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Pietro Verri
Storia di
Milano
INDICE
Capitolo I Antichità di Milano sino alla devastazione di
Attila, seguìta nell'anno 452
Capitolo II Della rovina di Milano sotto i Barbari nel quinto e sesto
secolo; e dello stato della città ne' secoli successivi, sino al di lei
risorgimento
Capitolo III Principii del risorgimento
di Milano nel secolo decimo
Capitolo IV. Continuazione del
risorgimento di Milano, che torna ad essere la più importante città della Lombardia nel
secolo undicesimo
Capitolo V Dissensioni civili pel cambiamento della disciplina
ecclesiastica dopo la metà del secolo XI
Capitolo VI Della nascente
repubblica di Milano sino all'imperatore Federico I
Capitolo VII Della rovina di Milano sotto l'imperatore Federico I
Capitolo VIII Umiliazione
dell'Imperatore Federico, e stabilimento d'un sistema politico
Capitolo IX. Stato della
repubblica di Milano, e sua costituzione incerta dalla morte di Federico I sino
alla metà del secolo XIII
Capitolo X Della signoria de' Torriani; e principii della grandezza
della casa Visconti, sino al cominciamento del secolo XIV
Capitolo XI Di Matteo I, di
Galeazzo I, e d'Azzone Visconti, signori di Milano.
Capitolo XII Di Luchino, di Giovanni arcivescovo, e dello stato della
città sino verso la metà del secolo XIV
Capitolo XIV. Del conte di
Virtù, e della erezione del ducato di Milano
Capitolo XV. Del duca Giovanni Maria, e del terzo ed ultimo duca
Visconti, Filippo Maria
Capitolo XVI Repubblica di
Milano, che termina colla dedizione a Francesco Sforza.
Capitolo XVII Francesco I Sforza, duca di Milano.
Capitolo XVIII Del governo del
quinto duca Galeazzo Maria Sforza, e della minorità del duca Giovanni
Galeazzo Maria, sesto duca
Capitolo XIX. Di Lodovico il Moro,
settimo duca di Milano, e della venuta del re di Francia Lodovico XII
Capitolo XX. Breve ritorno del duca Sforza, fatto prigioniere; e
governo del re di Francia Lodovico XII, fino alla lega di Cambrai
Capitolo XXI Lodovico XII, re di
Francia, perde il Milanese, ove è riconosciuto Massimiliano Sforza,
ottavo duca
Capitolo XXII Di Francesco I re di Francia, e suo governo nel ducato di
Milano
Capitolo XXIII Vicende infelici de'
Francesi. Francesco II Sforza, riconosciuto duca di Milano. Venuta in Italia di
Francesco I re di Francia, ed assedio di Pavia.
Continuazione di Pietro Custodi
§ I. - Della storia del conte Verri
§ II. - Giudizi della detta storia
§ III. - Continuazione del canonico
Frisi
§ IV. - Del mio lavoro PIETRO CUSTODI
Capitolo XXIV. Battaglia di Pavia.
Capitolo XXV. Francesco II Sforza bloccato nel castello di Milano. Sollevazioni e stato miserabile de' Milanesi.
Capitolo XXVI Congresso in Bologna
per la pace. Incoronazione di Carlo V.
Capitolo XXVII Tentativi e progetti per la successione nel ducato di
Milano.
Capitolo XXVIII Il principe don
Filippo investito del ducato di Milano. Morte di Francesco I. Entrata in Milano del nuovo duca. Nuova guerra in Italia.
Tregua di Cambrai. Abdicazione e morte di Carlo V
Capitolo XXIX. Pace tra la Spagna e
la Francia. Il cardinale Carlo Borromeo arcivescovo di Milano. Contese di giurisdizione tra esso e i governatori regii.
Soppressione dell'ordine degli Umiliati. Morte di Filippo Il re di Spagna. Venuta in Milano di
Margherita d'Austria, sposa del re Filippo III
Capitolo XXX. Governo del conte di Fuentes e de' suoi successori. Morte
del re di Spagna Filippo III. Fondazioni pubbliche, reggendo l'arcivescovado di Milano
il cardinale Federico Borromeo. Progresso delle controversie giurisdizionali. Peste del
1630
Capitolo XXXI Successione di
governatori. Guerre nel Piemonte, nella Valtellina e in Lombardia. Morte del re
Filippo IV. Governo del duca di Ossuna. Morte del re Carlo II. Sacre
e pie fondazioni, e morti di persone distinte.
Capitolo XXXII Cause della guerra detta di Successione. Guerra in
Italia. Morte dell'imperatore Leopoldo I, cui succedè il figlio Giuseppe
I. Liberazione di Torino. Il principe Eugenio di Savoia governatore di Milano,
conquistato dagl'Imperiali. Carlo VI imperatore. Nuova guerra d'Italia. Pace di
Vienna
Capitolo XXXIII Morte
dell'imperatore Carlo VI, al quale succede negli Stati ereditari la primogenita
Maria Teresa. Altra guerra in Italia, ch'ebbe fine colla pace in
Acquisgrana. Condizione e governo della Lombardia. Giuseppe II imperatore; sue riforme. Breve regno e morte
di Leopoldo II.
Abbiamo un buon numero di scrittori
della storia e della erudizione patria; eppure pochi sono i Milanesi, anche
scegliendo gli uomini colti, i quali abbiano un'idea della storia del loro
paese. Questa generale oscurità ci dispiace, e tavolta ancor ci pregiudica;
ma gli ostacoli che dovremo superare per acquistare la notizia, sono tanti e
sì difficili, che, affrontati appena, ci sgomentano; e, trattine alcuni
pochi eruditi per mestiere, i quali si appiattano a vivere fra i codici e le
pergamene, non vi è chi ardisca di vincerli. Il Calchi, l'Alciati, il
Corio han qualche nome. Sono preziosi monumenti de' secoli barbari gli scritti
di Arnolfo, dei due Landolfi, di sire Raul, di Bonvicino da Ripa, del Fiamma,
di Giovanni da Cermenate, di Bonincontro Morigia e di Pietro Azario. Abbiamo le
Memorie di Andrea Biglia, di Giovanni Simonetta, di Donato Bossi, del Merula,
del Bugatti, di Bonaventura Castiglioni, di Gianantonio Castiglioni, del
Puricelli, del Bescapè, del Ripamonti, di Francesco Castelli, del
Benaglia, di Paolo Morigia, del Besozzi, del conte Gualdo Priorato, del
Somaglia, del Torri, del Besta, di Andrea de Prato e di altri, i quali, o hanno
scritta la storia dell'età loro in Milano, ovvero hanno illustrato il
sistema politico del nostro governo, o in altro modo hanno lasciato memorie
dello stato della città al loro tempo. Negli anni a noi più
vicini il Grazioli, il Lattuada, il Sormani molto hanno travagliato per porre
in chiaro le cose della nostra città. Una singolar menzione d'onore merita
da ogni buon cittadino, e da me particolarmente, il signor conte Giorgio
Giulini, uomo che ha consacrata e logorata la sua vita, per dar luce ai sei
più tenebrosi secoli della nostra istoria, con una ostinata fatica di
molti anni, e tale, che, superando le sue forze fisiche, lo ha ridotto a
languire più mesi, indi a terminare i suoi giorni. Chiunque
prenderà nelle mani la voluminosa opera di quel benemerito cavaliere,
non potrà giudicarne con equità, se prima non distingua
l'antiquario dallo storico; il primo cerca di sviluppare la verità di
tutti gli antichi fatti, e non ne omette alcuno quand'abbia soltanto la
probabilità che debba un giorno servire anche a una privata famiglia, e
dispone in ordine un vastissimo magazzino di memorie; il secondo trasceglie dalla
serie dei fatti antichi i soli importanti e caratteristici, li collega, e
presenta quindi al lettore un seguito di pitture, atte a stamparsi facilmente
nella memoria, dilettevoli ed utili a contemplarsi. Il conte Giulini non ha
pensato mai di pubblicare la storia di Milano: egli ha pubblicato tutte le
memorie opportune a servire alla storia, alle private e pubbliche ragioni, alla
curiosa erudizione generalmente; ed io credo che l'antica stima ch'ebbi per
lui, per la bontà del suo carattere, non mi seduca punto se dico che in
quell'opera si ammira la sagacità e la giustezza della sua mente
nell'esatta sua critica; la quale se talvolta sembra venir meno, ciò
è di raro, e se ne vede facilmente
Posso assicurare i miei lettori che
niente ho asserito prima di esaminare, e niente ho scritto che non mi paia
vero. Ho rappresentati gli oggetti quali gli ho veduti. Non sempre in
ciò sono d'accordo co' nostri autori: ciascuno ha i propri principii e
un modo suo proprio di sentire; e per essere di buona fede, non debbo
inquietarmi se non sono dell'opinione comune. Molte idee nuove ed opposte a
quanto, ripetendo, hanno scritto finora i nostri eruditi, si troveranno in
quest'opera, sull'antichità, sui diversi Stati, e intorno alcuni
supposti privilegi di Milano. Molti de' principi che hanno signoreggiato sulla
nostra patria, si vedranno rappresentati da me con colori diversi dagli usati
sinora; perché, combinando i fatti, ho cercato di cavare da essi le opinioni,
anziché trascrivere i giudizi già pronunziati. Non rispondo che in
un'opera vasta per se medesima non mi possa esser corso qualche errore di fatto;
e quale è mai l'opera dell'uomo che sia sicura di non averne! Rispondo
bensì che ho fatto quanto era possibile alla mia diligenza per non
lasciarvene. Chi vorrà essere minutamente istrutto delle
antichità milanesi, non potrà certamente divenirlo colla sola lettura
di questo libro; ma, dopo di esso, converrà che ricorra agli autori
originali, e con essi si addomestichi: ma per le persone che cercano soltanto
sgombrare le tenebre, ed acquistare una conveniente istruzione delle cose della
patria, questo libro può bastare, e per essi veramente ho travagliato.
Il linguaggio della storia è
quello della verità: sacra, augusta verità, nemica di quella
cinica invidiosa maldicenza che cerca di trovare la malignità nella
debolezza: nemica della licenza, turbolenta, declamatrice, che, incautamente
affrontando ogni opinione, tenta di svellerla, per ambizione di nuove dottrine,
a cui sacrifica il proprio e l'altrui ben essere: verità, donna e
signora delle menti assennate, che placidamente si annunzia e porta gradatamente
la face dell'evidenza, senza offendere gli occhi con passaggero balenare d'una
efimera luce. Questa amabile e virtuosa verità, darà l'anima al
mio stile; e due sentimenti son certo che i giudiziosi miei lettori vi
troveranno costantemente, amore del vero, ed amore della patria. Avrei
tralasciato di porre il mio nome a quest'opera, se i fatti si potessero credere
ad un incognito, come si possono esaminare i ragionamenti senza bisogno di
sapere chi gli abbia tenuti. Ho rappresentato lo stato de' nostri maggiori,
senza fiele e senza adulazione. Ho rispettato la patria e i miei lettori, e non
presento loro favole illustri. Ho imparzialmente dipinte la grandezza e la
depressione; la oscurità e la gloria; il vizio e la virtù, quali
mi sono presentati nella successione de' tempi. Destiamoci ora noi per
trasmettere ai posteri, costumi ed azioni che la storia possa narrar con
piacere, senza bisogno di alcun ornamento.
L'origine di una città antica si
perde comunemente nella oscurità de' tempi favolosi, e ascende sino a
que' rimoti secoli dai quali a noi non è trapassato monumento alcuno, e
perciò debbono considerarsi come secoli isolati e inaccessibili alla
nostra curiosità. Tale si è la fondazione della città di
Milano, di cui Plinio, Giustino e Livio fanno menzione, con autorità
però sempre dubbia; perché trattasi di un avvenimento accaduto
più secoli prima che questi autori scrivessero, e presso di un popolo
che probabilmente ignorava persino l'arte della scrittura con cui passare a'
posteri la notizia de' fatti. Conviene però queste opinioni conoscerle,
e brevemente esaminarle, per separare dalla massa delle tradizioni quella
porzione che sia più credibile.
Gli scrittori latini concordemente
fanno discendere gli abitatori dell'Insubria dai Galli, che, superate le Alpi,
si collocarono in questa pianura; e perciò quella che oggidì
chiamasi Lombardia, dai Romani ebbe il nome di Gallia
Cisalpina. Questa generale opinion degli antichi viene confermata ancora al
dì d'oggi dalla pronuncia del dialetto popolare. La stessa lingua
italiana presso gli abitanti di qua dalle Alpi, da Genova a Brescia, e da
Torino a Piacenza, viene pronunciata con vocali ed accenti affatto forestieri
all'Italia, per modo che, chiunque sia avvezzo al parlare di Napoli, di Roma,
della Toscana o d'altra parte d'Italia, giudicherà piuttosto Francesi,
che Italiani i Lombardi che parlano il loro dialetto; il che rende verosimile
l'origine più sopra accennata. Dico l'origine, perché se bastasse un
lungo soggiorno a lasciare una così durevole diversità, noi
dovremmo avere assai più parole ed accenti teutonici che non abbiamo,
sebbene la lunga dominazione de' Longobardi e l'invasione loro sia accaduta in
secoli a noi più vicini.
Tito Livio ci narra che Milano sia
stata fondata da Belloveso, duce dei Galli, i quali colle armi scacciarono i
Toscani, che prima avevano quivi collocate le loro sedi. Galli... fusis acie
Tuscis, haud procul Ticino flumine: quum, in quo consederant, agrum Insubrium
appellari audissent, cognomine Insubribus, pago Heduorum, ibi omen sequentes
loci, condidere urbem, Mediolanum appellarunt.[1]
Il saggio autore però dapprincipio dice ch'ei riferiva sulla
rimota venuta de' Galli quanto gli era stato narrato: De transitu in Italiam
Gallorum haec accepimus;[2]
e poco sopra, parlando di questa venuta, dice: Eam gentem traditur...
alpes transisse[3].
Trattasi di un avvenimento che viene collocato nella 45 Olimpiade, vivendo
Tarquinio Prisco, cioè seicento anni prima dell'èra volgare. Non
abbiamo nel nostro paese monumento che ci assicuri essere vissuta alcuna
nazione colta entro di esso prima d'Augusto. Negli scavi che sinora si sono
fatti sotto Milano e la adiacente campagna non si è trovata statua
alcuna, scultura, iscrizione o lavoro qualunque di metallo o di creta, che in
qualsivoglia guisa ci dia indizio che prima dell'èra volgare gli
abitanti dell'Insubria conoscessero le arti. Non abbiamo libro alcuno scritto
in Italia, di cui l'autore non sia vissuto più secoli dopo l'epoca in
cui si dice fondata la città nostra. Livio stesso non indica di aver
conosciuto carte, iscrizioni, monete o altri documenti che siano giunti intatti
alle sue mani, anzi nulla più dice, che haec accepimus, ovvero
traditur; l'asserzione perciò di Livio tutt'al più ci
farà credere che l'opinione de' Galli Cisalpini, mentr'ei scriveva,
fosse che la città di Milano avesse per fondatore certo antico
Belloveso, e che tale opinione dai rozzi ed agresti loro antenati, per molte
generazioni, fosse discesa alla generazione allora vivente.
Si può dunque ragionevolmente
dubitare se Belloveso sia stato il fondatore di Milano: si può anche
ragionevolmente dubitare se Milano abbia avuto un fondatore, cioè un
capitano, un principe il quale, avendo il disegno di creare una città,
abbia collocato una popolazione nel sito ove sta Milano. La ragione di questa
dubitazione nasce dall'osservare che le città quasi tutte, e nella
Lombardia e nell'Italia, sono collocate alle rive d'un lago, alle sponde d'un
fiume, al lido del mare; e i luoghi muniti e forti si sono piantati anche
lontani dall'acqua, ma in siti elevati e di accesso difficile. Milano non ha
alcuno di questi vantaggi. Chiunque avesse avuto pensiero di fabbricare una
nuova città su di questa pianura, doveva essere invitato a disegnarla
poche miglia lontano, alle sponde del Tesino, ovvero dell'Adda, oppure anche
del Lambro: l'acqua è tanto necessaria agli usi comuni, e la navigazione
è tanto opportuna per trasportare ogni genere, che si dovettero scavare
artificialmente de' canali secent'anni sono, per rendere comuni anche a Milano
questi comodi; il che si sarebbe certamente risparmiato qualora il sito fosse
stato trascelto con determinazione di piantarvi una città. Milano mi
sembra formata per una serie di circostanze senza un fondatore, e mi pare che,
dalla condizione d'un povero villaggio, gradatamente ampliatasi, diventasse
insensibilmente una città, senza che uomo alcuno avesse concepita l'idea
dapprincipio di farla tale. Alcune misere capanne di agricoltori probabilmente
avranno composta la prima riduzione; la fecondità della terra, la
moltiplicazione degli abitanti avranno dato luogo a formarvi un villaggio per
domiciliare il contadino vicino al suo campo, e così la fertilità
della terra avrà dato motivo di sempre più ampliare la
popolazione, che nel corso de' secoli giunse poi a formarne una città;
in quella guisa appunto che vediamo qualche albero, fortuitamente trasportato
dalla corrente di un fiume, arrestarsi laddove co' rami urti nel fondo, e
servire indi a trattenere le ghiaie e le piante che successivamente il fiume
trasporta, e così formarsi un'isola coll'andare degli anni, su di cui
gli uomini vi piantano poi la loro dimora. Tale almeno sembra la più
verosimile opinione, anzi che persuaderci che siasi formato un disegno di
piantare una città lontana dall'acqua, costretta a scavare de' pozzi per
bere, e a trasportare tutto per terra. La ragione medesima per cui dubitiamo
della fondazione attribuita a Belloveso, ci rende sospetto il racconto di certo
famoso capitano, che aveva nome Medo, a cui si attribuisce la prima
pianta della città, accresciuta poi di molto da certo altro famoso
capitano, per nome Olano, dalla unione de' quali nomi se ne pretende
formato Mediolanum: sono opinioni senza alcuna prova, le quali sgorgano
dai tempi oscuri, e perciò le accenno al solo fine di non lasciar
ignorare quello che si è più volte ripetuto da chi ha scritto la
storia del nostro paese.
La costruzione fisica della Lombardia
sembra che possa darci de' sospetti verisimili sullo stato antico della
medesima. Le Alpi contornano questa pianura dalla parte settentrionale, e gli
Appennini dal ponente e dal mezzogiorno
Mutinensis urbis solum, nimia acquarum
insolentia enormiter occupatum, rivis circumfluentibus, et stagnis ex paludibus
excrescentibus, incolis quoque aufugentibus noscitur esse desertum. Unde usque
hodie multimoda lapidum monstratur congeries, saxa quoque ingentia, praecelsis
quondam aedificiis aptissima, acquarum crebra, ut diximus, inundatione
submersa.[7] Se dunque
è vero che la costruzione fisica della Lombardia la conduca allo stato
di una palude, da cui, per opera degli uomini, venga ridotta allo stato di
coltura e di abitazione; se è vero che, dovunque cessi la attenzione degli
uomini per la difesa, ivi le acque ripigliano il loro sito coprendo la terra;
sarà anche assai verosimile il dire che ne' tempi antichissimi questa
pianura fosse un vasto lago o un aggregato di paludi; che i Galli, collocatisi
sulle colline, gradatamente abbiano cercato di aprire lo scolo alle acque
stagnanti, e così riporsi ad abitare sopra di una terra più
feconda. Questa opinione corrisponde all'antica tradizione, che il luogo
eminente di Castel Seprio, distrutto poi l'anno 1287, come vedremo, fosse una
delle prime sedi degli Insubri; questo pure corrisponde a quanto scrissero
Erodiano, Vitruvio e Strabone[8],
descrivendoci il piano della Insubria tutto coperto di paludi; e a questa
opinione corrisponde l'antica memoria d'un lago Gerundio ne' contorni di
Cassano, ove oggidì quella parte bassa è tutta abitata; e la
memoria dell'isola di Fulcherio ne' contorni di Crema, di cui trattano le carte
de' secoli bassi, sebbene al giorno d'oggi non sianvi in quel distretto paludi
che formino isola alcuna. I documenti più sicuri dell'antichità
sono i fisici. La curiosità nostra vorrebbe sapere come e perché i
Galli, uscendo dalla loro patria, sieno venuti, arrampicandosi sopra difficili
montagne, a stabilirsi in questo clima, abitato forse da pochissimi pescatori;
ma la confessione della nostra ignoranza è assai più nobile che
non lo sarebbero i sogni d'una immaginazione romanzesca. La storia è
piena di emigrazioni di popoli interi; la fuga da qualche disastro fisico, inondazione,
terremoto, ecc.; la violenza d'una barbara nazione che sforza a sloggiare e
cercarsi nuova sede; l'ambizione di conquiste; l'avidità di godere una
vita più agiata; il fanatismo, queste sono le cagioni per le quali de'
popoli interi cambiarono patria. Le colonie greche popolarono la Francia e
l'Italia; le romane, la Ungheria ed altri regni; le spagnuole, le inglesi ecc.,
l'America. Al tempo delle crociate l'Europa tentò di invadere l'Asia,
come in prima l'Arabia si stese sull'Africa e sull'Asia. Vediamo gli avanzi di
tali invasioni anche al dì d'oggi. Gl'Inglesi parlano la lingua nata dal
Sassone, mentre nel centro dell'isola si parla la lingua antica britanna, la
quale nessuna connessione ha coll'altra, che essi chiamano lingua sassone. Nella
Germania, in molte province, i contadini parlano l'illirico, mentre nelle
città la lingua naturale è
Della etimologia di Milano vi sono pure
varie opinioni; oltre quella accennata dei due capitani Medo ed Olano,
v'è chi la deriva dal Tedesco Mayland (così chiamasi
Milano in Germania), e questa voce significa paese di maggio, paese di
primavera; denominazione che veramente conviene poco ad una provincia in cui
gli aranci non reggono scoperti, e in cui ne' sei mesi dell'anno che cominciano
in novembre e terminano al fine d'aprile, l'altezza media del termometro
è al disotto del temperato, e dove in quella metà dell'anno la
terra è soggetta al gelo ed alle nevi. La più comune sentenza fa
nascere
ad moenia Gallis
Condita, lanigerae suis ostentantia
pellem.[9]
Della opinione medesima si
mostrò Sidonio Apollinare, il quale, annoverando le città
più illustri, così volle indicarci Milano.
Et quae lanigero de sue nomen habet.[10]
Altri furono di parere che altre
città della Gallia e d'Albione si chiamassero con tal nome, e che i
Galli perciò chiamassero Milano la città da essi fabbricata:
opinioni tutte arbitrarie, incerte e di una infruttuosa discussione; perché i
nomi s'inventarono prima che s'inventasse la scrittura, e la storia non ha
principio se non dopo ritrovata la scrittura.
Il più antico fatto da cui
può cominciare la storia di Milano, ascende all'anno di Roma 533,
cioè appunto duemille anni fa, scrivendo io nel 1779. I consoli Cnejo
Cornelio Scipione e Marco Marcello conquistarono l'Insubria, e portarono sino a
Milano la dominazione di Roma, l'anno 221 prima dell'èra volgare. Vorrei
pure sapere a quale stato di coltura fossero giunti i nostri Insubri; quale
fosse il loro governo civile; se conoscessero l'arte dello scrivere; se
avessero monete; qual religione e qual linguaggio fossero naturali a quei
popoli; se coltivassero i campi; qual forma presentasse la fisica in questo
tratto di paese: ma di ciò poco o nulla ci è possibile il
saperne. Plutarco ci attesta che allora Milano era una città molto
popolata: urbem Galliae maximam et frequentissimam, Mediolanum
vocant. Hanc Galli Cisalpini pro capite habent[11];
ma Plutarco scrisse due secoli e più dopo Marcello e Scipione. Polibio
ci assicura che Marco e Cornelio, consoli, guerreggiando contro de' Galli
Insubri Mediolanum, praecipuam Insubrum civitatem, petierunt; Cornelius,
urbe, quae et frumento et omni genere commeatus refertissima erat, potitus,
Gallos persequitur[12].
È verisimile assai che Marco Marcello, dopo conquistata Milano, abbia
eretta la famosa torre di marmi quadrati, la quale, coll'andare de' secoli, si
chiamò poscia l'Arco Romano. Di sì fatti edifici i Romani ne
innalzarono anche altrove, o in memoria delle conquiste fatte, ovvero per
dominare la città vinta, e dalla sommità della torre potere
all'occasione vedere e nuocere. È tanto celebre presso degli storici
nostri quest'Arco Romano, che conviene per qualche poco ragionarne.
Molte volte mi accadrà nel
decorso di quest'opera di nominare il signor conte Giorgio Giulini; egli da me
viene ora ricordato, perché tutto quello che dirò dell'Arco Romano, da
lui l'ho preso; e chi volesse vedere l'oggetto più distesamente, esamini
il tomo sesto della di lui Storia, dalla pag. 108 alla pag. 126. Egli
trovò che il Fiamma, il Puricelli, il Grazioli, il Sassi ci descrivono
quest'Arco Romano nella più ampollosa e strana foggia: un arco lungo
niente meno di due miglia; munito dai due lati di altissime mura; e nel mezzo
di questo lunghissimo fabbricato si descrive una torre da cui si dominava nulla
meno di tutta
Poco è quello che sappiamo della
città di Milano durante la repubblica di Roma; e poco è pure
quello che ne sappiamo durante i primi tre secoli dell'èra volgare. I
Romani, stesa che ebbero sulla Insubria la loro dominazione, piantaronvi delle
nuove città; tali furono Piacenza, Cremona e Lodi; le due prime furono
colonie, e con esse si resero padroni della navigazione del Po. Diedero moto
alle acque stagnanti, e fra essi Emilio Scauro si distinse; poi mentre Roma era
lacerata dalle fazioni, il senato, al tempo di Silla, accordò la cittadinanza
romana a tutti gli abitanti dell'Insubria, e dilatò i confini d'Italia,
che prima terminavano al Rubicone vicino a Rimini, portandoli fino all'Alpi; e
così divenimmo Italiani per adozione. Il dominio adunque di Roma non
distrusse le città dei vinti, ma ve ne edificò di nuove; rese il
clima più atto ad essere abitato, liberandolo dalle paludi; dallo stato
di barbarie c'innalzò a quello di una società civile; e perfine,
da sudditi che ci aveva resi la forza, la beneficenza romana ci fece liberi; e
membri d'una illustre Repubblica, fummo capaci delle magistrature di Roma.
Pompeo, Crasso, Cesare furono in Milano. Cenando quest'ultimo in Milano da
Fra gl'imperatori de' primi secoli,
Giulio Capitolino scrive che Publio Elvio Pertinace fosse nato nell'Insubria.
Elio Sparziano e varii altri ci assicurano che Giuliano Didio, che fu
proclamato imperatore l'anno 193, fosse milanese. Nel terzo secolo i popoli del
Settentrione cominciarono a discendere dalle Alpi e tentare d'invadere questa
parte d'Italia. Gli Alamanni, i Marcomanni comparvero e furon scacciati; e da
ciò ne venne la necessità che gli imperatori portassero la loro
ordinaria sede più vicina alle Alpi per vegliare più di presso
alla sicurezza d'Italia. L'Italia è circondata dal mare, e il solo canto
per cui è annessa all'Europa è per le Alpi, catena raddoppiata di
monti altissimi, per i quali pochi sono i luoghi ove aprirsi un passo; e tanto
ardua e pericolosa cosa fu sempre il tentare di penetrarvi con un esercito, che
s'inventarono de' favolosi aiuti per ispiegare il passaggio che vi fece
Annibale, quantunque gli abitatori dell'Alpi non fossero suoi nemici. Questa
costiera è un antemurale che nessuna estera nazione mai avrebbe ardito
nemmeno di affrontare, se opportunamente gl'Italiani avessero saputo
impadronirsi de' paesi, e custodire le alture che dominano sulle vie: e porre
gli invasori nella condizione di comprare con una battaglia vinta il potere di
avanzare pochi passi e disporsi a nuovo cimento, e ciò con una lunga
alternativa, che avrebbe annientato ogni esercito prima che uscisse da
quell'enorme labirinto di voragini e di gioghi. Sbarchi di estere genti per
mare non potevano allora temersi; perché non v'era alcuna nazione che avesse un
corredo marittimo capace di tentarlo; l'Italia, per godere dei vantaggi
d'un'isola, non ha che a rendersi forte ne' sbocchi delle Alpi; e così
fecero gl'imperatori verso la fine del terzo secolo, a ciò anche
doppiamente spinti dal pericoloso soggiorno di Roma, ove le fazioni,
annoiandosi della dominazione di un Augusto, prevenivano il naturale corso
degli avvenimenti, e trucidavanlo per collocare un successore sul trono del
mondo. Ne' contorni di Milano qualche tempo soggiornò Galieno. Aureolo
fu battuto ed ucciso verso Milano, e in memoria abbiamo un villaggio che dai
latini chiamossi Pons Aureoli, ora Pontirolo. Marc'Aurelio
Valerio Massimiano Erculeo è stato fra gl'imperatori quello al quale
più deve la città di Milano; perché fu probabilmente il primo che
collocò la sua sede in Milano, e fu quello che cinse di mura
Et Mediolani mira omnia: copia rerum;
Innumerae, cultaeque domus; facunda
Virorum
Ingenia; antiqui mores; tum duplice
muro
Amplificata loci species; populique
voluptas
Circus, et inclusi moles cuneata
theatri:
Templa, palatinaeque arces, opulensque Moneta,
Et regio Herculei celebris sub honore
lavacri,
Cunctaque marmoreis ornata peristyla
signis,
Moeniaque in valli formam circumdata
limbo;
Omniaque magnis, operum veluta emula, formis
Excellunt: nec juncta premit vicinia Romae.[23]
Convien bensì dire che nel
quarto secolo Milano fosse una magnifica città per la popolazione,
l'abbondanza, la coltura, la fortezza ed il lusso; ma qualche espressione
è da poeta. A un uomo che avea ammirato Roma, non potevano sembrare mira
omnia[24]
le cose di Milano. Noi non vediamo avanzo alcuno di que' tanti peristili di
marmo che ornavano
Gli amatori delle belle arti già
hanno osservato come presso de' Romani, dopo essere giunte alla somma
perfezione nel secolo che ebbe il nome di Augusto, declinarono poscia ed
invecchiarono da sé, prima che i barbari entrassero a rovinarle. L'Arco di
Severo, che vedesi in Roma, ci prova che nel terzo secolo l'architettura era
già diventata rozza e inelegante. Le medaglie, da Caracalla e Macrino in
poi, s'andarono sempre più degradando e diventando barbare. Al tempo poi
di Costantino, al principio del quarto secolo, abbiamo un documento della
totale decadenza della scoltura nell'Arco di Costantino, in cui si dovettero in
Roma istessa, a costo di tradire la verosimiglianza, inserire i bassi rilievi
tolti dall'Arco di Trajano; perché in Roma non v'era più un artista
capace di farvene; e veggonsi i Daci e la figura di Traiano incassati per
ornare un monumento de' trionfi di Costantino; e que' pochi ornati che si
dovettero allora aggiungere per riempire il vano sotto il grande arco, sono
lavori infelicissimi, peggiori di alcuni simili travagli gotici. Ciò
posto, la grandezza di Milano s'innalzò appunto nel tempo in cui tutte
le idee grandiose e nobili delle belle arti già svaporavano; e
perciò credo che, trattane la mole erculea, gli altri celebrati edifici
fossero minori della fama. Sarebbe fuori di proposito se io qui tornassi a
ripetere alcune mie idee, credo vere, e che ho pubblicate anni sono in un
discorso sull'indole del piacere e del dolore, ove sviluppai il principio
motore dell'uomo, che, a mio parere, è il solo dolore; ma siami permesso
di accennare che, frammezzo agli orrori delle guerre civili di Mario e Silla,
fra le atroci proscrizioni del triumvirato s'innalzarono i più valorosi
oratori, i più sublimi poeti, gli scrittori, architetti, scultori,
pittori più illustri; e che, sotto un seguito di regni di cinque
benèfici e grandi augusti, Nerva, Trajano, Adriano, Antonino e
Marc'Aurelio, regni preziosi alla virtù, alla umanità ed al
merito, le belle arti protette e pacifiche si esercitarono, perché onorate; ma
non s'innestarono ne' giovani che nacquero in quei tempi felicissimi, onde,
nella seguente generazione, scomparvero. Nel bell'Elogio del cavaliere
Isacco Newton, che il nostro cittadino signor abate Paolo Frisi ha stampato,
mostrasi come, fra le atroci rivoluzioni, al tempo del regicidio, sotto la
tirannia di Cromwell e di Fairfax, mentre l'Inghilterra era grondante del
proprio sangue, si svilupparono gl'ingegni sublimi che hanno resa gloriosa
quell'isola: e così dal seno de' dolori vengono a schiudersi que'
principii di attività, e l'animo viene a ricevere quell'energia e
quell'impeto che lo scagliano al disopra degli ostacoli, e lo costringono a
seguire ostinatamente una serie di idee per sottrarsi ai mali della comune
esistenza; laddove nel placido asilo d'una dolce protezione s'abbandona a
godere del momento presente. Con ciò viene a rendersi ragione d'un
avvenimento costantemente accaduto e nel secolo d'Alessandro e in quello
d'Augusto e nei successivi tempi; cioè, essersi riscossi gl'ingegni e
comparsi sul teatro del mondo gli uomini grandi ne' tempi ne' quali il genere
umano era più vilipeso e tormentato; essersi innalzate le scienze,
perfezionate le arti in mezzo alle calamità; e tutto essere svanito e
depravato colla felicità dei tempi. Raffaello, Michelagnolo, Tiziano,
Correggio dipingevano i loro lavori immortali prima che fosse instituita
l'accademia di San Luca; e nacquero e si resero eccellenti sotto piccoli
tiranni che reggevano i loro Stati colla morale pubblicata dal Segretario
Fiorentino. I loro talenti gli innalzarono a godere poi della sicurezza e degli
onori; ma la fatica, per diventar sommi artisti, l'affrontarono spintivi dai
mali. Pietro Cornelio e Racine sublimarono il teatro francese al maggior grado
di gloria senza aiuto, e vivendo fra i torbidi. Dacché venne eretta l'Accademia
Francese in Roma non si è innalzato alcuno al grado dei Le Sueur, Le
Brun, Poussin, nati, vissuti e resi grandi fra le turbolenze. Virginio aveva
quarant'anni quando seguì la battaglia d'Azio; Orazio era più
giovine di lui di cinque anni; Cicerone ebbe troncato il capo nella
proscrizione; in somma nessun uomo ha mai potuto diventare grande in nulla, se
non attraverso gli ostacoli, i quali avviliscono le anime deboli, e le robuste
attizzano, irritano e spingono al di sopra del livello comune, qualora vi sia
speranza di superarli; su di che bastantemente ho spiegata la mia opinione in
quel discorso. Milano adunque salì a grande fortuna ne' tempi ne' quali
l'architettura, insieme con tutte le belle arti, era già invecchiata e
giacente, e perciò anche ragion vuole che credansi esagerate le
magnificenze che gli scrittori nazionali ci hanno vantate. Un solo monumento ci
rimane dell'antico, e sono le sedici superbe colonne di ordine corintio
scannellate; pezzo di così nobile e grandiosa architettura, che sarebbe
pregevole ancora in Roma, collocato presso al Tempio della Pace o alle colonne
di Giove Statore. Le proporzioni sono del buon secolo, né io potrei crederle
mai innalzate al principio del quarto secolo, come finora si è scritto,
attribuendole a Massimiano Erculeo. Il chiarissimo nostro P. Pini, benemerito
della Metallurgia per l'opera De Venarum Metallicarum Excoctione[25],
e benemerito per le cognizioni sue nella storia naturale e
nell'architettura, crede che il marmo di quelle preziose colonne sia tratto
dall'antica cava di Oligiasca, terra del lago di Como, posta fra Bellano e
Piona. Si è opinato che questo fosse il fianco di un tempio, ovvero d'un
pubblico bagno dedicato ad Ercole. Egli è difficile il provarlo, ed
è difficile parimenti il confutarlo con ragioni positive. La sola cosa
che è vera, si è che questo maestoso avanzo è il solo che
ci sia rimasto; che sembra essere del secolo d'Augusto, o poco dopo, e che
meriterebbe d'essere nuovamente riparato dalla rovina che minaccia, per
trapassarlo a' posteri, come i nostri antenati fecero con noi, riparandolo nel
secolo XVI.
Nel quarto secolo molto dimorarono i
cesari in Milano; Massimiano Erculeo in Milano dimise la porpora l'anno 305.
Nello stesso giorno, 1° di maggio, fu in Milano dichiarato cesare Flavio
Valerio Severo. Costantino, Costanzo, Costante varie leggi scrissero in Milano,
registrate nel Codice Teodosiano; e Costantino, nell'anno
Sanno gli eruditi che Costantino,
temendo la troppo estesa potenza del prefetto del pretorio, potenza funesta a
molti imperatori, diede una nuova forma al governo dell'Impero; abolì il
prefetto del pretorio e divise le province, affidandone il governo a distinti
ufficiali. L'Italia allora in due parti venne divisa. La capitale della parte
meridionale fu Roma, e della settentrionale fu Milano. In Roma vi pose il vicario
di Roma, in Milano il vicario d'Italia. Il governo del
vicario di Roma si stendeva sopra dieci province, cioè la Campagna,
l'Etruria, l'Umbria, il Piceno suburbicario, la Sicilia, la Puglia e Calabria,
la Lucania e Bruzi, il Sannio, la Sardegna, la Corsica e
La dignità del vescovo di
Milano, che giustamente può in questi tempi de' quali tratto, chiamarsi
metropolitano bensì, ma non già arcivescovo, titolo
posteriormente introdotto, e che significa onorificenza più che
giurisdizione; la dignità, dico, del metropolitano ricevette sommo
risalto da sant'Ambrogio, uomo per la dottrina, per la pietà, per la
fermezza e per ogni sorta di virtù celebratissimo, e collocato
fra gli esimii dottori della Chiesa. Celebre è il coraggio nobile e
virtuoso col quale escluse dai sacri misteri l'Augusto Teodosio. Nella
Macedonia i popoli della città di Salonicco, allora Thessalonica,
tumultuarono contro alcuni imperiali ministri; Teodosio, spinto da una
feroce inconsideratezza, slanciò la licenza militare sulla infelicissima
città, ove vennero barbaramente scannati più di settemila
abitatori, donne, vecchi, fanciulli, innocenti o rei, senza distinzione; e le
pubbliche strade e le case vennero coperte di cadaveri, vittime di quest'atroce
crudeltà. Questi orrori vengono dalla storia registrati nell'anno 390.
Teodosio, in Milano, si preparava a comparire nella chiesa. Il santo vescovo,
da saggio, fece che giugnesse a notizia di quell'augusto, che non l'avrebbe
ammesso a partecipare de' sacri misteri, se prima non avesse espiato il suo
delitto con pubblico pentimento. Voleva lasciare il pregio della
spontaneità alla riparazione; ma il monarca, avvezzo a vedere tutto
piegarsi ai suoi voleri, pensò che la sola maestà di sua presenza
dovesse annientare ogni riguardo; s'incamminò per entrare nella chiesa,
ove, con passo grave, affacciossegli il santo vescovo, fermamente slanciandogli
queste parole: Uomo grondante ancora di sangue innocente, ardisci tu
con tal fronte portare la profanazione nel santuario, e collocare il delitto
impunito nel tempio del Dio della giustizia, della mansuetudine e della pace? La
voce del rimorso fece rimbombare nel cuore di quell'augusto la riprensione
sacerdotale. Obbedì al sacro ministro a vista di tutto il popolo, e
partissene. Riparò la gran colpa con pubblica espiazione, o colla
migliore di tutte, cioè colle opere virtuose e col premunirsi da simili
eccessi, comandando che qualunque ordine severo gli accadesse in avvenire di
proferire, i ministri dovessero per trenta giorni sospenderne
Nella mia raccolta di monete patrie
alcune ne conservo di Magno Massimo, di Teodosio, di Arcadio e d'Onorio, le
quali dagli eruditi si giudicano della zecca di Milano. Se ne conoscono di
Valente, di Valentiniano II, di Vittore, di Eugenio e del tiranno Costantino,
le quali si possono sostenere della zecca di Milano. Quelle d'argento hanno le
lettere M. D. P. S., che s'interpretano Mediolani pecunia signata; quelle
d'oro hanno semplicemente M. D., Mediolanum; così vien
letto. Hanno questi augusti regnato dal 364 al 407, ne' tempi appunto ne' quali
Milano significava tanto. Anche Ausonio ricorda ne' riferiti versi: opulensque
moneta; non vedo che vi sia improbabilità alcuna nel darvi
una tale interpretazione. Le monete che si trovano negli scavi del nostro
paese, sono per lo più del terzo, quarto e quinto secolo.
Ho cercato inutilmente di saperne di
più di quei tempi. Gli storici nostri accuratamente si occupano a
verificare la cronologia de' vescovi, descrivono i supplizi sofferti da molti
martiri, l'acquisto di molte sante reliquie, fondazioni, etimologie di chiese,
portenti accaduti e degni di una pia credenza; ma nulla ci ha lasciato
l'antichità, onde avere una idea dello stato della popolazione, della
civile costituzione, del governo e del genio de' Milanesi; se marziale, ovvero
pacifico; se attivo, ovvero indolente; se colto e sensibile al bello, ovvero
rozzo ed agreste durante quel secolo e mezzo che trascorse fra l'Impero di
Costantino, e la devastazione d'Attila, accaduta nel 452. Così diciamo
d'essere nella ignoranza totale sullo stato della agricoltura del Milanese,
sulla negoziazione in que' secoli, sopra i costumi sì religiosi che
civili del popolo, e in una parola sulla storia antica; nulla di più
sapendosene fuori che essere stata e nel quarto, e in parte del quinto secolo,
cospicua la città di Milano, e la prima in Occidente dopo di Roma.
Attila, re degli Unni, aveva soggiogate
già alcune province dell'Impero. Alla testa d'una numerosa armata di
popoli rozzi e feroci, tutto vedeva piegarsi a lui. Un uomo solo rimaneva alla
difesa dell'Impero, e questi era Ezio. Egli dunque, spedito incontro ai nemici,
sconfisse i Barbari ed obbligolli a rintanarsi fra i loro boschi nativi; ma la
gloria di questo generale mossegli contro l'invidia de' cortigiani. Un accorto
principe se ne sarebbe avveduto, ed avrebbe difeso se medesimo col proteggere
il difensor dell'Impero; ma Valentiniano III non era né accorto né degno del
trono augusto. Egli fu atroce e imbecille a segno che di sua mano a colpi di
pugnale uccise Ezio; e dopo ciò Attila invase l'Italia. Non v'era
più uomo capace di opporsegli. Aquileia, Padova, Milano e altre
città furono saccheggiate e distrutte; e questa sciagura miseranda
avvenne l'anno 452. Noi non abbiamo autori contemporanei che ci descrivano il
fatto. Abbiamo però quanto basta per comprendere che questa fu una vera
distruzione ed una vera rovina della nostra città; e per conoscerlo
basta leggere la epistola che Massimo, vescovo di Torino, scrisse allora ai
cittadini milanesi, la quale vedesi dapprincipio nell'antico codice di
pergamena intitolato: Homiliarum hiemalium, dell'archivio
degl'imperiali canonici di Sant'Ambrogio. Così quel santo vescovo
cercava di rincorare i nostri cittadini. Quidam imperiti nimis interpretes
fuerunt dicentes: Periit haec civitas, collapsa est Ecclesia, non est jam causa
vivendi. Immo causa est justius sanctiusque vivendi, quia Deus Omnipotens, qui
cuncta haec magna cum pietate disponit, hostium manibus non civitatem, quae in
vobis est, sed habitacula tradiit civitatis, nec ecclesiam suam, quae vere est
ecclesia, consumi jussit incendio, sed pro correctione receptacula ecclesiae
permisit exuri... nam post tantum, et tam lugubre illud excidium, ecce summus
sacerdos suus astat incolumis, clerus integer, et plebs ipsa, licet sub
quotidiano adhuc metu et moesta vivens, tamen in libertate perdurat... non ipsi
nos, sed ea quae nostra videbantur, aut praedo diripuit, aut igni ferroque
comsumpta perierunt... Quandoquidem, irruptis muris, armatos fortesque hostes
populi inermes... fugerunt... Consolemur nos itaque fratres, nec usque adeo
suspiremus collapsas esse domos, quia videmus reparationem domorum in dominis
reservatam... vindictam erga nos suam Dominus temperavit ut, direptis urbibus,
vastatis agris, imminuta substantia, nec animae nostrae, nec corpora
lederentur... ac proinde non ambigamus posse nobis Deum posterisque nostris
amissa reparare[33].
Perché così Attila maltrattasse gl'Italiani, perché questi non si
difendessero, esattamente non lo sappiamo. Pare che il progetto di que' feroci
fosse, non di piantare una dominazione, ma di saccheggiare e riportare un
grosso bottino nel loro ovile. Già regnando Teodosio il Giovine, otto
anni prima, Attila aveva ottenuto un umiliante tributo dai Romani di settemila
libbre d'oro. Egli guidava una moltitudine di armati, che dagli scrittori si fa
ascendere a cinquecentomila e più uomini. Gl'Italiani erano una nazione
che, da conquistatrice, passò ad essere colta, e dalla coltura erasi
degradata alla mollezza; e una schiera di arditi selvaggi non può temere
resistenza da una nazione corrotta, a meno che non vi supplisca la
organizzazione ingegnosa del governo; e questa, dopo i lunghi disordini
dell'Impero, affatto mancava. Il più rapido mezzo per acquistare le
ricchezze d'una città si è il diroccarla; e così intendiamo
come Attila, mosso dalle insinuazioni del sommo pontefice san Leone,
abbandonasse l'Italia subito dopo fattane
Le sciagure cagionate da questa
funestissima incursione diedero nascimento a Venezia. Gli abitatori di
Aquileia, di Padova e di Verona, dopo quest'ultima incursione de' barbari,
memori delle precedute, cercarono un asilo, e lo trovarono sopra di alcune
isolette dell'Adriatico. Ivi collocarono il loro nido. Se il non aver mai
obbedito che alle proprie leggi, promulgate e custodite da propri concittadini,
e l'essersi costantemente preservati contro di ogni forza estranea è un
titolo di nobiltà, nessuna città d'Europa può vantarne di
uguale alla veneta, la quale non ha acquistato il dominio del proprio suolo
colla usurpazione e coll'esterminio di altri uomini, ma creando colla sagace e
pacifica industria il suolo medesimo su di cui si è collocata; sorta di
dominazione la più giusta di ogni altra. Ivi si è conservato
l'antico sangue puro italiano, sicuro contro l'invasione delle armate
terrestri, fra un basso mare, difficilmente accessibile alle navi armate, e
tuttavia si conserva sotto la tutela della virtù e della sapienza dopo
compiuti tredici secoli[34].
Scomparve Attila co' suoi predatori, e
non più Milano poté essere la residenza de' sovrani, distrutta e
incendiata come ella era. In fatti quei pochi deboli augusti, che continuarono
la serie dei Cesari ancora per ventiquattro anni, soggiornarono o in Roma o in
Ravenna, non
Il regno de' Goti durò sulla
Italia per lo spazio di sessant'anni. Cominciò con Teodorico l'anno 493,
e terminò con Teja nel 553. I re che furono di mezzo si nominarono
Atalarico, Teodato, Vitige, Teobaldo, Erarico e Totila. Il più notabile
per la storia di Milano è Vitige, sotto di cui la infelice nostra patria
rimase presso che annichilata, come ora dirò. Non avendo io preso a
scrivere una storia generale, ma unicamente quella di Milano, né per ora né in
seguito mi stenderò mai sugli avvenimenti d'Italia se non di volo, e per
quella connessione che ebbero colla nostra città. Quest'argomento,
più vasto e generale, è stato trattato prima del 1766 da un uomo
che, nel fiore della gioventù, ha posposti i piaceri che le grazie della
persona e dello spirito potevano cagionargli, ai men volgari piaceri d'illuminare
i suoi simili, e di lasciare una durevole memoria alla posterità. Alcune
circostanze hanno consigliato il differire di render pubblico quel lavoro di
erudizione, di fatica e d'ingegno non comune. I lettori un giorno giudicheranno
se quel compendio della storia d'Italia sia stato annunciato da me con
parzialità, e se l'autore medesimo, che gli ha fatti piangere colla Pantea,
gli ha fatti fremere colla Congiura di Galeazzo Sforza, e gli ha
occupati colla placida e sensibile narrazione di Saffo, abbia saputo
dipingere al vivo il carattere de' secoli, e lo stato della felicità e
della coltura degl'Italiani da Romolo fino a noi. Per quanto sieno stretti i
vincoli del sangue, e più quei d'una cara amicizia che mi legano a lui,
io non posso dimenticare di rendere un tributo al merito ed ai servigi ch'egli
ha preparati al pubblico. La storia d'Italia adunque dirà di più;
e così, io della dinastia de' Goti dirò unicamente, che
sembrò riconoscessero il regno d'Italia come un beneficio dell'imperatore,
al quale lasciarono l'apparenza della eminente sovranità: il che si
scorge anche oggidì nelle monete gotiche, sulle quali vedesi impressa
l'immagine degli augusti colle loro iscrizioni, e unicamente dall'opposta parte
il nome del re d'Italia senza immagine. Sin che durò la dominazione de' Goti,
si vede che le città considerate nell'Italia erano Roma, Napoli, Pavia,
Ravenna, Verona, Brescia, non mai Milano, di cui non v'è menzione,
fuorché per la rovina accaduta sotto Vitige, l'anno funestissimo
Gli storici milanesi sin ora hanno
veduti questi fatti sotto un aspetto diverso da quello col quale mi si
presentano. Per me i nomi di Uraja e di Vitige sono i più
funesti che possa rammemorare la nostra storia. E quali altri lo sarebbero se
non lo sono i nomi di coloro che annientarono Milano dal secolo sesto sino al
secolo undecimo? Gli storici nostri hanno temuto di deturpare lo splendore
della patria raccontando una così lunga depressione, e non potendo spiegare
dappoi come i re d'Italia ponessero la loro corte a Pavia, da Pavia avessero la
data quasi tutti i diplomi, in Pavia si facessero le solenni incoronazioni,
immaginarono un privilegio dato da Teodosio a sant'Ambrogio, per cui non fosse
più lecito ai sovrani di soggiornare in Milano. L'assurdità di
questo sognato privilegio si manifesta da ogni parte. Basta il riflettere che
Teodosio istesso sarebbe stato il primo a violarlo, poiché visse e morì
in Milano, siccome ho detto. Onorio, di lui figlio, in Milano celebrò le
sue nozze, e nel capo antecedente si accennò quanto vi dimorassero
dappoi gli augusti. Sarebbe cosa assai strana che i Goti, i Longobardi e i
Franchi avessero obbedito con maggiore riverenza a un privilegio di Teodosio,
di quello che ei medesimo, i suoi figli e successori non fecero. Il
metropolitano di Milano in que' tempi non aveva giurisdizione o ingerenza nelle
cose civiche, né a sant'Ambrogio si sarebbe accordato un privilegio quando si
fosse voluto darlo alla città. Se Milano avesse ottenuta una forma
repubblicana, e avesse creato i propri magistrati, e riscossi i propri tributi
sotto una semplice protezione del sovrano, poteva esservi il desiderio di non
alloggiare un protettore sempre pericoloso al governo aristocratico o popolare;
ma Milano era città suddita come le altre, nella quale gli storici
nostri c'insegnano che risedeva un governatore a nome del sovrano, chiamato duca
sotto i Longobardi, e conte sotto i Franchi, dal quale si esercitava
la somma autorità; il privilegio dunque si riduceva a condannar Milano a
non essere mai più la capitale del regno. Da qualunque parte si svolga
una tale opinione, sebbene tanto ripetuta, non vi troveremo che degli assurdi e
tali che, se vi è certezza nella storia, egli è evidente che un
diritto cotanto indecente, e sconsigliato a chiedersi ed a concedersi, altro
non è che un sogno immaginato per poter persuadere che Milano
conservasse la sua grandezza ancora in que' secoli ne' quali la corte de'
sovrani stava collocata poche miglia da lei lontana. Le città che hanno
un monarca desidereranno sempre di esserne la residenza, e la patria de'
successori; e quelle che si reggono sotto altra costituzione, avrebbero un
fragilissimo garante, se altro non le mantenesse in possesso de' loro diritti,
fuorché una pergamena.
La riunione dell'Italia all'Impero,
cominciata sotto il comando di Belisario, si perfezionò reggendo
l'armata cesarea il glorioso Narsete, spedito nella Italia da Giustiniano
Augusto. Nell'anno 553 non rimase più alcun Goto nell'Italia, se non
reso suddito dell'imperatore, e da quell'anno cominciò il governo di
Narsete, che risedette in Roma, reggendo l'Italia per Giustiniano, lo spazio di
quattordici anni. Ma estinto il generoso Narsete, non restò all'Italia
uomo capace di preservarla da nuovi barbari, e nell'anno 569 entrovvi Alboino,
guidando una sterminata moltitudine di Gepidi, Bulgheri e Longobardi.
Occupò egli senza contrasto buona parte dell'Italia, e il centro della
nuova dominazione fu l'Insubria, che cambiò il nome, e chiamossi
Lombardia, dall'essere diventata la sede di questo nuovo regno de' Longobardi.
Ravenna diventò la residenza del ministro, che col nome di esarca gli
augusti destinavano a reggere Roma, Napoli e altre città che rimasero
sotto l'imperatore preservate dalla invasione. I Longobardi, senza contrasto
alcuno, s'impadronirono di Milano e delle altre città: ma Pavia si
difese e sostenne tre anni di assedio. I costumi di questi nuovi ospiti si
conoscerebbero anche da un fatto solo. Soggiornava il re Alboino in Verona, e
un giorno, più ferocemente allegro del solito, costrinse
Di ciò che spetti alla storia di
Milano durante la dominazione de' Longobardi, non vi è cosa alcuna.
Delle monete gotiche non se n'è trovata una sola che indichi essere
stata adoperata da essi la zecca di Milano. Delle monete longobarde due ne
conservo: la prima d'oro potrebbe essere della zecca di Milano; essa è
di Luitprand, che regnò dal 712 al 744: ed ha un M. nel campo ove sta la
immagine; ma ognun vede quanto ne sia incerta la prova; l'altra pure d'oro ha
da una parte il nome del re Desiderio, e dall'altra Flavia Mediolano;
essa prova che la zecca di Milano è stata adoperata prima del
775; poiché questa rara moneta, che il solo Le Blanc ha pubblicata,
è stata coniata ne' diecisette anni precedenti, ed è la
più antica moneta sicura della nostra officina monetaria, non avendo le
più antiche, che si credono di Milano, se non delle probabilità.
Ciò però basta per provare che da mille anni almeno a questa
parte, la zecca di Milano ha battuto moneta. Se prestiamo credenza a Paolo Diacono,
scrittore longobardo, la nazione de Longobardi veniva dalla Scandinavia. Forse
quello storico non aveva letto la geografia di Tolomeo, in cui si vede: habitant
Germaniam quae circa Rhenum est, a parte prima septentrionali Brusacteri parvi
appellati, et Sicambri, Oqueni, Longobardi.[38]
Erano adunque i Longobardi popoli della Germania, vicini al Reno, dalla
parte settentrionale. Aggiunge poi Tolomeo: interiora atque mediterranea
maxime tenent Suevi Angli, qui magis orientales sunt quam Longobardi[39].
Sembra con ciò indicarsi che la patria de' Longobardi fosse a
un dipresso verso
Quando ho detto che la distruzione di
Uraja sotto Vitige del 538 fu uno annientamento di Milano, dal quale per cinque
interi secoli non poté risorgere, non intendo perciò di asserire che non
vi rimanessero più abitatori nel luogo della città, e che il
suolo ne restasse deserto; dico annientata la città cospicua, e rimasto
al luogo di essa un ammasso di rovine, con alcune chiese e alcune case abitate
da un piccolo numero di poveri uomini mal sicuri; perché le mura della
città atterrate lasciavano libero ingresso ad ogni invasore. Alcuni rari
abitatori erano, dopo quest'eccidio, sparsi sulla campagna: poco in vigore era
la coltura delle terre per mancanza di uomini; in somma non restava di grande
che la memoria e la dignità del metropolitano, la quale non
rovinò colla città, come per più secoli si sostenne il
decoro del patriarca d'Aquileia.
Il conte Giulini ci assicura in
più luoghi che prima del 1000 la maggior parte de' nobili abitava nelle
terre[42]:
e l'asserzione di un autore tanto esatto, fedele e ingenuo, è maggiore
di ogni eccezione; egli non l'ha fatta se non dopo di avere esaminata con
attenzione e giudizio una sterminata mole di carte antiche. Il peso della
autorità di questo erudito autore cresce, se si rifletta ch'egli ha
procurato, quanto mai era possibile, di dar risalto alla storia nostra, e far
comparire Milano sempre considerata; il che ha eseguito quanto gli è
stato fattibile, salva
Abbandoniamo adunque per sempre il
privilegio ridicolo di non essere mai la dominante del regno, ma una
città suddita secondaria, diretta da un vicegerente del monarca, ché
tale sarebbe il supposto privilegio di Teodosio al vescovo sant'Ambrogio; e per
ispiegare come mai Milano fosse dimenticata per cinque secoli dopo di Vitige;
come Pavia, Verona e Monza divenissero la residenza de' principi, piuttosto che
Milano, riportiamoci alla ragione vera, confermata da ogni fatto, e che sinora
nessuno ha avuto l'animo di pronunziare, cioè che non vi sarebbe stato
in Milano luogo per alloggiarvi i sovrani, né cosa alcuna conveniente ad una
corte. Milano non cominciò a risorgere se non dappoiché, riparate le
mura, gli abitatori poterono domiciliarvisi tranquilli. Se prima di ciò
si fossero radunati molti a convivere sullo stesso suolo, spogliato d'ogni
riparo, sarebbe stato lo stesso che indicare ai barbari il luogo su di cui fare
una scorreria con profitto. Prima che le mura si riducessero a stato di
preservare gli abitatori dalle sorprese, comuni in que' tempi, non vi era altro
partito per i nobili che lo abitare sparsi qua e là sulla campagna; e
perciò Milano era come annientata. Pochi anni dopo la distruzione di
Federico Barbarossa riuscì ai Milanesi di risorgere a segno di battere
l'imperatore; dopo la distruzione di Uraja per cinque secoli rimase annientata
Milano senza poter mai alzare la fronte da terra. Giudichi ciascuno se la
posterità sia stata giusta dimenticando il nome di Uraja, e tanto
scrivendo e parlando della distruzione di Federico, di cui tratteremo a suo
luogo.
I Longobardi non dominarono mai
interamente su tutta l'Italia; e Roma, fra le altre città, fu sempre
libera dal loro giogo, e soggetta all'imperatore; se pure può chiamarsi
soggezione un titolo di sovranità conservato ad un principe debole,
lontano, che non aveva armate da spedire nell'Italia. I Longobardi cercavano di
sempre più dilatare il loro regno, e dominar soli nell'italico suolo.
Roma era in pericolo; non v'era speranza di soccorso da Costantinopoli;
Abbiamo una moneta di Carlo Magno
coniata in Milano, e la conservo nella mia raccolta; in essa vedesi che, non
qualificandosi quel sovrano se non come re de' Franchi, dovette essere coniata
dalla zecca di Milano prima dell'anno
Il primo passo che era da farsi per
rianimare la città giacente, egli era ripararne le mura, e cingerla per
modo che vi potessero soggiornare sicuri gli abitatori. Questo pensiero non
venne in mente ai sovrani; la condizion de' tempi non ne aveva fatto nascere
l'idea. I Longobardi, rozzi ed agresti, non conoscevano le passioni delle anime
grandi, non furono perciò sensibili alla gloria di lasciare vestigio di
opere pubbliche. I re franchi interrottamente comparivano nell'Italia per
ricevere la corona imperiale, per farsi proclamare in una dieta dai signori
italiani, e lasciavano poi un principe, da essi dipendente, col titolo di re
d'Italia, a governarla. La sede era già Pavia, e sotto tal forma di
governo d'un monarca elettivo e lontano, non era sperabile che si pensasse a
richiamare Milano a nuova vita. L'arcivescovo di Milano era considerato sempre
il metropolitano e il più venerando, per dignità, fra gli
ecclesiastici del regno italico, malgrado l'infelice stato della città.
È assai verosimile che in que' tempi molti beni possedesse chi era
innalzato alla sede arcivescovile. Occupava l'Impero e il regno d'Italia Carlo
il Grosso, principe infermo di corpo e di mente, a quel grado che, ispirando un
disprezzo universale, fu dalla sua dignità deposto. I popoli che gemono
sotto un viziato sistema di governo, debbono far voti al cielo per ottenere o
un principe sommo nella bontà, ovvero uno sommamente vizioso. Sotto il
debolissimo governo di Carlo il Grosso, era arcivescovo di Milano Ansperto da
Biassono, terra del ducato lontana tredici miglia da Milano, di là da
Monza tre miglia; e a questi dobbiamo noi Milanesi la venerazione che merita un
ristoratore della patria. Già sotto i regni indeboliti e brevi di Carlo
il Calvo e di Carlomanno, l'arcivescovo Ansperto aveva cominciato a mostrare un
vigore e un ardimento convenienti ad un principe. Egli, l'anno 875,
ordinò al vescovo di Brescia di consegnargli il cadavere dell'imperatore
Lodovico II, e sul rifiuto che il vescovo bresciano gli diede, l'arcivescovo
comandò ai vescovi di Cremona e di Bergamo di ritrovarsi col loro clero
ne' contorni di Brescia un dato giorno, nel quale, egli pure si ritrovò
sul luogo col clero che poté raccogliere, e così questa forza combinata
rapì l'estinto augusto, che venne poi collocato in Milano nella chiesa
di sant'Ambrogio[65].
