco il figlio: «Or qui bisogna,
Eurïalo,
aver core, oprar le mani,
e
conoscere il tempo. Il cammin nostro
è
per di qua. Tu qui ti ferma, e l'occhio
gira
per tutto, che non sia da tergo
chi
n'impedisca; ed io tosto col ferro
sgombrerò
'l passo, e t'aprirò 'l sentiero».
Ciò
cheto disse. Indi Rannete assalse,
il
superbo Rannete, che per sorte
entro
una sua trabacca avanti a lui
in
su' tappeti a grand'agio dormia
e
russava altamente. Era costui
al
re Turno gratissimo, ed anch'egli
rege
e 'ndovino; ma non seppe il folle
indovinar
quel ch'a lui stesso avvenne.
Tre
suoi famigli, che dormendo appresso
giacean
fra l'armi rovesciati a caso,
tutti
in un mucchio uccise, ed un valletto
ch'era
di Remo, e sotto i suoi cavalli
lo
stesso auriga. A costui trasse un colpo
che
gli mandò giú ciondoloni il collo:
indi
al padron di netto lo recise
sí,
che 'l sangue spicciando d'ogni vena,
la
terra, lo stramazzo e 'l desco intrise.
Tàmiro
estinse dopo questi e Lamo,
e
'l giovine Serrano. Un bel garzone
era
costui, gran giocatore, e 'n gioco
insino
ad ora avea sempre vegliato.
Felice
lui per lo suo vizio stesso,
se
giocato e perduto ancora avesse
tutta
la notte! Era a veder tra loro
il
fiero Niso, qual da fame spinto
non
pasciuto leone un pieno ovile
imbelle
e per timor già muto assaglie,
che
d'unghie armato, e sanguinoso il dente
traendo
e divorando ancide e rugge.
Né
fe' strage minor da l'altro canto
Eurïalo,
ch'acceso e furïoso
tra
molta plebe molti senza nome
e
quasi senza vita a morte trasse;
sí
dal sonno eran vinti: e de' nomati
occise
Ebèso, Fabo, Àbari e Reto.
Questo
Reto era desto: onde veggendo
con
la morte degli altri il suo periglio,
per
la paura appo d'un'urna ascoso
quatto
e queto si stava. Indi sorgendo
gli
fu 'l giovine sopra, e 'l ferro tutto
entro
al petto gl'immerse, e con gran parte
de
la sua vita indietro lo ritrasse;
sí
che tra 'l vino e 'l sangue ond'era involta,
gli
uscí l'alma di purpura vestita.
Con questa occisïon di buia notte
e
di furtivo agguato il buon garzone
fervidamente
instava. E già rivolto
s'era
contro a la schiera di Messapo
là
've 'l foco vedea del tutto estinto,
e
là 've i suoi cavalli a la campagna
pascean
legati, allor che Niso il vide
che
da l'occisïone e da l'ardore
trasportar
si lasciava. E brevemente:
«Non
piú, - gli disse - ché 'l nimico sole
ne
sorge incontra. Assai di sangue ostile
fin
qui s'è sparso: assai di largo avemo».
Molt'armi,
molt'argenti e molt'arnesi
lasciaro
indietro. I guarnimenti soli
del
caval di Rannete e le sue borchie
Eurïalo
si prese, con un cinto
bollato
d'oro, un prezïoso dono
che
Cèdico, un ricchissimo tiranno,
a
Rèmolo tiburte ospite assente
fece
in quel tempo. Rèmolo al nipote
lo
lasciò per retaggio e questi in guerra
ne
fu poscia da' Rutuli spogliato;
quinci
gli ebbe Rannete, e quinci preda
fûr
d'Eurïalo al fine. Egli gravonne
i
forti omeri indarno. Appresso in campo
s'adattò
di Messapo un lucid'elmo
d'alto
cimiero adorno: e 'n questa guisa
se
ne partian vittorïosi e salvi.
Intanto di Laurento eran le schiere
uscite
a campo, e i lor cavalli avanti
precorrean
l'ordinanza, ed al re Turno
ne
portavano avviso. Eran trecento
tutti
di scudo armati; e capo e guida
n'era
Volscente. Già vicini al campo
scorgean
le mura; quando fuor di strada
videro
da man manca i due compagni
tener
sentiero obliquo. Era un barlume
là
'v'era l'ombra; e là 'v'era la luna,
a
gli avversi suoi raggi la celata
del
male accorto Eurïalo rifulse.
Di
cotal vista insospettí Volscente,
e
gridò da la squadra: «Olà, fermate.
chi
viva? A che venite? Ove n'andate?
Chi
siete voi?» La lor risposta incontro
fu
sol di porsi in fuga, e prevalersi
de
la selva e del buio. I cavalieri
ratto
chi qua chi là corsero a' passi,
circondarono
il bosco; ad ogni uscita
posero
assedio. Era la selva un'ampia
macchia
d'elci e di pruni orrida e folta,
ch'avea
rari i sentieri, occulti e stretti.
E
gl'intrichi de' rami e de la preda
ch'era
pur grave, e 'l dubbio de la strada
tenean
sovente Eurïalo impedito.
Niso
disciolto e lieve, e del compagno
non
s'accorgendo ch'era indietro assai,
oltre
si spinse. E già fuor de' nemici
era
ne' campi che dal nome d'Alba
si
son poi detti Albani. Allor le razze
e
le stalle v'avea de' suoi cavalli
il
re Latino. E qui poscia ch'un poco
ebbe
il suo caro amico indarno atteso,
gridando:
«Ah! - disse - Eurïalo infelice,
u'
sei rimaso? U' piú (lasso!) ti trovo
per
questo labirinto?» E tosto indietro
rivolto,
per le vie, per l'orme stesse
di
tornar ricercando, si rimbosca.
Erra
pria lungamente, e nulla sente;
poscia
sente di trombe e di cavalli
e
di voci un tumulto; e vede appresso
Eurïalo
fra mezzo a quelle genti,
qual
cacciato leone. E già dal loco
e
da la notte oppresso si travaglia,
e
si difende il poverello invano.
Che
farà? Con che forze, e con qual armi
fia
che lo scampi? Avventerassi in mezzo
de'
nimici a morir morte onorata?
Cosí
risolve, e prestamente un dardo
s'adatta
in mano; e vòlto in vèr la luna,
ch'allora
alto splendea, cosí la prega:
«Tu, dea, tu de la notte eterno lume,
tu,
regina de' boschi, in tanto rischio
ne
porgi aíta. E s'Irtaco mio padre
per
me de le sue cacce, io de le mie
il
dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi,
e
se t'affissi mai teschio né spoglia
di
fera belva, or mi concedi ch'io
questa
gente scompigli, e la mia mano
reggi
e i miei colpi». E ciò dicendo, il dardo
vibrò
di tutta forza. Egli volando
fendé
la notte, e giunse ove a rincontro
era
Sulmone, e l'investí nel tergo
là
've pendea la targa; e 'l ferro e l'asta
passogli
al petto, e gli trafisse il core.
Cadde
freddo il meschino; e, con un caldo
fiume
di sangue, che gli uscio davanti,
finí
la vita, e con singhiozzo il fiato.
Guardansi l'uno a l'altro; e tutti insieme
miran
d'intorno di stupor confusi
e
di timor d'insidie. E Niso intanto
via
piú si studia; ed ecco un altro fiero
colpo,
ch'avea di già librato, e dritto
di
sopra gli si spicca da l'orecchio,
e
per l'aura ronzando in una tempia
si
conficca di Tago, e passa a l'altra.
Volscente,
acceso d'ira, non veggendo
con
chi sfogarla, al giovine rivolto:
«Tu
me ne pagherai per ambi il fio» -
disse,
e strinse la spada, e vèr lui corse.
Niso
a tal vista spaventato, e fuori
uscito
de l'agguato e di se stesso
(che
soffrir non poteo tanto dolore):
«Me,
me, - gridò - me, Rutuli, uccidete.
io
son che 'l feci, io son che questa froda
ho
prima ordito. In me l'armi volgete;
ché
nulla ha contro a voi questo meschino
osato,
né potuto. Io lo vi giuro
per
lo ciel che n'è conscio e per le stelle,
questo
tanto di mal solo ha commesso,
che
troppo amato ha l'infelice amico».
Mentre cosí dicea, Volscente il colpo
già
con gran forza spinto, il bianco petto
del
giovine trafisse. E già morendo
Eurïalo
cadea, di sangue asperso
le
belle membra, e rovesciato il collo,
qual
reciso dal vomero languisce
purpureo
fiore, o di rugiada pregno
papavero
ch'a terra il capo inchina.
In mezzo de lo stuol Niso si scaglia
solo
a Volscente, solo contra lui
pon
la sua mira. I cavalier che intorno
stavano
a sua difesa, or quinci or quindi
lo
tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
addosso
a lui la sua fulminea spada
rotava
a cerco. E si fe' largo in tanto
ch'al
fin lo giunse; e mentre che gridava,
cacciogli
il ferro ne la strozza, e spinse.
Cosí
non morse, che si vide avanti
morto
il nimico. Indi da cento lance
trafitto
addosso a lui, per cui moriva,
gittossi;
e sopra lui contento giacque.
Fortunati
ambidue! Se i versi miei
tanto
han di forza, né per morte mai,
né
per tempo sarà che 'l valor vostro
glorïoso
non sia, finché la stirpe
d'Enea
possederà del Campidoglio
l'immobil
sasso, e finché impero e lingua
avrà
l'invitta e fortunata Roma.
I Rutuli con l'armi e con le spoglie
dei
due compagni uccisi, il morto corpo
al
campo ne portâr del duce loro.
Lagrimosa
vittoria! E non meno anco
fu
nel campo di lagrime e di lutto,
allor
che di Rannete e di Serrano
e
di Numa la strage si scoverse,
e
di tant'altri ch'eran morti in prima.
Corse
ognuno a veder; ché parte spenti,
parte
eran mezzi vivi; e caldo e pieno
e
spumante di sangue era anco il suolo
ove
giacean quegl'infelici estinti.
Riconobber
tra lor le spoglie e l'elmo
e
'l cimier di Messapo, e i guarnimenti
che
con tanto sudor ricoverati
s'erano
a pena. Era vermiglio e rancio
fatto
già de la notte il nero ammanto,
lasciando
di Titon l'Aurora il letto;
e
comparso era il sole, e discoverto
già
'l mondo tutto, allor che Turno armato
a
l'arme, a l'ordinanza, a la battaglia
concitò
'l campo; e diede ordine e loco
ciascuno
a' suoi. Vendetta, ira e disio
d'assalir,
di combatter, di far sangue
vedeansi
in tutti. A due grand'aste in cima
conficcaron
le teste (orribil mostra!)
d'Eurïalo
e di Niso, e con le grida
ne
fêro onta e spettacolo a' nemici.
I Teucri arditamente in su le mura
da
la sinistra incontra si mostraro;
ché
la destra dal fiume era difesa.
E
chi da le trincee, chi da le torri
stavan
dolenti rimirando i teschi
ne
l'aste affissi, polverosi e lordi,
ch'ancor
sangue gocciando eran pur troppo
cosí
lunge da' miseri compagni
raffigurati
a le fattezze conte.
Spiegò
la Fama le sue penne intanto,
e
la trista novella in ogni parte
sparse
per la città, sí ch'agli orecchi
de
la madre d'Eurïalo pervenne.
Corse
subitamente un gel per l'ossa
a
la meschina; e da le man le usciro
le
sue tele e i suoi fili. Indi, rapita
dal
duolo e da la furia, forsennata
e
scapigliata ne la strada uscio;
e
per mezzo de l'armi e de le genti
correndo,
e mugolando, senza téma
di
periglio e di biasmo, andò gridando,
e
di questi lamenti il cielo empiendo:
«Ahi,
cosí concio, Eurïalo, mi torni?
Eurïalo,
sei tu? Tu sei 'l mio figlio,
ch'eri
la mia speranza e 'l mio riposo
ne
l'estreme giornate di mia vita?
Ahi!
come cosí sola mi lasciasti,
crudele?
E come a cosí gran periglio
n'andasti,
anzi a la morte, che tua madre
non
ti parlasse, ohimè! l'ultima volta,
né
che pur ti vedesse? Ah! ch'or ti veggio
in
peregrina terra esca di cani,
d'avoltoi
e di corvi. Ed io tua madre,
io
cui l'esequie eran dovute e 'l duolo
d'un
cotal figlio, non t'ho chiusi gli occhi,
né
lavate le piaghe, né coperte
con
quella veste che con tanto studio
t'ho
per trastullo de la mia vecchiezza
tessuta
io stessa e ricamata invano.
Figlio,
dove ti cerco? ove ti trovo
sí
diviso da te? come raccozzo
le
tue cosí sbranate e sparse membra?
Sol
questa parte del tuo corpo rendi
a
la tua madre, che per esser teco
t'ha
per terra e per mar tanto seguito,
e
seguiratti dopo morte ancora?
In
me, Rutuli, in me tutti volgete
i
vostri ferri, se pur regna in voi
pietade
alcuna. A me la morte date
pria
ch'a null'altro. O tu, padre celeste,
miserere
di me. Tu col tuo tèlo
mi
trabocca nel Tartaro e m'ancidi,
poiché
romper non posso in altra guisa
questa
crudele e disperata vita».
Da questo pianto una mestizia, un duolo
nacque
ne' Teucri, e tale anco ne l'armi
un
languore, un timore, una desidia,
che
grami, addolorati e di già vinti
sembravan
tutti. Onde Àttore ed ldèo
con
quel di lei togliendo il pianto altrui,
per
consiglio del saggio Ilïonèo
e
per compassïon del buono Iulo
che
molto amaramente ne piangea,
tosto
a braccia prendendola, ambedue
la
portaro a l'albergo. Ed ecco intanto
squillar
s'ode da lunge un suon di trombe,
un
dare a l'arme ed un gridar di genti
tal,
che ne tuona e ne rimugghia il cielo.
E
veggonsi in un tempo i Volsci tutti,
sotto
pavesi consertati e stretti
in
guisa di testuggine, appressarsi,
empier
le fosse, dirupare il vallo,
e
tentar la salita, e por le scale
là
dove la muraglia era di sopra
con
minor guardia, e là 've raro il cerchio
tralucea
de la gente. Incontro a loro
i
Teucri i sassi, i travi ed ogni tèlo
avventaron
dal muro; e con le picche
risospingendo,
come il lungo assedio
insegnò
lor di Troia, a la difesa
si
fermâr de' ripari; e le pareti
e
i pilastri e le torri addosso a loro
e
sopra la testuggine gittando,
gli
scudi dissiparono e le genti,
sí
che piú di combattere al coverto
non
si curaro. Ma d'ogni arme un nembo
lanciando
a la scoperta, i bastïoni
offendean de' Troiani. E d'una parte
Mezenzio,
formidabile a vedere,
sen
gia con un gran pino acceso in mano
lo
steccato infocando. Iva da l'altro
il
fier Messapo di Nettuno il figlio,
domator
de' corsieri; e scisso il vallo:
-
«Scale, scale!» - gridava, e per lo muro
rampicando
saliva. Or qui m'è d'uopo,
Callïope,
il tuo canto a dir le pruove,
a
dir l'occisïon che di sua mano
fece
Turno in quel dí; chi, quali e quanti
a
l'Orco ne mandasse. Ogni successo
spiega
di questa guerra in queste carte.
Tutto
a voi, Muse, è conto; e voi la possa
e
l'arte avete di contarlo altrui.
Era una torre di sublime altezza
con
bertesche e con ponti un sopra l'altro,
loco
opportuno. A questa eran d'intorno
di
fuor gl'Italïani, e dentro i Teucri;
e
quei facean per espugnarla ogni opra,
e
questi per tenerla. Avanti a tutti
si
spinse Turno; ed una face ardente
lanciovvi
da l'un fianco, ove s'apprese
con
molta fiamma; cosí fiero il vento,
cosí
secchi e disposti erano i legni.
Ardea
la torre da quel canto, e dentro
la
gente per timor cercava indarno
di
ritrarsi dal foco: onde a la parte
da
l'incendio remota in un sol mucchio
si
ristrinsero insieme; e da quel peso
da
quel lato in un súbito la torre
quasi
spinta inchinossi, aprissi e cadde.
Il
ciel ne rintonò; la gente infranta,
storpiata,
sfracellata, infra i suoi legni
da
l'armi proprie infissa, e fin ne l'aura
morta
e sepolta a terra se ne venne.
Soli due vivi e per ventura intatti
dal
nembo de la polvere, e dal fumo
uscîr
nel campo: Elènore fu l'uno,
Lico
fu l'altro; Elènore, un garzone
di
prima barba, a militar mandato
furtivamente.
E' si trovò com'era
pria
ne la terra lievemente armato
col
brando ignudo e con la targa al collo
bianca
del tutto, come non dipinta
d'alcun
suo fatto glorïoso ancora.
Questi,
vistosi in mezzo a tante genti
di
Turno e de' Latini, come fera
ch'aggia
di cacciatori un cerchio intorno,
muove
contra agli spiedi, incontr'a l'armi;
mosse
là 've piú folte eran le schiere,
e
certo di morire a morte corse.
Ma Lico in su le gambe assai piú destro
infra
l'armi e i nimici a fuggir vòlto,
giunse
a le mura ed aggrappossi in guisa
che
stendea già le mani a' suoi compagni;
quando
Turno e co' piedi e con la spada
lo
sopraggiunse, e come vincitore
rampognando
gli disse: «E che? pensasti,
folle,
uscirmi di mano?» E le man tosto
gli
pose addosso, e sí come dal muro
pendea,
col muro insieme a terra il trasse.
In
quella guisa che gli adunchi ugnoni
contra
una lepre, o contra un bianco cigno
stende
l'augel di Giove, o 'l marzio lupo
da
le reti rapisce un agnelletto,
che
da la madre sia belato invano.
Si rinnovâr le grida, e tutti insieme
o
le faci avventando, o 'l fosso empiendo,
rinforzavan
l'assalto. Ilïonèo
con
un pezzo di monte, a cui la pinta
diè
giú da' merli, sopra al ponte infranse
Lutezio
ch'a la porta era col foco.
Ligero
occise Emazïone; Asila
uccise
Corinèo, buon feritori
l'uno
di dardo, e l'altro di saette.
Ortigio
da Cenèo trafitto giacque:
Cenèo
da Turno: ammazzò Turno ancora
Iti
e Pròmolo e Clònio e Dïosippo,
e
Sàgari con Ida: Ida che in alto
stava
d'un torrïone a la difesa.
Capi
ancise Priverno. Avea costui
pria
nel fianco una picciola ferita,
anzi
una graffiatura, che passando
fe'
l'asta di Temilla: e il male accorto,
per
su porvi la mano, abbandonato
avea
lo scudo; quando ecco volando
venne
una freccia che la mano e 'l fianco
insieme
gli confisse; e via passando
penetrogli
al polmone. Il mortal colpo
sí
lo spirar de l'anima gli tolse,
che
non mai piú spirò. Stavasi Arcente,
d'Arcente
il figlio, in su' ripari ardito
egregiamente
armato, e sopra l'arme
d'una
purpurea cotta era addobbato
di
ferrigno color, di drappo ibèro;
un
giovine leggiadro, che dal padre
fu
nel bosco di Marte a l'armi avvezzo
lungo
al Simeto, u' l'ara di Palico
tinta
non come pria di sangue umano,
piú
pingue e piú placabile si mostra.
Mezenzio
il vide: e l'altre armi deposte,
prese
la fromba, e con tre giri intorno
se
l'avvolse a la testa. Indi scoppiando
allentò
'l piombo, che dal moto acceso
squagliossi,
e con gran rombo in una tempia
il
garzon percotendo, ne l'arena
morto,
quanto era lungo, lo distese.
Ascanio che fin qui solo a la caccia
avea
l'arco adoprato, or primamente
oprollo
in guerra, e col primiero colpo
il
feroce Numano a terra stese.
Rèmolo
era costui per soprannome
chiamato;
e poco avanti avea per moglie
presa
di Turno una minor sorella.
Ei
di questo favor, di questo nuovo
suo
regno insuperbito, altero e gonfio
stava
ne l'antiguardia, e con le grida
si
ringrandiva: e di lontano i Teucri
schernendo,
in cotal guisa alto dicea:
«Questo
è l'onor che voi, Frigi, vi fate
d'un
altro assedio? un'altra volta in gabbia
vi
riponete; e pur col vostro muro,
e
coi vostri ripari or da la morte
vi
riparate? E voi, voi fate guerra
per
usurpare a noi le donne nostre?
Qual
dio, qual infortunio, qual follia
v'ha
condotti in Italia? e chi pensaste
di
trovar qui? quei profumati Atridi,
o
'l ben parlante Ulisse? In una gente
avete
dato che da stirpe è dura.
I
nostri figli non son nati a pena,
che
si tuffan ne' fiumi. A l'onde al gelo
noi
gl'induriamo e gl'incallimo in prima;
poscia
per le montagne e per le selve
fanciulli
se ne van la notte e 'l giorno.
Il
lor studio è la caccia; e 'l lor diletto
è
'l cavalcare, e 'l trar di fromba e d'arco.
La
gioventú ne le fatiche avvezza,
e
contenta del poco, o col bidente
doma
la terra, o con l'aratro i buoi,
o
col ferro i nemici. Il ferro sempre
avemo
per le mani. Una sol'asta
ne
fa picca e pungetto. A noi vecchiezza
non
toglie ardire, e de le forze ancora
non
ci fa, come voi, debili e scemi.
Per
canute che sian le nostre teste,
veston
celate, e nuove prede ognora,
quando
da' boschi e quando da' nemici,
addur
ne giova, e viver di rapina.
Voi
con l'ostro e co' fregi e co' ricami,
con
le cotte a divisa e con le giubbe
immanicate
e coi fiocchetti in testa,
a
che valete? A gir cosí dipinti
e
cosí neghittosi? A far balletti
da
donnicciuole? O Frigi, o Frigïesse
piú
tosto! In questa guisa si guerreggia?
Via
ne' Dindimi monti, ove la piva
vi
chiama e 'l tamburino e 'l zufoletto;
e
con quei vostri galli, anzi galline
di
Berecinto, ite saltando in tresca;
e
l'armi e 'l ferro, che non fan per voi,
lasciate
a quei che son prodi e guerrieri».
Non poté tanto orgoglio e tanto oltraggio
soffrir
d'un folle il generoso Iulo,
e
teso l'arco con la cocca al nervo,
rimirò
'l cielo e disse: «Onnipotente
Giove,
tu l'ardir mio, tu la mia mano
fomenta
e reggi, ed io sacri e solenni
ti
farò doni: io condurrotti a l'ara
un
candido giovenco che la fronte
aggia
indorata, e de la madre al pari
erga
la testa, e già scherzi e già cozzi
con
le corna, e co' piè sparga l'arena».
Giove, mentre dicea, tonò dal manco
sereno
lato: e col suo tuono insieme
scoccò
l'arco mortifero di Iulo.
Volò
l'orribil tèlo, e per le tempie
di
Rèmolo passando, le trafisse.
«Or va', t'insuperbisci: or va', deridi,
scempio,
l'altrui virtú. Queste risposte
mandano
i Frigi che son chiusi in gabbia
ai
Rutuli signor de la campagna».
Questo
sol disse Ascanio; ed al suo colpo
le
grida i Teucri e gli animi in un tempo
al
cielo alzaro. Era il crinito Apollo,
quando
ciò fu, ne la celeste piaggia
sovra
una nube assiso; e d'alto il campo
scorgendo
de' Troiani e degli Ausoni,
come
vede ogni cosa, visto il colpo
del
vincitore arciero, in vèr lui disse:
«Ahi,
buon fanciullo, in cui vertú s'avanza!
cosí
vassi a le stelle. Or ben tu mostri
che
dagli dii sei nato, e ch'altri dii
nasceranno
da te. Tu sei ben degno
ch'ogni
guerra, che 'l fato ancor minacci
a
la casa d'Assaraco, s'acqueti
per
tua grandezza, a cui Troia è minore,
sí
che già non ti cape». E, cosí detto,
si
fendé l'aura avanti e vèr la terra
calossi,
trasmutossi, e come fusse
il
vecchio Bute, al giovine accostossi.
Fu
Bute in prima del dardanio Anchise
valletto
d'arme e cameriero e paggio,
e
poscia per custode e per compagno
l'ebbe
Ascanio dal padre. A questo vecchio
mostrossi
Apollo di color, di voce,
d'andar,
di canutezza e d'armatura
simile
in tutto; ed a l'ardente Iulo
fatto
vicino, in tal guisa gli disse:
«Bàstiti
aver, d'Enea preclaro figlio,
senza
alcun rischio tuo Numano ucciso.
Di
questa prima lode il grande Apollo
ti
privilegia, e non t'invidia il colpo,
né
'l paraggio de l'arco. Or da la pugna
ritraggiti».
E, ciò detto, da la vista
de'
circostanti si ritrasse anch'egli,
e
sormontando dissipossi e sparve.
Rassembrarono
in Bute i Teucri Apollo
e
riconobber la faretra e l'arco,
che
fuggendo sonar anco s'udiro.
E
fêr sí con le preci e col precetto
d'un
tanto iddio, ch'Ascanio, ancor che vago
fosse
di pugna, se ne tolse alfine;
ed
essi apertamente a ripentaglio
misero
in vece sua le vite loro.
Spargesi un grido per le mura intanto,
per
tutte le difese; e tutti agli archi,
tutti
a tirar, tutti a lanciar si diêro
d'ogni
sorte arme, e d'ogni parte il suolo
n'era
coverto; quando altro conflitto
cominciossi
di scudi e di celate;
una
mischia di picche, una battaglia
che
crescea, tuttavolta, rinforzando
con
quella furia che di pioggia un nembo
vien
da l'occaso, allor che d'orïente
fan
sorgendo i Capretti a noi tempesta:
o
quando orrido e torbo e d'austri cinto
e
'n grandine converso irato Giove,
d'alto
precipitando, si devolve
sopra
la terra, e 'l ciel rompendo intuona.
Pàndaro e Bizia d'Alcanòro
idèo,
e
d'Iëra salvatica sua moglie
figli,
in Ida acquistati, e d'Ida usciti
l'uno
a l'altro simíle, ed ambidue
a
quegli abeti ed a quei monti uguali
ond'eran
nati, avean dal teucro duce
una
porta in custodia. E confidati
ne
le forze e ne l'armi, a bello studio
la
lasciarono aperta, ed a' nemici
fêr
da le mura marzïale invito:
essi
armati di ferro, un da la destra,
l'altro
da la sinistra, a due pilastri
sembianti,
anzi a due torri che nel mezzo
tengan
la porta, con le teste in alto
e
co' raggi degli elmi i campi intorno
folgorando,
squassavano i cimieri
fin
sovr'a' merli. In cotal guisa nate
ne
le ripe si veggon di Liquezio,
de
l'Adige, o del Po due querce altiere
sorgere
al cielo e sventolarsi a l'aura.
Visto l'adito aperto, incontinente
vi
si spinsero i Rutuli. E Quercente
ed
Equícolo, i primi armati e fieri,
l'ardito
Omàro e 'l bellicoso Emone
tutti
co' lor compagni impeto fêro;
e
tutti o fûr da' Teucri in fuga vòlti,
o
ne l'entrar di quella porta ancisi.
Giunto
agli animi infesti il sangue sparso,
s'accrebber
l'ire e de' Troiani intanto
tale
un numero altronde vi concorse,
che
prender zuffa e tener campo osaro.
Turno sfogava il suo furore altrove
contr'a
nemici; quando un messo avanti
gli
comparve dicendo, che di Troia
erano
usciti, e stavan con le porte,
quanto
eran larghe, a far strage e macello,
de
le sue genti. Ei tosto da quel canto
lasciò
l'impresa; e contra i due fratelli
a
la dardania porta irato accorse.
E
primamente Antífate, che primo
gli
venne avanti, un giovine bastardo
di
Sarpedonte e di tebana madre,
con
un colpo di dardo a terra stese.
Colpillo
ne lo stomaco, e passolli
oltre
al polmone, onde di caldo sangue,
quasi
d'un antro, dilagossi un fonte.
Mèrope,
Afidno ed Erimanto appresso
uccise
con la spada, un dopo l'altro
come
a caso incontrogli. Atterrò Bizia
dopo
costoro, ma non già col dardo,
e
men col brando; ch'altro colpo er'uopo
a
sí gran corpo. A costui, mentre infuria,
mentre
stizza per gli occhi avventa e foco,
infuocato,
impiombato e grave un tèlo
scaricò
di falarica, che in guisa
di
fulmine stridendo e percotendo
lo
giunse sí che né lo scudo avvolto
di
due bovine terga, né la fida
lorica
di due squame e d'or contesta
non
lo sostenne. Barcollando cadde
la
smisurata mole, e tal diè crollo
che
'l terren se ne scosse, e 'l gran suo scudo
gli
tonò sopra. In tal guisa di Baia
su
l'eüboica riva il grave sasso,
ch'è
sopra l'onde a fermar l'opre eretto,
da
l'alto ordigno ov'era dianzi appreso,
si
spicca e piomba, e fin ne l'imo fondo
ruinando
si tuffa, e frange il mare,
e
disperge l'arena: onde ne trema
Procida
ed Ischia, e il gran Tifèo se n'ange,
cui
sí duro covile ha Giove imposto.
Qui Marte il suo potere e 'l suo favore
volse
verso i Latini. Animi e forze
aggiunse
loro, gl'incitò, gli accese;
e
di téma e di fuga e di scompiglio
diè
cagione a' Troiani. E già ch'a pugna
s'era
venuto, e de la pugna il nume
era
con loro; accolti d'ogni parte
si
ristringono i Rutuli, e fan testa.