Egli grandissima influenza ebbe nella elezione di Carlo il Calvo, da cui
ottenne il dono di alcuni poderi, e fra gli altri della terra d'Ornago. Egli
era ricco assaissimo, generoso, amante della giustizia, fermo e ostinato ne'
suoi progetti: Effector voti, propositique tenax,[66]
come si legge nell'epitaffio che conservasi nella chiesa di Sant'Ambrogio. Un
tale arcivescovo, nato a tempo, doveva richiamare a vita la sua città; e
così fece con molti stabilimenti pubblici, e soprattutto col riparare e
rialzare le mura giacenti, e ristorando l'opera di Massimiano Erculeo, ed
assicurando la vita e le sostanze a chi volesse abitare in Milano. Noi non
abbiamo scrittori che ci abbiano trasmesse le vicende della vita di quel nostro
illustre cittadino e benefattore; le carte però che si sono ritrovate
negli archivi, e la iscrizione sepolcrale che ce ne rimane, ci danno notizia
che egli, semplicemente come diacono, era già un personaggio ricco e
considerato; che fu giudice, cosa in que' tempi di somma importanza; che era
sotto la speciale protezione di Lodovico II; che poi fu creato arcidiacono e
vicedomino, e che ebbe la dignità di messo regio. Egli fabbricò
l'atrio che sta d'avanti la chiesa di Sant'Ambrogio. Questo è il
più antico pezzo di architettura che abbiamo dopo i Romani. Nell'868 fu
consacrato arcivescovo, e morì nell'881, avendo tenuta la sede
arcivescovile tredici anni. Quest'atrio è di struttura assai bella, se
si consideri che è stato fabbricato nel secolo nono. Gli archi sono
semicircolari, e tutto l'edificio spira una sorta di grandezza e di
maestà, in confronto delle meschine idee di quei tempi. È vero
che quel modo di fabbricare è assai lontano dalla venustà ed
eleganza greca, e dalla nobile semplicità toscana; ma egli è del
pari lontano dalla confusione capricciosa, e dalla barbara e minuta
prodigalità degli ornati che ne' secoli posteriori deturpò
interamente il gusto delle proporzioni architettoniche. È noto che fra
gli errori volgari debbono riporsi i nomi di architettura gotica e di scrittura
gotica; giacché le cose che portano questi nomi, vennero inventate
più di seicento anni dopo che terminò la dominazione de' Goti, e
ci vennero dalla Germania, siccome ne parlerò nuovamente quando la serie
de' tempi mi avrà condotto a trattare di Gian Galeazzo Visconti, primo
duca di Milano, che fabbricò il Duomo. L'arcivescovo Ansperto fu
invitato dal sommo pontefice Giovanni VIII, acciocché intervenisse co' vescovi
suoi suffraganei al concilio che il papa voleva radunare in Pavia nell'878, e
gli scrisse intimandogli le pene d'inobbedienza qualora mancasse; ma né
l'arcivescovo, né i suffraganei vi si prestarono, e il concilio non si tenne[67].
Il papa chiamò l'arcivescovo a un concilio in Roma per il mese di maggio
879, e l'arcivescovo Ansperto non si mosse[68].
Spedì Giovanni VIII due suoi legati a latere all'arcivescovo cercandogli
obbedienza, e citando la pratica antica; e l'arcivescovo non volle né
ascoltarli né riceverli, ma li fece dimorare fuori della sua porta senza
riguardo alcuno, di che quel papa si lagnò nella sua Epistola 196.
Pretese il sommo pontefice che Ansperto, per la passata disobbedienza, fosse decaduto
dalla dignità arcivescovile, e per ciò scrisse al clero di
Milano, acciocché, convocati i vescovi suffraganei, si passasse a nuova
elezione, scegliendo fra i cardinali della santa chiesa milanese quello che
fosse giudicato il più degno: Qui de cardinalibus presbyteris aut
diaconis, dignior fuerit repertus, eum, Cristi solatio, ad archiepiscopatus
honorem promoverent[69],
come dalle Epistole 221 e 222. Ma alcuno non obbedì a quest'ordine,
di che diffusamente tratta il conte Giulini, che sarà ne' secoli bassi
l'autore che io primariamente terrò a seguitare per la sicurezza dei
fatti[70].
Ciò non ostante
Da Carlo Magno fino a Carlo il Grosso
la dignità imperiale elettiva erasi mantenuta come per successione in
una stessa famiglia, e la dieta tenutasi in Germania l'anno 887, deponendo
Carlo il Grosso, pretese d'innalzare all'impero Arnolfo, di lui nipote, e
perciò discendente da Carlo Magno. Ma gl'Italiani, senza il concorso de'
quali si era fatta l'elezione, ricusarono di riconoscerla per valida. Il papa,
il quale solo poteva conferire la dignità imperiale all'incoronazione,
come in quei tempi credevasi, cominciò a far uso di tale opinione per
far cadere questo titolo sopra di un principe che, da lui riconoscendolo, fosse
altresì meno da temersi; onde l'autorità del romano pontefice sempre
più vivesse sicura, anzi a maggiore ampiezza si estendesse.
L'arcivescovo di Milano doveva avere la stessa mira, dacché aveva già
assaporato il piacere di comandare nella sua città. Un principe debole
era per essi preferibile, posto che le circostanze esigevano che uno ve ne
fosse. Pareva dunque che gl'interessi d'entrambi fossero d'accordo; se non che
per l'arcivescovo di Milano la potenza d'un superiore ecclesiastico stabilito
in Roma era più da temersi che quella d'un laico, assente per lo
più ed occupato negli affari dei regni oltramontani; e perciò la
condotta degli arcivescovi poche volte s'accordava con quella dei papi, anzi
bene spesso l'attraversava. Gl'Italiani elessero un nuovo re d'Italia, e fu
Berengario, duca del Friuli, l'anno 888; e Anselmo, arcivescovo di Milano,
solennemente lo incoronò. Ma nell'anno seguente Stefano V, sommo
pontefice, solennemente incoronò imperatore Guido, duca di Spoleti. E
l'uno e l'altro di questi due principi per parte di madre discendevano da Carlo
Magno. Oltre questi due, che si disputavano la signoria del regno italico,
scese dalle Alpi il re Arnolfo, conducendo un'armata per sostenere la elezione
fatta dai Tedeschi. Per diciotto anni di seguito è difficile l'assegnare
a quale de' tre pretendenti obbedisse l'Italia. Milano fu soggetta a
Berengario, che risedeva in Pavia ed in Monza; poi si diede ad Arnolfo; poi fu
conquistata dal figlio di Guido, che fu l'imperatore Lamberto. Arnolfo venne
incoronato imperatore da papa Formoso, e così passarono gli anni sino al
906 fra i rivali imperatore Arnolfo, imperatore Lamberto e re Berengario, al
quale ultimo cedettero i due competitori. Fra questi torbidi andava cautamente
schermendosi il nostro arcivescovo, e cogliendo le occasioni d'ingrandirsi e di
rendere sempre più importante la sua influenza nel regno d'Italia.
Nell'occasione in cui l'imperatore
Lamberto conquistò Milano, accadde un fatto che merita luogo nella
storia. Milano erasi data ad Arnolfo, ed era per lui custodita dal conte
Maginfredo. Il re Arnolfo, che ancora non aveva il titolo di augusto, erasi
allontanato dall'Italia, quando Lamberto augusto mosse le sue forze per
sottomettere
Ucciso così l'imperatore
Lamberto, il re Berengario rimase solo sovrano d'Italia in Pavia, poiché
Arnolfo quasi nel tempo istesso aveva cessato di vivere, assediando Fermo.
Liberato dai due rivali, ogni apparenza indicava l'augurio di un placido regno
a Berengario. Ma un regno placido e uniforme d'un monarca che da Pavia
signoreggiava Milano, non era quello che dovesse piacere al nostro arcivescovo
Andrea. Chiunque posseda una dignità ragguardevole acompagnata da molta
ricchezza, e sia avvezzo a influire nelle vicende di un regno, difficilmente
antepone la tranquilla obbedienza alla tumultuosa inquietudine di spargere sopra
un grande numero di uomini la speranza e il timore; né l'arcivescovo era giunto
a tal grado di filosofia. Si cercò un rivale che potesse disputare a
Berengario il regno, e s'invitò Lodovico, re di Provenza, a ricevere la
corona d'Italia. Scese Lodovico dalle Alpi, e sorprese Berengario, che poté
appena aver tempo di rifuggiarsi in Verona: e Lodovico, collocatosi in Pavia,
venne l'anno 900 proclamato re da una dieta d'Italiani, e in un suo diploma
egli stesso ce lo insegna: Venientibus nobis Papiam in sacro palatio, ibique
electione et omnipotentis Dei dispensatione in nobis ab omnibus episcopis,
marchionibus, comitibus, cunctisque item majoris, inferiorisque personae
ordinibus facta[75].
Da queste parole si conosce che il regno d'Italia dal re istesso era
considerato elettivo e dipendente dalla libera volontà de' signori
italiani, e si conosce pure che il sacro palazzo di residenza continuava
tuttavia ad essere in Pavia, siccome costantemente lo fu dappoi. Milano fu
suddita al nuovo re, il quale dal papa venne incoronato imperatore, ma poco
poté godere di sua fortuna, poiché ben tosto venne scacciato dall'Italia da
Berengario che, rinvenuto dalla sorpresa, radunò forze bastanti da
opporsi al suo competitore. In fatti veggonsi dei diplomi del re Berengario del
903 dati in Pavia, in palatio ticinensi, quod est caput regni nostri[76],
e da altri si scorge ch'egli soggiornava in Monza. Un nuovo tentativo fatto
dall'imperatore Lodovico III per discacciare dal soglio il re Berengario gli
costò la perdita degli occhi, che il vincitore Berengario gli fece
guastare; onde quell'augusto ebbe il nome di Lodovico il Cieco, e nel 906
lasciò libero il trono d'Italia al re Berengario, che da diciotto anni
ne portava il titolo combattendo l'imperatore Guido, l'imperatore Lamberto,
l'imperatore Arnolfo e l'imperatore Lodovico III. Così, assicurato sul
trono Berengario, tranquillamente cominciò a regnare senza nemici. Aveva
la sua corte in Pavia, e per dieci anni continui non se ne dipartì, come
ci fanno vedere i diplomi che ne portano
Nulla sappiamo nemmeno di questi tempi,
che possa bastare a tessere la storia di Milano. Vediamo unicamente che, dopo
il glorioso arcivescovo Ansperto, i prelati suoi successori avevano acquistata
molta considerazione, e si occupavano di oggetti grandi. Abbiamo indizi che la
città si andava popolando. V'erano monasteri di vergini dedicate a Dio
entro della città di Milano. Il monastero di Santa Radegonda chiamavasi San
Salvatore di Vigelinda; quello di Santa Margarita chiamavasi Santa Maria
di Gisone; il Bocchetto aveva la denominazione allora di San Salvatore
di Dateo; le monache di Santa Barbara in porta Nuova si chiamavano di Santa
Maria di Orona; il monastero Maggiore chiamavasi Santa Maria
inter Vineam; e per quei tempi, da' quali non è giunto a noi veruno
scrittore che abbia registrate le cose della patria, e ne' quali ancora era
nascente la città, questo basta per conoscere che vi dovea essere
radunato discreto numero di popolazione. L'instancabile conte Giulini ha dovuto
mendicare dalle antiche pergamene, dai diplomi de' principi, dalle sentenze de'
giudici, dai testamenti e dai contratti che tuttora conservansi negli archivi,
le notizie isolate di questi tempi, le quali appartengono per lo più a
private persone, alla cronaca di qualche ordine monastico, alla erudita ricerca
su i confini di qualche giurisdizione o distretto, alla dotazione od erezione
di qualche chiesa; ma non possono servire alla storia. Di che, ben lungi dal
farne io un rimprovero al saggio scrittore, gli tributo l'encomio che ha
meritato colla immensa fatica da lui sopportata, e colla esatta critica
adoperata esaminando fatti che meritavano la luce, e per essere preziosi avanzi
di que' tempi, e per la possibilità che servano a beneficio di private
persone; sebbene non sieno materiali servibili per tesserne una storia.
Erano già trascorsi quindici
anni dacché l'augusto Berengario regnava senza contrasto sull'Italia; e
l'arcivescovo di Milano giaceva come ogni altro suddito, senza avere altro di
più che la venerazione inerente al carattere del metropolitano.
L'imperatore stipendiava gli Ungari, di cui si era servito felicemente nelle
vicende passate; e questi, valorosi alla guerra ed egualmente esperti
predatori, avevano talmente imparata la strada d'Italia, che quasi ogni anno
facevano una comparsa, e ne partivano con buona preda. Costoro lo stesso
eseguivano nella Baviera, nella Suabia e nella Franconia. La Germania e
l'Italia erano esposte al saccheggio; e allora quasi ogni borgo dovette
cingersi di mura per vivere con sicurezza. Questo aveva reso odiosissimo il
nome degli Ungari e fatto molti malcontenti dell'imperatore Berengario, che
aveva per essi molti riguardi. Lamberto, arcivescovo di Milano, secretamente
fomentava gl'inquieti, ed era avverso all'imperatore, anche per la tassa che
aveva dovuto pagare a quell'augusto per essere da lui collocato sulla sede
arcivescovile, a cui era stato canonicamente innalzato dai voti del clero[77].
Questa tassa fu proporzionata a quanto bisognava per pagare la famiglia bassa
di corte, camerieri, uscieri, uccellatori e simil gente[78].
Si era secretamente introdotto un trattato con Rodolfo, re dell'alta Borgogna,
invitandolo a venire nell'Italia, coll'offerta della corona. Berengario
scoprì la congiura; fece arrestare Olderico, conte del palazzo, e lo
confidò incautissimamente alla custodia dell'arcivescovo Lamberto, ch'ei
credeva fedele, anche per l'assenso che poco prima gli aveva accordato
ponendolo al possedimento della dignità arcivescovile. Poco dopo,
l'imperatore conobbe d'avere malamente scelto il custode d'un prigioniero che
non poteva restar libero senza pericolo di lui. Lo richiese. L'arcivescovo lo
ricusò collo specioso titolo che non dovea consegnare il prigioniero a
chi poteva porlo in pericolo della vita. Lamberto non si arrestò al
rifiuto; lasciò in libertà l'affidatogli Olderico, il quale tosto
andò ad unirsi con Adalberto, marchese d'Ivrea, e con Gilberto conte, e,
levatasi la maschera, comparvero disposti a detrudere colla forza l'augusto
Berengario; il quale, assoldato un corpo di Ungari, vinse i ribelli, rimanendo
estinto sul campo Olderico, prigioniero Gilberto, e fuggitivo il marchese.
L'imperatore Berengario diede un generoso perdono a Gilberto conte, e resegli
Estinto appena l'augusto Berengario
nell'anno 924, il re Rodolfo rimase in Pavia senza chi gli disputasse il regno
italico; ma nemmeno avea egli un partito bastante per essere proclamato re
d'Italia. Una donna celebre per la bellezza, non meno che per l'arte
scaltrissima di prevalersene; donna che sapeva far nascere l'amore e
schermirsene, e che collocava la somma voluttà nel regolare il regno a
suo talento, Ermengarda, vedova di quell'Adalberto marchese d'Ivrea di cui poco
anzi feci menzione, avea formato il progetto di collocare sul trono o Guido,
duca di Toscana, di lei fratello, o qualche altro di sua famiglia. Rodolfo
invitato, come dissi, al soglio italico dal marchese defunto, credeva che la
vedova fossegli favorevole. Essa ordiva la trama di scacciarlo; e nel mentre
che l'avea adescato anche cogli amori, colle arti medesime animava molti
signori potenti a secondare il disegno di lei. Il re Rodolfo stavasene a
Verona, ed Ermengarda, unita ai fratelli, si impadronì di Pavia nel 925.
Il re conobbe allora il disegno dell'ingannatrice donna, e si determinò
a scacciarla da quella città, e, coll'aiuto dell'arcivescovo Lamberto,
radunò un esercito e marciò alla volta di Pavia. Liutprando ci
racconta che, in seguito d'uno scritto che
Da questi fatti bastantemente si
conosce che l'arcivescovo di Milano era già diventato un personaggio di
somma considerazione fra i principi del regno d'Italia; che le mura di Milano
erano forti e tali da potervisi confidare; che Pavia non era distrutta a segno
che non vi si abitasse tuttavia e non fosse capace di una difesa. Il parco poi
dell'arcivescovo chiamato Brolio, in cui manteneva i cervi, era
immediatamente fuori delle mura di que' tempi, e si stendeva dalla chiesa di
Santo Stefano a quella di San Nazaro, e questo diede l'aggiunta in Brolio
alle due nominate chiese; né questo è da confondersi coll'orto chiamato Broletto,
che aveva l'arcivescovo al sito in cui vedesi oggidì la ducal corte.
Abbandonata che fu l'Italia
dall'incauto Rodolfo, e ritiratosi nell'alta Borgogna nel 926, Ugone, conte di
Vienna e re di Provenza, già invitato, come dissi, dagl'Italiani, sen
venne: Venit Papiam, cunctisque conniventibus regnum suscepit[86].
Qui non sarà inutile l'osservare che sotto la denominazione di Alta
Borgogna comprendevasi il paese degli Svizzeri, il Vallese, Ginevra e parte
della Savoia; chiamavasi questa la Borgogna transjurana, ovvero l'alta
Borgogna, e con ciò facilmente comprendesi la somma celerità
colla quale Rodolfo si fece venire nell'Italia a danno di Berengario augusto, e
la rapidità con cui, partitosene, ritornò con un'armata. Ugone
per cinque anni regnò solo in Italia, ed ebbe moltissimi riguardi per la
vedova marchesa d'Ivrea Ermengarda, sorella di lui per parte di madre; e molta
attenzione fece all'arcivescovo Lamberto, a cui doveva il soglio d'Italia. Di
questi cinque anni ne rimane un vestigio nella moneta milanese che conservo
nella mia raccolta. Nell'anno 931 associò sul trono Lotario suo figlio,
ed allora i diplomi, non meno che le monete, ebbero la leggenda di Hugo et
Lotharius reges[87],
anzi in modo assai più scorretto e rozzo, come si vede nella moneta
che ho presso di me. Ugone non aveva la condotta inconseguente dell'incauto
Rodolfo; egli pensava d'innalzarsi all'Impero, e faceva servire gli amori al
regno, quando il primo aveva fatto l'opposto.
Berengario, alla venuta di cui
partissene il re Ugone, era figlio, siccome dissi, di Adalberto, marchese
d'Ivrea, e di Gisla, figlia dell'imperatore Berengario, di quell'Adalberto che
si collegò con Gilberto conte e con Olderico per deprimere il suocero e
collocare Rodolfo, re di Borgogna, in di lui luogo. Matrigna di Berengario era
Nella dieta radunatasi in Milano al
giugnervi del marchese d'Ivrea Berengario, l'anno 945, per unanime consenso de'
signori d'Italia, fu collocato sul trono abbandonato da Ugone, il re Lotario,
di lui figlio; di cui l'ottima indole s'era meritata la comune opinione. A
questa scelta probabilmente avrà contribuito Berengario istesso; se non
per sentimento, ché l'anima di costui forse non ne era capace, almeno per
decenza di comparire grato a un principe che l'aveva salvato dalle insidie del
padre. Lotario altronde era già stato solennemente associato al regno, e
proclamato re d'Italia da quattordici anni addietro; né si poteva scacciare
quell'innocente sovrano dal trono senza ribellione ed ingiustizia manifesta.
Questa è la prima dieta del regno, e la prima proclamazione d'un re
d'Italia che siasi fatta in Milano dopo la distruzione di Uraja nel 538, anno
per sempre memorando. (945) Il regno del giovane Lotario fu puramente di nome,
poiché in fatti tutto si mosse coi voleri del marchese Berengario; al quale
spiacendo anche quell'embrione di re, che gl'impediva di sedersi egli stesso sul
trono, col veleno, dopo appena due anni, fe' terminare il regno dell'infelice
Lotario, che, trasportato da Torino, ebbe la sua tomba nella chiesa di
Sant'Ambrogio di Milano. Tale fu la ricompensa che il marchese Berengario diede
al re Lotario, a cui doveva la luce del giorno. Dopo ventiquattro giorni appena
estinto Lotario, l'anno 950, Berengario e Adalberto suo figlio vennero
proclamati re d'Italia.
Ma lasciamo qualche spazio fra gli
orribili casi di quel secolo crudele; ivi contempli ciascuno a qual grado di
depravazione fosse disceso l'uman genere; esamini, chi il brami, più
minutamente gli storici, e veda poi se le querele sopra i costumi presenti
sieno fondate; ovvero se in vece non vi sia ragione di offrire umili voti di
riconoscenza a Dio. Dalla infelicità di quel secolo si conosce che vizio
e miseria stanno collegati con nodi indissolubili; e che se qualche poco di
bene e di felicità può godersi sulla terra, questa è
riserbata per l'uomo retto e saggio. Una occhiata sullo stato delle arti e
delle lettere in que' barbari tempi, servirà a distraerci dai veneficii,
dagli accecamenti e dalle insidie che compongono la storia di quegli anni.
Poiché si dovette tumulare in Milano l'estinto re Lotario, tanto era lontana
ogni idea della erudizione, che, per formarne l'urna sepolcrale, si ruppe una
gran tavola di marmo, in cui eravi scolpita un'iscrizione di Plinio, e segata
questa, si formò l'avello, rovesciando dalla interior parte del sepolcro
i caratteri; di che ce ne fanno testimonianza il Calchi e l'Alciati, i quali la
riconobbero e ne pubblicarono i frammenti[91].
La lingua latina scrivevasi coi più strani solecismi: alcuni pochi
esempi ne daranno idea. Un diploma di questi tempi comincia così: Dum
in Dei nomine, civitate Pisa ad Curte Domnorum regum, ubi Domnus Hugo et
Lotharius gloriosissimi regibus preessent, subtus vites, quod topia vocatur,
infra eadem Curte, etc[92].
Una sentenza comincia così: Dum in Dei nomine, ad monasterium sancti,
et Christi confessoris Ambrosii, hubi ejus umatum corpus requiescit, ubi Domnus
Lambertus piissimus imperator preerat, in domum eiusdem sancte mediolanensis ecclesie,
in laubia ejusdem domui, in juditio resideret Amedeus comes palacii, una cum
Landulfus, vocatus archiepiscopo, singulorum hominimum iustitiam faciendam, ed
deliberandam, etc.[93].
Altra sentenza così comincia: In Dei nomine, civitatis mediolanensis,
curte ducati, infra laubia ejusdem curtis in juditio ressederet Magnifredus
comes palatii, et comes ipsius comitati Mediolanensis, singulorum hominum
justicias faciendas, ressedentibus cum eo Rotcherius vicecomitis ipsius
civitatis, etc.[94].
Vero è che ancora più scorrette carte ritrovansi di un secolo
prima: e tale è quella riferita dal conte Giulini nel primo tomo, alla
p. 17, ove così leggesi: Confirmo ut omnes servos ed ancellas meas
sint Aldiones, et pertinentes mundium eorum ad ipso Xenodochium, habentes per
caput unusquis mascolis et femine solidus singolus; et ita volo, ut illi
homines meis, qui consueti sunt cum suas anonas opera mihi faciendi, instituo,
ut quandoque opera fuerint faciendi, ut cum anona ejusdem Xenodochii operas
ipsas perficiant.[95]
Ma convien confessare che assai barbaro era il modo col quale comunemente
si scriveva anche nel decimo secolo. Nel testamento dell'arcivescovo Andrea, il
quale pure, per la eminente sua dignità ecclesiastica, doveva essere
uomo colto, egli, nel 903, così scriveva: Senodochium istum sit
rectum et gubernatum per warimbertus humilis diaconus de ordine sancte
mediolanensis ecclesie nepoto meo, et filius bone memorie ariberti de besana
diebus vite sue[96].
Da ciò comprendesi qual grado di coltura poteva esservi in que' tempi.
Certamente dovevano rimanere sconosciuti gli autori de' buoni secoli preceduti;
poiché per poco che un uomo si addomestichi a leggerli, non sarebbe possibile
che così scrivesse. Non sarà forse inverosimile l'opinione che
sino da que' tempi si parlasse in Milano un dialetto poco dissimile da quello
che si parla oggidì; e che nello scrivere si adoperasse una lingua
diversa da quella che volgarmente si parla. In fatti anche presentemente nello
scrivere si adopera la lingua italiana, anche dalle persone meno colte; le
quali parlando, non mai d'altro fanno uso che del loro dialetto, tanto
sformato, che sarebbero inintelligibili ad un Toscano. Se dunque, anche a'
nostri giorni i Milanesi, scrivono quella lingua che chiamasi italiana, e nel
discorso non se ne servono comunemente mai, non vi può essere difficoltà
a comprendere come nei bassi tempi scrivessero quella lingua che chiamavano
latina, mentre parlavano il dialetto proprio. Quello che mi fa credere che la
lingua che serviva per la scrittura, non fosse la usata nel parlare, si
è che non vi trovo analogia veruna fra una carta e l'altra. I
barbarismi, le sconcordanze sarebbero costanti se fossero state in uso nel
parlare; né può intendersi questa varietà di errori, se non
supponendo che ciascheduno s'ingegnasse di dare una desinenza latina, come meglio
sapeva, alle cose che cercava di esprimere. Alcuni persino adoperavano
latinizzati gli articoli del volgare da due parti, dalla terza, dalla
quarta; come in una carta del 941. Coeret ei da duos partes tenente
ursone, item de insola comense, de tercia parte terra sancti victori de
masalia, da quarta parte terra sancti petri de clevade[97].
Dallo stato della lingua può conoscersi che affatto erano ignote le
lettere; e di quei tempi nemmeno abbiamo veruno scrittor milanese che stendesse
le memorie degli avvenimenti della città; siccome cominciarono poi a
fare nel secolo undecimo Arnolfo e Landolfo il Vecchio. Un'altra ragione poi mi
persuase che, anche ne' secoli bassi, in Milano e nella Lombardia si parlasse a
un dipresso il dialetto che il popolo tuttavia conserva; e ciò perché le
vocali u ed eu pronunziate coll'accento francese, e così
altre desinenze della lingua francese, non mi sembrano innesti fatti colla
dominazione dei Franchi, ma una emanazione dell'antica lingua gallica
originale, siccome disopra accennai. Gli Spagnuoli ne' due ultimi secoli
dominarono il Milanese, e appena tre o quattro parole spagnuole ci sono
restate, infado, amparo, giunta, desdita e poco più. I Longobardi
regnarono per più lungo tempo che i Franchi, e poche voci abbiamo che
traggano la sua origine dal tedesco. Questa generale pronunzia francese
più che italiana, adunque, è una tradizione da padre in figlio,
che ascende sino all'antica venuta de' Galli, e per conseguenza non interrotta.
In queste materie la dimostrazione non può sperarsi; le sole
probabilità ci determinano, ed esse mi sembrano favorevoli a questa
opinione. Un contadino del milanese potrà in breve tempo intendersela
con un contadino provenzale; e più difficilmente s'intenderanno fra di
loro due contadini, uno milanese e l'altro calabrese; tanto il nostro dialetto
appartiene più alla lingua di Francia che all'italiana!
L'architettura, il disegno, la pittura
non erano però avvilite al segno al quale lo erano le lettere. Oltre
l'atrio della chiesa di Sant'Ambrogio, ci rimangono di quei tempi l'altare
della chiesa istessa, i bassi rilievi del palio d'oro, il mosaico del coro e
Come potesse vivere il popolo in que'
tempi in mezzo a una tale ignoranza, fra i torbidi dei magnati del regno, sotto
il governo di sovrani che col veleno e cavare gli occhi cercavano di mantenersi
sul trono, in un regno elettivo, esposto a invasioni straniere, facile è
lo immaginarselo. Il visconte di Milano, che fra gli altri obblighi della sua
magistratura, aveva quello di patrocinare i pupilli e convalidare gli atti che
si facevano in loro nome, nell'876 non poté firmare una carta che anche
oggidì conservasi nell'archivio di Sant'Ambrogio, e vi fece in luogo del
suo nome una croce per non sapere esso scrivere; e di sedici persone che
intervennero a quel contratto, appena sette poterono fare il loro nome, e nove,
per non saper scrivere, vi apposero la croce[98].
Anche da ciò facilmente comprendiamo in quale misero stato dovessero
trovarsi gl'interessi de' cittadini. La carica di viceconte era
immediatamente subalterna del conte, che reggeva la città in nome
del re, come la carica di vicedomino era immediatamente subalterna
dell'arcivescovo, e il nome di queste dignità fu poi origine del cognome
che ne prese
Non credo che possa descriversi con
esattezza qual fosse la costituzione civile di Milano in quei tempi oscuri ne'
quali principiava a risorgere. Il governo passato della Polonia potrebbe darci
qualche idea del governo d'Italia in que' tempi. Un re elettivo; il primate,
che ha molta influenza in tutti gli affari; la plebe degradata sotto la potenza
dei grandi, divenuti formidabili al re; la facilità della rivoluzione;
la frequenza delle invasioni straniere; la concorrenza di più rivali che
coll'armi disputano il trono; la vera sovranità collocata nella dieta.
Queste sono le rassomiglianze che si ravvisano. Ma noi avevamo di più la
rozzezza dei tempi, ne' quali, mancando l'arte dello scrivere, e non essendovi
nomi di casati, nemmeno poteva esservi una costante tradizione di
nobiltà. Quindi, non solamente era difficile il modo per fare le risoluzioni,
ma era un altro oggetto di confusione il verificare chi fosse o non fosse
nobile, chi avesse o non avesse titolo per dare il voto; la quale controversia
in un tale sistema doveva portare la confusione all'ultimo grado. Carlo Magno
fu un gran principe, gran soldato, e col dritto di conquista, dominò
assolutamente sull'Italia. La politica gli suggerì di rendere sacra la
sua persona colle ecclesiastiche unzioni solenni, celebrate per il regno
d'Italia in Pavia, e per l'Impero in Roma. I successori di lui non ebbero un
vigore e un genio che lo pareggiasse. S'indebolì la potenza del sovrano;
e l'acclamazione de' magnati e la sacra cerimonia divennero condizioni pretese
essenziali alla costituzione di un sovrano. Quindi nacque la potenza dell'arcivescovo
di Milano, il quale, gettandosi ora da un partito ed ora dall'altro, riceveva
doni continui di terre e accresceva l'opinione, vera ed unica base del potere
politico, e giunse ad essere creduto il solo che colla incoronazione potesse
creare un legittimo re d'Italia. Come poi i re d'Italia potessero donare poderi
e terre così frequentemente all'arcivescovo, e ad altre chiese e
persone, essi, che per lo più da paese estero erano recentemente
chiamati a regnare; come fossero in poter dei re questi campi e queste terre,
onde ne facessero un dono della loro proprietà ai privati, non è
facile lo spiegarlo; ammeno che non si creda, siccome a me pare credibile, che
la successione fiscale alle eredità vacanti fosse allora
incomparabilmente più frequente che non lo è ai dì nostri;
per la ragione che, non essendovi cognomi delle famiglie, e pochi essendo
coloro che sapessero scrivere, sì tosto che un uomo non aveva figli o
fratelli o nipoti, facilmente non si conosceva più nessun parente a cui
dovesse passare l'eredità; e quindi cadeva come un fondo vacante nelle
mani del re. Questa potenza poi che s'andava ingrandendo nell'arcivescovo,
cagionò un inconveniente; e fu che i sovrani, laddove lasciavano in
origine la libertà dell'elezione al clero a norma de' sacri canoni e
della tradizione, non consentirono più che una dignità divenuta
pericolosa al loro regno cadesse indifferentemente sopra chiunque; ma anzi, ora
con modi indiretti, ed ora coll'aperto comando, costrinsero a riconoscere per
arcivescovo colui dal quale speravano di temer meno in avvenire, e che,
riconoscendo dal re la dignità, a lui fosse anco più ligio ed
ossequioso. Quindi si sconvolse l'ordine; la venalità aprì la
strada alla dignità ecclesiastica; fu di mestieri di venire a rimedi,
che gettarono poi, siccome vedremo, la nostra patria fra le stragi civili e fra
i torbidi dell'anarchia; e perdette la chiesa milanese interamente la sua
antica costituzione. Sotto Carlo Magno e sotto i primi suoi successori,
l'Italia fu immediatamente diretta da governatori in nome del sovrano, dei
quali alcuni ebbero il non dovuto titolo di re, come lo ebbe Pipino, figlio di
Carlo Magno, Bernardo, figlio di Pipino, e alcuni altri dei quali non ho fatta
menzione. Comandavano in Milano il conte, i messi regii, il visconte, l'arcivescovo,
chiamato anche dominus, il di lui vicario vicedominus, e
ciò a vicenda e confusamente, ora più, ora meno, a misura della
circostanza del momento.
Dello stato della popolazione nel
decimo secolo nulla abbiamo di preciso. Mi pare verosimile che dovesse essere
mediocremente popolata Milano. Le terre erano coltivate parte da servi e parte
da liberti, i quali chiamavansi aldiones. Molta parte del ducato era
bosco. In qualche luogo che ora si coltiva, forse ancora v'erano delle acque
stagnanti. Non credo che ancora si coltivasse il riso, ma varie sorta di grano
si coltivavano, e si coltivava anche il lino. Le terre, che prima si misuravano
a pedatura, già nel principio del nono secolo si misuravano a pertiche
e tavole, come oggidì si costuma; la misura del fieno era a fascio,
quella del vino a stajo ed a mina, nella misura delle terre
però eranvi juges, misura equivalente a dodici pertiche.
Il rito della chiesa milanese era
l'ambrosiano, come continua ad esserlo. Moltissimi cangiamenti vi si sono fatti
col passare dei secoli. Fu più volte per essere abolito, e una di queste
fu sotto Carlo Magno, che aveva preso concerto col papa di uniformare al rito
romano tutte le chiese de' suoi dominii: e perciò in Milano allora si
fece il possibile per ritirare tutti i libri ambrosiani. Certo Eugenio,
vescovo, non si sa di qual diocesi, ottenne per riverenza al santo institutore
che non venisse abolito[101].
Fra le mutazioni accadute nel rito ambrosiano, vi è in parte quella del
battesimo, che allora si eseguiva immergendo nel sacro fonte, non porzione del
capo soltanto, ma tutto il corpo del neofito; e perciò eranvi due
battisteri. Quello per le donne chiamavasi Santo Stefano alle Fonti, ed era
dove ora trovasi Santa Radegonda, ove stavano nel decimo secolo le vergini sacre
a Dio di Vigelinda, che assistevano alle fanciulle nel loro battesimo: massimamente
finché durò il costume di non conferire comunemente quel sacramento a'
bambini, ma a' fanciulli già dotati di qualche uso di ragione, come
insegna il conte Giulini[102].
L'altro battisterio chiamavasi San Giovanni alle fonti, destinato per gli
uomini; ed è tuttavia in piedi, sebbene mutato di forma. Ognuno
può ravvisarlo al capo della chiesa di San Gottardo, nella regia ducal
corte, ed è quel fabbricato poligono in cui sta riposto l'altar
maggiore; e quello è appunto l'antichissimo battisterio in cui
probabilmente sant'Agostino venne battezzato dal nostro santo vescovo Ambrogio[103].
Oltre la universale ignoranza di quei tempi si può avere un'idea della
religione, dalle prescrizioni che si fecero in un concilio tenutosi in Pavia
l'anno
(950). Già erano trascorsi
più di sessanta anni dacché l'Italia non aveva più connessione
alcuna co' regni di Francia né con quello di Germania, quando Berengario,
marchese d'Ivrea, ascese sul trono italico l'anno 950. Gli Italiani eleggevano
liberamente un re, e il papa lo incoronava imperatore. Frattanto nella Germania
erano succeduti a Carlo il Grosso Arnolfo di lui nipote, poi Lodovico, figlio
di Arnolfo, nel quale finì il sangue di Carlo Magno: a questo fu
sostituito Corrado I, conte di Franconia, indi Enrico I, duca di Sassonia, a
cui succedette Ottone, che già da quattordici anni regnava sulla
Germania, quando il marchese d'Ivrea fu incoronato in Pavia. Questi re di
Germania, sebbene non dimenticassero l'Italia, e pensassero a regnarvi
scacciandone quelli che la dominavano col titolo di re o d'imperatore, non
ebbero però né occasioni né mezzi per eseguirne il disegno. Già
si è veduto come il duca del Friuli, Berengario I, per opera
dell'arcivescovo Anselmo, ottenesse il regno d'Italia; poi da Giovanni X, sommo
pontefice, fosse incoronato imperatore. Si è pure veduto come i duchi di
Spoleti, Guido, poi il di lui figlio Lamberto, da Stefano V incoronati augusti,
regnassero interrotamente. Questi Italiani, innalzati al trono italico ed alla
dignità imperiale, dai Tedeschi vennero considerati come usurpatori, non
meno di quello che consideravano Rodolfo, Ugone e Lotario, Svizzeri e
Provenzali chiamati a regnare sull'Italia. Noi Italiani, all'opposto, non
abbiamo collocato nella serie degli augusti né Arnolfo né Luigi né Corrado né
Enrico, dagli Oltramontani inseriti nella cronologia degli imperatori; sebbene
non incoronati dal papa, e sebbene né Corrado né Enrico nei loro diplomi si
siano mai dato il titolo d'imperatori. Dal che nasce una confusione assai
feconda di equivoci, perché Enrico I, imperatore, dagli Oltramontani si chiama
Enrico II; e così i Tedeschi contano sette Enrici nella serie, dove noi
non ne annoveriamo che sei; e quindi le denominazioni oltramontane eccedono
d'una unità le nostre. Io, Italiano, debbo servirmi della cronologia
italiana, e ne prevengo i miei lettori, per non ripeterlo ogni volta; e credo
che sia ragionevole di non qualificare né Corrado né Enrico con un titolo che,
mentre erano in vita, non credettero essi medesimi fosse loro dovuto. Era
adunque asceso sul trono d'Italia il marchese d'Ivrea Berengario, e a questa
proclamazione sommamente aveva contribuito Manasse, da Berengario istesso
violentemente intruso nella sede arcivescovile. Fremevano i Milanesi al vederlo
sul trono, non solamente abborrendo la recentissima sceleraggine d'aver egli
avvelenato l'innocente giovinetto re Lotario, suo benefattore, e l'altra che
esercitava sull'infelice regina vedova Adelaide, ma in lui ravvisando un
ingiusto oppressore del loro legittimo arcivescovo Adelmano. È assai
probabile che da ciò fosse mosso Adelmano, e lo fossero i Milanesi, ad
invitare secretamente Ottone, re di Germania, a scacciare dal trono quel
pessimo uomo, e ad unire il regno d'Italia agli altri ch'ei già
possedeva. Ottone spedì a Milano cautamente il di lui figlio Litolfo per
concertare l'impresa, e ciò accadde appena un anno dopo che il marchese
d'Ivrea Berengario era re, cioè nel 951[105].
Venne Litolfo a Milano, e poco dopo scese il re Ottone nell'Italia. Con quali
aiuti poi si conciliasse l'arcivescovo Manasse il favore di quel re, non lo
sappiamo; ci rimangono però dei diplomi di Ottone spediti in Pavia
appunto nel 951, dai quali si conosce ch'egli aveva creato Manasse
arcicappellano[106].
(952) Pare che al comparire di Ottone si ecclissassero Berengario II e
Adalberto. Tutto piegossi al re Ottone, il quale, senza contrasto, in Pavia
assunse il titolo di re d'Italia; poi ritornato in Germania, dovettero
colà portarsi Berengario e Adalberto, abbandonandosi alla
generosità di Ottone, da cui a titolo di feudo vennero in Augusta, nel
952, investiti del regno d'Italia, e da ciò ne fa nascere il Muratori il
diritto che pretesero in seguito i re di Germania di avere sopra l'Italia.
Passati appena i torbidi giorni, e
liberati dall'imminente peso del re Ottone, Berengario col suo figlio
Adalberto, ritornati in Italia, dalla viltà passarono alla prepotenza;
solito costume delle anime basse, d'insultare quando la fortuna è loro
prospera, e annichilarsi quando è loro contraria. Il loro governo era
diventato insopportabile. Lo scisma della chiesa milanese era finito dopo
cinque anni, e
Da Milano passò a Roma Ottone,
che ben si merita il nome di Grande. L'arcivescovo Valperto lo
presentò al papa[109],
da cui venne incoronato augusto nel 962. Appena celebrata questa sacra
cerimonia se ne venne l'imperatore a Pavia; Berengario e Adalberto stavano
ricoverati nel forte castello di San Leone. Villa, donna crudele e degna moglie
di Berengario, erasi appiattata nell'isola di San Giulio sul lago d'Orta:
Ottone assediò l'isola, fece prigioniera la regina, e poi che l'ebbe, la
fece nobilmente scortare fino al castello di San Leone, e la lasciò al
marito. Due anni dopo si dovette rendere alle armi di Ottone Augusto anche San
Leone, e allora Berengario e la moglie furono relegati nella Germania. La
generosa e mite condotta del saggio augusto merita rispetto e lode. Egli
dovette in Roma usare del rigore. Volle esserne il padrone; né entrerò
io ad esaminarne i titoli. L'amor nazionale ha forse dettata al chiarissimo
Muratori la disapprovazione ch'ei ne fa. Io onoro quel gran maestro; ma nelle
azioni di Ottone vi è sempre un non so che di grande e di generoso che
le abbellisce; e s'egli voleva comandare agli uomini oltre i limiti, almeno
convien confessare ch'egli era degno di un tal comando. Sotto di lui la zecca
di Milano ha battuto moneta, ed io ne ho nella mia collezione. Il cronista
Sassone, pubblicato dall'Eccart, dice che Ottone: Mediolanenses subjugans,
monetam iis innovavit, qui nummi usque hodie Ottelini dicuntur[110].
Vi è chi ha opinato che la nuova moneta fosse di cuoio[111];
ma la moneta è di argento buono, simile a quello delle monete di Ugone e
di Lotario, scodellata come quelle, e perciò innovavit potrebbe
intendersi, o per avere posta in azione la zecca, o per averla collocata in
nuovo sito, e forse quello antichissimo che diede il nome alla vicina chiesa
Alla Moneta, dove quell'officina si è conservata per più di otto
secoli sino all'anno 1778. Nulla di più ci somministra la storia di
Milano sotto di Ottone I, che morì l'anno 973, né sotto il di lui figlio
Ottone II, che fu pure augusto e regnò sulle tracce del padre. Sotto due
regni attivi e rispettati, nulla poteva somministrarci la storia d'una
città la quale non influiva nel regno italico se non colla
sagacità dell'arcivescovo metropolitano; importantissima sotto un
monarca debole, e annullata sotto di un vigoroso. Durante la dominazione di
Ottone I e di Ottone II per lo spazio di ventidue anni, sino al 983, Milano
obbedì e rimase tranquilla. Morì Ottone II in Roma, e colla di
lui morte ritornò l'anarchia per quasi sei anni, ne' quali non si
riconobbe verun re, giacché il fanciullo Ottone III era il soggetto delle
dispute in Germania fra chi voleva essergli tutore, e gl'Italiani non
conoscevano loro sovrano se non quello che fosse stato incoronato re d'Italia
in Italia. Le carte di quell'epoca portano la data dell'incarnazione senza
nominare il sovrano, siccome era e fu per lungo tempo il costume. Venne in
Italia poi l'imperatrice Teofania correggente, e madre del giovine Ottone; il
quale, coll'opera di lei, fu riconosciuto per sovrano; poi venne in Roma
incoronato imperatore nel 996 da Brunone, ch'ei fece papa ed ebbe nome Gregorio
V. L'imperatore Ottone III, contenendo l'ambizione dell'arcivescovo,
soddisfaceva la di lui vanità, quando, nel 1001, lo destinò suo
ambasciatore all'imperial corte di Costantinopoli per ricercare agli augusti
Costantino e Basilio
Morto appena Ottone III,
frettolosamente si radunarono in Pavia alcuni signori italiani, e ventiquattro
giorni dopo la di lui morte, proclamarono re d'Italia Arduino, marchese
d'Ivrea; e tosto venne incoronato nella chiesa di San Michele in Pavia.
L'arcivescovo era assente per l'ambasciata, e quando ritornossene a Milano
portossegli incontro il nuovo re, e fece di tutto per renderselo amico[114].
Il regno degli Ottoni, vigoroso e assoluto, aveva mossi i magnati d'Italia a
crearsi un re debole ed italiano, sebbene d'una famiglia che non aveva dato che
re malvagi. Questo Arduino per dodici anni sostenne la contrastata figura di re
d'Italia, scacciato ogni volta che vennero i Tedeschi, e nel 1015
terminò la scena col farsi frate e morire. I Milanesi non erano contenti
di questo re Arduino, o perché eletto senza aspettare l'opera dell'arcivescovo,
ovvero per l'odiosa memoria di Berengario, marchese d'Ivrea, e questa memoria
non era lontana che di quarant'anni. L'arcivescovo era del partito di Enrico,
che era fatto re di Germania; ma cautamente si conduceva a seconda del tempo[115].
Venne Enrico nell'Italia nel 1004, e in Pavia fu incoronato re d'Italia, e da
noi chiamasi Enrico I; e Ditmaro c'insegna che venne in Milano il nuovo re, Sanctissimi
praesulis Ambrosii amore[116].
Tutte le carte che ci rimangono negli archivi, da quel giorno, portano il
nome di Enrico I re d'Italia; dal che vedesi che, sebbene Arduino, partito il
re Enrico, ripigliasse in gran parte il dominio d'Italia, Milano si mantenne
fedele ad Enrico. Enrico fu, nel 1014, incoronato imperatore dal sommo
pontefice Benedetto VIII, e cessò di vivere nel 1024. La memoria la
più importante che ci resta di lui, è la legge ch'ei
pubblicò nel 1021 per proibire ai sacerdoti il vivere colla moglie,
mosso a ciò da un concilio tenutosi a questo fine in Pavia[117].
Allora la chiesa ambrosiana non vietava le nozze al clero; ne vedremo in
seguito la crisi, che riuscì assai crudele. Il conte Giulini, seguendo
la traccia di altri autori, chiama questa costumanza concubinato, e i
sacerdoti ammogliati concubinarii: io credo che sia più
conveniente voce quella di matrimonio e di ammogliati; perché nel
nostro linguaggio comune, le prime parole significano una unione conosciuta
illegittima da quei medesimi che la contraggono, e le unioni credute legittime
chiamansi matrimoni anche fra gli ebrei e fra i pagani. Livia viene chiamata
moglie di Augusto; Ottavia, moglie di Nerone; Domitilla, moglie di Vespasiano,
e così diciamo di ogni unione d'uomo con donna, creduta e sostenuta e
dai contraenti e nella opinione della loro città per legittima. Il
celibato, a cui la Chiesa ha sublimato i ministri dell'altare, allora non era
così generalmente osservato. I sacerdoti milanesi, come nel rito,
così anche rispetto al celibato, si accostavano alla disciplina della
chiesa greca. Disputarono, come vedremo, per conservare questa facoltà
di ritenere
Quest'arcivescovo Ariberto merita un
luogo assai distinto nella Storia di Milano. Gli scrittori per lo più lo
nominano Heribertus; ma egli si sottoscriveva Aribertus, e
così lo chiama il conte Giulini, come io pure lo nominerò. Se
Ansperto arcivescovo ebbe idee tanto generose e grandi da restituire le mura
diroccate della patria e munirla di robusta difesa; opera degna d'un sovrano, e
che eccedeva le forze e la comune inspezione d'un sacro pastore; Ariberto
nacque a tempo per rianimare la patria, dargli colla sua indole ardita e grande
un risalto ed una considerazione che ella conservò dappoi. Se noi
risguardiamo questi due illustri cittadini come arcivescovi, certamente
dobbiamo confessare che essi non professarono quella dolce mansuetudine e quel
distacco dalle cose mondane che formano la base delle virtù di un
ecclesiastico: ma se gli risguardiamo come due cittadini ricchissimi,
costituiti in una eminente dignità, che, profittando delle occasioni,
sacrificarono le ricchezze, il riposo, e cimentarono valorosamente la vita per
la gloria e l'amore della patria, che ad essi debbe il suo risorgimento, siamo
costretti a ricordarli con una tenera venerazione. Ariberto era stato creato
arcivescovo nel 1018, e nel corso di ventisette anni ch'egli occupò
questa sede, Milano diventò la città precipua della Lombardia, e
in questo primato si mantenne poi sempre in appresso. Da Uraja ad Ariberto
passarono appunto i cinque secoli di depressione per Milano. Ariberto da
Antimiano era, nel 1007, suddiacono della santa chiesa milanese, cioè
cardinalis de ordine, dal che ne venne il vocabolo di ordinario, nome
che conservano tuttavia i canonici maggiori della metropolitana. Egli era
allora custode della chiesa di Galliano, che era capo di pieve in quel tempo.
Cinque anni dopo che fu fatto arcivescovo, eresse uno spedale pe' poveri al
luogo ove trovavansi, non ha guari, le monache Turchine, lo dotò di
molti e vasti poderi propri: de nostris proprietatibus, come egli dice,
e assegnò il fondo per mantenervi ad assisterlo e regolarlo dodici
monaci, i quali dovessero osservare la regola di san Benedetto[120].
Sanno gli eruditi che i monaci allora erano subordinati all'arcivescovo di
Milano, come ogni altro ecclesiastico[121],
e che i monasteri per lo più avevano uno spedale vicino, in cui dai
monaci si albergavano e nodrivano i poveri. Questo monastero era presso la
basilica di San Dionisio. Morto Enrico Augusto senza figli nella Germania,
fugli eletto per successore Corrado il Salico, duca di Franconia. I signori
italiani, invitati, non comparvero in Germania, ma si radunarono in Pavia per
passare alla elezione d'un re. Era tanto combattuta la dignità reale
nell'Italia, che non potevansi mantenere senza una incessante forza; e
perciò il re di Francia Roberto, il duca d'Aquitania Guglielmo, e
qualche altro principe, cui venne offerta la corona italica, non vollero
accettarla. Era il regno nuovamente nello stato di anarchia, quando
l'arcivescovo Ariberto: Suorum comparium declinans Heribertus consortium,
invitis illis, ac repugnantibus adiit Germaniam, solus ipse regem electurus
teutonicum, così ce lo rappresenta Arnolfo, nostro milanese,
scrittore di quel secolo[122];
dal che vedesi abbastanza il carattere deciso e intraprendente di Ariberto, che
non si curava dei pari; e posto che doveva avere un re da riconoscere per suo
sovrano, voleva averlo ei solo in qualche modo trascelto, e che a lui dovesse
la sua corona. Wippone, cappellano del re Corrado scrive questo arrivo
dell'arcivescovo in Costanza, ove trovavasi il re Corrado, al quale dice che
Ariberto, promise che, tosto che fosse venuto in Italia, l'avrebbe acclamato e
incoronato re: Ipse eum reciperet, et cum omnibus suis ad dominum et regem
publice laudaret, statimque coronaret;[123]
il che gli promise con giuramento e col pegno di ostaggi. Questo produsse che
il nuovo re concedette all'arcivescovo: Praeter dona quamplurima, Laudensem
episcopatum; ut sicut consacraverat, similiter investiret episcopum[124];
e con ciò oltre il dritto, che era del metropolitano, di consacrare
il vescovo suffraganeo, venne donato ad Ariberto il dritto di investitura,
ossia di collocare al possesso della dignità e dei beni il nuovo
vescovo: dritto che in que' tempi pretendevasi dal sovrano, non come un
semplice placet, ma come una investitura, la quale cagionò
poi gravi sconcerti e guerre fatali fra il sacerdozio e l'Impero. Forse questo
dono fatto al nostro arcivescovo, che in qualche modo gli dava la
sovranità sopra di Lodi, fu cagione funesta dell'abuso che i Milanesi
fecero della loro potenza ad esterminio de' Lodigiani, da che ne vennero fatali
conseguenze per noi medesimi. Che che ne sia, l'arcivescovo, al dire del citato
Arnolfo, rediens securus in omnibus, totam suis legationibus evertit
Italiam, alios re, alios spe benevolos faciens[125].
Tale era il carattere di quell'uomo, fatto o per rovinare, o per innalzare
se stesso. Ariberto incoronò in
(1028). Un fatto accaduto circa questo
tempo, cioè nel 1028, merita di essere riferito; perché ci dà
idea de' tempi e del carattere di Ariberto. S'era sparsa voce che nel castello
di Monforte, nella diocesi di Asti, vi fosse celata una nuova setta di eretici.
Glabro dice che questa eresia approvava i riti de' pagani e de' giudei[128],
quasi che fossero componibili i due riti dell'unità di Dio e del
politeismo, della detestazione e del culto degli idoli. Landolfo il Vecchio
dice che, interrogati questi eretici, rispondevano di essere pronti ad ogni
patimento; che amavano la virginità, e vivevano castamente sino colle
loro mogli; non mangiavano mai carne; digiunavano, e si distribuivano le orazioni
in guisa che nessuna ora del giorno vi fosse in cui non offrissero a Dio le
loro preghiere; che avevano i loro beni in comune; credevano nel Padre, nel
Figliuolo e nello Spirito Santo; tenevano che vi fosse una podestà in
terra di legare e di sciogliere; e riverivano i libri del nuovo e del vecchio
Testamento, i sacri canoni. Così essi professavano la loro fede[129].
Molti marchesi e vescovi e signori erano comparsi colle armi, per sottomettere
quel castello di Monforte, ma inutilmente. L'arcivescovo Ariberto, girando, per
la sua giurisdizione, sulle diocesi de' vescovi suoi suffraganei, scortato da
militi valorosissimi[130],
sebbene ascoltasse da Gaiardo, uno de' pretesi eretici, la professione di fede
nella maniera che ho detto, credette di penetrare la malignità di quelle
espressioni. Si posero loro in bocca molti sentimenti eterodossi sopra i santi
misteri della Trinità e della Incarnazione; e si volle che, fra gli
altri errori, coloro credessero che il matrimonio fosse cosa riprovabile, e che
anche senza veruna opera di uomo sarebbero nati i fanciulli e continuato il
genere umano. Ogni lettore che preferisca la verità alla opinione,
giudichi se sia mai possibile che un ceto di uomini adotti e professi una tale
dottrina! Certo è però che gli abitatori del castello di Monforte
vennero in buon numero presi dai militi dell'arcivescovo, e tradotti a Milano
insieme colla contessa di Monforte, signora del castello; e l'arcivescovo
tentò di convertirli col mezzo di ecclesiastiche e pie persone, ma
ciò non riuscendo, i primati della nostra città, temendo,
dice il conte Giulini[131]
che non si spargesse più largamente il veleno, alzata da una parte
una croce e dall'altra acceso un gran fuoco fecero venire tutti gli eretici, e
loro proposero l'inevitabil partito, o di gettarsi a pié della croce, e
confessando i loro errori, abbracciare la dottrina cattolica, o di gettarsi
nelle fiamme. Ne seguì che alcuni si appigliarono al primo progetto; ma
gli altri, ch'erano la maggior parte, copertisi il volto colle mani, corsero
nel fuoco da cui furono miseramente consumati; al che aggiunge Landolfo il
Vecchio, che un tal fatto accadesse per volere dei primati, Heriberto
nolente.[132]
In quei tempi il glorioso nostro sant'Ambrogio non si dipingeva punto in atto
feroce con uno staffile nella mano; né si credeva che avesse contrastato al
sovrano, né perseguitato gli eretici seguaci di Ario. Si sapeva che il santo
vescovo aveva pazientemente sofferta la persecuzione del principe; e aveva tollerati
con carità e mansuetudine i suoi fratelli, che traviavano nella fede; e
a Dio, padrone di tutto, supplice offeriva le sue preghiere, acciocché
misericordiosamente gli richiamasse alla strada della vita, senza adoperare
egli altre armi o suggestioni, che la parola che persuade, l'esempio che
persuade ancor più, e la fraterna compassionevole affezione, colla quale
si distinse quel beato nostro pastore. L'orgogliosa ambizione di sovraneggiare
persino le idee, coprendosi col manto d'un religioso zelo, ha introdotta la
persecuzione, la violenza, i roghi, i quali non hanno distrutto giammai il
fanatismo, ma attizzandolo anzi, l'hanno alimentato, e resi irreconciliabili
gli eterodossi. L'umanità, la dolce insinuazione, la pazienza disarmano
gli avversari, e li chiamano a venerare il vero Dio, con mansuetudine, con
pace, colla benevolenza e coll'esercizio della virtù. Io mi sono
prefisso di non considerare Ariberto come arcivescovo. Come uomo pubblico,
cittadino, soldato politico, egli ha saputo rendersi padrone di quella
ròcca, il che in vano altri aveva tentato; e il suo cuore ricusò
di approvare l'atto ingiusto e crudele del supplizio. Vi è molto anche
da dubitare se veramente quegl'infelici fossero in errore nel dogma. Mi pare
incredibile l'errore di fisica sulla generazione. Mi sembra assurdo l'altro
errore, loro imputato, cioè che fosse loro opinione dannarsi ciascuno se
non moriva fra i tormenti. Ripugna poi affatto al buon senso il costume che
volevasi loro attribuire, cioè che violentemente uccidessero i loro
confratelli allorché gravemente erano ammalati. Se ci fosse rimasto qualche
scritto in cui alcuno di questi infelici avesse rappresentata la causa propria,
saremmo un po' meglio informati della verità. Forse erano costoro
cristiani più pii e segregati dalla depravazione generale, e per
ciò perseguitati. San Pietro Damiano, che viveva in quel secolo,
così scriveva: ad tantam faecem quotidie semitipso deterior mundus
devolvitur, ut non solum cujuslibet sive saecularis sive ecclesiasticae
conditionis ordo a statu suo collapsus jaceat, sed etiam ipsa monastica
disciplina, solo tenus, ut ita dixerim, reclinata, ab assueta illa altitudinis
suae perfectione languescat. Periit pudor, honestas evanuit, religio cecidit,
et veluti facto agmine, omnium sanctarum virtutum turba procul abscessit[133].
Così quel santo descriveva i costumi di que' tempi infelici. Il
supplizio adunque de' nominati abitatori di Monforte fu certamente atroce e
poco cristiano; l'errore se vi fosse, è cosa dubbia. Così
leggiamo che dai pagani si trattassero i màrtiri; ma così non si
legge che gli apostoli dilatassero la santa e mansueta religione di Cristo.
Questa però è la prima memoria e la più antica di
persecuzioni e patiboli adoperati da' cristiani per causa di religione; e mi
dispiace che questo primo esempio, che ne' secoli posteriori è stato
seguìto da tanti altri funesti, sia stato dato in Milano l'anno 1028.
Frattanto che l'imperatore Corrado
dimorava lontano dall'Italia, la potenza d'Ariberto andava ogni dì
crescendo, e la città si avvezzava sempre più a considerare
l'arcivescovo come il capo della Repubblica. A tanto giunse il potere
d'Ariberto, che, unitosi con Bonifacio, marchese di Toscana, formarono un
esercito, e, sormontato il gran San Bernardo, si portarono in vicinanza del
Rodano ad unirsi all'armata dell'imperatore Corrado, che pretendeva il regno
della Borgogna, occupato da Odone, duca di Sciampagna. Wippo attesta il luogo
in cui quest'aiuto venne ad unirsi all'imperatore, e i nemici furono sconfitti
rimanendo il regno a Corrado; di che ne fa una menzione distinta lo storico
nostro Arnolfo[134].
Poi, ritornato Ariberto alla patria, sempre più militare ed animoso,
avvenne che un buon numero di militi milanesi, malcontenti di lui, cercarono il
modo di contenerlo; e, memori della violenza usata da Ariberto contro i
Lodigiani, passarono a Lodi, ed eccitarono quanti più poterono a
prendere le armi e seco loro unirsi per fiaccare la potenza di lui. Ariberto
andò incontro a costoro, avendo fra i suoi anche altri vescovi
suffraganei. Seguì una zuffa assai ostinata, e il partito
dell'arcivescovo rimase con poco vantaggio, e fra gli altri uccisi si
annoverò il vescovo di Asti, suo suffraganeo, che rimase sul campo[135].
Venne poi l'imperator Corrado in Italia nel 1037; e si portò a Milano.
Cosa veramente gli accadesse non lo sappiamo; si parla dagli autori di
inquietudine sofferta, di tumulto popolare. Quanto sappiam di certo si è
che quell'augusto ben tosto portossi a Pavia, dove l'arcivescovo Ariberto lo
raggiunse. Ma, sia che quell'augusto avesse attribuito ad Ariberto la poca
sicurezza ritrovata in Milano, sia che l'arcivescovo usasse di un tuono poco
rispettoso e sommesso, la storia c'insegna che Ariberto ivi fu arrestato, e sotto
buona scorta trasportato a Piacenza prigioniero. Io non trovo difficiltà
a credere che realmente Ariberto non fosse contento che in Milano soggiornasse
un uomo maggiore di lui; che egli indirettamente potesse aver fomentata la
licenza del popolo per farne partire l'imperatore; e che, confidando
sull'autorità che possedeva, o sulla illusione del principe, si
presentasse a lui a Pavia con sicurezza. A custodire il prigioniero Ariberto
l'imperatore aveva destinati i suoi più fidi, ai quali l'arcivescovo
offrì una lauta cena, abbondante singolarmente di scelti vini. I custodi
cedettero alla ghiottoneria, e la secondarono sino alla ubbriachezza; e questo
era appunto lo stato al quale aveva pensato di ridurli l'arcivescovo per
sottrarsi, come fece, alla loro custodia. Così egli ricuperò la
sua libertà, e cautamente portossi a Milano, accolto dalla città
con somma allegrezza. Poiché Corrado intese il fatto, si mosse, e alla testa
de' suoi s'accostò a Milano per farne l'assedio, ad oggetto
singolarmente di riavere l'arcivescovo in suo potere; ma i tempi erano assai
cambiati. Milano non era più la città spopolata, distrutta e
languente; era maxima multitudine munita,[136]
come ci attesta Wippo; e i Milanesi gli andarono incontro, e più volte
si azzuffarono con gl'imperiali. Tutti i tentativi dell'imperatore riuscirono
vani; ei poté devastare i campi e le ville: ma dovette abbandonare il pensiero
di avere Milano. La collera dell'imperatore scelse allora un'altra specie di
guerra. Pensò egli di deporre l'arcivescovo Ariberto, e nominò
Ambrogio prete, cardinale della santa chiesa milanese, in sua vece: forse
credendo che alla città medesima, stanca per avventura della dominazione
di Ariberto, piacer dovesse la nuova scelta; ma nessuno de' cittadini da questa
novità fu commosso[137].
Vedendo riuscir vano il colpo, un altro ne rimaneva da provare, ed era di
animare il sommo pontefice contro dell'arcivescovo; e Corrado perciò
portossi a Roma, e indusse Benedetto XI a scomunicare Ariberto: ma nemmeno
perciò l'arcivescovo cambiò punto pensiero o sistema[138],
e quindi Corrado il Salico abbandonò l'Italia, e nella Germania poco
dopo cessò di vivere nel 1039.
Rimase così quasi sovrano
Ariberto alla testa della sua città. Enrico, figlio di Corrado, era
stato proclamato re di Germania. Ho accennato che, dopo l'infeudazione fatta da
Ottone in Berengario e Adalberto, i re di Germania credevano che l'Italia fosse
una parte della loro corona; e gl'Italiani diversamente credevano che il loro
fosse un regno distinto, e che non si acquistasse se non colla proclamazione e
incoronazione in Italia. Prima che non seguisse la incoronazione, le carte
milanesi non facevano menzione alcuna del re. Il re Enrico fu poi imperatore, e
fu il secondo che ne assumesse il titolo, e da noi perciò chiamasi Enrico
II, sebbene gli oltramontani lo chiamino III. Enrico era lontano; e
l'impazienza del carattere facendo sembrare noioso il tempo della
tranquillità, disgraziatamente animò i Milanesi ad una guerra
civile fra i nobili e
L'arcivescovo Ariberto, le di cui armi
portarono la vittoria oltre le Alpi, e seppero fare insuperabile resistenza
all'imperatore, fu quello che inventò l'uso di condurre nell'armata il carroccio,
nome conosciutissimo, sebbene poco ne sia conosciuto l'oggetto. I nostri
scrittori ci rappresentano questo carroccio come una superstizione, ovvero come
una barbara insegna. Io credo che piuttosto debba riguardarsi come una
invenzione militare assai giudiziosa, posta la maniera di combattere di que'
tempi. Nel tempo in cui dura un'azione, egli è sommamente importante il
sapere dove si trovi il comandante, acciocché colla maggior prestezza a lui si
possa riferire ogni avvenimento parziale; egli è parimenti
opportunissimo il sapere dove precisamente si trovino i chirurgi, per ivi
trasportare i feriti; parimenti è necessario che il sito in cui trovasi
il comandante, e in cui si radunano i feriti, sia conosciuto da ognuno,
acciocché si abbia una cura speciale di accorrere a difenderlo. Questo sito
deve essere mobile a misura degli avvenimenti, e a tutti questi oggetti serviva
il carroccio, ch'era un'assai eminente antenna, alla sommità della quale
stava un globo dorato assai lucido e distinguibile: sotto il quale pendevano
due lunghe bandiere bianche, e al mezzo dell'albero stavavi una croce. Avanti a
quest'antenna eravi l'altare sul quale celebravansi i sacri misteri per
l'armata; e tutto ciò era conficcato sopra di un carro assai vasto e
sicuro, per servir di base a questo enorme vessillo, e trasportarlo. Un gran
numero di bestie si adoperava per moverlo. Non è punto inverosimile il
credere che su di quel carro o carroccio si ponesse la cassa militare, la
spezieria e quanto più importava di avere in salvo e pronto uso. Nemmeno
sarebbe inverosimile il dire che con varii segnali da quell'altissimo stendardo
si dessero gli ordini per un mezzo prontissimo, come si costuma anche ora nella
guerra di mare. Terminata la guerra, si riponeva il carroccio nella chiesa
maggiore, come cosa sacra e veneranda; e così anche l'opinione religiosa
contribuiva a fare accorrere alla di lui preziosa custodia i combattenti. Pare
adunque che il comandante o rimanesse vicino al carroccio, o ivi almeno
lasciasse l'indizio del sito a cui si volgeva, per subito rinvenirlo; che
vicino al carroccio si portassero i feriti, sicuri di trovare ivi ogni
soccorso, lontani da ogni pericolo; che dal carroccio si diramassero gli ordini
per mezzo di segnali con somma rapidità; che ivi si custodisse quello
che eravi di prezioso; e che gli occhi de' combattenti, di tempo in tempo
rivolti a quel vessillo, conoscessero quali azioni ad essi comandava il
generale, e quale fosse il luogo più importante di ogni altro da
custodirsi. Nella maniera di guerreggiare dei tempi nostri riuscirebbe inutile
una tal macchina, ben presto rovesciata dall'artiglieria, che ridurrebbe quel
contorno più d'ogni altro pericoloso; il fumo impedirebbe spesse volte
che quello stendardo fosse visibile: ma prima dell'invenzione della polvere, il
carroccio inventato da Ariberto certamente fu con accortezza immaginato; e
perciò anche le altre città della Lombardia, quando, coll'esempio
de' Milanesi, acquistarono l'indipendenza e si ressero col loro municipale
governo, adottarono ciascheduna il proprio gran vessillo, ossia carroccio.
Così facilmente intendiamo come la perdita del carroccio fosse un
avvenimento che funestasse una città; non già per un'idea di
Palladio, o per una vana opinione d'onore soltanto; ma perché la perdita del
carroccio era prova di una totale sconfitta, al segno di non aver potuto
preservare quello spazio che sommamente era cura di ciascuno il difendere.
La riconciliazione fra i nobili e i
plebei era stata momentanea; e durava tutt'ora, come dappoi continuò, lo
spirito di partito. Acciocché il governo degli ottimati sia fermo, conviene che
la costituzione ponga una distanza grande fra il ceto dei pochi, presso i quali
sta il comando, e il vasto ceto di quelli che sono destinati alla passiva
obbedienza. La loro persona deve comparire al popolo sacra e veneranda; ma
conviene che ciascuno ottimate, al deporre che fa la toga e la pubblica
persona, diventi popolare; e così la plebe ama i padroni, e riceve come
un beneficio que' momenti ne' quali discendono con lei i magnati. Niente di
questo eravi nella informe costituzione nascente di Milano. L'autorità
de' magnati non aveva l'augusto appoggio delle leggi, e il loro costume,
violento e duro, insultava il popolo, e lo indisponeva ad obbedire ad
un'autorità incautamente adoperata. Morto appena il grande Ariberto si
rinnovarono i partiti, e cominciò la plebe a pretendere di avere essa
pure influenza nell'elezione dell'arcivescovo, dignità diventata assai
più politica che spirituale[140].
Non fu possibile di terminare la controversia fra di noi; l'ostinazione era
insuperabile, e quindi fu risoluto di ricorrere al re Enrico, e lasciare a lui
la nomina del nuovo arcivescovo. Vennero adunque presentati al re i nomi di
quattro cardinali della santa chiesa milanese, acciocché ne facesse
Il re Enrico venne in Italia; portossi
a Roma; depose varii che si dicevano sommi pontefici; e fece eleggere dal clero
o dal popolo Svidger, sassone, ch'egli aveva al suo seguito condotto a Roma.
Nel giorno medesimo in cui Enrico fece incoronare papa Svidger col nome di
Clemente II, Clemente II incoronò imperatore Enrico. Così quel
sovrano, coll'assoluta sua autorità, eleggeva il papa e l'arcivescovo, e
aveva annientato il potere de' sacri canoni e la libertà
dell'ecclesiastiche elezioni. Da ciò nacquero le discordie, che durarono
per secoli, a separare i cristiani in due partiti, gli uni a favore della
sovranità, gli altri a favore della libertà ecclesiastica; e se
questo furore di partito finalmente nella vita civile è tolto, ne rimane
però sempre qualche seme, almeno presso degli scrittori che ne
raccontano
Per ora ci può servire, per
avere idea del governo della città in quei tempi, un passo del Fiamma,
che così c'insegna: Insuper archiepiscopus mediolanensis quosdam
alios maximos redditus imperiali auctoritate recipiebat; quia super stratas
regales, in exitu quolibet de comitatu, habuit teloneum, et dum intrabat
aliquis extraneus in equo vel cum curru, aut pedibus, dabat telonario
archiepiscopi, immo innumerabilibus telonarii scensum, et archiepiscopus
tenebatur custodiri facere passus, et omnibus damnificatis intra territorium
restituere de suo tantum quantum damna fuissent aestimata.[142]
Da queste parole molte cognizioni si ricavano. Primieramente il sovrano
è sempre stato considerato il re d'Italia o l'imperatore, e da lui, o
per tacita o per espressa concessione, doveva provenire ogni diritto pubblico
per essere considerato legittimo. L'arcivescovo realmente non è stato
mai sovrano di Milano, e mi sembra una favola evidente la pretesa donazione che
si asserisce fatta dal re Lotario nel 949 della zecca di Milano
all'arcivescovo; giacché due anni dopo quest'epoca le monete di Milano
portarono il nome di Ottone, e dipoi degli Enrici, dei Federici, dei Lodovici,
indi dei Visconti e degli Sforza, non mai ebbero il nome di verun arcivescovo
trattone quello dell'arcivescovo Giovanni Visconti, che fu successore di
Lucchino nella signoria di Milano, e che la dominò per titolo ereditario
di sua famiglia, e non per la dignità ecclesiastica. Questa supposta
donazione della zecca ha per appoggio una bolla di Alessandro III sommo
pontefice, il quale poteva essersi ingannato nel suo fatto, e nella quale si
considera come legittimo arcivescovo Manasse, sebbene tale non fosse. Questa
bolla fors'anco è stata composta ne' tempi posteriori per altri fini,
senza che il papa l'abbia spedita giammai. L'arcivescovo adunque riscuoteva per
concessione del sovrano il tributo, e doveva l'arcivescovo istesso tenere
difeso il contado, e risarcire del proprio i danni secondo la stima che ne
venisse fatta. Il sistema fu introdotto dall'imperatore Ottone. Sappiamo che il
tributo s'impone per supplire ai mezzi della difesa dello Stato. È
strano il sistema che il sovrano confidi al pubblicano medesimo la cura della
difesa: ma la sovranità elettiva d'un monarca per lo più lontano,
in tempi ne' quali non si tenevano milizie stabilmente assoldate, poteva
renderne il progetto spediente. Dovevano temersi le scorrerie degli Ungheri, e
da essi forse avevano anche imparato i vicini a depredare. Non era sicuro il
contadino di raccogliere e conservare la mèsse del suo campo. I Pavesi,
Lodigiani, Novaresi e i Comaschi venivano furtivamente a predare i Milanesi; e
questi altretanto facevano fuori de' confini. Non v'era giudice che avesse
una giurisdizione estesa per punire il delitto commesso da un uomo che abitava
fuori di contado. Perciò ogni distretto doveva essere custodito, e
questa custodia era confidata all'arcivescovo, personaggio il più
facoltoso e autorevole della città, ma non però l'arbitro di
essa; poiché v'erano i messi ed i giudici regii, che potevano e dovevano
condannare l'arcivescovo al rinfacimento, tosto che per negligenza di lui gli
estranei avessero portato danno a un Milanese. L'autorità dei
conti, che in origine comandavano la città in nome del sovrano, si
andava indebolendo ogni anno. La potenza dell'arcivescovo non era dunque
illimitata, anzi avendo preteso i fratelli dell'arcivescovo Landolfo, præ
solito, civitatis abuti dominio[143],
venne scacciato per questa insolita pretenzione l'arcivescovo dalla
città, la quale, tempore Ottonis imperatoris primi, Bonizio......
virtute ab imperatore accepta, velut dux castrum procurando regebat.[144]
Alcune usanze ed opinioni di quel
secolo meritano di essere ricordate. Continuava l'usanza, siccome ho detto, di
considerare alcuni uomini come servi: a questi si tagliavano i capelli, e
quando volevansi manomettere, era costume di presentare il servo a un
sacerdote, che lo faceva passeggiare in giro intorno dell'altare, e, dopo una
tal cerimonia, l'uomo era considerato libero. Per fare un atto solenne di
donazione il costume esigeva che si adoperasse un coltello e un bastone nodoso,
un ramo d'albero, ovvero un pampino di vite. Qualche altra volta si adoperava
per tale atto un'altra cerimonia, ed era di porre sulla terra la carta e il
calamaio, e il donante li prendeva dal suolo e li poneva nelle mani del notaio,
pregandolo a scrivere la donazione e autenticarla. Il lardo era molto in uso
presso
Hercules vidi, del qual si ragiona
Che, fin che'l giacerà come fa
ora,
L'Imperio non potrà forzar
persona.
Avevamo la sede vescovile marmorea nel
coro, sulla quale ponendosi a sedere le donne incinte, credevano di non poter
più correre alcun rischio nel parto. In terzo luogo si credeva che quel
serpente di bronzo collocato sulla colonna dal buon arcivescovo Arnolfo, qual
prezioso dono de' Greci, avesse la virtù di guarire i bambini dai vermi.
Si credeva molto alle streghe, e si opinava ch'esse nulla potessero operare
nelle case avanti le quali passavano le processioni delle Rogazioni; le quali
sono assai antiche presso di noi. Quando le campagne avevano bisogno della
pioggia si poneva una gran caldaia a fuoco in sito aperto; e vi si facevano
bollire legumi, carni salate ed altri commestibili; poi si mangiava e
spruzzavansi di acqua i circostanti. Nella vigilia del Santo Natale si faceva
ardere un ceppo ornato di frondi e di mele, spargendovi sopra tre volte vino e
ginepro; e intorno vi stava tutta la famiglia in festa. Questa usanza durava
ancora nel secolo decimoquinto, e
Non v'è ai nostri giorni alcun
giudice, per corrotto e meschino ch'egli si sia, che sfrontatamente ardisca di
raccontare di avere venduta
La rivoluzione di cui sono per trattare
in questo capitolo, ha cagionato più di trenta anni di fazioni nella
nostra città. Stragi, incendii, odii, scandali, risse, questa è
la scena che ci si apre davanti. Vorrei cancellare dalla storia la memoria di
que' tristi avvenimenti; ma essi influirono sopra i posteriori, e furono troppo
lunghi ed importanti. Costretto a riferirli, io lo farò più colle
parole altrui, che colle mie. La libertà ecclesiastica era stata
depressa all'estremo dall'imperatore Enrico II, come già accennai. Il
pontificato istesso di Roma già da una serie di anni era abbassato
all'ultimo segno. Romano, console, duca e senatore di Roma, a forza di denaro
si era fatto eleggere sommo pontefice col nome di Giovanni XIX nel 1024.
Teofilato, di lui nipote, fanciullo ancora e appena cherico, a forza pure di
denaro speso da' suoi parenti, gli succedette col nome di Benedetto IX. La vita
libertina, le rapine, le crudeltà che esercitava, indussero i Romani a
scacciarlo. L'imperatore Corrado, colle sue armi, lo collocò di nuovo
sulla sua sede; ivi però, circondato dalla detestazione pubblica ben
meritata, vendette il sommo ponteficato a prezzo d'oro all'arciprete Giovanni
Graziano, che fu Gregorio VI. L'imperatore Enrico II, successor di Corrado,
volle che Gregorio VI fosse deposto in un concilio a Sutri. Poi costrinse i
Romani a riconoscere per sommo pontefice Svidger, vescovo di Bamberga, ch'egli
aveva dalla Germania condotto in seguito, e si chiamò Clemente II. Morto
questo, l'imperatore Enrico elesse a sommo pontefice Poppone, vescovo di
Brixen, e lo spedì a Roma, dove ebbe nome Damaso II; a cui l'imperatore
stesso in Worms destinò per successore Brunone di Egesheim, che fu in
Roma chiamato Leone IX. Gli fu successore Geberardo, vescovo di Eichstat,
scelto in Magonza, il quale in Roma si chiamò Vittore II. Così si
facevano allora le elezioni. Ildebrando, nato nella Toscana, monaco in Roma,
poi cardinale, viveva in que' tempi. Dotato di somma accortezza e di quella
energia d'animo che caratterizza gli uomini grandi, fermo ne' suoi principii,
audace, cautamente violento, fremeva nel mirare rovesciata la disciplina
ecclesiastica, calpestata l'antica libertà delle elezioni canoniche,
soggiogata l'Italia da continue invasioni, umiliata Roma all'obbedienza, e
collocati sulle sedi vescovili uomini talvolta i più vili e i più
indegni d'occupare quel sacro luogo. Ildebrando era nato a tempo, poiché il
disordine era al colmo. L'evidenza de' mali pubblici, cresciuti a un dato
segno, dispone gli uomini a desiderare e seguire una mente superiore riscaldata
per una rivoluzione. In ogni altro tempo più placido l'inerzia prevale;
e il vigoroso entusiasmo sbalordisce e dispiace. La stima de' Romani l'aveva
innalzato a tale ascendente, che Vittore II era pienamente governato da lui;
ch'egli creò, si può dire, Alessandro II; e che erano già
quasi vent'anni ch'ei dirigeva il sommo pontificato quando vi ascese col nome
di Gregorio VII, nome che ei rese famoso nella storia. Egli si propose di
assoggettare alla chiesa romana la milanese; di rendere il papato potente colla
soggezione de' vescovi, e così opporre alla forza dell'Impero la forza
ecclesiastica riunita: mezzo che forse era il solo per allontanare la simonia nelle
elezioni, e restituire alla Chiesa pastori degni dell'apostolato. La chiesa
milanese era la più importante di ogni altra, per il numero grande delle
chiese da essa dipendenti, per l'opinione antica, per la venerazione del suo
rito e per l'influenza che aveva l'arcivescovo nella elezione del re d'Italia.
In fatti vedremo con quanta ostinazione Ildebrando abbia seguitato il suo piano
senza mutare giammai consiglio, malgrado le gravissime difficoltà che vi
si frapposero.
(1056). Nell'anno 1056 era morto
l'imperatore Enrico II, e restava collocato sul trono imperiale un bambino di
sei anni, Enrico III, in mezzo alle turbolenze della Germania, sotto la tutela
dell'imperatrice Agnese, di lui madre. Durante una lunga serie di anni l'Italia
rimase come se non vi fosse un re, ed era libero il campo ai maneggi
d'Ildebrando. Cominciarono essi appunto in quell'anno
Quand'anche io credessi migliore la
disciplina ecclesiastica che permette le nozze ai sacerdoti, dell'altra che
impone loro l'obbligo del celibato, io tacerei per riverenza verso della
Chiesa, che ha stabilito generalmente il secondo. Ma tutto bene esaminato,
parmi che il celibato sia lo stato più conveniente ed opportuno agli
ecclesiastici; perché meno legami gli attaccano alle brighe della
società; più imparziali e liberi conservansi nell'esercizio del
santo loro ministero; più tranquillità loro rimane per occuparsi
negli studi sacri; minori ostacoli hanno d'intorno, e possono interamente consacrarsi
al bene degli uomini; i beneficii ecclesiastici possono essere ripartiti ai
poveri, senza che i sentimenti della natura verso i figli allontanino il
beneficiato dal distribuirli; finalmente i figli degli ecclesiastici, che
vivono co' beni della Chiesa, contraggono con una eduzione civile i bisogni ai
quali totalmente viene a mancare la base colla morte del padre, e corre
pericolo la società di avere pessimi cittadini, a meno che le cariche
ecclesiastiche non diventassero feudi transitorii ne' figli. Quest'ammasso di
ragioni mi persuaderebbe in favore del celibato, per i pochi cittadini
trascelti per servire al ministero dell'altare, anche allor quando si
disputasse se convenga non ammettere se non uomini che siano determinati a
questo genere di vita giudicato più perfetto, e più dal popolo
riverito. Ma questo non mi induce però a chiamare i sacerdoti della
chiesa milanese di que' tempi concubinari, siccome in questi ultimi
tempi sogliono fare alcuni; poiché essi né difendevano il concubinato, né
generalmente erano accusati di questo; e nemmeno li chiamerò incontinenti,
eretici, scismatici, nicolaiti, voci adoperate per un male inteso zelo,
poiché nessun rimprovero venne loro fatto sul loro dogma. La questione è
stata unicamente per la disciplina del celibato, che da noi non si credeva una
condizione essenziale per il sacerdozio. Posto così lo stato della
questione nel suo vero aspetto, vediamo ora per quai mezzi Ildebrando abbia
incominciata in Milano la rivoluzione che si era prefissa.
Già nell'anno 1021, siccome
dissi, erasi da Benedetto VIII, nel concilio di Pavia, coll'autorità
anche del re Enrico, fatta la legge che obbligava al celibato i sacerdoti.
Anselmo da Baggio, ordinario cardinale della santa chiesa milanese, uomo di
merito e di nascita distinta, e che godeva in Milano, sua patria, moltissima
considerazione, fu il primo che cominciasse da noi a disapprovare il matrimonio
degli ecclesiastici[169].
Sappiamo che gli ecclesiastici erano del partito de' nobili, e nobili essi
medesimi comunemente. I discorsi di Anselmo stavano per cagionare dei torbidi
nella città, dove le inimicizie fra i nobili e i plebei erano sopite,
piuttosto che spente; e i popolari, prontissimi a cogliere l'occasione di
umiliare gli ottimati. L'arcivescovo Guidone si adoperò in modo che
l'imperatore Enrico II creasse Anselmo vescovo di Lucca; e per tal mezzo (che
nelle circostanze era, se non il solo, almeno il più saggio e il
più mite) credette di avere allontanato il pericolo di un fermento nella
città. Anselmo da Baggio poi fu sempre ligio d'Ildebrando; con esso
venne in Milano, siccome vedremo in seguito; e non dimenticò mai
l'oggetto di sottomettere l'arcivescovo alla giurisdizione romana, finché fu
innalzato al sommo pontificato per opera d'Ildebrando, col nome d'Alessandro
II. Credette l'arcivescovo di essersi assicurata la tranquillità
coll'allontanamento dell'eloquente Anselmo. Ma se non si trovò un uomo
di quella autorità, non perciò mancarono altri che decisamente
cercarono di animare il popolo contro degli ecclesiastici. Tre uomini si
collegarono, Arialdo, Landolfo e Nazaro: Arialdo era diacono; nessuno storico
lo nega; Landolfo era cherico, se osserviamo quanto ne scrisse il beato Andrea;
non era in modo alcuno ecclesiastico, se crediamo allo storico Arnolfo. Nazaro
era uno zecchiere assai ricco, de' quali due compagni di Arialdo, uno
con l'autorità, l'altro col danaro diede molto vigore al partito de'
buoni, dice il conte Giulini[170].
Convien credere che appunto questo fosse il solo appoggio che Nazaro diede al
partito; poiché di lui in nulla si fa menzione, né io più lo
nominerò. I due che figurarono furono Arialdo e Landolfo. Sono concordi
i due partiti nell'asserire che Landolfo fosse uomo di nascita nobile; discordano
sulla famiglia di Arialdo, gli uni volendola plebea, e gli altri al contrario.
Arnoldo, che viveva, in que' tempi, così comincia il racconto di questa
dissenzione: Hac eadem tempestate horror nimius ambrosianum invasit
clerum... ... cujus initium et seriem, quum res nostris adhuc
versetur in oculis, prout possumus enarremus... Quidam igitur ex Decumanis,
nomine Arialdus, penes Widonem Antistitem multis fotus deliciis, multisque
cumulatus honoribus, dum litterarum vacaret studio, severissimus est divinae
legis factus interpres, dura exercens in clericos solos judicia. Qui quum
modicae foret auctoritatis, humiliter utpote natus, prævidit applicare
sibi Landulphum, quasi generosiorem, et ad hoc idoneum, familiaris ejus factus
assecla. Landulphus vero, quum esset expeditioris linguae ac vocis, nimiusque
favoris amator, repente dux verbi efficitur, usurpato sibi, contra morem
Ecclesiae, prædicationis officio. Hic, quum nullis esset ecclesiasticis
gradibus alteratus, grave jugum sacerdotum imponebat cervicibus, quum Christi
suave est, et ejus leve sit onus[171].
Landolfo adunque dai privati discorsi passò ai pubblici, e lo storico
istesso ci ha trasmessa la prima parlata con cui eccitò la plebe a
disprezzare gli ecclesiastici, ed a saccheggiare le case loro. Ella è la
seguente: Carissimi seniores, conceptum in corde sermonem ultra ritenere non
valeo. Nolite, domini miei, nolite adolescentis et imperiti verba contemnere;
revelat enim saepe Deus minori, quod denegat majori. Dicite mihi: creditis in Deum trinum et unum?
Respondent omnes: credimus. Et adjecit. Munite frontes signo Crucis. Et factum
est. Post haec, ait. Condelector vestrae devotioni, compatior tamen
imminenti magnae perditioni. Multis enim retro temporibus non est agnitus in
hac urbe Salvator. Diu est quod erratis, quum nulla sint vobis vestigia
veritatis; pro luce palpatis tenebras, caeci omnes effecti, quoniam caeci sunt
duces vestri. Sed numquid potest caecus caecum ducere? nonne ambo in foveam
cadunt? Abundant enim stupra multimoda; haeresis quoque simoniaca in
sacerdotibus et levitis, ac reliquis sacrorum ministris, qui, quum nicolaitae
sint et simoniaci, merito debent abjici, a quibus si salutem a Salvatore
speratis, deinceps omnino cavete, nulla eorum venerantes officia, quorum
sacrificia idem est ac canina sint stercora, eorumque basilicae jumentorum
praesepia. Quamobrem, ipsis amodo reprobatis, bona eorum publicentur. Sit
facultas omnibus universa diripiendi ubi fuerint in urbe vel extra[172]. Gli editori
della raccolta Rerum Italicarum credono che quest'aringa sia una prova
di eloquenza dello storico, e che unicamente Landolfo, parlando al popolo,
acremente declamasse contro il matrimonio de' preti: acriter intonuisse[173];
ma non producono alcuna ragione. La storia ci fa vedere che in seguito il
popolo saccheggiò le case degli ecclesiastici; e se crediamo a questo
autore, che scriveva mentre attualmente accadevano le cose: Quum res nostris
adhuc versetur in oculis[174],
si vede che erano vaghe e generali le accuse per eccitare il popolo contro del
corpo ecclesiastico. Landolfo il Vecchio, altro nostro scrittore di quei tempi,
così più in breve ci descrive l'origine della dissenzione: Arialdus,
cujusdam superbiae zelo gravatus, qui paulo ante de quodam scelere nefandissimo
accusatus, et convictus ante Guidonem, adstantibus sacerdotibus hujus urbis
multis, et partim quia urbani sacerdotes, forenses togatos urbem intrare minime
consentiebant, et ecclesias civiles illis habere nisi per tonsuram illis non
permittebant, per omnia occasionem quaerebat qualiter omnes sacerdotes ab
uxoribus, populi virtutem sollicitando, removeret.[175]
Il conte Giulini a questo passo aggiugne: Quanto al delitto che gli
appone il maligno scrittore, si scuopre questa per una mera calunnia,
osservando che Arnolfo, storico nemico egualmente di sant'Arialdo, nulla
affatto ne dice. Oltreché, se fosse stato vero, non avrebbe lasciato Landolfo
di spiegarne meglio le circostanze per renderlo credibile. Ma anche senza
badare a ciò, la santità di quel buon servo di Dio in tutto il
resto della sua vita lo difende abbastanza da tale manifesta impostura[176].
I due nostri scrittori Arnolfo e Landolfo Seniore sono i soli che abbiamo di
quel tempo. Essi erano stati testimonii, e forse partecipi delle miserie nelle
quali venne ingolfata la città per queste dissenzioni: essi erano
animati contro coloro che ne furono la cagione. È naturale
altresì il supporre che essi fossero affezionati alla disciplina che
avevano trovata in uso presso de' loro padri; e questo basterà perché
non venga loro prestata ciecamente credenza nel male che dicono di Arialdo e di
Landolfo. Se si fosse allora trattato unicamente di repristinare o dilatare la
disciplina del celibato anche nella chiesa milanese, e non ammettere agli
ordini sacri in avvenire se non coloro che si obbligassero alla vita celibe, la
questione si sarebbe potuta discutere pacificamente: ma volendosi rimovere
dall'altare i sacerdoti ammogliati, ognuno vede in quale angustia venivano
riposti e i sacerdoti e i parenti delle loro mogli. Il metodo migliore per
conoscere lo spirito dei partiti si è l'attenerci ai fatti non contrastati,
e non far caso delle declamazioni.
Tra i fatti accordati dagli scrittori
dell'uno e dell'altro partito, evvi il seguente: Arialdo, in un giorno solenne,
radunò sulla piazza un buon numero di popolo, e alla testa della
moltitudine entrato nella chiesa, mentre i sacerdoti celebravano i divini
uffici, violentemente scacciolli tutti dal coro, e perseguitolli in tutt'i
canti e rispostigli; poscia dispose un editto in cui si comandava il celibato,
e costrinse gli ecclesiastici a sottoscriversi. Frattanto si saccheggiarono le
case degli ecclesiastici ed alcune si diroccarono. Arnolfo così lo
racconta: Die una solemni ad ecclesiam veniens [parla di Arialdo]
cum turbis a foro, psallentes omnes violenter projecit a choro, insequens
per angulos et diversoria; deinde providet callide scribi Pytacium de castitate
servanda, neglecto canone, mundanis extortum a legibus, in quo omnes sacri
ordines ambrosianae dioecesis inviti subscribunt, angariante ipso cum laicis.
Interim praedones civitatis, praeter aedes aliquas in urbe dirutas, lustrabant
parochiam, domos clericorum scrutantes, eorumque diripientes substantiam[177].
Al qual passo di Arnolfo il conte Giulini così riflette: Era per
altro ben giusta cosa che quegli ecclesiastici viziosi ed ostinati i quali non
volevano cangiar vita, venissero castigati anche col braccio secolare. Egli
è ben vero che i rimedi violenti non vanno per l'ordinario disgiunti da
qualche disordine; ma pure talora sono necessari[178];
il che suppone che quegli ecclesiastici fossero viziosi e legalmente provati
tali; che il loro vizio fosse della classe di quelli che sono sottoposti al
braccio secolare; che Arialdo fosse rivestito della pubblica autorità,
che legittimamente lo costituisse vindice della disciplina; e finalmente che il
modo per esercitare questa magistratura fosse legale, movendo la plebe a
tumulto, profanando l'asilo del sacro tempio, e scacciandone i ministri: cose
tutte che non mi paion vere. Ridotto adunque lo scandalo a questo eccesso, dopo
di aver sin da principio adoperati tutti i mezzi possibili per guadagnarsi
Arialdo e Landolfo[179],
Guidone arcivescovo doveva ricorrere al mezzo che i sacri canoni proponevano,
cioè alla convocazione d'un concilio in cui, radunati i vescovi
suffraganei ed ascoltate le ragioni dell'una e dell'altra parte, si decidesse
la questione, si restituisse la pace alla Chiesa, e il popolo ritornasse alla
riverenza de' pastori. Così appunto fece l'arcivescovo. Ma siccome il
furore dei partiti rendeva troppo pericoloso il soggiorno di Milano, venne
radunato il sinodo in Fontaneto, luogo del Novarese. Furono avvisati Arialdo e
Landolfo di comparire al concilio, ed ivi esporre la loro dottrina e le querele
contro del clero. Ma né Arialdo né Landolfo vollero presentarvisi[180],
e quindi vennero da quel sinodo scomunicati[181].
Questa scomunica sconcertò i disegni di Arialdo e del compagno Landolfo.
La storia c'insegna quanto obbrobriosa e precaria fosse in que' tempi
l'esistenza di quell'infelice sul quale era stato pronunziato l'anatema.
Arialdo perciò abbandonò Milano e portossi a Roma nel 1057, ove
dal sommo pontefice Stefano X venne accolto con molta onorificenza[182].
Landolfo aveva presa la strada medesima, e le insidie che trovò nelle
vicinanze di Piacenza fecero che ritornasse ferito in Milano[183].
Allora sembrava ritornata la quiete nella città.
Non poteva il cardinale Ildebrando,
motore, siccome dissi, di questa rivoluzione, essere contento della sentenza
proferita dal concilio di Fontaneto; per cui presso il popolo veniva screditato
il partito contrario agli ecclesiastici e confermata la loro disciplina. Il
fine era di sotto mettere alla giurisdizione di Roma la chiesa milanese: mezzo
unico forse, come accennai, per impedire le elezioni simoniache e collocare
prelati migliori al reggimento della Chiesa, alla quale non era più
possibile lo restituire l'antica libertà, toltale dal potere dei re.
Ildebrando istesso venne a Milano, e condusse con seco il vescovo di Lucca
Anselmo da Baggio, primo autore della novità[184].
L'arrivo de' due legati, che opravano in nome del sommo pontefice Stefano X,
risvegliò più che mai le fazioni. La discordia era cresciuta a
segno ch'era diventata guerra civile, e sì da un partito che dall'altro
le fazioni insieme crudelmente combattevano: i legati, temendo il furore del
popolo, adunati di nascoso quanti cittadini potettero, dichiararono simoniaco
Guidone arcivescovo, e detestabili tutte le sue operazioni; così il
conte Giulini[185]:
al che aggiugne questo pio e cauto scrittore che lo storico Landolfo Seniore,
che ci narra il fatto, essendo nemico de' legati, è sospetto di
parzialità. Si dee credere che la loro condotta sarà
stata molto più regolare di quello che l'appassionato storico non la
dipinga; e che non saranno giunti ad una sì rigorosa sentenza se non
dopo un maturo esame, e dopo aver perduta ogni speranza di ridurre
l'arcivescovo a qualche onesto accomodamento. L'animosità di
deprimere la chiesa ambrosiana era allora tale in Roma, che nemmeno più
si volle permetter dal papa che i monaci di Monte Cassino usassero del canto
ambrosiano, che è il più antico della chiesa latina; e venne
ordinato che introducessero un nuovo canto[186].
I due legati partirono, lasciando la città immersa più che mai
nella discordia. Arialdo era ritornato. Varii rimproveri gli furono detti
pubblicamente. Un sacerdote così lo apostrofò: Numquid tu
solus per execrabilem Pataliam, et quamplurima sacramenta prava et
detestabilia, populi flammam, quae impetu ut mare versatur, super nos accendis?[187].
Da altro ecclesiastico distino era stato così ripreso: Dum hujus
inauditae Pataliae placitum cogitasti commovere, qualiscumque intentionis
esses, ab aliquo religioso viro prius multis cum jejuniis debuisses consiliari[188].
La voce patalia era quella colla quale si qualificava una dottrina nuova
e discordante dalla opinione ortodossa; e coloro che sostenevano opinioni
riprovabili chiamavansi patalini, patarini o catari, come oggidì
chiamansi novatori. Così i due partiti, protestando
ciascuno di sostenere l'ortodossia, vicendevolmente accusavano gli avversari di
prevaricare, e si ingiuriavano a vicenda co' nomi di nicolaiti e di patarini.
Le risse, i saccheggi, i tumulti sempre continuavano, anzi andavano
frattanto crescendo. Il partito d'Arialdo, rinvigorito dalla sentenza de'
legati, s'ingrossò col numero de' plebei animati ad umiliare i nobili, e
l'accanimento giunse a segno che molti nobili, non avendo più forza per
sostenere i sacerdoti, dovettero allontanarsi dalla città, e ritrovarsi
un asilo tranquillo nelle terre: Ast nobiles urbis, quorum virtute
sacerdotes paulo ante tuebantur, nimia ira et indignatione commoti, alii urbem
exiebant, alii ut procellosae calamitati finem imponerent, tempus expectabant[189].
Abbandonati così gli ecclesiastici, il partito della plebe si era unito
ad Arialdo; ed è facile l'immaginarsi quale doveva essere lo stato
civile e religioso di Milano in quel tempo del quale, e del potere d'Arialdo
allora, e del suo partito, dice lo storico nostro Tristano Calchi, che era
forte: Fere cunctorum civium concursu, qui clericorum probra libenter
audiebant: alii inopia, vel aere alieno pressi, et spem omnem in praeda et
rapinis locantes, nihil minus quam pacem et civitatis concordiam optabant[190].
La sedizione era giunta al colmo, e il
partito fomentato da Ildebrando aveva depresso gli avversari. Era giunto il
momento opportuno per assoggettare la chiesa di Milano. Se i primi legati,
incontrato l'ostacolo de' nobili e de' fautori del clero, ancora capace di sostenersi
(per lo che non senza pericolo dimorarono in Milano) prontamente se ne
partirono, condannando, siccome dissi, l'arcivescovo; ora la venuta de' legati
doveva essere più sicura, e la loro commissione più facile ad
eseguirsi. Ciò non ostante non trovò a proposito di venirvi il
cardinale Ildebrando. Furono destinati a quest'ufficio nuovamente Anselmo da
Baggio, vescovo di Lucca (il primo autore, come si disse, del partito) e gli si
assegnò per compagno il vescovo d'Ostia, Pietro di Damiano, che è
conosciuto col nome di san Pier Damiano. Questa nuova legazione accadde l'anno
1059. Sebbene però Ildebrando non venisse ad eseguire l'impresa, egli
interamente la diresse, come ce ne fanno fede le lettere di san Pier Damiano a
lui indirizzate su di questa negoziazione. Non si potevano trascegliere due
legati più opportuni per ottenere l'intento. Il primo cospicuo nostro
cittadino, appoggiato a' parenti ed a clientele; l'altro, eloquente, dotto e
d'una pietà celebratissitna. Non perciò fu la cosa senza qualche difficoltà,
e questa la ritroviamo in una delle lettere scritte da san Pier Damiano al
cardinale Ildebrando: Factione clericorum repente in populo murmur
exoritur. Non debere ambrosianam ecclesiam romanis legibus subjacere, nullumque
judicandi, vel disponendi jus romano pontifici in illa sede competere. Nimis
indignum, inquiunt, ut quae sub progenitoribus nostris semper fuit libera, ad
nostrae confusionis opprobrium nunc alteri, quod absit, Ecclesiae sit subjecta![191]
Così scriveva il vescovo d'Ostia. Questa fazione naturalmente
sarà nata, perché il partito medesimo della plebe secondava le mire di
Roma, sin tanto che queste la conducevano alla depressione dei nobili, ch'erano
stati incauti a segno di opprimerla; ma un impegno nazionale poi la rendeva
ritrosa nel secondarle, per assoggettare la Chiesa propria alla giurisdizione
della romana. Il vescovo d'Ostia avendo cercato nelle funzioni solenni di
precedere al nostro metropolitano, il popolo se ne sdegnò. Cominciarono
a vedersi dei torbidi; quindi i legati cautamente temperarono la pompa, e si
posero a sbrigare sollecitamente gli affari. Imposero varie penitenze ad
alcuni, differirono a giudicare di altri in migliore occasione; furono mutate
le antiche costumanze, introdotte leggi nuove, e col favore del partito furono
costretti l'arcivescovo e gli ordinari di porvi il loro nome. Così di
san Pier Damiano scrive il Calchi: Deinde fasto legationis inflatus voluit
se in publicis actionibus archiepiscopo nostro praeferre: sed populus in
propria dioecesi temerari ambrosianam dignitatem non laturus, frendere, ac
tumulum circa facere coepit. Eo metu deterritus Ostiensis proposito destitit,
et quae instabant negotia confecit: atque iis qui quid deliquerant, pro
magnitudine delicti, varias ultor poenas irrogabat: alios, dilatione data, in
aliud judicium reservabat. Denique, ut novus censor, et rerum nostrarum
arbiter, veteres consuetudines mutat; novas leges inducit; litteris signisque
suis adfirmat; iisdem ut subscriberent archiepiscopus et ordinarii Mediolani,
incitata multitudine nî obsequerentur, effecit[192].
Queste pene, delle quali fu dispensatore san Pier Damiano, furono date ai
simoniaci; poiché, per un abuso assai antico, si gratificava dagli ordinandi il
vescovo che li consacrava, e davano per essere suddiaconi duodecim nummos[193],
diciotto per essere diaconi, e ventiquattro per il presbiterato[194]:
sul qual proposito così scrive il conte Giulini: A coloro che avevano
pagato la solita tassa già stabilita ab antico, e che quasi non sapevano
che ciò fosse peccato, furono dati cinque anni di penitenza, nel qual
tempo dovevano due giorni ogni settimana digiunare in pane ed acqua, e tre
giorni nelle settimane delle due quaresime, cioè quella avanti il
Natale, e quella avanti Pasqua, ecc.[195].
Questa sommissione poco spontanea diede motivo allo storico Arnolfo di
esclamare: O insensati Mediolanenses! Qui vos fascinavit? Heri clamastis
unius sellae primatum: hodie confunditis totius Ecclesiae statum: vere culicem
liquantes, et camelum glutientes. Nonne satius vester hoc procuraret episcopus?
Forte dicetis: veneranda est Roma in apostolo. Est utique: sed nec spernendum
Mediolanum in Ambrosio. Certe certe non absque re scripta sunt haec in Romanis
Annalibus. Dicetur enim in posterum subjectum Romae Mediolanum[196].
Così Arnolfo, che viveva in que' tempi: il di cui passo
riferendosi dal conte Giulini, vi aggiugne: Se Arnolfo e gli altri nostri
ecclesiastici in que' tempi credevano che la città milanese non fosse
punto soggetta alla romana, vivevano in un grandissimo errore. Egli è
ben vero che prima la chiesa romana non esercitava tanto la sua giurisdizione
sopra la milanese, quanto l'esercitò dipoi; ma ciò fu utile cosa,
anzi necessaria, acciò non nascessero in avvenire i disordini che
già eran nati dianzi: onde questa mutazione nella gerarchia
ecclesiastica, di cui il citato storico fa tanto romore, non fu se non
vantaggiosa alla chiesa ambrosiana, la quale perdette, a dir vero, alcun poco
della primiera libertà, ma acquistò un miglior regolamento, e
maggiore quiete e felicità[197].
Appena l'arcivescovo Guidone fu dai legati pontificii assoggettato, che dal
sommo pontefice Nicolò II venne chiamato a Roma per intervenire ad un
sinodo: Ecce metropolitanus vester, prae solito, romanam vocatur ad synodum[198],
dice Arnolfo, continuando l'apostrofe ai Milanesi; ed il conte Giulini a
questo passo dice: anche qui Arnolfo doveva parlare con maggior moderazione,
perché non era cosa insolita affatto che il sommo pontefice invitasse
l'arcivescovo di Milano ai concilii[199].
Il dotto conte Giulini, che per altro non tralascia di esporre le più
minute circostanze nei fatti, che esamina e che con molto ordine e chiarezza
è solito di porre in vista le ragioni delle opinioni che avanza, non ha
allegato alcun fatto che provi come fosse stata in prima soggetta alla
giurisdizione romana la chiesa milanese; né ha nominato alcuno arcivescovo che
siasi portato a Roma per un concilio. Anzi non solamente non ne ha dato cenno
in quel luogo, il che pure sarebbe stato opportuno per ismentire uno storico di
quel secolo, ma nemmeno nei tre secoli precedenti, dei quali con tanta
esattezza egli ha posto in ordine le notizie, non vi si legge alcun fatto che
dia valore ai rimproveri ch'egli fa ad Arnolfo. In quest'ultimo caso non si
tratta di un invito trascurato dall'arcivescovo, ma di una chiamata, alla quale
dovette obbedire portandosi a Roma, ove fu obbligato a giurare sommissione ed
obbedienza al papa; avvenimento sul quale poi lo stesso conte Giulini ha
ragionato così: non può negarsi che allora il sommo pontefice
non ottenesse molti punti importantissimi, con cui venne a dilatare non poco
l'uso della sua giurisdizione sopra dell'arcivescovo di Milano. Il primo fu che
il nostro prelato, chiamato a Roma ad un sinodo, prontamente vi si portasse; il
secondo, ch'egli promettesse solennemente ubbidienza al papa; cosa che prima di
Guidone non si era, ch'io sappia, mai praticata; il terzo finalmente, che
ricevesse da lui l'anello; quando il costume o l'abuso di quei tempi portava di
riceverlo dal sovrano. Pure siccome tutte queste pretensioni del sommo
pontefice erano giuste, così fu giusto che l'arcivescovo le accordasse[200].
I castighi che avevano dati i legati
apostolici cadevano principalmente sopra i simoniaci; cioè sopra quelli
ecclesiastici che avevano pagata la solita retribuzione per essere ordinati.
Continuavano per altro gli ammogliati a vivere colle loro mogli e figli, e
sembrava che quasi fosse dimenticata la questione sul matrimonio de' sacerdoti.
(1061) Qualche riposo ebbe la nostra città frattanto sino al 1061; anno
in cui morì il papa Nicolò II, e per opera del cardinale
Ildebrando fu innalzato alla sede pontificia il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio,
che prese il nome, siccome ho detto, di Alessandro II. Lo storico nostro
Tristano Calchi, ad altra opportunità nominando Ildebrando, così
parla di lui: Id quod maxima arte et astutia Hildebrandi monaci factum
traditur, qui Soana Haetruriae urbe uriundus, promptitudini ingenii non
mediocrem sacrarum litterarum eruditionem junxerat; et statim ob ingens meritum
in ordinem cardinalium adscitus fuit: et cum vigore animi cunctis praestaret,
facile primarium locum inter sacerdotes obtinuit[201].
Maggiore accortezza non poteva certamente adoperarsi per consolidare la
dipendenza da Roma, quanto il creare papa un Milanese; obbedendo al quale, il
popolo, che poco vede e prevede pochissimo, non si accorgesse di obbedire ad
una estranea giurisdizione. Appena dopo che fu creato,
Sarebbe restato inoperoso il partito
contrario agli ecclesiastici in Milano, se il solo Arialdo doveva tenerlo in
moto. In fatti la malattia e la morte dell'accreditato Landolfo avevano calmata
la fazione contraria al matrimonio de' preti. Un fratello del morto Landolfo
trovavasi a Roma: il suo nome era Erlembaldo; egli era milite, e portato per il
mestiere delle armi; il
(1066) Il ritorno di Erlembaldo da Roma
portò la fermentazione all'ultimo periodo. Ciò avvenne l'anno
1066; quando, giunto in Milano, ei presentò all'arcivescovo Guidone le
bolle della scomunica pronunciata dal papa. L'arcivescovo colse
l'opportunità del vicino giorno solenne della Pentecoste, e poiché
radunato fu gran numero di gente nella chiesa, vi comparve l'arcivescovo colle
bolle in mano; e con esse riscaldò il popolo animandolo a non soffrire
l'ingiuria che si faceva alla chiesa ambrosiana. Il tumulto scoppiò nel
tempio del Dio della mansuetudine. Si venne ad una zuffa ai piedi dell'altare.
Arialdo, che era nella chiesa, venne assalito, percosso, e rimase a terra
creduto morto. L'arcivescovo dovette soffrire delle violenze, e la scena
terminò colla sentenza d'interdetto che l'arcivescovo pronunziò
sulla città, proibendo il celebrarvi i divini misterii, sintanto che non
uscissero dalla città i novatori. Il consiglio pubblico si unì
coll'arcivescovo, e impose la pena di morte a chi ardisse nemmeno di suonar le
campane, sin che durava l'interdetto. Allora Arialdo ed Erlembaldo si ricoverarono
fuori della città, ed Arialdo fu preso e ucciso al lago Maggiore, e
così nel 1066 terminò la sua predicazione; da martire secondo
alcuni, appoggiati al fatto di Alessandro II, il quale un anno dopo la sua
morte lo ascrisse nel numero de' santi[218];
e con fama diversa secondo altri, i quali, vedendo che nessun culto offre la
chiesa ad Arialdo, considerano quell'autorità come l'opinione d'un
privato dottore, che rimase isolata, in tempi ne' quali si trascuravano i
giudizi lunghi e minuti che presentemente si fanno precedere. Questo nuovo
colpo ammorzò per alcuni altri mesi il furor di partito.
Ogni altro fuori che Ildebrando, si
sarebbe stancato per tante difficultà, ma la fermezza e l'ostinazione
erano la base dei suo carattere. Già da più di dieci anni la
guerra civile era accesa. Un partito si era creato; si era rianimato con
più mezzi; s'erano riparati i colpi che pareva lo dovessero distruggere
per sempre: ma non per questo si era sottomessa la chiesa milanese se non per
un momento. I preti ammogliati continuavano a esercitare il loro ufficio.
L'arcivescovo Guidone nessun caso faceva delle bolle della scomunica, né il
popolo lo guardava come legittimamente scomunicato. I nobili stavansene fuori
d'una città abbandonata al furore de' partiti; potevano rientrare questi
conducendo armati. Il re Enrico s'andava accostando all'età di regnare;
poteva quel principe, con una discesa in Italia, distruggere il frutto del
sangue sparso, dei saccheggi, dei tumulti. Conveniva perciò cambiare
oggetto, e tentare una stabile sommissione per altro mezzo. Sin che sulla sede
arcivescovile vi stava Guidone, eletto da Enrico II, offeso da Roma per la
forzata umiliazione, non era sperabile che il partito d'Ildebrando colla forza
tenesse costantemente depresso il ceto dei nostri ecclesiastici. Era necessario
il collocare sulla sede metropolitana un arcivescovo, il quale dovesse
pienamente questo beneficio a Roma, e le fosse suddito per animo e per
riconoscenza. Tale appunto fu il progetto col quale Erlembaldo, che nuovamente
si era portato a Roma, rientrò nella patria l'anno 1068. Questa
proposizione, che tendeva a deporre l'arcivescovo Guidone, cominciò a
serpeggiare. Guidone già da ventiquattro anni reggeva la chiesa
milanese: stanco di vivere fra torbidi e pericoli continui, indebolito dagli
anni, bramoso di godere il restante della vita in pace, pensò di
rinunziare la dignità, prima che la violenza del partito ve lo
costringesse. Trascelse Gotofredo, cardinale ordinario della chiesa ambrosiana,
e a lui rinunziò l'arcivescovato. Non era questi il soggetto che
piacesse a Erlembaldo. Quindi col ferro, col fuoco, colla devastazione de'
campi, colle nuove scomuniche di Roma si oppose al nuovo arcivescovo Gotofredo,
il quale non poté conseguire mai la possessione né della carica, né delle
entrate. Guidone pensò allora a ripigliare la dimessa dignità,
poiché non si voleva che Gotofredo ne fosse rivestito. Guidone credette alla
fede di Erlembaldo; si collegò incautamente con lui, e venne infatti da
lui accompagnato sino a Milano. Ma quivi lo tradì e lo rinchiuse in un
monastero, ove lo tenne custodito[219]
sin che morì. Il conte Giulini paragona Guidone all'eroe del
Macchiavello: io non saprei sostenere quest'opinione. Egli fu bensì
tradito, ma non tradì mai: promise una fedeltà al papa, che non
gli mantenne, è vero, ma in questo io ravviso piuttosto l'uomo debole,
che il politico astuto. Egli cercò, per quanto gli fu possibile, di
sedare il partito; di conservare
L'arcivescovato di Milano restò
vacante per circa sette anni, dopo la rinunzia fattane da Guidone; perché
Gotofredo non poté mai farne le funzioni per la potenza di Erlembaldo, che
glielo impediva. Erlembaldo, di propria autorità, pretese di creare un
arcivescovo, e innalzò a questo grado un giovane chiamato Attone. Herlembaldus,
dice Landolfo Seniore, producens quemdam Attonem, sibique consentientem,
coram omni multitudine, ore suo inlicito elegit. Hoc videns majorum et minorum
multitudo tam suorum quam adversariorum, quae noviter fidelitatem imperatori
juraverat, sumptis armis, magnoque praelio, Attonem noviter electum, multis cum
plagis, et sacramentis, archiepiscopatum inremeabiliter refutare fecit[220]:
su di che veggasi il conte Giulini[221].
Le forze di Roma rimasero dissipate
affatto con questo avvenimento; si rivolse perciò Gregorio VII ad un
altro partito. Primieramente egli sottrasse molti vescovi suffraganei dalla
dipendenza dell'arcivescovo di Milano. Qualche leggiero distacco n'era
già seguìto in prima. Pavia, già fino dal settimo secolo,
s'era sottratta, e il di lei vescovo, come vescovo della città
dominante, si era reso indipendente dal metropolitano[227]:
indi Giovanni VIII, nell'874, aveva dilatata la giurisdizione del vescovo di
Pavia a scapito della diocesi di Milano; ma Ildebrando sottopose Como al
patriarca d'Aquilea; Aosta all'arcivescovo di Tarantasia; Coira all'arcivescovo
di Magonza[228].
Così la dignità del metropolitano venne a scemarsi.
Secondariamente, per i maneggi della contessa Matilde, ligia e mossa in tutto
da Gregorio VII, Milano si ribellò al re Enrico III, che allora era
imperatore, per quei mezzi istessi pe' quali se gli ribellò Corrado II,
di lui figlio; e così Milano, spontaneamente e quasi per stanchezza di
resistere, dopo trentatré anni di guerra, si rese soggetta a Roma, e l'arcivescovo
divenne semplicemente il vicario del sommo pontefice. Se alla fine del capitolo
primo indicai con quali riguardi i sommi pontefici trattavano nelle loro
lettere gli arcivescovi di Milano, ora non potrò più riferire che
scrivessero: Reverendissimo et sanctissimo confratri[229],
ma dirò che Urbano II, nel 1093, scriveva: Discretioni nostrae
videtur quatenus, secundum praecepti nostri tenorem... facias[230].
Vero è che non per ciò immediatamente la creazione
dell'arcivescovo poté appropriarsela il papa; per qualche tempo durò un
resto di libertà nell'elezione. Ma i papi cominciarono a deviare dalla consacrazione
de' suffraganei; e l'anno 1095, Urbano II volle che il nuovo arcivescovo
Arnolfo venisse consacrato dall'arcivescovo di Salisburgo, dal vescovo di
Passavia e dal vescovo di Costanza. S'introdusse il rito che l'arcivescovo non
portasse il pallio, se non ricevuto che l'avesse dal papa. In appresso si volle
che dovesse portarsi il nuovo arcivescovo in Roma per ricevere il pallio e
giurare obbedienza. Poi si sottrassero dalla giurisdizione dell'arcivescovo i
monaci, i quali, sino allora, erano stati a lui soggetti, come tutti gli altri
ecclesiastici. Quindi si posero ad accordare delle indulgenze; e la più
antica che ne ha ritrovata il conte Giulini, è dell'anno 1099[231].
In seguito Genova venne sottratta all'arcivescovo, e creata arcivescovato;
Bobbio fu staccato dal metropolitano, e assoggettato a Genova. Gradatamente
furono la maggior parte de' vescovi suffraganei, o dichiarati dipendenti
immediatamente dalla santa sede romana, ovvero incorporati con altre chiese
arcivescovili. Così la gran mole della Chiesa ambrosiana venne a
rendersi assai meno importante, e in ogni sua parte interamente sommessa alla
giurisdizione romana.
Che accadesse ai sacerdoti ammogliati
esattamente nol so. Nessuna memoria ritrovo da cui chiaramente si vegga
accettata la proibizione di esercitare il sacerdozio a chi aveva moglie; anzi
mi pare probabile che, rivoltesi le mire di Roma al punto della soggezione,
poiché vide piegarsi le cose a seconda, non si volle insistere sopra un punto
irritabile, e che poteva dare nuove scosse e rovesciare il disegno. Pare che si
avesse di mira d'obbligare piuttosto indirettamente al celibato coloro che
dovevansi promuovere ai sacri ordini, anzi che instare e costrignere i
sacerdoti ammogliati alla dura scelta, o di perdere lo stato loro, o di
abbandonare disonorata e senza condizione la moglie, e macchiare i figli.
Questa opinione mi sembra confermata, esaminando gli atti d'un sinodo tenutosi
in Milano, pubblicati dal dottore Sormani nel libro intitolato: Gloria dei
santi milanesi. Questa sacra adunanza si tenne l'anno 1098. Il fine
sembrò essere quello di consolidare il sistema dipendente da Roma, e di
prescrivere una più santa disciplina al clero. In quel concilio si
pronunziava l'esecrazione contro della simonia; e del matrimonio degli
ecclesiastici non si parla: Sicut a sanctis patribus statutum legimus,
simoniacam haeresim in sacris ordinibus, et in ecclesiarum beneficiis
execramus, et ab ecclesia radicitus extirpare per omnia volumus[232];
così leggesi in quegli atti. Delle due riforme la più facile
certamente non era quella di far abbandonare le mogli ai sacerdoti; anzi quella
sola fu impugnata. Del pagamento che facevasi per le ordinazioni, non ne venne
nemmeno fatta difficoltà per abolirlo. O dunque questa legge contro la
simonia è stata allora fatta, dappoiché in pratica erasi abolita la
tassa, unicamente per avvalorare sempre più la riforma; e in tal caso
non si sarebbe ommessa una dichiarazione uguale, sul non meno importante
articolo del celibato, per rinfiancarne la perpetua osservanza, se già
si era ciò ottenuto: ovvero la legge contro la simonia vogliam dire che
supponesse ancora quella vigente; ed allora dovremmo supporre, essersi
disimpegnato senza strepito alcuno l'oggetto intralciatissimo dei matrimoni,
prima che si abolisse una tassa, che poi non era difficile l'abolire; e che il
concilio nessun pensiero si prendesse del pericolo che la opinione tanto
ostinatamente sostenuta pochi anni prima, ritornasse a prender partito, il che
non mi pare verisimile. Il silenzio adunque di quel concilio sembra indicare una
tolleranza per allora su quel punto di disciplina. Anzi mi sembra di ravvisare
in quel concilio una legge che tende indirettamente al celibato degli
ecclesiastici; quella cioè con cui si proibisce che nessun ecclesiastico
possa godere qualsivoglia beneficio, se prima non rinunzia a quanto possiede di
suo patrimonio. Con tal legge s'allontanava l'ammogliato dal cercare beneficii
per non lasciare i figli nell'inopia. Ecco le parole del sinodo: Statuimus
etiam juxta sanctorum patrum instituta, et primitivae ecclesiae, formam, nullum
clericorum ecclesiarum beneficia possidere, nisi, abrenuntiatis omnibus
propriis, velit fieri ejus discipulus in cujus sorte videtur esse electus. Si
quis autem foris esse maluerit, non ei clericatum auferimus, tantum ecclesiastica
beneficia interdicimus[233].
Mi pare ancora più chiaramente provato che per allora si lasciavano al
godimento dei loro beneficii i sacerdoti ammogliati, dall'altro canone dello
stesso concilio, in cui si prescrive che, siccome per lo passato alcuni avevano
ottenuto la successione ai beneficii goduti dal padre, quantunque il figlio
all'atto di succedergli non fosse nemmeno cherico, così si minaccia la
scomunica a chiunque in avvenire tentasse di usurparsi per successione i
beneficii medesimi; il che fa vedere che alcuni beneficiati allora avevano i
loro figli, e che v'era pericolo che continuassero i beneficii per
eredità: Et quia nonnulli intra sanctam Ecclesiam tam clerici, quam
etiam laici per paternam successionem... archidiaconatum, vel
archipresbyteratum, cimiliarchiam, aut etiam aliquid de beneficiis ad
ecclesiarum officia pertinentibus hactenus possidere conati sunt: in hoc sacro
conventu praefixum est, et omnibus definitum, ut si quis, hujusmodi nefanda
cupiditate ductus, ecclesiam alterius possidere tentaverit, et haereditate
sanctuarium Dei obtinere praesumpserit, juxta profeticam vocem, quousque
resipiscat, anathematis vinculo subiaceat[234].
Così quel sinodo. Se le nozze dei preti fossero state
proscritte, è naturale che, oltre di farne menzione, si sarebbero anche
i figli de' sacerdoti dichiarati illegittimi, e per questo titolo esclusi dai
beneficii. Parmi adunque probabile che si lasciassero per allora vivere in pace
i sacerdoti ammogliati, e che siasi poi introdotto poco a poco anche da noi il
celibato, senza violenza, puramente colle ordinazioni date solamente ai celibi.
Difatti, nell'anno 1152, certo canonico di Monza Mainerio Bocardo, nel suo
testamento, che ritroviamo in quell'archivio, in pergamena segnata n. 4 (di cui
ho avuta la notizia dal chiarissimo signor canonico teologo don Anton Francesco
Frisi, conosciuto per le erudite sue dissertazioni sulle antichità
monzesi) ordina che se gli celebri l'annuale il dì della sua morte, e
che il di lui erede persolvat omni anno in annuali meo canonicis et decumanis
et custodibus ipsius ecclesiae non habentibus uxorem, qui in annuali meo
fuerint, per unumquemque canonicum denarios quatuor, custodibus et decumanis
binos denarios[235];
e poi più sotto vi si legge: Si vero aliquis ex istis canonicis
fuerit infirmus, etiam si non fuerit in annualibus istis, volo habeat istam
benedictionem, et si aliquis habuerit uxorem, nolo ut habeat istam benedictionem[236].
Le quali parole sembrano assai concludentemente provare che sino alla
metà del secolo duodecimo siasi continuata l'usanza di non escludere
dagli ordini sacri gli ammogliati; e che, ottenuta che si ebbe la soggezione della
chiesa milanese alla giurisdizione di Roma, si cessò di perseguitare il
matrimonio dei preti; e lentamente soltanto, e col favor del tempo, si
dilatò la legge del celibato.
Questa mutazione di stato della chiesa
milanese rappresenta una serie crudele di partiti, tumulti, saccheggi,
incendii, sacrilègi, profanazioni, orrori d'ogni sorta. Tutto fu opera
d'Ildebrando, che tutto architettò e diresse. Se risguardiamo il fine di
togliere dalla Chiesa gli abusi nelle elezioni, ci si diminuisce in parte il sentimento
contrario ai mezzi usati. Se poi consideriamo Ildebrando da un altro canto, non
possiamo ricusare la nostra stima al progetto che immaginò. Egli forse
considerava l'Italia, un tempo signora, manomessa dai Goti, Vandali,
Longobardi, Saraceni e Greci; divisa come ella era, doveva ubbidire ora ai
Borgognoni, ora ai Provenzali, ora ai Bavari, ora ad altre straniere genti.
Conveniva concentrare la forza d'Italia in un punto, ridurla ad uno stato unito
per darle un'esistenza. Roma è la capitale; forza era adunque di
assoggettare l'Italia a Roma, e così far fronte agli estranei. Il
tempo era opportuno, per la debolezza di Enrico. La forza politica della
Lombardia era principalmente collocata ne' vescovi: sottomessi questi, era
formata la romana potenza. L'oggetto era grande. Ma egli è giusto e
ragionevole l'avventurare il riposo e la sicurezza della generazione vivente,
che ha un dritto attuale di esistere bene, colla speranza incerta di procurare
la tranquillità alle generazioni che nasceranno? È egli ragionevole
e giusto un tal sacrificio, quando anche fosse sicuro il bene che procuriamo ai
successori? Gli uomini che hanno fatto parlar di loro la storia e ottennero il
nome di grandi, non hanno mai esaminate bene simili questioni.
Si è veduto nel capitolo
antecedente come l'imperatore non si intromettesse mai nella lunga guerra
civile per la giurisdizione di Roma sulla chiesa milanese. I Milanesi
profittavano della debolezza dell'imperatore per sottrarsi dalla soggezione del
sovrano. Non solamente guerreggiavano per distruggersi, divisi in due fazioni,
ma si arrogavano la facoltà di farsi degli alleati, di mover guerre, e
così fecero nel 1059 unendosi coi Lodigiani contro de' Pavesi. Un
pubblicista cercherà con qual diritto così pretendesse di operare
una città suddita. Uno storico si limita a dire che mancava al sovrano
allora la forza, come ne' secoli precedenti ella era mancata a questi popoli a
fronte de' Longobardi, de' Franchi e dei Sassoni; e che in que' secoli non si
conoscevano fra il sovrano ed i sudditi i dolci e potentissimi vincoli della
beneficenza e dell'amore. Sebbene però Milano si reggesse da sé, una
apparente dipendenza dal sovrano si conservava; e primieramente, prima
dell'imperatore Federico, le monete di Milano portarono sempre il nome
dell'imperatore, come fanno anche oggidì le città libere dell'Impero[237].
Oltre all'onore di porre il nome nelle monete, egli è certo
altresì che l'anno 1075 i Milanesi vollero dipendere dal re Enrico per
la elezione d'un arcivescovo. Guidone aveva rinunziato l'arcivescovato a
Gotofredo, siccome dissi: questi era stato consacrato; ma il partito di
Erlembaldo non permise mai che possedesse i beni o che esercitasse il suo
ministero. Erlembaldo aveva eletto Attone: il popolo lo aveva colle percosse
costretto a rinunziare; non era mai stato ordinato; e il papa lo sosteneva. I
Milanesi ricorsero al re Enrico, che nominò per arcivescovo Tealdo,
milanese, che possedeva un ufficio nella sua reale cappella. Gregorio VII gli
comandò che non ardisse di farsi ordinare se prima non veniva a Roma,
ove il papa voleva decidere fra esso e Attone; nel tempo stesso scrisse ai
vescovi suffraganei, comandando loro di non consacrare Tealdo. Tealdo nondimeno
fu consacrato solennemente, e posto nel suo ufficio, poiché Erlembaldo era
stato ucciso. Il papa, in un concilio tenuto in Roma nel 1078, lo
scomunicò insieme coll'arcivescovo di Ravenna; eccone la cagione: Thealdum
dictum archiepiscopum mediolanensem, et ravennatem Guibertum, inaudita haeresi
et superbia adversus hanc sanctam catholicam ecclesiam se extollentes, ab
episcopali omnino suspendimus, et sacerdotali officio, et olim jam factum
anathema super ipsos innovamus[238].