Pàndaro,
poi che 'l suo fratello estinto
si
vide avanti, e la fortuna avversa,
a
la porta con gli omeri appuntossi;
e
sí com'era poderoso e grande,
con
molta forza la rispinse e chiuse,
molti
esclusi de' suoi, che per la fretta
rimaser
ne le peste; e molti inclusi
ch'eran
nimici: e non s'avvide il folle,
che
de' nimici in quella calca ancora
era
lo stesso re da lui raccolto
a
far de' suoi, qual tra le greggi imbelli
ircana
tigre immane. Ei non piú tosto
fu
dentro, che raggiò dagli occhi un lume
spaventevole
e fiero; e l'armi sue
fieramente
sonaro. Il suo cimiero
ne
l'aura ondeggiò sangue, e dal suo scudo
uscîr
folgori e lampi. Incontinente
la
sua faccia odïata e 'l suo gran fusto
raffigurando
i Teucri si turbaro.
Pàndaro
allor de la fraterna morte
fervidamente
irato, avanti a tutti
gli
si fe' incontro e disse: «E' non è, Turno,
questa
la reggia che t'assegna in dote
la
tua regina; e non hai d'Ardea intorno
le
patrie mura. Ne le forze entrato
sei
de' nemici onde scampar non puoi».
«Or via, - Turno ghignando gli rispose
placidamente,
- via, se tanto ardisci,
meco
ti prova; ché ben tostamente
a
Prïamo dirai ch'in questa Troia,
come
ancor ne la sua, trovossi Achille».
Ciò
detto, gli avventò Pàndaro un dardo
di
tutta forza nodoroso e grave,
e
di ruvida ancor corteccia involto.
L'aura
lo prese, e la Saturnia Giuno
deviò
'l colpo sí che da la mira
si
torse e ne la porta si confisse.
«Non sí cadrà questa mia spada in
fallo, -
disse
allor Turno; - tale è chi la vibra,
e
tal fa colpo». Ed a ferire alzato
l'investí
ne la fronte, e gli divise
le
tempie, le mascelle e 'l mento ignudo
ancor
di barba, infin là 've s'appicca
il
collo al petto. Al suon de la percossa,
al
fracasso de l'armi, a la ruina,
che
fêr cadendo quelle membra immani,
tremò
la terra e ne fu d'atro sangue
e
di cervella aspersa. Egli morendo
giacque
rovescio, e dechinò la testa
parte
a l'omero destro e parte al manco.
Al cader di costui tal prese i Teucri
téma
e spavento, che dispersi in fuga
sen
gîro. E s'era il vincitore accorto
d'aprir
la porta e di por dentro i suoi,
fôra
stato quel giorno e de la guerra
e
de' Troiani il fine. Ma la furia
e
l'ardor di combattere e l'insana
ingordigia
di sangue ne 'l distolse.
Onde
seguendo, in Falari ed in Gige
s'abbatté
prima. A l'uno il petto aperse;
sgherrettò
l'altro. A quei ch'erano in fuga
con
l'aste di color ch'eran caduti
feria
le terga: e nuova occisïone
gli
ponea tuttavia nuov'armi in mano:
sí
come ancor Giunon nuovo ardimento
gli
dava e nuove forze. Ali tra questi
mandò
per terra, e Fègëa confisse
con
lo suo scudo. Occise in su le mura,
mentre
a' nemici eran di fuori intenti,
Alio
ed Alcandro e Prítane e Nomone.
A
Líncëo, ch'osò di starli a fronte
e
chiamare i compagni, con un colpo,
che
di rovescio con gran forza dielli,
recise
il capo, e l'avventò con l'elmo
lunge
dal busto. Dopo questi ancise
Àmico,
un cacciator ch'era in campagna
gran
distruttor di fere, e gran maestro
d'armar
di tòsco le saette e 'l ferro:
e
Clizio ancise, d'Eölo il buon figlio,
e
Cretèo, de le Muse il caro amico
e
'l diletto compagno, che di versi
e
di cetre e di numeri e di corde
era
sol vago, e di cantar mai sempre
o
d'armi o di cavalli o di battaglie.
I condottier de' Teucri udita alfine
de'
suoi la strage, insieme s'adunaro,
Memmo
e Seresto. E visti i lor compagni
dispersi,
e già 'l nemico in salvo addursi,
gridando:
«Oh, - disse Memmo, - ove fuggite?
Ove
n'andate? e qual ridotto avete
o
di mura o di sito altro che questo?
Dunque
un sol uomo, e d'ogni parte chiuso
in
poter vostro, avrà, miei cittadini,
senza
alcun danno suo fatto di noi
ne
la nostra città sí gran macello?
Tanti
de' nostri giovini sotterra
avrà
mandati? E noi, noi non avremo
(sí
codardi saremo) o de la nostra
infortunata
patria, o degli antichi
nostri
Penati, o del gran nostro Enea
né
pietà, né rispetto, né vergogna?»
Da questo dire accesi e rincorati
si
ristrinsero insieme. E Turno intanto
da
la pugna allentando in vèr la parte
che
dal fiume era cinta, a poco a poco
appressossi
a la riva: onde i Troiani
con
impeto maggior, con maggior grida
gli
furon sopra. E qual fiero leone
che
da la moltitudine e da l'armi
si
vede oppresso, tra fierezza e téma
torvamente
mirando si ritira;
ché
né 'l valor, né l'ira gli consente
volgere
il tergo, né de' cacciatori,
né
di spiedi spuntar puote il rincontro;
cosí
Turno dubbioso o di ritrarsi
o
di spingersi avanti, irato e lento,
guardingo
e minaccioso se n'andava:
e
due volte avventandosi nel mezzo
si
cacciò de' nemici; ed altrettante
gli
ruppe e salvo indietro si ritrasse.
Alfine
in un drappello insieme accolte
le
teucre genti incontro gli si fêro,
e
di Saturno non osò la figlia
di
piú forza prestargli; ché dal cielo
Giove
a la sua sorella avea mandato
Iri
a farne richiamo, e minacciarlo,
se
Turno immantinente da le mura
non
uscia de' Troiani. Or non potendo
piú
'l giovine supplire o con la destra,
ch'era
a ferir già stanca, o con lo scudo,
che
di dardi e di frecce era coverto;
l'elmo
già spennacchiato, e l'armi tutte
smagliate
e fesse, con un nembo addosso
di
sassi per le tempie e d'aste a' fianchi
già
da Memmo incalzato, alfin cedette.
E come di sudor colava, ansava,
e
quasi rifiatar piú non potea,
con
tutte l'armi indosso un salto prese,
e
nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro
placido
lo raccolse e salvo e lieto,
e
da l'occisïon purgato e mondo,
su
l'altra riva a' suoi lo ricondusse.
Aprissi la magion celeste intanto,
e
del cielo il gran padre in cima ascese
del
suo cerchio stellato. Indi mirando
la
terra, e de' Troiani e de' Latini
visto
il conflitto, a sé degli altri dèi
chiamò
'l consiglio. E com'era da l'orto
e
da l'occaso la sua reggia aperta,
ratto
tutti adunati, assisi e cheti,
disse
egli in prima: «Cittadini eterni,
qual
v'ha cagione a distornar rivolti
quel
ch'è già stabilito? A che tra voi
con
tanta iniquità tanto contrasto?
Non
s'è da me già proibito e fermo
che
non deggian gli Ausoni incontro a' Teucri
sorgere
a l'armi? Che discordia è questa
contro
al divieto mio? Qual ha timore
a
la guerra incitati o questi o quelli?
Tempo
vi si darà ben degno allora
di
guerreggiar (non l'affrettate or voi)
che
la fera Cartago aprirà l'Alpi,
grave
a Roma portando esizio e strage.
Allora
agli odi, al sangue, a le rapine
larga
vi si darà licenza e campo.
Or
lietamente la tenzone e l'armi
fermate,
e sia tra voi concordia e pace».
Tal fece ragionando il gran monarca
breve
proposta. Ma non brevemente
Venere
in questa guisa gli rispose:
«Padre e re de' celesti, e de' mortali
eterna
possa (e qual altra maggiore
s'implora
altronde?), ecco tu stesso vedi
l'arroganza
de' Rutuli, e quel fasto
con
che Turno cavalca; e vedi il vampo
e
la ruina che si mena avanti,
da
la sua tracotanza e dal successo
di
questa pugna insuperbito e gonfio.
Vedi
i Teucri infelici, ch'ancor chiusi
non
son securi; e 'n fin dentro a le porte
e
'n su' ripari e 'n su le lor difese
son
combattuti: e la lor propria fossa
è
di lor sangue un lago. Di ciò nulla
il
mio figlio non sa; tanto n'è lunge.
Or
non fia ch'una volta esca d'assedio
questa
misera gente? Ecco han le mura
de
l'altra Troia altri nimici a torno;
altro
esercito in campo; un'altra volta
d'Arpi
vien Dïomede a' danni suoi.
Resta
cred'io ch'un'altra volta ancora
io
sia da lui ferita, e che di nuovo
sia
la tua figlia a mortal ferro esposta.
Signor,
se contra la tua voglia i Teucri
son
venuti in Italia, è ben ragione
che
sian puniti, e del tuo aiuto indegni:
ma
se tratti vi sono, e s'è lor dato
dagli
oracoli tutti e de' celesti
e
degl'inferni, qual può senno o forza
a
Giove opporsi, e far nuovo destino?
Ch'io
non vo' dir de le combuste navi
su
la spiaggia ericina, né de' vènti
che
'l re spinse d'Eolia a tempestarlo,
né
d'Iri che di qui fu già mandata
per
darle al foco. Infin da l'Acheronte
tratte
ha le Furie (questa sol mancava
parte
de l'universo non tentata
a
loro offesa); d'Acheronte, dico,
ha
tratto Aletto a suscitar l'Italia
incontr'a
loro. Or, Signor mio, non curo
piú
d'altro imperio. Io lo sperava allora
ch'era
piú fortunata. Imperi e vinca
or
chi t'aggrada. E s'anco non è loco
nel
mondo, ove a la tua dura consorte
piaccia
che sian quest'infelici accolti,
per
l'incendio, signor, per la ruina,
e
per la solitudine ti prego
de
la mia Troia che ritrar mi lasci
salvo
da questa guerra Ascanio almeno.
Lasciami,
padre mio, questo nipote
mantener
vivo; e se ne vada Enea
ramingo
ovunque il mare o la fortuna
lo
si tramandi. Io lo terrò da l'armi
remoto
ne' miei lochi o d'Amatunta
o
d'Idalio o di Pafo o di Citèra
a
menar vita ignobile e privata,
pur
che sicura. E tu, come a te piace,
comanda
ch'a l'Ausonia il giogo imposto
sia
da Cartago, sí che piú non l'osti
in
alcun tempo. Or che, padre, ne giova
che
da l'occisïoni e dagl'incendi
de
la lor patria e da tant'altri rischi
sian
già del mare e de la terra usciti?
E
che val che da te sia lor promessa,
da
lor tanto ricerca, e già trovata
questa
Troia novella, se di nuovo
convien
che caggia? Assai meglio sarebbe
che
fosser tra le ceneri e nel guasto,
dove
fu l'altra. A Xanto, a Simoenta
fa,
ti prego, signor, che si radduca
questa
gente infelice, e che ritorni
a
passar d'Ilio i guai». Giunone allora
infurïata:
«A che, - disse - mi tenti,
perch'io
rompa il silenzio, e mostri il duolo
c'ho
portato nel cor gran tempo ascoso?
Qual
è mai per tua fé stato uomo o dio
ch'Enea
sforzasse a cercar briga, e farsi
nemico
il re Latino? Oh 'l fato addotto
l'ha
ne l'Italia! Sí, ma da le furie
c'è
spinto di Cassandra. E chi gli ha dato
consiglio,
io forse? Ch'abbandoni i suoi?
Io,
che dia la sua vita in preda a' vènti?
Io,
che la cura e 'l carco de la guerra
lasci
in man d'un fanciullo? e che sollevi
i
popoli d'Etruria, e l'altre genti
che
si stavano in pace? E quale dio,
qual
mia durezza de' lor danni è rea?
Qui
che rileva o di Giuno lo sdegno,
o
d'Iri il ministero? Indegna cosa
è
certo che dagl'Itali s'infesti
questa
tua nuova Troia; e degno e giusto
sarà
che Turno non si stia sicuro
ne
la sua patria terra? un tal nipote
di
Pilunno ch'è divo, un tanto figlio
di
Venilia ch'è ninfa? E degna cosa
ti
par che muova Enea la guerra a Lazio?
ch'assalga,
che soggioghi, che deprede
le
terre altrui? che l'altrui donne usurpi?
ch'in
man porti la pace, e che per mare
e
per terra armi? Tu potrai tuo figlio
scampar
da' Greci; tu riporre invece
di
lui la nebbia e 'l vento; tu la forma
cangiar
de le sue navi in altrettante
ninfe
di mare; ed io cosa nefanda
farò,
se porgo a' Rutuli un aiuto,
per
minimo che sia? Non v'è tuo figlio
presente;
non vi sia: non sa; non sappia.
Sei
regina di Pafo, d'Amatunta,
di
Citèra e d'Idàlio: e che vai dunque
provocando
con l'armi una contrada
non
tua, pregna di guerra? e stuzzicando
sí
bellicosa gente? Ed io son quella,
io,
che l'afflitte lor fortune agogno
di
porre al fondo? E perché non piú tosto
chi
de' Greci a le man gli pose in prima?
Chi
prima fu cagion ch'a guerra addusse
l'Europa
e l'Asia? chi commise il furto
che
fu de la rottura il primo seme?
Io
condussi l'adultero pastore
a
l'impresa di Sparta? Io fui ch'a l'armi,
io
ch'a l'amor l'accesi? Allora il tempo
fu
d'aver téma e gelosia de' tuoi,
non
or che le querele e le rampogne
che
ne fai, sono ingiuste e tarde e vane».
Cosí Giuno dicea; quando fremendo
gli
dèi tutti mostrâr che chi con questa
consentian,
chi con quella. In guisa tale
s'odono
i primi vènti entro una selva
mormorar
lunge, e non veduti ancora
porgere
a' marinari indicio e téma
di
propinqua tempesta. Allor del cielo
il
sommo, eterno, onnipotente padre
riprese
a dire. Al suo parlar chetossi
la
celeste magion; chetârsi i vènti,
e
l'aria e l'onde; e sola infino al centro
tremò
la terra. Ei disse: «Or che gli Ausoni
confederar
co' Teucri ne si toglie,
e
voi tra voi non v'accordate, udite
quel
ch'io vi dico, e i miei detti avvertite.
Quella stessa fortuna e quella speme,
qual
ch'ella sia, ch'i Rutuli o i Troiani
oggi
da lor faransi, io vi prometto
aver
per rata, e non punto inchinarmi
piú
da quei che da questi: e sia l'assedio
de'
Teucri o per destino, o per errore,
o
per false risposte. E ciò dico anco
de'
Rutuli. Il successo e buono e rio
fia
d'una parte e d'altra qual ciascuna
per
sé lo s'ordirà. Giove con ambi
si
starà parimente, e 'l fato in mezzo».
Cosí
detto, il torrente e la vorago
e
la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte
giurando, abbassò 'l ciglio,
e
tremar fe' col cenno il mondo tutto.
Finito
il ragionar, suso levossi
del
seggio d'oro; e gli fêr tutti intorno
corona
e compagnia fino a l'albergo.
L'esercito de' Rutuli stringendo
l'assedio
intanto, in su le porte e 'ntorno
facea
de la muraglia incendi e stragi;
e
i Teucri assedïati, entro ai ripari
e
sopr ai torrïoni a la difesa
stavan,
miseri! indarno; e senza speme
di
fuga un raro cerchio avean disteso
su
per le mura. Era de' primi Iaso
d'Imbrasio
il figlio, e 'l figlio d'Icetone
detto
Timete, e 'l buon Càstore insieme
col
vecchio Timbri, ed ambi dopo questi
di
Sarpedonte i frati: e Chiaro, ed Emo
onor
di Licia, e di Lirnesso Ammone.
Questi
con un gran sasso era venuto
su
la muraglia, che 'l maggior catollo
era
d'un monte; ed egli era non punto
minor
del padre Clizio e di Menesto
suo
famoso fratello. Altri con sassi,
altri
con dardi, e chi con le saette,
e
chi col foco a guardia eran del muro.
In mezzo de le schiere il vago Iulo,
gran
nipote di Dardano e gran cura
de
la bella Ciprigna, il volto e 'l capo
ignudo,
risplendea qual chiara gemma
che
in òr legata altrui raggi dal petto
o
da la fronte; o qual da dotta mano
in
ebano commesso, o in terebinto
candido
avorio agli occhi s'appresenta.
Sovra
al collo di latte il biondo crine
avea
disteso, e d'oro un lento nastro
gli
facea sotto e fregio insieme e nodo.
Ismaro, e tu fra sí famosa gente
con
l'arco saettar ferite e tòsco
fosti
veduto, generosa pianta
del
meonio paese, ove fecondi
sono
i campi di biade, e i fiumi d'oro.
Memmo v'era ancor egli, a cui la fuga
dianzi
di Turno avea gloria acquistata,
ond'era
fino al ciel sublime e chiaro.
Eravi
Capi, onde poi Capua il nome
e
l'origine ha presa. Avean costoro
tra
lor diviso il carico e 'l periglio
di
sí dura battaglia. E 'n questo mentre
solcava
Enea di mezza notte il mare.
Egli, poi che d'Evandro ebbe lasciato
l'amico
albergo e che nel campo giunse
de'
Toschi, al tosco rege appresentossi;
e
con lui ristringendosi, il suo nome
il
suo lignaggio, la sua patria, in somma
chi
fosse, che chiedesse, che portasse
gli
espose; e qual Mezenzio appoggio avesse,
e
l'orgoglio di Turno, e l'apparecchio
e
l'incostanza de l'umane cose
gli
pose avanti. A le ragioni aggiunse
esempi
e preci sí, ch'immantinente
Tarconte
acconsentí. Strinser la lega,
unîr
le £orze ed apprestâr le genti
in
un momento. Di straniero duce
provvisti
i Lidi, e già dal fato sciolti,
salîr
sovra l'armata. E pria di tutti
uscio
d'Enea la capitana avanti.
Questa avea sotto al suo rostro dipinti,
quai
sotto al carro de la madre idèa,
due
che 'l legno traean frigi leoni,
e
d'Ida gli pendea di sopra il monte,
amaro
suo disio, dolce ricordo
del
patrio nido. In su la poppa assiso
stava
il duce troiano; e da sinistra
avea
d'Evandro il figlio, che tra via
l'interrogava
or del vïaggio stesso
e
de le stelle, ed or degli altri suoi
o
per terra o per mar passati affanni.
Apritemi Elicona, alme sorelle,
e
cantate con me che gente e quanta
d'Etruria
Enea seguisse, e di che parte,
e
con qual'armi e come il mar solcasse.
Màssico il primo in su la Tigre
imposto
avea
di mille giovini un drappello,
che
di Chiusi e di Cosa eran venuti
con
l'arco in mano e con saette a' fianchi.
Appresso
a lui, seguendo, il torvo Abante
sotto
l'insegna del dorato Apollo
seicento
n'imbarcò di Populonia,
trecento
d'Elba, in cui ferrigna vena
abbonda
sí, che n'erano ancor essi
dal
capo ai piè tutti di ferro armati.
Asíla
il terzo, sacerdote e mago
che
di fibre e di fulmini e d'uccelli
e
di stelle era interprete e 'ndovino,
mille
ne conducea, ch'un'ordinanza
facean
tutta di picche: e tutti a Pisa
eran
soggetti, a la novella Pisa,
che,
già figlia d'Alfeo, d'Arno ora è sposa.
Asture,
ardito cavaliero e bello,
e
con bell'armi di color diverse,
vien
dopo questi con trecento appresso
di
vari lochi, ma d'un solo amore
accesi
a seguitarlo. Eran mandati
da
Cerète e dai campi di Mignone,
dai
Pirgi antichi e da l'aperte spiagge
de
la non salutifera Gravisca.
Di
te non tacerò, Cigno gentile,
di
Cupàvo dicendo, ancor che poche
fosser
le genti sue. Questi di Cigno
era
figliuol, onde ne l'elmo avea
de
le sue penne un candido cimiero
in
memoria del padre, e de la nuova
forma
in ch'ei si cangiò, tua colpa, Amore.
Ché
de l'amor di Faetonte acceso,
come
si dice, mentre che piangendo
stava
la morte sua, mentre ch'a l'ombra
de
le pioppe, che pria gli eran sorelle,
sfogava
con la musa il suo dolore,
fatto
cantando già canuto e vèglio
in
augel si converse, e con la voce
e
con l'ali da terra al cielo alzossi.
Il
suo figlio co' suoi portava un legno
a
cui sotto la prora e sopra l'onde
stava
un centauro minaccioso e torvo,
che
con le braccia e con un sasso in atto
sembrava
di ferirle, e via correndo
col
petto le facea spumose e bianche.
Ocno
poscia venia, del tosco fiume
e
di Manto indovina il chiaro figlio,
che
te, mia patria, eresse e che dal nome
de
la gran madre sua Mantua ti disse:
Mantua
d'alto legnaggio, illustre e ricca,
e
non d'un sangue. Tre le genti sono,
e
de le tre ciascuna a quattro impera,
di
cui tutte ella è capo, e tutte insieme
son
con le forze de l'Etruria unite.
Quinci ne fûr contra Mezenzio armati
cinquecento
altri; e Mincio, un figlio altero
del
gran Benàco, fu che gli condusse,
di
verdi canne inghirlandato il fronte.
Giva
il superbo Aulete con un legno
di
cento travi il mar solcando in guisa
che
spumante il facea, sonoro e crespo.
Premea
le spalle d'un Tritone immane
che
con la cava sua cerulea conca
tremar
si facea l'acqua e i liti intorno.
Dal
mezzo in su, la fronte ispido e 'l mento
sembra
d'umana forma; e 'l ventre in pesce
gli
si ristringe, e col ferino petto
fende
il mar sí che rumoreggia e spuma.
Da
questi eletti eroi, con queste genti
eran
l'onde tirrene allor solcate
in
sussidio di Troia. E già dal cielo
caduto
il giorno, era de l'erta in cima
la
vaga luna, quando il frigio duce,
or
al timone, or a la vela intento,
co'
suoi pensier vegliava. Ed ecco avanti
nuotando
gli si fa di ninfe un coro,
di
lui prima compagne, e quelle stesse
che,
già sue navi, da Cibele in ninfe
furon
converse, e dee fatte del mare.
Tante
in frotta ne gian per l'onde a nuoto
quante
eran navi in prima. E di lontano
riconosciuto
il re, danzando in cerchio
gli
si strinsero intorno. Una fra l'altre,
la
piú di tutte accorta parlatrice,
Cimodocèa,
la sua nave seguendo,
con
la destra a la poppa, e con la manca
tacita
remigando, il capo e 'l dorso
solo
a galla tenendo, d'improvviso
cosí
gli disse: «Enea, stirpe divina,
vegli
tu? Veglia: il fune allenta, e 'l seno
apri
a le vele tue. De
la tua classe
noi
fummo i legni e de la selva idèa,
e
siamo or ninfe. I Rutuli col foco
n'hanno
e col ferro dipartite e spinte
da'
tuoi nostro malgrado. Or te cercando
siam
qui venute. Per pietà di noi
la
berecinzia madre in questa forma
n'ha
del mar fatte abitatrici e dee.
Ma 'l tuo fanciullo Iulo in mezzo a l'armi
si
sta cinto di fossa e di muraglia
da'
feroci Latini assedïato.
I
tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etruschi
unitamente
han di già preso il loco
comandato
da te. Turno disegna
co'
suoi d'attraversarli e porsi in mezzo
tra
'l campo e loro. Or via, naviga, approda;
sorgi
tu pria che 'l sole, e sii tu 'l primo
ad
ordinar le tue genti a battaglia.
Prendi
l'invitto e luminoso scudo
da
Volcan fabbricato, e d'òr commesso;
ché
diman, se mi credi, alta e famosa
farai
tu strage de' nemici tuoi».
Ciò disse, e, come esperta, al legno
in poppa
tal
diè pinta al partir, che piú veloce
corse
che dardo o stral che 'l vento adegui.
Dietro
gli altri affrettâr, sí che stupore
n'ebbe
d'Anchise il figlio. E rincorato
da
sí felice annunzio, al cielo orando
divotamente
si rivolse, e disse:
«Alma
dea, degli dèi gran genitrice,
di
Díndimo regina, che di torri
vai
coronata e 'n su leoni assisa,
te
per mia duce a questa pugna invoco.
Tu
rendi questo augurio e questo giorno,
ti
priego, a i Frigi tuoi propizio e lieto».
Questo sol disse; e luminoso intanto
si
fece il mondo. Ei primamente impose
che
ratto al segno suo ciascun ne gisse,
ch'ognun
s'armasse, ognuno a la battaglia
si
disponesse. E già venuto a vista
de' Rutuli e de' Teucri, alto levossi
in
su la poppa; s'imbracciò lo scudo,
e
lo vibrò sí ch'ambedue raggiando
empié
di luce e di baleni i campi.
Di
su le mura la dardania gente
gioiosa
infino al ciel le grida alzaro,
e
sopraggiunta la speranza a l'ira,
a
trar di nuovo e saettar si diêro
con
un rumor, qual sotto l'atre nubi
nel
dar segno di nembi e nel fuggirli
fan
le strimonie gru schiamazzo e rombo.
Mentre ciò Turno e gli altri ausoni
duci
stavan
meravigliando, ecco a la riva
si
fa pien d'armi e di navili il mare.
Enea
di cima al capo e da la cresta
del
fin elmo spargea lampi e scintille
d'ardente
fiamma; e gran lustri e gran fochi
raggiava
de lo scudo il colmo e l'oro,
come
ne la serena umida notte
la
lugubre e mortifera cometa
sembra
che sangue avventi, o 'l sirio Cane
quando
nascendo a' miseri mortali
ardore
e sete e pestilenza apporta,
e
col funesto lume il ciel contrista.
Non men per questo ha Turno ardire e speme
d'occupar
prima il lito, e da la terra
ributtare
i nemici. Egli, animando
e
riprendendo la sua gente, avanti
si
spinge a tutti, e griada: «Ecco adempito
vostro
maggior disio. Piú non vi sono
le
mura in mezzo. In voi, ne le man vostre
la
pugna e Marte e la vittoria è posta.
Or
qui de la sua donna, de' suoi figli,
de
la sua casa si rammenti ognuno;
ognun
davanti si proponga i fatti
e
le lodi de' padri. Andiam noi prima
a
rincontrargli, infin che l'onde e 'l moto
ce
gli rende del mar non fermi ancora.
Via,
ch'agli arditi è la fortuna amica».
Detto cosí, va divisando come
parte
lor contra ne conduca, e parte
a
l'assedio ne lasci. Intanto Enea
per
disbarcare i suoi, le scafe e i ponti
avea
già presti. E di lor molti attenti
al
ritorno de' flutti con un salto
si
lanciarono in secco; e chi co' remi,
chi
con le travi ne l'arena usciro.
Tarconte, poi ch'ebbe la riva tutta
ben
adocchiata, non là dove il vado
disperava
del tutto, o dove l'onda
mormorando
frangea, ma dove cheta
e
senza intoppo avea corso e ricorso,
voltò
le prore; e: «Via, - disse - compagni,
via,
gente eletta, ite con tutti i remi,
di
tutta forza, e sí pingete i legni,
che
si faccian da lor canale e stazzo.
Dividete
co' rostri e con le prore
questa
nemica terra: in questa terra
mi
gittate una volta, e che che sia
segua
poi del navile. A questo pregio
non
curo del suo danno: afferri, e pèra».
Al detto di Tarconte alto in su' remi
levârsi
e sí co' rostri a' liti urtaro,
ch'empiêr
di spuma il mar, di sabbia i campi;
e
i legni tutti ne l'asciutto infissi
fermârsi
interi. Ma non già, Tarconte,
il
legno tuo, che d'una ascosa falda
ebbe
di sasso in approdando intoppo;
dal
cui dorso inchinato, e dal mareggio
lungamente
battuto, alfin del tutto
aperto
e sconquassato, in mezzo a l'onde
le
genti espose; e 'l peso e l'imbarazzo
de
l'armi, e gli armamenti infranti e sparsi
del
rotto legno, e 'l flutto che rediva
le
tennero impedite e risospinte.
Turno le schiere sue rapidamente
al
mar condusse, e tutte in ordinanza
su
'l lito incontra a' Teucri le dispose.
Diêron
le trombe il segno. Il troian duce
fu
che prima assalí le torme agresti,
e
si fe' con la strage de' Latini
e
con la morte di Terone in prima
augurio
a la vittoria. Era Terone
un
di corpo maggior degli altri tutti;
e
tanto ebbe d'ardir che da se stesso
incontr'Enea
si mosse. Enea col brando
tal
un colpo gli trasse, che lo scudo,
benché
ferrato, e la corazza e 'l fianco
forogli
insieme. Indi avventossi a Lica
che
da l'aperte viscere fu tratto
de
la già morta madre, e pargoletto,
preservato
dal ferro, a te fu sacro,
Febo,
padre di luce; ed or morendo
vittima
cadde a Marte. Occise appresso
Cisso
feroce, e Gía di corpo immane,
ch'ambi
di mazze armati ivan le schiere
de'
suoi Teucri atterrando. E lor non valse
né
d'Ercole aver l'armi né le braccia
d'erculea
forza, né che già Melampo
lor
padre in compagnia d'Ercole fosse
allor
che de la terra a soffrir ebbe
i
duri affanni. A Faro un dardo trasse,
mentre
gridando e millantando incontra
gli
si facea. Colpillo in bocca a punto,
sí
che la chiuse e l'acchetò per sempre.
E tu, Cidon, per le sue mani estinto
misero!
giaceresti a Clizio appresso,
tuo
novo amore, a cui de' primi fiori
eran
le guance colorite a pena;
se
non che de' fratelli ebbe una schiera
subitamente
a dosso. Eran costoro
sette
figli di Forco, e sette dardi
gli
avventaro in un tempo. Altri de' quali
da
l'elmo e da lo scudo risospinti,
altri
furon da Venere sbattuti
sí,
ch'o vani, o leggieri il corpo a pena
leccâr
passando. In questa, Enea rivolto:
«Dammi,
- disse ad Acate, - degl'intrisi
nel
sangue greco, e sotto Ilio provati;
e
non fia colpo in fallo». Una grand'asta
gli
porse Acate in prima, ed ei la trasse
sí,
che volando ne lo scudo aggiunse
di
Mèone, e la piastra ond'era cinto
e
la corazza e 'l petto gli trafisse.