Più volte fu ripetuta la scomunica; ma non per ciò le
funzioni di Tealdo vennero sospese. Ildebrando ebbe una superiorità
senza esempio quando vide il re Enrico nel castello di Canossa, a piedi nudi,
nel mese di gennaio del 1077, aspettare per tre giorni la grazia di gettarsegli
ai piedi, e implorare l'assoluzione della scomunica. Ma fu ben diversa la scena
nel 1084, quando Enrico s'impadronì di Roma, fece incoronare papa
appunto Guiberto, arcivescovo di Ravenna, e ne scacciò Ildebrando, che,
rifugiatosi in Salerno, poco dopo terminò la sua vita. A questa impresa
molto contribuirono i militi che l'arcivescovo Tealdo spedì in soccorso
di Enrico.
(1086) Morto che fu l'arcivescovo
Tealdo, dall'imperatore Enrico fugli destinato a succedere Anselmo da Ro, il
quale abbandonò il partito imperiale, e interamente si collegò
col partito romano. La famosa contessa Matilde sembrava che conservasse tutto
lo spirito di Gregorio VII, a cui fu tanto ossequiosa mentre visse. Per opera
di lei fu sedotto Corrado a diventare ribelle al padre Enrico Augusto. Essa lo
adescò mostrandogli la corona d'Italia, e indusse l'arcivescovo di
Milano a incoronare solennemente in Sant'Ambrogio Corrado (1093). Un
arcivescovo che doveva ad Enrico la sua dignità, che da lui non fu mai
offeso, che doveva ai popoli servire d'esempio di rettitudine, consacra nel
tempio di Dio, scrutatore dei cuori, un figlio traditore e ribelle ad Enrico,
per compiacere alle brighe della contessa Matilde, dimenticando il giuramento
di fedeltà, profanando le sacre cerimonie, abusando della religione...
Volgiamoci ad altre idee, e benediciamo il secolo più illuminato e
più felice in cui viviamo! Corrado, poiché in tal forma venne unto re,
come ostaggio rimase presso
Quantunque l'arcivescovo di Milano
Anselmo da Boisio fosse un uomo di carattere assai mite, e quantunque dovesse
interamente la sua dignità al papa, cui era nella più esatta
maniera sommesso; e quantunque l'autorità politica del metropolitano
fosse di molto diminuita, ciò non ostante dava ombra al papa il nome
dell'arcivescovo di Milano: e per allontanare ogni pericolo e confermarne la
soggezione, piacque a Roma che l'arcivescovo abbandonasse la sua diocesi, e,
seguendo lo spirito delle Crociate al principio del secolo duodecimo, si portasse
a guerreggiare nell'Asia. Gerusalemme era già in potere dei cristiani.
Non sembrava che vi rimanesse altro desiderio alla pietà dei fedeli, se
non se quello di custodirla. Ma, se crediamo allo storico nostro Landolfo il
Giovine, altra impresa si propose Anselmo da Boisio, e tale, che la
gravità della storia corre pericolo nel raccontarla; cioè la
conquista del regno di Babilonia. Eccone le parole dello storico: Anselmus
de Buis, mediolanensis archiepiscopus, quasi monitus apostolica auctoritate,
studuit congregare de diversis partibus exercitum cum quo caperet Babylonicum
Regnum, et in hoc studio praemonuit praelectam juventutem mediolanensem cruces
suscipere, et cantilenam de Ultreja, Ultreja cantare. Atque ad vocem hujus
prudentis viri, cuiuslibet conditionis per civitates Longobardorum, villas et
castella eorum cruces susceperunt, et eamdem cantilenam de Ultreja, Ultreja cantaverunt[245].
Questa canzone latina inventata allora aveva la frequente esclamazione Ultreja,
che il conte Giulini crede, assai verisimilmente, essere un composto di
Eja! Ultra! Come sarebbe animo! avanti! eccitandosi così la
gioventù lombarda a prendere le armi, e passare nell'Asia[246].
Che questa crociata milanese, avendo alla testa l'arcivescovo Anselmo da
Boisio, attraversasse l'Ungheria e si portasse in Costantinopoli, dove poco
dopo l'arcivescovo morì, sembra cosa certa. Cosa poi facesse in quella
comica impresa, è difficile il definirlo; tanto sono discordi gli
scrittori. Orderico Vitale, scrittore di que' tempi, ci racconta che questo
esercito si accostò verso Gerusalemme, e in una battaglia verso Gandras
fu malamente battuto, onde i fuggitivi si ricoverarono a Costantinopoli; ma
i geografi non ci sanno dire in qual luogo trovisi questo Gandras. Radolfo,
che scrisse le imprese di Tancredi, sotto del quale militava, ci lasciò
scritto che l'arcivescovo Anselmo da Boisio fu battuto dai Saraceni sotto Danisma;
ma nemmeno Danisma si trova in nessuna carta geografica. L'abate
Uspergense in vece c'insegna che la battaglia seguì: contra terram
Coritianam, quae est Turcorum patria[247];
ma nemmeno questa terra è conosciuta nella geografia; e la patria
de' Turchi, se crediamo a Pomponio Mela ed a Plinio, è nei contorni
delle paludi Meotidi, ovvero fra l'Eusino e il Caspio, nelle vicinanze del
Caucaso; parti del mondo assai sviate per coloro che dalla Lombardia cercavano
di passare in Babilonia o nella Terra Santa. Guglielmo Tirio, che è
riputato il più sicuro scrittore di quelle guerre di Terra Santa, non fa
menzione alcuna della spedizione dell'arcivescovo di Milano Anselmo, né delle
disgrazie del suo esercito. L'arcivescovo morì in Costantinopoli l'anno
1110, e Landolfo il Giovine ce ne indica la malattia; ei morì di
tristezza. Questo buon Anselmo da Boisio ce lo qualifica Landolfo il Giovine,
per un povero uomo, semplice, timido, e ironicamente lo chiama nel testo
riferito: ad vocem hujus prudentis viri[248].
Probabilmente a queste disposizioni del di lui animo egli doveva la sua
dignità. Questo moderatissimo prelato, se per il merito dell'obbedienza
aveva animato i suoi a prendere le armi per combattere gl'infedeli; poiché si
vide affaticato da un assai lungo viaggio; trasportato in mezzo a popoli de'
quali ignorava il costume e il linguaggio; abbandonato alla licenza militare di
giovani incautamente espatriati per di lui consiglio, e inquieti per trovare
mezzi da sussistere; in mezzo ai pericoli; senza forza d'animo e senza aiuto;
mi sembra naturale ch'ei morisse d'affanno e di melanconia, e che si
sbandassero i suoi, e ritornassero alla patria gli altri pochi rimasti, cui
riuscì di trovare la strada ed i mezzi per rivederla. Coloro che
rimproverano alla generazione vivente d'avere minor senno di quello che si
osservava altre volte, esaminino queste epoche.
Nel principio appunto del secolo
duedecimo lo storico nostro Landolfo Juniore, che è il solo autore
contemporaneo, ci racconta un fatto prodigiosissimo; e ce lo descrive con
circostanze cotanto minute e singolari, che sembra quasi ch'ei temesse
l'incredulità dei posteri. Sin ora il suo timore fu vano; ma io lo credo
giustissimo. Il fatto è il seguente. Mentre Anselmo da Boisio era
partito, comandando l'esercito che marciava alla conquista di Babilonia, il
vescovo di Savona Grossolano, come vicario dell'assente arcivescovo, reggeva la
chiesa milanese. Giunta la nuova della morte di Anselmo, Grossolano ebbe un
partito, e fu eletto arcivescovo; e dal papa fugli spedito il pallio, che il
portatore tenendo a guisa di stendardo, in cima del bastone, andava gridando:
ecco la stola, o come dice Landolfo il Giovine: heccum la stola, heccum la stola[249];
dal che vedesi che anche allora si parlava una lingua simile a quella che
oggidì si parla. Eravi in Milano un prete che aveva nome Liprando. Egli
era zio di Landolfo Juniore, e convien dire che fosse di genio piuttosto
attivo, poiché ebbe tagliati il naso e gli orecchi in uno de' tumulti per la
giurisdizione romana, per cui egli combatteva. Il papa Gregorio VII prese
questo prete sotto la speciale protezione della Santa Sede, e nella bolla gli
scrisse: Tu quoque, abscisso naso, et auribus pro Christi nomine,
laudabilior es qui ad eam gratiam pertingere meruisti, quae ab omnibus
desideranda est, qua a sanctis, si perseveraveris in finem, non discrepas.
Integritas quidem corporis tui diminuta est, sed interior homo, qui renovatur
de die in diem, magnum sanctitatis suscepit incrementum: forma visibilis
turpior, sed imago Dei, quae est forma justitiae, facta est pulchrior.
Unde in Canticis Canticorum gloriatur Ecclesia, dicens: nigra sum, filiae Hierusalem[250];
e poi dopo lo chiama martyr Christi[251].
Il prete Liprando era titolare della chiesa di San Paolo in Compito.
Appoggiato a questa bolla, pretendeva di essere indipendente dall'arcivescovo,
e da ciò nacquero de' dissapori, i quali s'inasprirono. L'arcivescovo
sospese il prete dal suo ufficio sacerdotale, e il prete accusò
pubblicamente l'arcivescovo di simonia, per munus a manu, per munus a
lingua, per munus ab obsequio[252].
La disputa andò tanto avanti, che vi furono partiti; si venne alle
solite zuffe, e Grossolani turba, dimicans adversus primicerium, Landulphum,
ejusdem primicerii clericum lapide occidit[253].
Fu perciò costretto l'arcivescovo Grossolano a convocare un sinodo,
in cui si giudicasse s'egli fosse legittimamente eletto, ovvero se fosse
simoniaco; e il prete Liprando si esibì di provare col giudizio di Dio,
passando attraverso del fuoco, l'accusa che aveva fatta all'arcivescovo. Il
popolo accettò con avidità questa proposizione, che gli offeriva
un genere di spettacolo maravigliosissimo. La curiosità di vedere un
miracolo generalmente eccitò l'impazienza di ognuno; e fu avvisato il
prete Liprando di apparecchiarvisi: e il fatto ce lo descrive Landolfo nella
maniera che dirò. Distribuì il prete Liprando in elemosina il
grano ed il vino che possedeva; fece testamento, lasciando erede lo storico suo
nipote; e dispose che se egli morisse nel giudizio, quel che le fiamme avessero
lasciato del suo corpo, venisse seppellito nella chiesa della Trinità.
Sia ch'ei temesse falsa la simonia asserita, ovvero non sicuro il miracolo,
egli credette possibile il rimanervi abbruciato, sebbene con tanta fiducia ne
cercasse l'occasione. Digiunò il prete due giorni; poi, vestito con
cilicio, camice e pianeta, a piedi nudi, portando la croce, da San Paolo in
Compito venne a Sant'Ambrogio, e cantò la messa all'altar maggiore in
faccia dell'arcivescovo, che si era collocato sul pulpito con altri due
personaggi. Forse in que' tempi il digiuno naturale, prima d'accostarsi
all'altare, non era un precetto; almeno, nel secolo nono,
Questo fatto, riferitoci dal solo
Landolfo, e adottato poscia da chi scrisse dopo di lui, ha tanta somiglianza
con quello che Desiderio, abate di Monte Cassino, asserisce accaduto in
Firenze, che non si potrebbe giudicare quale dei due fosse l'originale e quale
la copia; se quello di Toscana non fosse stato collocato quarant'anni prima di
questo di Landolfo, che si colloca nell'anno
Per otto anni ancora, dopo il
raccontato prodigio, continuò l'arcivescovo Grossolano a conservare la
sua dignità, sebbene con un partito contrario. Il papa lo
considerò arcivescovo legittimo, e non cessò d'esserlo, se non
quando, portatosi egli, nel
Aurea vasa sibi nec non argentea misit
Plurima cum multis urbs omnis denique nummis:
Nobilis urbs sola Mediolanum populosa
Non servivit ei, nummum neque contulit aeris[263].
Pareva che allora Milano ergesse
già la testa sopra delle altre città del regno italico.
Prestarono però i Milanesi assistenza ad Enrico, piuttosto come alleati,
che come sudditi; e questa fu di molti armati che lo accompagnarono a Roma per
ricevervi la corona imperiale. È noto che Pasquale II, papa, pretese,
prima d'incoronarlo, che rinunziasse al diritto di dare l'investitura ai
vescovi. Ricusò Enrico di rinunziarvi, e pretese, non meno di quello che
aveva fatto suo padre, di conservare questa ragione, posseduta dai precedenti
augusti. Insisteva il papa; nacque in Roma una zuffa: i Lombardi, uniti coi
Tedeschi, frenarono l'impeto de' pontificii, a segno che Enrico fece suo
prigioniero il papa, lo condusse fuori di Roma, né gli accordò la
libertà, se non quando gli promise con solenne scrittura di lasciargli
le investiture come per lo passato. Ciò fatto, ei lo pose in
libertà, e da esso fu incoronato imperatore nella basilica Vaticana, il
giorno 13 di aprile 1111. Per questa zuffa ne dovettero soffrire anche i
Milanesi, de' quali varii ne perirono, e fra gli altri Ottone Visconti: Otho
autem mediolanensis Vicecomes, cun multis pugnatoribus ejusdem regis, in ipsa
strage corruit in mortem amarissimam hominibus diligentibus civitatem,
mediolanensem, et Ecclesiam[264].
Questo Ottone è forse lo stesso reso immortale dai due versi del
Tasso:
O 'l forte Otton, che conquistò
lo scudo,
In cui da l'angue esce il fanciullo ignudo[265]
L'imperatore Enrico V, che aveva
degradato suo padre per aver sostenuto le investiture dei vescovati, non
solamente le sostenne ei medesimo, ma colla forza sulla persona istessa del
sommo pontefice se le fece accordare. Nella costituzione che avevano presa le
città italiche, non vi rimaneva più altra dignità che
potesse conferire l'imperatore, se rinunziava alle investiture; e il titolo di
re d'Italia, già diventato sinonimo di protettore piuttosto che sovrano,
sarebbe stato colla rinunzia ridotto a una mera parola insignificante; come vi
si ridusse in fatti undici anni dopo, colla cessione che ne fece. I Milanesi
frattanto, inquieti, avvezzi alle fazioni, diretti da magistrati la nuova
autorità de' quali era incerta, mancanti di un sistema civile che organizzasse
la città, privi d'un regolamento che assicurasse la vita e le sostanze
del cittadino, avevano ottenuto piuttosto una turbolente indipendenza, anzi che
(1127) Dopo avere per tal modo rovinati
i Lodigiani, ci siamo rivolti a danneggiare i Comaschi, i quali, col favore
d'un paese montuoso, disputarono per alcuni anni, ma finalmente, superati dai
Milanesi, videro la loro città e i sobborghi distrutti l'anno 1127. Co'
Pavesi parimenti si mosse la guerra; e nel 1132 ci riuscì di dar loro
una rotta a Marcinago: ma la città loro, munita di antiche e solide
fortificazioni, fu un ricovero sicuro per essi. Attaccammo briga coi Cremonesi,
e nel 1137 c'impadronimmo del castello di Zenivolta, e femmo prigioniero
il vescovo di Cremona Uberto, che era armato con l'usbergo come un Paladino,
e, inanimando i suoi alla battaglia, si era spinto contro uno de' nostri, e
stava terminando di ammazzarlo[271].
Tale era la strana condotta di una nascente Repubblica, che doveva saggiamente
premunirsi contro le fondate pretensioni dell'Impero, collegandosi e rendendosi
amiche le altre città. Questo errore lo vedremo poi punito da Federico,
e la punizione fu meritata. Lo stato della prosperità è il
più funesto di tutti per una città che diventi libera dopo di
avere sofferta
La Germania era divisa in fazioni, e
l'imperatore aveva i suoi nemici, i quali vedevano volontieri che gl'Italiani
non gli obbedissero. Fra questi eravi l'arcivescovo di Colonia Federico, il quale
scrisse alla repubblica di Milano una lettera che comincia così: Consulibus,
capitaneis, omni militiae, universoque mediolanensi populo. - Civitas Dei
Inclita, conserva libertatem, ut pariter retineas nominis tui dignitatem, quia
quamdiu potestatibus Ecclesiae inimicis resistere niteris, verae libertatis
auctore Christo Domino adjutore perfrueris[272].
E in questa lettera ci avvisa come i principi della Lorena, della Sassonia,
della Turingia e di tutta la Gallia (membri dell'Impero, come lo erano i
Milanesi) si erano, al paro di noi, determinati di voler vivere liberi; e che
tutti erano pronti a collegarsi con noi, ad assisterci; su di che aspettava il
riscontro. Non ci rimane poi notizia alcuna se questa opportunissima offerta
sia stata accettata; anzi dai fatti accaduti dappoi si può presumere che
se ne lasciasse sfuggire l'occasione. In somma Milano era una Repubblica; era
già forte e prepotente nella Lombardia; ma l'uso incautissimo che faceva
della forza sua, eccitava l'invidia e l'odio delle altre città: odio ed
invidia superflue, sin tanto che la dignità imperiale passava da un
principe debole a un altro debole; ma rovinose disposizioni al momento in cui
fosse eletto imperatore un principe di animo e di forze robusto.
Morì in Germania l'imperatore
Enrico IV l'anno 1125; e venne eletto per successore Lottario, duca di
Sassonia, il quale fu poi Lottario III re d'Italia, e Lottario II imperatore.
Alcuni signori tedeschi avevano protestato contro di questa elezione, la quale
si pretendeva fatta per maneggi della Francia; e Corrado, duca di Franconia,
del casato di Stauffen-Suabe, fu uno dei più malcontenti. Conviene dire
ch'ei praticasse delle secrete intelligenze co' Milanesi per togliere almeno il
titolo di re d'Italia a Lottario. Certo è che Corrado, nel 1128, se ne
venne a Milano, per la strada di Como; che fu acclamato re d'Italia, e
incoronato prima in Monza, poi a Milano in Sant'Ambrogio. Sceso Lottario in
Italia, si confederò colle città di Lombardia, nemiche de'
Milanesi, affine di umiliar Milano. Tentò d'impadronirsi di Crema,
città amica de' Milanesi, ma non ebbe forze bastanti. Lottario non poté
essere incoronato re d'Italia, e portossi a Roma, ove fu incoronato imperatore
in San Giovanni Laterano dal
Corrado, sebbene fosse stato incoronato
re d'Italia in Monza ed in Milano, vedendo di non avere forze bastanti a
resistere, si piegò ai tempi, e riconobbe l'imperatore Lottario, e
rinunziò ad ogni pretensione sul regno italico. Lottario, riconosciuto
anche dai Milanesi, venne in Italia; e favorì i Milanesi nelle dispute
che avevano co' vicini. Mentre il nuovo arcivescovo Roboaldo scomunicava i
Cremonesi, l'imperatore Lottario li sottopose al bando imperiale; e, unite le
forze degl'imperiali e de' Milanesi, si devastò il contado di Cremona,
si prese Casalmaggiore, San Bassano e Soncino[279]:
poi queste forze si rivolsero contro Pavia, la quale venne umiliata.
Così assai incautamente i Milanesi, colla distruzione di Lodi e di Como,
colla desolazione de' Cremonesi, e cogli insulti fatti ai Pavesi, si erano
procurati dei nemici implacabili intorno le loro mura; e ne vedremo l'effetto
nel capitolo seguente. Altro non mancava ad accendere il fuoco che doveva
distruggerci, se non l'occasione d'un imperatore potente e voglioso di
riacquistare la signoria d'Italia. Ma né Lottario, né Corrado istesso (che poi,
nel 1138, colla morte di Lottario, fugli eletto in Germania per successore)
ebbero forze per tentarlo. Corrado, obbedendo alle insinuazioni fattegli da san
Bernardo a Spira, s'incamminò alla testa di una armata per
La città di Milano, divenuta
opulenta e popolata nel secolo duodecimo, naturalmente doveva offrire agi
migliori ad ogni cittadino. Non si discorreva più di adoperare per
companatico il lardo, come vedemmo al capitolo quarto; ma pretendevano i canonici
di Sant'Ambrogio che un abate, in certo giorno di solennità, desse loro
un pranzo con tre imbandigioni, ed erano queste: in prima appositione,
pullos frigidos, gambas de vino, et carnem porcinam frigidam: in secunda,
pullos plenos, carnem vaccinam cum piperata, et turtellam de lavezolo: in
tertia, pullos rostidos, lombolos cum panitio, et porcellos plenos[280];
sorta di vivande che non ha saputo indicare cosa fossero l'erudito nostro
conte Giulini[281],
e che molto meno potrei io spiegare. Bastano però queste per dimostrare
che si viveva con una sorta di abbondanza. Fra le cerimonie religiose vi era
quella che il parroco andasse a lustrare coll'acqua benedetta la casa da cui si
era trasportato un morto; e che al Natale il parroco girasse per le case del
suo distretto coll'incensiere a profumarle. Quando si contraevano sponsalia
de futuro[282],
cioè quando si faceva la promessa del matrimonio, si regalava alla
sposa un anello, ovvero una corona, o un cinto, ovvero una veste o un drappo,
ovvero un zendado; e qualora il matrimonio poi non si dovesse più fare,
se lo sposo aveva dato un bacio alla sposa, non si doveva a lui restituire se
non la metà del regalo: Si nomine sponsalitiorum annulus, vel corona,
vel cingulum, vel quid simile, seu amictum, vel pallium, vel zendadum detur;
matrimonio non secuto, medietas redditur si osculum intercesserit[283];
così le consuetudini di Milano dell'anno 1216. Dello stato delle lettere
in quei barbari tempi pochissimo se ne può dire. Unicamente sappiamo che
molti de' nostri giovani allora andavano in Francia a fare i loro studii; ed
è assai probabile che le turbolenze interne alle quali era in preda la
Repubblica, non permettessero quella placida educazione che è necessaria
per avervi delle scuole e de' maestri utili. Fra i paesi vicini, il più
tranquillo e indifferente per noi era la Francia, colla quale non avevamo
più veruna politica relazione. Sotto Lottario s'erano scoperte in
Amalfì le Pandette, e s'era risvegliato un fermento universale per lo
studio della giurisprudenza. Il nostro Oberto dall'Orto fu distinto fra i
dottori di quel tempo; e maestro Giovanni, pure nostro cittadino, fu un medico
che ebbe molta parte nel far risorgere la facoltà che coltivava, in
Salerno. Egli scrisse in versi latini un trattato di medicina per Enrico I,
figlio di Guglielmo il Conquistatore, re d'Inghilterra, che così
comincia:
Anglorum regi scribit schola tota Salerni[284] ecc., e
sebbene la ragione umana fosse coltivata da pochi, e con poverissimo successo,
se vogliansi paragonare que' lavori colle produzioni di secoli più
felici; nondimeno dobbiamo accordare che ci eravamo scostati assai dall'ultima
barbarie del secolo undecimo, quando ne' pubblici contratti si scriveva
così: deveniat in potestatem abas ipsius monasteri sancti Ambrosii in
perpetuis temporibus in eodem sanctum monasterio ordinatus fuerit... capella
una... que ego noviter edificavi... in onore sancti Michaelis et Petri,
consecratam ab domnus Eribertus archiepiscopus[285].
I cognomi cominciarono a formarsi nel secolo undecimo; e nel duodecimo erano
generalmente praticati. La maggior parte ebbero l'etimologia dai luoghi d'onde
traeva origine, ovvero dimorava
Il nome di Federigo I imperatore,
comunemente conosciuto col soprannome di Barbarossa, non è ignoto a
veruno anche del popolo di Milano. Ognuno sa che Milano fu distrutta da lui.
Molte favolose tradizioni, come accade, si frammischiarono colla verità.
Federico Barbarossa però si ricorda come un barbaro. L'epoca di questo
imperatore è stata funesta. Siamo stati avviliti; ma non vili, né senza
gloria. I Romani ebbero due epoche di somma umiliazione; le Forche Caudine e
l'invasione de' Galli. Noi avemmo Uraja e Federico. Gli autori di Germania di
que' tempi ne fanno un eroe; i nostri ne fanno un tiranno. L'unico partito
ch'io prendo sarà quello di appoggiare il mio racconto singolarmente
agli autori tedeschi che scrivevano in que' tempi; e credere di Federico I
tutto il bene che ne dicono i Milanesi, e tutto il male che ne dicono i
Tedeschi. I primi autori che mi serviranno di guida, saranno Ottone, vescovo di
Frisinga, figlio di Leopoldo Pio, marchese d'Austria, e zio paterno dello
stesso imperatore Federico; il quale, come esercitato, quanto in que' tempi
potevasi, nelle lettere latine, scrisse i fasti del nipote, da lui animato a
farlo: l'altro sarà il canonico di Frisinga Radevico, il quale, per
ordine dello stesso imperatore, continuò que' fasti dopo la morte del
vescovo Ottone[286].
Ivi si legge la lettera che l'imperatore diresse al vescovo suo zio, animandolo
a scrivete e dandogli una traccia dei suoi fatti nell'Italia[287];
ivi pure si vede che il continuatore Radevico, dice di avere scritto per
obbedienza al desiderio del defunto vescovo: Ejus jussu, pariteraque divi
imperatoris Friderici nutu[288].
Sicuramente essi non hanno propensione per i Milanesi. Il terzo sarà il
canonico di Praga Vincenzo, che accompagnò il suo vescovo in quella
spedizione d'Italia, e fu presente alla maggior parte degli avvenimenti
accaduti in Milano. La cronaca di Vincenzo fu data al pubblico per la prima
volta nel 1764 dal padre Dobner, nel primo tomo dell'opera intitolata: Monumenta
Historica Boemiae, stampata in Praga. Gli altri autori tedeschi, pubblicati
nelle raccolte del Pistorio Nidano, del Menckenio, dello Struvio, dell'Oefalio,
mi serviranno pure di guida. Farò uso ancora de' nostri Italiani Morena
e Sire Raul, autori tutti contemporanei; ma unicamente pe' fatti che non possono
essere contrari all'imperatore; sebbene il Morena sia più imperiale di
alcun altro. Sarò costretto a registrare più le parole altrui,
che a scrivere le mie; ma i lettori che temono lo spirito di partito e che
bramano di conoscere quanto si può la verità de' fatti accaduti,
non mi sapranno mal grado, se pongo sotto a' loro occhi piuttosto i pezzi
interessanti degli autori originali che scrivevano le cose dei loro tempi, anzi
che un sempre incerto racconto negli argomenti contrastati. Questo è il
solo partito che conviene allorché s'entra a narrare una porzione di storia
controversa.
(1152) Corrado, poco dopo il suo
ritorno da Terra Santa, morì in Bamberga l'anno 1152, e fu eletto re de'
Romani il di lui nipote Federico Barbarossa. Egli allora aveva trentadue anni.
Pieno di ardor militare e di un carattere fermo e impetuoso, sembra che il suo
primo pensiero sia stato quello di sottomettere le città del regno
d'Italia, e di ridurle ad una reale obbedienza, dallo stato indipendente a cui
si erano poste da centoventi anni e più. Albernardo Alamano e Omobono
Maestro, due cittadini lodigiani, si portarono alla dieta di Costanza, e
gettaronsi a' piedi di Federico, implorando il suo aiuto contro de' Milanesi, i
quali non cessavano di opprimere i Lodigiani, anche presso le diroccate mura
della loro patria distrutta. Il re Federico destinò Sicher per suo
ministro a Milano, con un decreto in cui domandava che si cessasse di opprimere
Lodi. I due Lodigiani ritornarono alla patria, per cui avevano operato senza commissione.
Credevano di essere accolti come salvatori dei cittadini, e non ritrovarono che
biasimo, strapazzi ed ingiurie; poiché il timore de' Milanesi era il solo
sentimento che restava a quegl'infelici, dopo il peso di lunghe e gravissime
sciagure. Venne a Milano Sicher, e presentò il decreto del re. I consoli
milanesi stracciarono la carta, la calpestarono; e a stento il regio messo poté
sottrarsi al furore del popolo e fuggirsene di notte[289].
Dopo un tale affronto Federico si determinò di venire in Italia alla
testa di un'armata. I nemici de' Milanesi non potevano mancare di unirsegli
contro di Milano; la quale, come dice il panegirista e parente di Federico: Inter
caeteras ejusdem gentis civitates primatum nunc tenet... non solum ex sui
magnitudine, virorumque fortium copia, verum etiam ex hoc, quod duas civitates
vicinas in eodem situ positas, idest Cumam et Laudam, ditioni suae adjecerit[290].
Cominciò Federico a devastare alcune nostre terre. Erano amici
nostri i Tortonesi, i Piacentini, i Cremaschi ed i Bresciani. Federico
assediò, prese e distrusse Tortona; e dai Pavesi fu accolto con solenne
pompa. Così il re Federico nella sua lettera riferita da Ottone di
Frisinga: Destructa Terdona, Papienses, ut gloriosum post victoriam
triumphum nobis facerent, ad civitatem nos invitaverunt[291].
Col vocabolo però di distruzione non si può intendere
già, che fossero atterrate le case della città, ma deve
intendersi soltanto la demolizione delle fortificazioni, e lo smantellamento
de' ripari che
Frattanto però che stavamo
rendendoci più odiosi ai vicini ed al lontano nemico, la sola cosa
ragionevole che femmo, si fu di munire d'un valido fossato, ossia d'una linea
di circonvallazione tutta la città; la quale, sebbene avesse tuttavia in
piedi le antiche mura di Massimiliano, ristorate dall'arcivescovo Ansperto due
secoli e mezzo prima, nondimeno, per l'accresciuta popolazione doveva avere
molte abitazioni esternamente adiacenti alle mura medesime. Questo fossato
è precisamente quello per cui ora scorre il canale del Naviglio, e
così con chiarezza ognuno può capire qual fosse il giro delle
antiche mura, che ora è indicato dalle chiaviche, da noi chiamate cantarane,
e quale quello del fossato, che visibilmente anche oggidì circonda
Questo avvenimento non fu veramente né
di gloria all'imperatore né di biasimo a Milano. Con un'armata immensa, atta a
conquistare un regno, doveva certamente prendersi una città abbandonata,
e sola in mezzo a tanti e sì potenti aggressori. Né l'imperatore,
scortato di tanti e sì poderosi mezzi, allora mostrò quel vigore
militare che caratterizza un gran generale. Non pose assedio, non
attaccò le fortificazioni, non usò dell'impeto, ma con mezzi
industriosi, e probabilmente colla seduzione del comandante, acquistò
Poiché fu sottomessa Milano,
l'imperatore radunò una dieta in Roncaglia. Ivi, ricorrendo molti per
farvi giudicare le liti, quell'Augusto, se crediamo a Radevico, diceva: Mirari
se prudentiam Latinorum, qui cum praecipue de scientia legum glorientur, maxime
legum invenirentur transgressores; quumque sint tenaces justitiae sectatores,
in tot esurientibus et sitientibus injustitiam evidenter apparere[317].
Se quell'Augusto avesse riflettuto che lo studio delle leggi si fa per
acquistare onori e lucro, e che questo desiderio non esclude i vizii
dell'animo; che il raffinamento medesimo nell'interpretare le leggi debb'essere
una fecondissima sorgente di litigi; che in una nazione ricca ed ingegnosa vi
debbon essere più controversie che in una più povera e indolente;
non avrebbe parlato con derisione degl'Italiani, perché, studiando molto le
leggi di Giustiniano, erano in molte liti imbarazzati. Cesare, Ottaviano
Augusto e gli altri Romani non deridevano i vinti. Il grande Ottone si
mostrò pure abitatore del mondo, come lo sono le anime grandi. Le
antipatie nazionali sono minute opinioni del volgo. In ogni secolo e presso di
ogni nazione le anime nobili sempre furono al disopra della popolare invidia,
ingiusta per lo più o fomentata da una meschina politica. Cercano esse
indistintamente il vero merito, e si pregiano di onorarlo ovunque lo trovino;
mirano la terra come la patria del genere umano, e gli uomini una famiglia,
divisa in buoni e malvagi. Un sovrano poi, che è il padre dei suoi
popoli, non può avere piccole gelosie di fazione. Federico mancò
di politica. Dovevano accorgersi i Lodigiani, i Pavesi, i Cremonesi, i Comaschi
e gli altri che l'imperatore non era punto affezionato né agli Italiani né ad
essi. La guerra fatta ai Milanesi certamente non aveva per oggetto la loro
felicità, liberandoli dall'oppressione; ma, profittando delle nostre
discordie, cercava di sottometterci. È vero che con una pomposa
formalità aveva Federico, il giorno 3 di agosto dello stesso anno 1158,
consegnato ai consoli lodigiani in Monteghezzone un vessillo, e data loro la
proprietà di quello spazio alla sponda dell'Adda per fabbricarvi,
siccome fecero, la nuova città di Lodi; ma l'imperatore con questo dono
non perdeva cosa alcuna; e le città alle quali in quella dieta prese
tutte le regalìe, per formare a se medesimo un tributo annuo di
trentamila marche d'argento, perdevano assai. Più accortamente avrebbe
operato quell'Augusto, se, dopo di aver vinto, colla moderazione e colla
clemenza si fosse proposto di far amare il suo governo; forse avrebbe lasciato
a' suoi successori un regno fedele e tranquillo, fondato sull'interesse
medesimo de' popoli governati, i quali avrebbero naturalmente preferita la pace
sotto di una moderata monarchia, alla turbolenta indipendenza, alle stragi,
all'incertezza che da lungo tempo li rendevano infelici, Ma è più
facile il vincere che il saper godere della vittoria; ed è più
facile il carpire la fortuna, che il convertirla in propria stabile
felicità. L'incauta condotta dell'imperatore gettò i semi di
molte sciagure funeste ai popoli d'Italia; funeste all'Impero medesimo; perché,
dopo le miserie di una seconda guerra, poté bensì opprimere i malcontenti,
ma rovinò il suo Stato, e impresse un tal ribrezzo per la soggezione,
che le città giunsero poi a liberarsene interamente, e col fatto si
resero indipendenti. Questo errore in politica fu allora tanto più
grande, quanto che il sistema feudale somministrava bensì all'imperatore
un'armata combinata per una spedizione; ma non gli lasciava mezzo di avere un
corpo di truppe costantemente assoldate e acquartierate nell'Italia per
mantenersela soggetta.
Nella dieta che tenne l'imperatore in
Roncaglia, simulò di essere interamente amico de' Milanesi, e come dice
il canonico di Praga Vincenzo: Mediolanenses in suum vocat consilium,
quomodo urbes Italiae sibi fideles habeat quaerit, qui ei dant consilium, quod
eos quos per civitates Italiae sibi fideles habet, per suos nuncios, eos sibi
suas constituat potestates... quod imperator laudans, usque ad tempus huic rei
competens in corde suo recondit[318].
I Milanesi, appoggiati alla fede di un trattato che lasciava loro il governo
dei consoli, e l'elezione, soltanto da approvarsi dal sovrano, non sospettarono
che un consiglio pronunziato con candore e con impegno di corrispondere alla
confidenza di quell'Augusto, dovesse cadere a loro detrimento. Così
però avvenne. Il citato canonico era presente in Milano, quando i nunzi
dell'imperatore pretesero di creare un podestà, cioè un dispotico
ministro che reggesse a nome di Federico. Egli così ci racconta la
risposta dei Milanesi. Nullo modo se hoc facere posse respondent;
verumtamen, sicut in privilegio imperatoris habebant, quod ego Vincentius ex
parte imperatoris et regis Bohemiae scripseram, se per omnia facturos promittebant[319].
È da notarsi che l'autore era presente, ed ei medesimo aveva
scritto la capitolazione: Scilicet quod ipsimet, quos vellent, consules
eligerent, et electos ad imperatorem, vel ad ejus nuncium ad hoc constitutum,
pro juranda imperatori fidelitate. adducerent. Contra hoc, nuncii imperatori
respondent quod ipsi Runcaliae hoc imperatori dederint consilium, quod per suos
nuncios in civitatibus Lombardiae ponat potestates: eo consilio utantur et ipsi[320].
Ognuno facilmente giudicherà quale dei due mancasse ai patti. La
maggior parte degli scrittori tedeschi incolpano gl'Italiani d'aver infranta la
data fede; nessuno però era presente al fatto, come questo autore, che
era al seguito del suo vescovo di Praga[321].
Egli è certo che il popolo di Milano si mosse, e che si ascoltavano le
grida fora, fora! mora, mora! come dice l'autore medesimo; e i nunzi
(sebbene i nobili milanesi cercassero di guadagnarseli co' regali e
procurassero di persuader loro che il rumor popolare si sarebbe calmato) non
trovandosi sicuri, se ne partirono di notte e s'avviarono verso
dell'imperatote. Egli era col suo esercito vicino a Bologna. (1159) E previe le
citazioni perentorie legalmente promulgate, proferì nuovamente una
sentenza contro i Milanesi dichiarandoli contumaci, ribelli, disertori
dell'Impero e nemici; condannò quindi i beni de' Milanesi al saccheggio
e le persone alla schiavitù. Ognuno sente qual grado di nobile eroismo
vi sia in tale sentenza, e s'ella rassomigli più ai fasti dei Scipioni,
ovvero a quei di Attila. La data di tale sentenza è 16 aprile 1159. Dopo
un tal fatto non vi era più altro partito che tentare nuovamente la
sorte delle armi. Il castello di Trezzo era presidiato dagl'imperiali, i quali
devastavano le campagne all'intorno. I nostri prontamente ne fecero l'assalto,
e condussero a Milano il comandante e
(1159) Durante tutto l'anno 1159 e 1160
niente intraprese l'imperatore Federico direttamente contro di Milano; e si
passò il tempo in varie zuffe, per lo più dai Milanesi provocate,
e terminate con vario successo, ora felice, ed ora contrario. L'erudizione tutto
raccoglie; la voce della storia racconta que' soli fatti che meritano di essere
conosciuti o per la relazione che ebbero cogli avvenimenti accaduti dappoi,
ovvero per l'influenza che hanno a dimostrarci lo stato delle cose in quei
tempi. Aspettava quell'Augusto nuovi soccorsi dalla Germania, e frattanto
girava per la Lombardia convocando concilii, sostenendo papa Vittore,
scomunicando i partigiani di
(1161-1162) Il secondo blocco della
città di Milano durò quasi sette mesi, e terminò alla fine
di febbraio dell'anno 1162[332].
Non seguì alcuna operazione militare che forzasse alla resa; non furono
diroccate le fortificazioni in verun modo; non fu dato l'assalto; ma l'unica
cagione della dedizione in quella seconda volta è da attribuirsi alla
fisica mancanza d'alimento. Lo storico nostro contemporaneo Sire Raul ci dice
che, per provvedere la città, electi sunt de unaquaque
parochia civitatis duo homines, et de iisdem tres de unaquaque porta, quorum
unus ego fui, ut eorum arbitrio annona, et vinum, et merces venderentur, et
pecunia mutuo daretur, quod in perniciem civitatis versum est[333]:
parole che non furono abbastanza sinora meditate; perché la violazione
della proprietà, e la mediazione del legislatore fra chi vende e chi
compra furono sempre mai operazioni insterilitrici, sebbene di autorità
e lucro per gli esecutori, i quali soli parlano per un popolo che non ragiona
ed ubbidisce, e perciò continuate per lunga serie di secoli. L'incendio
memorando distrusse, in agosto del 1160, quasi tutte le provvisioni. L'esercito
nemico, del 1161, cominciò a postarsi tra levante e tramontana della
città; poi sloggiò e collocò il suo campo, inviandosi a
ponente, poi a mezzodì, sempre facendo fronte verso Milano. Una
così poderosa armata copriva frattanto dietro di lei una moltitudine di
guastatori, i quali tagliavano i grani ancor verdi, le viti, le piante, e
devastavano, per la distanza di quindici miglia, tutte le terre. Poi l'esercito
nemico scomparve; e si accampò verso Lodi, lasciandoci il miserando
spettacolo d'una terra devastata che non poteva darci nulla; e non lasciando
altro compenso per vivere, fuori che i pochi grani scampati dall'incendio.
È assai facile il figurarci la depressione e l'avvilimento nel quale
dovettero a tal vista cadere gli animi de' Milanesi. Il solo scampo che poteva
loro rimanere, era quello di avventurare tutto a una giornata: uscire dalla
loro città con tutte le forze riunite, dare una battaglia, e terminare
la vita con onore, e salvare la patria, distruggendo il nemico, e obbligandolo
a lasciarla libera. Ma per abbracciare questo estremo partito, vi voleva quel
vigor d'animo ne' cittadini e quell'entusiasmo della patria, che cominciava a
venir meno dopo tante infelici vicende. Molti cittadini avevano abbandonato il
partito della patria, e si erano gettati a vivere co' nemici. L'esempio del
conte di Biandrate ci allontanava dall'affidarci ad un secondo dittatore. Ne'
casi estremi il dispotismo solo può salvare la città; ma non
sempre vive nella città l'uomo che, per la sua virtù e talenti,
meriti il deposito di quella terribile autorità; né sempre il popolo ha
mezzi per conoscerlo. Cercarono perciò i consoli di aprire la strada a
una convenzione col nemico; e, chiesti i salvacondotti dal duca di Boemia e dal
conte Palatino del Reno, fratelli dell'imperatore, non meno che dal landgravio
di Assia, di lui cognato, scortati con questi, uscirono dalla città per
entrare con essi in parlamento. Il Morena, lodigiano e fautore di Federico, ci racconta[334]
che dalle truppe dell'arcivescovo di Colonia Reinoldo, contro il gius delle
genti, vennero fatti prigionieri; e, quantunque i tre nominati principi
altamente se ne dolessero, l'imperatore approvò il fatto. Lo storico
nostro Sire Raul ci descrive molte crudeltà praticate dall'imperatore in
questo secondo blocco. Pretende quell'autore contemporaneo, che ai prigionieri
che andava facendo in alcune scorrerie de' nostri, Federico facesse tagliar le
mani. Nomina sei Milanesi nobili, a cinque dei quali fece cavare gli occhi,
lasciando al sesto un occhio solo, acciocché servisse di guida a ricondurre
nella città i suoi compagni. Comunque sia, egli è certo che i
Milanesi, in dicembre dell'anno 1161, e molto più in gennaio del 1162,
erano ridotti all'estremo della penuria, a tal segno che colle armi nelle
domestiche mura si vegliava, perché il padre non rubasse al figlio, il marito
alla moglie il pane, e come ci dice il nostro Calchi: Fame inopiaque cuncti
urgebantur; vir uxorem, socrus nurum, frater fratrem, pater filium strictis
gladiis incessebat, quod pane fraudarentur, passimque domesticae discordiae et
privata jurgia audiebantur[335].
Tutto mancava. Ancora cinque mesi era lontano il raccolto. Soccorso non se
ne poteva ottenere da veruna parte; poiché le strade erano occupate dai nemici.
Il popolo incessantemente tumultuava. La morte era il solo termine, e non
lontano, che si prevedeva dover succedere alla fame. Esclamava il popolo
volendo che la città si rendesse all'imperatore. Si opponevano i
consoli; ancora volevano che non si disperasse, asserendo che il tempo
partorisce talvolta inaspettate vicende, e procura soccorsi non preveduti.
Ricordavano essi che l'armata imperiale, già da tre anni dimorante
nell'Italia, non vi poteva più a lungo soggiornare, o per bisogni della
Germania, o per la stanchezza de' principi: essere sempre aperto il disperato
partito di assoggettarsi ad un monarca offeso e adiratissimo; del quale, nello
stato in cui erano le cose, non era da sperarsi diminuito lo sdegno,
quand'anche si accelerasse di qualche poco la dedizione; per modo che una
più lunga resistenza riusciva in favore della città. Così
allora dicevano i consoli, dei quali i nomi meritano di essere ricordati,
Ottone Visconte, Amizone da Porta Romana, Anselmo da Mandello, Gottifredo
Mainerio, Arderico Cassina, Anselmo dell'Orto, Aliprando Giudice, ed Arderico
da Bonate. (1162) Ma l'intollerabile peso de' mali della carestia mosse il
popolo, e la vita de' consoli fu in pericolo; per lo che si dovettero spedire
immediatamente all'imperatore le condizioni della resa. Nessuna condizione
volle ammettere il vincitore, e volle che ci rendessimo senza alcun patto,
abbandonandoci alla clemenza sua. Così Milano se gli rese; a ciò
anche animati i Milanesi dalle promesse de' principi, i quali assicuravano che
l'imperatore avrebbe operato generosamente; il che ce lo attesta lo stesso
Bucardo, oltre il Morena.
La sommissione dei Milanesi si
rappresentò, al principio di marzo 1162, nella nuova città di
Lodi. Ivi si prostrarono avanti l'imperatore gli otto consoli. Furongli
consegnati quattrocento ostaggi, trascelti fra gli ottimati. Le armi e le
insegne militari furono depositate a' suoi piedi. Gli fu giurata obbedienza
illimitata. Io non descriverò minutamente quello spettacolo umiliante;
poiché quando una città si rende a discrezione, come facemmo noi,
è detto tutto. Ogni avvilimento, ogni insulto di più che debba
soffrire il popolo che in tal modo si è reso, può far torto bensì
alla grandezza d'animo del vincitore, ma non aggiugne alcuna macchia di
più ad una città che non ha più mezzi per resistere. Il
giorno 26 marzo
I nemici o si disarmano co' benefici, o
si spengono, come insegnò il Segretario Fiorentino: i partiti mediocri
guastano l'impresa. I Goti, considerando gl'Insubri come nemici, affezionati
all'Impero, per non trovarsi assaliti dagl'imperiali con averci alle spalle, e
per conservarsi la comunicazione co' Borgognoni, ossia Svizzeri, loro alleati,
sotto Vitige, spedirono Uraja, il quale, alla testa d'un'armata, passò a
fil di spada i nostri maggiori, e lasciò il paese deserto per cinque
secoli, siccome si è veduto. La condotta dell'imperatore Federico è
stata men crudele; ma non più eroica né più saggia. Egli voleva
che non vi fosse più Milano; ne fece uscire gli abitanti, e distrusse
Sebbene io creda verisimile
l'asserzione del Morena, il quale narra che appena la cinquantesima parte di
Milano rimase intatta, non credo io già per ciò che le
quarantanove cinquantesime parti della città siano state distrutte in
modo che veramente fossero le case dai fondamenti demolite. Una demolizione ridotta
a quel segno costerebbe un lavoro grandissimo; e chiunque abbia sperienza di
fabbricare, comprende quanto dispendio e quanto tempo vi voglia per appianare
una casa di buone e antiche mura. È verisimile che lo sfogo della
vendetta de' nemici desse il guasto alle abitazioni, a tal segno da renderle
inservibili; ma probabilmente le muraglie o in tutto o in parte restarono, se
non altro nella parte più vicina al suolo; poiché i mattoni, la calce, i
travi, cadendo, le dovevano sepellire sotto il mucchio di que' rottami. E
ciò sembrami assai naturale, osservando la capricciosa tortuosità
e l'angustia di molte delle nostre vie, singolarmente al centro della
città; poiché se non si fossero riattate le case sopra i fondamenti
antichi, vedremmo della simmetria, come si vede in ogni città fabbricata
tutt'in un tempo. Quel disordine che ci rimane al centro di Milano a me pare
che provi l'opinione da me esposta sin dapprincipio, cioè che Milano non
abbia fondatore alcuno, ma dallo stato di semplice villaggio, gradatamente
crescendo sia diventata una città. Le prime case che piantano gli uomini
in mezzo ai campi sono collocate con nessuna legge, ma puramente a libero
comodo del padrone; a queste si aggiungono altre abitazioni sul pezzo di terra
che ciascuno acquista, e si forma un villaggio colla sola distanza fra casa e
casa, che ne lasci l'uscita e l'ingresso. Cresciuto che sia poi il numero degli
abitatori, si comincia a conoscere la necessità d'un regolamento, e si
obbligano i nuovi che vengono ad osservare nelle nuove case che v'innalzano
certa distanza e certo ordine; e come i nuovi sono costretti a sempre
più allontanarsi dal centro, quanto più tardi si determinano a
scegliervi la dimora, perciò sempre più regolari e spaziose sono
le vie lontane dal mezzo della città; perché le case dei centro sono
state aggiunte ad un villaggio; e quelle più lontane, ad una
città che aveva un regolamento di Edili. Io perciò opino che la
maggior parte delle vie interne di Milano sieno antichissime, e le case,
ristorate sempre sopra i primi fondamenti; poiché dopo cinque anni ciascuno
sarà ritornato esattamente a possedere lo spazio della sua casa, e
l'avrà riattata sopra gli antichi fondamenti.
Come fossero trattati i Milanesi
confinati nei quattro borghi, e quanti vilipendii ed a quante miserie andassero
esposti, è facile immaginarselo, e gli autori ce lo descrivono. Se
è possibile un governo civile che abbia per oggetto l'infelicità
del popolo, lo fu quello; e negli annali nostri ancora si ricordano i nomi di
Pietro da Cunin, di Marquardo di Wenibac e del conte di Grumbac, i quali
poterono distinguersi nella rapacità, durezza ed oppressione sotto cui
fecero gemere i nostri antenati[353].
Il terrore di questo trattamento costrinse Piacenza, Brescia e Bologna a
sottomettersi a Federico: ne sicut Mediolanum, quod fuerat flos
Italiae, si ribelles imperatori existerent, funditus subverterentur[354],
dice il Morena. Tutte le città del regno italico, anche le adiutrici
dell'imperatore, dovettero soffrire l'orgoglioso disprezzo dei ministri
imperiali, che le avevano poste nella servitù. Le doglianze non
portavano in risposta che scherno e vilipendio[355].
Tale fu il punto a cui le interne discordie condussero le città della
Lombardia. Tale fu la condotta dell'imperatore Federico, che non collocheremo
fra gli eroi benèfici, né fra gli eroi militari; poiché per vincere una
città fiancheggiata da' nemici, ed ancora mal ferma nella propria
costituzione, circondandola con un esercito, di cui dice Wernero Rolewinck: Federicus
imperator, quasi cum innumerabili Alamannorum exercitu, Mediolanum obsedit[356],
non fa mestieri di arte alcuna; peggio poi, con un apparato simile, il non
acquistare la città per assalto, ma l'ottenerla colla subordinazione in
prima, poi colla fame. Un numero assai minore di forze poteva restituire
all'Impero la città; e rivolgendo poi la subordinazione in beneficio dei
vinti, poteva Milano trovare sotto il governo d'un solo quell'ordine, quella
pace e quella sicurezza che desiderava nella passata condizione; e poteva un
più virtuoso monarca, dandoci una stabile esistenza civile, farci amare
la perdita della indipendenza, di cui incautamente avevamo abusato per acquistarci
la civile libertà. Allora non avrebbe la storia lasciato scritto quello
che il monaco bavaro pose nella sua cronaca: Mediolanenses sponte se suaque
imperatori dederunt, qui absque ulla clementia Mediolanum destruxit[357].
Una scorreria di barbari può demolire molte città: ma appena nel
corso d'un lungo regno può un monarca potente fabbricarne ed abbellirne
una sola. Questi umani e deliziosi sentimenti non si conoscevano in que' secoli
feroci; e ciò diminuisce in qualche parte la colpa dell'imperator
Federico.
Alessandro III godeva il favore della
Francia e dell'Inghilterra; presso di lui erasi ricoverato il nostro
arcivescovo Oberto da Pirovano, prima dell'eccidio della patria; e l'imperatore
Federico, all'incontro, sosteneva il partito dell'antipapa. Se la prepotenza
de' Milanesi aveva destata l'invidia e l'odio universale, l'estrema loro
oppressione aveva cominciato a farvi sostituire
Per ricondurre i Milanesi nella loro
patria, rialzare le loro fortificazioni, rendere abitabili le loro case e
sicura la loro città, vi voleva l'aiuto dei collegati; e si colse il
tempo in cui l'imperatore stavasene colla sua armata nella Romagna per
discacciarne il
Il conte di Savoia, il marchese di Monferrato,
i Pavesi stimolavano l'imperatore Federico perché venisse con un potente
esercito nella Lombardia a distruggere la nuova lega. L'imperatore della
Germania venne nella Savoia; il conte vi unì le sue armi; entrò
l'esercito nell'Italia; e, nel 1174, si postò sotto la nuova
città, e la cinse d'assedio. L'imperatore non
Si cominciò a trattare per
questa pace fra gli àrbitri. Ma prima di esporre il soggetto del loro
parlamento, conviene che io accenni l'opinione di alcuni cronisti tedeschi, i
quali pretendono che l'imperatore siasi indotto a trattar di pace per le
suppliche fattegli dalle città di Lombardia: anzi il citato monaco
Gottofredo ci vuol far credere che, quando l'armata degli alleati si
portò verso Alessandria, sebbene fosse un esercito forte, alla vista
delle truppe imperiali si ponesse ad implorare perdono, e che, sguainando le
spade, ciascuno se le collocasse sul capo per dar segno che s'impetrava
clemenza. La storia tutta smentisce un tal racconto; né è mai stato
l'uso che per mostrar sommissione, molte città collegate radunino
un'armata cospicua, e con tal cerimoniale vadano a cercare misericordia. Siamo
tutti d'accordo nell'asserire che l'imperatore si pose ad assediare
Alessandria; che gli alleati col loro esercito marciarono a quella vôlta; che
l'assedio di Alessandria fu sciolto; che s'aprì un congresso di pace; e
di più che le proposizioni delle città alleate furono: che
l'imperatore riconoscesse per legittimo il
Dalle condizioni proposte in questo
trattato di pace, che l'imperatore aveva offerto con poco buona fede, per
aspettare le nuove forze della Germania e acquistare tempo frattanto; da tali
condizioni, dico, si ha idea quai fossero le regalie, ossia i tributi che si
usavano in que' tempi. Non sarà discaro, cred'io, il darne un breve
cenno. I tributi si sono dovuti accrescere nell'Europa in questi ultimi secoli
il doppio, il triplo e più ancora, che non pagavasi al sovrano in que'
secoli de' quali finora ho trattato. Questo accrescimento di tributo non
è meramente apparente, o per la diminuzione delle lire, o per
l'avvilimento dei metalli nobili, resi assai più comuni e abbondanti
dopo la scoperta delle miniere d'America; ma è fisico e reale,
indipendentemente ancora da queste cagioni. Ciò doveva accadere; poiché
gli Stati erano organizzati allora in guisa, che ogni uomo capace di portare le
armi, veniva costretto a marciare alla guerra avvisatone dal proprio padrone, e
questi, al cenno del sovrano, compariva all'armata reggendo i suoi; terminato
il bisogno, si scioglieva l'esercito. I signori ritornavano a' loro piccoli
Stati o castelli, e i vassalli a lavorare i loro campi. Così, invece di
tributo, i sudditi prestavano servigi. Si cambiò poco a poco il sistema
ne' secoli seguenti. Si stipendiarono i militari, poi gradatamente si
andò formando di essi una classe distinta dagli altri sudditi, classe
costantemente addetta alla sola milizia, e conseguentemente da mantenersi col
tributo ripartito sul rimanente della società: e questo ceto cli uomini,
che non contribuisce all'annua riproduzione e consuma, si andò sempre
aumentando nei tempi a noi più vicini; ed accresciutosi da un sovrano,
fu d'uopo che gli altri a proporzione pure lo accrescessero. Questa è
stata la cagion principale per cui nell'Europa sono stati di tanto multiplicati
i tributi sopra de' popoli, i quali però hanno acquistata la libertà
di passare tranquillamente la vita nelle loro case; e furono liberati
dall'obblico di espatriare e di soffrire le inquietudini della milizia. Il
lusso poi delle corti ingrandito, la schiera dei ministri che abitualmente si
trasmettono gli Stati gli uni agli altri, hanno ancora di più aumentata
la necessità dei tributi, i quali, e nella quantità e nel peso,
generalmente si troveranno più che raddoppiati in quasi tutti gli stati
di Europa. Sarebbe un quesito politico l'antivedere qual limite avranno le
armate; e se troverà maggiore utilità qualche Stato a rendere la
condizione del soldato più ampia oltre i bisogni fisici, a costo di
averne in minor numero e più contenti; ma ciò mi farebbe traviare
in una folla d'idee disparate dalla storia. Unicamente ricorderò una verità
assai facile e comune; cioè che i tributi, giunti a un dato limite, non
si accresceranno senza una diminuzione di rendita; stabile, se vogliasi
perseverare; e irremediabile talvolta, se alla diminuzione si creda di
supplirvi con nuovi accrescimenti. Ne' tempi dei quali ragiono non erano la
geometria e la cognizione del cielo giunte a segno da potersi formare una carta
esatta d'un paese; conseguentemente non si poteva ripartire sulle terre il
fondo principale del tributo. Egli è vero che nel Milanese il fondo
principale della riproduzione è la terra ferace sulla quale siamo nati,
ma senza un'esatta misura de' campi non si poteva collocare su di quella il
tributo. A questa difficoltà si aggiugneva un'altra di opinione, ché
credevasi ingiusta cosa lo stabilire un carico uniforme e permanente sopra una
ricchezza che è variabile colla diversità delle annate.
Perciò anticamente, piuttosto si volle ogni anno esporsi alla spesa e
all'arbitrio d'un generale catastro dei frutti raccolti, anzi che mancare
all'apparente giustizia distributiva. L'erudito circospettissimo nostro conte
Giulini asserisce di non avere osservato mai alcun carico anticamente imposto
su i fondi; ma bensì ai frutti, ovvero alle persone[370].
Forse l'antichissimo carico dell'Imbottato, abolito dalla
beneficentissima Sovrana l'anno 1780, era una tradizione discesa sino da que'
secoli rimoti. Pagavansi antichissimamente da alcune terre delle tasse al
sovrano. La terra di Limonta, prima del secolo decimo, pagava lire tre e mezza
in denaro, dodici staia di grano, trenta libbre di cacio, trenta paia di polli,
trecento uova e cento libbre di ferro[371],
e con ciò aveva pagato il suo annuo tributo. Alcune tasse personali
s'imponevano all'occasione de' bisogni dello Stato: e questa, ne' tempi rozzi,
doveva essere la ripartizione più facile e breve del tributo.
Così, per liberarci dall'invasione degli Ungheri nell'anno 947, s'impose
la tassa straordinaria di un denaro a testa, a cui vennero assoggettati anche le
donne ed i fanciulli[372].
I telonei sono antichissimi, ed era il tributo che pagava la merce
nell'entrare nella città e nel distretto. In origine pagavasi tanto per
ogni carro e tanto per ogni bestia da soma; ed è assai probabile che
venisse questo assegnato alla conservazione e al rifacimento delle strade che,
dal passaggio a cui erano destinate, ricevevano i mezzi per mantenersi. Col
progresso del tempo si fece poi riflessione alla sproporzione intriseca di
questo carico, per cui aggravavasi un carro di paglia ugualmente come un carro
di panni lani; e si passò a formare una tariffa che, avendo per norma il
valore della merce, vi regolava proporzionatamente il tributo. Nel 1216 questa
tariffa vi era. Vedemmo già al capitolo quarto come da prima
l'arcivescovo ne ricevesse i prodotti. Ora colle condizioni medesime era
passata alla comunità de' mercanti, i quali avevano il peso della
custodia e manutenzione delle strade; essendo essi obbligati a risarcire con
quel fondo i danni che venissero a soffrire le merci, anche pei furti commessi
sulle pubbliche strade[373].
Abbiamo stampata, colla edizione del 1480 dei nostri statuti, anche la tariffa
pubblicata nel
Ripigliamo il filo della storia. Circa
dodici mesi destramente ci tenne a bada l'imperatore Federico, lasciando che
gli àrbitri discutessero gli articoli d'una pace chimerica; e frattanto
nella Germania andava radunando le forze quanto più poteva per
sorprendere le città collegate ed opprimerle. (1176) In fatti, nella
primavera del 1176, seppe Federico che il nuovo rinforzo di principi e di
militi stava per entrare nell'Italia dalla strada di Bellinzona; e l'imperatore
andògli incontro. La città di Como gli era fedele, come lo era
Pavia. Unitosi al nuovo esercito, al quale aggiunse i militi di Como,
s'inviò per marciare a Pavia, dove stava il rimanente delle sue forze e
il marchese di Monferrato co' suoi. I Milanesi saggiamente vollero tentare una
giornata, prima che le forze riunite piombassero sopra della loro città.
Già ogni discorso di pace era stato rotto dall'imperatore, dal momento
in cui ebbe le nuove forze. Avevamo il soccorso di molti militi alleati,
bresciani, veronesi e piacentini. Uscimmo all'incontro dell'imperatore, e lo
raggiunsimo verso Busto Arsizio. L'azione fu tanto felice per i Milanesi, che
tutta l'armata imperiale fu annientata. Molti rimasero sul campo. I fuggitivi,
inseguiti sino alle sponde del Tesino, vi furono gettati e si affogarono. Il
rimanente si rese, e vennero i prigionieri condotti in Milano. Fra i
prigionieri si contarono il duca Bertoldo, un principe nipote dell'imperatore,
e il fratello dell'arcivescovo di Colonia. La cassa militare venne acquistata
dai Milanesi, e lo scudo e la lancia dell'imperatore, il quale ebbe
fortunatamente occasione di salvarsi sconosciuto, e ricoverarsi a Pavia. Questo
fatto rese celebre il giorno 29 di maggio 1176. I trattamenti usati da Federico
co' suoi prigionieri non ci furono di norma, quando prospera avemmo la sorte
delle armi; né alcuno degli scrittori tedeschi (tanto favorevoli a
quell'augusto, e così poco inclinati a trovarci buoni) si lagna di abuso
commesso da noi nella vittoria. Questa giornata terminò per sempre tutte
le operazioni militari dell'imperatore Federico in Italia: il che prova che il
fatto sia appunto accaduto quale minutamente ce lo descrivono Sire Raul e il
calendario Sitoniano, non già come da alcuni scrittori tedeschi è
stato rappresentato. Poiché se unicamente fosse stato l'imperatore, scortato da
pochi, involto in una insidiosa sorpresa de' Milanesi, da cui colla fuga si
sottraesse, questo avvenimento non avrebbegli fatto mutar parere, né pensare a
dare la pace e la libertà alla Lombardia, che ostinatamente per lo
spazio di dodici anni aveva cercato di assoggettare. Il Pagi, trattando
dell'anno
La pace che separatamente aveva fatta
Alessandro III coll'imperator Federico, abbandonando le città
confederate al loro destino, non cagionò danno veruno alla lega
lombarda. L'imperatore andossene in Germania; e le città, sgombrato ogni
timore, formarono in Parma un congresso, nel quale si presero a trattare
gl'interessi comuni, per rassodare sempre più la loro concordia. Parma
era la città più comoda per collocarvi un centro di comunicazione
da Padova ad Alessandria, da Milano a Bologna, e da tant'altre città che
disopra ho nominate. (1183) La tregua si cambiò in una pace segnata in
Costanza l'anno 1183, il 25 giugno; pace resa famosa sopra ogni altra, perché
stata collocata nel corpo delle leggi, acciocché servisse ne' secoli successivi
di norma dei diritti e del governo delle città lombarde. Chi brama di
conoscere esattamente gli affari della lega lombarda e di quella pace, ne
troverà la istruzione nella dissertazione quarantottesima dell'immortale
nostro Lodovico Antonio Muratori. Dopo i lavori erculei di questo illustre
erudito, a noi non rimane che di scavare piccoli fili della grande miniera da
lui esausta; a meno che non ci rivolgiamo a far uso dell'oro già
estratto per ridurlo a più finito lavoro. Ecco però lo spirito
della celebre pace di Costanza: le città lombarde potranno fortificare
le loro mura; potranno avere la loro armata; potranno mantenere e rinnovare la
confederazione a loro piacere; goderanno di tutte le regalie, e conserveranno
le loro consuetudini; le città giureranno fedeltà all'imperatore;
gli pagheranno ogni anno in segno d'omaggio duemila marche d'argento[379];
l'imperatore avrà i suoi legati nella Lombardia, i quali daranno
l'investitura ai consoli delle città, e giudicheranno le cause di
maggiore somma, qualora la parte succombente lo cerchi; ma saranno obbligati a
profferire la loro sentenza fra due mesi, e dovranno giudicare secondo le leggi
della città; ogni cinque anni le città della lega manderanno i
loro oratori alla corte imperiale, per ricevere l'investitura, ed ogni dieci
anni si rinnoverà il giuramento di fedeltà; le controversie per
cagione dei feudi fra l'imperatore e alcuno della lega, verranno decise dai
Pari della città, secondo le di lei consuetudini, fuori che nel caso in
cui l'imperatore si trovasse in Lombardia; allora potrà, se lo vuole, ei
stesso giudicarle; e quando verrà l'imperatore nella Lombardia, se gli
somministreranno i foraggi consueti, e si accomoderanno i ponti e le strade. In
questa forma si venne nell'Italia a constituire un'associazione di città
libere, sotto la protezione dell'Impero, come lo erano poco prima diventate
nella Germania le città anseatiche, Lubecca ed Amburgo; e come nell'anno
medesimo 1183, nella Germania pure, lo era diventata Ratisbona; e da quella
data ricominciarono a comparire nelle carte le sottoscrizioni dei consoli Reipublicae
Mediolanensis[380].