Alcanor
suo fratello nel cadere,
mentre
le braccia al tergo gli puntella,
l'asta
nel trapassare, il suo tenore
continüando,
insanguinata e calda
la
destra gli confisse: e da le spalle
pendé
del frate, infin che l'un già morto,
e
l'altro moribondo a terra stesi
giacquero
entrambi. Numitore il terzo
da
questo sconficcandola e da quello,
lanciolla
incontro Enea. Di ferir lui
non
gli successe, ma del grande Acate
graffiò
la coscia lievemente, e scórse.
Clauso, il Sabino, ardito e poderoso
qui
si mostrò con una picca in mano,
e
Drïope investí nel primo incontro.
Glie
n'appuntò nel gorgozzule, e pinse
tanto,
che la parola e 'l fiato e l'alma
in
un gli tolse. Ed ei cadde boccone,
e
per bocca gittò di sangue un fiume.
Cacciossi
avanti, e tre di Tracia appresso
de
la gente di Borea, e tre de' figli
d'Idante,
alunni d'Ismara e di Troia,
in
varïate guise a terra stese.
Venne
a rincontro Aleso, e degli Aurunci
un'ordinanza.
Di Nettuno il figlio
Messapo
i suoi cavalli avanti spinse,
ed
or questi sforzandosi, ed or quelli
di
cacciare i nemici, in su l'entrata
si
combattea d'Italia. E quai tra loro
s'azzuffano
a le volte avversi, e pari
di
contesa e di forza in aria i vènti,
che
né lor, né le nugole, né 'l mare
ceder
si vede, e lungamente incerta
sí
la mischia travaglia, ch'ogni cosa
d'ogni
parte tumultüa e contrasta;
tale
appunto de' Rutuli e de' Teucri
era
la pugna e sí fiera e sí stretta,
che
giunte si vedean l'armi con l'armi,
e
le man con le mani, e i piè co' piedi.
D'altra parte ove rapido e torrente
avea
'l fiume travolti arbori e sassi,
da
loco malagevole impediti
gli
Arcadi cavalieri a piè smontaro;
e
ne' pedestri assalti ancor non usi,
da'
Latini incalzati, avean le terga
già
volte a Lazio, quando (quel che s'usa
in
sí duri partiti) a lor rivolto
Pallante,
or con preghiere, or con rampogne:
«Ah,
compagni, ah, fratelli, - iva gridando, -
dove
fuggite? Per onor di voi,
per
la memoria di tant'altri vostri
egregi
fatti, per l'egregia fama,
per
le vittorie del gran duce Evandro,
e
per la speme che di me concetta
a
la paterna lode emula avete,
non
ponete ne' piè vostra fidanza.
Col
ferro aprir la strada ne conviene
per
mezzo di color che là vedete,
che
piú folti n'incalzano e piú feri.
Per
là comanda l'alta patria nostra
che
voi meco n'andiate. E di lor nullo
è
che sia dio: son uomini ancor essi
come
siam noi: e noi com'essi avemo
il
cor, le mani e l'armi. E dove, dove
vi
salverete? Non vedete il mare
che
v'è davanti, e che la terra manca
al
fuggir vostro? E se per l'onde ancora
fuggiste,
alfin dove n'andrete? a Troia?»
E, cosí detto, in mezzo de' piú densi
e
de' piú formidabili nemici
anzi
a tutti avventossi. E Lago il primo
per
sua disavventura gli s'oppose.
Stava
costui chinato, e per ferirlo
divelto
avea di terra un gran macigno,
quando
lo sopraggiunse, e nella schiena
tra
costa e costa il suo dardo piantogli;
sí
che tirando e dimenando a pena
ne
lo ritrasse. Isbon, di Lago amico,
mentr'egli
in ciò s'occúpa, ebbe speranza
di
vendicarlo, e 'ncontra gli si mosse.
Ma
non gli riuscí: ché mentre, incauto,
dal
dolor trasportato e da lo sdegno
del
suo morto compagno, infurïava,
ne
la spada del giovine infilzossi
da
l'un de' fianchi: onde trafitto e smunto
ne
fu di sangue il cor, d'ira il polmone.
Poscia
Stènelo occise; occise appresso
Anchèmolo.
Costui fu de l'antica
stirpe
di Reto. E voi, Laride e Timbro,
figli
di Dauco, ambi d'un parto nati,
per
le sue man cadeste. Eran costoro
sí
l'un del tutto a l'altro somigliante,
che
dal padre indistinti e da la madre
facean
lor grato errore e dolce inganno.
Sol
or Pallante (ahi! troppo duramente)
vi
fe' diversi: ch'a te 'l capo netto,
Timbro,
recise; a te, Laride, in terra
mandò
la destra. E questa anche guizzando
te
per suo riconobbe, e con le dita
strinse
il tuo ferro, e 'l brancicò piú volte.
Gli
Arcadi da' conforti e da le prove
accesi
di Pallante; e per dolore
e
per vergogna di furor s'armaro
contr'a'
nimici. Seguitò Pallante;
ed
a Retèo ch'era fuggendo in volta
sopra
una biga, nel passargli a canto,
trasse
d'un'asta; e tanto Ilo d'indugio
ebbe
a la morte sua, ch'ad Ilo indritto
era
quel colpo in prima. Ma Retèo
venne
di mezzo, e ricevello in vece
d'altri
colpi che dietro minacciando
gli
venian Teutro e Tiro, i due buon frati
che
gli eran sopra. Traboccò dal carro
mezzo
tra vivo e morto, e calcitrando
de'
Rutuli batté l'amica terra.
Come il pastor ne' dolci estivi giorni
a
lo spirar de' vènti il foco accende
in
qualche selva: che diversamente
lo
sparge in prima; e con diversi incendi
súbito
di Volcan ne va la schiera
ciò
ch'è di mezzo divorando in guisa
ch'un
sol diventa; ed ei stassi in disparte
del
fatto altero, e di veder gioioso
la
vincitrice fiamma, e l'arso bosco;
cosí
'l valor degli Arcadi ristretto
per
soccorrer Pallante insieme unissi.
Ma
'l bellicoso Aleso incontro a loro
si
ristrinse ancor ei con l'armi sue,
e
Ladone e Demòdoco e Fereto
occise
in prima. Indi a Strimonio un colpo
trasse
di spada, che la destra mano,
mentre
con un pugnal gli era a la gola,
gli
recise di netto. E sí d'un sasso
ferí
Toante in volto, che gl'infranse
il
teschio tutto, e ne schizzâr col sangue
l'ossa
e 'l cervello. Era d'Aleso il padre
mago
e 'ndovino; e del suo figlio il fato
avea
previsto; onde gran tempo ascoso
in
una selva il tenne. E non per questo
franse
il destino; ché già vèglio a pena
chiusi
ebbe gli occhi, che le Parche addosso
gli
diêr di mano: onde a morir devoto
fu
per l'armi d'Evandro. Incontro a lui
mosse
Pallante in cotal guisa orando:
«Da',
padre Tebro, a questo dardo indrizzo,
fortuna
e strada; ond'io nel petto il pianti
del
duro Aleso; e 'l dardo e le sue spoglie,
a
te fian poscia in questa quercia appese».
Udillo
il Tebro: e mentre Aleso, aíta
porgendo
ad Imaon, lo scudo stende
per
coprir lui, se stesso discoverse
al
colpo di Pallante, e morto cadde.
Lauso che de la pugna era gran parte,
visto
al cader d'un sí degno campione
caduta
la contesa e l'ardimento
de
le schiere latine, egli in sua vece
tosto
avanti si spinse e rinfrancolle.
E
prima di sua mano Abante ancise,
ch'era
di quella zuffa un duro intoppo,
e
de' nemici il piú saldo sostegno.
Or qui strage si fa d'Arcadi insieme,
e
di Toschi e di voi, Troiani, intatti
ancor
da' Greci. E qui d'ambe le parti
tutti
con tutti ad affrontar si vanno.
Pari
le forze e pari i capitani
son
d'ambi i lati; e quinci e quindi ardenti
si
ristringono in guisa che gli estremi
fanno
ancor calca e 'mpedimento a' primi.
Da questa parte sta Pallante, e Lauso
da
quella, i suoi ciascuno inanimando,
spingendo
e combattendo. E l'un diverso
non
è molto da l'altro né d'etate
né
di bellezza; e parimente il fato
a
ciascuno ha di lor tolto il ritorno
ne
la sua patria. E non però tra loro
s'affrontâr
mai; ché 'l regnator celeste
riserbava
la morte d'ambedue
a
nemici maggiori. In questo mezzo
la
ninfa, che di Turno era sorella,
il
suo frate avvertisce che soccorso
procuri
a Lauso. Ond'ei tosto col carro
le
schiere attraversando, a' suoi compagni
giunto
che fu: «Via, - disse - or non è tempo
che
voi piú combattiate. Io sol ne vado
contra
Pallante; a me solo è dovuta
la
morte sua: cosí 'l suo padre stesso
v'intervenisse,
e spettator ne fosse».
Detto ch'egli ebbe, incontinente i suoi,
siccome
imposto avea, del campo usciro.
Pallante,
visti i Rutuli ritrarsi,
e
lui sentendo che con tanto orgoglio
lor
comandava, poscia che 'l conobbe,
lo
squadrò tutto, e stupido fermossi
a
veder sí gran corpo. Indi feroce
gli
occhi intorno girando, a i detti suoi
cosí
rispose: «Oggi o d'opime spoglie
o
di morte onorata il pregio acquisto.
E
'l padre mio (tal è d'animo invitto
incontr'ogni
fortuna, o buona o rea
che
sia la mia) ne porrà 'l core in pace.
Via,
che d'altro è mestier che di minacce».
E,
ciò detto, si mosse, e fiero in mezzo
presentossi
del campo. Un gel per l'ossa
e
per le vene agli Arcadi ne corse.
E
Turno dalla biga con un salto
lanciossi
a terra; ch'assalirlo a piedi
prese
consiglio. E qual fiero leone
che,
veduto nel pian da lunge un toro
con
le corna a battaglia esercitarsi,
dal
monte si dirupa e rugge e vola,
tal
fu di Turno la sembianza a punto
nel
girgli incontro. Il giovine, che meno
avea
di forze, s'avvisò di tempo
prender
vantaggio, e di provare osando
s'aver
potesse in alcun modo amica
almen
fortuna; e già ch'a tiro d'asta
s'eran
vicini, al ciel rivolto disse:
«Ercole,
se ti fu del padre mio
l'ospizio
accetto, e la sua mensa a grado,
allor
che peregrin seco albergasti,
dammi,
ti priego, a tanta impresa aíta,
sí
che Turno egli stesso in chiuder gli occhi
veggia
e senta, morendo, ch'a me tocca
vincere
e spogliar lui d'armi e di vita».
Udillo Alcide, e per pietà che n'ebbe
nel
suo cor se ne dolse e lacrimonne,
quantunque
indarno. E Giove, per conforto
del
figlio suo, cosí seco ne disse:
«Destinato
a ciascuno è 'l giorno suo;
e
breve in tutti e lubrica e fugace
e
non mai reparabile sen vola
l'umana
vita. Sol per fama è dato
agli
uomini che sian vivaci e chiari
piú
lungamente. Ma virtute è quella
che
gli fa tali. E non per questo alcuno
è
che non muoia. E quanti ne moriro
sotto
il grand'Ilio, ch'eran nati in terra
di
voi celesti? E Sarpedonte è morto
ch'era
mio figlio, e Turno anco morrà;
e
già de la sua vita è giunto al fine».
Cosí disse, e da' rutuli confini
torse
la vista. Allor Pallante trasse
con
gran forza il suo dardo, e 'l brando strinse
incontro
a Turno. Investí 'l dardo a punto
là
've 'l braccial su l'omero s'affibbia,
e
tra 'l suo groppo e l'orlo de lo scudo
come
strisciando, di sí vasto corpo
lievemente
afferrò la pelle a pena.
Turno, poi che 'l nodoso e ben ferrato
suo
frassino brandito e bilanciato
ebbe
piú volte: «Or prova tu - gli disse -
se
'l mio va dritto, e se colpisce e fóra
piú
del tuo ferro». E trasse. Andò ronzando
per
l'aura, e con la punta a punto in mezzo
si
piantò de lo scudo. E tante piastre
di
metallo e d'acciaio, e tante cuoia
ond'era
cinto, e la corazza e 'l petto
passogli
insieme. Il giovine ferito
tosto
fuor si cavò di corpo il tèlo;
ma
non gli valse, ché con esso il sangue
e
la vita n'uscio. Cadde boccone
in
su la piaga, e tal diè d'armi un crollo,
che,
ancor morendo, la nimica terra
trepida
ne divenne e sanguinosa.
Turno sopra il cadavere fermossi
alteramente
e disse: «Arcadi, udite,
e
per me riportate al vostro Evandro,
che
qual di rivedere ha meritato
il
suo Pallante, tal glie ne rimando;
e
gli fo grazia che d'esequie ancora
e
di sepolcro e di qual altro fregio
che
conforto gli sia, l'orni e l'onori;
ch'assai
ben caro infino a qui gli costa
l'amicizia
d'Enea». Cosí dicendo,
col
manco piè calcò l'estinto corpo;
e
d'oro un cinto ne rapí di pondo,
d'artificio
e di pregio, ove per mano
era
del buon Eurizio istorïata
la
fiera notte e i sanguinosi letti
di
quell'empie fanciulle, in grembo a cui
fûr
già tanti in un tempo e frati e sposi,
sotto
fé d'Imeneo, giovani ancisi.
Di questa spoglia altero e baldanzoso
vassene
or Turno. O cieche umane menti,
come
siete de' fati e del futuro
poco
avvedute! E come oltra ogni modo
ne'
felici successi insuperbite!
Tempo
a Turno verrà ch'ogni gran cosa
ricompreria
di non aver pur tocco
Pallante;
e le sue spoglie e 'l dí che l'ebbe
in
odio gli cadranno. Il morto corpo,
nel
suo scudo composto, i suoi compagni
levâr
dal campo, e con solenne pompa
e
con molti lamenti, e molto pianto
lo
riportaro al padre. Oh, qual, Pallante,
tornasti
al padre tuo gloria e dolore!
Ch'una
stessa giornata, ch'a la guerra
ti
diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti
lasciasti
pria di tuoi nemici estinti!
Corse la fama, anzi il verace avviso
a
l'orecchie d'Enea d'un danno tale
e
d'un tanto periglio, che già vòlto
era
il suo campo in fuga. Incontinente
si
fa col ferro una spianata intorno;
poscia
s'apre una via, di te cercando,
Turno,
e 'l tuo rintuzzar cresciuto orgoglio
per
la vittoria di Pallante occiso.
Pallante,
Evandro e l'accoglienze loro
e
le lor mense ove con tanto amore
forestier
fu raccolto, e la contratta
già
tra loro amistà davanti agli occhi
si
vedea sempre. E per onore a l'ombra
de
l'amico, e per vittima al grand'Orco,
molti
giovini avea già destinati
vivi
sacrificar sopra il suo rogo;
e
di già ne facea quattro d'Ufente
addur
legati, e quattro di Sulmona.
E tra via combattendo, incontr'a Mago
tirò
d'un'asta, a cui sotto chinossi
l'astuto
a tempo sí che sopra al capo
gli
trapassò divincolando il colpo;
e
ratto risorgendo umilemente
gli
abbracciò le ginocchia, e cosí disse:
«Per
tuo padre e tuo figlio, Enea, ti prego,
a
mio padre, a mio figlio mi conserva.
Di
gran legnaggio io sono: gran tesori
tengo
d'argento sotterrati e d'oro
in
massa e 'n conio. La vittoria vostra
solo
in me non consiste. Una sol'alma
in
cosí grave e grande affar che monta?»
Rispose
Enea: «Le tue conserve d'oro
e
d'argento conserva a' figli tuoi.
Questi
mercati ha Turno primamente
tolti
fra noi, poi c'ha Pallante occiso:
ed
al mio padre ed al mio figlio in grado
fia
la tua morte. Ciò dicendo, a l'elmo
la
man gli stese: e poiché gli ebbe il collo
chinato
al colpo, insino a l'else il ferro
ne
la gola gl'immerse. Indi non lunge
Emònide
incontrando, un sacerdote
di
Febo e di Dïana, il fronte adorno
di
sacra benda, e tutto rilucente
di
vesti e d'armi, addosso gli si scaglia.
Fugge
Emònide, e cade. Enea gli è sopra,
lo
sacrifica a l'ombra e d'ombra il cuopre.
Poscia
de l'armi, che 'l meschino a pompa
portò
piú ch'a difesa, il buon Seresto
lo
spoglia, e per trofeo le appende in campo
a
te, gran Marte. Ecco di nuovo intanto
Cècolo,
di Vulcan l'ardente figlio,
e
'l marso Ombron ne la battaglia entrando,
e
rimettendo le lor genti insieme,
spingonsi
avanti. Enea da l'altra parte
infurïava.
Ad Ànsure avventossi,
e
'l manco braccio con la spada in terra
gittogli
e de lo scudo il cerchio intero.
Gran
cose avea costui cianciate in prima
e
concepute; e d'adempirle ancora
s'era
promesso. Avea forse anco in cielo
riposti
i suoi pensieri, e s'augurava
lunga
vita e felice. E pur qui cadde.
Poscia Tàrquito ardente, e d'armi
cinto
fulgenti
e ricche, incontro gli si fece.
Era
costui di Fauno montanaro
e
de la ninfa Drïope creato,
giovine
fiero. Enea parossi avanti
a
la sua furia, e pinse l'asta in guisa
che
lo scudo impedigli e la corazza.
Allora
indarno il misero a pregarlo
si
diede. E mentre a dir molto s'affanna
per
lo suo scampo, ei con un colpo a terra
gittogli
il capo; e travolgendo il tronco
tiepido
ancor, sopra gli stette e disse:
«Qui
con la tua bravura te ne stai,
tremendo
e formidabile guerriero:
né
di terra tua madre ti ricuopra,
né
di tomba t'onori. Ai lupi, ai corvi
ti
lascio, o che la piena in alcun fosso
ti
tragga, o che nel fiume, o che nel mare
ai
famelici pesci esca ti mandi».
Indi muove in un tempo incontro a Lica.
E
segue Anteo, che ne le prime schiere
era
di Turno. Assaglie il forte Numa,
fere
il biondo Camerte. Era Camerte
figlio
a Volscente, generoso germe
del
magnanimo padre, e de' piú ricchi
d'Ausonia
tutta: in quel tempo reggea
la
taciturna Amicla. In quella guisa
che
si dice Egeon con cento braccia
e
cento mani, da cinquanta bocche
fiamme
spirando e da cinquanta petti,
esser
già stato col gran Giove a fronte
quando
contra i suoi folgori e i suoi tuoni
con
altrettante spade ed altrettanti
scudi
tonava e folgorava anch'egli;
in
quella stessa Enea per tutto 'l campo,
poi
ch'una volta il suo ferro fu caldo,
contra
tutti vincendo infurïossi.
Ecco
Nifeo su quattro corridori
si
vede avanti; e contra gli si spinge
sí
ruïnoso, e tal fa lor fremendo
téma
e spavento, che i destrier rivolti
lui
dal carro traboccano, e disciolti
sen
vanno e vòti imperversando al mare.
Lúcago
intanto e Lígeri, due frati
con
due giunti cavalli ambi in un tempo
gli
si fan sopra. Lígeri a le briglie
sedea
per guida, Lúcago rotava
la
spada a cerco. Enea, non sofferendo
la
tracotanza, a la già mossa biga
piantossi
avanti; e Lígeri gli disse:
«Enea,
tu non sei già con Dïomede,
né
con Achille questa volta a fronte;
né
son questi i cavalli e 'l carro loro:
di
Lazio è questo e non de' Frigi il campo:
qui
finir ti convien la guerra e i giorni».
Queste
vane minacce e questo vento
soffiava
il folle. Enea d'altro risposta
non
gli diè che de l'asta. E mentre avanti
spinge
l'uno i destrieri, e l'altro al colpo
si
sta chinato e col piè manco in atto
di
ferir lui, la sua lancia a lo scudo
entrò
sotto di Lúcago, e nel manco
lato
ne l'anguinaia il colse a punto,
e
giú del carro moribondo il trasse.
Indi
ancor egli motteggiollo e disse:
«A
te né paventosi né restii
son
già, Lúcago, stati i tuoi cavalli.
Tu
da te stesso un sí bel salto hai preso
fuor
del tuo carro». E, ciò detto, ai destrieri
diè
di piglio. Il suo frate uscito intanto
dal
carro stesso, umíle e disarmato
stendea
le palme in tal guisa pregando:
«Deh,
per lo tuo valore e per coloro
che
ti fêr tale, abbi di me, signore,
pietà,
che supplicando in don ti chieggio
questa
misera vita». E seguitando
la
sua preghiera, a lui rispose Enea:
«Tu
non hai già cosí dianzi abbaiato.
Muori;
e morendo il tuo frate accompagna».
E
con queste parole il ferro spinse,
e
gli aprí 'l petto, e l'alma ne disciolse.
Mentre cosí per la campagna Enea
strage
facendo, e di torrente in guisa
e
di tempesta infurïando scorre,
Ascanio
e la troiana gioventute,
indarno
entro a le mura assedïata,
saltano
in campo. Ed a Giunone intanto
cosí
Giove favella: «O mia diletta
sorella
e sposa, ecco testé si vede
com'ha
la tua credenza e 'l tuo pensiero
verace
incontro, e come Citerea
sostenta
i Teucri suoi. Vedi com'essi
non
son né valorosi né guerrieri,
e
i cor non hanno ai lor perigli eguali».
A
cui Giunon tutta rimessa: «Ah, - disse -
caro
consorte, a che mi strazi e pugni,
quando
è pur troppo il mio dolor pungente
e
pur troppo tem'io le tue punture?
Ma
se qual era e qual esser potrebbe,
fosse
or teco il poter de l'amor mio,
teco
che tanto puoi, da te negato
non
mi fôra, signor, ch'oggi il mio Turno
fosse
da la battaglia e da la morte
per
me sottratto e conservato al vecchio
Dauno
suo padre. Or pèra, e col suo sangue,
che
pure è pio, la cupidigia estingua
de'
suoi nemici. E pur anch'egli è nato
dal
nostro sangue; e pur Pilunno è quarto
padre
di lui: da lui pur largamente
gli
altar molte fïate e i templi tuoi
son
de' suoi molti doni ornati e carchi».
Cui del ciel brevemente il gran motore
cosí
rispose: «Se indugiar la morte,
ch'è
già presente, e prolungare i giorni
al
già caduco giovine t'aggrada
per
alcun tempo, e tu con questo inteso
l'accetti,
va tu stessa, e da la pugna
sottrallo
e dal destino. A tuo contento
fin
qui mi lece. Ma se in ciò presumi
anco
piú di sua vita, o de la guerra,
che
del tutto si mute o si distorni,
invan
lo speri». A cui Giuno piangendo
soggiunse:
«E che saria, se quel ch'in voce
ti
gravi a darmi, almen nel tuo secreto
mi
concedessi? e questa vita a Turno
si
stabilisse? già ch'indegna e cruda
morte
gli s'avvicina, o ch'io del vero
mi
gabbo. Tu che puoi, signor, rivolgi
la
mia paura e i tuoi pensieri in meglio».
Poscia che cosí disse, incontinente
dal
ciel discese, e con un nembo avanti
e
nubi intorno, occulta infra i due campi
sopra
terra calossi. Ivi di nebbia,
di
colori e di vento una figura
formò
(cosa mirabile a vedere!)
in
sembianza d'Enea; d'Enea lo scudo,
la
corazza, il cimiero e l'armi tutte
gli
finse intorno, e gli diè 'l suono e 'l moto
propri
di lui, ma vani, e senza forze
e
senza mente; in quella stessa guisa
che
si dice di notte ir vagabonde
l'ombre
de' morti, e che i sopiti sensi
son
da' sogni delusi e da fantasme.
Questa mentita imago anzi a le schiere
lieta
insultando, a Turno s'appresenta,
lo
provoca e lo sfida. E Turno incontra
le
si spinge e l'affronta; e pria da lunge
il
suo dardo le avventa, al cui stridore
volg'ella
il tergo e fugge. Ed ei sospinto
da
la vana credenza e da la folle
sua
speme insuperbito, la persegue
con
la spada impugnata «E dove, e dove, -
dicendo,
- Enea, ten fuggi? ove abbandoni
la
tua sposa novella? Io di mia mano
de
la terra fatale or or t'investo,
che
tanto per lo mar cercando andavi».
E
gridando l'incalza, e non s'avvede
che
quel che segue e di ferir agogna,
non
è che nebbia che dal vento è spinta.
Era per sorte in su la riva un sasso
di
molo in guisa; ed un navile a canto
gli
era legato, che la scala e 'l ponte
avea
su 'l lito, onde ne fu pur dianzi
Osinio,
il re di Chiusi, in terra esposto.
In
questo legno, di fuggir mostrando,
ricovrossi
d'Enea la finta imago,
e
vi s'ascose. A cui dietro correndo
Turno
senza dimora, infurïato
il
ponte ascese. Era a la prora a pena
che
Giunon ruppe il fune, e diede al legno
per
lo travolto mare impeto e fuga.
Intanto Enea, di Turno ricercando,
a
battaglia il chiamava. Ed or di questo
ed
or di quello e di molti anco insieme
facea
strage e scompiglio; e la sua larva,
poiché
di piú celarsi uopo non ebbe,
fuor
de la nave uscendo alto levossi,
e
con l'atra sua nube unissi e sparve.
Turno, cosí schernito, e già nel mezzo
del
mar sospinto, indietro rimirando
come
del fatto ignaro, e del suo scampo
sconoscente
e superbo, al ciel gridando
alzò
le palme, e disse: «Ah, dunque io sono
d'un
tanto scorno, onnipotente padre,
da
te degno tenuto? a tanta pena
m'hai
riservato? ove son io rapito?
onde
mi parto? chi cosí mi caccia?
chi
mi rimena? e fia ch'un'altra volta
io
ritorni a Laurento? e ch'io riveggia
l'oste
piú con quest'occhi? e che diranno
i
miei seguaci, e quei che m'han per capo
di
questa guerra, che da me son tutti
ahi
vitupèro!) abbandonati a morte?
E
già rotti li veggio, e già gli sento
gridar
cadendo. O me lasso! che faccio?
Qual
è del mar la piú profonda terra
che
mi s'apra e m'ingoi? A voi piuttosto,
vènti,
incresca di me. Voi questo legno
fiaccate
in qualche scoglio, in qualche rupe,
ch'io
stesso lo vi chieggio; o ne le sirti
mi
seppellite, ove mai piú non giunga
Rutulo
che mi veggia, o mi rinfacci
questa
vergogna e quest'infamia, ond'io
sono
a me consapevole e nimico».
Cosí dicendo, un tanto disonore
in
sé sdegnando, e di se stesso fuori,
strani,
diversi e torbidi pensieri
si
volgea per la mente, o con la spada
passarsi
il petto, o traboccarsi in mezzo,
sí
com'era, del mare, e far, notando,
pruova
o di ricondursi ond'era tolto,
o
d'affogarsi. E l'una e l'altra via
tentò
tre volte; e tre volte la dea,
di
lui mossa a pietà, ne lo distolse.
Dal
turbine e dal mar cacciato intanto
si
scórse il legno, che del padre Dauno
a
l'antica magion per forza il trasse.
Mezenzio in questo mentre che da l'ira
era
spinto di Giove, ardente e fiero
entrò
ne la battaglia; e i Teucri assalse
che
già 'l campo tenean superbi e lieti.
Da
l'altro canto le tirrene schiere
mossero
incontro a lui. Contra lui solo
s'unîr
tutti de' Toschi e gli odi e l'armi;
ed
egli, a tutti opposto, alpestro scoglio
sembrava,
che nel mar si sporga, e i flutti,
e
i vènti minacciar si senta intorno,
e
non punto si crolli. Ognun ch'avanti
o
l'ardir gli mandava o la fortuna,
a'
piè si distendea. Nel primo incontro
Ebro
di Dolicào, Làtago e Palmo
tolse
di mezzo. Ebro passò fuor fuori
con
un colpo di lancia: il volto e 'l teschio,
un
gran macigno a Làtago avventando,
infranse
tutto; ambi i garretti a Palmo
ch'avanti
gli fuggia, tronchi di netto,
lasciò
che rampicando a morir lunge
a
suo bell'agio andasse; ma de l'armi
spogliollo
in prima, e la corazza in collo
e
l'elmo in testa al suo Lauso ne pose.
Occise
dopo questi il frigio Evante:
poscia
Mimante ch'era pari a Pari
di
nascimento, e d'amor seco unito.
D'Àmico
nacque, e ne la stessa notte
Teàna
la sua madre in luce il diede,
che
diè Paride al mondo Ecuba pregna
di
fatal fiamma. E pur l'un d'essi occiso
fu
ne la patria, e l'altro sconosciuto
qui
cadde. Era a veder Mezenzio in campo
qual
orrido, sannuto, irto cignale
in
mezzo a' cani allor che da' pineti
di
Vèsolo, o da' boschi o da' pantani
di
Laurento è cacciato, ove molt'anni
si
sia difeso; ch'a le reti aggiunto
si
ferma, arruffa gli omeri e fremisce
co'
denti in guisa che non è chi presso
osi
affrontarlo, ma co' dardi solo,
e
con le grida a man salva d'intorno
gli
fan tempesta. Cosí contra a lui
non
s'arrischiando le nemiche squadre
stringere
i ferri, le minacce e l'armi
gli
avventavan da lunge; ed ei fremendo
stava
intrepido e saldo, e con lo scudo
sbattea
de l'aste il tempestoso nembo.
Di Còrito venuto a questa guerra
era
un Greco bandito, Acron chiamato,
novello
sposo che, non giunto ancora
con
la sua donna, a le sue nozze il folle
avea
l'armi anteposte. E in quella mischia
d'ostro
e d'òr riguardevole e di penne,
sponsali
arnesi e doni, ovunque andava,
per
le schiere facea strage e baruffa.