Colla pace di Costanza avevano i
Milanesi acquistata la libertà municipale, sotto una limitata protezione
dell'Impero; ma nessuna dominazione rimaneva ad essi, o ben poca: essendo le
province della Martesana, del Seprio ecc., cioè la maggior parte de'
borghi e delle terre che ora formano il ducato, indipendenti, anzi nemiche.
(1185) L'imperatore Federico medesimo, con una carta segnata in Reggio agli 11
febbraio 1185, e pubblicata dal Puricelli[381],
a noi rinunziò omnia regalia quae Imperium habet in Archiepiscopatu
Mediolanensi, sive in comitatibus Seprii, Martesanae, Bulgariae, Leucensi etc.[382].
Nella carta medesima si vede che Federico, ad istanza dei Milanesi, si
obbligò a procurare che si riedificasse Crema, e si sarebbe opposto a
chiunque tentasse di frastornarne il risorgimento; e promise in oltre che non
avrebbe fatto altra lega con altra città di Lombardia senza il consenso
de' consoli di Milano[383].
Così giurò, e promise di far giurare anche il suo figlio Enrico,
già eletto re de' Romani, entro quel termine, che sarebbe piaciuto ai
consoli ed al consiglio di Milano di assegnare: ad terminum quem consules
Mediolani com Consilio credentiae nobis dixerint[384].
I Milanesi, in ricompensa, si obbligarono a garantire all'imperatore gli Stati
suoi d'Italia, e singolarmente le terre della contessa Matilde. In questa carta
vi si legge espresso il patto che se mai l'imperatore, ovvero il re Enrico,
avessero contravvenuto a quanto fu stipulato nella pace di Costanza, la
repubblica di Milano sarebbe stata disobbligata dalla garanzia; e se mai alcuna
città della lega avesse mancato di tributare all'imperatore quanto nella
pace di Costanza erasi promesso, la repubblica di Milano avrebbe assistito
colle sue forze l'imperatore per ottenergli una condegna soddisfazione.
Finalmente i Milanesi promisero che non avrebbero contratta veruna speciale
alleanza con altre città di Lombardia, eccetto la confederazione, ossia
lega lombarda, a meno di ottenere l'assenso dell'imperatore e del re Enrico, di
lui figlio. Questo trattato di Reggio ci dà a conoscere quanto fosse
mutato l'aspetto delle cose dopo la giornata 29 maggio
(1186) Dopo questi particolari legami
di amicizia (se pure non è profanazione d'un nome consacrato al
sentimento l'adoperarlo in questo luogo) l'imperatore Federico venne a Milano,
ed alloggiò nel monastero di Sant'Ambrogio, e in quello poi si
celebrarono con pompa imperiale le nozze del re Enrico con Costanza, figlia di
Ruggieri re di Sicilia. La chiesa non si trovò bastantemente capace, e
perciò si fabbricò una magnifica sala di legno nel giardino del
monastero medesimo. Il corredo della sposa ce lo indica
Ritorniamo all'imperator Federico. Nessuno
lo accusa di pusillanimità; anzi tutti i monumenti che la storia ci ha
tramandati, ci fanno testimonio ch'egli fu un principe d'animo fermo, ardito,
intraprendente, e in più d'una battaglia espose la sua persona al
pericolo al pari di ogni altro milite. Si cerca poi s'egli avesse il talento
militare, o se possa meritare un luogo fra i capitani illustri. Considerando le
forze immense che seco strascinava; la piccolezza delle città, disunite
e rivali, che attaccò; il modo con cui vinse, ora per maneggio, ora per
l'inedia, non mai con un assalto impetuosamente guidato, o con un assedio
giudiziosamente condotto; e sopra tutto il cambiamento assoluto ch'ei fece alla
prima rotta che ebbe da' Milanesi al 29 maggio 1176 nella giornata di Busto
Arsizio o di Legnano, come altri la chiamarono; forza è pure il
confessare ch'egli nessuna azione militare intraprese, la quale provi la
superiorità della sua mente. Egli con aiuti grandissimi intraprese
piccole cose, e al primo rovescio di fortuna abbandonò il progetto. Si
cerca s'egli fosse uomo di gran talento per il governo. Gli effetti gli furono
poco favorevoli. Il suo progetto era di sottomettere il regno Italico alla
dipendenza assoluta; e lo lasciò più indipendente di prima. Egli
pensava di far rivivere, anzi di ampliare tutte le ragioni della suprema
dignità imperiale; e lasciò la Germania immersa ne' torbidi; e la
dignità decaduta, contrastata e divisa più che mai forse non lo
era stata per lo passato. Come mai adunque la maggior parte degli scrittori
della Germania innalza tanto l'imperatore Federico I! e come è mai
possibile, dopo quasi sei secoli, che gli scrittori di due nazioni, cioè
gli uomini per loro mestiere consacrati a trovare la verità, non sieno
per anco d'accordo! Credo che non sia tanto difficile il rinvenirne
Prima di abbandonare l'argomento
dell'imperatore Federico, io ricorderò alcuni tratti della di lui
maniera di operare; acciò si formi un giudizio, e della umanità
sua e de' principii della sua virtù; e questi li prenderò tutti
da autori tedeschi e parziali suoi. Il primo documento sarà la lettera
con cui l'imperatore istesso rende informato il vescovo di Frisinga Ottone, suo
zio, de' suoi gesti nella prima spedizione in Lombardia, acciocché con essa
avesse lo scrittore una traccia per tramandare ai posteri i fasti del suo
regno; eccone alcuni pezzi: Dum ab eis, cioè dai Milanesi,
dice l'imperatore, mercatum quaereremus, et ipsi nobis eum negarent,
nobilissimum castrum eorum, Rosatum videlicet quod quingentos milites habebat,
capi et incendio destrui fecimus... inde tria castra eorum fortissima, Minimam
videlicet, Gailardam, et Trecam destruximus, et natale Domini cum maxima jucunditate
celebrato... inde Chairam, maximam, et munitissimam villam, destruximus, et
civitatem Astam incendio vastavimus... inde venimus Spoletum, et quia rebellis
erat... vi cepimus, ignet videlicet et gladio, et infinitis spoliis acceptis,
pluribus igne consumptis, funditus eam destruximus[393].
Questo è il modo col quale guerreggiavano i popoli barbari, convien pur
dirlo. Perché Spoleti (che, sotto i Longobardi, ebbe i suoi duchi a parte, e
che non era città della Lombardia) Federico la chiamasse ribelle, non lo
so; il modo però col quale fu trattata ce lo dice Ottone Frinsingense: Civitas
direptioni datur, et antequam asportari usui hominum profutura possent, a
quodam apposito igne, concrematur. Cives qui ferrum, flammamque effugere
poterant, in vicinum montem seminudi, vitam tantum servantes, se recipiunt...
postera die, eo quod ex adustione cadaverum totus in vicino corruptus aer
intoterabilem generaret nidorem, ad proxima exercitum transtulit loca... donec
igni residua in usus exercitus, non miserorum Spoletanorum, cederent spolia[394].
Nell'assedio di Tortona l'imperator Federico teneva le forche piantate a
vista della città, e i prigionieri li faceva impiccare: ce lo racconta
lo stesso Frisingense: Quicumque ex eis deprehensi fuissent,
patibuli, quod in praesentiarum erectum cernebant, expectabant supplicium[395];
e quando prese Tortona, Civitas, primo direptioni exposita, excidio et
flammae mox traditur[396]:
così il Frisingense[397].
Il medesimo Ottone Frisingense ci riferisce per esteso freddamente un fatto
atroce; e fa maraviglia come non si accorgesse, scrivendolo, che l'azione era
obbrobriosa. Dice egli adunque che l'imperatore Federico, volendo passare un
distretto alla Chiusa, dove un monte del Veronese è imminente all'Adige,
ritornandosene in Germania, trovò il luogo occupato da molti armati, i
quali gl'impedivano il passaggio. Dovette più volte in vano tentare di
superarli; finalmente arrampicatisi a stento molti imperiali sulla parte
opposta del monte, giunsero a dominare quegli armati ed a superarli.
L'imperatore li prese; erano cinquecento, e tutti li condannò subito
alle forche, trattone un d'essi, che palesò d'essere Francese, d'essere
stato in quella compagnia, senza sapere di opporsi all'imperatore, e d'essere
cavaliere e libero; e a questi donò la vita, obbligandolo a fare il
carnefice dei suoi compagni. Erant pene omnes qui in vinculis tenebantur,
equestris ordinis. Praesentatis igitur praedictis viris principi, ad
patibulique supplicia adjudicatis, unus ex eis inquit: Audi, impeator
nobilissime, miserrimi hominis sortem. Gallus ego natione sum, non Lombardus,
ordine, quamvis pauper, eques, conditione liber, etc.. Hunc solum imperator
gloriosus de caeteris sententia mortis, eripiendum decrevit: hoc ei tantum pro poena
imposito, ut funibus cervicibus singulorum appositis, ligni supplicio
commilitones plecteret. Sicque factum est[398];
e i cadaveri poi di questi, ut cunctis transeuntibus temeritatis suae
praeberent documenta, in ipsa via, in cumulos acti: fuerint autem, ut dicitur, quingenti[399].
Un altro fatto accaduto nel Veronese, alla prima comparsa che fece nell'Italia
l'imperator Federico, ce lo racconta il canonico Vincenzo di Praga, e ce lo
racconta con mirabile indifferenza. I Veronesi pretesero che Federico dovesse
pagar loro il passaggio nel castello di Garda, perché non era per anco
consacrato imperatore. Il castello era inespugnabile. L'imperatore promise con
buone parole che avrebbe pagato. I Veronesi gli aprirono il passo, affidati
alla promessa. Passato ch'ei fu, avvisò i Veronesi acciocché mandassero
a ricevere il denaro. Egli era accampato col suo esercito. Dodici fra i
più nobili signori veronesi, perciò, si presentarono, avendo un
seguito di molti altri nobili. L'imperatore li accolse con volto ridente. Li
fece arrestare. Molti li fece trucidare. I dodici deputati li fece impiccare;
ed uno di essi, avendogli provato d'essere consanguineo dell'istesso
imperatore, lo fece impiccare sopra di un più alto patibolo. Eccone le
parole: Rex Fridericus collecta plurima multitudine principum, et
aliorum militum, Henrico duce Saxoniae, et Friderico filio regis
Corradi, aliisque principibus sibi adjunctis, Romam ad Papam Adrianum, ut eum
in Caesarem jure debito consecret, iter cum forti manu militum arripuit; cum
autem in exitu Alpium ante ipsam Veronam civitatem ad Guordum castellum
inexpugnabile pervenerunt, Veronenses, tamquam ex suo jure, transitum sibi et
suis prohibent, dicentes eum esse nondun Caesarem, sed regem, propter hoc eam,
ex eorum jure, eis debere pecuniam persolvere si inde Romam transire velit:
postquam vero eum in Caesarem consecratum receperint, ei tunc honorem Caesari
debitum persolvent, non ante. Haec
Fridericus audiens, iram reprimit, et eam dissimulans, verba dat bona, pecuniam
quam exquirunt eis promittit, et tanquam super hoc securitate data Veronam,
illaesis exercitibus suis, transit. Regalibus itaque ultra positis
excercitibus, mandat Veronensibus ut pro debita pecunia veniant; qui verbis
ejus credentes, XII meliores et nobiliores, et aliis pluribus nobilibus
adjunctis, pro pecunia promissa ad regem dirigunt, quos ipse rex hilari vultu
suspiciens, de promissa pecunia verbis datis optimis, eos capi praecipit, et
plurimis ex eis trucidatis, XII nobiliores suspendi praecipit. Et cum quidam
de propinquiori linea cognatum ejus esse se diceret, et hoc testimonio
comprobaret, propter hoc altius, tamquam nobiliorem, suspendi praecipit[400]. Giudichi ognuno
come sente, del merito di questo principe. Io non saprei paragonarlo a veruno
de' grandi uomini che sedettero sul trono; sia che lo consideri per il talento
militare, sia che lo esamini come politico, sia finalmente che lo risguardi
come uomo, dal canto dell'umanità, della fede e della grandezza de'
sentimenti. Pongansi al confronto i due imperatori tedeschi Ottone e Federico,
e vedremo al paragone l'uomo grande e l'uomo barbaro.
Dopo la morte di Federico I venne
incoronato imperatore Enrico di lui figlio; il quale mostrò sempre mal
animo ai Milanesi, e suscitò loro la rivalità di molte
città lombarde. La gran lega si ruppe e si divise in associazioni minori.
Ma non ebbe quell'augusto forza bastante per danneggiare Milano, nel breve suo
impero di appena sette anni. Questo imperatore Enrico (comunemente chiamato
sesto, e che realmente nella serie degl'imperatori è il quinto, come noi
Italiani lo chiamiamo) lasciò un figlio, già conosciuto come re
de' Romani, per nome Federico. Egli poi giunse all'Impero e si chiamò
Federico II. Ma alla morte dell'imperatore Enrico egli era ancora bambino,
abbandonato alla tutela di suo zio paterno Filippo, duca di Svevia e di
Toscana; il quale, approfittando della debolezza del fanciullo, fece proclamare
se medesimo re di Germania, sebbene un altro partito nella Germania medesima
innalzasse alla stessa dignità Ottone, duca di Sassonia, principe del
sangue estense, che fra gl'imperatori si nomina Ottone IV. Così ne'
sette anni del regno di Enrico V, e ne' dieci anni ne' quali tre rivali
pretendevano l'Impero, Federico, Filippo ed Ottone, quasi nessuna influenza
ebbe la Germania sulla Lombardia.
I cronisti di questi tempi sono
abbondantissimi nel racconto minuto delle piccole rivalità che portavano
le città dell'Insubria alle zuffe, alle scorrerie, alle paci appena
giurate infrante, e alle depredazioni. Io non mi sono prefisso di raccontare
tutti gli avvenimenti, ma di trascegliere que' pochi i quali o sono capaci di
darci idea de' costumi e della felicità di que' tempi, ovvero sono un
seme degli avvenimenti importanti accaduti dappoi. Le inquietudini co' vicini
furono incessanti. I nostri fedeli amici furono i Piacentini, i Cremaschi, i
Novaresi, i Vercellesi, e le città più lontane, Verona, Bologna,
Faenza e Treviso. I Pavesi e i Cremaschi furono quelli co' quali maggiormente
si stava in guerra. Co' Bergamaschi, e co' Lodigiani e Comaschi pure, poco
sicura fu
Questo vizio interno (che, accendendo
una guerra intestina, sbandiva realmente la forma repubblicana dalla
città, e la costringeva a rifugiarsi nel dispotismo per
l'impossibilità di reggersi) nasceva a mio credere per colpa de' nobili.
Il dominare, l'innalzarci sopra i nostri fratelli, il dimenticare persino che
lo sono, è cosa naturalissima all'uomo; ma la plebe milanese non poteva
sopportare l'orgoglio de' nobili, né i valvassori quello de' capitani. Sappiamo
quante inquietudini provò la repubblica di Roma per l'impazienza del
popolo, e quante guerre dovette intraprendere per allontanare la plebe dalla
città. I nobili di Roma avevano nelle loro mani gli auguri, gli auspici
e tutte le forze del culto religioso; eppure il partito popolare finalmente
scoppiò, rovesciò la repubblica, innalzò Cesare e
creò i primi imperatori, i quali, colla rovina de' nobili, pagavano le
largizioni e gli spettacoli per favorire
(1208) Colla morte di Filippo, duca di
Svevia, seguìta l'anno 1208, non rimanevano che due pretendenti alla
dignità imperiale, Ottone e Federico; ma Ottone venne proclamato in
Germania re de' Romani, e in Roma incoronato imperatore da Innocenzo III.
L'imperatore Ottone IV era, siccome dissi, del sangue della casa d'Este; egli
era figlio di Arrigo il Leone, il quale, dopo d'avere seguitato l'imperatore
Federico I nelle lunghe spedizioni d'Italia, per un tratto del suo dispotismo
era stato privato della Baviera e della Sassonia. Questa era una cagione
bastante per rendere l'imperatore Ottone nemico di Federico, e per renderlo
caro ai Milanesi, come lo fu sommamente. In una lettera che quell'augusto
scrisse ai Milanesi, si legge: Oblivisci non etiam possumus, quod vos, jam
pacato Imperio, quod diu turbatum fuerat, tam discretos et tam honestos nuncios
cum muneribus vestris ad nos destinastis, quos nos, sicut decuit, et sub illa
gratia et devotione qua vos semper fovimus, et semper amplectemur, recepimus,
munera quoque vestra tanto nobis fuerunt gratiora, quanto magis scimus illa ex
affectu purae dilectionis fuisse transmissa[406].
(1210) Venne in Milano Ottone IV l'anno 1210; e fu generale il giubilo e il
plauso in tutti gli ordini della città. Vi fu adorato; ed ei fece
nascere questo caro sentimento coll'affabilità e colla bontà sua.
Egli non volle immischiarsi nelle cose della città, ma, premuroso
d'avere assistenza da noi, l'ottenne largamente: e partì, accompagnato
da buona scorta de' nostri militi, e d'ogni altro aiuto, per la conquista della
Puglia, la quale sarebbe caduta in suo potere, se i maneggi del papa e del re
di Francia non gli avessero suscitato nella Germania un forte partito, per
collocare sul trono il giovine Federico. Il papa scomunicò l'imperatore
Ottone, il quale fu da ciò obbligato a ritornarsene nella Germania ed
abbandonare
(1216) Nel tempo di questi torbidi, fra
le censure e gl'interdetti, l'anno 1216, si compilarono in un codice gli
statuti e le consuetudini di Milano; acciocché la sorte dei giudizi non fosse
più tanto arbitraria ed incerta, come lo doveva essere prima, appoggiata
a mere tradizioni, e senza uno stabile monumento. Di questo codice se ne
conserva un antico esemplare manoscritto nella biblioteca Ambrosiana. Un'altra
bell'opera s'intraprese l'anno 1220, mentre era podestà di Milano
Amizone Carentano, lodigiano, e fu lo scavo d'un canale che da Cassano sino a
Castiglione Lodigiano deriva le acque dell'Adda. Questo canale forma la
ricchezza del contado di Lodi. Allora si chiamava Adda nuova; ora, non
saprei per qual cagione, si chiama la Muzza[408].
Già quaranta anni prima era stato fatto l'altro cavo, che, guidando le
acque del Tesino sulle terre sino ad Abbiategrasso, rendeva irrigabile una
parte delle campagne milanesi; indi, nel 1257, questo cavo fu prolungato sino a
Milano, siccome poi dirò. È cosa maravigliosa che fra i torbidi
interni ed esterni, in mezzo all'ignoranza di quel secolo, si ardisse di
pensare a così grandiose ed utili opere pubbliche, e si eseguissero,
domando le acque, e guidando de' fiumi artificiali per lunghi tratti di paese.
S'erano dilatati, al principio del
secolo decimoterzo, i due ordini de' frati predicatori e dei frati minori; e si
erano intraprese moltissime ricerche contro l'eresia. Sappiamo le guerre mosse
per questo titolo nella Francia contro gli Albigesi. Nella Germania non
mancarono simili inquisizioni; e presso di noi si trovarono quindici
sètte di eretici, de' quali i nomi sono i Patarini, i Cattari,
i Carani, i Concorezi, i Fursici, i Vanni, gli
Speronisti, i Carantani, i Romulari, i Poveri di Lione, i
Passagini, i Giuseppini, gli Arnaldisti, i Credenti di
Milano, i Credenti da Bagnuolo; e quello che vi era di più
singolare, nessun uomo si nominava che fosse capo di setta, o nessun libro sul
quale fosse appoggiata l'eresia. Nella Grecia sappiamo chi abbia insegnato gli
errori degli Ariani, degli Eutichiani, de' Nestoriani, ecc. Ne' tempi
più a noi vicini sappiamo pure da chi prendessero le loro dottrine gli Hussiti,
i Wiclefiti, i Luterani, ecc. Ma nel secolo decimoterzo si scopersero quindici
sêtte di Novatori nel Milanese, senza che la storia ci nomini l'autore
maestro delle dannevoli novità! Due secoli prima gli abitatori del
castello di Monforte, nella diocesi di Asti, furono presi; e per titolo
d'eresia terminarono la vita nel fuoco, siccome dissi al capitolo quarto. Fu
quello il primo esempio, ch'io sappia, in cui solennemente siasi adoperata la
violenza del supplicio, per difendere la mansueta religione di Cristo. Ora, nel
secolo decimoterzo, questa maniera di sostenere il dogma venne generalmente in
uso. Venne deputato dal sommo pontefice ad agire contro gli eretici san Pietro
Martire, che allora si chiamava frà Pietro da Verona. Egli era
domenicano, e per la distruzione dell'eresia aveva formato in Milano una compagnia[409],
la quale era stata presa dal sommo pontefice sotto la sua protezione; e il
breve di Gregorio XI si conserva nell'archivio di Sant'Eustorgio tuttavia.
L'anno 1233 era podestà di Milano Oldrado da Tresseno, lodigiano, il
quale, secondando le mire dell'Inquisizione, consegnò alle fiamme non
pochi cittadini. La figura equestre di questo podestà mirasi anche al
presente, a basso rilievo in marmo, nella facciata verso mezzo giorno della
sala del consiglio della Repubblica, ora l'archivio pubblico; e nell'iscrizione
leggesi l'encomio d'aver bruciato i Cattari: Catharos ut debuit uxit,
barbarismo postovi per far la rima col verso leonino: Qui solium struxit,
Catharos ut debuit, uxit. Il Fiamma, riferendo le gesta di questo
podestà, dice: In marmore super equum residens sculptus fuit: quod
magnum vituperium fuit. Hic primo haereticos capere fecit[410].
Il conte Giulini non crede che questa sia stata cosa nuova di così
procedere cogli eretici; ma non allega fatto alcuno antecedente, né alcuna
prova. Il supplizio dato agl'infelici abitatori del castello di Monforte fu una
violenza militare che non aveva appoggio di legge, non tribunali o metodi
costanti che ne formassero
Dello spirito di questi tempi ce ne
somministra idea il famoso affare della Guglielmina. Questa donna, nata in
Boemia, viveva in Milano, dove morì nel 1281. Guglielmina fu tumulata
pomposamente a Chiaravalle, le fu recitato il panegirico come beata. Lampade e
cerei furonle accesi intorno al sepolcro, che diventava ogni dì
più celebre per la guarigione degl'infermi; contribuendo a tale
celebrità certa Mainfreda, e certo Andrea, sacerdote, ch'erano stati
discepoli ed ammiratori della Guglielmina. L'Inquisizione volle istituire
processo intorno a ciò, e la conseguenza di tale processo fu che
Guglielmina fu cavata dal sepolcro, e le di lei ossa bruciate; e la Mainfreda
fu gettata viva nelle fiamme, e vivo parimenti fu bruciato il prete Andrea. Il
popolo credette tutto nascere da prostituzione esercitata sotto velo di
religione nelle adunanze della Guglielmina, e tuttora tal tradizione
volgarmente vien ripetuta. Il Muratori, da un manoscritto antico che si trova
nella biblioteca Ambrosiana, ha scoperto le accuse che si fecero a quegl'infelici[416].
Guglielmina pretendeva d'essere lo Spirito Santo incarnato, e di essere figlia
di Costanza, regina di Boemia, a cui l'arcangelo Rafaele l'aveva annunziata nel
giorno di Pentecoste. Essa diceva d'essere venuta al mondo per salvare i
Saraceni, i Giudei e i cattivi cristiani. Insegnava che sarebbe morta come
donna, ma poi risorta per salire al cielo alla presenza de' suoi discepoli; e
che Mainfreda sarebbe rimasta sua vicaria in terra, ed avrebbe celebrata la
messa al sepolcro di lei, poi nella metropolitana in Milano, indi in Roma, ove,
abolendo il papato mascolino, avrebb'ella seduto papessa. Tali almeno furono i
deliri che vennero imputati a que' miseri, i quali, sotto il pietoso e
illuminato regno dell'augusto Giuseppe II, riceverebbero una caritatevole
assistenza de' medici per ricuperare il senno perduto; e allora furono consegnati
al carnefice per una morte orrenda.
Comunemente le opinioni nuove intorno
agli articoli della religione nacquero o presso nazioni occupate di oziose o
sofistiche ricerche metafisiche, le quali si pregiavano di chimeriche e
realmente vacue disputazioni, ovvero nacquero esse per un abuso degli studii
sacri e dell'erudizione. Da noi, in mezzo all'ignoranza del secolo decimoterzo,
nessuno di questi poteva aver loro dato nascimento. Il padre della erudizione
italiana, Lodovico Antonio Muratori, ci ha fatto l'enumerazione degli errori
che venivano attribuiti a questi eretici. La maggior parte di quelle opinioni
chiaramente non è cattolica. Egli è vero però che alcune
opinioni ivi censurate potrebbero avere un significato innocente, quali sarebbero
le seguenti: Obest subdito et sacrato mala vita praelati. - In
Ecclesia Dei non debent esse sacerdotes et diaconi mali. - Mali presbyteri non
possunt ministrare. - Ecclesia non debet possidere aliquid nisi in communi. -
Nullus malus potest esse episcopus. - Non licet occidere[417];
ed è pur vero che non ci rimane alcun libro di quei tempi, nel quale si
contengano le altre eresie che s'imputavano a tanti nostri Milanesi; ed il
Muratori le ha tutte prese da un solo manoscritto di Armanno Pungilupo. Certo
è che, essendo gl'inquisitori dipendenti affatto dal papa, e le loro
sentenze dovendosi eseguire dalla podestà civile col bando e colla
morte, la vita e i beni di ciascun cittadino erano dipendenti dalla
podestà ecclesiastica di Roma, e conseguentemente Roma vi aveva
indirettamente acquistata la sovranità.
(1220) Ritorniamo al filo della storia
civile. Dopo la morte di Ottone IV, tanto benevolo verso di noi, Federico II
venne in Italia, e fu coronato imperatore l'anno 1220. Venne dichiarato re de'
Romani il di lui figlio Enrico. Federico odiava i Milanesi, ed era ben
corrisposto. Noi lo consideravamo come erede del nome e dei sentimenti dell'avo
distruggitore della nostra città; e come l'inimico del nostro Ottone IV.
Egli intimò una generale dieta in Cremona; e questa voce precorsa
bastò a sedare le dissensioni civili. L'oggetto della propria
conservazione soffocò le simultà private, e fece rivolgere gli
animi a concordi pensieri per la comune salvezza. Le città di Lombardia,
istrutte dai passati esempi, rinnovarono la loro confederazione. Venne
l'imperatore in Cremona, e non vi trovò i rettori di molte città,
i quali pure dovevano esservi tutti. Mancavano Milano, Verona, Piacenza,
Vercelli, Lodi, Alessandria, Treviso, Padova, Vicenza, Torino, Novara, Mantova,
Brescia, Bologna, Faenza e Bergamo. Se ne partì sdegnato da Cremona, e
immediatamente andossene a Borgo San Donnino, ed ivi dal vescovo d'Ildeseim
fece scomunicare le città che non erano comparse alla indicata dieta
generale. Federico II andò poi nella Sicilia, indi in Terra Santa; né
gli avvenimenti e le relazioni che passarono fra il papa e lui appartengono al
mio proposito. Enrico, re de' Romani, si ribellò al padre. Spedì
a Milano lettere ed ambasciatori. I Milanesi si collegarono con lui. Venne
Enrico superato dal padre, e finì i giorni suoi in carcere. Quest'ultima
azione de' Milanesi determinò più che mai lo sdegno
dell'imperatore Federico II a nostro danno. Egli entrò dalla Germania
nella Lombardia con un'armata, alla quale si unirono le forze d'Ezelino da
Romano. (1237) L'anno
Gl'infelici avanzi del macello di
Cortenova dovevano perire attraversando le terre di Bergamo; poiché la totale
sconfitta da noi sofferta aveva fatto nascere un timore sommo nelle altre
città: nessuno osava dichiararsi più per noi, trattone Brescia,
Piacenza e Bologna, città le quali mantennero una ferma e sincera fede
in favor nostro. Mancavamo di tutto, e di nulla eravamo sicuri; quando Pagano
della Torre, che era signore della Valsasina, si slanciò a proteggere
gli avanzi dei nostri; gli scortò nelle sue terre; somministrò
loro generosamente ogni soccorso; e li ricondusse nella patria. Quest'atto di
beneficenza non rimase isolato. La gratitudine de' Milanesi non se ne
dimenticò, a segno che l'amore costante e la fiducia che i popolari
milanesi conservarono dappoi verso la casa de' signori della Torre, tanto
innalzò l'illustre loro prosapia, che per qualche tempo ottenne la
sovranità di Milano, come vedremo. Le azioni benefiche e le valorose
sicuramente fanno nascere il rispetto presso di ogni popolo e in ogni tempo; e
pare che in questo caso dovessero reciprocamente rispettarsi, e chi faceva e
chi riceveva il beneficio. L'imperatore, dopo la vittoria, vedendosi padrone di
quasi tutta la Lombardia intimorita, volle possedere Milano; e pretese che ci
rendessimo a discrezione. Ma i Milanesi non si trovarono allora in quelle
angustie che avevano oppressi i loro avi settantasei anni prima; e unanimemente
deliberarono di morire tutti colle armi alla mano, anzi che soggiacere a tale
misera condizione. L'imperatore fece venire nuove forze dalla Germania.
Cominciò a cimentarsi con Brescia, la quale si difese. (1239) Passò
poi con una poderosa armata nel Milanese l'anno 1239. Due avvenimenti accaddero
in favor nostro. Il papa Gregorio IX scomunicò l'imperatore, ed
accordò indulgenze a chi avesse portate le armi contro di lui. A questo
avvenimento convien pure aggiungerne un altro; e fu un ecclisse solare,
accaduto il terzo giorno di giugno, il quale fu (secondo l'opinione di que'
tempi) un manifesto segno della collera celeste contro di quel monarca. Egli
era adunque alla testa d'una numerosa armata sulle nostre terre. Si propose in
Milano la questione se dovevamo tenerci alla sola difesa, muniti entro della
città; ovvero se saremmo usciti ad affrontare il nemico. E quest'ultimo
partito, proposto da Ottone da Mandello, prevalse. La condizione
dell'imperatore, se di molto era migliore della nostra, per il numero de' suoi
armati, essa però era assai attraversata dalle opinioni religiose.
Preti, frati combattevano contro di lui, e confortavano ognuno ad offenderlo; e
come l'imperatore stesso, scrivendone al re d'Inghilterra, dice: Ordinis fratrum
minorum, qui non solum accincti gladiis, et galeis muniti, falsas militum
imagines ostendebant, verum etiam praedicatione insistentes, Mediolanenses, et
alios, quicumque nostram, et nostrorum personam offendebant, a peccatis omnis absolvebant[421].
Uscimmo incontro a lui, e ci accampammo a Camporgnano. Le truppe avanzate
imperiali si accostarono, e furono fatte in pezzi da' nostri, e il rimanente
condotto a Milano. Si riconobbe che costoro erano Saraceni. Allora l'imperatore
si inoltrò, e pose il campo col grosso del suo esercito a Cassino
Scanasio, d'onde l'obbligammo a sloggiare ben presto, coll'aver rotti alcuni
sostegni ed inondato il di lui campo. Portossi l'imperatore a nuovo campo fra
Besate e Casorate; ed ivi pensarono i Milanesi a restituire a Federico II il
trattamento sofferto due anni prima a Cortenova. Mancava un fiume da porgli
alle spalle. Scavammo un profondo canale fra il nostro campo ed il nemico, e vi
facemmo sboccare l'acqua del Naviglio grande che allora chiamavasi il
Tesinello. Tutto ciò sembrava un'opera destinata alla difesa del nostro
campo; ma il disegno era di chiamare l'imperatore di qua del canale, poi, per
sorpresa, attaccarlo. Per riuscirvi si finse che i Comaschi avessero
abbandonato il nostro partito, e più non volendo combattere contro
dell'imperatore, ci avessero lasciati. Dopo ciò levammo le tende, e
quasi ci ritirassimo per essere di troppo inferiori di forza, scomparvimo.
Gl’Imperiali credettero a quest'apparenza, e passarono il canale per accostarsi
a Milano; ma impetuosamente assaliti dai nostri, usciti all'improvviso
dall'imboscata, vennero disfatti gl'Imperiali. Molti furono i prigionieri, e
molti gli estinti sul campo, o precipitati nel fiume artificialmente scavato
per tale effetto. Questo rovescio fece cambiare idea a Federico, che
abbandonò il Milanese, e si rivolse verso della Toscana.
(1245) Un altro tentativo fece
l'imperatore Federico II contro di noi, sei anni dopo. Comparve egli l'anno
1245 con un'armata, e si pose dalla parte del Tesino, mentre al re Enzo, suo
figlio, affidò un altro corpo di truppe, che dalla parte opposta
minacciasse
Se la nostra città fosse stata
nel suo reggimento civile tanto saggia, generosa e cauta, quanto si mostrava
valorosa, nobile e prudente nelle imperese militari, sarebbe assai più
grata la occupazione che ho scelta di tesserne compendiosamente
Magnificus populi dux, tutor et
Ambroxiani
Robur justitie, procerum jubar, arca
Sophie,
Matris et Ecclesie defensor maximus
alme
Et flos totius regionis amabilis hujus,
Cujus in occasu pallet decor ytalus omnis,
Heu de la Turre nostrum solamen abivit
Paganus, latebris et in umbram utitur istis.
MCCXLI. VI. jan. obiit dictus dominus Paganus de la Turre, potestas
populi Mediolani[422].
Il popolo, dopo la morte di Pagano,
scelse il di lui nipote, Martino della Torre, per essere da lui protetto contro
de' nobili, ed a questo fu dato il titolo di Anziano della credenza. L'ufficio
di questo tribuno del popolo era difendere ciascun popolare contro la
usurpazione o prepotenza d'un nobile; sopraintendere all'uso ed amministrazione
del pubblico erario; acciocché le entrate della Repubblica non venissero
convertite in comodo privato. Oltre ciò la Repubblica era sempre in que'
tempi a cassa vuota, sebbene i privati fossero benestanti; quindi si voleva dal
popolo assicurare un fondo stabile, che potesse servire alle pubbliche spese, e
prevenisse le angustie all'occasione della difesa; angustie provate
singolarmente nell'ultima guerra che ci portò Federico II, siccome or ora
dirò. Allora non vi è memoria che si ricevesse per anco tributo
sul sale. Il pedaggio che pagavano le mercanzie era tutto a profitto della
comunità de' negozianti; i quali avevano l'obbligo di conservare le
strade, ripararle e custodirle, in modo che delle mercanzie rubate sulle
pubbliche strade la comunità medesima era tenuta a rifarne il danno. La
tariffa si vede annessa all'antico codice de' primi statuti, compilati nel
1216, siccome ho detto, e il conto si vede fatto a quattro denari di pedaggio
per ogni lira di valore della merce; il che rimonta al tenue tributo di uno e
due terzi per cento sul valore. Nemmeno la mercanzia adunque contribuiva alla
cassa pubblica. Alcuni che pretendevano alla signoria delle terre, obbligavano
gli abitatori di quelle a ricevere da essi i pesi, le stadere e le misure[423].
Alcuni privati possedevano un consimile diritto in Milano medesima, e
chiamavasi jus sextarii[424].
Ma nemmeno di questi tributi sopra i pesi e le misure colava alcuna somma
nell'erario della Repubblica. V'erano anche allora i diritti esclusivi di poter
tenere osteria nelle terre e di vendere vino minutatim ad modum tabernae[425],
come da una carta dell'archivio di Monza pubblicata dal conte Giulini[426].
Ma di essi non pare che fosse al possesso la comunità di Milano. Erano
dritti posseduti da privati. Da ciò facilmente si comprende che
pochissima rendita doveva avere la Repubblica, e quella sola che proveniva dai
delitti i quali, per l'antica tradizione longobardica, erano condannati con
pene pecuniarie. Ma questa rendita era insufficiente, massimamente ne' bisogni
straordinari; tanto più che le terre dei banditi si abbandonavano senza
cultura, con incauto consiglio, se puramente si consideri l'economia pubblica;
ma non affatto senza ragione, qualora si rifletta a que' tempi burrascosi, nei
quali conveniva che nessuna utilità uomo alcuno potesse ritrarre dalla
rovina d'un cittadino. Una legge è come una fabbrica d'architettura;
conviene averla osservata da tutt'i lati, prima di poterne dare una opinione
ragionevole; e le più strane talvolta, in alcune circostanze, sono le
più sapienti. Per riparare la miseria della Repubblica già s'era,
l'anno 1228, fatto un decreto per cui sei eletti aver dovessero l'ufficio di
censura e conoscere ogni amministrazione pubblica; ed è una prova della
difficoltà somma che s'incontrava nelle elezioni per il contrasto dei partiti,
l'osservare come il decreto stabilì: che diciotto uomini si scegliessero
a sorte, e di questi se ne eleggessero sei, i quali, dopo sei mesi,
terminassero il loro ufficio ed eleggessero altretanti loro successori[427].
Questo modo di eleggere a sorte, per necessità s'era anco esteso ad
altri uffici[428].
Ma queste circospezioni non rimediavano alla povertà del fondo pubblico.
Perciò, all'occasione della guerra di Federico II, i nostri antenati
ricorsero ad uno spediente che comunemente si crede una invenzione de' tempi a
noi più vicini: e lo spediente fu, di porre in corso della carta in vece
del denaro. Abbiamo nel Corio, all'anno 1240, i decreti fatti dalla Repubblica
per conservare il credito a questa carta. Decreti saggi veramente, coi quali si
ordinava che tutte le condanne pecuniarie si potessero pagare al comune di
Milano colla carta; che nessun creditore privato fosse obbligato a riceverla in
pagamento; che nessun debitore potesse essere nemmeno soggetto a sequestro,
sì tosto che possedesse tante carte corrispondenti al suo debito. Si
doveva pensare dunque a ritirare le carte in giro, sostituendovi egual valore
in denaro. Si doveva pensare a costituire alla Repubblica una rendita indefettibile
e proporzionata ai bisogni dello Stato. Non v'era altro spediente, se non se
quello di formare un catastro delle terre, e sopra del loro valore distribuire
un carico. A ciò naturalmente si opponevano i ricchi ed i nobili; su
questo insisteva il popolo; e di ciò singolarmente venne commessa la
cura al nuovo anziano della Credenza, Martino della Torre.
Per dare un'idea delle somme angustie
di denaro nelle quali la nostra repubblica si trovò in que' tempi, e per
comprendere sempre più lo spirito del sistema nostro civile e delle
opinioni, non sarà discaro a' miei lettori ch'io per intiero trascriva
in questo luogo il contratto che si fece fra la città di Milano e il
capitolo di Monza, per ottenere un calice d'oro in mero deposito, per
servircene di pegno affine di ritrovare denaro. La carta sta nell'Archivio di
Monza, segn. n. 91, e a me fu cortesemente somministrata dal signor canonico
teologo Frisi, noto scrittore di quella basilica. In nomine Domini nostri
Jesu Christi. Anno nativitatis ejusdem millesimo ducentesimo quadragesimo
quinto, die veneris, tertio die novembris, indictione quarta. Cum dominus
Ubertus de Vialata, potestas Mediolani, et Guido de Casate, Guido de Mandello,
Philippus de la Turre, Johannes de la Turre, Guillelmus de Sorexina, Probinus
Ingoardus, Rezardus de Villa, Justamons Cicata, Lampugnianus Marcellinus,
Burrus de Burris, Artuxius Marinonus, Guillelmus de Lampuniano, Anselmus de
Lampuniano, Anselmus de Tertiago, Roxate de la Cruce, Landulphus Crivellus,
Niger Grassus, Guizardus Morigia, Mollo Bechanus, Caruzanus Moronus, Ameratus
Mainerius, et Bonincontrus Incinus, consiliarii, et secretarii, et sapientes
Communis Mediolani, plurimum cum precum instantia institissent apud dominum
Ardicum de Sorexina, archipresbyterum de Modoetia, et Canonicos, et Capitulum
illius Ecclesiæ, et cum domino G. de Montelongo, Apostolicæ Sedis
Legato, ut concederent et accomodarent eidem Potestati et Consiliariis et
Sapientibus, seu Comuni Mediolani, partem aliquam thesauri illius
Ecclesiæ ad ponendum in pignore pro pecunia necessaria habenda Comuni
Mediolani, quæ alio modo inveniri vel haberi non potest, ut asserebant
expresse; et illam Ecclesiam indepnem servare volebant, et cito illum thesaurum
restituerent: ad quorum preces et istius domini Legati suprascripti, domini
Archipresbyter et Canonici humiliter, pro honore et utilitate Comunis
Mediolani, condescendentes, præsente et volente isto domino Legato,
obtulerunt, concesserunt istis Potestati, et Consiliariis, et Sapientibus, et
Comuni calicem unum auri de thesauro Modoetiensis Ecclesiæ, ponderis
unciarum centum septem auri, cum auriculis et cum ornamento multorum lapidum
pretiosorum. Et ideo prædictus dominus Ubertus de Vialata, Potestas
Mediolani, et isti Consiliarii, et Secretarii, et Sapientes, data eis licentia,
et fortia, et auctoritate a Consilio quadringentorum, et trecentorum, et centum
novo et veteri, sicut dicebant, reformato, inscriptum in libro Comunis
Mediolani fatiendi infrascriptam obligationem et omnia infrascripta,
promiserunt namque et gaudiam dederunt, et omnia eorum bona et bona Comunis
Mediolani pignori obligaverunt, quilibet eorum in solidum, dicto domino
Arderico de Sorexina archipresbytero de Modoetia, recipienti suo nomine, et
nomine Ecclesiæ, et totius Capituli de Modoetia, et singulorum Canonicorum
dictæ Ecclesiæ, quod exigent, reddent, et dabunt absque aliqua
diminutione, libere et absolute, hinc ad natale proximum, isto domino
Archipresbytero et Canonicis seu Capitulo suprascriptum calicem aureum cum
gemmis et lapidibus preciosis ornatum, omnibus eorum et Comunis Mediolani
dampnis et expensis, istorum Archipresbyteri, et Canonicorum et Ecclesiæ.
Et renuntiaverunt exceptioni non accepti calicis, et omni alii exceptioni, qua
se tueri aliquo modo possent, et defendere, et maxime quod non possent dicere
se obligatos esse pro Comuni seu pro rebus Comunis, sed ita teneantur ut
conveniri possint in solidum etiam finito et deposito eorum offitio et fortia
et auctoritate, ac si prædicta omnia in propria cujuslibet eorum
proprietate pervenissent. Et renuntiaverunt beneficio novæ constitutionis
et epistolæ Divi Adriani et omni alio auxilio quo aliquo modo se tueri
possent, usus et legis et statuti et ordinamenti facti vel quod a modo possit
fieri vel fieret. Sed omni tempore possint cum effectu conveniri, non
obstantibus aliquibus feriis vel earum dilationibus faciendis vel factis. Et
promiserunt ut supra dictus Potestas et isti Consiliarii, et Sapientes quod nec
aliquis prædictorum dabit aliquo modo vel aliquo ingenio, etiam
consentientibus istis Archipresbytero et Canonicis aliquid aliud præter
prædictum calicem loco illius calicis, sed ipsum specialem calicem
integrum cum lapidibus et gemmis absque diminutione aliqua. Et ibi dictus
dominus, G. de Montelongo Legatus Apostolicæ Sedis, auctoritate suæ
legationis et voluntate ipsius Potestatis, et Secretariorum, et Consiliariorum,
et Sapientum prædictorum, ab infrascripto termino in antea eos omnes et
Consilium Comune excomunicationis vinculo subjecit et subposuit ex tunc si
prædicta ut supra ad ipsum terminum non essent servata, excepto Potestate
prædicto. Ad quorum observantiam et majorem firmitatem praedicti
Secretarii, et Consiliarii, et Sapientes superius nominati juraverunt,
corporaliter tactis Sacrosantis Evangeliis, omnia superius memorata, et quodlibet
prædictorum observare el facere et facere observari per Comune Mediolani.
Actum in campis de Albairate, in exercitu contra Fridericum condam imperatorem[429].
Poi vi sono le sottoscrizioni. Da questa carta conosciamo primieramente a quale
estremità fosse il credito della Repubblica, se di tante cautele vi fu
bisogno per ottenere in deposito, dal giorno tre di novembre sino al 25
dicembre, un calice d'oro, e se fu bisogno di ricercarlo. Il peso dell'oro
corrispondeva a millequattrocento zecchini, i quali nessuno gli affidava senza
quel pegno. Poi riscontriamo le formalità dei contratti quasi simili
alle nostre. Scorgesi come il legato pontificio vi fa la figura che ne' secoli
prima avrebbe fatta l'arcivescovo, ma per gradi l'autorità del
metropolitano s'era omai annientata, e il sommo pontefice, colle bolle e coi
brevi, disponeva di tutto. In questi brevi, dice il conte Giulini
parlando di questi tempi[430],
ben si scuopre la differenza che passa fra l'autorità ch'esercitava
il papa (Gregorio IX) a Milano ne' presenti tempi, e quella
ch'esercitava ne' secoli scorsi. L'introduzione de' religiosi Minori e de'
Predicatori nelle città, come giovò maravigliosamente a
ricondurvi i buoni costumi ed a bandire gli errori, così servì
anche ad accrescere in esse il dominio del sommo pontefice, e diminuire quello
de' vescovi. I frati s'erano resi indipendenti dai vescovi. Anche le
monache erano indipendenti. Un frate francescano era salito sulla sede
metropolitana, e ne sosteneva la dignità così poco, quasi nemmeno
fosse vicario del papa. Questo arcivescovo chiamavasi Leone da Perego; e allora
il legato del papa, che quasi sempre risiedeva in Milano, faceva operare in
Milano i vescovi di altre diocesi, senza nemmeno parteciparlo all'arcivescovo[431].
Alessandro IV terminò l'opera di Gregorio VII. Due secoli si adoperarono
per una tale rivoluzione. Nel 1056 cominciarono i primi tentativi: e nel 1255,
al 5 di febbraio, Alessandro IV scrisse ai vescovi di Novara e di Tortona,
ordinando loro che ponessero in Milano i Francescani in possesso della basilica
e canonica di San Nabore; il che fu eseguito senza nemmeno vi fosse nominato l'arcivescovo[432].
Il papa medesimo comandava ai frati di abbandonare il rito ambrosiano[433].
Così, era affatto annientata l'autorità del metropolitano, di cui
ho dato cenno sul fine del capitolo primo. La pontificia romana autorità
ordinava che più non si riedificasse la fortezza di Cortenova nella
diocesi di Bergamo. Ordinava che i Milanesi si portassero a conquistare il
castello di Mozzanica. Questi ordini venivano scritti all'inquisitore,
acciocché egli comandasse alla Repubblica con apostolica autorità.
Ordinava che si entrasse nel castello di Gattedo; che colla forza se ne
dissotterrassero i cadaveri e si abbruciassero; che tutte quelle case si
demolissero; e ciò perché Egidio, conte di Cortenova, Uberto Pelavicino,
Manfredo da Sesto, Roberto Patta di Giussano erano qualificati fautori di eretici[434].
Non farà dunque maraviglia se nessun cenno si fa dell'arcivescovo nel
pegno di questo calice, ma bensì del legato. In questa carta è
pur meritevole di osservazione il vedere che già eravi l'uso delle
ferie, e il privilegio di non essere chiamati in giudizio i debitori in que'
giorni feriati. Si osserva che il podestà era eccettuato dalla
scomunica, perché, col terminare dell'anno, cessava ogni potere in lui.
Finalmente veggonsi chiaramente indicati i tre partiti dei Capitani, della
Motta, e la Credenza di Sant'Ambrogio: a consilio quadringentorum et
trecentorum et centum, novo et veteri[435].
Il consiglio de' quattrocento era composto da' nobili del primo ordine, e gli
altri da quei della Motta e della Credenza di Sant'Ambrogio[436].
Mi lusingo che questa uscita non sarà spiaciuta a' miei lettori, ai
quali dirò che liti e scomuniche e disturbi lunghi vi furono poi per
ottenere che il calice d'oro venisse restituito; il che era bene da prevedersi:
mentre, dopo cinquantadue giorni, nell'estrema angustia della guerra nella
quale si trovava la città, non era possibile ch'essa rinvenisse il
denaro per ricuperare quel pegno. I contratti, quando hanno bisogno di tante e
sì moltiplicate cautele, per lo più non sono osservati. La buona
fede è chiara e semplice, e l'artificio è pieno di previdenze.
La necessità di stabilire un
carico indefettibile sulle terre, si è conosciuta abbastanza da quanto
si è detto. Questo era il voto del popolo: a questo fine Martino della
Torre era stato creato anziano della Credenza; e si eresse un ufficio
censuario, che si chiamò Officium inventariorum, perché
ivi contenevasi il catastro, ossia l'inventario (siccome volgarmente si
dice) di tutt'i fondi stabili, coi loro possessori, senza eccettuarne gli ecclesiastici[437].
Il legato apostolico proibì con suo decreto l'imporre gravezza veruna
alle persone o case religiose[438];
ma, ridotto a termine il generale catastro, si pensò a porre un sistema.
Si fece una ricapitolazione dei debiti pubblici; e, ripartita questa somma in
otto eguali porzioni, si stabilì che per otto anni si distribuisse sopra
del censo una di queste porzioni ogni anno, col nome di fodro ovvero taglia;
e così dopo otto anni venisse saldato ogni debito e tolta alla
circolazione la carta. (1248) Questo regolamento fu pubblicato l'anno 1248,
come può vedersi nel Corio a quell'anno, e questa è la più
antica memoria del carico prediale nel nostro paese: giacché prima non si ha
notizia se non di tributi sopra i frutti ovvero sulle persone. Col terminare
dell'anno 1256 i debiti pubblici dovevano essere pagati. (1257) Fu eletto
podestà di Milano, per l'anno 1257, Beno de' Gozadini, bolognese. Egli
aveva già, negli anni precedenti, servito utilmente la Repubblica,
perfezionando il catastro de' fondi censibili. Egli pensò di lasciare un
monumento benefico e glorioso, prolungando sino alla città di Milano il
cavo del Tesinello, il quale terminava ad Abbiategrasso. Ho già detto
come dal Tesino sino ad Abbiategrasso fu derivata l'acqua del Tesinello,
settantotto anni prima, cioè nel 1179. Si trattava ora di produrre il
cavo per lo spazio di quattordici miglia, e così dare un nuovo e
perpetuo valore alle campagne per tutta quell'estensione. V'era il fondo
censibile ridotto a catastro. Da otto anni era già in pratica l'esazione
di quel tributo. Beno de' Gozadini vide che, prolungando questo carico, a fine
di eseguire il suo progetto, realmente non pagavasi dai contribuenti un
tributo, ma si bonificavano le terre, e s'impiegava il denaro in utilità
sensibile di quei medesimi che venivano tassati. Su questo principio, credette
egli non potersi con giustizia lasciar esenti i fondi ecclesiastici, né
obbligare i laici a pagare la porzione del beneficio fatto ai primi. Fu la grande
opera intrapresa, e vigorosamente, in pochi mesi, condotta a fine. Meritava
Beno de' Gozadini le adorazioni de' suoi contemporanei, e un pubblico monumento
che ricordasse alle età future ch'egli, nel 1257, per quattordici miglia
condusse le acque del Tesino sino ai sobborghi di Milano, creando un valore
nuovo e perpetuo sulle campagne irrigabili, e preparando il comodo della
navigazione, che venne da poi aperta dodici anni dopo. Vorrei poter tacere la
ricompensa che ne ottenne. Il popolo, prima che fosse terminato l'anno,
tumultuariamente lo massacrò, e, strascinandolo ignominiosamente sino al
navilio da lui scavato, ivi lo affogò miseramente! La memoria di lui fu
calunniata; e la calunnia eccheggiò sin ora ne' libri de' nostri storici,
imputandogli avanìe e tributi imposti, o non facendo menzione di lui,
ovvero diminuendo il merito dell'impresa. Il conte Giulini lo condanna pure, ma
racconta i fatti[439].
È tempo omai, dopo cinquecento ventidue anni (nel 1779), che la voce
libera d'uno scrittore implori all'onorata cenere di Beno de' Gozadini riposo e
pace, e ricordi ai concittadini suoi questa atroce ingiustizia commessa dai
loro antenati, troppo incautamente sedotti, a quanto pare, in que' tempi
infelici da un ceto venerabile che voleva difendere le immunità come
parti essenziali della religione. Ripariamola ora noi, e la riparino i nostri
posteri, ed ogni volta che rimireremo il canale che dà ricchezza alle
terre e porta l'abbondanza nella città, ricordiamoci che ne abbiamo
l'obbligazione a un onoratissimo Bolognese, Beno de' Gozadini, e ne sia
consacrato il fausto nome all'immortalità!
Verso la metà del secolo
decimoterzo l'Impero era immerso nell'anarchia e nella confusione. Vi erano
più rivali, e ciascuno s'intitolava augusto ed aveva un partito; rivali
deboli però, e appena bastanti a nuocersi scambievolmente; e
perciò l'autorità imperiale più non vi era; anzi, riguardo
alla storia di Milano, dobbiamo considerare l'influenza dell'imperatore sospesa
sino alla fine del secolo decimoterzo. Gl'imperatori Corrado IV, Guglielmo
d'Olanda, Riccardo di Cornovaglia, Alfonso di Castiglia, Rodolfo di Habsburg,
Adolfo di Nassau e Alberto I non ebbero che poca o nessuna parte negli
avvenimenti di Milano, dove si ritornò a riconoscere l'autorità
cesarea colla venuta di Enrico (sesto per gl'Italiani, ma comunemente chiamato
settimo), che ascese alla dignità imperiale l'anno 1308. Frattanto la
città viveva tra le fazioni, cercando al solito i nobili d'opprimere la
plebe, e questa di contenere i nobili ed umiliarli. La forma civile della
società era incerta, non fondata sopra costituzione alcuna. La libertà,
i beni, la vita non avevano altra protezione che la forza o l'astuzia. Questo
stato di vera guerra piuttosto che di repubblica, peggiore della stessa
tirannia, rendeva insopportabile a ciascun cittadino la propria condizione. Il
solo motivo per cui non si eleggeva un principe stabile, era la fiducia che
hanno sempre i governi liberi, di correggere colla propria autorità i
propri mali; ma frattanto per intervalli si eleggeva un dittatore. Si è
già veduto nel capitolo precedente come Pagano della Torre dominasse col
titolo di protettore del popolo; egli fu proclamato tre anni dopo l'affare
dì Cortenova, cioè l'anno 1240. Si è pure accennata la
nuova carica di anziano della Credenza, conferita dal popolo a Martino
della Torre, nipote di Pagano, l'anno 1247. Così la città cominciava
ad accostumarsi al governo d'un solo. Il disordine civile crebbe dappoi, e si
dovette pensare ad eleggersi un sovrano potente, a fine di preservarci dagli
insulti de' nemici vicini, e di contenere i mali delle civili dissensioni. Il
primo passo verso la monarchia ascende all'anno 1253, nel quale Manfredo
Lancia, marchese d'Incisa, fu creato signore di Milano per tre anni. E ben si
vide quanto fosse necessario quel partito, poiché, appena terminata che fu
quella temporaria monarchia, scoppiarono più che mai gli odii e le
dissensioni fra la plebe e gli ottimati, avendo sempre la plebe alla testa i
signori della Torre. Si cercava non più se dovesse la città esser
libera ovvero soggetta, ma si disputava a chi dovesse consegnarsene
(1261) L'origine della grandezza della
casa Visconti si può fissare all'anno 1261: non già che io
intenda per ciò, ch'ella da prima fosse oscura affatto od ignobile, il
che sarebbe falso. Già accennai un celebre Ottone Visconti al capitolo
sesto, che morì in Roma centocinquant'anni prima di quest'epoca.
Accennai pure altro di simil nome, console della città, assediata
dall'imperatore Federico cent'anni prima. Ma l'origine di sua grandezza non
ascende più in là: perché, sebbene ella si fosse già
condecorata con feudi ed antichi privilegi, sebbene ella si fosse già
illustrata col valore di qualche suo antenato, nulla era di più che una
delle famiglie nobili e generose, ma non potente né ricca né in condizione di
lasciar prevedere la grandezza a cui rapidamente ascese; diventando poi, non
solamente sovrana della sua patria, ma in meno d'un secolo regnando sopra venti
altre città, e dilatandosi poi poco dopo alla grandezza di aspirare al
regno d'Italia e possedere trentacinque città, fra le quali le
più floride della parte settentrionale d'Italia, come vedremo. Colla
fortuna de' Visconti crebbe l'adulazione, e i genealogisti ammassarono le
più grossolane menzogne, le quali vennero poi accettate con rispetto e
credulità. Di ciò accaderà in seguito occasione di
accennarne qualche cosa di più; ora conviene indicare come nacque la
fortuna dei Visconti. Già sino dal
I signori della Torre andavano
crescendo sempre più in potenza. L'arcivescovo Ottone Visconti aveva un
nome vano; ma, esule dalla patria, non poteva ricavare cosa alcuna, nemmeno
dalle terre arcivescovili, occupate dai Torriani. L'interdetto e gli anatemi
non avevano arrestato il corso della grandezza loro. Essi possedevano Como,
Lodi, Novara, Vercelli, Bergamo e Brescia; non già con sovranità
decisa ed ereditaria, ma indirettamente, con varii titoli e magistrature,
esercitandovi il supremo potere. La influenza loro negli affari d'Italia era
già tale, che Filippo della Torre si era collegato con Carlo conte
d'Angiò e di Provenza, fratello del re di Francia Luigi IX,
affìne di far ottenere il regno di Napoli al conte d'Angiò; e
l'accortezza di Napo della Torre gli suggerì d'indurre il popolo di
Milano ad eleggere esso conte per suo signore per cinque anni, dopo che fu egli
dichiarato re di Sicilia. Così, dando l'odioso titolo di sovrano al re
Carlo, lontano, beneficato e debole, Napo della Torre dominava con minore
invidia nella Lombardia, celando la sovranità e adescando la moltitudine
con modi popolari e con largizioni splendidissime, aprendo corti bandite, con
mense apprestate sulle pubbliche strade della città, a beneficio del
popolo: di che minutamente ne tratta il conte Giulini[445].
Furono magnificamente accolti in Milano, mentre i signori della Torre la
reggevano, il
Lasciavasi dai Torriani un'apparente
libertà alla patria. Napo della Torre si accontentava del titolo di
anziano perpetuo del popolo. Così l'accorto ambizioso regnava senza
avere intorno di sé i pericoli che circondano un nuovo sovrano che vuole
annientare una repubblica. V'era il parlamento, ossia il consiglio degli
ottocento, il quale rappresentava
Napo della Torre non pose veruna marca
alla moneta che allora si batteva nella zecca di Milano, né alcuno di sua
famniglia ve
I due carichi prediali imposti nel 1271
e 1275 sembrano assai gravosi a primo aspetto, ora che il valore capitale delle
terre si calcola comunemente moltiplicando trentatré volte la rendita annuale.
Un campo che produca tre scudi all'anno al padrone, si calcola valere cento
scudi; e cento scudi dati a mutuo oggidì rendono il frutto di scudi tre,
o tre e mezzo all'incirca. Allora il mutuo fruttava usure assai maggiori.
Troviamo che verso il fine del secolo duodecimo venne da noi fatta una legge,
ordinando che fra privati non si potesse esigere il frutto de' prestiti più
di tre soldi per lira[448],
che corrispondono al quindici per cento. E poiché tai frutti produceva il
denaro al limite moderato dalla legge, forza era che il valore dei campi
proporzionatamente diminuisse; non potendosi sperare che alcuno comprasse per
cento lire un fondo, se da esso non potesse ricavarne ogni anno quindici lire.
Con tal principio l'imposizione del 1271 di soldi dieci e denari cinque per
ogni centinaio di valore de' fondi, era assai tenue, cioè circa la trentesima
parte dell'annuo ricavo; e sebbene assai più importante fosse quella del
1275, cioè di lire due per ogni cento lire di valor capitale, ella pure
si riduceva alla settima parte dell'entrata. Su queste imposizioni veggasi il
nostro conte Giulini[449].
Queste imposizioni sopra le terre
cadevano a danno de' nobili; e così Napo della Torre da' suoi rivali e
nemici cavava i mezzi per sempre più indebolirli e rinfiancare il suo
partito. (1273) Un seguito di prosperi eventi aveva innalzato Napo della Torre,
il quale, anche per appoggiare sempre più la signoria, appena che fu
terminata l'anarchia dell'Impero coll'elezione di Rodolfo conte di Habsburg,
seguìta l'anno 1273, ottenne da quell'augusto la nuova dignità di
vicario imperiale in Milano; dignità la quale costituiva Napo
luogotenente dell'imperatore, e davagli tutto l'esercizio della suprema
autorità che nella pace di Costanza era stata accordata ai cesari.
Questo titolo di vicario imperiale servì poi d'introduzione alla
signoria de' Visconti, come vedremo.
Pareva fondata ben sodamente la fortuna
di Napo e de' Torriani. Se Napo avesse conservato, anche in mezzo degli
avvenimenti felici, la moderazione, i suoi nemici verisimilmente non avrebbero
potuto giammai prevalere. Ma due cose furono cagione del rovescio di sua
fortuna: la prima fu il titolo ch'ebbe dall'imperatore, col quale troppo
chiaramente dimostrò il suo fine di assoggettare la città;
l'altra fu che alla fine commise molte crudeltà, condannando varii
nobili al supplicio; ciò che lo appalesò anche alla plebe
smascherato, e assai distante da quella dolcezza ch'egli, sino a quel punto,
aveva saputo mostrare. Molti nobili milanesi andavano esuli dalla patria, o
scacciati da Napo, ovvero spontaneamente sottrattisi ad un governo nemico.
(1277) Poiché videro intiepidito il favore del popolo, i nobili fuorusciti si
collegarono coll'arcivescovo Ottone Visconti, esule da quindici anni; lo
elessero per loro capo; e sotto di lui radunati, con varia fortuna fecero dei
tentativi e delle invasioni sul Milanese; sin tanto che, nel giorno memorabile
21 di gennaio 1277, sorpresero i Torriani a Desio, borgo distante dieci miglia
dalla città, e fatto un macello de' Torriani, che appena s'erano
avveduti d'aver vicino il nemico dalla strage de' loro compagni, rimase Napo
istesso prigioniere. Entrò in Milano l'arcivescovo Ottone Visconti, e
tutto il popolo lo acclamò signore. Così terminò Napo
della Torre; il quale sopravisse ancora un anno e mezzo, miseramente rinchiuso
entro di una gabbia, in cui cessò di vivere e di soffrire, il giorno 16
agosto 1278. I Novaresi, i Pavesi, i Comaschi ed altri del contado istesso di
Milano avevano resa forte l'armata dell'arcivescovo.
L'arcivescovo Ottone Visconti poco
tempo poté rimanere principe tranquillo di Milano. Sebbene Napo della Torre non
fosse più capace di fargli ostacolo, comparvero in campo molti signori
della famiglia della Torre, e fra questi il patriarca d'Aquileia Raimondo,
Cassone, Gotifredo, Salvino ed Avone, tutti della Torre; e colle scorrerie,
sino sotto le porte di Milano, rendevano pericolosa e precaria la condizione di
Ottone Visconti, ancora troppo debole per opporre una valida resistenza; e
perciò l'arcivescovo, costretto ad eleggersi un signore, prima di cadere
nelle mani dei Torriani suoi nemici, stimò miglior partito il dare la
signoria di Milano al marchese di Monferrato per dieci anni, colla
facoltà della guerra e della pace. Questa dedizione, cominciata nel
1278, non durò che quattro anni soli; giacché, battuti che furono i
Torriani a Cassano, e indeboliti a segno di non potere sì tosto
innalzarsi, l'arcivescovo Ottone, cessando il timor in lui e il bisogno
dell'assistenza del marchese, le di cui forze erano di molto peso, non ebbe
ritegno alcuno di violare il contratto. (1282) Colse il momento opportuno, e,
montato a cavallo, il giorno 27 dicembre 1282, coll'armi in mano, alla testa
dei suoi fedeli, scacciò gli ufficiali tutti del marchese, e
ritornò a signoreggiare da sé. Queste zuffe di patriarchi e di arcivescovi,
tanto aliene dallo spirito del sacerdozio, sono una prova de' progressi che la
ragione e seco lei la virtù hanno fatto ai tempi nostri, ne' quali ad
alcuni sembreranno o supposti o esagerati questi fatti. Sembrerà poco
credibile altresì che l'arcivescovo avesse adottato per suo figlio Guido
da Castiglione, e che Milano venisse sottoposto all'interdetto l'anno 1381,
perché una famiglia aveva fatta ingiuria al prior d'un convento. Ma il Calco ce
lo attesta: Sacris interdicta manserat civitas Mediolanum ex
controversia qua per injuriam gens Mirabilia priorem Pontidae premere videbatur[450];
e così, per il fatto d'un casato, si maledisse tutta
Il carattere di Ottone Visconti era
assai meno moderato di quello di Napo Torriano. Cercò ed ottenne
l'arcivescovo che l'imperatore Rodolfo facesse lega con lui, quantunque avesse
fatto morire entro di una gabbia il suo vicario creato dieci anni prima. Ma
l'influenza dell'Impero, dopo le seguìte vicende, era assai debole
nell'Italia, e conveniva cogliere ogni opportunità per acquistare
appoggio. In ciò Napo ed Ottone palesarono ambizione uguale; ma Ottone
Visconti con maggior impeto si volle mostrar prepotente. Egli bandì le
famiglie che gli erano sospette, e fece diroccare le case de' signori da
Soresina. Poscia, disgustatosi del figlio adottivo, fece diroccare parimenti le
case di Guido Castiglione. Indi, dopo una concordia giurata, l'arcivescovo
istesso a tradimento s'ìmpadronì di Castel Seprio, e distrusse
quella ròcca, celebre per la tradizione che in quel luogo eminente
avessero collocata la prima loro sede gl'Insubri, e celebre non meno per la
fortezza del luogo medesimo; e fece porre negli statuti: Castrum Seprium
destruatur, et destructum perpetuo teneatur, et nullus audeat vel presumat in
ipso monte habitare[452];
e questo statuto è stato obbedito finora. Il Calco, scrivendo di
quei tempi e di Ottone, c'insegna: Cum suspicionibus plena omnia viderentur,
nova etiam consilia vicatim agitari dubitabat, proindeque armatas cohortes die
noctuque circumire urbem, et ne conventus inter cives fierent curare jussit[453].
Cercava, coll'orribile argomento delle torture, quell'arcivescovo di schiarire
i molti sospetti. Era in somma un cattivo principe; come lo sarà sempre
un uomo pauroso e potente. La città sentiva il peso d'un tal nuovo
governo. Era probabilmente vicina una strage, se l'arcivescovo Ottone
opportunamente non si piegava, abbandonando ogni cura civile a Matteo Visconti,
suo pronipote, capitano del popolo, e creato podestà l'anno 1288. Ottone
sopravisse ancora sette anni oscuramente, pieno di paura della morte, ed
attorniato da' medici, i quali non l'abbandonavano mai; e coll'assistenza di
essi, all'età di ottantotto anni, morì, il giorno 8 agosto
(1287) Matteo Visconti, col titolo di
capitano del popolo, cominciò la signoria di Milano. I nostri scrittori
lo chiamano Matteo Magno. Io mi limiterò a chiamarlo
Matteo I, per distinguerlo da un altro dello stesso nome che regnò poi.
Il Fiamma ci attesta che, sino dal principio del suo governo, Matteo I ebbe
cura di conservare le pubbliche entrate, e non se ne appropriò la menoma
parte; che non sparse mai sangue d'alcuno; che consegnava ai nobili le signorie
de' borghi e delle terre, cambiandole però ogni anno; ch'egli era molto
compiacente verso dei nobili; agile di corpo, e di tale robustezza, che colle
sue mani spaccava il ferro d'un cavallo; ch'egli, in mezzo alla sua robustezza,
era morigerato; che aveva la sua corte ripiena di frati; che vestiva colle sue
mani i sacerdoti, esercitava giornalmente atti di religione, e obbligava i suoi
domestici ogni anno nella quaresima a confessarsi, e i renitenti castigava: Cum
autem praedictus Matheus Magnus Vicecomes dominium Mediolani obtinuisset, in
ipso primo regimine nimis virtuose se habuit: fuit enim tantae castitatis et
honestatis, quod tota ejus curia ex religiosis viris conserta videbatur. Missas
devotissime audiebat, sacerdotes propriis manibus vestiebat. In omni
quadragesima suos domicellos et caeteram familiam confiteri faciebat; aliter,
ipsos graviter puniebat. Nobiles de Mediolano libenter audiebat, quorum
consilio non contradicebat. Bona communitatis conservabat, sibi nihil
retinebat. Nullius unquam sanguinem effudit. Dominia burgorum et villarum inter
nobiles dividebat: omni tamen anno istorum dominia permutabat, unde omnes
nobiles provocabat in amorem sui. Fuit etiam fortissimus corpore et agilis:
ferratam magni dextrerii manibus lacerabat: et multa alia commendabilia faciebat[454],
Vedremo poi che Matteo I, scomunicato, interdetto, morì senza
ottenere nemmeno gli onori d'un funerale. Non sarà forse discaro il
leggere qual giuramento facesse Matteo Visconti come capitano del popolo per
cinque anni; il Corio ce lo ha tramandato: Ad honorem Domini nostri
Jesu Christi, et gloriosae Virginis Mariae, suae matris, et beati Ambrosii
confessoris nostri, et beatorum Vincentii, Agnetis, Dionisii, et omnium
sanctorum, sanctae matris Ecclesiae, et summi pontificis, et domini regis
Romanorum, et ad conservationem Status venerabilis patris domini Othonis,
sanctae mediolanensis Ecclesiae archiepiscopi, et ad bonum, tranquillum et
pacificum statum populi et communis Mediolani, ac omnium amicorum, et ad mortem
et destructionem marchionis Montisferrati, et ejus omnium sequacium, vos,
domine capitanee, così a Matteo Visconti diceva Francesco da
Legnano, vos, domine capitanee, jurabitis regere populum Mediolani ab hodie
in antea, ad annos quinque proxime venturos, bona fide, sine fraude, et quod
custodietis et salvabitis ipsum populum... et statuta... et si deficerent,
servabitis leges romanas[455].
I signori della Torre avevano il capitaniato del popolo, perpetuo nelle loro
persone; poi si fece un annuale capitano; indi Matteo Visconti l'ebbe per
cinque anni. Nel giorno di sant'Agnese, Ottone Visconti vinse i Torriani a
Desio; nel giorno di san Vincenzo, Ottone s'era impadronito di Milano; nel
giorno di san Dionigi, erano ultimamente stati sconfitti i Torriani a Vaprio:
ecco il motivo per cui que' tre santi furono nominati. Per conoscere poi il
cambiamento felice de' nostri costumi, si veda se oserebbe ora più
alcuno, assumendo una solenne dignità, di promettere mortem et
destructionem marchionis Montisferrati, et ejus omnium sequacium[456]:
giuramento crudele, iniquo e sacrilego, nulla più potendo un sovrano
cercar dal nemico, se non la riparazione de' mali che gli ha fatto, e la
sicurezza di non riceverne di nuovi, non mai la morte e distruzione di esso e
de' suoi; pensiero atroce, che offende la religione e persino le stesse leggi
di natura. Merita osservazione altresì il vedere come si cercassero le
leggi romane per servire ai giudici in caso non contemplato dallo statuto; la
qual reviviscenza del gius romano presso di noi, è la più antica
memoria sinora osservata in questo giuramento, fatto l'anno 1288.
La signoria di Matteo Visconti non era
ben sicura; egli era appena capitano del popolo per cinque anni, e terminavano
coll'anno 1292. I Torriani, sebbene colla disfatta di Vaprio, seguita nel 1181,
fossero stati per allora ridotti all'impotenza di nuocere, non vennero ivi
estinti, e, col tempo, ricomparvero ancora potenti. (1290) Mosca ed Errecco
della Torre, l'anno 1290, invasero da più parti le terre milanesi.
Avevano degli alleati, e fra questi il marchese di Monferrato, nominato nel
giuramento solenne del nostro capitano del popolo. L'infelice marchese fu preso
dagli Alessandrini, e finì i giorni suoi entro di una gabbia, come Napo
della Torre. L'umanità geme alla memoria di tai venture! Quasi tutte le
città della Lombardia avevano, verso la fine del secolo decimoterzo, due
fazioni e due famiglie prepotenti che si disputavano la signoria, come accadeva
in Milano fra i Torriani e i Visconti. Pavia, per esempio, aveva i Beccaria e i
Langosco; Novara, i Tornielli e i Cavalazzi; Vercelli, gli Avvocati e i
Tizzoni; Bergamo, i Colleoni e i Suardi; Lodi, i Vignati e i Vistarini; Como, i
Rusca e i Vitani: e così altre città erano internamente lacerate
da' partiti. Mentre in tale imbarazzo si trovava Matteo I, due frati si posero
a predicare pubblicamente per Milano la Crociata per Terra Santa, e radunavano
molta gente pronta ad abbandonare la città per le indulgenze di quella
impresa. Matteo perdeva se stesso e la signoria, se avesse concesso che si
allontanassero dalla patria le persone atte alle armi, nel tempo in cui aveva
tanto bisogno d'essere difesa; e perciò impedì questa emigrazione[457]:
il che poi fu uno dei capi di accusa che vennero fatti a Matteo. Cercava
accortamente Matteo I di fiancheggiare la sua nascente sovranità. Egli
signoreggiava in Como, in Alessandria, in Novara e nel Monferrato, in
qualità di capitano temporario del popolo di quei luoghi. Era stato eletto
imperatore Adolfo conte di Nassau, l'anno 1292; e Matteo cautamente spedigli
persona che lo impegnasse in favor suo, affine di ottenergli il titolo di
vicario imperiale. Non cercava Matteo la signoria della sola città sua
patria; più vaste erano le sue mire, e nulla meno desiderava che
d’essere signore della Lombardia tutta. (1294) Il nuovo cesare era poco sicuro
sul suo trono; nella Germania aveva un potente partito contrario, al quale
finalmente dovette piegarsi. I denari dell'Inghilterra non furono inefficaci
presso di lui; e non senza ragione crediamo noi che i doni e le promesse di
Matteo avranno indotto quell'augusto a spedire a Milano, siccome fece
nell'aprile dell'anno 1294, quattro legati cesarei; i quali, introdotti nel
pieno generale consiglio, vi pubblicarono l'imperiale diploma, in cui Matteo
Visconte veniva dichiarato vicario imperiale in Milano e per tutta la
Lombardia, con mero e misto imperio, come lo aveva lo stesso re de' Romani.
L'accorto Matteo si alzò, si mostrò sorpreso, e protestò ch'egli
non accettava quella sublime dignità, salvoché il consiglio generale non
l'ordinasse. Il che fu immediatamente determinato da quel consiglio, scelto da
Matteo medesimo, mutabile ogni anno, e che si pretendeva che rappresentasse il
volere de' cittadini, dai quali non aveva ricevuta veruna commissione. Il
consiglio supplicò Matteo ad accettare
(1298) Il successore del deposto
imperatore Adolfo, cioè Alberto re de' Romani, innalzato l'anno 1298,
confermò a Matteo Visconti il diploma di vicario imperiale, che quattro
anni prima aveva ottenuto. Il titolo che si dava a Matteo era al magnifico
ed egregio uomo il signor Matteo de' Visconti. Varie città, siccome
dissi, eransi collegate coi Torriani a danno del Visconte, la di cui rapida
fortuna e la di cui vasta ambizione facevano temere un padrone a molti piccoli
Stati, i quali, in mezzo alla discordia, al disordine, alla tirannia di
più padroni, avrebbero anzi dovuto desiderarne un solo, se la lusinga
d'una chimerica libertà non gli avesse sedotti. Le terre del Milanese
erano devastate dalle scorrerie de' Torriani. (1299) Matteo Visconte fece
radunare in Milano il consiglio generale il giorno 9 di aprile 1299. Ivi espose
lo stato delle cose, le alleanze dei Torriani, i guasti cagionati dalle loro
incursioni, le forze loro, le nostre, gli appoggi su i quali potevamo noi far
conto; indi propose il partito se convenisse fare la guerra ovvero
(1302) Ritornati alla patria i signori
della Torre l'anno 1302, dopo venticinque anni d'esilio, mostrarono ne' primi
cinque anni d'essere alieni da ogni vita ambiziosa, e di volere essere
cittadini di una patria libera; non ottennero dignità alcuna. La
città si reggeva co' soli magistrati, il podestà e il capitano
del popolo. Si nominava ogni anno il consiglio degli ottocento; e sarebbe stata
libera la patria, se i consiglieri avessero ricevuta la loro dignità
dall'elezione del popolo. Nondimeno la rispettosa opinione verso de' signori
della Torre non era svanita. Morì in Milano Mosca della Torre, e il di
lui funerale si celebrò con pompa sovrana, vestendo di porpora il
cadavere, e trasportandolo sotto un baldacchino alla chiesa di San Francesco.
(1307) Guido della Torre rimase il capo della sua casa, e a lui venne offerta
la carica di capitano del popolo per un anno, e l'accettò il giorno 17
dicembre 1307. Fu tanto gradito il governo di Guido alla città, che, al
terminare dell'anno, per acclamazione pubblica, non solo venne creato capitano
perpetuo del popolo, ad esempio di quanto si era fatto con Martino, con Filippo
e con Napo dello stesso casato, ma di più gli venne data la
facoltà di fare nuovi statuti; il quale attributo, costituendolo
legislatore, gli dava la vera sovranità. Guido si mostrò sorpreso
da un impensatissimo avvenimento, quando vide attorniata la sua casa dai
popolari applausi; e accondiscese quasi a stento a portarsi alla sala, ove il
popolo lo volle accompagnare; ed ivi dagli ottocento radunati consiglieri era
aspettato per dare il giuramento della dignità. Quasi crederei sincera
la sorpresa, e sincera la renitenza in Guido della Torre, il quale,
dimenticando le gabbie orrende che avevano rinchiusi Napo suo zio e il marchese
di Monferrato suo amico, non pensò mai a tessere insidie a Matteo
Visconti, che, privo di denaro e di forze, viveva tranquillamente alle sponde
dell'Adige. Guido non poté piegarsi mai alla dissimulazione, anche in tempo in
cui il solo partito che gli rimaneva era quello.
Mentre Guido della Torre godeva d'una
sovranità la più legittima di ogni altra, poiché spontaneamente
offertagli dai voti pubblici, si preparava nella Germania la di lui rovina
coll'elezione di Enrico di Lucemburgo, innalzato alla cesarea dignità.
Guido, in mezzo alla prosperità, fece chiedere a Matteo Visconti come
vivesse, e quando sperasse di riveder Milano. I due quesiti vennero fatti in
nome di Guido a Matteo mentre passeggiava alle sponde dell'Adige; e la risposta
fu precisa; come io viva lo vedi, passeggiando e adattandomi alla fortuna;
per ritornare alla patria aspetto che i peccati de' Torriani sieno maggiori de'
miei[458]:
tale fu il riscontro ch'egli fece fare a Guido della Torre. Alcuni amici
rimanevano ancora a Matteo, ma dispersi, abbattuti e proscritti. Fra questi
merita distinta menzione Francesco da Garbagnate, milanese, esiliato per essere
del partito di Matteo; uomo di studio, di età fresca e di ottime
maniere. Viveva egli in Padova insegnando la giurisprudenza, e traendo da
quest'esercizio il suo vitto. Ma poiché intese l'elezione accaduta in Germania
di Enrico di Lucemburgo, annoiato egli della sua ristrettissima condizione, e
probabilmente a ciò spinto da Matteo, vendette i suoi libri; e, col
denaro che ne poté adunare, s'equipaggiò alla meglio, e passò in
Germania, cercando stipendio sotto il nuovo imperatore. Il Garbagnate era un
giovine colto, amabile, di felice aspetto, accorto, informato dello stato
d'Italia, e probabilmente parlava la lingua tedesca. Si presentò al
nuovo augusto in un momento felice, e fu bene accolto ed ammesso fra gli
stipendiati. Enrico già pensava all'Italia, e non potevagli essere
indifferente il Garbagnate; il quale anzi in breve seppe così ben
soddisfare la curiosità di Enrico, che acquistò la sua grazia e
benevolenza, per modo che lo informò minutamente del carattere di
ciascuno de' signori che possedevano le città lombarde, degli appoggi,
delle amicizie, degli odii di ciascuno, delle loro forze, dello stato di ciascuna
città: il che alla venuta che fece poi Enrico nell'Italia, lo
trovò esattamente vero. Il Garbagnate non mai dimenticava ne' suoi
discorsi con Cesare il suo Matteo Visconti, di cui la fedele divozione
all'Impero, la bontà, la prudenza, la moderazione, il disinteresse, la
beneficenza e tutte le virtù venivano poste in tal lume da invogliare
l'imperatore a conoscerlo, e preparare la confidenza in lui, come il più
conveniente di ogni altro per terminare le intestine discordie, e far rivivere
l'autorità dell'Impero sulle città lombarde, tosto che ei fosse
tratto da quell'oscurità in cui la capricciosa fortuna l'avea gettato.
L'eletto imperatore si dispose a venire
nell'Italia, ove disegnava di ricevere la corona del regno italico prima, indi
la imperiale. (1310) Egli previamente spedì a Milano il vescovo di
Costanza, il quale, nell'aprile dell'anno 1310, si presentò al consiglio
generale; ed ivi ricercò, seguendo l'antica pratica usata nel viaggio
dei cesari, che la comunità facesse accomodare le strade e i ponti per
dove il nuovo augusto doveva passare; ed avvisò i conti, i baroni e i
vassalli tutti che si portassero alle Alpi ad incontrare il sovrano. Lo storico
milanese Giovanni da Cermenate, che viveva in que' tempi, espone l'arringa
officiosa di quel vescovo; il quale, fra le altre cose, disse che Enrico di
Lucemburgo, incoronato già in Acquisgrana col diadema d'argento, aveva
destinato di ricevere in Milano la corona di ferro; Quod, clarissimi cives,
significat, quod sicuti per ferrum et istrumenta ferrea cætera metalla
domantur, sic per salubre consilium, nec non praeclaram armorum virtutem
italicorum, et præcipue Mediolanensium, domare debet imperator
cæteras nationes[459].
Il punto era assai scabroso per Guido della Torre, il quale, come capitano
perpetuo, sedeva nel consiglio. L'opporsi alla domanda, era lo stesso che il
dichiararsi apertamente ribelle; la domanda era giusta, conforme alla pratica,
e fatta colla maggiore onorevolezza; né si poteva contrastarla, se non
innalzando lo stendardo della fellonia; e Guido non era sicuro d'essere
secondato dalle altre città, ossia da' molti vacillanti principi che le
reggevano. L'aderire alla richiesta era lo stesso che porre nelle mani del
nuovo eletto la città, la signoria acquistata, e la propria persona.
Promettere tutto, e mancare poi, non lo permetteva il carattere di Guido.
L'imbarazzo era grande per darvi una risposta; e chi lo sciolse fu un di lui
amico intimo, un giureconsulto che sedeva nel consiglio, Bonifacio da Fara.
Incominciò questi un discorso ampolloso, magnificando primieramente la
maestà del romano Impero, il rispetto dovuto al trono augusto, la
divozione che sempre la città di Milano aveva dimostrato ai cesari
benèfici; passò quindi a trattare della venuta degli augusti nell'Italia,
per ricevere la corona d'oro in Roma, dopo essere incoronati col ferro in
Milano, e coll'argento prima nella Germania; viaggio di somma importanza e per
il sublime personaggio che lo fa, e per la sacra solennità che viene a
celebrarvi; poscia discese a trattare della venerazione che meritava il vescovo
di Costanza, non meno per l'episcopale dignità, che per
l'importantissima legazione che eseguiva, rappresentando il più gran
monarca del mondo; e dopo una lunga amplificazione concluse, essendo perciò
quest'affare della maggior importanza, o si risguardi l'eccelso principe che lo
promoveva, o il venerabile ministro che lo annunziava, o la maestà della
cosa che veniva proposta; quindi come i grandi oggetti meritano rispetto e
ponderazione somma per ogni riguardo, tempo perciò vi voleva per
maturamente esaminarlo, e preparare una confacente determinazione. Con tale
artificio l'astuto Bonifacio da Fara offrì il disimpegno per guadagnar
tempo e sciogliere il consiglio, come si fece; e il vescovo ne uscì nulla
più informato di prima sulle intenzioni del signor Guido della Torre,
capitano perpetuo del popolo di Milano.
Guido della Torre si approfittò
del tempo, e chiamò a Milano tutti i signori che dominavano nelle
città della Lombardia ad un congresso; a fine di concertare il partito
che conveniva di prendere intorno la venuta del nuovo imperatore. Erano
trascorsi già centoventiquattr'anni dopo l'ultima coronazione, fatta in
Milano nel 1186, di Enrico, figlio di Federico I. Gl'imperatori non erano stati
dopo quell'epoca nominati da noi, se non o per qualche diploma, ovvero per le
guerre che avevamo con essi. Radunatisi questi principi in Milano, Guido
propose che tutti seco lui si collegassero a far causa comune per la comune
loro salvezza, e, combinando tutte le forze loro in una armata, si portasse
questa ai difficili passi delle Alpi, e s'impedisse la insolita venuta d'un
imperatore nell'Italia; il che non facendosi, Guido annunziava, non solamente
ecclissato lo splendore delle loro famiglie, ma schiantata dalle radici la loro
dominazione sulle città. Guido prevedeva esattamente la cosa, come la
sperienza mostrò poi. Ma il conte di Langosco, suo suocero, rammentando
la devozione che i maggiori suoi ebbero sempre all'Imperio, ricordandosi vassallo
dell'imperatore, sosteneva doversi anzi preparar tutto per accogliere
quell'augusto coll'onore e colla riverenza che era dovuta da uno Stato fedele
al suo legittimo sovrano. Replicava Guido, sin ora non essere concorsa
nell'elezione di Enrico di Lucemburgo che
Il re Enrico, verso la fine di ottobre
dell'anno 1310, venne a Susa, d'onde passò a Torino, indi ad Asti. Egli
aveva seco
Francesco da Garbagnate, sempre caro e
sempre vicino al nuovo imperatore, era in Asti, venuto in seguito di lui; né
mai trascurava l'occasione di encomiare le qualità e il merito di Matteo
Visconti. Allorché vide il re invogliato di conoscerlo, e che dal re medesimo
ne intese la brama, cautamente operò in modo che Matteo, travestito e
colla compagnia d'un solo domestico, per strade inosservate, prestamente da
Nogarola si portò in Asti. Tanta era la fama di quest'uomo e tanta la
fiducia che avevano in lui i nemici dei Torriani, che, risaputosi appena
l'arrivo di questo illustre solitario, un'immensa folla di persone andò
al suo albergo, e lo accompagnò al palazzo ove risedeva il re Enrico, i
cortigiani del quale conobbero di quanta considerazione godesse l'uomo che
cercava d'essere al re presentato, il che subito gli venne concesso. Il
Visconti, introdotto alla presenza del nuovo cesare, levatosi il cappuccio, si
gettò a' suoi piedi, e raccomandò alla giustizia e clemenza sua
la persona propria e i suoi. Fu accolto con molta grazia dal re. Dicono i
nostri scrittori che nella stanza medesima vi fossero varii altri signori delle
città lombarde, e fra questi il conte Langosco; che Matteo, poiché ebbe
reso omaggio al re, si accostasse per abbracciare il conte, dal quale
villanamente gli fossero voltate le spalle; il che desse luogo a Matteo di
ammonirlo, esser tempo omai di por fine alle inimicizie private, e di servire
tutti d'accordo all'utilità pubblica sotto di un così benigno,
così giusto e così grazioso monarca. Se questo fatto è
accaduto, egli è certamente lontano dai nostri costumi, che non
permettono in faccia del sovrano di essere occupati da simili
personalità. Si dice di più, che ivi rabbiosamente taluno
rinfacciasse a Matteo Visconti d'essere il perturbatore della Lombardia; e che
Matteo, sempre padrone de' suoi moti, pacificamente indicando il re, null'altro
rispondesse se non: ecco il nostro re, che darà la pace a ciascuno. Se
ciò avvenne, la inurbana ostilità de' suoi nemici dovette dare
risalto alla cortese moderazione del saggio Matteo. Il re, sorridendo,
terminò il discorso col dire: la pace per metà è
già fatta; a me spetta il compierla. Così racconta il Corio.
Guido della Torre frattanto se ne stava
in Milano. Egli alloggiava nel palazzo fabbricato quindici anni prima da Matteo
Visconte, allora vicario imperiale dell'imperatore Adolfo; il qual palazzo era
situato dove oggidì vi è la real corte arciducale[460].
Guido aveva al suo stipendio mille soldati a cavallo. Il re gli aveva spedito
ordine di consegnargli liberi i due fratelli dell'arcivescovo, ch'egli teneva
prigionieri; e Guido non aveva dato riscontro alcuno. Sperava Guido che i
consigli de' Langoschi e di altri suoi aderenti avrebbero dissuaso il re dal
venire a Milano; e si fidava che in ogni evento, Vercelli, Novara e Vigevano,
ben presidiate città, avrebbero resistito alla venuta di Cesare. Il
Langosco, in fatti, e gli altri suoi aderenti adoperarono ogni arte per fare
che il re prescegliesse di farsi incoronare a Pavia, e non venisse a Milano. Ma
il Garbagnate e il Visconte fecero comprendere ad Enrico che non v'era
sicurezza sin tanto che Milano era in potere di Guido della Torre; che anzi era
indispensabile che in Milano l'imperatore piantasse la sua sede: poiché,
padrone una volta della città, e ricevuta che avesse ivi solennemente la
corona del regno italico, alcuno più non avrebbe osato di fargli
opposizione. Il re deliberò appunto di così fare. Al presentarsi
del re colle sue forze prima a Vercelli, poscia a Novara, nessuna opposizione
ritrovò: venne anzi onoratamente accolto e venerato come sovrano.
Vigevano fu preso dalle truppe reali senza spargimento di sangue, poiché un
medico del paese cautamente ve le introdusse. Il re non permise che si
oltraggiassero i vinti, e il solo uso ch'ei fece dell'autorità, fu per
sedar le fazioni. Informato Guido di tai progressi, finalmente spedì a
Novara anch'egli alcuni de' suoi, per rendere omaggio in di lui nome al re, e
presentargli i due fratelli dell'arcivescovo. S'incamminò poscia il re
de' Romani verso Milano; dove aveva già spedito il suo maresciallo di
corte con truppe, affine di preparare gli alloggiamenti; e mentre era
innoltrato nel cammino da Novara a Milano, ricevette un avviso dal maresciallo,
che Guido della Torre non voleva sbrattare dal suo palazzo per lasciarlo al re;
e che non voleva licenziare i mille armati del suo stipendio. Il re, scostatosi
dalla via pubblica, chiamò a parlamento i suoi. Nessuno ardì di
consigliargli il partito ch'egli saggiamente prese. Spedì rapidamente
avanti di sé l'ordine che il maresciallo al momento pubblicasse in Milano il
comando, che ciascuno uscisse incontro del re fuori della porta della città.
La sorpresa, la fama già precorsa della bontà di quel sovrano,
l'amore delle cose insolite, naturale al popolo, che sente i mali presenti e si
lusinga d'un favorevole cambiamento; la maestà d'un augusto, la noia de'
Torriani, tutto in un momento si riunì, e fece uscire i Milanesi
affollati fuori della porta della città ad incontrare l'imperatore.
Guido della Torre, per non rimanere solo, s'indusse egli pure ad uscire; e fu
degli ultimi. A misura che il re s'andava accostando alla città,
cresceva il numero de' Milanesi che gli rendevano omaggio. I signori
cavalcavano, secondo l'uso di que' tempi, col loro scudiere, che portava
innalberata la loro insegna; e a misura che compariva il re, le insegne si
abbassavano per riverenza. Presso le porte, al fine della città, comparve
Guido della Torre, preceduto dal podestà, che in quell'anno era
Ricuperato Rivola, bergamasco. Il podestà umilmente presentò al
re il bastone del comando, ch'era il distintivo della sua dignità; il re
lo prese, indi graziosamente glielo riconsegnò. Guido della Torre teneva
immobilmente innalberato il suo stendardo; e alcuni del seguito del re de'
Romani, ragionevolmente sdegnati di questo inopportuno orgoglio, si scagliarono
sullo scudiero, glielo strapparono dalle mani e lo gettarono nel fango.
Sconcertata così ogni pretensione di Guido, scese da cavallo, e
umiliatosi al re, baciogli il piede, siccome allora era il costume. Il saggio
Enrico allora lo accolse con bontà, e con paterno amichevole tuono gli
disse: sia d'ora innanzi fedele e paciflco; questo è il solo buon
partito che ti resta da prendere.
Resosi per tal modo padrone di Milano,
Enrico di Lucemburgo, andò ad alloggiare nel palazzo, ove sta
oggidì la real corte, il quale era signorilmente fabbricato per l'uso di
que' tempi. Questa entrata del re in Milano accadde il giorno 23 dicembre 1310.
La prima cosa che ordinò Enrico fu: che fra le due famiglie Visconti e
della Torre vi fosse una perpetua pace; che le cose passate nemmeno più
si potessero nominare; che da quel punto ogni fazione si'ntendesse proscritta
ed abolita per sempre; che i fuorusciti liberamente ritornassero tutti nel seno
della loro patria, e fossero repristinati nel godimento de' loro beni. Ciascuno
dovette giurare di osservare questa legge; in cui venne imposta la pena contro
i contravventori di mille libbre d'oro: per fare il qual peso vi vogliono
centomila zecchini, somma che, in que' tempi singolarmente, doveva essere
difficile il far pagare. Io quasi dubiterei di errore, se la carta non dicesse
chiaramente mille librarum auri puri poena, e non l'avesse pubblicata il
nostro esimio Muratori[461].
Il re Enrico fece dappoi radunare il popolo sulla piazza di Sant'Ambrogio. Ivi
si collocò sopra di un eminente e magnifico trono, a' piedi del quale
fece sedere i signori Visconti e della Torre; e in questa circostanza, d'ordine
del re, un oratore prese a parlare al popolo, dichiarando che il nuovo augusto
non era venuto in Italia per proteggere alcun partito, ma per fare
indistintamente il bene, e senza parzialità, a tutti; ch'egli voleva la
pace e la concordia; ed in prova indicò i signori che unitamente
sedevano sui gradini del trono. Questi benèfici sentimenti, la vista
inaspettata e tenera di due famiglie irreconciliabili, rese tranquille dalla
felice autorità del monarca, fecero che il popolo scoppiasse in lagrime
di gioia e in applausi al virtuoso e benigno principe; e così
l'eloquenza del cuore della moltitudine coronò, nella più
sensibile maniera e nella più fausta, il principio della nuova
sovranità, anche prima della sacra cerimonia, che si celebrò poi
in Sant'Ambrogio il giorno 6 gennaio 1311; dove l'arcivescovo di Milano,
assistito da due arcivescovi e da ventun'altri vescovi, solennemente
incoronò colla corona ferrea del regno d'Italia il nuovo augusto. I due
arcivescovi assistenti furono quei di Treveri e di Genova. I vescovi furono
di Liegi, di Ginevra, d'Asti, di Torino, di Vercelli, di Novara, di Bergamo, di
Padova, di Vicenza, di Treviso, di Verona, di Mantova, di Piacenza, di Parma,
di Reggio, di Modena, di Lucca, di Brescia, di Lodi, di Como e di Trento.
Questa solennità fu resa più augusta dall'assistenza del duca
d'Austria, del duca di Baviera, del conte di Lucemburgo, fratello
dell'imperatore, del conte di Fiandra, del conte di Savoia del Delfino, del
marchese di Monferrato, e di gran numero d'altri baroni e signori italiani e
tedeschi. Il vescovo di Vercelli ebbe l'onore di cingere la spada al re, al
quale vennero con cerimonia consegnati il pomo d'oro, lo scettro e la verga,
prima che l'arcivescovo terminasse il rito, imponendogli la corona. È
degno di memoria un fatto, ed è che non fu possibile per quante ricerche
se ne facessero, di ritrovar conto dell'antica corona del tesoro di Monza,
colla quale era tradizione che fossero stati incoronati gli antichi re
d'Italia. Forse il far smarrire quell'antico cerchio è stata una minuta
animosità di Guido della Torre; ma vi si supplì ben tosto con
poca difficoltà da un fabbro, che formò d'acciaio una corona di
ferro, a foggia di due rami d'alloro intrecciati. In quel giorno solenne il
nuovo re d'Italia creò alcuni militi, siccome era l'uso di fare nelle
grandi occasioni, e il primo nominato fu Matteo Visconti.
Sin qui la novità della venuta
del re Enrico non aveva cagionato se non giubbilo e consolazione alla
città. Ma terminata appena la incoronazione, venne convocato il
consiglio generale; dove, entrando un ministro del re con un notaio,
ricordò ai consiglieri radunati l'antica usanza del regalo da farsi
all'imperatore nuovamente coronato; e, rivoltosi al notaio: scrivete, disse,
ciò che una città sì grande e magnifica
determinerà di offrire al nuovo cesare. Nessuno ardiva essere il
primo a favellare. Un cupo silenzio regnò per qualche tempo in quella
numerosa adunanza. Pure conveniva proferire; e il primo eccitato a parlare, per
liberare sé medesimo d'imbarazzo, altro non seppe suggerire, se non
d'incaricare uno dei più stimati fra' consiglieri, a lui rimettendo il
determinare
Mi sia permessa una breve digressione.
Se la somma di centomila fiorini d'oro era allora tanto grave a pagarsi,
quantunque ripartita su tutta la città, come adunque una somma di tal
valore poteva minacciarsi a un privato, il che pocanzi si è veduto nella
pace ordinata fra i Visconti e i Torriani? La storia ci presenta frequenti
occasioni di dubitare, anche sopra de' più autentici documenti, perché i
costumi, co' secoli, si sono cambiati; e se oggidì sarebbe ridicola una
legge che imponesse la pena d'un milione di scudi al delinquente, forse allora
non lo sarà stata, e la esagerata minaccia era forse lo stile del
legislatore. Fors'anco l'antico spirito delle leggi longobarde, che fissava le
pene pecuniarie, non permetteva di imporre, se non indirettamente, le pene
personali, cioè fissando una somma impossibile, la quale, non pagata, il
delinquente cadeva in potere del legislatore. È noto come il fiorino
d'oro è la stessa moneta che oggi chiamiamo il gigliato, che, da
Fiorenza e dal fiore che aveva ed ha nell'impronto, si chiama fiorino; che
questa moneta di purissimo oro si cominciò a coniare in Firenze l'anno
1252; e che ben presto acquistò tal credito, che molti altri Stati lo
imitarono. Anche Milano ebbe i suoi fiorini d'oro nei tre secoli che vennero
dopo quell'epoca: ed io credo che una di tali monete che possedo, coll'immagine
da una parte di sant'Ambrogio, e dall'altra, de' santi Gervaso e Protaso, e
colla data Mediolanum, possa essere coniata circa l'anno 1258, nel quale
si fece uno statuto per migliorare la moneta, ovvero circa al 1260; anno al
quale il Muratori attribuisce altre monete d'argento battute in Milano senza
nome di principe, poiché l'Impero era vacante[462].
Era sul punto il re Enrico d'incamminarsi
verso di Roma, per ivi ricevere la terza incoronazione come imperatore; ma ben
prevedeva quel prudente signore che sarebbe stata di corta durata la pace data
a Milano, s'egli si allontanava, conducendo seco le sue milizie. Gli armati che
lo accompagnavano non erano numerosi abbastanza per poterne staccare porzione
in custodia della Lombardia. Doveva aspettarsi che l'odio e la rivalità
delle fazioni sopite, scoppiassero al momento in cui veniva levato il peso che
le aveva fiaccate; e che o i Visconti o i Torriani ben tosto venissero
espatriati e resi raminghi co' loro aderenti. Il saggio principe, con accorto
consiglio, nominò cento nobili milanesi, dai quali voleva essere
onorevolmente accompagnato nel suo viaggio di Roma; e in questo numero erano
compresi i capi e i più distinti d'una e dell'altra fazione. Questa
determinazione, che in fatti era decorosa per gli eletti, piacque sommamente
alla città, che ne traeva l'augurio della ventura quiete e dell'ordine.
Gli eletti, per lo contrario, cercavano il pretesto onde potere sventarne
l'idea; e quello che singolarmente rappresentavano, era la mancanza del denaro
per un decente corredo: mancanza in parte vera; poiché gli espulsi, nel tempo
dei partiti, avevano perduto i loro beni. Comandò adunque il re che la
comunità di Milano dovess'ella somministrare i mezzi convenienti per i
cento nobili nominati ad accompagnarlo. Pareva che per tal modo fosse spianata
ogni difficoltà; ma le sorde ed implacabili passioni rovesciarono ogni
cosa. Sembrava quasi che secretamente i due partiti operassero di concerto per
annientare ed eludere il potere benefico del re, che altro non toglieva loro
che la facoltà di nuocersi. I centomila fiorini d'oro del regalo si
riscuotevano con violenze, e in modo cotanto odioso, che la città era
piena di lamenti. Si disseminò la vociferazione del nuovo aggravio da
imporsi, per equipaggiare i cento nobili ed abilitarli al viaggio di Roma. Si
cercava di far nascere l'avversione contro del re e dei Tedeschi, come invasori
dello Stato. In queste circostanze, e mentre cominciava già a spargersi
la tristezza, venne radunato il consiglio generale per ordine del re, nel quale
comparve Niccolò Bonsignore di Siena, come ministro del re, proponendo
al consiglio d'assumersi la spesa per il viaggio de' cento nobili. Aveva
Niccolò Bonsignore fatto circondare dalle armi del re la sala del
consiglio, quella cioè dove attualmente si trova l'archivio pubblico.
Fatta ch'ebbe quel signore la proposizione, un cupo silenzio occupò
tutta la sala, e non vi fu mai modo che un solo de' consiglieri rispondesse
alle molte istanze e interpellazioni di quel ministro. Credette Niccolò
di essere deriso; e dopo inutili tentativi, partì dal consiglio
lasciando gli ottocento radunati e custoditi dalle guardie, sì che nessuno
potesse uscirne. Portossi immediatamente dal re, al quale esponendo
l'ostinazione del consiglio, procurò di animarlo contro de' Milanesi;
gli significò come la città fosse inquieta; che fuori di porta
Ticinese, ne' prati ove scorre la Vecchiabbia, eransi veduti Galeazzo Visconti
e Francesco della Torre in secreto misterioso colloquio, d'onde, non credendosi
veduti, s'erano separati prendendosi per la mano in atto di reciproca promessa;
il che fra due case cotanto nemiche non poteva indicare se non una congiura
contro del nuovo regno; eccitò l'animo reale a farsi perfine temere da
un popolo che non poteva guadagnare co' beneficii, e chiese se dovesse
trasportare in carcere i taciturni consiglieri, ovvero passarli tutti a fil di
spada. Tale fu il bel parere che quell'italiano diede ad Enrico. Ma il re aveva
un miglior naturale del suo ministro. L'ora è ben tarda, rispose
il re; i consiglieri non hanno pranzato; licenziate il consiglio, e
lasciategli andare alle case loro. Così rispose quell'augusto, il
quale merita d'aver sempre un luogo onorato nella memoria di tutti i buoni.
Così venne fatto. Questa nel saggio monarca era virtù, era
umanità, nobile sicurezza e moderazione; non era spensieratezza o
mancanza di azione. Egli cautamente sapeva diffidare; vegliava sopra tutti i
movimenti d'una città abituata ai cambiamenti; era di tutto informato; e
con varii pretesti giravano sovente le truppe imperiali per i quartieri della
città.
La congiura fra i Visconti e i Torriani
forse non era un sogno. Galeazzo Visconti fors'anco vi ebbe parte; almeno il
popolo credette già preso il concerto di scacciare il re ed i suoi.
Taluno dubita che Matteo istesso vi avesse parte; io non lo credo. Egli
è certo che Matteo comparve innocente e fedele presso dell'imperatore.
Chi crede gli uomini troppo buoni s'inganna; e s'inganna non meno chi li crede
troppo maligni. Matteo Visconti non si è mostrato mai uomo di cattivo
carattere; e bisognava supporlo d'un pessimo animo, se appena ottenuto il
beneficio di ricuperare la patria e i beni, appena onorato del cingolo della
milizia, avesse tramata una insidia contro dell'augusto benefattore. Il fatto
è questo. Già era cominciato il tumulto nella città, e
molti erano usciti dalle loro case armati. Correva voce che i Visconti e i
Torriani riuniti volessero scacciare i forestieri, a cagione de' quali s'erano
imposte le ultime gravezze. Il luogo per radunarsi si vociferava alle case de'
Torriani, le quali erano al Giardino, al Teatro Nuovo, ne' contorni di San
Giovanni alle Case Rotte; denominazione data dappoi, quando, diroccate le case
de' Torriani, così rimasero per alcuni anni. La città era in
allarme; ma le truppe tedesche eranvi in buon numero, e giravano per le strade,
in modo da non essere sorprese o poste facilmente in fuga. Si pretende da
alcuni che il complotto fosse concertato fra l'inquieto Galeazzo, figlio di
Matteo, e Francesco, figlio di Guido; il quale Guido della Torre trovavasi
ammalato. Dai movimenti dei Tedeschi poté Galeazzo accorgersi che più
non era possibile il sorprenderli, e che la mina era sventata. Il partito
più scaltro era quello di ripiegare a tempo, di non arrischiarsi;
comparire fedele, e lasciare che tutta la colpa e la macchia piombasse sopra
dei Torriani. Se la cosa sia stata fatta a disegno e con malizia non lo sappiamo.
Egli è vero che Matteo Visconti nascose entro un ripostiglio di sua casa
Lodrisio Visconti, che era già armato per uscire; e fatto ciò,
Matteo, in abito da casa, si pose a sedere sotto il porticato del suo cortile,
e fece venire intorno di sé alcuni domestici, co' quali si mise tranquillamente
a ragionare, come se nulla accadesse nella città, o non fosse a di lui
notizia che dovesse accadere. Il re aveva spedita una banda de' suoi per
arrestare Matteo, qualora lo cogliessero in armi. Entrarono improvvisamente
gl'imperiali, e furono sorpresi di trovare il silenzio e la pace in quel
ricetto in cui erano disposti a combatter i nemici. Matteo, spogliato, e
attonito a quella novità, mostrò tutte le apparenze d'un buon
uomo che vive nella tranquillità la più profonda: fece offrire
cibo e bevanda con ogni ospitalità a que' stipendiati; i quali non
ricusarono il dono, indi, preso il galoppo, si inviarono alle case dei
Torriani, intorno alle quali tutto era in armi. Pagano della Torre, vescovo di
Padova, si pose gli abiti episcopali indosso, la mitra, il baston pastorale, e
si collocò sulla porta di sua casa per ricevere i Tedeschi; come i
Romani al tempo di Camillo ricevettero i Galli. La persona del vescovo non fu
offesa da alcuno, ma non poté per questo impedire l'ingresso. I signori della
Torre, vedendosi sorpresi e male assistiti da una moltitudine disordinata,
raccomandarono la loro vita a generosi cavalli, ai quali tagliarono gli usati
ornamenti per renderli più veloci alla fuga; e così Francesco e
Simone, figli di Guido, giunsero a ricoverarsi a Montorfano. Guido, infermo, si
alzò da letto, e, sorpassando il muro del giardino, si appiattò
entro un monastero di monache; d'onde poi ebbe asilo presso un antico suo
amico, e poté nascondersi e passare a salvamento. Frattanto gl'Imperiali con
poco stento uccisero e sbandarono quegli ammutinati. Le case de' Torriani,
bagnate di sangue e ingombrate di cadaveri, vennero esposte al saccheggio dalla
licenza militare.
Mentre questa tragedia si eseguì
in Milano, Matteo Visconti e Galeazzo, di lui figlio, rappresentavano due scene
in luoghi distinti. Matteo aveva comandato a Galeazzo di starsene in casa sino
al di lui ritorno. Ma Galeazzo, appena fu il padre uscito, si armò, si
pose a cavallo e si mostrò per le strade. Matteo Visconti, poiché vide
sgombrati gl'imperiali dalla sua casa, si portò disarmato dal vescovo di
Trento, cancelliere imperiale, e lo pregò di volerlo presentare al re;
mentre non osava di presentarglisi solo nel momento in cui poteva ogni
cittadino essere sospetto. Il vescovo fu compiacente; e la spontanea presenza
del Visconti, i suoi ragionamenti, la relazione dello stato in cui venne
sorpreso nella sua casa, persuasero il re che Matteo fosse innocente: e tutta
la trama ricadde soltanto sopra i Torriani. Probabilmente, o non vi fu intrigo
dalla parte di Matteo, ovvero fu concertato dal solo Galeazzo senza saputa del
padre. Nel momento poi in cui scoppiò il tumulto, facilmente Matteo
avrà conosciuto come fosse stata ordita
I Torriani in quel giorno perdettero
per sempre la patria, da cui vennero proscritti; e sempre dappoi riuscirono
vani gli sforzi che posero in opera per ritornarvi. Così terminò
la dominazione de' Torriani, la quale interrottamente durò anni
trentatré, cominciando da Martino, che, nel 1247, intraprese a reggere il
popolo, e lo resse per anni sedici, poscia Filippo, per anni due, indi
Napoleone ossia Napo, per anni dodici, poi (dopo l'intervallo di Ottone
Visconti e di Matteo), Guido della Torre lo resse per anni tre sino al 1311, il
che forma il periodo di trentatré anni. Non ho interrotto il racconto di questa
interessante serie di avvenimenti colle frequenti citazioni; perché l'epoca
è assai nota, quantunque gli autori raccontino variamente le
circostanze. Chi bramasse di esaminare il fatto dalla sorgente, vegga il tomo
XII della Raccolta Rerum Italicarum; Bonincontro Morigia, Cronaca di Monza[464];
Giovanni Villani, Storia, lib. IX; Cronaca d'Asti[465];
Giovanni da Cermenate, Istoria[466];
il Corio, all'anno 1311; e più d'ogni altro, la diligente e laboriosa
opera del nostro conte Giulini, al tomo VIII.
La storia d'un paese repubblicano
può paragonarsi ad una vasta pittura che rappresenti un grande ammasso
di oggetti variati, sulla quale scorre lo sguardo, incerto talora quali delle
figure meritino un'attenzione distinta; alcuni oggetti veggonsi bene
illuminati, altri indicati appena in lontananza; e nella memoria non rimane poi
se non un tutt'insieme. Laddove la storia d'un paese soggetto ad un principe si
rassomiglia ad un quadro storiato, di cui le figure tutte servono al risalto
del principale ritratto, che a sé chiama i primi sguardi dello spettatore,
nella mente di cui rimangono le tracce distinte della fisionomia rappresentata
e della disposizione del quadro. Mutata la forma tumultuosa ed instabile della
nostra città; assoggettata questa alla signoria de' Visconti, i costumi,
la felicità, la pace, la guerra, la povertà o la ricchezza
diventarono dipendenti dalla buona o cattiva indole del sovrano, sul quale
principalmente convien fissare lo sguardo. (1311) I Torriani vennero per sempre
scacciati, siccome dissi, dalla città. Matteo Visconti, collo sborso di
quarantamila fiorini d'oro, l'anno 1311, nel mese di luglio, ottenne dal re de'
Romani, Enrico di Lucemburgo, un diploma col quale lo creò vicario
imperiale nella città e contado di Milano. Diciassette anni prima,
Matteo istesso era stato creato vicario imperiale dall'augusto Adolfo, non di
Milano soltanto, ma di tutta la Lombardia, con mero e misto imperio. Il re
Enrico doveva abbandonare la Lombardia, ed inoltrarsi verso Roma, ove ricevette
la corona imperiale. Egli aveva in animo di sottomettere il regno di Napoli, ma
gli mancavan i denari; non è quindi maraviglia che, volendo egli trar
profitto dalla carica di vicario dell'Impero, la concedesse ad un uomo che gli
dovea tutto, cioè a Matteo Visconti. (1313) Passò poi quel buon
imperatore nella Toscana, ove a Buonconvento, morì il giorno 24 agosto
1313. La controversa cagione della di lui morte non è un oggetto
appartenente alla storia di Milano. L'arcivescovo di Milano era uno della casa
della Torre, cioè Cassone della Torre; e doveva vivere esule dalla sua
patria, seguendo il destino della sua famiglia. Egli dalla Francia, ove
stavasene ricoverato presso del papa, si portò a Pavia, città che
allora non era dominata dai Visconti, e l'anno 1314 da Pavia scrisse a Matteo
Visconti una lettera che comincia così: Cassonus etc. Viris utinam
providis Mattheo Vicecomiti, vicario et rectori, sive capitaneo, potestati,
sapientibus et antianis, consiliariis, consulibus, consilio, Communi civitatis
Mediolani, et Galeatio, Luchino, etc[467].;
indi espone i mali fatti alle possessioni della mensa arcivescovile, e
conclude: ut ideo tu Mattheus Vicecomes, et alii ut supra nominati, nisi vos
emendaveritis de praedictis, in perpetuum excomunicamus, anathematizamus,
omnique commercio humano ac ecclesiastica sepultura atque sacris ordinibus privamus[468].
Pare che questo sia stato il primo annunzio degli anatemi che vennero scagliati
dappoi. Matteo era uomo cauto e pacato. Poco a poco stese la sua dominazione su
Piacenza, Bergamo, Novara e qualche altra città. (1315) Pavia era una
città forte, nemica di Milano quasi da trecento anni. Matteo Visconti
fece comparire le sue armi sotto Pavia, le quali intrapresero dalla parte di
Milano un finto attacco, a rispingere il quale incautamente accorsero tutte le
forze del presidio. Frattanto un altro corpo di Militi di Matteo, assistito da'
corrispondenti ch'erano nella città, entrò dall'opposta parte in
Pavia, guidato da Stefano Visconti, uno dei figli di Matteo; e così
Pavia diventò dei Visconti l'anno 1315, e si assicurò Matteo che
da quella vicina e forte città l'arcivescovo Cassone della Torre non gli
avrebbe più scritte di tai lettere. I Pavesi, un secolo e mezzo prima,
avevano avuta gran parte nella rovina di Milano. Ne' meschini tuguri ove
stavano appiattati i nostri maggiori a Noceto e Vicentino, risuonavano ancora i
singulti degli avviliti cittadini, che temevano non incendiassero i Pavesi
anche que' tristi ricoveri. Matteo Visconti risparmiò ogni danno
possibile ai Pavesi; fabbricò un castello col quale assicurarsi quella signoria,
e ne confidò il comando a Luchino suo figlio. Matteo non era punto
atroce, e pensava alla stabile grandezza del suo casato. Le sue armi erano
confidate a' suoi figli. Non sembra ch'egli fosse in conto alcuno uomo da
guerreggiare; Marco Visconti comandava Alessandria e Tortona, Galeazzo
comandava Piacenza, Luchino, Pavia, e Lodrisio, cugino di Matteo, comandava
Bergamo. I figli suoi avevano ardor militare e perizia; e l'estensione del
dominio n'è la prova; poiché in breve furono assoggettate Piacenza,
Bergamo, Lodi, Como, Cremona, Alessandria, Tortona, Pavia, Vercelli e Novara; e
così Matteo signoreggiava undici città, compresa Milano.
Non poteva piacere al papa la signoria
de' Visconti per le ragioni che altrove ho indicate. Il papa, sebbene rifugiato
nella Francia, sempre aveva in vista l'Italia. Dopo la morte di Enrico di
Lucemburgo gli elettori nella Germania formarono due partiti, e furono
incoronati re di Germania e de' Romani Federico d'Austria e Lodovico di
Baviera. Il
Matteo Visconti aveva cinque figli:
Galeazzo, Luchino, Marco, Stefano e Giovanni, creato arcivescovo. Sebbene
Galeazzo, Luchino e Stefano abbiano mostrato valor militare in ogni occasione
presentandosi ai nemici, Marco però li superava, e aveva i talenti d'un
buon generale. Fu spedito dal padre a tentare la conquista di Genova; e
l'impresa non riuscì; perché il re
In quale misero stato si ritrovasse,
dopo tutto ciò, Matteo Visconti, è facile l'immaginarselo. Molti
dei nobili, per la naturale invidia d'una nascente potenza, aderivano al
legato. Altri tremavano per obbedire ad un eretico scomunicato; e il popolo
tutto era inorridito per l'anatema e l'interdetto pronunziati sopra della
città. Il Corio riferisce quell'epoca, ed io mi servirò delle
parole di lui. I nobili adunque di continuo interponevano littere al legato,
ed in altro non havevano il pensiere se non excogitare in quale modo Matteo con
li figlioli potessino rimovere dal governo dil milanese imperio. Mattheo da
questa hora avante più non si volse intromettere de veruna cosa
concernente al Stato suo, ma in tutto ne le mano de Galeazo renuntiò il
dominio, grandemente condolendosi de la lite quale contra la Chiesia cognosceva
moltiplicare, ed anche perché non altramente da li citadini milanesi se haveva
a guardare come da pubblici e capitali inimici, inde tutto il pensiere suo
puose, con devotione a visitare li templi, et ultimamente un giorno avante alo
altare de la chiesia maggiore havendo facto convocare il clero, e pervenuti
alla presenzia de quello con alta voce cominciò a dire Credo in Deum
Patrem, e disse tutto lo symbolo, lo quale fornito, levando il capo, cridava
che questa era la sua fede, la quale haveva tenuto tutto il tempo della vita
sua e che qualunque altra cosa gli era imposto, con falsitate lo accusavano, e
de ciò ne fece conficere un publico instrumento[485].
Il Rainaldi confessa che in quei processi vi è stata della
parzialità: Certe fidei censores studio partium nimium
commotos in percellendis sententia haereseos Gibellinis aliquibus constat[486];
e il papa Benedetto XII, dicianove anni dopo, con sua bolla del 7 maggio
1341, dichiarò e sentenziò iniqui e nulli i processi fatti nel
1322: Processus, et sententias supradictas, ex certis causis legitimis atque
justis repertis in eis, inique factos invenimus existere, atque nullos ipsos
processus et sententias per archiepiscopum, Paxium, Jordanem, Honestum et
Barnabam praefatos, et eorum quemlibet super praemissis, communiter vel
divisim, contra Johannem et Luchinum praedictos (erano allora quei due
figli di Matteo signori tranquilli di dodici città) habitos atque
latos, et quaecumque secuta sunt ex eisdem vel ob eos, de ipsorum Fratrum
nostrorum consilio, et authoritate apostolica, inique facta ac nulla atque
irritata declaramus[487].
Comunque fossero i processi, certo è che un seguito di tante angustie
oppresse l'animo di Matteo, già indebolito anche dalla non più
vegeta età di sessantadue anni; e dopo breve malattia, nella canonica di
Crescenzago, tre miglia lontano da Milano, finì i suoi giorni il 24 di
giugno dello stesso anno 1322, poco più di tre mesi dopo
Se la guerra contro di Matteo Visconti
fosse stata mossa per motivi personali, colla di lui morte sarebbe terminata,
ed avrebbe Milano nuovamente goduta la tranquillità; ma l'oggetto della
ostilità era di opprimere una nascente potenza; e perciò Galeazzo
I, al quale Matteo aveva rinunziato avanti di morire il governo dello Stato, si
trovò esposto alle persecuzioni, più animose ancora di quelle che
afflissero gli ultimi anni della vita di suo padre. Già vedemmo che
Galeazzo, coll'inquietudine sua incautamente indisponendo i Milanesi, era stato
cagione della perdita della signoria, del ritorno de' Torriani e dell'esilio a
cui soggiacque la sua casa. La sperienza di venti anni che erano trascorsi, non
aveva reso molto prudente Galeazzo; il quale, nell'anno medesimo in cui morì
Matteo, perdette il dominio di Piacenza per un'inconsideratezza appena
perdonabile nel primo bollore della gioventù. Il signor Versuzio Lando
era uno de' primari nobili di Piacenza, distinto per il valore, per i costumi e
per le ricchezze; egli aveva in moglie
Mentre era Monza bloccata e abbandonata
in preda alla violenza che usavano questi avanzi di un'armata collettizia, i
canonici di San Giovanni di quel borgo avevano somma inquietudine che le rapine
non si estendessero sopra del pregevolissimo tesoro della loro chiesa; il quale
allora, siccome dissi, era valutato ventiseimila fiorini d'oro, oltre il pregio
delle cose sacre antiche. Deputarono quindi quattro canonici del loro ceto, ai
quali commisero di pensare a un sicuro nascondiglio, ed ivi riporlo. Fecero
giurar loro un inviolabile secreto, da non rivelarsi se non in punto di morte.
Poiché da essi fu eseguita la commissione, e il tesoro collocato, non si sapeva
dove, il capitolo obbligò i quattro depositari del secreto a partirsene,
e separatamente frattanto vivere altrove; acciocché non potesse colle minacce,
e fors'anco colle torture, costringersi alcun d'essi a parlare; e in potere di
que' licenziosi non rimanesse alcuno presso cui fosse il secreto. Pensare non
si poteva più cautamente: eppure Monza perdette il tesoro. Uno de'
quattro canonici, che aveva nome Aichino da Vercelli, stavasene in Piacenza,
ove venne a morte, e palesò il secreto a frate Aicardo, arcivescovo di
Milano. Da esso ne fu bentosto informato il vigilantissimo cardinale legato, Bertrando
del Poggetto; il quale non perdé tempo, e incaricò Emerico, camerlingo
di santa Chiesa, che trovavasi in Monza, di trasmettergli quel tesoro, siccome
eseguì puntualmente; e indi fu trasportato in Avignone, dove dimorava il
papa; d'onde, venti anni dopo, signoreggiando Luchino, venne restituito l'anno
1344. Io lascerò al chiarissimo signor canonico teologo don Antonio
Francesco Frisi la cura di verificare se la restituzione siasi fatta senza
alcuna perdita. Il valore dell'oro e delle gemme che oggidì ivi si
mostrano, non giunge fors'anco a duemila fiorini d'oro. Egli, che con varie
dissertazioni ha illustrate le antichità di Monza, ci renderà
istrutti esattamente anche di ciò, nella dissertazione che si è
proposto di pubblicare sul tesoro di quella chiesa.
Poiché Galeazzo ebbe Monza in suo
potere, e si vide liberato dalla Crociata, pensò tosto a rendere quel
luogo munito in avvenire contro simili accidenti. Importava molto il non avere
alla distanza di sole dieci miglia da Milano un borgo facilmente prendibile, e
nel quale i nemici, con molto numero d'armati, potessero sostenersi per alcuni
mesi, siccome poco anzi era accaduto. (1325) Per tal motivo Galeazzo I, l'anno
1325, fabbricò un castello in Monza, di cui vedesi ancora oggidì
la torre rovinosa. Il modo col quale fece quel principe fabbricare quella torre
ci prova sempre più quanto poco ei rassomigliasse al buon Matteo suo
padre. Veggonsi anche al dì d'oggi le prigioni orrende, destinate a far
soffrire l’umanità, calandovi gli uomini come entro un sepolcro per un
buco della volta, ove discesi posavano sopra d'un pavimento convesso e
scabroso, tanto vicino alla vôlta da non potervisi reggere in piedi.
Così egli aveva immaginato il modo di aggiugnere all'angustia, alla
privazione della libertà, al timore dell'avvenire, al maligno alimento
del cibo e dell'aria, anche il tormento di far succedere una positura dolorosa
ad un'altra dolorosa. Galeazzo I questa unica memoria ci lasciò come
sovrano; poiché la signoria di lui fu breve, e la cagione la troviamo nella
domestica discordia. Marco, che col suo valore aveva conservato e difeso lo
Stato, non poteva soffrire il fasto di Galeazzo I, a cui il padre aveva
lasciata
Si cerca come siasi fatta
l'incoronazione di Lodovico in Milano, poiché trattavasi di consacrare uno
scomunicato in una città posta all'interdetto. L'arcivescovo Aicardo era
assente; e, come aderente al
Della improvvisa morte di Stefano
Visconti (dal quale discesero Barnabò, Galeazzo II e i tre duchi Visconti,
siccome vedremo) varie sono le opinioni degli autori; alcuni attribuendola a
veleno, altri ad eccesso di vino; tutti però sono d'accordo nel
riconoscerla improvvisa[496].