Mezenzio
il vide; e qual digiuno e fiero
leon
da fame stimolato, errando
si
sta talor sotto la mandra, e rugge:
se
poi fugace damma, o di ramose
corna
gli si discopre un cervo avanti,
s'allegra,
apre le canne, arruffa il dorso,
si
scaglia, ancide e sbrana, e 'l ceffo e l'ugne
d'atro
sangue s'intride; in tal sembiante
per
mezzo de lo stuol Mezenzio altero
s'avventa.
Acron per terra al primo incontro
ne
va rovescio; e l'armi e 'l petto infranto,
sangue
versando, e calcitrando, spira.
Morto Acrone, ecco Orode, che davanti
gli
si tolle. Ei lo segue; e non degnando
ferirlo
in fuga, o che fuggendo occulto
gli
fosse il feritor, lo giunge e 'l passa,
l'incontra,
lo provòca, a corpo a corpo
con
lui s'azzuffa, che di forze e d'armi
piú
valea che di furto. Alfin l'atterra
e
l'asta e 'l piè sopra gl'imprime e dice:
«Ecco,
Orode è caduto: una gran parte
giace
de la battaglia». A questa voce
lieti
alzaro i compagni al ciel le grida;
ed
ei mentre spirava: «Oh, - disse a lui, -
qual
che tu sii, non fia senza vendetta
la
morte mia: né lungamente altero
n'andrai:
ché dietro a me nel campo stesso
cader
convienti». A cui Mezenzio un riso
tratto
con ira: «Or sii tu morto intanto, -
rispose,
- e quel che può Giove disponga
poscia
di me». Cosí dicendo il tèlo
gli
divelse dal corpo, ed ei le luci
chiuse
al gran buio ed al perpetuo sonno.
Cèdico occise Alcato, Socratóre
occise
Idaspe; a due la vita tolse
Rapo,
a Partenio ed al gagliardo Orsone;
Messapo
anch'egli a due la morte diede:
a
Clònio da cavallo, ad Ericate,
ch'era
pedone, a piede. Agi di Licia
movendo
incontro a lui, fu da Valero
valoroso,
e de' suoi degno campione,
a
terra steso; Atron da Salio anciso;
e
Salio da Nealce, che di dardo
era
gran feritore e grande arciero.
D'ambe le parti erano Morte e Marte
del
pari; e parimente i vincitori
e
i vinti ora cadendo, ora incalzando,
seguian
la zuffa; né viltà, né fuga
né
di qua né di là vedeasi ancora.
L'ira,
la pertinacia e le fatiche
erano
e quinci e quindi ardenti e vane.
E
di questi e di quelli avean gli dèi
che
dal ciel gli vedean, pietà e cordoglio.
Stava
di qua Ciprigna e di là Giuno
a
rimirarli; e pallida fra mezzo
di
molte mila infurïando andava
la
nequitosa Erinni. Una grand'asta
prese
Mezenzio un'altra volta in mano
e
turbato squassandola, del campo
piantossi
in mezzo, ad Orïon simíle
quando
co' piè calca di Nereo i flutti,
e
sega l'onde, con le spalle sopra
a
l'onde tutte; o qual da' monti a l'aura
si
spicca annoso cerro, e 'l capo asconde
infra
le nubi. In tal sembianza armato
stava
Mezenzio. Enea tosto che 'l vede
ratto
incontro gli muove. Ed egli immoto
di
coraggio e di corpo ad aspettarlo
sta
qual pilastro in sé fondato e saldo.
Poscia
ch'a tiro d'asta avvicinato
gli
fu d'avanti: «O mia destra, o mio dardo,
disse,
- che dii mi siete, il vostro nume
a
questo colpo imploro: ed a te, Lauso,
già
di questo ladron le spoglie e l'armi
per
mio trofeo consacro». E, cosí detto,
trasse.
Stridendo andò per l'aura il tèlo:
ma
giunto, e da lo scudo in altra parte
sbattuto,
di lontan percosse Antòre
fra
le costole e 'l fianco, Antor d'Alcide
onorato
compagno. Era venuto
d'Argo
ad Evandro; e qui cadde il meschino
d'altrui
ferita. Nel cader, le luci
al
ciel rivolse e, d'Argo il dolce nome
sospirando,
le chiuse. Enea con l'asta
ben
tosto a lui rispose. E lo suo scudo
percosse
anch'egli, e l'interzate piastre
di
ferro e le tre cuoia e le tre falde
di
tela, ond'era cinto, infino al vivo
gli
passò de la coscia. Ivi fermossi,
ché
piú forza non ebbe. Ma ben tosto
ricovrò
con la spada, e fiero e lieto,
visto
già del nemico il sangue in terra
e
'l terror ne la fronte, a lui si strinse.
Lauso, che in tanto rischio il caro padre
si
vide avanti, amor, téma e dolore
se
ne sentí, ne sospirò, ne pianse.
E
qui, giovine illustre, il caso indegno
de
la tua morte e 'l tuo zelo e 'l tuo fato
non
tacerò; se pur tanta pietate
fia
chi creda de' posteri, e d'un figlio
d'un
empio padre. Il padre a sí gran colpo
si
trasse indietro; ché di già ferito,
benché
non gravemente, e da l'intrico
de
l'asta imbarazzato, era a la pugna
fatto
inutile e tardo. Or mentre cede,
mentre
che de lo scudo il dardo ostile
di
sferrar s'argomenta, il buon garzone
succede
ne la pugna, e del già mosso
braccio
e del brando che stridente e grave
calava
per ferirlo, il mortal colpo
ricevé
con lo scudo e lo sostenne.
E
perch'agio a ritrarsi il padre avesse
riparato
dal figlio, i suoi compagni
secondâr
con le grida; e con un nembo
d'armi,
che gli avventâr tutti in un tempo,
lo
ributtaro. Enea via piú feroce
infurïando,
sotto al gran pavese
si
tenea ricoverto. E qual, cadendo
grandine
a nembi, il vïator talora,
ch'in
sicuro a l'albergo è già ridotto,
ogni
agricola vede, ogni aratore
fuggir
da la campagna; o qual d'un greppo,
d'una
ripa, o d'un antro il zappatore,
piovendo,
si fa schermo, e 'l sole aspetta
per
compir l'opra; in quella stessa guisa,
tempestato
da l'armi, Enea la nube
sostenea
de la pugna; e Lauso intanto
minacciando
garria: «Dove ne vai,
meschinello,
a la morte? A che pur osi
piú
che non puoi? La tua pietà t'inganna,
e
sei giovane e soro». Ei non per questo,
folle,
meno insultava; onde piú crebbe
l'ira
del teucro duce. E già la Parca,
vòta
la rócca e non pien anco il fuso,
il
suo nitido filo avea reciso.
Trasse
Enea de la spada, e ne lo scudo,
che
liev'era e non pari a tanta forza,
lo
colpí, lo passò, passogli insieme
la
veste che di seta e d'òr contesta
gli
avea la stessa madre; e lui per mezzo
trafisse,
e moribondo a terra il trasse.
Ma poscia che di sangue e di pallore
lo
vide asperso e della morte in preda,
ne
gl'increbbe e ne pianse; e di paterna
pietà
quasi un'imago avanti agli occhi
veder
gli parve, e 'ntenerito il core,
stese
la destra e sollevollo e disse:
«Miserabil
fanciullo! e quale aíta,
quale
il pietoso Enea può farti onore
degno
de le tue lodi e del presagio
che
n'hai dato di te? L'armi, che tanto
ti
son piaciute, a te lascio, e 'l tuo corpo
a
la cura de' tuoi, se di ciò cura
ha
pur l'empio tuo padre, acciò di tomba
e
d'esequie t'onori. E tu, meschino,
poi
che dal grand'Enea morte ricevi,
di
morir ti consola». Indi assecura,
sollecita,
riprende, e de l'indugio
garrisce
i suoi compagni; e di sua mano
l'alza,
il sostiene, il terge e de la gora
del
suo sangue lo tragge, ove rovescio
giace
languido il volto e lordo il crine,
che
di rose eran prima e d'ostro e d'oro.
Stava del Tebro in su la riva intanto
lo
sfortunato padre, e la ferita
già
lavata ne l'onde, afflitto e stanco
s'era
con la persona appo d'un tronco
per
posarsi appoggiato; e l'elmo a canto
da'
rami gli pendea. L'armi piú gravi
su
'l verde prato avean posa con lui.
Stavagli
intorno de' piú scelti un cerchio
e
de' piú fidi. Ed egli anelo ed egro,
chino
il collo al troncone e 'l mento al petto,
molto
di Lauso interrogava, e molti
gli
mandava or con preci or con precetti,
ch'al
mesto padre omai si ritraesse.
Ma
già vinto, già morto e già disteso
sopra
al suo scudo, a braccia riportato
da'
suoi con molto pianto era il meschino.
Udí Mezenzio il pianto, e di lontano
(come
del mal sovente è l'uom presago)
morto
il figlio conobbe. Onde di polve
sparso
il canuto crine, ambe le mani
al
ciel alzando, al suo corpo accostossi:
«Ah!
mio figlio, - dicendo - ah! come tanto
fui
di vivere ingordo, che soffrissi
te,
di me nato, andar per me di morte
a
sí gran rischio, a tal nimica destra
succedendo
in mia vece? Adunque io salvo
son
per le tue ferite? Adunque io vivo
per
la tua morte? Oh miserabil vita!
Oh,
sconsolato esiglio! Or questo è 'l colpo
ch'al
cor m'è giunto. Ed io, mio figlio, io sono
c'ho
macchiato il tuo nome, c'ho sommerso
la
tua fortuna e 'l mio stato felice
co'
demeriti miei. Dal mio furore
son
dal seggio deposto. Io son che debbo
ogni
grave supplizio ed ogni morte
a
la mia patria, al grand'odio de' miei.
E
pur son vivo, e gli uomini non fuggo?
E
non fuggo la luce? Ah! fuggirolla
pur
una volta». E, cosí detto, alzossi
su
la ferita coscia. E, benché tardo
per
la piaga ne fosse e per l'angoscia,
non
per questo avvilito, un suo cavallo,
ch'era
quanto diletto e quanta speme
avea
ne l'armi, e quel che in ogni guerra
salvo
mai sempre e vincitor lo rese,
addur
si fece. E poi che addolorato
sel
vide avanti, in tal guisa gli disse:
«Rebo,
noi siam fin qui vissuti assai,
se
pur assai di vita ha mortal cosa.
Oggi
è quel dí che o vincitori il capo
riporterem
d'Enea con quelle spoglie
che
son de l'armi del mio figlio infette,
e
che tu del mio duolo e de la morte
di
lui vendicator meco sarai;
o
che meco, se vano è 'l poter nostro,
finirai
parimente i giorni tuoi;
ché
la tua fé, cred'io, la tua fortezza
sdegnoso
ti farà d'esser soggetto
a'
miei nemici, e di servire altrui».
Cosí dicendo, il consueto dorso
per
se medesmo il buon Rebo gli offerse,
ed
ei, l'elmo ripreso, il cui cimiero
era
pur di cavallo un'irta coda,
suvvi,
come poté, comodamente
vi
s'adagiò. Poscia d'acuti strali
ambe
carche le mani, infra le schiere
lanciossi.
Amor, vergogna, insania e lutto
e
dolore e furore e coscïenza
del
suo stesso valore, accolti in uno,
gli
arsero il core e gli avvamparo il volto.
Qui tre volte a gran voce Enea sfidando
chiamò;
che tosto udillo, e baldanzoso:
«Cosí
piaccia al gran padre, - gli rispose -
cosí
t'inspiri Apollo. Or vien pur via»
soggiunge;
e ratto incontro gli si mosse.
Ed
egli: «Ah dispietato! a che minacci,
già
che morto è 'l mio figlio? In ciò potevi
darmi
tu morte. Or né la morte io temo,
né
gli tuoi dèi. Non piú spaventi. Io vengo
di
morir desïoso: e questi doni
ti
porto in prima». E 'l primo dardo trasse,
poi
l'altro e l'altro appresso, e via traendo
gli
discorrea d'intorno. Ai colpi tutti
resse
il dorato scudo. E già tre volte
l'un
girato il cavallo, e l'altro il bosco
avea
de' dardi nel suo scudo infissi,
quando
il figlio d'Anchise, impazïente
di
tanto indugio e di sferrar tant'aste,
visto
'l suo disvantaggio, a molte cose
andò
pensando. Alfin di guardia uscito
addosso
gli si spinse, e trasse il tèlo
sí
che del corridore il teschio infisse
in
mezzo de la fronte. Inalberossi
a
quel colpo il feroce, e calci a l'aura
traendo,
scalpitando, e 'l collo e 'l tèlo
scotendo,
s'intricò: cadde con l'asta,
con
l'armi, col campione, a capo chino,
tutti
in un mucchio. Andâr le grida al cielo
de' Latini e de' Teucri. E tosto Enea
col
brando ignudo gli fu sopra e disse:
«Or
dov'è quel sí fiero e sí tremendo
Mezenzio?
Ov'è la sua tanta bravura?»
E
'l Tosco a lui, poiché l'afflitte luci
al
ciel rivolse, e seco si ristrinse:
«Crudele,
a che m'insulti? A me di biasmo
non
è ch'io muoia, né per vincer, teco
venni
a battaglia. Il mio Lauso morendo
fe'
con te patto che morissi anch'io.
Solo
ti prego (se di grazia alcuna
son
degni i vinti) che 'l mio corpo lasci
coprir
di terra. Io so gli odi immortali
che
mi portano i miei. Dal furor loro
ti
supplico a sottrarmi, e col mio figlio
consentir
ch'io mi giaccia». E ciò dicendo
la
gola per se stesso al ferro offerse;
e
con un fiume che di sangue sparse
sopra
l'armi, versò l'anima e 'l fiato.
Passò la notte intanto, e già
dal mare
sorgea
l'Aurora. Enea, quantunque il tempo,
l'officio
e la pietà piú lo stringesse
a
seppellire i suoi, quantunque offeso
da
tante morti il cor funesto avesse;
tosto
che 'l sole apparve, il vóto sciolse
de
la vittoria. E sovra un picciol colle
tronca
de' rami una gran quercia eresse;
de
l'armi la rinvolse, e de le spoglie
l'adornò
di Mezenzio, e per trofeo
a
te, gran Marte, dedicolla. In cima
l'elmo
vi pose, e 'n su l'elmo il cimiero,
ancor
di polve e d'atro sangue asperso.
L'aste
d'intorno attraversate e rotte
stavan
quai secchi rami; e 'l tronco in mezzo
sostenea
la corazza che smagliata
e
da dodici colpi era trafitta.
Dal
manco lato gli pendea lo scudo:
al
destr'omero il brando era attaccato,
che
'l fodro avea d'avorio e l'else d'oro.
Indi
i suoi duci e le sue genti accolte,
che
liete gli gridâr vittoria intorno,
in
cotal guisa a confortar si diede:
«Compagni, il piú s'è fatto. A quel
che resta
nulla
temete. Ecco Mezenzio è morto
per
le mie mani, e queste che vedete,
l'opime
spoglie e le primizie sono
del
superbo tiranno. Ora a le mura
ce
n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi
s'accinga:
ognun s'affidi, e si prometta
guerra
e vittoria. In punto vi mettete,
ché
quando dagli augúri ne s'accenne
di
muover campo, e che mestier ne sia
d'inalberar
l'insegne, indugio alcuno
non
c'impedisca, o 'l dubbio o la paura
non
ci ritardi. In questo mezzo a' morti
diam
sepoltura, e quel che lor dovuto
è
sol dopo la morte, eterno onore.
Itene
adunque, e quell'anime chiare
che
n'han col proprio sangue e con la vita
questa
patria acquistata e questo impero,
d'ultimi
doni ornate. E primamente
al
mesto Evandro il figlio si rimandi,
che,
di virtú maturo e d'anni acerbo,
cosí
n'ha morte indegnamente estinto».
Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr
la magione, u' di Pallante il corpo
dal
vecchierello Acete era guardato.
Era
costui già del parrasio Evandro
donzello
d'armi; e poscia per compagno
fu
(ma non già con sí lieta fortuna)
dato
al suo caro alunno. Avea con lui
d'Arcadi
suoi vassalli e di Troiani
una
gran turba. Scapigliate e meste
le
donne d'Ilio, sí com'era usanza,
gli
piangevano intorno; e non fu prima
Enea
comparso che le strida e i pianti
si
rinnovaro. Il batter de le mani,
il
suon de' petti, e de l'albergo i mugghi
n'andâr
fino a le stelle. Ei poi che vide
il
suo corpo disteso, e 'l bianco volto,
e
l'aperta ferita che nel petto
di
man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando
proruppe: «O miserando
fanciullo,
e che mi val s'amica e destra
mi
si mostra fortuna? E che m'ha dato,
se te m'ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che,
regnando, farò, se tu non godi
de
la vittoria mia, né del mio regno?
Ah!
non fec'io queste promesse allora
al
buon Evandro, ch'a l'acquisto venni
di
questo impero. E ben temette il saggio,
e
ben ne ricordò che duro intoppo,
e
d'aspra gente, avremmo. E forse ancora
il
meschino or fa vóti e preci e doni
per
la nostra salute, e vanamente
vittoria
s'impromette. E noi con vana
pompa
gli riportiam questo infelice
giovine
di già morto, e di già nulla
piú
tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte
del figlio tuo? Questo ritorno,
questo
trionfo ohimè! d'ambi aspettavi?
E
da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no
'l vedrai già di vergognose piaghe
ferito
il tergo; e non gli arai tu stesso
(se
con infamia a te vivo tornasse)
a
desïar la morte. Ahi, quanto manca
al
sussidio d'Italia, e quanto perdi,
mio
figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,
ordine
diè che 'l miserabil corpo
via
si togliesse; e del suo campo tutto
scelse
di mille una pregiata schiera
che
scorta gli facesse e pompa intorno,
e
d'Evandro a le lagrime assistesse,
e
le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai
debil conforto, e pur dovuto
al
suo misero padre. Altri al suo corpo,
altri
a la bara intenti, avean di quercia,
d'àrbuto
e di tali altri agresti rami
fatto
un ferètro di virgulti intesto
e
di frondi coperto, ove altamente
del
giovinetto il delicato busto
composto
si giacea qual di vïola,
o
di giacinto un languidetto fiore
còlto
per man di vergine, e serbato
tra
le sue stesse foglie, allor che scemo
non
è del tutto il suo natio colore
né
la sua forma; e pur da la sua madre
punto
di cibo o di vigor non ave.
Enea due prezïose vesti intanto,
l'una
d'òr fino e l'altra di scarlatto,
addur
si fece, ambe ornamenti e doni
de
la sidonia Dido, e da lei stessa
con
dolce studio e con mirabil arte
ricamate
e distinte. E l'una indosso
gli
pose, e l'altra in capo, ultimo onore
con
che dolente la dorata chioma
allor
velogli, ch'era additta al foco.
De
le prede oltre a ciò di Laürento
gli
fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar
l'armi, i cavalli e l'altre spoglie
tolte
a' nimici. Gli fa gir legati
con
le man dietro i destinati a morte
per
ordinanza del funereo rogo.
Portar
gli fa davanti a' duci loro
l'armi
ai tronchi sospese, e i nomi scritti
degli
occisi e de' vinti. Il vecchio Acete
che,
sí com'era afflitto e d'anni grave,
gli
era appresso condotto, or con le pugna
si
battea 'l petto, ed or con l'ugna il volto
si
lacerava, e tra la polve e 'l fango
si
volgea tutto. Ivano i carri aspersi
del
sangue de' Latini, iva lugúbre,
e
d'ornamenti ignudo, Eto, il piú fido
suo
caval da battaglia, che gemendo
in
guisa umana e lagrimando andava.
Seguian
le meste squadre i Teucri, i Toschi
e
gli Arcadi, con l'armi e con l'insegne
rivolte
a terra. Or poi ch'oltrepassata
con
quest'ordine fu la pompa tutta,
Enea
fermossi, e verso il morto amico
ad
alta voce sospirando disse:
«Noi quinci ad altre lagrime chiamati
dal
medesimo fato, altre battaglie
imprenderemo.
E tu, magno Pallante,
vattene
in pace, e con eterna gloria
godi
eterno riposo». Indi partendo
vèr
l'alte mura, al campo si ritrasse.
Eran nel campo già co' rami avanti
di
pacifera oliva ambasciatori
de
la città latina a lui venuti,
che
tregua a' vivi e sepoltura a' morti,
pregando,
gli mostrâr che piú co' vinti
né
co' morti è contrasto, e che Latino
gli
era d'ospizio amico, e che chiamato
l'avea
genero in prima. Il buon Troiano
a
le giuste preghiere, ai lor quesiti,
che
di grazia eran degni, incontinente
grazïoso
mostrossi; e da vantaggio
cosí
lor disse: «E qual indegna sorte
contra
me, miei Latini, in tanta guerra
cosí
v'intrica? Che pur vostro amico
son
qui venuto: né venuto ancora
vi
sarei, se da' fati e dagli dèi
mandato
io non vi fossi. E non pur pace,
siccome
voi chiedete, io vi concedo
per
color che son morti, ma co' vivi
ve
l'offro, e la vi chieggo. E la mia guerra
non
è con voi; ma 'l vostro re s'è tolto
da
l'amicizia mia: s'è confidato
piú
ne l'armi di Turno, e Turno ancora
meglio
e piú giustamente in ciò farebbe,
s'a
questa guerra sol con suo periglio
ponesse
fine. E poiché si dispose
di
cacciarmi d'Italia, il suo dovere
fôra
stato che meco, e con quest'armi
difinita
l'avesse. E saria visso
cui
la sua propria destra, e dio concesso
piú
vita avesse; e i vostri cittadini
non
sarian morti. Or poiché morti sono,
io
me ne dolgo, e voi gli seppellite».
Restaro al dir d'Enea stupidi e cheti
i
latini oratori, e l'un con l'altro
si
guardarono in volto. Indi il piú vecchio,
Drance
nomato, a cui Turno fu sempre
per
sua natura e per sua colpa in ira,
rotto
il silenzio, in tal guisa rispose:
«O
di fama e piú d'arme eccelso e grande
troiano
eroe, qual mai fia nostra lode
che
'l tuo gran merto agguagli? e di che prima
ti
loderemo? ch'io non veggio quale
in
te maggior si mostri, o la giustizia,
o
la gloria de l'armi. A questa tanta
grazia
che tu ne fai, grati saremo:
rapporto
ne faremo; e s'al consiglio
nostro
è fortuna amica, amico ancora
ti
fia Latino. E cerchisi d'altronde
Turno
altra lega. A noi co' sassi in collo
gioverà
di trovarne a fondar vosco
questa
vostra fatal novella Troia».
Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi
tutti
gli altri fremendo acconsentiro,
e
per dodici dí commercio e pace
fur
tra l'un oste e l'altro. E senza offesa
entrambi
si mischiaro, e per gli monti
e
per le selve a lor diletto andaro.
Allor
sonare accette e strider carri
per
tutto udissi. In ogni parte a terra
ne
gîro i cerri e gli orni e gli alti pini
e
gli odorati cedri al funebre uso
svèlti,
squarciati e tronchi. E già la Fama,
che
di Pallante a Pallantèo volata
dicea
pria le sue prove, e vincitore
l'avea
gridato, or d'ogni parte grida
che
morto si riporta. In ciò commossa
la
città tutta in vedovile aspetto
di
funeste facelle e d'atri panni
si
vide piena; e vèr le porte ognuno
gli
usciro incontro. Si vedea di lumi
e
di genti una fila che le strade
e
i campi in lunga pompa attraversava.
I
Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo
ne venian da l'altra parte,
e
con pianto incontrârsi. Indi rivolti
tutti
vèr la città, non pria fûr giunti,
che
di pianti di donne e d'ululati
risonar
d'ogn'intorno il cielo udissi.
Né
forza, né consiglio, né decoro
fu
ch'Evandro tenesse. Uscí nel mezzo
di
tutta gente; e la funerea bara
fermando,
addosso al figlio in abbandono
si
gittò, l'abbracciò, stretto lo tenne
lunga
fïata, e da l'angoscia oppresso
pria
lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia,
la strada al gran dolore aperta,
cosí
proruppe: «O mio Pallante, e queste
fûr
le promesse tue, quando partendo
il
tuo padre lasciasti? In questa guisa
d'esser
guardingo e cauto mi dicesti
ne'
perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben
sapev'io quanto ne l'armi prime
fosse,
in cor generoso, ardente e dolce
il
desio de la gloria e de l'onore.
Primizie
infauste, infausti fondamenti
de
la tua gioventú! vane preghiere,
vóti
miei non accetti e non intesi
da
nïun dio! Santissima consorte,
che
morendo fuggisti un dolor tale,
quanto
sei tu di tua morte felice!
Quanto
infelice e misero son io,
che
vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo,
i miei fati e i miei giorni
prolungo
a mio tormento! Ah! foss'io stesso
uscito
co' Troiani a questa guerra!
ch'io
sarei morto! e questa pompa avrebbe
me
cosí riportato, e non Pallante.
Né
per questo di voi, né de la lega,
né
de l'ospizio vostro io mi rammarco,
Troiani
amici. Era a la mia vecchiezza
questa
sorte dovuta. E se dovea
cader
mio figlio, perché tanta strage
io
vedessi de' Volsci, e perché Lazio
fosse
a' Teucri soggetto, in pace io soffro
che
sia caduto. E piú compíto onore
non
aresti da me, Pallante mio,
di
questo che 'l pietoso e magno Enea
e
i suoi magni Troiani e i toschi duci
e
tutte insieme le toscane genti
t'han
procurato. Con sí gran trofei
del
tuo valor sí chiara mostra han fatto,
e
de' vinti da te. Né fôra meno
tra
questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,
Turno,
stato d'età pari il mio figlio,
e
par de la persona e de le forze
che
ne dan gli anni. Ma che piú trattengo
quest'armi
a' Teucri? Andate, e da mia parte
riferite
ad Enea che, quel ch'io vivo
dopo
Pallante, è sol perché l'invitta
sua
destra, come vede, al figlio mio
ed
a me deve Turno. E questo solo
gli
manca per colmar la sua fortuna
e
'l suo gran merto; ché per mio contento
no
'l curo; e contentezza altra non deggio
sperare
io piú che di portare io stesso
questa
novella di Pallante a l'ombra».
Avea l'Aurora col suo lume intanto
il
giorno e l'opre e le fatiche insieme
ricondotte
a' mortali. Il padre Enea
e
'l buon Tarconte, ambi, in su 'l curvo lito
i
cadaveri addotti, a' suoi ciascuno
com'era
l'uso, un'alta pira eresse,
la
compose e l'incese. E mentre il foco
di
fumo e di caligine coverto
tenea
l'aëre intorno, in ordinanza
tre
volte, armati, a piè la circondaro,
e
tre volte a cavallo, in mesta guisa
ululando,
piangendo, e l'armi e 'l suolo
di
lagrime spargendo. Infino al cielo
penetrâr
de le genti e de le tube
i
dolorosi accenti. Altri gridando
le
pire intorno, elmi, corazze e dardi
e
ben guernite spade e freni e ruote
avventaron
nel foco, e de' nemici
armi
d'ogni maniera, arnesi e spoglie;
altri
i lor propri doni, e degli occisi
medesmi
vi gittâr l'aste infelici,
e
gl'infelici scudi, ond'essi invano
s'eran
difesi. A le cataste intorno
molti
gran buoi, molti setosi porci,
molte
fûr pecorelle occise ed arse.
A
sí mesto spettacolo in sul lito
stavan
altri piangendo, altri osservando
ciascuno
i suoi piú cari, infin che 'l foco
gli
consumasse. E questi l'ossa, e quelli
le
ceneri accogliendo, il giorno tutto
in
sí pietoso officio trapassaro:
né
se ne tolser finché, spenti i fochi,
non
s'acceser le stelle. In altra parte
i
miseri Latini ai corpi loro
fêr
cataste infinite. Altri sotterra
ne
seppelliro; altri a le ville intorno,
ed
altri a la città ne trasportaro.
E
quei che senza numero confusi
giacean
nel campo, senza onore a mucchi
furon
combusti: onde i villaggi insieme
e
le campagne di funesti incendi
lucean
per tutto. E tre luci e tre notti
durâr
gli afflitti amici e i dolorosi
parenti
a ricercar le tiepid'ossa,
e
ne l'urne riporle e ne' sepolcri.
Ma la confusïone e 'l pianto e 'l duolo
era
ne la città per la piú parte,
e
ne la reggia al re Latino avanti.
Qui
le madri, le nuore, le sorelle
e
i miseri pupilli, che de' padri,
de'
figli, de' mariti e de' fratelli
erano
in questa guerra orbi rimasi,
la
guerra abbominavano e le nozze
detestavan
di Turno. «Ei da se stesso, -
dicendo,
- ei che d'Italia al regno aspira,
e
le grandezze e i primi onori agogna,
con
l'armi e col suo sangue le s'acquisti,
e
non col nostro». In ciò Drance aggravando
vie
piú le cose, come a Turno infesto,
attestando
dicea che sol con Turno
volea
briga il Troiano, e che sol esso
era
a pugna con lui cerco e chiamato.
Altri
d'altro parere, altre ragioni
dicean
per Turno: e 'l gran nome d'Amata
e
'l suo favore e di lui stesso il merto
con
la fama de' suoi tanti trofei
sostenean
la sua causa. Ed ecco, intanto
che
cosí si tumultua e si travaglia,
mesti
sopravvenir gl'imbasciadori
ch'in
Arpi a Dïomede avean mandati;
e
riportar, che le fatiche e i passi
avean
perduti: che né dono alcuno,
né
promesse, né preci, né ragioni
furon
bastanti ad impetrar soccorso
né
da lui né da' suoi: ch'era d'altronde
di
mestiero a' Latini avere altr'armi,
o
trattar co' nemici accordo e pace.
Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
ne
fece il re Latino. E ben conobbe
che
manifestamente Enea da' fati
era
portato; e via piú manifesta
si
vedea degli dèi l'ira davanti
in
tanta che de' suoi negli occhi avea
strage
recente. Il gran consiglio adunque,
e
de' suoi primi, ne la regia corte
chiamar
si fece. In un momento piene
ne
fûr le strade; e di già tutti accolti
ne
la gran sala, il re, di grado e d'anni
il
primo, a tutti in mezzo, in non sereno
sembiante,
comandò che primamente
i
legati che d'Arpi eran tornati,
fossero
uditi; ed a lor vòlto disse:
«Esponete
per ordine il seguíto
de
la vostra ambasciata, e la risposta
che
ritratta n'avete». A tal precetto
tacquero
tutti; e Vènolo sorgendo,
cosí
pria incominciò: «Noi dopo molti
superati
pericoli e fatiche,
egregi
cittadini, al campo argivo
ne
la Puglia arrivammo; e Dïomede
vedemmo
alfine; e quell'invitta destra
toccammo,
ond'è 'l grand'Ilio arso e distrutto.
In
Iapigia il trovammo a le radici
del
gran monte Gargàno, ove fondava,
già
vincitore, Argíripa, una terra
che
dal patrio Argirippo ha nominata.
Intromessi
che fummo, il presentammo;
gli
esponemmo la patria, il nome e 'l fatto
de
la nostra imbasciata, e la cagione,
onde
a lui venivamo. Il tutto udito,
cosí
benignamente ne rispose:
"O fortunate genti, o di Saturno
felice
regno, o degli antichi Ausoni
famosa
terra! E quale iniqua sorte
da
la vostra quïete or vi sottragge?
Qual
consiglio, qual forza vi costringe
di
nemicarvi e guerreggiar con gente
che
non v'è nota? Noi quanti già fummo
col
ferro a vïolar di Troia i campi
(non
parlo degli strazi e de le stragi
di
quei che vi rimasero, ché pieni
ne
sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco
n'uscimmo
con la vita, in ogni parte
siam
poi giti del mondo tapinando,
con
nefandi supplíci, e con atroci
morti
pagando il fio, come d'un grave
e
scellerato eccesso. E non ch'altrui,
Prïamo
stesso a pietà mosso avrebbe
il
fiero, che di noi s'è fatto, scempio.
Di
Palla il sa la sfortunata stella;
sallo
il vendicator Cafàreo monte
e
gli euboïci scogli: il san di Proteo
le
longinque colonne, insino a dove,
dopo
quella milizia, andò ramingo
l'un de' figli d'Atreo. D'Etna i Ciclopi
ne
vide Ulisse. Il suo regno a' suoi servi
ne
lasciò Pirro. Idomeneo cacciato
ne
fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
condottier
degli Argivi, il piede a pena
nel
suo regno ripose, che del regno,
del
letto e de la vita anco privato
fu
da la scellerata sua consorte.
Né
gli giovò che doma l'Asia e spento
l'uno
adultero avesse; ché de l'altro
scherno
e preda rimase. A me l'invidia
ha
degli dèi di piú veder disdetto
la
mia bella città di Calidóna,
e
la mia cara e desïata donna.
Né
di ciò sazi, orribili spaventi
mi
dànno ancora. E pur dianzi in augelli
conversi
i miei compagni (o miseranda
lor
pena!) van per l'aura e per gli scogli
di
lacrimosi accenti il cielo empiendo.
Questi
sono i profitti e le speranze
ch'io
fin qui ne ritraggo, da che, folle!
stringer
contro a' celesti il ferro osai,
e
che di Citerea la destra offesi.
Or
ch'io di nuovo una tal pugna imprenda
testé con voi? No, no, ch'io co' Troiani,
dopo
Troia espugnata, altra cagione
non
ho di guerra; e de' passati mali
volentier
mi dimentico, e dolore
ancor
ne sento. E, quanto a' doni, andate,
riportateli
vosco, e 'l magno Enea
ne
presentate. E solo a me credete
del
valor suo, che fui con esso a fronte
con
l'armi in mano; e so di scudo e d'asta
qual
mi rese buon conto, e quanto vaglia.
Se
due tali altri avea la terra idèa,
d'Ida
fôra piuttosto ita la gente
ai
danni de la Grecia; e 'l troian fato
piangerebb'ella.
Enea sol con Ettorre
fu
la cagion che tanto s'indugiasse
la
ruina di Troia, e che diece anni
durammo
a conquistarla. Ambedue questi
eran
di cor, di forze e d'arme uguali,
ma
ben fu di pietate Enea maggiore.
Io
vi consiglio che, comunque sia,
lega
seco, amicizia e pace aggiate,
e
l'incontro fuggiate e l'armi sue".
Questa
è la sua risposta; e quinci avete,
ottimo
re, qual sia di questa guerra
il
suo parere e 'l nostro». A pena uditi
furo
i legati, che bisbiglio e fremito
infra
i turbati Ausoni udissi, in guisa
che
di rapido fiume un chiuso gorgo
mormora
allor che fra gli opposti sassi
s'apre
la strada, e gorgogliando cade,
e
frange e rugghia, e le vicine ripe
ne
risuonan d'intorno. Or poiché un poco
restò
'l tumulto, e gli animi acquetârsi,
gli
dèi prima invocando, un'altra volta
il
re da l'alto seggio a dir riprese:
«Latini miei, lo mio parere e 'l meglio
sarebbe
stato, che d'un tanto affare
si
fosse prima consultato, e fermo
il
nostro avviso; e non chiamar consiglio,
quando
il nimico in su le porte avemo.
Una
importuna e perigliosa guerra
s'è,
cittadini, impresa, e per nimica
tolta
una gente, che dal ciel discesa,
da'
celesti e da' fati è qui mandata;
feroce,
insuperabile, indefessa,
ne
l'armi invitta, che né vinta ancora
cessa
dal ferro. Se speranza alcuna
negli
esterni soccorsi e ne l'aíta
aveste
degli Etòli, ora del tutto
la
deponete: e sia speme a se stesso
ciascun
per sé. Ma noi per noi, che speme
e
che possanza avemo? Ecco davanti
agli
occhi vostri, e fra le vostre mani
vedete
la strettezza e la ruina
in
che noi siamo. Né però ne 'ncolpo
alcun
di voi. Tutto 'l valor s'è mostro
che
mostrar si potea: con tutto 'l corpo,
e
con quanto ha di forza il nostro regno
s'è
combattuto. Or quale in tanto dubbio
sia
la mia mente, udite. È nel mio stato
vicino
al Tebro un territorio antico,
che
in vèr l'occaso per lunghezza attinge
fin
dove de' Sicani era il confine.
Dagli
Rutuli è cólto e dagli Aurunci,
che
i duri colli e i piú deserti paschi
ne
tengon da l'un canto: a questo aggiungo
quella
piaggia di pini e quella costa
de
la montagna; e tutto è mio disegno
che
si ceda a' Troiani e ch'amicizia,
accordo
e patti e lega e leggi eguali
abbiam
con essi; e qui, s'a qui fermarsi
sono
o da' fati o dal desire indotti,
ferminsi;
e i loro alberghi e le lor mura
fondino
a lor diletto. E s'altra parte
cercano
e d'altre genti (se pur ponno
tôrsi
da noi) quando di venti navi,
o
di piú sovvenir ne gli bisogni,
su
la stessa marina apparecchiata
è
la materia. Essi de' legni il modo
e
'l numero diranno: e noi le selve,
la
maestranza, i ferramenti e tutto
che
fia lor di mestiero appresteremo.
Con
questa offerta io manderei de' primi
de
la nostra città cento oratori
co'
rami de la pace, col mandato
di
contrattarla, co' presenti appresso
d'avorio
e d'oro e col seggio e col manto
del
nostro regno. Consultate or voi,
ed
a l'afflitte e mal condotte cose
d'aíta
provvedete e di soccorso».
Surse allor Drance, quei che già
s'è detto
avversario
di Turno. Era costui
del
regno de' Latini un de' piú ricchi
e
de' piú reputati cittadini:
di
fazïon, di sèguito e di lingua
possente
assai; ne le consulte avuto
di
qualche stima; nel mestier de l'armi
codardo,
anzi che no. La sua chiarezza
e
'l suo fasto venia da la sua madre
ch'era
d'alto legnaggio. Il padre a pena
era
noto a le genti. Or questo, infesto
a
la gloria di Turno, asperso il core
d'amarezza
e d'invidia, in questa guisa
il
suo fatto aggravando, e l'ire altrui
irritando,
parlò: «Chiaro, evidente
e
necessario, ottimo re, n'è tanto
quel
che tu ne consigli, che bisogno
d'altro
non ha che di comune assenso.
Ognun
vede, ognun sa quel che conviene
in
sí dura fortuna: e nullo ardisce
pur
d'aprir bocca. Libertate almeno
di
parlar ne si dia. Scemi una volta
tanta
sua tracotanza e tanto orgoglio
chi
co' suoi male avventurosi auspíci,
co'
sinistri suoi modi (io pur dirollo,
benché
d'armi e di morte mi minacci)
n'ha
qui condotti, e per cui tanti duci,
tanta
gente è perita, e tutta in pianto
questa
cittade e questo regno è vòlto;
mentre
ne la sua furia, o ne la fuga
confidando
piuttosto, il troian campo
ha
d'assalire osato, e fin nel cielo
posto
ha con l'armi sue téma e scompiglio.
Solo
un dono, signor, fra tanti doni
che
si mandano a' Teucri, un sol n'aggiungi;
né
consentir che vïolenza altrui
tel
proibisca. Da', buon padre, ancora
questa
tua figlia a genero sí degno
e
con sí degno maritaggio eterna
fa
questa pace. E se 'l terrore è tanto
che
s'ha di lui, da lui stesso impetriamo
grazia
e licenza che la patria sua,
che
'l suo re prevaler si possa almeno
del
suo sangue a suo modo. E tu cagione,
tu
di tanta ruina autore e capo,
a
che pur tante volte, a tanti strazi,
a
tanti rischi, a manifesta morte
questi
tuoi meschinelli cittadini
esponi
indarno? e qual è ne la guerra
piú
salute e speranza? A te noi tutti
pace,
Turno, chiedemo, e de la pace
quel
ch'è sol fermo e 'nviolabil pegno;
ed
io prima di tutti, io cui tu fingi
che
nimico ti sia (né tal mi curo
che
tu mi tenga) a supplicar ti vegno
umilemente.
Abbi pietà de' tuoi;
pon
giú la stizza; e poi che sei cacciato,
vattene.
Assai di strage, assai di morti
s'è
visto: assai ne son le genti afflitte;
vedovi
i tetti e desolati i campi;
ma
se l'onor ti muove, e se concepi
di
te tanto in te stesso, e tanto agogni
o
la donna o la dote, a che non osi
contro
a chi te ne priva? A Turno adunque
regno
col nostro sangue e regia moglie
procureremo:
e noi vili alme, e turba
non
sepolta e non pianta, a' cani in preda
giaceremo
in su' campi? Or
tu, tu stesso,
se
tanto hai d'ardimento e di valore
dal
paterno legnaggio, a lui rispondi,
a
lui ti volgi, che ti sfida e chiama».
Turno, ch'impetuoso e vïolento
era
da sé, questo parlare udito,
alto
un gemito trasse, e d'ira acceso
cosí
proruppe: «Usanza tua fu sempre,
Drance,
allor che di mani è piú bisogno,
oprar
la lingua; essere in corte il primo,
l'ultimo
in campo. Ma non piú parole
in
questo loco, ché già pieno troppo
ne
l'hai; pur troppo grandi e troppo gonfie
l'avventi,
e senza rischio or ch'i nemici
son
lunge, e buone fosse e buone mura
ci
son di mezzo, e non c'inonda il sangue.
Apri
qui bocca al solito, e rintuona
con
la facondia tua. Tu, che se' Drance,
me,
che son Turno, imbelle e vile appella;
tu
la cui dianzi sanguinosa destra
pieni
i campi di morti, e pieni i colli
ha
di trofei. Ma che non pruovi ancora
questa
tua gran virtú? Forse, ch'avemo
a
cercar de' nemici? Ecco d'intorno
ci
sono, e 'n su le porte. Andrem lor contra?
Che
badi? Ov'è la tua tanta prodezza?
sempre
è nel vento, sempre è ne la fuga
de
la lingua e de' piè? tu mi rinfacci
ch'io
sia cacciato? tu, vituperoso,
di
dirlo osasti? e chi meritamente
sarà
che 'l dica? Oh! non s'è visto il Tebro
fatto
gonfio da me del frigio sangue?
non
s'è vista la casa e 'l seme tutto
spento
d'Evandro, e gli Arcadi spogliati
d'armi
e di vita? Io non fui già da Pandaro
cacciato,
né da Bizia, né da mille
che
in un dí vincitore a morte io diedi,
circondato
da loro e cinto e chiuso
da
le lor mura. Nulla è ne la guerra
piú
salute o speranza: al teucro duce,
a
te, folle, al tuo capo, a le tue cose
fa'
questo annunzio. E non tutto in soqquadro
por
con tanta paura, e tanta stima
che
fai de la prodezza e de le forze
d'una
gente che già due volte è vinta;
e
non tanto avvilir da l'altro canto
l'armi
del re Latino. Ai Mirmidóni
son
ora, al gran Dïomede, al grande Achille
i
Teucri formidabili e tremendi;
e
dal mar se ne torna per paura
l'Àufido
indietro. E forse che non finge
temer
di me, perché il mio fallo aggravi?
Malvagia
astuzia! Ma non piú per nulla
vo'
che ne tema. Un'anima sí vile
non
ti torrà la mia destra già mai.
Stiesi
pur teco, e nel tuo petto alloggi,
di
lei ben degno albergo. Or a te vegno,
gran
padre, e 'l tuo parer discorro, e dico:
Se
tu piú non t'affidi, e piú non credi
ne
l'armi tue; s'abbandonati affatto
siam
d'ogni parte; se una volta rotti,
siam
per sempre perduti; e se fortuna,
varïando
le veci, unqua non cangia,
signor,
pace imploriamo; e l'armi in terra
gittando,
a giunte mani accordo e vènia
impetriam
dai nemici. Ancorché, quando
oh!
del nostro valor punto in noi fosse!
sopra
tutti felice, riposato,
e
glorïoso spirito sarebbe
chi,
per ciò non veder, morto si fosse!
Ma
se le nostre forze ancor son verdi,
la
nostra gioventú florida, intatta,
disposta
e pronta a l'armi; e per sussidio
i
popoli d'Italia e le cittadi
son
con noi tutte; e s'a' nemici ancora
sanguinosa,
dannosa e poco lieta
è
questa gloria; ed han de' morti anch'essi
la
parte loro; e la tempesta è pari
d'ambe
le parti; a che nel primo intoppo
con
tanto scorno, a noi stessi mancando,
gittarne
a terra? a che tremare avanti
che
la tromba si senta? A la giornata
il
tempo stesso, il varïar de' casi,
l'industria,
le vicende, il moto e 'l giuoco
potria
de la fortuna in molte guise,
come
suol l'altre cose, ancor le nostre,
cangiando,
risarcire, e porre in saldo.
Non
avrem Dïomede in nostro aiuto;
avrem
Messapo; avremo il fortunato
Tolunnio;
avrem tant'altri incliti duci
di
tant'altre città. Né di men gloria,
né
di minor virtú saranno i nostri
di
Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,
la
gran volsca virago, che n'addusse
di
cavalieri e di caterve armate
sí
bella gente. E se me solo appella
il
nemico a battaglia, e se v'aggrada
che
sol io gli risponda ed io sol osto
al
ben comune, io solamente assumo
sopra
me questa impresa. E già non credo
che
le mie man sí la vittoria abborra,
che
per tanta ch'io n'aggia, e speme e gioia,
accettar
non la deggia. Androgli incontro
con
l'animo, se fosse anco maggiore
del
magno Achille, e come Achille, anch'egli
l'armi
di Mongibello indosso avesse.
Io
Turno, io che non punto a qual si fosse
mai
degli antichi di valor non cedo,
questa
mia vita stessa a voi, Latini,
ed
a Latin mio suocero consacro
solennemente.
Enea me solo invita;
l'accetto,
il bramo e 'l prego, anzi che Drance,
s'ira
è questa di dio, con la sua morte
la
purghi, o che la gloria me ne tolga,
s'è
pur gloria o vertute». In cotal guisa
consultando
i Latini avean tra loro
dispareri
e tenzoni. Usciti a campo
erano
i Teucri intanto. Ed ecco un messo
venir
volando, che la reggia tutta
e
tutta la città pose in tumulto,
annunzïando
che dal tosco fiume
già
mosso de' Troiani e de' Tirreni
se
ne venia l'esercito in battaglia
in
vèr Laurento; e che di genti e d'armi
si
vedean piene le campagne e i colli.
Gli animi incontinente si turbaro;
sgomentossene
il volgo: ai valorosi
s'acceser
l'ire. Trepidando ognuno
discorrea
per le strade; arme fremea
la
gioventú; dolenti e lagrimosi
i
padri discordando, e chi per Turno
sentendo
e chi per Drance, avean tra loro
vari
bisbigli. E tutto il corpo insieme
facea
de la città tale un trambusto,
e
tal ne l'aura unitamente un suono,
qual
è se spaventata esce d'un bosco
torma
di rochi augelli, o qual talora
da
le pescose rive di Padusa
van
per gli stagni schiamazzando a schiere
turbati
i cigni. In tale occasïone
gridava
Turno: «Or questo è, padri, il tempo
di
seder a consiglio: or consigliate
agiatamente:
aggiate sopra tutto
cura
a la pace, or ch'i nemici armati
ne
son già sopra». E, cosí detto a pena,
saltò
fuor de la reggia; e vòlto a torno:
«Arma,
- disse, - tu, Vòluso, i tuoi Volsci,
e
tu, Messapo, i rutuli cavalli.
Tu,
Catillo, e tu Cora, uscite a campo:
va
tu con la tua gente a la muraglia
incontinente;
e tu dispensa i tuoi
fra
le porte e le torri. Ite voi meco,
che
rimanete; e ciascuno armi i suoi».
Per tutta la città si va scorrendo
a
le mura. A l'insegne, ai capitani
ognun
s'adduce. I padri irresoluti
se
n'escon dal consiglio. Il re turbato
si
ritira, e si pente che non aggia
per
sé, senza consulta, il frigio duce
per
amico e per genero accettato.
Dansi
tutti a munire, a cavar fosse,
tutti
a somministrar chi sassi e travi,
e
chi dardi e chi strali. E già la roca
tromba
ne va per la città squillando
de
la battaglia il sanguinoso accento.
Le
matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
d'ogni
età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a
l'ultimo periglio, al gran bisogno
corrono
a la muraglia. E d'altra parte
da
gran corteo di donne accompagnata
con
doni e preci di Minerva al tempio
va
la regina, ed ha Lavinia seco,
la
vergine sua figlia, onde venuta
era
tanta ruina: e di ciò mesta,
porta
i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon
le madri e d'odorati incensi
vaporando
il delúbro, in flebil voce
pregano
in su la soglia: «Armipotente
Tritonia,
tu che puoi, la possa e l'armi
frangi
al frigio ladrone, e di tua mano
anciso
in su la porta me lo stendi».
Esso re Turno da la furia spinto
ricorre
a l'armi; e di squamoso acciaro
e
d'òr già tutto orribile e splendente,
cinto
di brando, e sol del capo ignudo
lieto
mostrossi, e di speranza altiero
di
vedere il nemico. E 'n quella guisa
da
la ròcca scendea che da' presepi
sciolto
destriero esce ruzzando in campo,
o
ch'amor di giumente, o che vaghezza
di
verde prato, o pur desio lo tragga
del
noto fiume; che sbuffando freme,
e
ringhia e drizza il collo e squassa il crine.
A l'uscir de la porta ecco davanti
gli
si fa co' suoi volsci cavalieri
la
vergine Camilla: e sí com'era
non
men gentil che valorosa e bella,
tosto
che l'incontrò con tutti i suoi
dismontò
da cavallo, e vèr lui disse:
«Turno,
se degnamente uom forte ardisce,
io
mi rincoro, e ti prometto io sola
di
gire ai cavalier toscani incontro.
Lascia
me col mio stuolo assalir prima
la
troiana oste, e che primiera io tragga
di
questa pugna e de' suoi rischi un saggio;
e
tu qui co' pedoni a piè rimanti
a
guardia de la terra». A tal proposta
Turno
ne la terribile virago
gli
occhi fissando: «O de l'Italia, - disse -
ornamento
e sostegno, e di che lode,
e
di che premio al tuo gran merto uguale
ristorar
ti poss'io? Ma (poiché cosa
non
è che la pareggi) abbi, famosa
guerriera,
in grado ch'io con te comparta
questa
fatica. Enea, come dal grido
avemo
e da le spie fin qui ritratto,
spinte
ha le schiere de' cavalli avanti
per
batter la campagna: ed egli altronde
presa
la via del monte, per alpestro
sentiero
a la città di sopra al giogo
vien
con l'altre sue genti. Il mio disegno
è
fargli agguato, e collocarmi appresso
là,
've sopra la foce il doppio bosco
del
curvo monte ambe le strade accoglie.
Tu,
raünati i tuoi con gli altri tutti
nostri
cavalli, i suoi nel piano assagli
a
spiegate bandiere. Il fier Messapo
sarà
con te: saranvi de' Latini,
vi
saran di Corace e di Catillo
le
squadre tutte; e tu con essi il carco
prendi
di comandarle». Indi esortando
parimente
Messapo e gli altri duci
a
la lor fazïone, egli a la sua
tostamente
si volse. È tra due branche
del
monte una vallea che d'ambi i lati
ha
folte selve, e luoghi occulti e chiusi,
a
l'insidie de l'armi accomodati.
Ha
ne l'imo una sèmita per mezzo
angusta,
malagevole e scontorta
che
d'ogn'intorno è da le ripe offesa.
In
cima, in su l'uscita, è tra le selve
ascosa
una pianura, con ridotti
acconci
a ritirarsi, ed opportuni
a
spingersi o dal destro o dal sinistro
lato,
che si rincontri o che s'aspetti
nemica
gente, o pur che di gran sassi
si
tempesti di sopra. A questo loco,
di
cui ben era pratico, in agguato
Turno
si pose, e i suoi nimici attese.
Dïana intanto timorosa e mesta
favellando
con Opi, una del coro
de
le sue Ninfe, in tal guisa le disse:
«Vedi
a che perigliosa e mortal guerra
a
morir se ne va la mia Camilla,
ne
le nostr'armi ammaestrata invano.
E
pur m'è cara, e sovr'ogni altra io l'amo.
Né
questo è nuovo, o repentino amore.
Fin
da le fasce è mia. Mètabo, il padre
di
lei, fu per invidia e per soverchia
potenza
da Priverno, antica terra,
da'
suoi stessi cacciato; e da l'insulto,
che
gli fece il suo popolo, fuggendo,
nel
suo misero esiglio ebbe in campagna
questa
sola bambina che, mutato
di
Casmilla sua madre il nome in parte,
fu
Camilla nomata. Andava il padre
con
essa in braccio per gli monti errando
e
per le selve, e de' nemici Volsci
sempre
d'intorno avea l'insidie e l'armi.
Ecco
un giorno assalito con la caccia
dietro,
fuggendo, a l'Amasèno arriva.
Per
pioggia questo fiume era cresciuto,
e
rapido spumando, infino al sommo
se
ne gia de le ripe ondoso e gonfio;
tal
che, per téma de l'amato peso
non
s'arrischiando di passarlo a nuoto,
fermossi;
e poiché a tutto ebbe pensato,
con
un súbito avviso entro una scorza
di
salvatico súvero rinchiuse
la
pargoletta figlia. E poscia in mezzo
d'un
suo nodoso, inarsicciato e sodo
tèlo,
ch'avea per avventura in mano,
legolla
acconciamente; e l'asta e lei
con
la sua destra poderosa in alto
librando,
a l'aura si rivolse, e disse:
"Alma latonia virgo, abitatrice
de
le selve e de' monti, io padre stesso
questa
mia sfortunata figlioletta
per
ministra ti dedico e per serva.
Ecco
ch'a te devota, a l'armi tue
accomandata,
dal nimico in prima
sol
per te la sottraggo. In te sperando
a
l'aura la commetto; e tu per tua
prendila,
te ne prego, e tua sia sempre".
Ciò detto, il braccio in dietro
ritraendo,
oltre
il fiume lanciolla; e 'l fiume e 'l vento
e
'l dardo ne fêr suono e fischio e rombo.
Mètabo,
da la turba sopraggiunto
de'
suoi nemici, a nuoto alfin gettossi
e
salvo a l'altra riva si condusse.
Ivi
d'un verde cespo, ove piantato
avea
Trivia il suo dono, il dardo e lei
divelse,
e via fuggissi; e piú mai poscia
non
fu da tetti o da cittadi accolto;
ché
per natia fierezza a legge altrui
non
si fôra unqua additto. Il tempo tutto
de
la sua vita, di pastore in guisa,
menò
per monti solitari ed ermi;
e
per grotte e per dumi e per orrende
selve
e tane di fere ebbe ricetto
con
la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
ferino
latte, e balia una d'armento
ancor
non doma e pavida giumenta.
Ne
le tenere labbra il padre stesso
de
la fera premea l'orride mamme;
né
pria tenne de' piè salde le piante,
che
d'arco, di faretra e di nodosi
dardi
le mani e gli omeri gravolle.
Non
d'òr le chiome, o di monile il collo,
né
men di lunga, o di fregiata gonna
la
ricoverse; ma di tigre un cuoio
le
facea veste intorno, e cuffia in capo.
Il
fanciullesco suo primo diletto
e
'l primo studio fu lanciar di palo,
e
trar d'arco e di fromba; e 'n fin d'allora
facea
strage di gru, d'oche e di cigni.
Molte
la desiâr tirrene madri
per
nuora indarno. Ed ella di me sola
contenta,
intemerata e pura e casta,
la
sua verginità, l'amor de l'armi
sol
ebbe in cale. Or mio fôra disio
che
di questa milizia e de la pugna,
che
presa ha co' Troiani e co' Tirreni,
fosse
digiuna; per sí cara io l'aggio,
e
tale or mi saria grata compagna.
Ma
poi che acerbo fato la persegue,
scendi,
ninfa, dal cielo, e nel paese
va de' Latini. Ivi al conflitto assisti,
che
per Lazio e per lei mal s'apparecchia.
Prendi
quest'arco e prendi questa mia
stessa
faretra, e di qui traggi il tèlo
per
vendicarmi di qualunque ardito
sarà
di vïolar quest'a me sacra
e
devota virago, Italo, o Teucro
che
sia. Poscia io verrò di nube involta
a
provveder che 'l miserabil corpo
non
sia d'armi spogliato, e che raccolto
sia
ne la patria, e seppellito e pianto».
Cosí dicendo, entro un sonoro nembo,
da'
mortali occhi non veduta, a terra
lievemente
calossi. I teucri intanto
e
i toschi duci le lor genti avanti
spingendo,
a la città s'avvicinaro.
Piena
d'armi, d'insegne, di cavalli
e
di schierati fanti e di squadroni
si
vedea la campagna. Eran per tutto
gualdane,
giramenti, scorribande
di
cavalieri: in secche selve i colli
parean
conversi: ardea la terra e 'l cielo
di
ferrigni splendori, e d'ogni parte
s'udian
fremer cavalli e squillar trombe.
Incontro a lor da l'altra parte usciro
il
fier Messapo, i cavalier latini,
Corace
col suo frate, e di Camilla
la
bellicosa banda. Era il concorso
tuttavia
de le genti, e de' cavalli
il
fremito maggiore. E già la massa
ristretta,
e già vicine ambe le parti
a
tiro d'asta, a fronte si fermaro
l'una
de l'altra; e con le lance in resta,
con
saette e con dardi incominciaro
primamente
da lunge a salutarsi.
Poi
di subite grida udito un tuono
al
ciel levossi; e due contrari nembi
da
la terra sorgendo, armi fioccaro
di
neve in guisa, e coprîr d'ombra il sole.
Alfin
da ciascun lato i destrier punti
andâr
tutti con tutti a rincontrarsi.
Era Tirreno al fiero Aconte opposto
ne
la battaglia; e questi primamente
s'urtaro,
e per la furia e per la forza
de
l'urto ambe le lance, ambi i cavalli,
ed
ambi i corpi infranti, stramazzati,
l'un
da l'altro disgiunti, quai percossi
da
fulmine o da macchine avventati,
caddero
a terra. E pria ne l'aura Aconte
lasciò
la vita. Conturbate e sparse
le
schiere de' Latini, incontinente
con
le targhe rivolte a tutta briglia
vèr
le mura spronando in fuga andaro.
Gli
seguiro i Troiani; e primo Asila
gli
assalse e gli cacciò fin su le porte.
Qui
fermi e rincorati alzan le grida,
volgon
le teste, e si rifan lor sopra,
ch'eran
lor contra. Cosí quando questi,
e
quando quelli or cacciano, or cacciati
tornano:
in quella guisa ch'a vicenda
il
mare or d'alto a riva i flutti increspa,
e
ne l'ultima arena ondeggia e spuma;
or
da la riva indietro se ne torna,
e
le stess'onde, e la commossa ghiara
sorbendo
e voltolando, si ritragge.
Due
volte i Toschi i Rutuli incalzaro
fino
a le mura; e i Rutuli due volte
risospinsero
i Toschi. Al terzo assalto
mischiârsi
ambe le schiere, e l'un con l'altro
vennero
a zuffa. Allor le grida e i mugghi
si
sentîr de' cadenti: allor si vide
il
pian tutto di sangue, e tutto d'armi
e
d'uomini coverto e di cavalli
feriti
e morti. Orsíloco a rincontro
di
Rèmolo trovossi; e non osando
di
star seco a le mani, al suo cavallo
trasse
del dardo, e 'n su l'orecchio il colse.
Del
colpo impazïente e per sé fiero
si
scosse, s'avventò, col petto in alto
e
con le zampe il corridor levossi,
e
'n su l'arena il cavalier distese.
Catillo
Iola e 'l grande Erminio occise;
Erminio,
che di corpo e d'armi e d'animo
era
de' piú robusti, de' piú chiari
e
de' piú riguardevoli guerrieri
de'
Toschi tutti. Avea la chioma stessa
per
sua celata; avea gli omeri ignudi
di
ferro al ferro esposti, e di ferite
ampio
bersaglio. In su l'aperte spalle
Catillo
il colse; e tremolando il tèlo
passogli
il petto, e raddoppiogli il duolo.
Per
tutto si fa sangue; in ogni parte
si
tragge, si ferisce, si stramazza;
e
chi cede e chi segue. In varie guise
ne
van tutti a morir morte onorata.
In mezzo a tanta occisïone, ignuda
da
l'un de' lati infurïando esulta
la
vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando,
or di lancia, or di secure
non
mai stanca percuote. E qual Dïana
di
sonora faretra e d'arco aurato
gli
omeri onusta, ancor che si ritragga,
saettando,
ferite e morti avventa.
D'intorno
ha per compagne e per guerriere
d'archi,
di mazze e di bipenni armate,
Tulla,
Tarpèa, Larina ed altre illustri
italiche
donzelle, a suo decoro
scelte
da lei per sue degne ministre
ne
la pace e ne l'armi. In tal sembianza
Termodoonte
il bellicoso stuolo
de
l'Amazzoni sue vide in battaglia
attorneggiare
Ippolita, o col carro
gir
di Pentesilèa le schiere aprendo
con
feminei ululati. Or chi fu prima,
chi
poi, cruda virago, e quali e quanti
quei
ch'abbattesti, e che di vita spenti
mandasti
a l'Orco? Eumenio primamente
di
Clizio il figlio, da costei trafitto
fu
d'un colpo di lancia in mezzo al petto.
Cadde
il meschino, e fe' di sangue un rivo,
sopra
cui voltolandosi, e mordendo
il
sanguigno terren, di vita uscio.
Indi
va sopra a Liri e sopra a Pègaso
quasi
in un tempo, a l'un mentre, inciampando
il
suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro
mentre
a lui, che trabocca, il braccio stende
per
sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
precipitaro.
A cui d'Ippòta il figlio
Amastro
aggiunse, e via seguendo, Arpàlico
e
Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti
dardi lanciò, tanti Troiani
gittò
per terra. Orníto, un cacciatore,
gli
gia davanti, e stranamente armato
cavalcava
di Puglia un gran destriero:
per
sua corazza avea d'ispido toro
un
duro tergo; per celata un teschio
di
lupo, che dal capo insino al mento
sbarrava
le mascelle, e digrignando
mostrava
i denti. In man portava, ad uso
di
contadini, un nodoroso palo
di
grave ronca armato. Egli nel mezzo
degli
altri suoi con le due teste andava
sovrano
a tutti, e le ferine orecchie
ergea
di cresta e di pennacchi in vece.
Camilla
il giunse, lo fermò, l'occise
senza
contrasto, già che vòlta in fuga
era
la schiera sua. Sovra al suo corpo
disse
rimproverando: «E che pensasti,
Tosco
insolente? di venire a caccia
in
qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto
sei là 've una dama armata
col
ferro amaramente vi rintuzza
la
superbia e la lingua. Oh pur non poco
ti
fia di vanto, referendo a l'ombre
de'
tuoi: per man fui di Camilla occiso».
Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,
due
corpi de' maggiori e de' piú forti
del
troian oste. A Bute un colpo trasse
che
'l giunse ove tra l'elmo e la corazza
si
scopre il collo, onde lo scudo appeso
sta
da sinistra. Orsíloco, fuggendo
e
gridando, gabbò; ch'al giro interno
s'attenne
e strinse; e là 've era seguita,
seguitò
lui. Gli fu sopra in un tempo
a
colpi di secure, e l'armi e l'ossa
gli
pestò sí che per suo scampo a' prieghi
si
volse. Alfine un tal sopra la testa
ne
gli piantò, che le cervella infrante
gli
schizzâr da la fronte e da le tempie.
D'Àüno montanar de l'Appennino
il
bellicoso figlio a l'improvviso
fu
da lei còlto: un Ligure scaltrito,
che
per ordire inganni (in fin che 'l fato
gliel
concedé) non degli estremi avuto
era
tra' suoi. Costui nel primo incontro
sbigottito
fermossi. E poiché vide
non
poter con la fuga a lei sottrarsi,
che
gli era sopra, a la malizia usata
ricorrendo:
«Oh! gran prova, - a dir comincia -
sarà
la tua, se ben femina sei,
di
sfidar me, quando a un caval t'affidi
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio
rinunzia
de la fuga e meco a piede
prendi
zuffa del pari; e poi vedrassi
a
cui questa ventosa tua bravura
onore
acquisti». A cotal dir Camilla
di
furia, di dolor, di sdegno ardendo
ratto
dismonta; e 'l corridor deposto
in
man de la compagna, a piè si pianta;
stringe
la spada, imbracciasi lo scudo,
e
con pari armi intrepida l'attende.
Il
giovine, che vinto si credette
aver
con quello avviso, incontinente
la
groppa le mostrò del suo cavallo,
e
via spronando a tutta briglia il pinse.
«Ligure
vano, vano orgoglio in prima
ti
mosse: or vana astuzia e vana fuga
sarà
la tua; ché l'arte del fallace
tuo
padre, e di tua patria, a far non basta
che
vivo da le man mi ti ritolga».
Disse
la virgo, e qual da cocca strale
dietro
gli si spiccò: ratto l'aggiunse,
passollo,
attraversollo, al fren di piglio
diedegli;
lo ferí, l'ancise alfine.
Cosí
d'un alto sasso agevolmente
sparvier
grifagno al timido colombo
s'avventa,
e lo ghermisce; onde in un tempo
sangue
e piuma dal ciel neviga e piove.
In questa, de' mortali e de' celesti
l'eterno
regnator, che pur talvolta
alcun
de' raggi suoi vèr noi rivolge,
non
con lieve disdegno o picciol'ira
mosse
Tarconte a sovvenir le schiere
de'
suoi ch'erano in volta. Egli per mezzo
va
de l'occisïoni e de le mischie,
or
il destrier contra i nemici urtando,
or
le sue squadre inanimando, insieme
le
ristringe, le instiga, le garrisce,
e
per nome ciascun chiamando: «Ah, - disse, -
Tirreni,
e che timore, e che spavento
è
'l vostro? che viltà, che codardia
v'ha
presi? e quando mai fia che vi punga
o
dolore, o vergogna? Adunque in fuga
gite
per una femina? Una femina
vi
disperde e v'ancide? A che di ferro
invan
cosí le destre e i petti armate?
De le donne temete? Or via, campioni
da
letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
a
sacrifizi, allor che ne le sacre
foreste
è da l'aruspice intonato
che
la vittima e grassa, itene tutti
seco
a goder del saginato bue
a
piena pancia, ché null'altro amore,
null'altro
studio è 'l vostro». E, ciò dicendo,
ne
va come devoto a morte anch'egli.
Con
Vènolo s'affronta; e sí com'era
turbato,
l'aggavigna, e fuor lo tragge
del
suo cavallo. Alto levossi un grido
tal,
che tutti a veder le ciglia alzaro
i
Latini e i Tirreni. Iva Tarconte
per
la campagna con la preda in grembo
del
nimico e de l'armi; e 'n mezzo al corso
svelge
da l'asta sua medesma il ferro,
e
cerca ov'è di piastra il corpo ignudo
per
darli morte. E mentre ne la gola
tenta
ferirlo, ei con le braccia in alto
si
scherma, regge il colpo, e da la forza
quanto
può con la forza si districa.
Come ne l'aria insieme avviticchiati
si
son visti talor l'aquila e 'l serpe
pugnar
volando, e l'una aver con l'ugne
e
col becco ghermito e morso l'altro:
e
l'altro co' suoi giri e co' suoi nodi
farle
vincigli a' piè, volumi a l'ali;
e
questo con la testa alto fischiando,
e
quella schiamazzando e dibattendo,
ambedue
voltolarsi, ambedue stretti
far
di squame e di piume un sol viluppo;
cosí
Tarconte per lo campo a volo,
vincitor
de le schiere di Tiburte,
Vènolo
sen portava. E questo esempio
del
suo duce seguendo, e del successo
assecurata,
la meonia torma
tutta
contr'a Latini impeto fece.
Tra
questi Arunte, un che di già dovuto
era
al suo fato, con un dardo in mano
Camilla
astutamente insidïando,
si
diede a seguitarla, a circuïrla,
a
cercar destra e comoda fortuna
di
darle morte. Ovunque ella o per mezzo
fendea
le schiere, o vincitrice indietro
si
ritraea, l'era vicino Arunte;
e
tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando,
attendea che netto il colpo
gli
rïuscisse; e da fellone intanto
avea
l'asta a ferir librata e pronta.
Giva per avventura a lei davanti
Cloro,
un giovine idèo che sacerdote
era
già di Cibele. I Frigi tutti
non
avean chi di lui fosse ne l'armi
piú
riccamente adorno. Un suo corsiero
per
lo campo spingea, di spuma asperso,
cinto
di barde e d'acciarine lame
come
di scaglie e di leggiadre piume
leggiadramente
inteste. Un arco d'oro
gli
pendea da le spalle, una faretra
a
la cretese. In testa, in gambe, in dosso
d'armi
e d'arnesi in barbara sembianza,
di
peregrina porpora e di seta,
di
bisso, di teletta e d'ostro e d'oro
tutto
coverto, tutto ricamato,
tutto
trinciato; e saettando andava.
Costui veduto, ogni altra impresa indietro
lasciando,
a lui si volse o per vaghezza
di
consecrar le sue bell'armi al tempio,
o
pur che di sí vago ostile arnese
di
gir pomposa cacciatrice amasse.
Basta
che per le schiere incauta, ardente,
e,
come donna, vogliolosa e folle
de l'amor de la preda e de le spoglie,
contro
a lui se ne giva; allor ch'Arunte,
dopo
molto appostarla, alfin le trasse
in
tal guisa pregando: «O di Soratte
sommo
custode, Apollo, a cui devoti
noi
fummo in prima, a cui di sacri pini
nutriamo
il foco, e per cui nudi e scalzi
tra
le fiamme saltando e per le brage
securamente
e senza offesa andiamo,
dammi,
ché tutto puoi, padre benigno,
che
questa infamia per mia man si tolga
da
l'armi nostre. Io di costei non bramo
armi,
spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
mi
sian di lode, e pur che questo mostro
caggia
spento da me, ne la mia patria
senza
piú gloria andrò di questa guerra
pago
e contento». Udí Febo del vóto
parte,
e parte per l'aura ne disperse.
Udí
che morta da quel colpo fosse
la
vergine Camilla; e non udio
di
lui, ch'ei vivo in patria ne tornasse;
ché
ciò per l'aura ne portaro i vènti.
Tosto che da le man l'asta ronzando
gli
uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida
de'
Volsci tutti a la regina intenti.
Ed
ella né del tèlo, né de l'aura
moto
o fischio sentí; né vide il colpo,
mentre
giú discendea, finché non giunse.
Giunsele
a punto ove divelta e nuda
era
la poppa; e del virgineo sangue,
non
già di latte, sitibonda scese
sí
che 'l petto l'aprí. Le sue compagne
le
fûr trepide intorno; e già che morta
cadea,
la sostentaro. Arunte in fuga
ratto
si volge, di paura insieme
turbato
e di letizia; ché ne l'asta
piú
non confida, e piú di star non osa
incontro
a lei. Qual affamato lupo
ch'ucciso
de l'armento un gran giovenco,
o
lo stesso pastore, in sé confuso
di
tanta audacia, anzi che da' villaggi
gli
si levin le grida, infra le gambe
si
rimette la coda, e ratto a' monti
fuggendo,
si rinselva; in cotal guisa
Arunte,
dopo 'l tratto, impaürito,
solo
a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi
si
mischiò tra le schiere. Ella, morendo,
di
sua man fuor del petto il crudo ferro
tentò
svelgersi indarno; ché la punta
s'era
altamente ne le coste infissa:
onde
languendo abbandonossi, e fredda
giacque
supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano
ardor, grazia e fierezza,
si
fêr torbidi e gravi. Il volto, in prima
di
rose e d'ostro, di pallor di morte
tutto
si tinse. In tal guisa spirando,
Acca
a sé chiama, una tra l'altre sue
la
piú fida di tutte e la piú cara;
e
dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son
qui finiti: questa acerba piaga
m'adduce
a morte, e già nero mi sembra
tutto
che veggio. Or vola, e da mia parte
di'
per ultimo a Turno che succeda
a
questa pugna e la città soccorra;
e
tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe
cosí, che abbandonando il freno
e
l'arme e sé medesma, a capo chino
traboccò
da cavallo. Allora il freddo
l'occupò
de la morte a poco a poco
le
membra tutte. E, dechinato il collo
sopra
un verde cespuglio, alfin di vita
sdegnosamente
sospirando uscio.
Camilla
estinta, per lo campo un grido
levossi
che n'andò fino a le stelle,
e
surse al cader suo zuffa maggiore;
ché
i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
pinsero
avanti. Opi, ministra intanto
di
Trivia, che nel monte era discesa
vicino
a la battaglia, indi il conflitto
stava
mirando intrepida e sicura,
e
visto di lontan tra molte genti
nascer
nuovo tumulto e nuove grida,
poscia
in mezzo di lor caduta e morta
la
vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse,
- virgo infelice! troppo, troppo
crudel
supplizio hai de l'ardir sofferto,
se
d'irritar l'armi troiane osasti.
E
di che pro t'è stato a viver nosco
solinga
vita, armar de l'armi nostre,
gradire
i boschi e venerar Dïana?
Ma
te non lascerà la tua regina
giacer
disonorata in questa fine
de
la tua vita; e la tua morte oscura
non
sarà tra le genti; e non dirassi
che
non è chi di te vendetta faccia;
ché
chïunque di ferro avrà ferito
il
corpo tuo, sarà meritatamente
di
ferro anciso». Era a Dercenno, antico
re
de' Laurenti, un gran sepolcro eretto,
cui
sopra era di terra un monte imposto
e
d'elci annosi e folti un bosco opaco.
Qui
la veloce dea dal ciel calossi
al
primo volo; e di qui visto Arunte
splender
ne l'armi, e gir di sua follia
superbo
e gonfio: «Ove ne vai? - diss'ella, -
qui
convien che ti fermi, e qui morendo
de
la morta Camilla il premio avrai
degno
di te, se di perir sei degno
de
l'armi di Dïana». E, ciò dicendo,
la
buona arciera del turcasso aurato
trasse
un acuto strale, e l'arco tese,
e
tirò sí ch'ambe le corna estreme
vennero
al mezzo, ed ambe parimente
le
mani, una tirata e l'altra spinta,
quella
toccò la poppa e questa il ferro.
L'arco,
l'aura, lo stral sonare udio,
e
ferir e morir sentissi Arunte
tutto
in un tempo. I suoi quasi in oblio
cosí
come spirava, in mezzo al campo
lo
lasciâr fra la polve in abbandono;
ed
Opi al ciel tornando a volo alzossi.
Caduta lei, la schiera di Camilla
primieramente
in fuga si rivolse.
Indi
turbârsi i Rutuli, e diêr volta.
Diè
volta il fiero Atina; e i duci tutti,
e
tutte fûr le insegne abbandonate.
Cerca
ognun di salvarsi, e vèr le mura
ne
vanno a tutta briglia, e piú nel campo
alcun
non è che di far testa ardisca
contra
la strage e contra la ruina
che
fanno i Teucri. Se ne van con gli archi
scarichi
in su le terga e spenzoloni;
e
piú che di galoppo in vèr Laurento
battono
il campo, e fan nubi di polve.
Le
madri da' balconi e da' torrazzi
percossi
i petti, alzano al ciel le grida
con
femineo ululato. E quei che primi
giunti
trovâr le porte ancor non chiuse,
mischiati
co' nemici, ove piú salvi
si
credean ne l'entrata e fra le mura
de
la stessa lor patria, anzi agli alberghi
lor
propri e da' nemici e da la morte
fûr
sopraggiunti. In cotal guisa in prima
stette
la porta agli avversari aperta;
poi
chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
restando
de' nemici, ai lor piú cari,
che
morir gli vedean, perché s'aprisse
supplicavano
indarno. E qui tra quelli
che
n'erano a difesa, e quei ch'a forza,
anzi
a furia, a ruina incontro a loro
s'avventavan
ne l'armi, orrenda strage
si
fece e miseranda. E degli esclusi
altri
in cospetto degli stessi padri,
e
de le madri che dogliose grida
ne
facean da le torri e da le mura,
da
l'impeto cacciati o da la calca
precipitâr
ne' fossi, e giú da' ponti
cadder
sospinti; ed altri ne la fuga
da'
sfrenati cavalli e da la cieca
lor
furia trasportati, a dar di cozzo
gîr
ne le chiuse porte. In su' ripari
ancor
le donne (che le donne ancora
il
vero della patria amore infiamma),
come
giunte a l'estremo, allor che morta
vider
Camilla, il femminil timore
volgono
in sicurezza, e sassi e dardi
lanciando,
e con aguzzi, inarsicciati
pali
il ferro imitando, osano anch'elle
per
la difesa delle patrie mura
gir
le prime a morir morte onorata.
A Turno intanto ne le selve arriva
Acca,
la già spedita messaggiera,
con
l'amara novella; un gran tumulto
portando,
che l'esercito è sconfitto,
morta
Camilla, annichilati i Volsci,
e
i Teucri d'ogni cosa impadroniti
stanno
in campagna col favor che porta
seco
de la vittoria il corso e 'l nome;
assalgon
la città. D'ira, di sdegno
e
di furore il giovine infiammato
(ché
tale era il voler empio di Giove)
da
l'insidie si toglie, esce de' boschi
ov'era
ascoso, e giú scende da' colli.
Smarriti
non gli avea di vista a pena,
a
pena era nel piano, allor ch'Enea
prese
del monte; e là 'v'era l'agguato,
trovando
aperto, senz'offesa anch'egli
superò
'l giogo, e de la selva uscio.
Cosí
con passi frettolosi entrambi
con
tutte le lor genti, e l'un da l'altro
poco
lontani a la città sen vanno.
E
'nsiememente da l'un canto Enea
vide
di polverio fumare i campi,
e
di Laurento sventolar l'insegne;
Turno
da l'altro Enea scoperse, udendo
l'annitrir
de' cavalli e 'l calpestio
crescer
di mano in mano. Eran vicini
sí,
che venuto a zuffa ed a battaglia
si
fôra anco quel dí: se non che Febo,
fatto
vermiglio, i suoi stanchi destrieri
stava
già per tuffar ne l'onde ibère;
onde
avanti a le mura ambi accampati
di
trincee si muniro e di ripari.
Turno, poscia che vede afflitti e domi
già
due volte i Latini, e non pur scemi
di
forze, ma di speme e di baldanza,
da
lui farsi rubelli, e che a lui solo
ognun
rivolto in tanto affare attende
le
pruove, le promesse e i vanti suoi,
furïoso,
implacabile, inquïeto
arde,
s'inanimisce, e si rinfranca
prima
in se stesso. Qual massíla fera
ch'allor
d'insanguinar gli artigli e il ceffo
disponsi,
allor s'adira, allor si scaglia
vèr
chi la caccia, che da lui si sente
gravemente
ferita; e già godendo
de
la vendetta, sanguinosa e fiera
con
le iube s'arruffa, e con le rampe
frange
l'infisso tèlo e graffia e rugge:
cosí
la vïolenza era di Turno
accesa,
impetüosa e furibonda;
e
cosí conturbato appresentossi
al
re davanti, e disse: «Indugio, o scusa
piú
non fa Turno: e piú non ponno i Teucri
da
quel ch'è patteggiato, e stabilito,
se
non se per viltà, ritrarsi omai.
Eccomi
in campo: ecco parato e pronto
sono
al duello. Or fa', padre, che 'l patto
sia
fermo e rato e sacro; e i sacrifici
e
'l giuramento appresta. Oggi, signore,
sii
certo ch'io con le mie mani a morte
questo
de l'Asia fuggitivo adduco,
e
'l difetto di tutti io solo ammendo
(stiansi
pure a vedere i tuoi Latini);
o
ch'ei vincendo fia padrone a voi,
e
marito a Lavinia». A cui Latino
col
cor sedato in tal guisa rispose:
«Giovine valoroso, al tuo valore,
a
la ferocia tua che tanto eccede
ne
l'armi, io deferisco. E tu dovrai
appagarti
di me, s'io, d'ogni cosa
temendo,
con ragione e con maturo
consiglio
in tutti i casi inveglio e curo
che
'l mio stato si salvi e la tua vita.
A
te del vecchio Dauno erede e figlio,
seggio
e regno non manca, oltre a le terre
di
cui tu fatto hai da te stesso acquisto
per
forza d'armi. Oro, favori e gradi
da
Latino avrai sempre; e maritaggi
e
donne d'alto affar son per lo Lazio,
e
per le terre di Laurento assai.
Ma
soffri ch'io ti parli, e senti, e nota
poscia
quel ch'io dirò: che dirò vero,
ben
che noia ti sia. Fatal divieto
mi
proibiva, e gli uomini e gli dèi
m'avean
vaticinando in molte guise
denunzïato,
che mia figlia a nullo
io
maritassi di color che chiesta
me
l'avean prima. E pur dall'amor vinto
che
ti port'io, dal parentado astretto
c'ho
con la casa tua, mosso dal pianto
e
da le preci de la donna mia,
dandola
a te mi sono al fato opposto:
ho
rotto fede al genero; ho con lui
presa
non giusta e non sicura guerra.
Da indi in qua tu stesso, tu che primo
soffri
tante fatiche e tanti affanni,
hai
veduto in che rischi, in che travagli
siam
noi caduti; ché due volte rotti
in
due sí gran battaglie, in questo cerchio
ne
siam rinchiusi a sostentare a pena
la
speranza d'Italia. Il Tebro è caldo
del
nostro sangue. I campi son già bianchi
de
le nostr'ossa. Ed io, folle, a che torno
tante
fïate al precipizio mio?
Chi
cosí da me stesso mi sottragge?
Se,
Turno estinto, io nel mio regno deggio
i
Troiani accettar, ché non gli accetto
or
ch'egli è vivo e salvo? e ché non pongo
fine
a la guerra, a la ruina espressa
del
mio regno e de' miei? Che ne diranno
i
Rutuli parenti? che diranne
Italia
tutta, quando a morte io lasci
(voglia
Dio che non sia) gir un che tanto
ama
la parentela e 'l sangue mio?
Rimira
de la guerra come vana
sia
la fortuna. Abbi pietà del vecchio
Dauno
tuo padre, che da te lontano
in
Ardea se ne sta mesto e dolente».
Turno
a questo parlar nulla si mosse
de
la ferocia sua: crebbe piú tosto
il
suo furore; e lo rimedio stesso
gli
aggravò 'l male. Ei, come pria poteo
formar
parola, in tal guisa rispose:
«Nulla
per conto mio di me ti caglia,
signor
benigno: anzi, ti prego, in grado
prendi
ch'io per la lode e per l'onore
patteggi
con la morte. Ed anch'io, padre,
ho
le mie mani; ed anco il ferro mio
ha
taglio e punta, e fa ferita e sangue.
Non
sempre avrà, cred'io, la madre a canto
che
di nube lo cuopra e lo trafugga
come
vil femminella, e di vane ombre
seco
s'involva». E, ciò detto, si tacque.
Ma la regina, de l'audace impresa
del
genero dolente e spaventata,
piangendo,
e per angoscia a morte giunta,
lo
tenea, lo pregava, e gli dicea:
«Turno,
per queste lagrime, per quanto
t'è,
se pur t'è, de l'infelice Amata
l'onor,
l'amore e la salute in pregio
(già
che tu sola speme, e sol riposo
sei
de la mia vecchiezza: a te s'appoggia,
in
te si fonda di Latino il regno,
e
la sua dignitade, e la sua casa
che
ruina minaccia) in don ti chieggio,
astienti
di venir co' Teucri a l'arme;
ché
qualunque ne segua avverso caso
sopra
me cade; ch'io teco di vita
escirò
pria che mai suocera o serva
io
mi veggia d'Enea». Queste parole
de
la madre sentí Lavinia virgo,
di
rugiadose lagrime e d'un foco
di
vergineo rossor le guance aspersa,
qual
fôra se di purpura macchiato
fosse
un candido avorio, o che di rose
si
spargessero i gigli. In lei mirando
il
giovine, d'amor non men che d'ira
acceso,
a la regina brevemente
cosí
rispose: «Ah, madre mia, ti prego,
in
cosí perigliosa e dura impresa
non
mi far col tuo pianto e col tuo duolo
sinistro
annunzio. Ché s'a Turno è dato
che
muoia, in suo poter piú non è posto
che
di morire indugi». Indi a l'araldo
rivolto:
«Va, - gli disse, - e da mia parte
quest'ingrata
e spiacevole ambasciata
porta
al frigio tiranno, che dimane
tosto
che fia la rubiconda Aurora
a
l'orïente apparsa, i Teucri suoi
contr'a
Rutuli addur piú non s'affanni.
Stiensi
l'armi de' Rutuli e de' Teucri
per
mio conto in riposo. Ché tra noi
col
nostro sangue a diffinir la guerra,
e
di Lavinia le bramate nozze
in
su quel campo a procurar ci avemo».
Detto cosí, vèr la magion s'invia
rapidamente;
addur si fece avanti
i
suoi cavalli, e le fattezze e 'l fremito
notando,
se ne gode, e ne concepe
speme
e vittoria: ché di razza usciti
eran
già d'Orizía, da cui Pilunno
ebbe
giumente e corridori in dono,
che
di candor la neve, e di prestezza
superavano
il vento. Avean d'intorno
i
valletti e gli aurighi che palpando,
forbendo
e vezzeggiando, in varie guise
gli
facean lieti, baldanzosi e fieri.
Fatte
poscia venir l'armi, si veste
la
sua corazza d'oricalco e d'oro
e
dentro vi s'adatta e vi si vibra
con
la persona. Imbracciasi lo scudo,
pruovasi
l'elmo; e la vermiglia cresta
squassando,
il brando impugna, il fido brando
da
lo stesso Vulcano al padre Dauno
temprato
in Mongibello a tutte pruove.
Alfine
un'asta poderosa e grave,
ch'appo
un'alta colonna era appoggiata
in
mezzo de la casa, in man si pianta,
spoglio
d'Àttore aurunco. E poiché l'ebbe
brandita
e scossa: «Asta, - gridando disse, -
ch'a
le mie fazïoni unqua non fosti
chiamata
indarno, ora al maggior bisogno
da
te soccorso imploro. Il grande Attòre
armasti
in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi
che 'l corpo atterri, e la corazza
dischiodi,
e 'l petto laceri e trapassi
di
questo frigio effeminato eunuco;
dammi
che 'l profumato, inanellato,
col
ferro attorcigliato zazzerino
gli
scompigli una volta, e ne la polve
lo
travolga e nel sangue». In cotal guisa
dicendo,
infurïava, ardea nel volto,
scintillava
negli occhi, orribilmente
fremea,
qual mugghia il toro allor che irato
si
prepara a battaglia, e l'ira in cima
si
reca de le corna, indi l'arruota
a
qualche tronco, e 'l tronco e l'aura in prima
ferendo,
alto co' piè sparge l'arena
e
del futuro assalto i colpi impara.
Da l'altro canto Enea, non men feroce
ne
l'armi di sua madre, al fiero Marte
s'inanima
e s'accinge, e del partito
che
gli era per compor la guerra offerto,
si
rallegra, l'accetta; e i suoi compagni
e
'l suo figlio assicura, or di se stesso
la
franchezza mostrando, or le venture
de'
fati rammentando e le promesse.
Indi con la risposta al re Latino
manda
chi la disfida e 'l patto accetti,
e
del patto i capitoli e le leggi
stabilisca
e confermi. Era de' monti
in
su la cima a pena il sole apparso
de
l'altro giorno, allor ch'i suoi destrieri
sorgon
da l'onde, e con le nari in alto
fiamme
anelando, il mondo empion di luce:
quando
nel campo i Rutuli discesi
e
i Teucri insieme, sotto l'alte mura,
fabbricâr
lo steccato, a cui nel mezzo
i
fochi e l'are di gramigna asperse
furo
agli dèi d'ambe le parti eretti
comunemente;
e d'ambi i sacerdoti
di
bianco lino involti, e di verbena
cinti
le tempie, andaro altri con l'acqua,
altri
con le facelle intorno accese.
Poscia
ecco degli Ausoni da l'un canto
a
piene porte l'ordinate schiere
uscir
da la città di picche armate;
da
l'altro de' Troiani e de' Tirreni
gir
l'esercito tutto in varie guise
d'abiti
e d'armi; e questi incontro a quelli
non
altramente ch'a battaglia instrutti.
Fra
mezzo a tante mila i condottieri
ciascun
da la sua parte si vedea
gir
d'oro e d'ostro alteramente adorni.
E
'l gran Memmo con questi e 'l forte Asila,
e
Messapo con quelli, de' cavalli
il
domatore e di Nettuno il figlio.
Poscia
che, dato il segno, ebbe ciascuno
chi
di qua chi di là preso il suo loco,
piantâr
le lance, dechinâr gli scudi.
Le
donne, i vecchi, i putti e 'l volgo inerme,
di
veder desïosi, altri in su' tetti,
altri
in su' rivellini e 'n su le torri
stavan
mirando. E non dal campo lunge
sedea
Giuno in un colle, Albano or detto,
ch'allor
né d'Alba il nome avea, né 'l pregio
né
i sacrifici. In questo monte assisa
vedea
de' Laürenti e de' Troiani
l'accolte
genti, e di Latino il seggio.
Ivi
la dea di Turno a la sirocchia,
che
dea de' laghi era e de' fiumi anch'ella,
disse
cosí: «Ninfa, de' fiumi onore,
sovr'ogni
ninfa a me gioconda e cara,
tu
sai come te sola ho preferita,
e
come volontier del cielo a parte
meco
t'ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
perché
di me dolerti unqua non possa.