Il mausoleo di Stefano vedesi nella chiesa di sant'Eustorgio, nella cappella di
san Tommaso d'Aquino; lavoro il quale probabilmente si fece verso la
metà del secolo decimoquarto. Poiché allora, oltre l'incertezza nella
quale trovavasi la signoria de' Visconti, anche l'interdetto avrà
impedito questi onori funebri; molto più a Stefano Visconti,
scomunicato, perché figlio di Matteo, quantunque egli non abbia mai avuto parte
nel governo dello Stato e nelle dispute col papa. Quel mausoleo merita d'essere
osservato, per avere idea della magnificenza de' Visconti in que' tempi; e in
quella chiesa medesima merita più d'ogni altra cosa osservazione il
nobilissimo deposito di marmo in cui stanno le reliquie di san Pietro Martire;
opera che è delle prime e delle più antiche per servire d'epoca
al risorgimento delle arti, e da cui si può conoscere quanto fossero
già onorate e risorte verso la metà del suddetto secolo
decimoquarto. Le figure e i bassirilievi sono di un artista pisano, che travagliò
con una maestria e grazia affatto insolita a' suoi tempi.
Galeazzo I fu liberato dal forno
(che tal nome aveva l'orrido carcere di Monza) il giorno 25 di marzo 1328.
Furono parimenti resi liberi Luchino, Giovanni ed Azzone. Egli per più
di otto mesi aveva dovuto soffrire que' mali istessi che aveva immaginati per
gli altri. S'incamminò nella Toscana, per ricovrarsi presso dell'amico e
benefattore Castruccio; ma nella prigionia aveva tanto sofferto, che in Pescia,
nel contado di Lucca, morì il giorno 6 d'agosto dell'anno 1328, all'età
d'anni cinquantuno. Cinque anni durò la combattuta signoria di Galeazzo
I; giacché, dopo il principio di luglio del 1327, da che fu posto in carcere,
nulla gli rimase più che fare nel governo. Il Corio ce lo descrive di
statura mediocre, di bella carnagione, di faccia rotonda, e robusto della
persona; ei lo qualifica liberale, magnifico, coraggioso, prudente, e parco nel
parlare, ma eloquente e colto nel poco che diceva. Il Corio sarebbe un cattivo
giudice del colto ed eloquente modo di parlare. Galeazzo fece perdere lo Stato
alla sua casa colla sua imprudente condotta vivendo suo padre. Perdette
Piacenza per avere imprudentemente tentata
Lodovico il Bavaro, entrato che fu in
Roma, intese come nuovamente
Azzone Visconti, unico figlio di
Galeazzo I e di Beatrice d'Este, era diventato, siccome dissi, vicario
imperiale, al prezzo di sessantamila fiorini d'oro. Ma poiché egli fu
rappacificato col sommo pontefice (da cui non era conosciuto Lodovico per
imperatore) il titolo di Vicario eragli di nessun uso; perché dato da chi non
poteva più concederlo. Perciò egli ottenne la signoria di Milano
dal consiglio generale della città, il giorno 14 marzo 1330; e
così si ritrovò sovrano e principe senza contrasto alcuno. Azzone
veramente meritava d'essere il primo della sua patria; e già mentre
signoreggiava Galeazzo I, di lui padre, s'era guadagnato un nome distinto nella
milizia, avendo egli acquistato borgo San Donnino[502],
aiutato il Bonacossi a battere i Bolognesi, ed assistito Castruccio
Antelminelli a battere i Fiorentini. Azzone in quest'incontro non
dimenticò di far correre il palio sotto le mura di Firenze, per
bilanciare il trattamento che i crocesignati fiorentini avevano fatto, due anni
prima, ai Milanesi. Allora fu che egli acquistò la stima e l'amicizia di
Castruccio; il che poi fu la cagione per cui egli e il padre e gli zii
riacquistarono, siccome dissi, la libertà.
Appena si trovò Azzone alla
testa d'uno Stato tranquillo, ch'ei pensò a circondare di mura
La gloria e la felicità di
Azzone erano un tormento atroce nell'animo di Lodovico, ossia Lodrisio
Visconti, cugino in quarto grado del principe. Lodrisio era buon soldato;
pareva che fosse trasfusa in lui l'anima orgogliosa e forte di Marco.
Già vedemmo come Lodrisio fosse celato in sua casa da Matteo, nel giorno
in cui scoppiò la sollevazione contro del re Enrico. Veduto pure abbiamo
come Matteo gli avesse dato il comando di Bergamo. Morto che fu Matteo, nessun
caso più si faceva di Lodrisio. Lo Scaligero, signore di Verona, aveva
licenziata una di quelle compagnie militari che prendevano in quei tempi
servizio indifferentemente; e che pronte erano ad uccidere e devastare
dovunque, in favore di chi voleva più pagarle. Lodrisio assoldò
questa truppa, per tentate il colpo di scacciare il cugino, e collocarsi sul
trono. Entrò nel Milanese e fece guasto largamente; e coll'improvvisa
intrusione sbigottì e sorprese. Ma Lodrisio aveva preso a combattere
contro di un principe che era buon soldato e che era amatissimo da tutti i
sudditi. Nobili, popolari, tutti a gara corsero intorno di Azzone; cercando
quanti erano capaci di portare armi, di combattere volontari per lui. Lodrisio
si era attendato a Parabiago, e la sua armata era composta di duemila e
cinquecento militi; ciascuno de' quali aveva due altri combattenti a cavallo di
suo seguito; in tutto settemila e cinquecento cavalli. Aveva di più un
buon numero di fanti e di balestrieri; il che formava un corpo d'armata
poderosa per quei tempi; uomini tutti veterani e di somma bravura nel mestiero
delle armi. L'armata d'Azzone andò a raggiugnere l'inimico; e talmente
lo distrusse, che la giornata 21 febbraio 1339 è notata ancora ai tempi
nostri nei calendari del paese, e se ne celebra
Le dieci città sulle quali
dominava Azzone Visconti erano Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo,
Brescia, Vigevano, Vercelli e Piacenza. Oltre le fabbriche pubbliche, delle
mura, de' ponti, delle strade, questo principe rifabbricò ed
ornò, in modo meraviglioso per que' tempi, il palazzo già
innalzato dal di lui avo Matteo I, dove ora sta la regia ducal corte. Il
Fiamma, autore allora vivente, ce ne dà una magnifica idea. V'era un
gran numero di sale e di stanze, tutte fregiate di assai pregevoli pitture. Il
gran salone era sopra tutto ammirato per le pitture eccellenti; il fondo era
d'un bellissimo azzurro; e le figure e l'architettura erano d'oro. Quel salone
rappresentava il tempio della Gloria, ed è strana la riunione degli eroi
che vi si vedevano dipinti; Ettore ed Attila; Carlomagno ed Enea; Ercole ed
Azzone Visconti. La storia era poco conosciuta in que' tempi, e le idee della
gloria e dell'eroismo non erano chiare. Queste pitture erano opera del famoso
Giotto, che diede vita alla pittura, giacente da mille anni; e il Vasari ci
attesta ch'ei da Firenze venne a Milano[505],
e vi lasciò bellissime opere[506].
È anche probabile che vi lavorasse Andrino da Edesia, pavese, uno de'
più antichi ristoratori della pittura, che viveva in quel secolo[507].
Né la sola pittura era premiata e promossa da questo buon principe, tanto
più degno di stima, quanto che allora appena spuntava l'aurora delle
belle arti. Egli invitò e protesse Giovanni Balducci, pisano, esimio
scultore per quei tempi, di cui si può conoscere il valore nell'arca di
marmo di san Pietro Martire, poco fa da me ricordata[508].
Col mezzo di questi artisti, i primi del loro tempo, Azzone abbellì la
sua corte, e insegnò ai nobili un genere di lusso colto ed utilissimo ai
progressi delle belle arti. La torre di San Gottardo è il solo avanzo
che ci rimane per avere una idea del gusto dell'architettura di Azzone; ed
è un pregevole monumento, singolarmente perché erano i primi passi che
si facevano dalla somma barbarie al nobile ed elegante modo di fabbricare.
Anche un altro motivo rende quella torre degna d'osservazione; ed è che
ivi Azzone fece collocare un orologio che batteva le ore; macchina allora
affatto nuova e sorprendente, dalla quale prese nome la via delle ore,
come anche in oggi viene chiamata. Anticamente eranvi le guardie per le strade,
le quali, colle clepsidre, ovvero cogli oriuoli a polvere misurando il tempo,
ad ogni ora gridavano, avvisando i cittadini, come ancora si suole nella
Germania. Questa macchina ingegnosa, che batte tanti colpi sulla campana quante
sono le ore, fu inventata da un monaco benedettino, inglese, per nome
Wallingford, e posta ad uso pubblico in Londra l'anno 1325. Ma probabilmente
allorché Azzone la collocò sulla sua torre, ancora non ve n'era alcuna
nell'Italia; poiché il famoso orologio che fece porre in
Il consiglio generale di Milano, nel
giorno 17 agosto 1339, cioè nel giorno immediatamente dopo la morte di
Azzone, che non lasciò figliuolanza, proclamò signori di Milano
Luchino e Giovanni Visconti, zii paterni di Azzone, e i soli figli ancora
viventi di Matteo I. Sebbene però a tutti due i fratelli fosse data la
sovranità, e che gli atti pubblici per la maggior parte fossero in nome
di entrambi, realmente però Luchino da solo disponeva d'ogni cosa.
Giovanni era di placido e benigno carattere, e non volle mai contrastare col
risoluto e qualche volta violento Luchino, il quale sapeva ben regolare lo Stato.
I fatti mostrarono poi, quando Giovanni rimase a regnar solo, che nel partito
da lui preso nessuna parte vi ebbero la debolezza o i vizi dell'animo; ma fu
guidato dalla sola ragione e dalla virtù. Alle dieci città che
lasciò Azzone, aggiunse Luchino Asti, Bobbio, Parma, Crema, Tortona,
Novara ed Alessandria; e così divenne signore di diciasette
città, la maggior parte sottomesse colle armi; il che gli rese nemici il
conte di Savoia, il marchese di Monferrato, i signori Gonzaghi, i Genovesi ed altri
Stati d'Italia, sbigottiti dalla forza preponderante collocata in così
breve spazio di tempo nella casa Visconti; poiché ne' primi tre anni del suo
governo Luchino estese a tale ampiezza lo Stato. Oltre al dominio del marchese
d'Este, cui Luchino aveva mosso guerra, le di lui armi eransi inoltrate fino a
Pisa, e costrinsero i Pisani a chiedere pace, pagando a Luchino centomila
fiorini d'oro, ed obbligandosi a presentargli ogni anno un palafreno con due
falconi in segno d'omaggio[509]:
ecco ciò che questo principe fece per l'ingrandimento del suo Stato.
Molto fece egli ancora per mantenere e introdurre l'ordine sociale nel suo
dominio. (1348) Ei preservò Milano dalla peste l'anno 1348. Egli non
volle proteggere veruna fazione; e Guelfi e Gibellini indistintamente erano
difesi dalle stesse leggi, e ritrovavano egualmente giustizia. Le strade poi,
che per l'addietro erano infestate da' ladri, divennero sicurissime; per
ottener la qual cosa Luchino si appigliò ad un partito singolare. Prese
egli al suo stipendio i masnadieri medesimi che vivevano in prima saccheggiando
i passaggieri, e da costoro le fece custodire, il che mirabilmente si ottenne.
Oltre i masnadieri, erano saccheggiati i viandanti da cento angherie che loro
imponevano i feudatari nelle giurisdizioni de' quali conveniva loro di passare;
il che sembra una prova di più delle antiche prepotenze de' nobili sopra
de' popolari, delle quali si è superiormente trattato. Luchino
promulgò provvide leggi, ch'ebbero per oggetto di preservare i poveri
dall'oppressione, sollevare il popolo da' carichi, assoggettarvi i ricchi, e
togliere ai nobili ogni mezzo d'esercitare impunemente estorsioni e violenze.
La politica di Luchino dispensò la plebe dall'obbligo di servire nelle
guerre; e, coll'apparenza d'un pietoso beneficio, allontanò così
il popolo dal maneggio dell'armi, e piantò l'ordine e la sicurezza
pubblica sotto di un'assoluta monarchia. Vegliava egli sulla esecuzione di tai
regolamenti, ed era severamente punita la prepotenza di chiunque. Stabilì
in Milano un supremo giudice, che si nominò sgravatore, e nel
latino di quella età exgravator: magistrato che si rese celebre
in quei tempi per l'autorità, non meno che pel buon uso a cui
l'impiegava. Questo sgravatore doveva sempre essere un forestiere, e non doveva
avere né moglie né figli né parenti in Milano. Anzi si portava la diffidenza al
segno, che non era mai permesso allo sgravatore di andare a cibarsi in casa di
alcuno, ma doveva sempre starsene solo in casa propria. Il ministero dello sgravatore
era di decidere sommariamente e senza appellazione le querele di coloro che si
credessero indebitamente gravati da qualunque altro giudice, e invigilare sulla
retta amministrazione della giustizia. Il sistema delle strade nel circondario
delle dieci miglia dalla città, che continuò sino ai giorni
nostri, era d'istituzione di Luchino. In conseguenza di tali regolamenti, col
favore della sicurezza pubblica, s'introdusse il commercio e l'industria.
S'incominciarono a piantare a que' tempi in Milano alcune fabbriche d'oro e di seta[510].
L'agricoltura si rianimò, e se ne cominciarono a conoscere i
raffinamenti. Si perfezionò la coltura della vite, e si principiò
a preparare un vino più delicato, che chiamavasi vernaccia. S'introdussero
razze di cavalli e di cani. La popolazione s'andava accrescendo. I costumi
s'ingentilivano; e il Fiamma, deplorando, con poco giudizio, questi
cambiamenti, rimproverava ai Milanesi de' suoi giorni l'eleganza del vestire,
la pompa degli ornamenti, la squisitezza delle mense e lo studio delle lingue
forestiere: studio il quale fa conoscere che il commercio era già
dilatato in paesi oltramontani.
Sin qui ho rappresentato in compendio
le buone qualità di Luchino, ora l'imparzialità storica mi
obbliga a dirne ancora i vizi. Francesco Pusterla, nobile ed onorato cittadino
non solo, ma uno de' più amabili, più ricchi e più
splendidi signori di Milano, aveva in moglie
L'occasione della morte di Luchino la
riferirò colle parole istesse di Pietro Azario. Voverat autem
praedicta domina Elisabeth, ejus uxor, visitare ecclesiam Sancti Marci in
Venetiis, ut dicebat. Cui itineri dominus Luchinus annuit. Et sociata multis
proceribus utriusque sexus, iter arripuit, et tamquam imperatrix et cum maximis
dispendiis et curia pubblicata, recepta fuit in Verona per dominum Mastinum.
Complevitque iter suum, et dicitur etiam voluntatem suam complevisse circa
coitum; et aliae sociae suae de majoribus Lombardiae fecerunt illud idem.
Propterea multa scandala sequuta sunt. Sed quia amor et tussis nequeunt celari,
nec aliquod tam occultum, quod non reveletur, quum ipsa rediisset, dominus
Luchinus scivit et audivit de gestis. Sed tamquam sapiens curavit dare ordinem
de vindicta. Et quia una die dixit, quod in brevi facturus erat in Mediolano
majorem justitiam, quam umquam fecisset, cum pulchro igne, praedicta ejus uxor
percepit quod ipsa erat in justitia; illa intellecta, propter commissa cum
persona, non poterat se excusare a praedictis, sicuti alias excusaverat.
Qualiter autem processissent negotia, ignoratur, nec scribitur. Sed dominus
Luchinus vindictam illam facere non potuit propter defectum vitae[512].
(1349) Così Luchino Visconti si trovò improvvisamente morto il
giorno 24 di gennaio 1349, all'età di cinquantasette anni, dopo di avere
signoreggiato nove anni ed alcuni mesi. L'Azario non dice che la moglie lo
avesse avvelenato, ma con un verso conclude:
Nam nulli tacuisse nocet: nocet esse locutum[513].
Ei ci descrive Luchino così: Austerus
homo visu et opere erat, parcus in promittendo, largus in attendendo[514].
Sotto il principato di lui in Milano crebbe notabilmente la popolazione, la
ricchezza e l'industria; e non poteva a meno che ciò non accadesse in
una metropoli mantenuta in pace, situata in un fertilissimo terreno, sotto un
sovrano che proteggeva e vegliava su i poveri e popolari, contenendo i potenti,
che manteneva l'ordine pubblico e il facile corso alla giustizia: essendo la
sede d'un principe che dominava diciasette città del contorno. Il
carattere di Luchino è un misto di buone e di cattive qualità:
cuore insensibile e mente illuminata per governare, unita a forza d'animo e
valor personale, il che può formare un fausto principato, non mai un
principe buono o grande; qualità generose, che hanno sempre per base un
cuore buono. Le lacrime sparse alla morte d'Azzone erano un encomio per il principe
trapassato, e un biasimo preventivo per quello che subentrava; simili
desolazioni pubbliche si vogliono sempre dividere per metà. Luchino in
fatti fu sommamente temuto per la sua risolutezza, per la sua implacabile
severità, e per la sua profonda dissimulazione
Ostendebat de paucis curare et de multis curabat[515],
dice l'Azario.
Giovanni Visconti, figlio di Matteo I,
fino dall'anno 1317 era stato canonicamente eletto arcivescovo di Milano; ma il
papa, al quale dava non poco fastidio la rapida fortuna de' Visconti, di
propria autorità nominò e consacrò un altro arcivescovo, e
fu, siccome dissi, il francescano frate Aicardo; il quale visse sempre ramingo
ed esule dalla sua chiesa, dove appena poté ricoverarsi un mese prima della sua
morte, accaduta nel 1339. Allora di bel nuovo gli ordinari elessero per la
seconda volta Giovanni Visconti. I tempi erano mutati e, quantunque Giovanni
avesse accettata la dignità di cardinale della chiesa romana
dall'antipapa Nicolò V (dignità ch'ei però aveva deposta
al riconciliarsi che fecero i Visconti col papa), Clemente VI lo riconobbe e
preconizzò arcivescovo l'anno 1342. Giovanni, il giorno 17 di agosto
1339, era già stato dichiarato signore di Milano dal consiglio generale,
insieme col fratello Luchino; quindi, dopo la morte di questi, non v'ebbe
bisogno di nuova elezione per dargli la signoria; onde egli, senz'altra
cerimonia, venne da ognuno obbedito. Si trova però un decreto
memorabilissimo, fatto dal consiglio generale, verosimilmente in questo tempo;
poiché oltre al confermare il dominio all'arcivescovo Giovanni, il principato,
che sino a quel giorno era stato elettivo, si stabilì ereditario. Tale
decreto leggesi in un antico codice segnato A, che si conserva nell'archivio
del reale castello, segnato n. 1, p. 11. Ecco le di lui parole: Quod
praefatus magnificus et excelsus dominus Johannes, filius quondam bonae
memoriae domini Matthei de Vicecomitibus, et posi ejus domini Johannis
decessum, eo modo, quilibet alius masculus, descendens per lineam masculinam et
ex legittimo matrimonio ex praefato quondam domino Matthaeo de Vicecomitibus
sit et sint perpetuo verus et legitimus et naturalis dominus, et veri et
legitimi et naturales domini civitatis et totius districtus et dioecesis et
jurisdictionis Mediolani[516].
Questo decreto ivi è mancante e del principio e del fine. Forse vi
erano delle condizioni colle quali veniva moderata la perpetua
sovranità; anzi è assai probabile che il consiglio non volesse
privarsi del prezioso diritto dell'elezione, senza una reciproca ricompensa che
assicurasse la immutabile conservazione de' privilegi del consiglio medesimo.
Ma questo archivio, stato custodito dai sovrani che in seguito signoreggiarono,
non poteva essere un sicuro deposito di simile documento, in quella parte che
avrà limitata
Appena l'arcivescovo Giovanni rimase
solo alla testa dello Stato, ognuno dovette conoscere che la passata sua non
curanza del governo certamente non nasceva da mancanza di talento per
governare, né da indifferenza per la gloria, né da insensibilità per il
pubblico bene. Il virtuoso principe cominciò il suo regno col fare la
pace co' vicini; col conte di Savoia, co' Gonzaghi, col marchese di Monferrato
e co' Genovesi, posti prima in armi per le invasioni che Luchino aveva fatte,
dilatando lo Stato proprio a danno loro. Assicuratosi così d'un pacifico
dominio, la natura e l'indole sua benefica lo portarono a terminare la miseria
degli esuli nipoti. Matteo, Barnabò e Galeazzo furono richiamati
dall’esilio ed accolti come a principi si conveniva. Diede Regina della Scala
in moglie a Barnabò, e Bianca di Savoia a Galeazzo; e festeggiò
quelle nozze illustri con pompe ed allegrezze pubbliche; fra le quali vi furono
de' tornei d'una nuova foggia, cioè colle selle alte, usanza che
Barnabò aveva insegnata, seguendo la costumanza da lui imparata nella
Francia. Oltre lo stato signorile e lieto al quale fece passare i nipoti, quel
magnanimo arcivescovo si risovvenne di Lodrisio Visconti, che, dopo la
battaglia di Parabiago, da più di dieci anni languiva in carcere, e lo
rese libero. L'anima grande e generosa di Giovanni non dava luogo a quelle
diffidenze e sospetti che dominavano nel cuore di Luchino. (1350) Appena un
anno era passato da che Giovanni reggeva lo Stato, esteso sopra diciasette
città, quale glielo aveva lasciato Luchino; ch'egli, senza umano sangue
e senza pericolo, fece un insigne acquisto; e col mezzo di duecentomila fiorini
d'oro sborsati a Giovanni Pepoli, comprò il dominio della città
di Bologna l'anno 1350[517].
Prevedeva però il sovrano arcivescovo che questa importantissima
addizione non poteva accadere senza forti contrasti, singolarmente per parte
del papa, il quale, sebbene domiciliato in Avignone, sempre stava vigilante
sull'Italia; e se tollerava che il Pepoli, piccolo principe, e che facilmente
poteva superarsi, dominasse Bologna, non così tollerante doveva essere
poi, passando quella a incorporarsi nella potente dominazione de' Visconti. In
fatti Clemente VI mandò un ordine all'arcivescovo Giovanni, acciocché,
entro lo spazio di quaranta giorni, dovesse restituire Bologna alla Santa Sede;
minacciando in caso di contumacia di volerlo scomunicare, insieme ai nipoti
suoi quanti erano, e porre all'interdetto tutti i popoli del suo dominio[518].
(1351) Giovanni non si cambiò per questo, né pensò di abbandonare
Bologna; onde il giorno 21 di maggio dell'anno 1351 il papa scomunicò
l'arcivescovo e i tre nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo, e pose
l'interdetto su tutte le diciotto città dei Visconti[519].
Il Corio ci racconta come il pontefice, sdegnato contra di lui per la
presa di Bologna, havendo questa città interdicta, li destinò un
legato, il quale con somma humanità dal Presule fu ricevuto. Duoppo li
expuose per parte del summo sacerdote che a Santa Chiesia volesse restituire
Bologna, e che anche dil suo dominio una cosa facesse, e che il spirituale o
che il temporale solo administrasse: la qual cosa intendendo Giovanne, respuose
che la proxima domenica nel magiore templo de Milano li darebbe conveniente
risposta, dove il deputato giorno convenendosi ogniuno, Giovanne con grande
solennitate celebrò la messa, la quale essendo finita, in cospecto dil
populo, il legato, secundo l'ordine dato un altra volta replicò
l'ambasciata dil pontefice, onde dappoi il magnanimo arcivescovo evaginò
una lucente spada quale haveva a lato, e da la mano sinistra pigliò una
croce dicendo: questa è il mio spirituale, e la spada voglio che sia il
temporale per la difesa di tutto il mio imperio; e non con altra risposta il
legato tornando al pontefice referì quanto da lo arcivescovo Giovanne
haveva havuto. Siegue poscia il Corio medesimo a narrarci, come, essendo il
papa sempre più irritato ed animoso contro dell'arcivescovo Giovanni, lo
citasse a comparire in Avignone; e che l'arcivescovo Giovanni, preparato
già a comparirvi col seguito di dodicimila cavalli e seimila fanti,
venisse poi dispensato dal papa istesso dall'intraprendere il viaggio, e si
accomodasse in tal guisa pacificamente ogni cosa. Anche il Giovio e il
Ripamonti raccontano questi fatti. Il Muratori ed il conte Giulini non prestano
in ciò fede al Corio. Sono però gli autori d'accordo
nell'asserire che la scomunica e l'interdetto vennero pubblicati, e che la
riconciliazione si fece ben tosto, ritenendo il Visconti Bologna in
qualità di Vicario della Santa Sede. Fra le mie monete patrie una ne ho
d'oro, valore d'un gigliato, di Bologna, colla biscia Visconti, che credo
battuta in questi tempi.
(1353) Bologna erasi acquistata senza
pericolo e senza sangue; e senza sangue o pericolo l'accorto Giovanni
acquistò una altra non meno cospicua città, cioè Genova,
l'anno 1353, ed ecco come. Erano i Genovesi impegnati sventuratamente a guerreggiare
contro de' Veneziani, collegati col re Pietro di Aragona. Erano stati malamente
battuti da quelle forze preponderanti i Genovesi. Le loro navi erano quasi
distrutte; e Genova si trovava bloccata dalla parte del mare; e per terra
ancora, dalla parte di ponente, custodita dagli Spagnuoli; per modo che non le
rimaneva altra via per ottenere i viveri, che già mancavano, se non
dalle terre possedute da Giovanni arcivescovo. Proibì questi che né da
Alessandria, né da Tortona, né da Piacenza, né dalla Lunigiana, né da veruna
altra parte del suo Stato venisse portato alcun alimento ai Genovesi; e
così, anzi che perire o cader nelle mani de' loro nemici, quei cittadini
presero il solo partito che loro rimaneva, offrendo a Giovanni la signoria
della loro città. Quest'offerta venne accettata ben presto, e il nuovo
principe, nel mese di ottobre del 1353, prendendo solennemente possesso di
quella illustre città, v'introdusse al momento l'abbondanza e
Se Azzone aveva invitato, siccome ho
detto, i migliori artisti, e gli aveva condotti a Milano, Giovanni vi accolse e
vi onorò sommamente il più dotto ed elegante letterato di quel
secolo, Francesco Petrarca. Egli venne a Milano l'anno 1353, per vedere la
città; e l'arcivescovo Giovanni, sensibile al merito, lo onorò
tanto, che lo indusse a fissarvi la sua dimora. Il buon principe era magnifico
e sociale. La corte era aperta agli uomini di merito, nazionali o forestieri.
Egli amava la società della mensa; e tanto crebbe presso di lui la stima
del Petrarca, che lo fece sedere nel suo consiglio, e lo spedì a Venezia
suo ambasciatore all'occasione detta pocanzi. Petrarca, nelle sue lettere si
esprime che egli amava in Milano gli abitanti, le case, l'aria, i sassi, non
che i conoscenti e gli amici. L'unica figlia sua la maritò in Milano a
Francesco Borsano; e la tenerezza che egli aveva per quella e per il figlio
adottivo Borsano, ch'egli poi istituì suo erede, gli rendevano caro
questo soggiorno come una nuova sua patria. Scrivendo Petrarca della prepotente
influenza del clima, oggetto sviluppato nel nostro secolo dall'immortale Carlo
Secondat, ma non intentato dal Petrarca, ei così dice de' Milanesi: Totam
praeterea Rheni vallem colonis ab Augusto missis habitatam invenio; verum haec
sedium mutatio non patriam ad quam pergitur, sed pergentes immutat. Itaque et
Galli in Asiam, Asiani, et Itali in Phrygiam profecti, Phryges, et post Troyae
excidium in Italiam reversi, Itali iterum facti sunt. Sic nostri, in Galliam
vel Germaniam traslati, naturam illarum partium imbiberunt moresque barbaricos,
et Mediolanenses, a Gallis conditi atque olim Galli, nunc mitissimi hominum,
nullum servant vestigium vetustatis; ita vis coelestis humana moderatur ingenia[521]
. Petrarca aveva tanta passione per l'Italia, che potevasegli imputare a
ragione la ingiustizia colla quale detestava i costumi oltramontani; dal che
però ne risultava una lode esimia ai Milanesi. Egli alloggiava dicontro
a Sant'Ambrogio; anzi nel suo testamento, pubblicato nelle opere sue, ordinò
d'essere ivi tumulato, qualora fosse morto in Milano. Questo testamento lo fece
in Padova l'anno 1370. Aveva Petrarca una piccola villa, poco discosta dalla
città, nelle vicinanze della Certosa di Garignano; e quel casino
solitario lo chiamava Linterno, col nome della villa di Scipione
Africano; comunemente poscia acquistò nome l'Inferno, parola
più nota della prima. Si dice che Giovanni Boccaccio, per amore del suo
amico Petrarca, vivesse qualche tempo con lui in Milano, e al suo Linterno. Si
dice ancora che, dopo la morte di Giovanni arcivescovo, cadendo la signoria di
Milano nelle mani de' tre figli di Stefano, Matteo, Barnabò e Galeazzo,
Petrarca recitasse l'orazione inaugurale nella chiesa maggiore, ove celebravasi
la funzione di consegnar loro il dominio; e che un impudente astrologo, ad alta
voce gridando, lo interrompesse asserendo che in quel momento i pianeti erano
faustamente collocati; e non si doveva perderlo, per non avventurare la
prosperità del nuovo governo. Si pretese anzi, che, essendosi consegnato
il bastone del comando a Matteo fuori del tempo, da ciò ne accadesse poi
il misero e presto suo fine. La credulità e l'ignoranza erano certamente
grandi a quei tempi; e alcuni pochi uomini illuminati non bastavano a
sgombrarla sì tosto dai popoli, che le avevano ereditate dalla lunga
notte de' barbari secoli precedenti. Petrarca fu da' Visconti spedito
ambasciatore al re di Francia Giovanni, ed all'imperatore Carlo IV, che
trovavasi in Praga; e tanto venne considerato il di lui merito, ch'egli stesso
fu trascelto all'onore di levare al sacro fonte il primogenito che nacque dalle
nozze di Barnabò; e in quella occasione compose il Genethliacon Marci
Mediolanensium principis, che così comincia:
Magne puer, dilecte Deo, titulisque parentum
Praefulgens, populis olim venerande superbis,
Sit modo vita comes, teneris sit spiritus annis;
Expectate diu nobis, patriaeque patrique,
Laete veni, vitaeque viam foelicibus
astris
Ingredere, et rebus gaudens accede secundis:
Te Padus expectat dominum, etc.[522]
poi, dopo di aver descritti i fiumi del
vasto di lui Stato, passa a fargli dono d'una coppa d'oro co' versi seguenti:
Quum tamen egregius vivendo adoleverit
infans,
Hanc habeat pateram, et roseo bibat ore
jubeto:
Parva decent parvos; minimus sum,
maximus ille,
Parva sed est aetas, lucis nova limina
nuper
Attigit, et coelum trepido suspexit
ocello;
Aetati, non fortunae, munuscula dantur
Apta suae, ludet, nitido mulcente metallo;
Spernet idem ex alto fuerit dum plenior aetas,
Et rutilam terre faecem sciet esse profundae.
At fortasse sibi tunc carmina nostra placebunt;
Perleget, et secum, sacro dum fonte levabar
Tanto humilem excelsus genitor dignatus
honore est[523].
Probabilmente Petrarca (che non poteva
stare in Firenze, sua cara patria, immersa nelle fazioni) disingannato dai
viaggi fatti nella Francia e nella Germania, non avrebbe mai più
abbandonato il nostro paese, dove viveva ammirato da ognuno e distintamente
onorato dai sovrani, e dove aveva stabilmente collocata la figlia, e creatasi
una famiglia per adozione; se il disastro spietatissimo della pestilenza, che
desolò Milano, non lo avesse costretto a rifugiarsi altrove. Mediolanum, urbem Ligurum caput et
metropolim, dice egli, usque ad invidiam hactenus horum nesciam laborum,
et coeli salubritate, et clementia, et populi frequentia gloriantem,
sexagesimus primus annus et vacuam fecit et squallidam[524].
Galeazzo II molto si regolò col consiglio del Petrarca e nel formare la
biblioteca, che radunò in Pavia, e nel piantarvi gli studi
dell'Università. È celebre la distinzione che gli venne fatta in
Milano, quando, nella pompa delle nozze di Violanta Visconti, Galeazzo II volle
che Petrarca sedesse commensale, insieme collo sposo Lionetto, figlio di
Edoardo III re d'Inghilterra.
Giovanni Visconti, arcivescovo e
signore di Milano e di altre diciotto città, fra le quali Genova e
Bologna, cessò di vivere il giorno 5 di ottobre dell'anno 1354,
dell'età di sessantaquattro anni, dopo d'aver regnato sei anni appena;
poiché il tempo in cui comparve ch'ei correggesse con Luchino non può
contarsi, tanto poco s'immischiò egli allora negli affari dello Stato.
Giovanni fu un principe umano, benefico, giusto, liberale, fermo e d'animo
signorile; e merita un luogo fra i buoni principi vicino ad Azzone. Il tumulo
di lui si vede nel coro della metropolitana.
Milano, nei ventiquattr'anni nei quali
regnarono Azzone, Luchino e Giovanni, i primi che apertamente si dichiararono
sovrani, battendo moneta col loro nome, godette la pace; e provò alfine
i beni dell'ordine sociale e della civile sicurezza. I Milanesi abbandonarono
il mestiere dell'armi, e si rivolsero a più miti e più
industriosi pensieri; alla mercatura, cioè, alla coltivazione delle arti
e delle terre. La popolazione e la ricchezza crebbero in proporzione, e qualche
coltura appresero gl'ingegni; onde questi oggetti meritano dilucidazione.
La prima epoca del risorgimento
dell'agricoltura milanese io la trovo nel blocco che Federico I pose intorno
della città; allorquando fece devastare le piante e le campagne, ed
atterrare i boschi che ci stavano intorno. Il bene sempre è figlio del
male. Liberati che fummo da quel nemico terribile, poiché la libertà
civile fu cimentata colla lega lombarda, si dovettero ridurre a coltura i
boschi incendiati; unico mezzo per cui i proprietari, ai quali non rimaneva
più la legna spontanea, ricavassero qualche profitto dal loro fondo. In
fatti verso quei tempi pensarono i Milanesi a promuovere l'irrigazione, a
fecondare i loro campi colle acque, e si scavarono il Tesinello e la Muzza; il
primo verso l'anno 1179, e l'altra l'anno 1220[525].
Indi il Tesinello venne allungato sino a Milano verso la metà del
secolo decimoterzo, cioè l'anno 1257; operazioni tutte le quali
non ebbero allora per oggetto la navigazione, ma bensì la semplice
irrigazione delle terre. Io ho per qualche tempo creduto che i Milanesi,
ritornati dalle crociate, avessero portata dall'Egitto nella loro patria la
coltura del riso, e che questi scavi di canali e questa diramazione di acqua
sulle terre venissero fatti a tal fine. Ma ho poi dovuto essere convinto che la
coltivazione del riso presso di noi, è di molto posteriore a quelle
opere pubbliche; e ne serve d'invincibile prova la tassa che il tribunale di
Provvisione faceva delle droghe; e quella singolarmente che ha pubblicata
l'esattissimo nostro conte Giulini[526],
ove scorgesi che il giorno 18 aprile 1386 venne ordinato che gli speziali e i
droghieri non possano vendere il riso più che a dodici imperiali
Il Fiamma, che viveva appunto ai tempi
di Giovanni arcivescovo, ci lasciò un'idea della ricchezza e del lusso
di quel tempo: nunc vero in praesenti aetate priscis moribus superaddita
sunt multa ad perniciem animarum irritamenta: nam vestis praetiosa, et ornatu
superfluo circumtecta per totum; in ipsis vestibus, tam virorum quam mulierum,
aurum, argentum, perlae inseruntur. Frixa latissima vestibus superinducuntur. Vina
peregrina, et de partibus ultramarinis bibuntur: cibaria omnia sunt sumptuosa:
magistri coquinae in magno praetio habentur[531].
Lo stesso Fiamma ci attesta che in Milano al suo tempo eranvi delle manifatture
assai perfette e stimate al di fuori, e fra le altre vi si lavoravano gli elmi,
le corazze e tutte le armature di ferro, speculorum claritatem excedentes.
Soli enim fabri loricarum sunt plures centum, exceptis innumerabilibus
subjectis operariis[532];
e di queste nostre manifatture, dice quell'autore, che ne somministravano a
tutta l'Italia non solo, ma se ne trasportavano persino ai Tartari ed ai
Saraceni. Questa manifattura, di cui troviamo la materia ne' monti vicini, si
mantenne per molto tempo in Milano, e vediamo nell'estratto fatto poi,
all'occasione del censo, dai libri delle gabelle dell'anno 1580, che si
considerarono, dal Ragionato dell'Estimo Barnaba Pigliasco, da Milano
trasportate agli esteri: armature di cavallo num.
Della popolazione di Milano ce ne ha
lasciata memoria Buonvicino da Ripa verso l'anno 1288. Quell'autore vivente
dice che v'erano tredicimila porte di case, seimila pozzi, quattrocento forni
per cuocere pane, e mille taverne di vino, centocinquanta alberghi pei
forestieri, tremila ruote da mulino, e seimila giumenti che portavano la farina
nella città; in cui dice ch'eranvi ducentomila abitanti, fra i quali
quarantamila atti alle armi; che si mangiavano ogni giorno in Milano mille e
ducento moggia di farina; che entravano ogni anno nella città
cinquantamila carri di legna, duecentomila carri di fieno e seimila carri di
vino, e si consumavano di sale in Milano staia seimilacinquecento. Questa
descrizione facilmente si conosce che non merita fede. Seimila giumenti impiegati
a portare mille e ducento moggia di farina al giorno sono incompatibili, mentre
un moggio lo porta sulle spalle un villano robusto. Quarantamila uomini atti
alle armi sono pure una cosa sconnessa. La popolazione di ducentomila abitanti
suppongasi metà di uomini e metà di donne; dagli uomini si
deducano i bambini, i fanciulli ed i vecchi; non rimarranno quarantamila uomini
atti alle armi. Seimila carri di vino, suppongasi portar ciascuno dieci brente,
saranno sessantamila brente di vino che entravano in città per uso di
ducentomila abitanti: ora centoventimila, quanti abitano in Milano, consumano
più del quadruplo. Anche le staia seimila e cinquecento di sale
sarebbero proporzionate alla popolazione di ventiseimila abitatori, e non mai
di duecentomila. Poca e nessuna fede merita quella relazione, fatta da un uomo
che descrive diciotto laghi e sessanta fiumi abbondantissimi di pesci nel
contorno di Milano. Abbenché consideriamo ragionevolmente come scritti
piuttosto a caso quei numeri, che per vera cognizione, difficile assai ad
aversi in que' tempi, egli è però assai probabile che fosse
numerosa la popolazione d'una città alla quale dovevano, come a
residenza e a dominante, ricorrere, al tempo di Giovanni arcivescovo, i
cittadini di diciotto città del contorno. Petrarca la qualificò,
siccome vedemmo, populi frequentia gloriantem; e Pietro Azario,
che viveva mentre la pestilenza del 1361 devastò Milano, asserisce che
in Milano perirono per quella sciagura settantacinquemila abitatori; il che
può verosimilmente farci credere ch'essi fossero più di
centocinquantamila. Né è difficile il concepire come una popolazione
maggiore dell'attuale fosse contenuta entro di una città di un recinto
più angusto di quanto ora lo sia: poiché sappiamo che tutte le case
nobili e vaste sono state formate colla incorporazione di più e
più case piccole; che molti monasteri e conventi e chiese sono piantate
oggidì in luoghi che servivano allora all'abitazione del popolo; e che
finalmente il lusso di abitare per pompa uno spazio vasto di luogo, e il
conservare signorilmente un buon numero di stanze, al solo uso che siano
trascorse da chi ci viene a visitare, prima che ci ritrovi, non era il lusso di
quel secolo né di questa popolata città. Nel principio del secolo
decimoterzo v'erano in tutto in Milano tredici monasteri, sei di frati e sette
di suore[535].
Il governo civile di que' tempi era una
vera dominazione di un solo, con qualche apparenza di repubblica; poiché il
consiglio degli ottocento, che poi a' tempi di Luchino diventò, non
saprei come, di novecento, di tempo in tempo si radunò, sino verso la
fine del secolo decimoquarto. Ma le deliberazioni che si prendevano, non erano
altro che giuramenti di fedeltà, acclamazioni al nuovo signore, e convalidazioni
del sistema monarchico. Questi consiglieri, che non erano a vita, ma
bensì trascelti per rappresentare la città in occasioni
passeggiere, non erano altrimenti nominati dal popolo; ma originariamente
traevano la loro commissione dalla nomina del principe o del suo ministro; onde
quel consiglio era, siccome anche di sopra ho accennato, una mera popolare
illusione, che rappresentava una apparente libertà. Verso la metà
del secolo decimoquarto si creò il vicario di provvisione, che presedeva
ai dodici. Vicario significava lo stesso che vicegerente, ossia luogotenente;
un ministro in somma che teneva il luogo e faceva le parti del sovrano.
Quel tribunale nella sua origine non fu un dicastero civico, ma bensì fu
un tribunale eletto dal sovrano; al quale era commessa la percezione e direzion
de' tribunati, la cura dell'abbondanza, e la vigilanza sopra i giudici della
città, per modo che sembra fosse questo allora il solo dicastero che si
radunava in Milano, e avesse riunite le separate cure che oggidì occupano
il senato, il magistrato camerale e il tribunale di Provvisione medesimo[536].
Ora questo tribunale di Provvisione, poiché fu consolidata la signoria dei
Visconti, eleggeva ei medesimo i novecento consiglieri, ogniqualvolta occorresse
di avvalorare con questa formalità il volere del sovrano; di che ce ne
serve di prova l'antico registro della città segnato n. 1, ove, alla
pag. 107, si legge: MCCCLXXXVIII, die XXII Julii. Per dominos
vicarium et XII Provixionum Comunis Mediolani et sindicos dicti Comunis electi
fuerunt infrascripti cives Mediolani, qui sunt et esse intelliguntur consilium
DCCCC Comunis Mediolani[537].
La politica de' nuovi principi tendeva
ad allontanare, siccome dissi, il popolo dal mestiero della guerra, la quale
sempre più si andava facendo, per mezzo di stipendiati forestieri.
Così nacquero le compagnie di avventurieri, che si vendevano da' loro
capi ora ad un principe, ora ad un altro; e così pure alcuni capi di
tali sgherri si resero formidabili ai sovrani medesimi, e giunsero ad
acquistare per loro conto degli Stati, come fra gli altri avvenne alla casa
Sforza. Conseguenza di un tal sistema era l'accrescimento de' tributi per aver
mezzi onde stipendiare quegli estranei, ai quali si commetteva la difesa dello
Stato. Oltre il catastro generale de' fondi che si fece, siccome vedemmo, verso
la metà del secolo decimoterzo, e sul quale s’incominciarono a ripartire
i carichi pubblici, che prima si distribuivano per capitazione, ovvero sulla
stima annua de' frutti raccolti, s’instituì la privativa della vendita
del sale, di cui la più antica memoria che abbiamo ce la riferisce il
Corio all'anno
La grandezza dell'arcivescovo e del
clero milanese scomparve colla soggezione da Roma, e coll'erezione del
principato. Non vi è memoria che, dopo la metà del secolo
duodecimo, siansi mai chiamati i nostri ordinari, sanctae mediolanensis
ecclesiae cardinales[547],
come facevano per lo passato. Essi però, sino dal secolo decimoterzo,
portavano la porpora; e questa distinzione, che tuttavia conservano, è
antica per lo meno cinque secoli. In que' tempi però assai liberamente
vestivansi gli ecclesiastici, ed eran ben lontani da quella edificante
uniformità e modestia che ora gli distingue. Manfredo Occhibianchi,
canonico di Sant'Ambrogio, fece un testamento il giorno 18 marzo, l'anno 1203,
che si conserva nell'archivio di quella basilica, e di cui parla il conte Giulini[548],
e lascia manstrucam unam conilii, cohopertam de violato, et alias duas...
scilicet unam volpinam, cohopertam de scalfanio, et aliam de flanchitis,
cohopertam de sagia bruna, et... capellum meum grisum, cohopertum de sagia
nigra, et cohopertorium meum, et scradam seu diproidam meam... cappam meam
blavetam... cappam meam de mantellato... quinque coclearia argenti, et
mantellum meum foderatum de zendado... vestitum violatum meum[549].
Da ciò osserviamo che di tutte le vesti, nulla v'era di nero fuori
del cappello, voce che digià si era inventata per dinotate quelle berrette
che allora si ponevano sul capo; ma tutti i vestiti di quell'ecclesiastico
erano di colore violato, ceruleo o bruno. La parola blavetam sembra nata
dal teutonico blau ossia bleu, come noi Lombardi anche
oggidì nominiamo quel colore, similmente ai Francesi. I cucchiai
d'argento si vede che già erano in uso. Né gli ecclesiastici si
vestivano tampoco con colori modesti, poiché, l'anno
Nella guerra i militi erano tutti
coperti di ferro, e, calata la visiera, non si potevano conoscere se non da
pennacchio o altra insegna. Filippone, conte di Langosco, poiché ebbe in suo potere
il cimiero di Marco Visconti, si presentò co' suoi alle porte di
Vercelli, le quali (credendolo Marco i Vercellesi) gli vennero aperte; e con
tale astuzia se ne impadronì l'anno 1312. Nella più antica
compilazione de' nostri Statuti, fatta, come ho detto, nel 1216, vi si legge la
rubrica de' duelli. Si combatteva o in persona, ovvero un campione si batteva
per altrui commissione. Si celebrava la messa in presenza de' due combattenti,
si deponevano le armi presso dell'altare, il sacerdote le benediceva, indi
venivano sigillate e venivano portate al luogo della lizza, ove sedeva il
giudice. Ivi si presentavano i due combattenti coi loro patrocinatori.
Interrogavano questi il giudice s'egli ivi risedesse affine di giudicare la
lite col duello, e il giudice rispondeva che appunto ivi a tal fine si era
collocato. Il patrocinatore del pretendente ad alta voce chiedeva la cosa per
cui doveva farsi il duello; e ad alta voce il patrocinatore opposto
Finalmente vorrei poter dare un'idea
della coltura nostra verso quell'età; ma le notizie non erano copiose in
nessuna parte dell'Europa. Avemmo un medico che compose le pandette della
medicina, dedicate al re di Napoli Roberto. Questi si chiamava Matteo
Selvatico, milanese, che scrisse l'anno 1317. Quel libro si stampò a
Venezia l'anno 1498. Un altro Milanese ebbe nome presso dei giusperiti,
cioè Signorollo Omodeo, le opere del quale non sono ignote ai forensi.
Ma di bella letteratura non ne abbiamo vestigio alcuno. Uno de' più
antichi poeti italiani fu Pietro da Bescapè, nostro milanese. Egli
scrisse i suoi versi nell'anno 1264, nel quale pretese di tradurre in poesia la
storia del Vecchio Testamento. L'autore così comincia:
Como Deo a facto lo mondo,
E como la terra fo lo homo formo.
Cum el descendè ce cel in terra
In
E cum el sostenè passion
Per nostra grande salvation,
E cum verà el dì del ira
La o sarà la grande roina
Al peccator darà grameza
Lo justo avrà grande alegreza,
Ben è raxon ke l'omo intenda
De que traita sta legenda.
Il fine di questo canto, poema o
diceria, qualunque si voglia chiamare, è ancora più rozzo del
principio, e così termina:
Petro de Bescapè, ke era un
Fanton,
Si a facto sto sermon,
Si il compilò e si la scripto.
Ad onor de Ihu Xpo
In mille duxento sexanta quattro
Questo libro si fo facto,
Et de junio si era lo premier dì
Quando questo libro se finì,
Et era in seconda diction
In un venerdì abbassando lo sol
L'antico manoscritto trovasi nella
scelta libreria del signor conte Archinto. Non più felice del Bescapè
fu il nostro frate Bonvicino da Ripa, i di cui poveri versi si trovano nella
biblioteca Ambrosiana, fra i quali vedesi, che fino dall'anno 1291 si
conoscevano quei versi che nei tempi a noi vicini si chiamarono Martelliani.
Frate Bonvicino con tal metro compose le Zinquanta cortesie da Tavola, le
quali così cominciano:
Fra Bon Vexin da Riva, che sia in Borgo
Legnano,
D' le cortexie da descho ne dixette
primano:
D' le cortexie zinquanta che s' de
osservare a descho
Fra Bon Vexin da Riva ne parla mo de frescho.
Costoro scrissero prima che Francesco
Petrarca dimorasse in Milano; ma certo Galliano scriveva l'anno 1391; e ne
conservano l'antico MS. i monaci di Sant'Ambrogio. Costui non lesse mai le
dolci e sensibili rime del Petrarca; né pose mai il piede nel suo Linterno;
così questo rozzo scrittore terminò la sua cantilena:
E se di chi l'ha facta alcun se lagna
Digli che sta alla Pietra Cagna
In Milano
E facta sotto l'anno MCCCLXXXX uno
Indictione quarta decima
Per man d'uno
Che non decima denari
Perché gli sono sì selvaggi e
contrari
Che non se ponno domesticare
Ne stare con lui
A dirlo contra vui
El se giama dalla Terra che fronteggia
Cantu.
Queste sono le sole reliquie che siano
da quei tempi trapassate alla cognizione nostra; e ben a ragione il signor
abate Paolo Frisi, che ci vantiamo d'aver per concittadino, e che mi onora
colla sua amicizia, nell'Elogio del Cavalieri, sul proposito
della venuta a Milano del Petrarca e dello stato delle lettere milanesi in que'
anni, così s'esprime: I tempi dell'antica anarchia, le guerre
intestine ed estere del principato, la fiera e bellicosa indole dei nostri
principi, avevano lasciato appena qualche adito tranquillo e libero agli studi
della pace... que' semi esotici non trovando il terreno bastantemente preparato
a riceverli, non allignarono molto sotto del nuovo cielo. Non vi si videro
spuntare per molto tempo, che informi compilazioni, popolari leggende, storie
non ragionate, prose snervate e languide, poesie che di poetico non avevano
altro che il metro e la desinenza delle parole, ec.
Capitolo XIII
Della signoria dei tre fratelli Matteo,
Barnabò e Galeazzo Visconti.
Nella successione de' Visconti non si
vede seguìta una legge costante. Matteo I aveva quattro figli: dopo la
di lui morte restò unico signore Galeazzo I, a cui successe Azzone di
lui figlio. Pareva adunque il principato ereditarsi dal primogenito. Ma dopo di
Azzone, morto senza figli, la signoria passò a' due fratelli Luchino e
Giovanni, senza che i figli di Stefano vi avessero parte; i quali pure
avrebbero dovuto possedere l'eredità paterna, se lo Stato fosse un bene
divisibile. In fatti, morto Giovanni, i tre soli discendenti di Matteo
riconosciuti legittimi, cioè Matteo, Barnabò e Galeazzo, figli di
Stefano, diventarono padroni, e si divisero lo Stato. Non vi erano in que'
tempi idee chiare di gius pubblico. Il principato era un podere, non una
dignità instituita per il bene dello Stato. Tutto il bene che un sovrano
faceva al suo popolo, non era considerato allora come il più sacro
dovere adempiuto, ma bensì come un'accidentale beneficenza d'un animo
generoso. Terminata che fu la vita di Giovanni, la divisione si fece di comune
accordo fra i tre fratelli. A Matteo toccarono le città che s'inoltrano
nell'Italia, a Barnabò la provincia che s'accosta a Venezia, ed a
Galeazzo toccarono le terre che ora sono appartenenti al Piemonte. Milano e
Genova rimasero indivise sotto la comune dominazione. Matteo così ebbe
in sua separata porzione Bobbio, Lodi, Piacenza, Parma e Bologna.
Barnabò ebbe Cremona, Crema, Bergamo e Brescia. Toccarono a Galeazzo
Pavia, Alessandria, Tortona, Novara, Vigevano, Asti, Vercelli; e Como, che
rimaneva come isolata, fu pure assegnata a Galeazzo. Con tal modo altro non
mancava se non la dissensione o diffidenza per distruggere una signoria
ragguardevolissima. Ma nelle cose umane comunemente accade che né si ottenga
tutto il bene che ragionevolmente si poteva sperare, né si soffrano tutt'i mali
che con ragione si dovevano prevedere; e talvolta le più scomposte ed
assurde organizzazioni di sistemi, le quali pareva che dovessero rovinare uno
Stato, si sono ridotte ad effetto, senza che per ciò siane accaduto il
danno che compariva inevitabile: poiché nell'esecuzione, gl'interessi degli
uomini che vi si adoperano, essendo quelli d'evitare la rovina, rimediano e
correggono l'imperfezione del sistema. Così lo Stato si conservò,
crebbe anzi, come vedremo, e poté lusingarsi il successore de' tre fratelli
d'essere dichiarato re d'Italia; e forse lo sarebbe stato, se la morte non
troncava il filo della di lui ambizione.
Lodovico il Bavaro, ossia Lodovico V,
quel contrastato imperatore, avea terminato i suoi giorni, ed era stato eletto
legittimamente imperatore Carlo IV, marchese di Moravia, figlio di Giovanni re
di Boemia, e di Elisabetta, che era figlia di Enrico di Lucemburgo. Carlo IV
era riconosciuto e dai principi della Germania e dal papa e da tutta l'Europa,
come vero re de' Romani. La di lui elezione era accaduta l'anno 1347, e in quel
punto le dispute già da trent'anni incominciate fra il Sacerdozio e
l'Impero, erano terminate. Carlo IV se ne venne in Italia per ricevere le due
corone del regno italico e dell'impero romano. I principi d’Italia, che
temevano la potenza de' Visconti, non mancarono di profittare dell'occasione, e
d'animare quell'augusto ad abbatterla, promettendogli ogni aiuto e vantaggio.
Ma sia che a Carlo premesse maggiormente l'acquisto del denaro per se medesimo,
anzi che la difesa di quella autorità che per caso era annessa alla
persona di lui; sia che l'esempio de' suoi antecessori l'avesse istrutto a non
adoperare la forza delle armi ausiliarie, per non correre ei pure il pericolo
di vedersi abbandonato da' suoi, prima di avere ridotti i progetti a fine; sia
che le forze dei Visconti fossero tali da non lasciargli sperare un buon esito;
sia finalmente che il genio mite e rivolto alle lettere di quel re lo
distogliesse da simile briga, certo è ch'egli allora si mostrò
anzi amico dei Visconti. I fratelli Visconti mandarongli incontro i loro
ambasciatori a Mantova, invitandolo a passare a Milano, e ricevervi la corona;
e il re accettò l'invito. Appena Carlo IV si trovò sulle terre
de' Visconti, non dovette aver più pensiero alcuno; poiché ogni cosa
eravi magnificamente preparata per alloggio, ristoro e trasporto di quell'augusto
e di tutta la corte che veniva seco. I Visconti non risparmiarono né spesa né
attenzione. A Lodi se gli presentò Galeazzo, e, resogli omaggio, lo
accompagnò con cinquecento militi alla vòlta di Milano. A
Chiaravalle gli andò incontro Barnabò con altri militi, e fece
dono al re di trenta superbi cavalli, coperti di velluto, di scarlatto e di
drappi di seta, tutti in ricco e magnifico arnese. (1355) Entrò in
Milano quel Cesare il giorno 4 di gennaio dell'anno 1355; e venne da tutto il
popolo festosamente accolto con rumore di nacchere, cornamuse, tamburi e
trombe, siccome allora era il costume. Venne splendidamente alloggiato nel
palazzo ora della regia ducal corte, dove avevano presa dimora i suoi
antecessori Enrico VII, che noi diciamo VI, suo avo materno, e il combattuto
Lodovico V. Non vi è dimostrazione di rispetto e di benevolenza che i
Visconti abbiano dimenticata. Protestarono di riconoscere la loro signoria
dall'Impero: e l'imperatore, al quale regalarono duecentomila fiorini d'oro, dichiarò
i tre fratelli vicari imperiali ne' loro Stati. Si fecero giostre, feste e
corti bandite per onorare l'augusto ospite, e fra le pompe che i Visconti
immaginarono in quella occasione, una singolarmente fu significante; e fu
quella di passare schierati sotto le finestre di corte, ove alloggiava
l'imperatore, seimila uomini a cavallo, signorilmente equipaggiati, e diecimila
fanti; e i Visconti dissero a quel monarca che quelle forze e le altre molte
che tenevano nelle altre città del loro Stato, erano tutte pronte per
servigio suo. Per que' tempi erano queste forze di molta considerazione. La
cerimonia della incoronazione si celebrò in Sant'Ambrogio
dall'arcivescovo Roberto Visconti, il giorno 6 di gennaio: e in quell'occasione
il re Carlo creò milite il figlio di Galeazzo, cioè Giovanni
Galeazzo, bambino di due anni. Questo bambino fu poi il primo duca, e
diventò un potentissimo principe, come vedremo. Alcuni giorni dopo
partì il re Carlo, e s’incamminò alla vòlta di Roma. Pretende
Matteo Villani che questo re non fosse stato nelle mani dei Visconti senza
inquietudine. Sarebbe questa una prova della pusillanimità di quel
principe, giacché non potevano sperare alcun vantaggio i Visconti né da un
affronto né da un tradimento che gli facessero, allorché era abbandonato nelle
loro mani.
Prima che terminasse l'anno, il
triumvirato fu tolto, e colla improvvisa morte di Matteo II lo Stato si divise
in due sole parti fra Barnabò e Galeazzo II. Matteo II aveva molto vigor
fisico e poca forza di mente. Dopo ch'egli ebbe in sua porzione Bologna, la
perdette, per aver cercato di scemare lo stipendio a quei che potevano soli
conservargliela. Matteo operava in modo da perdere la signoria, e trascinar
seco in rovina anco i fratelli; poiché, diventato padrone, cercava di possedere
per autorità e senza mistero quello che tutt'al più si carpisce
industriosamente fra le tenebre. Egli giunse a minacciar la morte ad un
cittadino ammogliato con una bellissima donna, perché contrastava di cedergli i
suoi diritti. Questi presentossi a Barnabò chiedendo giustizia, e
dichiarandosi con molto impeto di esser pronto a morire, anzi che acconsentire
a tanta infamia. Barnabò lo accolse con freddezza ed indifferenza;
poiché trattandosi del suo maggior fratello, a lui, disse, non toccava il
correggerlo: poi concertato l'affare con Galeazzo II, vedendo che Matteo era
incorreggibile nella scostumatezza, che già serpeggiavano nel popolo
delle sorde e tronche voci, e che correvasi rischio, temporeggiando e lasciando
moltiplicare gl'insulti, di vedere lo Stato in rivoluzione, per evitare il
fatto de' Tarquini, divennero fratricidi come Romolo; almeno così ci
racconta Matteo Villani[554].
Si dice altresì che a questo timore un altro vi si accoppiasse per unire
e indurre a tale estrema risoluzione i due cadetti Barnabò e Galeazzo, e
fu che, trovandosi i tre fratelli insieme cavalcando, nell'osservare il fecondo
e ridente paese del quale erano signori, uno de' cadetti dicesse, che era pure
la bella cosa l'esservi sovrani; e che incautamente allora al primogenito
fuggisse di bocca, che bella cosa era l'esser solo; la quale risposta (non
essendovi stato prima d'allora altro esempio di signoria promiscua veramente,
meno poi di signoria divisa) doveva dar molto da temere ai due principi minori.
Qualunque ne fosse la cagione, Matteo II morì il giorno 26 di settembre
dell'anno 1355; e Barnabò e Galeazzo si divisero la di lui porzione.
Anche Milano venne divisa: Barnabò ebbe la parte d'oriente e
mezzodì; l'aquilone e l'occidente della città l'ebbe Galeazzo.
V'ha chi pretende altresì che nessun altro motivo vi fosse stato per
escludere dalla successione Luchino Novello, e farlo comparire illegittimo,
fuori che le minacce e le brighe di Barnabò e Galeazzo, colle quali
intimorissero la Fieschi, già colpevole della licenziosa peregrinazione
non solo, quant'anche del veneficio, e la inducessero a dichiarare il figlio
macchiato nella sua origine, e a contentarsi d'uscire illesa dalle loro mani;
onde l'essere vivo il legittimo successore sempre più rendesse sospettosi
e Barnabò e Galeazzo II. Fors'anco la divisione dello Stato mostra
ch'essi piuttosto si divisero una preda. Non sono divisibili le
sovranità passate per legittima successione.
Carlo IV, dopo di essere stato
incoronato anche in Roma, se ne ritornò al suo paese; ma non per questo
cessarono gli emuli principi d'Italia di eccitare per ogni modo l'animo di
quell'augusto a deprimere i Visconti. (1356) I maneggi degli Estensi, dei
Gonzaghi e del marchese di Monferrato indussero Marquardo, vescovo d'Ausburgo, il
quale stavasene in Pisa col carattere di vicario imperiale, a citare i fratelli
Visconti per il giorno 11 di ottobre
Non era piccol discapito per
Barnabò e Galeazzo l'avere, ne' primi quattro anni del loro regno,
perduto Bologna, Genova, Asti e Pavia. Questa ultima città singolarmente
doveva premere a' due fratelli; poiché a venti miglia di Milano non potevano
vedere, senza inquietudine, domiciliata una guarnigione di nemici. Ma nemmeno
conveniva mancare apertamente alla fede d'una pace appena giurata, senza una
superiorità di forze che ne imponesse alla opinione dei popoli. Le
fazioni interne di Pavia fecero quasi spontaneamente nascere l'occasione, e
Galeazzo Visconti la seppe cogliere. Il fatto ce lo riferisce l'Azario. Il
marchese di Monferrato, nuovo signore di Pavia, non aveva forza d'armi bastante
per esercitarvi una piena sovranità. La famiglia de' signori Beccaria
era assai potente, e disponeva delle cose della città più che non
ne potesse fare il marchese, nuovo sovrano. Egli cercò pure come
abbassare i Beccaria, e toglier loro quel favore popolare che li faceva
prevalere, e gli venne in pensiero che nessun altro avrebbe meglio potuto ottenergli
quest'intento, fuori che frate Giacomo de' Bussolari, agostiniano, predicatore
rinomatissimo in Pavia, dietro del quale, come a santo uomo, correva ciecamente
il popol tutto. Quai mezzi adoperasse il marchese per guadagnarsi questo frate
Giacomo de' Bussolari non lo sappiamo; sappiamo bensì ch'egli lo
guadagnò, e sì fattamente, che il frate fece passare il popolo
pavese, dall'amore passionato che aveva, alla detestazione ed all'odio contro
de' Beccaria, per modo che furon costretti a partire esuli dalla patria.