Finché
di Lazio la fortuna e 'l fato
me
l'han concesso, io prontamente e Turno
e
la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or
veggio questo giovine a duello
con
disegual destino esser chiamato:
veggio
il dí della Parca e la nemica
forza
che gli è vicina. Io questo accordo,
questa
pugna veder con gli occhi miei
per
me non posso. Tu, se cosa ardisci
in
pro del tuo germano, ora è mestiero
che
tu l'adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fallo:
e chi sa che 'l misero non cangi
ancor
fortuna?» A pena avea ciò detto
che
Iuturna gemendo e lagrimando
tre
volte e quattro il petto si percosse.
A
cui Giuno soggiunse: «E' non è tempo
da
stare in pianti. Affretta; e da la morte
scampa,
se scampar puossi, il tuo fratello,
o
turbando l'accordo, o suscitando
nuova
cagion di mischia e di tumulto.
Io
son che l'impongo, e te n'affido».
Con
questo la lasciò sospesa e mesta,
e
d'amara puntura il cor trafitta.
Ecco vengono al campo i regi intanto;
Latino
il primo, alto in un carro assiso,
che
da quattro suoi nitidi corsieri,
di
gran macchina in guisa, era tirato,
e,
di dodici raggi il fronte adorno,
del
Sole, avo di lui, sembianza avea.
Turno
traean due candidi destrieri,
con
due suoi dardi in mano agili e forti.
Enea,
de la romana stirpe autore,
con
l'armi sue celesti e con lo scudo
che
dianzi da le stelle era venuto,
uscio
da l'altro canto, e seco a pari
Ascanio
il figlio suo, de la gran Roma
la
seconda speranza. A mano a mano
il
sacerdote in pura veste involto
anzi
agli accesi altari il nuovo parto
d'una
setosa porca, ed una agnella
ancor
non tosa al sacrificio addusse;
e
vòlti a l'orïente, in atto umíle
s'inchinâr
tutti; e vino e farro e sale
sparser
d'ambe le parti; ambe col ferro,
sí com'era uso, a le devote belve
segnâr
le tempie. Allor il padre Enea
strinse
la spada, e, gli occhi al ciel rivolti,
cosí
disse pregando: «Io questo sole
per
testimone invoco e questa terra,
per
cui tanti ho fin qui sofferti affanni;
invoco
te, celeste, onnipotente,
eterno
padre, e te, saturnia Giuno,
già
vèr me piú benigna, e ben ti prego
che
mi sii tale, e te gran Marte invoco,
ch'a
l'armi imperi; e voi fonti e voi fiumi,
e
voi tutti del mar, tutti del cielo
numi
possenti; e vi prometto e giuro
che
se Turno per sorte è vincitore
di
questa pugna, il successor del vinto
gli
cederà: ch'a la città d'Evandro
si
ritrarrà; che mai poscia ribelle
non
gli sarà: che guerra o lite o sturbo
alcun
altro piú mai non gli farà.
Ma
se piú tosto, come io prego, e come
spero
che mi succeda, al nostro Marte
la
dovuta vittoria non si froda;
io
non vo' già che gl'Itali soggetti
siano
a' miei Teucri, né d'Italia io solo
tener
l'impero; io vo' ch'ambi del pari
questi
popoli invitti aggian tra loro
governo
e leggi eguali, e pace eterna.
A
me basta ch'io dia ricetto e culto
a'
miei numi, a' miei Teucri, e sia Latino
suocero
mio, del suo regno e de l'armi
signor,
rettore e donno. Io poscia altrove
altre
mura ergerommi, e de' miei stessi
fien
le fatiche, e di Lavinia il nome».
Cosí pria disse Enea; cosí Latino
seguitò
poi con gli occhi e con la destra
al
ciel rivolto: «Ed io giuro, - dicendo, -
le
stesse deità, la terra, il mare,
le
stelle, di Latona ambo i gemelli,
di
Giano ambe le fronti, il chiuso centro,
e
la gran possa degl'inferni dii.
Odami
di là su l'eterno padre,
che
fulminando stabilisce e ferma
le
promesse e gli accordi. I numi tutti
chiamo
per testimoni: e tocco l'ara,
e
tocco il foco, e questa pace approvo
dal
canto mio. Né mai, che che si sia
di
questa pugna, né per forza alcuna,
né
per tempo sarà ch'ella si rompa
di
voler mio; non se la terra in acqua
si
dileguasse, non se 'l ciel cadesse
ne
l'imo abisso: cosí come ancora
questo
mio scettro (ché lo scettro in mano
avea
per sorte) piú né fronda mai
né
virgulto farà poiché reciso
dal
vivo tronco, o da radice svèlto
mancò
di madre, e già d'arbore ch'era,
sfrondato,
diramato e secco legno
di
già venuto, e d'oricalco adorno
e
per man de l'artefice ridotto
in
questa forma, e per quest'uso in mano
dei
re latini è posto». In cotal guisa
fermati
i patti e l'ostie in mezzo addotte,
tra
i piú famosi, anzi a l'accese fiamme
le
svenâr, le smembrâr, le svisceraro.
E
sí com'eran palpitanti e vive,
le
fibre ne spiâr, le diêro al foco,
n'empiêr
le squadre e ne colmâr gli altari.
Di già disvantaggioso e diseguale
questo
duello a' Rutuli sembrava;
e
già vari bisbigli, e vari moti
n'eran
tra loro; e com' piú sanamente
si
rimirava, piú di forze impàri
si
vedea Turno; ed egli stesso indizio
ne
diè, che lento e tacito e sospeso
entrò
nel campo. E come ancor di pelo
avea
le guance lievemente asperse,
orando
anzi a l'altar pallido il volto
mostrossi,
e chino il fronte, e grave il ciglio.
Tale una languidezza rimirando,
e
tal del volgo un sussurrare udendo
Iuturna,
sua sorella, infra le schiere
gittossi,
e di Camerte il volto prese.
D'alto
legnaggio, di valor paterno,
e
di propria virtute era Camerte
famoso
in fra la gente. E tal sembrando,
già
degli animi accorta, iva Iuturna
rumor
diversi e tai voci spargendo:
«Ahi!
che vergogna, che follia, che fallo,
Rutuli,
è 'l nostro, che per tanti e tali
sola
un'alma s'arrischi? Or siam noi forse
di
numero a' nemici inferïori,
o
d'ardire, o di forze? Ecco qui tutti
accolti
i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi
che
sono anco per fato a Turno infensi.
A
due di noi contra un di loro a mischia
che
si venisse, di soverchio ancora
fôrano
i nostri. Ei che per noi combatte,
ne
sarà fra gli dèi, cui s'è devoto,
in
ciel riposto, e qui tra noi famoso
viverà
sempre. Ma di noi che fia,
ch'or
ce ne stiam sí neghittosi a bada?
La
patria perderemo? e da stranieri,
e
da superbi in servitude addotti,
preda
e scherno d'altrui sempre saremo?
Da questo dir la gioventú commossa
via
piú s'accende, e 'l mormorio serpendo
piú
cresce per le squadre. Onde i Latini
e
gli stessi Laurenti, che pur dianzi
di
pace eran sí vaghi e di quïete,
pensier
cangiando e voglie, or l'arme tutti
gridano,
tutti pregan che l'accordo
sia
per non fatto; e tutti han de l'iniqua
sorte
di Turno ira, pietate e sdegno.
In questa, ecco apparir ne l'aria un mostro
per
opra di Iuturna, onde turbati
e
dal primo proposito distolti
fûr
da vantaggio de' Latini i cuori.
Videsi
per lo lito e per lo cielo
di
roggio asperso un di palustri augelli
impaürito
e strepitoso stuolo.
Dietro
un'aquila avea, ch'a mano a mano
giuntolo
de lo stagno in su la riva,
un
cigno ne ghermí ch'era di tutti
il
maggiore e 'l piú bello. A cotal vista
gli
occhi e gli animi alzâr l'itale squadre;
e
gli augei, che pur dianzi erano in fuga
(mirabile
a vedere!), in un momento
stridendo
si rivolsero, e ristretti
in
densa nube, ond'era il ciel velato,
la
nimica assaliro. E sí d'intorno
la
cinser, l'aggirâr, l'attraversaro,
ch'a
cielo aperto, u' dianzi erano in fuga,
le
fêr gabbia, ritegno e forza, al fine
che,
gravata dal peso e stretta e vinta,
de la lena mancasse e de la preda.
Il
cigno dibattendosi, da l'ugne
sovra
l'onde gli cadde; ed ella scarca,
da
la turba fuggendo, al cielo alzossi.
I Rutuli a tal vista con le grida
salutâr
pria l'augurio: indi a la pugna
si
prepararo. E fu Tolunnio il primo,
ch'augure,
incontro al patto, anzi le schiere
si
spinse armato, e disse: «Or questo è, questo
ch'io
desïava; e questo è quel ch'io cerco
ho
ne' miei vóti. Accetto e riconosco
il
favor degli dèi. Me, me seguite,
Rutuli
miei. Con me l'armi prendete
contro
al malvagio, che di strana parte
venuto
con la guerra a spaventarci,
ha
voi per vili augelli, e i vostri lidi
cosí
scorre e depreda. Ma ritolto
questo
cigno gli fia; di nuovo al mare
in
fuga se n'andrà. Voi combattendo
in
guisa de la pria fugace torma,
ristringetevi
insieme, e riponete
il
vostro re, che v'è rapito, in salvo».
Detto cosí, spinse il destriero, e trasse
contr'a'
nimici. Andò stridendo e dritto
l'aura
secando il fulminato dardo:
e
'nsieme udissi col suo rombo un grido
che
insino al ciel, de' Rutuli, sentissi.
Insieme
scompigliossi il campo tutto,
turbârsi
i petti, ed infiammârsi i cuori.
L'asta
volando giunse ove a rincontro
nove
fratelli eran per sorte accolti,
che
tutti d'una sola etrusca moglie
da
l'arcadio Gilippo eran creati.
Un
di lor ne colpí là 've nel mezzo
il
cinto s'attraversa, e con la fibbia
s'afferra
al fianco. Ivi tra costa e costa,
penetrando
altamente, lo trafisse,
e
morto in su l'arena lo distese.
Questi,
il piú riguardevole ne l'armi
era
degli altri, e 'l piú bello e 'l piú forte,
e
gli altri come tutti eran feroci,
dal
dolore infiammati incontinente
chi
la spada impugnò, chi prese il dardo;
e
contra il feritor tutti in un tempo
come
ciechi, avventârsi. Incontro a loro
si
mosser de' Laurenti e de' Latini
le
genti a schiere, e d'altro lato a schiere
spinsero
i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi.
Cosí
d'arme e di sangue uguale ardore
surse
d'ambe le parti; e l'are e 'l foco
ch'eran
di mezzo, e l'ostie e le patene
n'andâr
sossopra; e tal di ferri e d'aste
denso
levossi e procelloso un nembo,
che
'l sol se n'oscurò, sangue ne piovve.
Grida
e fugge Latino, e i numi offesi
se
ne riporta, e detestando abborre
il
vïolato accordo. Armasi intanto
il
campo tutto; e chi frena i destrieri,
chi
'l carro appresta; e già con l'aste basse,
e
con le spade ad investir si vanno.
Messapo desïoso che l'accordo
si
disturbasse, incontro al tosco Auleste
che,
come re, di regal fregi adorno
e
d'ostro, al sacrificio era assistente,
spinse
il cavallo e spaventollo in guisa,
che
mentre si ritragge infra gli altari
ch'avea
da tergo, urtando, si travolse.
Messapo
con la lancia incontinente
gli
si fe' sopra, e sí com'era in atto
di
supplicarlo, il petto gli trafisse,
«Cosí
ben va, - dicendo, - or a' gran numi
porco
piú grato e miglior ostia cadi».
Cadde
il meschino, e fu, spirante e caldo,
sovraggiunto
dagl'Itali e spogliato.
Diè Corinèo per un gran tizzo a
l'ara
di
piglio; e sí com'era ardente e grave,
ad
Ebuso ch'incontro gli venia,
nel
volto il fulminò. Schizzonne insieme
il
foco e 'l sangue; e di baleno in guisa
un
lampo ne la barba gli rifulse
che
diè d'arsiccio odore, indi gli corse
sopra
senza ritegno; e qual trovollo
da
la percossa abbarbagliato e fermo,
l'afferrò
per la chioma, a terra il trasse,
col
ginocchio lo strinse, e col trafiere
gli
passò 'l fianco. Podalirio ad Also
pastor,
che fra le schiere infurïava,
s'affilò
dietro; e già col brando ignudo
gli
soprastava, allor ch'Also rivolto
la
gravosa bipenne ond'era armato
gli
piantò nella fronte e 'nsino al mento
il
teschio gli spartí, l'armi gli sparse
tutte
di sangue: ond'ei cadde, e le luci
chiuse
al gran buio ed al perpetuo sonno.
Enea senz'elmo in testa, infra le genti
la
disarmata destra alto levando,
e
discorrendo, e richiamando i suoi:
«Dove,
dove ne gite? Che tumulto, -
dicea,
- che furia, che discordia è questa
cosí
repente? Oh trattenete l'ire;
oh
non rompete. Il patto è stabilito;
l'accordo
è fatto. Solo a me concesso
è
ch'io combatta. A me sol ne lasciate
la
cura e 'l carco. Io, non temete, io solo
il
patto vi ratifico e vi fermo
con
questa sola destra; e Turno a morte
di
già mi si promette, e mi si deve
da
questi sacrifici». In questa guisa
gridava
il teucro duce; ed ecco intanto
venir
d'alto stridendo una saetta;
non
si sa da qual mano, o da qual arco
si
dipartisse. O caso, o dio che fosse
che
tanta lode a' Rutuli prestasse,
l'onor
se ne celò, né mai s'intese
chi
del ferito Enea vanto si desse.
Turno, poiché dal campo Enea fu tratto,
e
turbar vide i suoi, di nuova speme
s'accese,
e gridò l'armi, e sopra al carro
d'un
salto si slanciò, spinse i cavalli
infra'
nemici, e molti a morte dienne.
Molti
ne sgominò, molti n'infranse,
e
con l'aste, fuggendo, ne percosse.
Qual
è de l'Ebro in su la fredda riva
il
sanguinoso Marte, allor ch'entrando
ne
la battaglia, o con lo scudo intuona,
o
fulmina con l'asta, e i suoi cavalli
da
la furia e da lui cacciati e spinti
ne
van co' venti a gara, urtando i vivi,
e
calpestando i morti; e fan col suono
de'
piè fino agli estremi suoi confini
tremar
la Tracia tutta, e van con essi
lo
spavento, il timor, l'insidie e l'ire,
del
bellicoso iddio seguaci eterni;
in
cosí fiera e spaventosa vista
se
ne gia Turno, la campagna aprendo,
uccidendo,
insultando e di nemici
miserabil
ruina e strage e strazio
or
con l'armi facendo, or co' destrieri
che
sudanti, fumanti e polverosi,
spargean
di sangue e di sanguigna arena
con
le zampe e con l'ugne un nembo intorno.
Stènelo,
ne l'entrar, Tàmiro e Polo
condusse
a morte; i due primi da presso,
l'ultimo
da lontano. E da lunge anco
Glauco
percosse e Lado; i due famosi
figli
d'Imbraso, ne la Licia nati,
da
lui stesso nutriti, e parimente
a
cavalcare e guerreggiare instrutti.
Da l'altra parte Eumède il chiaro
germe
de
l'antico Dolone. Il nome avea
costui
de l'avo, e l'ardimento e i fatti
seguia
del padre, che de' Greci il campo
spïare
osando, osò d'Achille ancora
in
premio de l'ardir chiedere il carro.
Ma
d'altro che di carro premïollo
il
figlio di Tidèo; né però degno
d'un
tanto guiderdone unqua si tenne.
Turno,
poscia che 'l vide (che da lunge
lo
scòrse) con un dardo il giunse in prima:
indi
a terra gittossi: e qual trovollo
di
già caduto e moribondo, il piede
sopr'al
collo gl'impresse, e ne la strozza
lo
suo stesso pugnal cacciogli, e disse:
«Troiano,
ecco l'Italia, ecco i suoi campi,
che
tanto desïasti: or gli misura
costí
giacendo. E questo si guadagna
chi
contra a Turno ardisce; e 'n questa guisa
si
fondan le città». Dietro a costui
Bute,
e di mano in man Darete, Cloro
e
Síbari e Tersíloco e Timete
lanciando,
uccise. Ma Timete in terra
ferí,
che per sinistro o per difetto
d'un
suo restio cavallo era caduto.
Qual sopra al grande Egeo sonando scorre
il
tracio Bora, che le nubi e i flutti
si
sgombra avanti; e questi ai lidi, e quelle
a
l'orizzonte in fuga se ne vanno:
tal
per lo campo, ovunque si rivolge,
fa
Turno sgominar l'armi e le schiere;
e
tal seco ne va furia e spavento,
che
financo al cimier morte minaccia.
Fegèo, tanta fierezza e tanto orgoglio
non
sofferendo, al concitato carro
parossi
avanti, e lievemente un salto
spiccando,
con la destra al fren s'appese
del
sinistro corsiero. E sí com'era
da
la fuga rapito e da la forza
di
tutti insieme, insiememente a tutti
(dal
sentier divertendoli e dal corso)
facea
storpio e disturbo. Ed ecco al fianco
che
da la destra parte era scoperto,
cotal
sentissi de la lancia un colpo
che
la corazza ancor che doppia e forte,
stracciogli,
e 'n fino al vivo lo trafisse
ma
di lieve puntura. Ond'ei rivolto,
e
'mbracciato lo scudo e stretto il brando,
contra
gli s'affilava, e per soccorso
gridava
intanto. Ma la ruota e l'asse
ch'erano
in moto, urtandolo, a rovescio
gittârlo,
e Turno immantinente addosso
sagliendogli,
infra l'elmo e la gorgiera
il
collo gli recise, e dal suo busto
tronco
il capo lasciogli in su l'arena.
Mentre cosí vincendo e d'ogni parte
con
tanta strage il campo trascorrendo
se
ne va Turno; Enea dal fido Acate,
da
Memmo e dal suo figlio accompagnato
(come
da la saetta era ferito),
sovr'un'asta
appoggiato, a lento passo
verso
gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi
contro a lo stral, contro a se stesso
s'inaspra
e frange il tèlo, di sua mano
ripesca
il ferro. e poi che indarno il tenta,
comanda
che la piaga gli s'allarghi
con
altro ferro, e d'ogn'intorno s'apra,
sí
che tosto dal corpo gli si svelga,
e
tosto alla battaglia se ne torni.
Comparso
intanto era a la cura Iapi
d'Iäso
il figlio, sovr'ogn'altro amato
da
Febo. E Febo stesso, allor ch'acceso
era
da l'amor suo, la cetra e l'arco
e
'l vaticinio, e qual de l'arti sue
piú
l'aggradasse, a sua scelta gli offerse.
Ei
che del vecchio infermo e già caduco
suo
padre la salute e gli anni amava,
saper
de l'erbe la possanza, e l'uso
di
medicare elesse, e senza lingua
e
senza lode e del futuro ignaro
mostrarsi
in pria, che non ritorre a morte
chi
li diè vita. A la sua lancia Enea
stava
appoggiato, e fieramente acceso
fremendo,
avea di giovani un gran cerchio
col
figlio intorno, al cui tenero pianto
punto
non si movea. Sbracciato intanto
e
con la veste e la cintura avvolta,
qual
de' medici è l'uso, il vecchio Iapi
gli
era d'intorno; e con diverse pruove
di
man, di ferri, di liquori e d'erbe
invan
s'affaticava, invano ogn'opra,
ogn'arte,
ogni rimedio, e i preghi e i vóti
al
suo maestro Apollo eran tentati.
De la battaglia rinforzava intanto
lo
scompiglio e l'orrore; e già 'l periglio
s'avvicinava;
già di polve il cielo,
di
cavalieri il campo era coverto;
che
fin dentro a' ripari e fra le tende
ne
cadevano i dardi; e già da presso
s'udian
de' combattenti e de' caduti
i
lamenti e le grida. Il caso indegno
d'Enea
suo figlio, e 'l suo stesso dolore
in
sé Ciprigna e nel suo cor sentendo,
ratto
v'accorse, e fin di Creta addusse
di
dittamo un cespuglio, che recente
di
sua man còlto, era di verde il gambo,
di
tenero le foglie, e d'ostro i fiori
tutto
consperso e rugiadoso ancora.
Quest'erba
per natura ai capri è nota,
e
da lor cerca allor che 'l tergo o 'l fianco
ne
van di dardo o di saetta infissi.
Con
questa Citerèa per entro un nembo
ne
venne ascosa, e col salubre sugo
d'ambrosia
e d'odorata panacea
mischiolla,
e poscia i tiepidi liquori
ch'eran
già presti in tal guisa ne sparse,
che
nïun se n'avvide. E n'ebbe a pena
la
piaga infusa, che l'angoscia e 'l duolo
cessò
repente, il sangue d'ogni parte
de
la ferita in fondo si raccolse,
e
seguendo la mano, il ferro stesso
come
da sé n'uscio. Spedito e forte,
e
nel pristino suo vigor ridotto,
Enea
dritto levossi. Iäpi il primo:
«A
che, - disse, - badate? e perché l'arme
tosto
non gli adducete?» Indi a lui vòlto,
contro
a' nemici in tal guisa infiammollo:
«Enea,
non è, non è per possa umana
o
per umano avviso o per mia cura
questo
avvenuto. Un dio, certo un gran dio
a
gran cose ti serba». In questo mezzo
ei,
già di pugna desïoso, entrambi
s'avea
gli stinchi di dorata piastra,
il
dorso di lorica, e la sinistra
di
scudo armata. E già l'asta squassando,
d'indugio
impazïente, in su la soglia
tanto
sol de la tenda si ritenne,
che,
sí com'era di tutt'armi involto,
il
caro Iulo caramente accolse,
e
con le labbia a pena entro l'elmetto
baciollo,
e disse: «Figlio mio, da me
la
sofferenza e la virtute impara;
la
fortuna dagli altri. Io, quel che posso
or
con questa mia destra ti difendo:
onor,
grandezza e signoria t'acquisto
col
sangue mio. Tu poi, quando maturi
fian
gli anni tuoi, fa che d'Enea tuo padre
e
d'Ettore tuo zio sí ti rammenti,
che
ti sian le fatiche e i gesti loro
a
gloria ed a vertute esempi e sproni».
Detto cosí, fuor de le porte uscendo,
brandí
la lancia, e tutti in un drappello
ristrinse
i suoi. Memmo ed Antèo con esso,
e
quanti altri del vallo erano in prima
lasciati
a guardia, il vallo abbandonando,
dietro
gli s'inviaro. Allor di polve
levossi
un nembo, e d'ogn'intorno scossa
al
calpitar de' piè tremò la terra.
Turno di sopra un argine mirando,
questa
gente venir si vide incontro.
Viderla,
e ne temero e ne tremaro
gli
Ausoni tutti. Udinne il suon da lunge
Iuturna
in prima, e per timore indietro
se
ne ritrasse. Enea volando, al campo
spinse
lo stuol, che polveroso e scuro
tal
se n'andò qual d'alto mare a terra
squarciato
nembo, quando, ohimè! che segno
e
che spavento, e che ruina apporta
ai
miseri coloni! e quanta strage
agli
alberi, a le biade, a la vendemmia
se
ne prepara! e qual se n'ode intanto
sonar
procella, e venir vento a riva!
Cotal
contro a' nemici il teucro duce
co'
suoi, come in un gruppo insieme uniti,
entrò
ne la battaglia. Al primo incontro
Osiri,
Archezio, Ufente ed Epulone
ne
gir per terra. Acate e Memmo e Gia
e
Timbrèo gli affrontaro, e ciascun d'essi
atterrò
'l suo. Cadde Tolunnio appresso,
l'augure
che primiero il dardo trasse
nel
turbar de l'accordo. Al suo cadere
tutto
in un tempo empiessi il ciel di grida,
la
campagna di polve; e vòlti in fuga
se
ne giro i Latini. Enea sdegnando
e
di seguire e d'incontrar qual fosse
pedone
o cavalier, che o lunge o presso
di
provocarlo e di ferirlo osasse,
sol
di Turno cercando iva per entro
quella
densa caligine, e 'l suo nome
solamente
gridando, a la battaglia
lo
disfidava. Impaürita e mesta
di
ciò Iuturna, la virago ardita,
tosto
di Turno al carro appropinquossi,
e
giú Metisco, il suo fedele auriga,
subito
trabocconne. Ed ella in vece
e
'n sembianza di lui, lui stesso al corpo,
a
l'armi, a la favella, ad ogni moto
rassomigliando,
in seggio vi si pose,
e
ne prese le redini, e lo resse.
Qual ne va negra rondine alïando
per
le case de' ricchi, allor che piume
e
fuscelletti al cominciato nido
quinci
e quindi rauna, o picciol'esca
a'
suoi loquaci pargoletti adduce;
che
sotto a' porticali e sopra l'acque,
e
per gli atri volando e per le sale
or
alto or basso si travolve e gira;
cotal
Iuturna il campo attraversando
per
ogni parte si spingea col carro
e
co' destrieri infra i nemici a volo,
sovente
a loco a loco il suo fratello
vincitor
dimostrando, e non soffrendo
che
punto dimorasse, o ch'a rincontro,
o
pur vicino al gran Teucro ne gisse.
Enea
da l'altro canto incontro a lui
volgendo,
e rivolgendo, e fra le schiere
cosí
com'eran dissipate e sparse
indarno
ricercandolo, il chiamava
ad
alta voce. E mai gli occhi non torse
ov'ei
si fusse, e dietro non gli mosse,
ch'ella
co' suoi corsieri in piú diversa
e
piú lontana parte non fuggisse.
Or
che farà, ch'ogni pensiero, ogni opra,
ogni
disegno gli rïesce invano?
e
i pensier son diversi? Ecco Messapo,
che
per lo campo discorrendo intanto
d'improvviso
l'incontra. E sí com'era
d'una
coppia di dardi a la leggiera
ne
la sinistra armato, un ne gli trasse
dritto
sí che feria; se non ch'Enea
gli
fece schermo, e rannicchiato e stretto
chinossi
alquanto. E pur ne l'elmo il colse
e
'l cimier ne divelse. Irato surse;
e
poiché da' nemici attorneggiato
si
vide, e che i cavalli eran di Turno
di
già spariti, a Giove, ai sacri altari
del
vïolato accordo e de l'insidie
molto
si protestò: poscia tra loro
gittossi
impetuoso, e strazio e strage
prosperamente,
ovunque si rivolse,
ne
fece a tutto corso; e senza freno
si
diede a l'ira ed a la furia in preda.
Or qual nume sarà ch'a dir m'aíti
le
tante occisïoni e sí diverse
che
di duci e di schiere e di falangi
fecer
quel giorno, Enea da l'una parte,
Turno
da l'altra? Ah, Giove, sí crudele,
sí
sanguinosa guerra infra due genti
che
saran poscia eternamente in pace?
Enea Sucrone, un de' piú forti Ausoni
occise
in prima, e primamente i Teucri
fermò,
ch'eran da lui rivolti in fuga.
L'incontrò,
lo ferí, senza dimora
morto
a terra il gittò; ch'in un de' fianchi
con
la spada lo colse, e ne le coste
e
ne la vita stessa ne gl'immerse.
Turno a piè dismontato, Àmico
in terra,
che
da cavallo era caduto, infisse:
e
seco il frate suo Dïoro estinse.
L'un
di lancia ferí, l'altro di brando;
e
d'ambi i capi dai lor tronchi avulsi,
sí
com'eran di polvere e di sangue
stillanti
e lordi, per le chiome appesi
anzi
al carro si pose. E via seguendo
quegli
Talone e Tànai e Cetègo
tre
feroci Latini ad un assalto
si
stese avanti, e 'l mesto Onite appresso
figlio
di Peridía, gloria di Tebe.
E
tre dal canto suo questi n'ancise
ch'eran
fratelli de la Licia usciti
e
de' campi d'Apollo; a cui per quarto
Menete
aggiunse. Ah, come il fato indarno
si
fugge! Infin d'Arcadia fu costui
qui
condotto a morire. E 'n su la riva
era
nato di Lerna, ove pescando,
da
l'armi, da le corti e da' palagi
si
tenea lunge; e solo il suo tugurio
avea
per reggia, e per signore il padre,
povero
agricoltor de' campi altrui.
Come due fochi in due diverse parti
d'un
secco bosco accesi, ardon sonando
le
querce e i lauri; o due rapidi e gonfi
torrenti
che nel mar dagli alti monti
precipitando,
se ne va ciascuno
il
suo cammino aprendo, e ciò che truova
si
caccia avanti e rumoreggia e spuma;
cosí
per la campagna, ambi fremendo,
le
schiere sgominando, e questi e quelli
atterrando
ne gian, da l'una parte
Enea,
Turno da l'altra. Or sí che d'ira,
or
sí che di furor si bolle e scoppia,
e
con tutte le forze a ferir vassi;
ché
l'esser vinto, e non la morte è morte.
E
qui Murrano (un che superbo e gonfio,
del
nome e de l'origine vantando
se
ne gia degli antichi avi e bisavi
latini
regi) fu d'un balzo a terra
da
la furia d'Enea spinto e travolto;
sí
che di lui, del carro e de le ruote
fatto
un viluppo, i suoi stessi cavalli,
il
signore oblïando, incrudelîrsi,
e
sotto al giogo e sotto ai calci accolto
l'infranser,
lo pigiâr, lo strascinaro
e
l'ancisero alfine. Ilo, che fiero
e
minaccioso avanti gli si fece,
seguí
Turno a ferir di dardo, in guisa
che
de l'elmetto la dorata piastra
e
le tempie e 'l cerèbro gli trafisse.
Né
tu, Crèteo, di man di Turno uscisti,
perché
de' piú robusti e de' piú forti
fosti
de' Greci. Né di man d'Enea
scampâr
Cupento i suoi numi invocati:
ché
nel petto ferillo, e non gli valse
lo
scudo che di bronzo era coverto.
E
tu che contra a tante argive schiere
e
contra al domator di Troia Achille,
Eölo,
non cadesti, in questi campi
fosti,
qual gran colosso, a terra steso.
Ma
che? Quest'era il fin de' giorni tuoi:
qui
cader t'era dato. Appo Lirnesso
altamente
nascesti: appo Laurento
umil
sepolcro avesti. Eran già tutti
quinci
i Latini e quindi i Teucri a fronte,
e
tra lor mescolati Asila e Memmo,
e
Seresto e Messapo, e le falangi
degli
Arcadi e de' Toschi, ognun per sé,
e
tutti insieme con estrema possa,
con
estremo valor senza riposo
facean
mortale e sanguinosa mischia.
Qui nel pensiero al travagliato figlio
pose
Ciprigna di voltar le schiere
subitamente
a le nimiche mura,
e
con quel nuovo, inopinato avviso
assalir,
disturbare, e l'oste insieme
e
la città por de' Latini in forse.
E
sí come, di Turno investigando,
volgea
le luci in questa parte e 'n quella,
vide
Laurento che non tocco ancora
stava
da tanta guerra immune e scevro.
E
da l'occasïon subitamente
preso
consiglio, a sé Memmo, Seresto
e
Sergesto chiamando, indi vicino
sovr'un
colle si trasse, ove de' Teucri
a
mano a man si raunâr le schiere.
E
sí come raccolti, armati e stretti
s'eran
già fermi, in mezzo alto levossi
e
cosí disse: «Udite, e senza indugio
fate
quel ch'io dirò. Giove è con noi.
E
perché sí repente io mi risolva
a
questa impresa, non però di voi
alcun
sia che men pronto vi si mostri.
Oggi
o che re Latino al nostro impero
converra
ch'obbedisca e freno accetti;
o
che questa città, seme e cagione
di
questa guerra, e questo regno tutto
a
foco, a ferro ed a ruina andranne.
E
che deggio aspettar? Che non piú Turno
fugga,
si come fa, la pugna mia?
E
che vinto una volta, si contenti
di
combattere un'altra? Il capo e 'l fine,
cittadin
miei, di questa guerra è questo.
Via,
col foco a le mura, e con le fiamme
ne
vendichiam del vïolato accordo».
Avea ciò detto, quando ognuno a gara
e
tutti insieme inanimati e stretti
di
conio in guisa, qual intera massa,
appressâr
la città. Vi furon preste
le
scale e 'l foco. Altri assalîr le porte,
e
questi e quelli occisero e cacciaro,
come
pria s'abbattero. Altri lanciando
oppugnâr
la muraglia; onde levossi
di
terra un nembo che fece ombra al sole.
Enea sotto le mura attorneggiato
da'
primi suoi, la destra alto e la voce
levando,
or con Latino or con gli dèi
si
protestava, che due volte a l'armi
era
forzato e che due volte il patto
gli
si turbava. I cittadini intanto
facean
tumulto. E chi volea che dentro
si
chiamassero i Teucri e che le porte
fossero
aperte, il re fin su le mura
a
ciò traendo;, e chi l'armi gridando
s'apprestava
a difesa. Era a vederli
qual
è di pecchie entro una cava rupe
accolto
sciame allor che dal pastore
d'amaro
fumo è la caverna offesa;
che
trepide, confuse e d'ira accese,
per
l'incerate fabbriche travolte,
discorrendo
e ronzando se ne vanno:
al
cui stridor l'affumigata grotta
mormora,
e tetro odore a l'aura esala.
In questo tempo un infortunio orrendo,
timor,
confusïone e duolo accrebbe
agli
afflitti Latini, e pose in pianto
il
popol tutto: e fu che la reina,
visto
da lunge incontro a la cittade
venire
i Teucri, e già le faci e l'armi
volar
per entro, e piú nulla sentendo
o
vedendo de' Rutuli o di Turno,
onde
aíta o speranza le venisse,
si
credé la meschina che già l'oste
fosse
sconfitto, e, 'l genero caduto,
ogni
cosa in ruina. E presa e vinta
da
súbito dolore, alto gridando:
«Ah!
ch'io la colpa, - disse - io la cagione,
io
l'origine son di tanto male».
E
dopo molto affliggersi e dolersi,
già
furïosa e di morir disposta,
il
petto aprissi, e la purpurea veste
si
squarciò, si percosse, e dell'infame
nodo
il collo s'avvinse, e strangolossi.
Udito il caso, la diletta figlia
i
biondi crini e le rosate guance
prima
si lacerò, poscia la turba
v'accorse
de le donne, e di tumulto,
di
pianti, di stridori e d'ululati
la
reggia tutta e la cittade empiessi.
Ognun
si sgomentò. Latino, afflitto
de
la morte d'Amata e del periglio
del
regno tutto, lanïossi il manto,
bruttossi
il bianco e venerabil crine
d'immonda
polve; amaramente pianse
che
per suocero dianzi e per amico
non
si confederò col frigio duce.
Turno, che in questo mezzo combattendo
rimaso
era del campo in su l'estremo
incontro
a pochi, e quelli anco dispersi,
già
scemo di vigore, e trasportato
da'
suoi cavalli, che ritrosi e stanchi
ognor
piú se n'andavano lontani,
in
sé confuso e dubbio se ne stava.
Quando
ecco di Laurento ode le grida
con
un terror che, non compreso ancora,
gli
avea da quella parte il vento addotto.
Porse
l'orecchie, e 'l mormorio sentendo
de
la città, che tuttavia piú chiaro
di
tumulto sembrava e di travaglio:
«Oh,
- disse, - che sent'io? che novitate
e
che rumore e che trambusto è questo
che
di dentro mi fère?». E, quasi uscito
di
sé, mirando ed ascoltando stette.
Cui
la sorella (come già conversa
era
in Metisco, e come i suoi cavalli
stava
reggendo) si rivolse, e disse:
«Di
qua, Turno, di qua. Quinci la strada
ne
s'apre a la vittoria. Altri a difesa
saran
de la città. Se d'altra parte
Enea
de' tuoi fa strage, e tu da questa
distruggi
i suoi, che mon men gloria aremo,
e
piú sangue faremo». E Turno a lei:
«O
mia sorella! (che mia suora certo
sei
tu) ben ti conobbi infin da l'ora
che
turbasti l'accordo, e che poi meco
ne
la battaglia entrasti. Or, benché dea,
indarno
mi t'ascondi. E chi dal cielo
cosí
qua giú ti manda a soffrir meco
tante
fatiche? A veder forse a morte
gir
tuo fratello? E che, misero! deggio
far
altro mai? qual mi si mostra altronde
o
salute o speranza? Io stesso ho visto
con
gli occhi miei, lo mio nome chiamando,
cadere
il gran Murrano. E chi mi resta
di
lui piú fido e piú caro compagno?
E
'l magnanimo Ufente anco è perito,
credo,
per non veder le mie vergogne:
e
'l corpo e le armi sue, lasso! in potere
son de' nemici. E soffrirò (ché questo
sol
ci mancava) di vedermi avanti
aprir
le mura, e ruinare i tetti
de
la nostra città? Né fia che Drance
menta
de la mia fuga? E fia che Turno
volga
le spalle, e quella terra il vegga?
Sí
gran male è morire? inferni dii,
accoglietemi
voi, poiché i superni
mi
sono infesti. A voi di questa colpa
scenderò
spirto intemerato e santo,
e
non sarò de' miei grand'avi indegno».
Ciò disse a pena; ed ecco a tutta
briglia
venir
per mezzo a le nemiche schiere
un
cavalier che Sage era nomato.
Di
spuma e di sudore il suo cavallo,
e
di sangue era sparso. In volto infissa
portava
una saetta, e con gran furia
Turno
chiamando e ricercando andava.
Poscia che 'l vide: «In te, - disse, -
è riposta
ogni
speranza: abbi pietà de' tuoi.
Enea
va come un folgore atterrando
tutto
ciò che davanti gli si para;
e
le mura e le torri e 'l regno tutto
di
ruinar minaccia; e già le faci
volano
ai tetti. A te gli occhi rivolti
son de' Latini. E già Latino stesso
vacilla,
e fra due stassi a qual di voi
s'attenga,
e di cui suocero s'appelli.
La
regina che solo era sostegno
de
la tua parte, di sua propria mano,
per
timore e per odio de la vita,
s'è
strangolata. Solamente Atina
e
Messapo a difesa de le porte
fan
testa; ma gli vanno i Teucri a schiere
con
tant'aste a rincontro e tante spade
serrati
insieme, quante a pena in campo
non
son le biade. E tu per questa vòta
e
deserta campagna il carro indarno
spingendo
e volteggiando te ne stai?»
Turno da tante orribili novelle
sopraggiunto
in un tempo e spaventato,
si
smagò, s'ammutí, col viso a terra
chinossi.
Amor, vergogna, insania e lutto
e
dolore e furore e coscïenza
del
suo stesso valore accolti in uno,
gli
arsero il core e gli avvamparo il volto.
Ma poscia che gli fu la nebbia e l'ombra
de
la mente sparita, e che la luce
gli
si scoprí de la ragione in parte:
cosí
com'era ancor turbato e fero,
di
sopra al carro a la città rivolse
l'ardente
vista. Ed ecco in su le mura
vede
che una gran fiamma al cielo ondeggia,
gli
assiti, i ponti e le bertesche ardendo
d'una
torre ch'a guardia era da lui
de
la muraglia in su le ruote eretta.
E
disse: «Già, sorella, già son vinto
dal
mio destino. A che piú m'attraversi?
Via,
dove la fortuna e dio ne chiama!
Fermo
son di venir col Teucro a l'armi,
e
soffrir de la pugna e de la morte
ogni
acerbezza, anzi che tu mi vegga
de
la gloria de' miei, sorella, indegno.
Or
al fato mi lascia e sostien ch'io
disfoghi
infurïando il mio furore».
Cosí dicendo, fuor del carro a terra
gittossi
incontinente, e la sirocchia
lasciando
afflitta, via per mezzo a l'armi
e
per mezzo a' nemici a correr diessi.
Qual di cima d'un monte in precipizio
rotolando
si volge un sasso alpestro,
che
dal vento o dagli anni o da la pioggia
divelto,
per le piagge a scosse, a balzi
vada
senza ritegno, e de le selve
e
degli armenti e de' pastori insieme
meni
guasto, ruina e strage avanti;
tal
per l'opposte e sbaragliate schiere
se
ne gia Turno. E giunto ove in cospetto
de
la città di molto sangue il campo
era
già sparso, e pien di dardi il cielo,
alzò
la mano, e con gran voce disse:
«State, Rutuli, a dietro; e voi, Latini,
toglietevi
da l'armi. Ogni fortuna,
qual
ch'ella sia di questa pugna, è mia.
A
me la colpa, a me si dee la pena
del
vïolato accordo: a me per tutti
pugnar
debitamente si conviene».
A questo dir di mezzo ognun si tolse,
ognun
si ritirò. Di Turno il nome
Enea
sentendo, il cominciato assalto
dismise
e da le mura e da le torri
e
da tutte l'imprese si ritrasse.
Per
letizia esultò, terribilmente
fremé,
si rassettò, si vibrò tutto
nell'armi,
e 'n sé medesmo si raccolse;
quanto
il grand'Ato, o 'l grand'Erice a l'aura
non
sorge a pena, o 'l gran padre Appennino,
allor
che d'elci la fronzuta chioma
per
vento gli si crolla, e che di neve
gioioso
alteramente s'incappella.
I
Rutuli, i Latini, i Teucri, e tutti
o
ch'a la guardia o ch'a l'offesa in prima
fosser
de la muraglia, ognuno a gara
l'armi
deposte, a rimirar si diêro.
Latino
esso re stesso spettatore
ne
fu con meraviglia, ch'anzi a lui
altri
due re sí grandi, e di due parti
del
mondo sí diverse e sí remote,
fosser
de l'armi al paragon venuti.
Eglino, poiché largo e sgombro il campo
ebber
davanti, non si fur da lunge
veduti
a pena, che correndo entrambi
mosser
l'un contra l'altro. I dardi in prima
s'avventâr
di lontano, indi s'urtaro;
e
'l tonar degli scudi e 'l suon degli elmi
fe'
la terra tremare, e l'aura ai colpi
fischiò
de' brandi. La fortuna insieme
si
mischiò col valore. In cotal guisa
sopra
al gran Sila o del Taburno in cima,
d'amore
accesi, con le fronti avverse
van
due tori animosi a riscontrarsi;
che
pavidi in disparte se ne stanno
i
lor maestri, s'ammutisce e guarda
la
torma tutta, e le giovenche intanto
stan
dubbie a cui di lor marito e donno
sia
de l'armento a divenir concesso:
ed
essi urtando, con le corna intanto
si
dan ferite, che le spalle e i fianchi
ne
grondan sangue, e ne rimugghia il bosco;
tal
del troiano e dell'ausonio duce
era
la pugna e tal de le percosse
e
degli scudi il suono. A questo assalto
il
gran Giove nel ciel librate e pari
tenne
le sue bilance, e d'ambi il fato,
contrapesando,
attese a qual di loro
desse
la sua fatica e 'l suo valore
de
la vittoria o de la morte il crollo.
Qui Turno a tempo, che sicuro e destro
gli
parve, alto levossi, e con la spada
di
tutta forza a l'avversario trasse,
e
ne l'elmo il ferí. Gridaro i Teucri,
trepidaro
i Latini, e sgomentârsi
tutte
d'ambi gli eserciti le schiere.
Ma
la perfida spada in mezzo al colpo
si
ruppe, e 'n sul fervore abbandonollo,
sí
che la fuga in sua vece gli valse:
ch'a
fuggir diessi, tosto che la destra
disarmata
si vide, e che da l'else
l'arme
conobbe che la sua non era.
È fama che da l'impeto accecato,
allor
che prima a la battaglia uscendo
giunse
Turno i cavalli e 'l carro ascese,
per
la confusïone e per la fretta
lasciato
il patrio brando, a quel di piglio
diè
per disavventura, che davanti
gli
s'abbatté del suo Metisco in prima.
E
questo, fin che dissipati e rotti
n'andaro
i Teucri, assai fedele e saldo
lungamente
gli resse. Ma venuto
con
l'armi di Vulcano a paragone
(come
quel che di mano era costrutto
di
mortal fabbro) mal temprato e frale,
qual
di ghiaccio, si franse e ne la sabbia
ne
rifulsero i pezzi. E cosí Turno
fuggendo,
or quinci or quindi per lo campo,
qual
forsennato, indarno s'aggirava,
d'ogni
parte rinchiuso; che da l'una
lo
serravano i Frigi e la palude,
e
'l fosso e la muraglia era da l'altra,
e
non men ch'ei fuggisse, il teucro duce
(come
che da la piaga ancor tardato
fosse
de la saetta, e le ginocchia
si
sentisse ancor fiacche) il seguitava.
L'ardente
voglia, e la speranza eguale
a
la téma di lui, sí lo spingea,
che
già già gli era sopra, e già 'l feria.
Cosí
cervo fugace o da le ripe
chiuso
d'un alto fiume, o circondato
da
le vermiglie abbominate penne,
se
da veltro è cacciato o da molosso
che
correndo e latrando lo persegua,
di
qua di lui, di là del precipizio
temendo
e degli strali e degli agguati,
fugge,
rifugge, si travolge e torna
per
mille vie; né dal feroce alano
è
però meno atteso e men seguíto,
che
mai non l'abbandona; e già gli è presso
a
bocca aperta, e già par che l'aggiunga,
e
'l prenda e 'l tenga, e come se 'l tenesse,
schiattisce,
e 'l vento morde, e i denti inciocca.
Allor le grida alzârsi, a cui le rupi
de'
monti e i laghi intorno rispondendo,
l'aria
e 'l ciel tutto di tumulto empiero.
Mentre
cosí fuggia Turno, gridando
e
rampognando i suoi, del proprio nome
ciascun
chiamava, e 'l suo brando chiedea.
Enea da l'altra parte, minacciando
a
tutti unitamente ed a qualunque
di
sovvenirlo e d'appressarlo osasse,
che
faria delle genti occisïone
senza
pietà, ch'a sacco, a ferro, a foco
metteria
la cittade e 'l regno tutto,
sí
com'era ferito, il seguitava.
Cinque volte girando il campo tutto,
e
cinque rigirando, e molte e molte
di
qua di là correndo, imperversaro;
ché
non per gioco, non per lieve acquisto
d'onor,
ma per l'imperio, per lo sangue,
per
la vita di Turno era il contrasto.
Per
sorte in questo loco anticamente
era
a Fauno sacrato un oleastro
d'amare
foglie, venerabil legno
a'
naviganti che dal mare usciti
a
salvamento, al tronco, ai rami suoi
lasciavano
i lor vóti e le lor vesti
a
questo dio de' Laürenti appese.
Non
ebbero i Troiani a questo sacro
piú
ch'agli altri profani arbori o sterpi
alcun
riguardo; onde con gli altri tutti
lo
distirpâr, perché netto e spedito
restasse
il campo al marzïale incontro.
De l'oleastro in loco era caduta
l'asta
d'Enea: qui l'impeto la trasse;
qui
si tenea tra le sue barbe infissa.
E
qui per ricovrarla il teucro duce
chinossi,
e per far pruova se con essa
lanciando
lo fermasse almen da lunge,
poi
ch'appressar correndo nol potea.
Allor per téma in sé Turno confuso:
«Abbi,
Fauno, di me cura e pietate, -
disse,
pregando, - e tu, benigna terra,
sii
del suo ferro a mio scampo tenace,
se
i vostri sacrifici e i vostri onori
io
mai sempre curai, che pur da' Frigi
son
cosí vilipesi e profanati».
Ciò disse, e non fu 'l detto e 'l vóto
in vano:
ch'Enea
molta fatica e molto indugio
mise
intorno al suo tèlo, né con forza,
né
con industria alcuna ebbe possanza
mai
di sferrarlo. Or mentre vi s'affanna
e
vi studia e vi suda, ecco Iuturna
un'altra
volta ne lo stesso auriga
mutata
gli si mostra, e la sua spada
al
fratello appresenta. E d'altra parte
Venere,
disdegnando che la ninfa
cotanto
osasse, incontinente anch'ella
accorse
al figlio, e l'asta gli divelse.
Cosí
d'arme, di speme e d'ardimento
ambidue
rinforzati, e l'un del brando,
l'altro
de l'asta altero, un'altra volta
a
vittoria anelando s'azzuffaro.
Stava
Giuno a mirar questa battaglia
sovr'un
nembo dorato, allor che Giove
cosí
le disse: «E che faremo alfine,
donna?
E che far ci resta? Io so che sai,
e
tu l'affermi, che da' fati Enea
si
deve al cielo, e che tra noi s'aspetta.
Ch'agogni
piú? Che macchini, e che speri?
A
che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol
ti sembra e degna cosa
che
mortal ferro a vïolar presuma
un
che fia Divo? E ti par degno e giusto
ch'a
Turno in man la spada si riponga
quando
egli stesso la si tolse e ruppe?
E
l'avria senza te Iuturna osato,
non
che potuto, a crescer forza ai vinti?
Togliti
giú da questa impresa omai,
togliti;
e me, che te ne prego, ascolta:
né
soffrir che 'l dolor, ch'entro ti rode,
cangiando
il dolce tuo sereno aspetto,
sí
ti conturbi, e sí spesso cagione
mi
sia d'amaritudine e di noia.
Quest'è
l'ultima fine. Assai per mare,
assai
per terra hai tu fin qui potuto
a
vessare i Troiani, a muover guerra
cosí
nefanda, a scompigliar la casa
del
re Latino, e 'ntorbidar le nozze,
sí
come hai fatto. Or piú tentar non lece;
ed
io tel vieto». E qui Giove si tacque.
Abbassò 'l volto, ed umilmente a lui
cosí
Giuno rispose: «Io, perché noto
m'è,
signor mio, questo tuo gran volere,
ancor
contra mia voglia abbandonata
ho
l'aíta di Turno, e qui da terra
mi
son levata. Che se ciò non fosse,
me
cosí solitaria non vedresti,
com'or
mi vedi, in queste nubi ascosa,
e
disposta a soffrir tutto ch'io soffro
degno
e non degno; ma di fiamme cinta
mi
rimescolerei per la battaglia
a
danno de' Troiani. Io, solo in questo,
tel
confesso, a Iuturna ho persüaso
ch'al
suo misero frate in sí grand'uopo
non
manchi di soccorso, e ch'ogni cosa
tenti
per la salute e per lo scampo
de
la sua vita. E non però le dissi
giammai
che l'arco e le saette oprasse
incontr'Enea.
Tel giuro per la fonte
di
Stige, quel ch'a noi celesti numi
solo
è nume implacabile e tremendo.
Ora
per obbedirti e perché stanca
di
questa guerra e fastidita io sono,
cedo
e piú non contendo. E sol di questo
desio
che mi compiaccia (e questo al fato
non
è soggetto), che per mio contento,
per
onor de' Latini, per grandezza
e
maestà de' tuoi, quando la pace,
l'accordo
e 'l maritaggio fia conchiuso
(che
sia felicemente), il nome antico
di
Lazio e de le sue native genti,
l'abito
e la favella non si mute:
né
mai Teucri si chiamino e Troiani.
Sempre
Lazio sia Lazio, e sempre Albani
sian
d'Alba i regi, e la romana stirpe
d'italica
virtú possente e chiara.
Poiché
Troia perí, lascia che pèra
anco
il suo nome». A ciò Giove sorrise,
e
cosí le rispose: «Ah! sei pur nata
ancor
tu di Saturno, e mia sorella,
e
consenti che l'ira e l'acerbezza
cosí
ti vinca? Or, come follemente
la
concepisti, il cor te ne disgombra
omai
del tutto. E tutto io ti concedo
che
tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La
favella, il costume e 'l nome loro
ritengansi
gli Ausoni, e solo i corpi
abbian
con essi i Teucri uniti e misti.
D'ambedue
questi popoli i costumi,
i
riti, i sacrifici in uno accolti,
una
gente farò ch'ad una voce
Latini
si diranno. E quei che d'ambi
nasceran
poi, sovr'a l'umana gente,
si
vedran di possanza e di pietade
girne
a' celesti eguali; e non mai tanto
sarai
tu cólta e riverita altrove».
Di ciò Giuno appagossi, e lieta e mite
già
verso i Teucri, al ciel fece ritorno.
Giove
poscia Iuturna da l'aíta
distor
pensò di suo fratello, e 'l fece
in
questa guisa. Due le pèsti sono,
che
son Dire chiamate, al mondo uscite
con
Megera ad un parto, a lei sorelle,
figlie
a la Notte, e di Cocito alunne,
che
d'aspi han parimente irte le chiome,
e
di ventose bucce i dorsi alati.
Queste
di Giove al tribunale intorno,
e
de la sua gran reggia anzi la soglia
si
presentano allor che pena e pèsti
e
morti a noi mortali, e guerre a' luoghi
che
ne son meritevoli apparecchia.
Una
di loro a terra immantinente
spinse
il padre celeste, onde Iuturna
de
la fraterna morte augurio avesse.
Mosse la Dira, e di tempesta in guisa
ch'impetüosamente
trascorresse,
volò
come saetta che da Parto,
e
da Cidone avvelenata uscisse,
e,
non vista, ronzando e l'ombre aprendo,
ferita
immedicabile portasse.
Giunta
là 've di Turno e de' Troiani
vide
le schiere, in forma si ristrinse
subitamente
di minore augello,
ed
in quel si cangiò che da' sepolcri
e
dagli antichi e solitari alberghi
funesto
canta, e sol di notte vola.
Tal divenuta, a Turno s'appresenta,
gli
ulula, gli svolazza, gli s'aggira
molte
volte d'intorno; e fin con l'ali
lo
scudo gli percuote, e gli fa vento.
Stupí, si raggricciò, muto divenne
Turno
per la paura. E la sorella,
tosto
che lo stridor sentinne e l'ali,
le
chiome si stracciò, graffiossi il volto,
e
con le pugna il petto si percosse:
«Or
che - dicendo - omai, Turno, piú puote
per
te la tua germana? E che piú resta
a
far per lo tuo scampo, o per l'indugio
de la tua morte? E come a cotal mostro
oppor
mi posso io piú? Già già mi tolgo
di
qui lontano. A che piú spaventarmi?
Assai
di téma, sventurato augello,
nel
tuo venir mi désti. E ben conosco
a
i segni del tuo canto e del tuo volo
quel
che m'apporti. E non punto m'inganna
il
severo precetto del Tonante.
E
perché vita mi concesse eterna?
Perché
'l morir mi tolse? Acciò morendo
non
finisse il mio duolo? Acciò compagna
gir
non potessi al misero fratello?
Immortal
io? Che valmi? E che mi puote
ne
l'immortalità parer soave
senza
il mio Turno? Or qual mi s'apre terra
che
seco mi riceva e mi rinchiugga
tra
l'ombre inferne; e non piú ninfa e dea
ma
sia mortale e morta?» E cosí detto,
grama
e dolente, di ceruleo ammanto
il
capo si coverse. Indi correndo
nel
suo fiume gittossi, ove s'immerse
infino
al fondo, e ne mandò gemendo
in
vece di sospir gorgogli a l'aura.
Intanto il suo gran tèlo Enea vibrando
col
nimico s'azzuffa, e fieramente
lo
rampogna, e gli dice: «Or qual piú, Turno,
farai
tu mora, o sotterfugio, o schermo?
Con
l'armi, con le man, Turno, e da presso,
non
co' piè si combatte e di lontano.
Ma
fuggi pur, dileguati, trasmutati,
unisci
le tue forze e 'l tuo valore,
vola
per l'aria, appiattati sotterra,
quanto
puoi t'argomenta e quanto sai,
che
pur giunto vi sei». Turno, squassando
il
capo: «Ah! - gli rispose - che per fiero
che
mi ti mostri, io de la tua fierezza,
orgoglioso
campion, punto non temo,
né
di te: degli dèi temo, e di Giove,
che
nimici mi sono e meco irati».
Nulla piú disse; ma rivolto, appresso
si
vide un sasso, un sasso antico e grande
ch'ivi
a sorte per limite era posto
a
spartir campi e tôr lite a' vicini.
Era
sí smisurato e di tal peso,
che
dodici di quei ch'oggi produce
il
secol nostro, e de' piú forti ancora,
non
l'avrebbon di terra alzato a pena.
Turno
diegli di piglio, e con esso alto
correndo
se ne gia verso il nimico,
senza
veder né come indi il togliesse,
né
come lo levasse, né se gisse,
né
se corresse. Disnervate e fiacche
gli
vacillâr le gambe, e freddo e stretto
gli
si fe' 'l sangue. Il sasso andò per l'aura
sí
che 'l colpo non giunse, e non percosse.
Come di notte, allor che 'l sonno chiude
i
languid'occhi a l'affannata gente,
ne
sembra alcuna volta essere al corso
ardenti
in prima, e poi freddi in su 'l mezzo,
manchiam
di lena sí ch'i piè, la lingua,
la
voce, ogni potenza ne si toglie
quasi
in un tempo: cosí Turno invano
tutte
del suo valor le forze oprava
da
la Dira impedito. Allora in dubbio
fu
di se stesso, e molti per la mente
gli
andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse
gli occhi a' suoi Rutuli, e le mura
mirò
de la città: poscia sospeso
fermossi,
e pauroso; sopra il tèlo
vistosi
del gran Teucro, orror ne prese,
non
piú sapendo o dove per suo scampo
si
ricovrasse, o quel che per suo schermo,
o
per l'offesa del nimico oprasse.
Mentre cosí confuso e forsennato
si
sta, la fatal asta Enea vibrando,
apposta
ove colpisca, e con la forza
del
corpo tutto gli l'avventa e fère.
Macchina
con tant'impeto non pinse
mai
sasso, e mai non fu squarciata nube
che
sí tonasse. Andò di turbo in guisa
stridendo,
e con la morte in su la punta
furïosa
passò di sette doppi
lo
rinforzato scudo; e la corazza
aprendo,
ne la coscia gli s'infisse.
Diè
del ginocchio a questo colpo in terra
Turno
ferito. I Rutuli gridaro:
e
tal surse fra lor tumulto e pianto,
che
'l monte tutto e le foreste intorno
ne
rintonaro. Allor gli occhi e la destra
alzando
in atto umilmente rimesso,
e
supplicante: «Io - disse - ho meritato
questa
fortuna; e tu segui la tua;
ché
né vita, né vènia ti dimando.
Ma
se pietà de' padri il cor ti tange
(ché
ancor tu padre avesti, e padre sei),
del
mio vecchio parente or ti sovvenga.
E
se morto mi vuoi, morto ch'io sia,
rendi
il mio corpo a' miei. Tu vincitore,
ed
io son vinto. E già gli Ausoni tutti
mi
ti veggiono a' piè, che supplicando
mercé
ti chieggio. E già Lavinia è tua;
a
che piú contra un morto odio e tenzone?»
Enea ferocemente altero e torvo
stette
ne l'arme, e vòlti gli occhi a torno,
frenò
la destra; e con l'indugio ognora
piú
mite, al suo pregar si raddolciva;
quando
di cima all'omero il fermaglio
del
cinto infortunato di Pallante
negli
occhi gli rifulse. E ben conobbe
a
le note sue bolle esser quel desso,
di
che Turno quel dí l'avea spogliato,
che
gli diè morte; e che per vanto poscia
come
nimica e glorïosa spoglia
lo
portò sempre al petto attraversato.
Tosto
che 'l vide, amara rimembranza
gli
fu di quel ch'ei n'ebbe affanno e doglia;
e
d'ira e di furore il petto acceso,
e
terribile il volto: «Ah! - disse - adunque
tu
de le spoglie d'un mio tanto amico
adorno,
oggi di man presumi uscirmi,
sí
che non muoia? Muori; e questo colpo
ti
dà Pallante, e da Pallante il prendi.
A
lui, per mia vendetta e per sua vittima,
te,
la tua pena, e 'l tuo sangue consacro».
E,
ciò dicendo, il petto gli trafisse.
Allor
da mortal gelo il corpo appreso
abbandonossi;
e l'anima di vita
sdegnosamente
sospirando uscio.
-
Fine -