Cominciò il frate, nelle sue prediche, a indicarli al popolo, senza
però palesemente nominarli: O frumentarii, o viri sanguinum
populi, non expectatis diem judicii?[556]
Andava costui esclamando, e persuadeva che la carezza del pane fosse cagionata
dalla insaziabile avarizia de' fratelli Beccaria: Ipse praedicando fertur
propalasse occulta illorum de Beccaria, quae sibi narrata fuerant nomine
poenitentiae, et praecipue de domino Castellino talia dixit, quod universum
populum pellexit et animavit ed destructionem universorum de Beccaria, et eorum
prolis, et progeniei, et amicorum suorum, et ad ruinam, et populationem
eorumdem. Et tunc, sine ulla defensione praecedente, universas illorum ac
sequacium domos, aedes et palatia dirui fecit, et asportari lapides, et vendi,
praedicans quod quisque Papiensis ipsos lapides teneret sub pulvinari, et
capite lecti, ad perpetuam memoriam male gestorum per ipsos de Beccaria[557].
Gli esuli Beccaria si rifugiarono a Milano presso Galeazzo, implorando
soccorso. È assai probabile che da Galeazzo medesimo fossero stati
animati i Beccaria, per attraversare le voglie del loro nuovo sovrano marchese
di Monferrato. Galeazzo II spedì Luchino dal Verme, valoroso comandante,
alla testa d'un conveniente numero d'armati, con apparenza di proteggere gli
oppressi e di porre l'ordine in una città vicina, tumultuante, sotto un
sovrano che non aveva forze bastanti per darle
Non così facile riuscì ai
Visconti il riavere Bologna; ché anzi, malgrado l'ostinazione e gli sforzi di
Barnabò, questi non poté, sin che visse, averla in suo dominio. Una
signoria divisa, non è nel momento opportuno d'ingrandirsi. Fra
Barnabò e Galeazzo II non trovavasi molta armonia; i vizi loro, la maniera
di governare atrocemente, non disponevano i popoli a bramare il loro impero. I
principi italiani, tanto più attivi e costanti, quanto più
speravano di riuscire contro di uno Stato diviso, non risparmiarono arte e
forza in ogni occasione; per modo che non v'è da maravigliarsi come
sotto i due fratelli non s'ampliasse lo Stato, ma bensì come ei non
cadesse in un totale discioglimento. (1360) Bologna era passata nelle mani del
papa, e Barnabò vi spinse le sue armi l'anno 1360, ma senza frutto;
poiché Innocenzo VI fece venire nell'Italia Lodovico re d'Ungheria, con buon
numero di armati, in soccorso di Bologna, e Barnabò dovette ritirarsi.
Quel sommo pontefice scomunicò Barnabò Visconti; e Urbano V, che
fugli successore, confermò la scomunica con sua bolla[562].
I delitti che s'imputavano in quella bolla a Barnabò Visconti sono:
ch'egli proteggesse gli eretici; ch'egli un giorno, avendo fatto chiamare
avanti di sé l'arcivescovo, torvamente gli avesse comandato di porsi in
ginocchio, il che fattosi dal timido prelato, Barnabò gli dicesse: Nescis,
poltrone, quod ego sum papa et imperator ac dominus in omnibus terris meis[563];
ch'egli sugli ecclesiastici esercitasse giurisdizione, obbligandoli a
pagare i carichi, facendoli imprigionare, e condannandoli al supplizio, come
gli altri cittadini, e che si arrogasse la collazione de' beneficii e
l'amministrazione de' beni ecclesiastici. Questa era la settima volta in cui il
papa prendeva a scomunicare ed interdire i signori o la città di Milano.
Già vedemmo al capitolo quinto gli anatemi pronunziati, nel secolo
undecimo, da Alessandro II, all'occasione di sottomettere
Due fatti accaduti in quel tempo
dimostrarono qual principe fosse Barnabò, e qual rispetto egli avesse
pel gius delle genti. Innocenzo VI gli spedì come nunzii due abati
benedettini. Essi erano incaricati di trattar seco lui, per terminare la
controversia di Bologna, ed avevano le bolle pontificie da presentargli.
Ciò accadde nell'anno 1361. Barnabò stavasene nel castello di
Marignano, rintanato colà per allontanarsi dalla ferocissima pestilenza
che devastava Milano, abbandonata dai due fratelli al caso, e senza adoperare
alcuna di quelle precauzioni colle quali Luchino, loro zio, nell'anno 1348,
cioè tredici anni prima, aveva saputo preservarla; abbenché allora
quella sciagura avesse desolata gran parte dell'Italia. Ivi attese i due nunzi,
e concertò la cosa per modo che il primo incontro con essi loro seguisse
al ponte sotto cui scorre il fiume Lambro. Barnabò, scortato da una
buona caterva d'armati su di quel ponte, ricevé i due nunzi, i quali se
gl'inchinarono, e presentarongli le bolle consegnate loro dal papa.
Barnabò seriamente si pose a leggerle, indi biecamente mirando i due
ministri: scegliete, disse, una delle due, o mangiare o bere. I
due nunzi, posti in mezzo agli armati, senza scampo, mirando il fiume che
scorreva al disotto, costretti dopo replicate e impazienti istanze alla scelta,
mostrarono che non piaceva loro di bere: ebbene mangiate dunque, disse
il feroce Barnabò; e furono costretti i due venerabili prelati a
mangiare la pergamena tutta quanta, il cordoncino di seta e la bolla di piombo[565].
Con tale insulto atroce ardì Barnabò di violare non solamente la
riverenza che si deve al sommo sacerdote, ma i doveri che reciprocamente
uniscono i principi e le nazioni fra di loro; e persino le sacre leggi
d'ospitalità, che impongono, anche agli stessi popoli agresti e
selvaggi, di non abusare della condizione d'uno straniero ricoverato in casa
nostra. (1363) Uno di questi due abati era Guglielmo da Grimoaldo di San
Vittore di Marsiglia, il quale, pochi mesi dopo di quest'obbrobrio, venne
creato sommo pontefice e chiamossi Urbano V. È facile l'immaginarsi quai
sentimenti dovesse poi avere Urbano V verso di Barnabò, da cui era stato
insultato con tanta soperchieria. Egli, in fatti, con un breve dato di Avignone
il giorno 3 di marzo dell'anno 1363, scomunicò solennemente
Barnabò; lo dichiarò eretico, decaduto dall'ordine di cavaliere,
spogliato d'ogni onore, diritto e privilegio; e comandò che alcuno non
osasse più di trattare con lui[566].
Nel breve della scomunica vi eran queste parole: propterea destruet
te Deus in finem, evellet te, et emigrabit te de tabernaculo tuo, et radicem
tuam de terra viventium[567].
Inoltre, agli 11 di luglio dello stesso anno 1363, dal cardinale Egidio
Alburnoz fece pubblicare la Crociata contro Barnabò, come già era
stata pubblicata contro suo zio Galeazzo quarant'anni prima; e tale e tanto era
in ciò l'impegno del papa, che (quantunque egli venisse istantemente
sollecitato e da Pietro re di Cipro, e dal re di Francia medesimo, ad intimare
una Crociata contro de' Saraceni, che sempre più si tendevano
formidabili ai Cristiani del Levante), egli ricusò di farlo per allora;
anzi si protestò ch'ei non avrebbe mai dato mano a Crociata alcuna, sin
tanto che non avesse ottenuto esito felice quella già intimata contro di
Barnabò. (1364) Allora però questa Crociata non ebbe effetto;
poiché la combinazione degl'interessi dei principi gl'indusse ad accordar la
pace l'anno
Se riguardiamo adunque Barnabò
Visconti come principe e signore potente, dobbiamo confessare che egli non
meritò stima alcuna; poiché la porzione sulla quale ei regnò
venne diminuita colla perdita di Bologna, delle terre del Bolognese, della
Romagna e del Modanese, ch'egli aveva ereditate dall'arcivescovo Giovanni. Egli
con puerili e feroci insulti animò i suoi nemici, e non ebbe forze
abbastanza per difendersi. Osserviamolo come legislatore del suo popolo e
conservatore della felicità pubblica. Egli lasciò che la
pestilenza desolasse Milano nel 1361; quella pestilenza alla quale ho
attribuita la partenza del Petrarca; se pure anche l'indole del governo non
isforzò del pari quell'uomo illuminato a tal partito. Quella sciagura
distrusse più di settantamila abitatori di Milano, e fece nelle terre
ancora strage molto maggiore. Dopo sì gran flagello, mentre
Barnabò stava alla guerra nel Modanese, alcune compagnie d'uomini
facinorosi devastavano la città, tormentata dalle violenze, dalle rapine
e da ogni genere di dissolutezza. Ritornato Barnabò, per rimediare a
simil disordine, pubblicò un editto in cui proibì che alcuno in
Milano non potesse andar di notte per le strade, sotto pena del taglio d'un
piede. Tanto ci attesta l'Azario, che allora viveva[572].
Un ammalato, di notte non poteva più avere soccorso in virtù di
tal legge feroce. Barnabò lasciò soffrire ai suoi popoli la
carestia negli anni 1364 e 1365, senza trovare modo di soccorrere i suoi
sudditi. Questa carestia nacque da un fenomeno fisico che riferirò poi. Attendentes
temporum sterilitates, et guerrarum discrimina[573],
dicesi in un decreto di Barnabò dell'anno 1369, nel quale
introdusse il costume di mettere alle gride i fondi per assicurare al
compratore la proprietà[574].
L'anno 1372, con altro editto, comandò Barnabò che nessuno
ecclesiastico potesse allontanarsi dal luogo di suo domicilio, senza suo
permesso. L'ordine poteva essere necessario, attese le scomuniche e
l'assoluzione dal giuramento di fedeltà dette di sopra; ma la pena
d'essere subito gittati nel fuoco gli ecclesiastici contravventori, è
orrenda. Il Corio ci assicura che Barnabò, dopo la pestilenza e la carestia
e le perdite dello Stato, se volse contra de li miseri subditi che per
quatro anni adietro havevano pigliato porci salvatici, ed altre selvaticine:
onde a molti di loro faceva doppuo grande tormento cavare gli occhi, et inde
suspendere per la gola, de li quali si referisce essere ascesi al numero de
cento. Assai magiore summa, de le crudele e tyranice mano fugendo, li faceva
proscrivere, dinde gli pigliava ogni sua facultate, et a molti altri habitanti
ne le ville, non havendo il modo di satisfare al fisco per le condemnatione, le
case sue faceva brusare... due frati Minori, andandogli per reprendere de si
inaudita extorsione, senza alcuno riguardo gli fece brusare, incolpandoli de
nuova heresia[575].
Amava Barnabò la caccia singolarmente dei cinghiali, e manteneva un
grande numero di cani; come ciò facesse ce lo dice il Corio all'anno
medesimo: teneva cinque milia cani, e la magiore parte de quelli distribuiva
ala custodia de li cittadini et anche a contadini, li quali niuno altro cane
che quegli puotevano tenere. Questi due volte il mese erano tenuti a fare la
mostra, onde trovandoli macri, in grande summa de pecunia erano condemnati, e
se grassi erano, incolpandoli dil troppo, similmente erano mulctati, se
morivano gli pigliava il tutto; e li officiali o caneteri più che
pretori de le terre erano temuti. Pietro Azario, che vivea in quei tempi,
ci lasciò scritto che certo Antoniolo da Orta, ufficiale in Bergamo,
venne accusato presso di Barnabò di avere esatte delle propine
arbitrarie nello spedire certe licenze. L'accusatore era un solo, e
Barnabò sine alia determinatione et defensione praecedente, jussit
unum suum domicellum cum litteris suis de praesenti ire, dirigendis Potestati
Pergami, ut, visis praesentibus, dictum Antoniolum per gulam laqueo faceret
suspendi sub poena suspensionis ipsius potestatis. Qui Potestas, licet invite,
dictum Antoniolum in palatio Pergami, nullo alio expectato nisi quod cum
sacerdote confiteretur, suspendi fecit[576].
Se prestiamo fede agli Annali Milanesi, Barnabò con un editto
proibì che alcuno più non ardisse di chiamarsi Guelfo o
Gibellino, sotto pena del taglio della lingua, e furono tagliate le lingue ad
alcuni contravventori[577].
Fece bruciar vivi tre uomini ragguardevoli, imputati di tradimento[578].
Fece bruciare due monache del Bocchetto. Due altre monache di Orona miseramente
ebbero sorte uguale. Fece crudelmente torturare Tommaso Brivio, vicario
generale dell'arcivescovo, perché aveva ricusato di degradare quelle infelici.
Fece bruciare il prete Stefano da Ozeno d'Incino, dopo di avergli fatto
soffrire atroci tormenti. Fece impiccare l'abate di San Barnaba, perché aveva
prese delle lepri[579].
Fece cavare un occhio ad un uomo, perché trovato a passeggiare in una strada
privata di Barnabò. Un povero contadino fu incontrato da Barnabò,
e lo fece ammazzare dal suo canattiere, perché egli aveva un cane. Un
giovinetto raccontò d'avere sognato che uccideva un cinghiale, e per
questo Barnabò gli fece cavare un occhio e tagliare una mano. Per un
decreto di Barnabò nessun giusdicente poteva cominciare a ricevere il
soldo assegnatogli, se prima non aveva fatto tagliar la testa a un uccisore di
pernici. Giovanni Sordo e Antoniolo da Terzago, suoi cancellieri, furono chiusi
in una gabbia di ferro con un feroce cinghiale. Il podestà di
Il fenomeno fisico di cui ho fatto
cenno, quello cioè per cui l'anno 1364 venne una funesta carestia
nello Stato, è per fortuna nostra così insolito nel Milanese, che
le persone poco istrutte lo potrebbero collocare fra le favolose invenzioni
immaginate per allettare colla maraviglia. Ma ve ne sono prove tali, che non ci
lasciano luogo a dubitarne. Tre scrittori che allora vivevano, i quali,
oscuramente celati, notavano gli avvenimenti de' loro tempi, senza che uno
potesse avere cognizione dell'altro, ce lo hanno tramandato concordemente; e
sono Pietro Azario, l'autore degli Annali Milanesi, ed il cronista di Piacenza.
Nell'anno 1364 comparvero nel mese di agosto de' nembi di locuste.
Queste occupavano l'aria, come dense e vaste nubi, ed offuscavano il sole. Esse
volavano con molta forza, e tutte si dirigevano dalla stessa parte nel volo.
Scendevano poi su i campi, e, a vederle discendere, pareva che cadessero
fiocchi di neve. L'Azario dice che questi animaletti erano verdi, e col capo e
collo grossi. Nel terreno sul quale avevano posato, erbe, foglie, frutta, tutto
rimaneva distrutto; e così questi eserciti funesti di locuste, passando
da un campo all'altro, isterilirono le terre; e durò il flagello da agosto
sino al mese di ottobre[581].
Un simile flagello, si dice che l'avesse provato la Lombardia
quattrocentonovantun'anni prima, cioè l'anno 873, e ce ne
tramandò memoria Andrea Prete. Ma se a quell'autor solo si poteva
contrastare un avvenimento maraviglioso, converrebbe rinunziare alla storia se
dubitassimo della verità rapporto all'anno 1364. Questo fenomeno,
stranissimo per noi, è conosciuto in altre regioni verso il Levante.
Carlo XII, re di Svezia, nella Bessarabia ebbe moltissimo a soffrire per i
nembi di locuste; e l'autore della Histoire militaire de Charles XII de Suède[582]
ci narra un caso simile, ed eccone le parole: Une horribile quantité de
sauterelles s'elevoit ordinairement tous les jours avant midi du côté de la
mer, premièrement à petits flots, ensuite comme des nuages,
à qui obscurcissoient l'air, et le rendoient si sombre, et si épais que
dans cette vaste plaine le soleil paroissoit s'être éclipsé. Ces insectes
ne voloient point proche de terre, mais à peu près à la même
hauteur que l'on voit voler les hirondelles, jusqu'à ce qu'ils eussent
trouvé un champ sur lequel ils pussent se jetter. Nous en rencontrions souvent
sur le chemin, d'oû ils se jettoient sur la même plaine oû
nous étions et sans craindre d'être foulés aux pieds des chevaux, ils
s'elevoient de terre, et couvroient le corps et le visage à ne pas voir
devant nous, jusqu'à ce que nous eussions passé l'endroit où ils
s'arrêtoient, Partout oû ces sauterelles se reposoient, elles y
faisoient un dégât affreux, en broutant l'herbe jusqu'à la racine;
ensorte qu'au lieu de cette belle verdure dont la champagne ètoit
auparavant tapissée, on n'y voyoit qu'une terre aride et sablonneuse. Questi
insetti, col favore del vento gagliardo, attraversano persino il mare a volo; e
in conseguenza della sterilità avenuta nell'Asia, o di una prodigiosa
moltiplicazione accaduta in quell'anno nella specie di quegl'insetti, o d'un
vento straordinariamente violento, che gli abbia trasportati oltre i consueti
loro confini, o alfine di qualche altra cagione che non posso conoscere,
giunsero essi persino a noi l'anno 1364. Se questa devastazione fosse
periodica, sarebbe da temersi da' nostri figli, che vivranno l'anno 1855. Ma
tali avvenimenti o non hanno periodo, ovvero l'hanno così vasto che
oltrepassa la memoria,
Ritorniamo agli orrori di quel governo,
e miriamo l'altra porzione dello Stato soggetta a Galeazzo II. Dopo che egli
ebbe nuovamente in suo potere Pavia, ivi collocò la sua sede, lasciando
che Barnabò alloggiasse in Milano. Galeazzo non ebbe tante brighe a
sostenere colle armi, quante ne ebbe Barnabò; onde, abbandonando da
principio ai ministri ogni cura dello Stato, egli null'altro ebbe in pensiero,
che di apparentarsi con illustri matrimoni, celebrare regie pompe, e cercare la
fama di protettore delle lettere. Le scuole di Pavia vennero da lui fomentate e
promosse, e nell'anno 1362 sembra che venisse aperta quell'Università,
la quale aveva maestri di leggi canoniche e civili, di medicina, fisica e
logica. Radunò una biblioteca pregevole per quei tempi, anteriori quasi
d'un secolo alla invenzione benefica della stampa. Per illustrare la sua
famiglia, al figlio suo Gian Galeazzo (che non aveva più di sette anni)
diede per moglie Isabella di Francia, figlia del re Giovanni, bambina essa pure
di pochi anni; e la pompa di questi illustri sponsali costò ben
cinquecentomila fiorini d'oro, cavati con ogni sorta di mezzi dai sudditi,
senza eccezione alcuna; il che non bastò a togliere la sofferenza in
ciascuno d'un aggravio enorme. Maritò sua figlia Violanta con Lionetto,
figlio del re d'Inghilterra Edoardo III. Galeazzo aveva Bianca di Savoia per
moglie; e così
Sin qui Galeazzo II poteva essere
sedotto da malvagi consiglieri; ma il fatto seguente lo mostra quale egli era,
senza difesa. Aveva quel principe incorporato nel vastissimo suo parco di Pavia
i poderi di molti, e fra gli altri d'un povero cittadino pavese che aveva nome
Bertolino da Sisti. Questo povero uomo aveva una famiglia numerosa da
alimentare; i figli soffrivano la fame e la miseria, mancando di quel fondo,
che non gli era stato pagato. Egli si prostrò avanti del suo sovrano,
implorando umilmente soccorso, e il pagamento della sua porzione di terra.
Venne accolto da Galeazzo con amarissima derisione e vilipendio, e non poté
ottenere compenso alcuno. Quel disperato padre di famiglia aspettò poi,
nel parco istesso dove Galeazzo soleva cavalcare, il momento della vendetta, e,
il giorno 24 di agosto dell'anno 1369, lo ferì, mentre passava a
cavallo, in un fianco; ma la fascia cordonata di seta lo difese. Fu arrestato
quel suddito; sempre colpevole, ma degno di commiserazione, e finì, dopo
fieri tormenti, squartato dai cavalli[585].
Coloro che esclamano contro i costumi del nostro secolo, vedano se in tutta
quanta l'Europa vi sia un angolo solo in cui gli uomini siano trattati come lo
erano i nostri maggiori quattro secoli sono! A che attribuirne il cambiamento?
All'ardimento che alcuni ebbero di pensare e cercare il vero, indipendentemente
dalle opinioni ereditate; al progresso della ragione, all'accrescimento de'
lumi; alla moltiplicazione de' libri; al genio della coltura; a quello spirito
moderato e benefico di filosofia che ha dissipata la ferocia e il fanatismo, ed
ha reso gli uomini benevoli ed umani, sotto di una santa e pura religione di
concordia e di pace. Rendiamo umili azioni di grazie al Dator di ogni bene, e
guardiamoci da coloro che ardiscono d'insultare a que' felici mezzi co' quali
si è operata la consolante rivoluzione. Galeazzo II aveva la bassezza di
voler giuocare ai dadi co' sudditi che avessero denaro, e godeva di rovinarli.
(1377) Quel principe fece un decreto l'anno 1377 che non ha
esempio, a quanto mi è noto. Egli, con un foglio di carta,
annullò, cassò, rivocò tutte le grazie e dispense che
aveva sin allora concesse. Il decreto è del giorno 13 di ottobre, Datum
in castro nostro Zojoso[586],
sito nel Pavese, ora chiamato Belgioioso, nel quale soleva passar qualche tempo
quel principe. Che un successore revochi le grazie di un sovrano che l'ha
preceduto, benché sia cosa dura assai per chi la soffre, se ne trovano esempi,
ma che un principe cancelli, così in un colpo solo, tutte le sue
beneficenze, non so che sia mai accaduto altra volta[587].
Paragonando i due fratelli, pare che
Barnabò avesse l'animo più forte, e Galeazzo fosse freddamente
crudele. Il primo, abbandonandosi ad una collera brutale, era capace di ogni
eccesso; l'altro lo era sempre, con maligna tranquillità. Barnabò
dava gl'impieghi a persone che li sapessero eseguire, e sapeva tenersele
affezionate e fedeli; Galeazzo, per denaro, dava le cariche a' più
inetti uomini. Barnabò era veridico e palesava i suoi sentimenti;
Galeazzo non era definibile. Il primo incuteva spavento, l'altro diffidenza.
Barnabò si fece scolpire in una statua equestre di marmo, e la
collocò sull'altar maggiore di San Giovanni in Conca. Essa ivi si vede,
ma non più sull'altare. Galeazzo pazzamente fece distruggere le
peschiere, le pitture del Giotto, e tutte le belle cose ordinate da Azzone nel
palazzo di corte, quae domus, diceva l'Azario, cum ornamentis
et picturis et fontibus, hodie non fieret cum trecentis millibus florenis[588].
Galeazzo faceva alzare un gran muro con molta spesa; poi, parendogli che
stesse male, lo faceva demolire. Faceva delle vòlte assai grandi in
mezzo del verno, e diroccavano poi; e i mattoni, le travi, la calce si
prendevano, per suo cenno, ove trovavansi, senza parlare di pagamento. Galeazzo
fabbricò il castello di Milano e quello di Pavia: Barnabò, quello
di Trezzo. Nessuno di questi due atroci fratelli ebbe commensali, come solevano
averne Azzone, Luchino e Giovanni. Costoro offendevano un numero sì
grande di persone, che non era poi loro fattibile la scelta di alcuni fra'
quali passare giocondamente le ore. Barnabò pagava esattamente i suoi
stipendiati, e non permetteva che facessero estorsioni; Galeazzo trascurava di
pagarli, e non badava alle loro angherie. Durante tale governo, i due
successivi arcivescovi Guglielmo della Pusterla e Simone da Borsano non posero
piede mai nella loro diocesi; sia che ciò nascesse per le dissensioni
col papa; sia che, per godere le rendite dell'arcivescovato, i principi non
volessero concederne a quei prelati il possesso; sia finalmente che la meschina
vita che sotto a quel governo vi dovette passare l'arcivescovo Roberto
Visconti, fatto porre in ginocchio per ascoltarsi il nescis, poltrone, di
Barnabò, avesse fatto perdere il coraggio ai successori di presentarsi a
vivere sotto quei terribili sovrani, animati anche contro degli ecclesiastici;
i quali, con un editto di Barnabò, venivano obbligati a porsi in
ginocchio tosto che l'incontravano per le strade, e, non solamente dovevano
contribuire la porzione d'ogni tributo al paro di ciascun altro cittadino, ma
dovevano portare il più delle tasse che quei sovrani arbitrariamente
imponevano sul clero. (1378) Galeazzo II morì in Pavia il giorno 4 di
agosto dell'anno 1378, dopo di aver regnato ventiquattro anni; e successe ne'
suoi Stati Giovanni Galeazzo, di lui figlio, che portava nome il conte di
Virtù, per un feudo che gli era stato dato nella Francia, per dote
della principessa Isabella.
Prima di terminare questo capitolo,
credo di far cosa grata a' miei lettori, informandoli d'un curioso dialogo che
ebbe Barnabò con un villano, da cui non venne conosciuto. Io lo
tradurrò, perché la storia della patria può interessare anche
persone che non sappiano il latino. Ho dovuto inserire anche troppi squarci,
scritti in tal lingua, o per contestare l'autenticità dell'asserzione, o
per non diventarne io medesimo responsabile, ovvero per non annunziare colle
mie parole, cose che mi sarebbe dispiaciuto di dover dire. Il dialogo si trova
nella Cronaca di Azario[589],
e consiglio ai curiosi lettori di vederlo nel suo originale; perché frammezzo a
quella trascurata e rozza latinità, vi è certo lepore ingenuo, e
una certa domestichezza di frasi che piacciono sommamente e dipingono il
costume. Barnabò soggiornava parte dell'anno in Marignano; i contorni
erano ancora pieni di boschi ed opportuni alla caccia, e questo era il motivo
per cui Barnabò amava di trattenervisi. Egli a cavallo ben sovente si
allontanava dalla comitiva, e s'innoltrava solo nel più interno de'
boschi. Un giorno fra gli altri aveva smarrita ogni traccia, né sapeva
più d'onde uscirne per ritornare al suo albergo. La stagione era assai
fredda; l'ora avanzata, e rigido il verno. Per caso Barnabò s'avvide che
taluno era in quel bosco. S'accostò, e riconobbe ch'era un povero
contadino, assai lacero, che s'affaticava a tagliar legna. Ecco il dialogo che
con lui tenne Barnabò: Il cielo t'aiuti, galantuomo. - Villano: Ne
ho bisogno. Con questo freddo ho potuto far poco. L'estate è ita male.
Potesse almeno andar meglio l'inverno! - Barnabò, scendendo dal suo
cavallo affaticato: Amico, tu dici che la state è ita male; e come?
L'annata è stata anzi felice; vi è stato abbondante raccolto di
grano, vendemmia abbondante. E che t'è ito male? - Villano, mentre
continua a tagliar la legna: Oh abbiamo di bel nuovo il diavolo per nostro
padrone. Si sperava che allorquando venne scacciato il signor Bruzio Visconti,
il diavolo fosse morto; ma ne è comparso un altro peggiore ancora.
Costui ci cava il pane di bocca. Noi poveri Lodigiani lavoriamo come cani, e
tutto il profitto colui ce lo carpisce. - Barnabò: Certamente,
quel signore opera male assai... ti prego, guidami, amico, fuori del bosco;
l'ora è tarda: la notte è vicina; e m'immagino che tu ancora non
avrai tempo da perdere, se brami ritornartene a casa tua. - Villano: Oh!
per andare a casa non ho alcun pensiero. L'imbroglio, padron mio, sarà a
ritrovarvi da cenare; e davvero ho gran paura che non ne faremo nulla; mia
moglie e i miei figli gli ho lasciati a casa con poco pane. -
Barnabò: Ebbene conducimi fuori del bosco, e guadagnerai qualche
cosa. - Villano: Tu mi vuoi distrarre dal mio lavoro... saresti tu mai uno
spirito infernale... i cavalieri non vengono per questi boschi... sia tu
chiunque ti piaccia, pagami prima, e ti scorterò dove vuoi. -
Barnabò: Ebbene cosa vuoi ch'io ti dia? - Villano: Un grosso
di Milano. - Barnabò: Fuori che saremo dal bosco ti darò
il grosso, e ancora di più. - Villano: Oh sì domani! Tu
sei a cavallo, e fuori che tu sia dal bosco, prendi il galoppo, ed io rimango
come un cavolo! Così fanno gli ufficiali di quel diabolico nostro
padrone; vengono scalzi, e ruban poi tanto, che passeggiano come grandi signori
a cavallo. - Barnabò: Amico, poiché non mi vuoi credere, eccoti
il pegno, e gli diede la fibbia d'argento che aveva alla cintura. Il
villano se la gettò in seno nella camicia, e cominciò a precedere
per uscire dal bosco; ma, stanco come era, camminava lentamente. -
Barnabò: Galantuomo, monta in groppa sul mio cavallo. - Villano:
Credi tu che quella rozza potrà reggere a due! Tu sei tanto grosso! -
Barnabò: O, benissimo; porterà te e porterà me; tanto
più che, a quanto dicesti, non hai mangiato troppo a pranzo. -
Villano: tu dici il vero... proviamoci; e qui si pose a sedere in
groppa, e mentre così proseguivano attraverso del bosco, continuò
Barnabò: Amico, tu mi hai date delle cattive nuove del tuo padrone: e
del signor Barnabò, che sta in Milano, che se ne dice? - Villano:
Di lui se ne parla meglio. Benché sia feroce, egli almeno fa osservare
l'ordine; e s'egli non fosse, non avremmo osato né io né gli altri poveri
entrar nel bosco a tagliar legna, per timore degli assassini. Il signor
Barnabò fa osservare esatta giustizia, e quando promette, mantiene. Ma
quest'altro che sta in Lodi, fa tutto al contrario. E così,
proseguendo il discorso, gli riferì come un castellano gli aveva rubato
un pezzo di terra ed alcuni pochi mobili; indi, usciti che furono dal bosco,
disse il villano: Signore, tenete la campagna da questa banda, la notte
viene, fate presto, perché altrimenti vi potrete trovare in mezzo d'una strada.
- Barnabò: Amico, mi vorresti gabbare, e con questo bel modo
portarmi via la fibbia. - Tremava di freddo il villano, perché a piedi
almeno si riscaldava, e sedendo era, senza moto, esposto al rigore della
stagione, e disse: Per Dio! non mi ricordava nemmeno più della
fibbia; prendetela, signore. Se mi volete dar qualche cosa per amor di Dio,
fatelo; se non vi piace, il cielo vi aiuti, e andate colla vostra
fibbia. Correrei pericolo d'essere impiccato, se questa fibbia si ritrovasse
presso di me; si direbbe che l'avessi rubata. Tenetela. Credo bene che, se mi
volete fare la carità, non vi mancano in tasca denari. -
Barnabò: Amico, fa a modo mio; accompagnami ad un albergo e ti
prometto un grosso, e di più un buon camino per riscaldarti, e poi anco
di più una buona cena: e così domattina di buon'ora tornerai da
tua moglie. Il villano si consolò pensando a questi beni, e come la
mattina vegnente con quel grosso avrebbe potuto comprare dodici pagnotte e
darle alla sua povera famiglia. Scese dalla groppa e riprese il cammino,
calpestando le stoppie attraverso de' campi; e Barnabò cavalcava dietro
lui. - Barnabò: E dove anderemo noi ad albergare? - Villano:
Andremo a Marignano; vi sono delle buone osterie; vi si può entrare
giorno e notte, e alloggeremo bene, e noi ed il cavallo, che mi pare ne abbia
bisogno. - Barnabò: Dici bene. E da questo tuo Marignano siamo
noi molto discosti? - Villano: Cosa ti preme? Se non vi giugneremo di
giorno, vi giugneremo di notte. Non t'ho dett'io che ivi non si chiudono le
porte! - Barnabò: Va dunque, sia come tu vuoi. Così
proseguendo con tai discorsi il cammino, si videro da lontano comparire
molte e grandi fiaccole, e Barnabò disse: Vedi tu que' fanali e tante
faci? - Villano: Le vedo. - Barnabò: E che vuol dir
questo? - Villano: Vuol dire che vanno cercando il signor
Barnabò, che tante volte s'innoltra nei boschi per amore della caccia;
vuole essere solo, si perde, e i suoi domestici poi vanno la sera facendo de'
fuochi, acciocché veda per dove possa ritornarsene. - Barnabò: S'ella
è così, fanno bene: è segno che quei domestici hanno premura
pel loro padrone. Discorrendo per tal modo s'andarono accostando a quei che
portavano le faci; e tosto che questi videro Barnabò, scesero da
cavallo; e salutato con riverenza quel sovrano (inclinatis capuciis, dice
Azario), e rispettosamente attorniando lui e il villano, tutti giunsero a
Marignano. Allora il povero villano s'avvide qual fosse l'uomo col quale aveva
fatto il dialogo. Desiderava di essere già morto; tanto timore aveva de'
tormenti che s'aspettava di dover patire nel castello di Marignano! Giunti che
vi furono, il signor Barnabò, scoppiando dalle risa, raccontò a'
suoi domestici tutta l'avventura; e ordinò che il villano, tal quale
era, stracciato e sporco, fosse condotto in una sala, e se gli accendesse un
gran fuoco. Poiché fu ben ristorato dal freddo, fu chiamato il povero villano a
cena; e dovette sedere di contro al signor Barnabò. Essi due soli
sedevano; e volle che il villano venisse in tutto servito come egli lo era. Il
contadino non voleva tanti onori; tremava; e Barnabò: son galantuomo,
mantengo
Per lo spazio di sette anni ancora,
dopo la morte di Galeazzo II, continuò ad essere separato in due parti
lo Stato de' Visconti, reggendo l'eredità del padre il conte di
Virtù, e continuando a regnare Barnabò sulla sua porzione. Il
Gazata nella sua Cronaca ci racconta che Barnabò aveva comprata la
città di Reggio da Feltrino Gonzaga, collo sborso di cinquantamila
fiorini d'oro; e che per diventar padrone di alcune ròcche e castella di
quel distretto, egli s'impadronì di Francesco Fogliano; ed avutolo nelle
sue mani, gli fece intimare che o doveva indurre Guido Fogliano. dì lui
fratello, a consegnare a Barnabò le fortezze ch'egli possedeva, ovvero
questi sicuramente lo faceva impiccare; quantunque tra il Fogliano e
Barnabò non vi fosse mai stata altercazione alcuna. Il povero Francesco
Fogliano fece ogni sforzo per indurre colle sue lettere il fratello a
riscattarlo. Guido credette che non si sarebbe mai imbrattato il Visconti con
una così obbrobriosa macchia; ma s'ingannò, perché Barnabò
fece sospendere Francesco alle forche, sulle mura di Reggio, il giorno 7
dicembre 1372. Il conte di Virtù aveva questo terribile collega. Il
conte era giovine di venticinque anni. Egli s'era più volte presentato
al nemico con valore, allorquando i collegati invasero lo Stato; ma non aveva
dato saggio nemmeno d'avere i talenti d'un buon comandante. Aveva egli stretti
vincoli di sangue colla casa di Francia, colla casa di Savoia, colla casa
d'Inghilterra: ma Barnabò non era meno appoggiato ad illustri e potenti
parentele. Barnabò ebbe tanti figli, che (omettendo i bambini ed i
fanciulli periti) se ne contarono trentadue, de' quali quindici legittimi, nati
dalla signora Beatrice della Scala, da altri chiamata Regina della Scala. Barnabò
aveva date le sue figlie in matrimonio a potenti signori. La casa d'Austria, la
casa di Baviera, il re di Cipro, la casa di Wirtemberg, la casa di Turingia, i
Gonzaghi avevano delle principesse figlie di Barnabò. La principessa che
entrò nella gloriosissima casa d'Austria si chiamava Verde Visconti.
Ella sposò il duca Leopoldo. Questo principe, giovine di quattordici
anni, venne a Milano l'anno 1365, ed il giorno 23 di febbraio celebrò le
sue nozze nel palazzo del signor Barnabò Visconti, presso San Giovanni
in Conca. Barnabò diede in dote alla figlia centomila fiorini. Indi
andarono gli sposi a Vienna; e da queste nozze discende l'augusto sovrano, che
ora, per nostra felicità, domina su questo Stato. Chi bramasse
più minute notizie di queste memorabili nozze (per le quali il sangue
de' Visconti, sublimato a più elevata condizione, e depurato colla
virtù e colla beneficenza di quattro secoli, trovasi attualmente sul
trono, dal quale i Milanesi ricevon legge) vegga il nostro conte Giulini, che
ne ha pubblicati i monumenti sinora inediti.
A fronte d'uno zio terribile, stavasene
circospetto ed attentissimo il conte di Virtù. Milano, siccome dissi,
era divisa in due padroni: Galeazzo II possedeva il castello di Porta Giovia,
cioè il castello che ancora in parte internamente sussiste; e
Barnabò possedeva un altro castello alla torre di Porta Romana, di cui
veggonsi anco oggidì le vestigia dalla parte del Naviglio. Il conte di
Virtù stavasene in Pavia: era una volpe che addocchiava destramente il
vecchio leone. Mostrava il giovine conte di Virtù d'essere timido,
irresoluto, debole in ogni sua azione. Bramava d'imprimere nell'animo di
Barnabò tale opinione, che, considerandolo egli giovane da nulla ed
incapace d'intraprendere un colpo ardito, nemmeno pensasse a tenersi difeso; e
tanto seppe dissimulare in ogni azione, anche domestica, tanto attento fu nel
rapportare il meschino personaggio propostosi, che ingannò supinamente
lo zio, quantunque avesse giorno e notte al suo fianco Catterina Visconti,
figlia di Barnabò, da Galeazzo sposata, sebben cugina, dopo la morte di
Isabella di Francia, sua prima moglie. Barnabò derideva
l'imbecillità del nipote, il quale ne' suoi editti ancora spirava
umanità, beneficenza e moderazione, mentre l'altro continuava a
spaventare i sudditi con inesorabile ferocia. Poteva comparire agli occhi dello
zio un nuovo tratto di pusillanimità la cura che ebbe il conte di
Virtù di procurarsi la grazia del nuovo augusto Venceslao, succeduto al
defunto Carlo IV di lui padre. Ma in fatti egli solo venne da quel monarca
confermato vicario imperiale l'anno 1380, senza che nel diploma venisse fatta
menzione di Barnabò. Così nel silenzio andava il conte di
Virtù preparando la mina che doveva scoppiare un giorno e, rovinando il
collega, riunire sovranità dello Stato sopra di lui solo.
Barnabò, dal canto suo, senza accorgersi, somministrava sempre nuove
armi al nipote contro di lui; poiché disponeva una nuova divisione dello Stato
suo ne' cinque suoi figli legittimi, e già a ciascuno di essi aveva
assegnato il governo nel distretto che gli aveva destinato in sovranità
dopo di lui. Marco aveva la metà di Milano; Lodovico aveva Lodi e
Cremona; Carlo aveva Parma, Crema e Borgo San Donnino; Rodolfo avea Bergamo,
Soncino e la Ghiara d'Adda; Giovanni Mastino, ancora bambino, aveva finalmente
Brescia colla Riviera e Valle Camonica. Questo avvenire non poteva essere caro
ai popoli, che diventavano sudditi d'una piccola sovranità, e soggetti
ad un principe debole. Così insensibilmente, e simulando debolezza ed
incapacità, Gian Galeazzo lasciava maturare gli avvenimenti; e andava
contraponendo l'apparenza di un saggio principe, a quella d'un capriccioso e
crudele despota. (1385) Giunse il momento, e fu il giorno memorando 6 di maggio
dell'anno 1385; giorno in cui venne tolta a Barnabò ed a' suoi figli,
per sempre, ogni sovranità, e concentrossi nel conte di Virtù
ogni potere. Il caso è noto, ed è il seguente. Il conte fece
intendere al signor Barnabò ch'egli pensava di portarsi alla Madonna del
Monte presso Varese; che sarebbe venuto da Pavia a Milano, la mattina del 6 di
maggio, ma non amando di entrare nella città, costeggiandola fuori dalle
mura, sarebbe andato a smontare nel suo castello a Porta Giovia; e che sarebbe
stata pure grande la sua consolazione se avesse potuto abbracciare uno zio che
tanto onorava. Si sapeva che il conte voleva condurre la scorta di quattrocento
lance. Un domestico del signor Barnabò non mancò di fargli
osservare che quel corredo era troppo per portarsi ad un santuario e ad un
borgo dello Stato, in tempo di pace. Questo domestico si chiamava Medicina, e
cercò di persuadere al suo padrone di starsene cauto e non avventurarsi.
Ma Barnabò disprezzava il nipote, e attribuì alla
pusillanimità sua questa schiera d'armati. I due figli maggiori di Barnabò
furono spediti incontro al conte due miglia fuori di Porta Ticinese. Questi
accolse co' maggiori segni di cordialità i suoi due cugini e cognati,
Rodolfo e Lodovico, i quali, dopo le accoglienze, con apparenza di onore,
furono circondati dalle armi di cui erano comandanti Jacopo dal Verme, Ottone
da Mandello e il marchese Giovanni Malaspina. S'incamminò il conte verso
Milano, e, giunto che fu avanti della porta Ticinese (che allora era ove
oggidì sta il ponte del Naviglio) prese la sinistra, e per la via che
ora fiancheggia il canale, andò colla sua comitiva cavalcando, sin che
alle ore sedici, ossia verso mezzo giorno, trovatisi vicini al ponte che da
Sant'Ambrogio conduce a San Vittore, per esso videro scendere Barnabò a
cavallo con uno o due domestici di seguito. Il conte, dopo i primi saluti,
diede il segnale concertato; e Jacopo dal Verme il primo spronò il
cavallo, e pose le mani addosso della persona del signor Barnabò,
dicendogli: siete prigioniere. Ben tosto Ottone da Mandello gli
levò dalle mani la briglia; altri gli tagliò il cingolo;
così al momento Barnabò fu disarmato, togliendogli altri spada,
altri la bacchetta dalle mani. Contemporaneamente lo stesso venne fatto ai due
suoi figli Rodolfo e Lodovico; e presto presto, in mezzo alle armi, vennero
tradotti nel castello di Porta Giovia, poco di là lontano.
Barnabò venne cautamente trasportato poi al castello di Trezzo, ove anco
oggidì vedasi la stanza, in cui sopravisse sette mesi colla sua o moglie
o amica Donnina de' Porri, sin che morì avvelenato, a quanto si dice.
Tanto seppe simulare il conte! Egli aveva trentadue anni.
Appena il colpo era fatto, il conte,
alla testa degli armati, entrò nella città, e senza veruna
opposizione se ne impadronì, fra gli evviva della plebe, alla quale
permise tosto di saccheggiare i palazzi di Barnabò e de' suoi figli; e
la plebe di più saccheggiò le dogane e la gabella del sale, che
era alla piazza dei Mercanti. Nella fortezza di Porta Romana vi fu ritrovato
tanto argento per caricarne sei carri, ed in ori vi si contarono settecentomila
fiorini. Quindi si radunò un consiglio generale della città, il
quale tosto conferì il dominio al conte di Virtù, e, dopo lui, a'
suoi discendenti maschi legittimi, in quel modo a lui più fosse piaciuto[590].
Con tal decreto vennero esclusi i discendenti di Barnabò; e in quel
giorno Giovanni Galeazzo Visconte, conte di Virtù, diventò
sovrano di ventuna città, e sono Reggio, Parma, Piacenza, Cremona,
Brescia, Lodi, Bergamo, Crema, Milano, Como, Vigevano, Pavia, Bobbio,
Alessandria, Valenza, Novara, Tortona, Vercelli, Alba, Asti e Casale. Questo
colpo, eseguito con tanto vigore, e preparato colla più cupa e simulata
ipocrisia, conveniva in qualche modo farlo comparire onesto e suggerito dall'assoluta
necessità; e a tal fine ordinò il conte che si formassero i
processi contro di Barnabò. L'autore degli Annali Milanesi ce ne ha
trasmesso l'epilogo. Le atrocità che ivi si leggono imputate a
Barnabò, sono enormi; e dopo una sanguinosa enumerazione di esse, vedesi
incolpato Barnabò d'avere tese insidie alla vita del nipote; d'essere
uno stregone, che colle fattucchierie, avesse rese sterili le nozze del conte
di Virtù; e che finalmente Gian Galeazzo fosse stato costretto a far
prigionieri lo zio ed i cognati, perché essi l'avevano in quel momento assalito
a tradimento. Non saprei se sotto il governo di uomini di quell'indole vi fosse
nelle magistrature un uomo virtuoso; ma se pur vi era, quello certamente non
sarà stato trascelto per formare il processo. Barnabò era uomo
feroce, violento, coraggioso, franco, ma non dissimulato, né capace di tradire
o di insidiare. Egli era nemico di ogni arte e di ogni scienza, crudele,
sanguinario, d'una religione inconseguente, poiché, insultando il papa,
oltreggiando i vescovi, calpestando gli ecclesiastici, donava ai conventi
generosamente i beni che rapacemente confiscava ai cittadini. Ma il conte era
suo nipote; il conte era suo genero; giaceva le notti colla sua moglie
Catterina Visconti, nel tempo in cui ordiva di togliere la sovranità
alla di lei famiglia, mentre teneva prigione suo padre, lasciava errare
raminghi e bisognosi i di lei fratelli, che pure avevano tanta ragione per
succedere nella signoria di Barnabò, quanta ne aveva il conte per essere
succeduto nella signoria a Galeazzo. Di tanti figli che aveva Barnabò,
malgrado le potenti e illustri loro aderenze, non ve ne fu più alcuno
che potesse comparir nemmeno a disputare la usurpata porzione del padre,
trattone Estore, che eragli figlio illegittimo, il quale poté fare ventisette
anni dopo un momentaneo contrasto al duca Filippo Maria, come vedremo. La
potenza acquistata in un istante dal conte di Virtù fiaccò
l'animo de' suoi sudditi; l'ardimento della sua ambizione, spiegata come un
improvviso lampo, unita alla profondissima simulazione, rese attoniti gli altri
principi; giacché gli oggetti più ne soprafanno, quanto più
grandeggiano annebbiati. I popoli, oppressi dal duro e violento giogo sofferto,
accolsero con allegrezza il cambiamento. La virtù e la giustizia non
ebbero parte alcuna in questa rivoluzione, in cui si vide accadere un
avvenimento di cui sono frequenti gli esempi; cioè che, posti due
colleghi di egual condizione al governo, colui che avrà le passioni
più spiegate, dovrà soccombere a colui che saprà coprire
colla timidezza l'ambizione; siccome ancora accadde dell'impero del mondo fra
Ottavio ed Antonio.
All'ambizione artificiosa del conte di
Virtù erano poche ventuna città suddite. Egli pensava a nulla
meno che al regno d'Italia; e i primi sguardi ch'egli gettò, furono
dalla parte del Veronese e del Padovano, per estendere sino all'Adriatico il
suo Stato. Egli, siccome dissi, possedeva già Crema, Bergamo e Brescia.
Antonio della Scala era signore di Verona e di Vicenza. Francesco da Carrara
era signore di Padova. Da gran tempo questi due piccoli sovrani avevano delle
discordie, e si facevano delle reciproche ostilità. Il conte di
Virtù, simulando zelo per la concordia e per il bene di que' due
principi, entrò mediatore per accomodare le loro controversie; e mentre
l'una parte e l'altra stavano facendo le loro proposizioni, il conte
lusingò il Carrarese, signore di Padova, proponendogli un'alleanza
invece del progettato accordo. L'alleanza aveva per fine la distruzione delle
Scaligero. Il piano era che il Carrara lo dovesse attaccare dalla parte di
Vicenza, mentre il conte di Virtù farebbe lo stesso dalla parte di
Brescia. L'esito non poteva essere dubbio, poiché Antonio della Scala, posto
così di mezzo, non poteva avere scampo. Il frutto era grande; mentre
s'offeriva a Francesco Carrara di lasciargli Vicenza, e il conte restava pago
di prendere per sé Verona. Non poteva essere l'orecchio del Carrarese adescato
da una proposizione più seducente di questa, e incautamente
Poiché per tal modo ebbe Giangaleazzo
estesi i suoi confini sino al mare Adriatico, rivolse le sue cure a dilatarli
al lungo dell'Italia, al di là di Bologna, nella Romagna e nella
Toscana. Egli conquistava per mezzo de' suoi generali. Prese colle armi
Bologna. Molto si estese nella Romagna. Perugia, Spoleti, Nocera, Assisi furono
da lui acquistate. Nella Toscana egli comprò Pisa collo sborso di
duecentomila fiorini, e gliela vendette Gerardo Appiani, che era succeduto al
padre in quel dominio. Egli acquistò Siena, che se gli rese per
dedizione spontanea[592].
La repubblica di Firenze non poteva con tranquillità rimirarsi in tal
modo cinta dai nuovi Stati del conte, la di cui ambizione non aveva limiti, e
si venne alle ostilità. Nel loro manifesto i Fiorentini dissero: sed
profecto nosmetipsos, vana fide delusi, decipiebamus, persuadentes nobis
illum esse posse fidelem, qui tam infidelis extitit nepos et gener et frater,
in patruum, socerum, atque fratres, cujusque toties, et nobis, et aliis,
probata fides erat nihil habere constantiae, nisi solum in hoc ut fidem quam
promiserat non servaret... Nos versa vice tyranno Lombardiae, qui se regem
facere cupit, et inungere, bellum indicimus[593].
Stimolarono i Fiorentini il re di Francia, e non si sa con quai mezzi
l'indussero, malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia
un corpo di diecimila Francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene il duca
di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio di Bianca di Savoia,
pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il comandante conte
d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti, figlio di Barnabò, che
viveva miseramente ramingo colla sua moglie Beatrice d'Armagnac. L'armata
francese si portò rapidamente sotto di Alessandria, città munita
di valido presidio, comandato da quel Jacopo dal Verme che aveva fatto
prigioniere Barnabò. I Francesi si presentarono con insulto, deridendo,
provocando, ed invitando se avevano coraggio di venir fuori que' poltroni
Lombardi. Si vide poi che è più facile l'oltraggiare che il
vincere. Uscì Jacopo dal Verme il giorno 25 di luglio dell'anno 1319, e,
per risposta, prese il conte di Armagnac prigioniere, e tutti que' Francesi che
non rimasero sul campo. Così terminossi quella spedizione; e il conte
ben presto si accomodò colla Francia, facendole sperare di sottomettere
colle sue armi Genova, e darla a quel re; il che poi non avvenne. Il
conte per altro sembrava affezionatissimo ai Francesi. Ei si faceva pregio
della contea di Virtù, che era un piccolo feudo della Francia nella
Sciampagna, portatogli in dote dalla prima moglie Isabella, figlia del re di
Francia Giovanni II. L'essere stato sino dalla fanciullezza unito con una
amabile principessa di Francia, gli aveva lasciata quella propensione. Il
conte, nell'anno 1387, maritò Valentina Visconti, l'unica sua figlia, a
Luigi duca di Turrena e conte di Valois, fratello del re di Francia Carlo VI.
Le sborsò quattrocentomila fiorini d'oro per sua dote, e le
assegnò pure in dote Asti, e tutte le terre e castelli del Piemonte. Di
più, volle riservare a lei ed a' suoi figli la ragione di succedere
negli Stati suoi in mancanza di successori maschi legittimi e naturali; poiché
allora non per anco ne aveva: di che erasene incolpata la stregoneria del
signor Barnabò, come dissi. Questa riserva di successione fu poi
cagione funestissima di miseria e rovina allo Stato, allorché, centododici anni
dopo, il re di Francia Lodovico XIII (che era salito sul trono dopo Carlo VIII,
morto senza figli), venne a far valere le ragioni della sua ava paterna
Valentina Visconti, per essere estinta la linea legittima di Matteo I Visconti.
Se poi il conte di Virtù, che aveva ottenuta la sovranità, per sé
e suoi successori maschi legittimi e naturali, dal consiglio generale due anni
prima, avesse facoltà di trasferirla ai discendenti delle femmine; e se
ciò fosse conforme alla pace di Costanza, all'eminente sovranità
dell'Impero, di cui era vicario, ed al buon diritto, sarebbe facil cosa il
deciderlo, qualora la questione si fosse tratta fra privati avanti un
tribunale. Il conte dava una cosa non sua. Pure, questa incautissima eventuale
sostituzione serve di una dolorosa epoca nella nostra storia, per le guerre, le
invasioni, la scissione che poi ne avvenne del nostro paese.
Se i Fiorentini erano in armi, e se
movevano altri principi contro di Giangaleazzo conte di Virtù, per porre
argine alle conquiste ch'egli faceva nella Toscana, non avrebbero certamente i
papi risparmiato dal canto loro di adoperare tutti i mezzi ch'erano in loro
potere, contro di un principe invasore del loro Stato, e che occupava Bologna e
le altre città che abbiamo accennate. Ma gl'interessi della Santa Sede
erano turbati internamente. V'erano due, ciascuno de' quali pretendeva
d’essere papa; e questo scisma, incominciato sin dall'anno in cui morì
Galeazzo II, durò da un successore all'altro per lo spazio di ben
quarant'anni. Alcuni paesi decisamente riconoscevano uno de' due papi per
legittimo sommo pontefice. Lo scaltrito conte di Virtù non volle mai
decidersi; ma adescò ed un papa e l'altro, lasciando sperare a ciascuno
di volersi per esso determinare; e frattanto che i due competitori, con prodiga
compiacenza, gareggiavano per guadagnarsi l'amicizia sua, egli andava togliendo
alla Santa Sede lo Stato, ed operando ne' suoi dominii come s'ei fosse padrone
di tutto, disponendo anche delle cose ecclesiastiche. La politica del conte era
tale, che volle ottenere e da Urbano VI, che stava in Roma, e da Clemente VII,
che risedeva in Avignone, la dispensa per contrarre le nozze con Catterina
Visconti, su cugina, l'anno 1380; e ciò sotto pretesto di timorata
coscienza, non essendo egli ben certo quale de' due papi fosse il vero. Con tal
mezzo, Omnes dignitates, dice l'Annalista Piacentino[594],
et beneficia ecclesiastica terrarum ipsius domini comitis, quale erant
conferenda, dictus dominus comes ipse conferebat cui volebat, et dictus dominus
papa dicta beneficia et dignitates confirmabat omnibus illis quos dictus
dominus comes elegerat[595].
Ciò nondimeno i principi minori d'Italia erano collegati contro del
conte; e fra questi eravi il signore di Mantova Francesco Gonzaga, gli Stati
del quale, come più vicini, erano ancora più degli altri in
pericolo; sembrando inevitabile anche per lui il destino dei signori della
Scala e de' signori di Carrara. L'armata del conte, spedita contro il
Mantovano, era comandata da Jacopo dal Verme. I Fiorentini non potevano
soccorrere il Gonzaga, perché il conte altro corpo di truppe teneva contro
Firenze. Il Po era coperto di navi con armati dall'una e dall'altra parte; ed
il Gonzaga aveva fabbricato su di quel fiume un ponte, di legno bensì,
ma tanto forte e munito, che il dal Verme non credé di attaccarlo. Sotto di questo
ponte si ricoveravano le navi mantovane ogni volta che dalle nostre venivano
minacciate di offesa, come frequentemente accadeva. (1397) Il dal Verme, che
non poteva inoltrarsi senza essere padrone del fiume, per cui riceveva la
vettovaglia, immaginò uno stratagemma, che fu poi imitato dal re di
Svezia Carlo XII alla Duina, mentre guerreggiava nella Polonia. Fece disporre
un buon numero di barche piccole, e le caricò di paglia e di legna da
ardere. Aspettò un buon vento favorevole; vi accese il fuoco; e il
vento, unito alla corrente, portarono le barche sotto del ponte, ed immersero
quel presidio nel fumo anche prima che il fuoco lo distruggesse. Ebbe cura che
le barche fossero più larghe di quello che non erano i vani del ponte,
per modo che, ivi giunte, vi rimanessero, e ne seguisse l'incendio; e
così avvenne, dato che fu il fuoco alla paglia, e lasciate le macchine
in poter del fiume. Nello stesso momento egli attaccò per terra la testa
del ponte; talché i Gonzaghesi, sorpresi, e nemmeno potendo conoscere ove
occorresse di portare soccorso, non s'avvidero del fatto se non dopo che fu
rovinato il presidio ed il ponte, e perduta la difesa del Po. Jacopo dal Verme
colse il momento della costernazione dei nemici, de' quali ben mille si erano
sommersi col ponte; attaccò le navi de' Gonzaghi colle sue, e
terminò questa battaglia navale colla presa di tutte le navi del nemico;
il che accadde il giorno 14 di luglio dell'anno 1397. Pareva dopo ciò
inevitabile la presa di Mantova e di tutto lo Stato del Gonzaga. Ma questi
ricorse ad uno stratagemma men nobile e meno eroico, ma che lo sottrasse
dall'imminente destino. Trovò un falsario che seppe esattamente
contraffare una lettera di Giangaleazzo Visconti; e con questa lettera
ordinò al dal Verme di ritirarsi dal Mantovano, come seguì.
L'occasione passò, e il Gonzaga si sottrasse alla rovina[596];
poiché attaccò l'armata priva del suo generale, e nel momento in cui
nessuna disposizione vi era per la difesa, ebbe il campo di batterla. Il mestiere
di falsificare le lettere del principe convien credere che in que' tempi fosse
in uso, poiché il conte di Virtù, l'anno 1393, fece a tal proposito un
editto che decretava a que' falsari un'atrocissima pena. Cum catena ferrea
alligetur ad unam columnam, cum uno annulo ferreo revolvente se, et cum quo
ipse homo revolvere se possit circumcirca ipsam columnam, longinqua eatenus
quatenus plus fieri poterit, ita ut mortem dolentiorem sustineat; ibidem
tamen comburatur ita quod moriatur[597]:
così leggesi in quel decreto, che pare scritto dallo stesso
secretario che serviva Galeazzo, padre del conte.
Sino dall'anno 1380 il conte di
Virtù aveva ottenuto, siccome dissi, dall'imperatore Venceslao il
diploma di vicario imperiale. Ma questa dignità personale poteva non
essere data a' suoi figli, e la elezione d'un nuovo imperatore poteva farla
perdere al conte medesimo, il quale non dimenticava i figli di Barnabò,
e le pretensioni che avrebbon potuto far valere, sì tosto che le
circostanze loro fossero favorevoli. Per tal cagione egli cercò d'essere
formalmente investito da quell'augusto come vassallo di tutti gli Stati che
possedeva, onde per tal modo rimanesse la successione e la sovranità
perpetua ne' suoi discendenti. La richiesta venne esaudita dall'imperatore
Venceslao, col mezzo di centomila fiorini d'oro, che ei ricevette dal conte.
Gli Stati del conte vennero eretti in ducato, e il conte venne dichiarato duca
di Milano, con un diploma segnato il giorno 2 di maggio dell'anno 1395; e con
altro diploma posteriore l'imperatore dichiarò le venticinque
città che intendeva comprese nel ducato concesso, cioè Arezzo,
Reggio, Parma, Piacenza, Cremona, Lodi, Crema, Bergamo, Brescia, Verona,
Vicenza, Feliciano, Feltre, Belluno, Bassano, Bormio, Como, Milano, Novara,
Alessandria, Tortona, Vercelli, Pontremoli, Bobbio e Sarzana. Oltre queste
città lo stesso augusto investì il nuovo duca d'una distinta
contea, transitoria pure a' suoi discendenti, nella quale si comprendevano
Pavia, Valenza e Casale. Il diploma è del giorno 13 ottobre 1396.
Così quell'augusto venne a staccar dall'Impero ventotto
città, che formavano la maggior parte dell'antico regno italico; e il
duca ne diventò legittimo sovrano. Altre città possedeva
Giangaleazzo, non comprese in quel diploma; poiché, sebbene avesse ceduto
Padova e dato in dote alla principessa Valentina Alba ed Asti, ancora Bologna,
Pisa, Siena, Perugia, Nocera, Spoleti ed Assisi erano sue suddite; per lo che
era egli sovrano di trentacinque città. La solenne funzione di rivestire
delle insegne ducali il nuovo duca si celebrò in Milano sulla piazza di
Sant'Ambrogio, il giorno 5 di settembre dell'anno
L'ambizione di Giovanni Galeazzo non
era sazia giammai, e voleva per ogni modo quel principe lasciare ai secoli
venturi la fama di se medesimo. Felici i suoi popoli s'egli avesse temuto la
cattiva fama! Egli ordinò una compilazione degli statuti di Milano, la
quale si pubblicò il giorno 13 di gennaio dell'anno 1396, ed è la
medesima che venne stampata poi l'anno
La vendita che aveva fatta l'imperator
Venceslao di tutto il regno longobardo, ossia italico, al nuovo duca, mosse i
principi della Germania a formare un partito per deporre quel sovrano dal trono
augusto, dal quale aveva staccata una parte importante. Altri motivi di
doglianza avevano ancora contro di lui. (1401) Quindi dichiararono imperatore
Roberto conte Palatino di Baviera, e Venceslao deposto; il che avvenne l'anno
1401. Il papa, i Veneziani ed i Fiorentini animarono il nuovo Cesare a
comparire nell'Italia, per rivendicare le terre staccate dall'Impero; e gli
promisero tutti i soccorsi. Il nuovo imperatore, prima di venire, scrisse al
duca la lettera seguente, che ci ha conservata il Corio. Robertus de
Bavaria, Dei gratia, Romanorum rex, et Rheni comes Palatinus. Tibi Johanni
Galeaz, militi Mediolanensi, praecipiendo mandamus, quatenus omnes civitates,
castra, terras, et loca Romano Imperio et ditioni nostrae spectantia, quae in
Italia occupata indebite detines, Nobis, quibus Romani Imperii gubernatio, ex
electione de nobis imperatore per Imperii electores canonice facta, ad me
spectat et pertinet, restituere ac resignare debeas, alioquin ut sacri Imperii
terrarum, et jurisdictionum invasorem, et nostrum hostem et rebellem diffidamus[609].
A tale intimazione così rispose il duca: Tibi Roberto de Bavaria nos
Johannes Galeaz Vicecomes, Dei et serenissimi domini Vincislai Romanorum, et
Bohemiae regis gratia, dux Mediolani, etc., ac Papiae et Virtutum comes. Per
praesentes respondemus quod quascumque civitates, castra, terras et loca in
Italia possidemus, et a prefato serenissimo domino Vincislao, Romanorum rege,
et sacri Imperii gubernacula canonice possidente, tenemus et possidemus,
ipsasque a te, Imperii invasore atque praefacti domini Vincislai et nostri hoste manifesto,
defendere prorsus intendimus, teque, ipsorum Imperii et dominii Vincislai regis
atque Nostrum hostem manifestum, si nostrum territorium invadere praesumpseris,
diffidamus[610].
L'effetto di queste bravate non fu altro, se non che, il nuovo augusto Roberto
passò le Alpi, e dal Tirolo venne sul Bresciano. L'armata del duca se
gli affacciò; e il giorno 21 di ottobre dello stesso anno 1401, batté
gli imperiali per modo che condusse a Brescia un buon numero di prigionieri,
due stendardi e più di mille cavalli; il che risulta dagli antichi
registri della città sovra memorie contemporanee, consultate e
pubblicate dal nostro conte Giulini[611].
Il conte Alberico di Cunio e di Barbiano ebbe gran parte dell'onore di questa
vittoria[612].
Egli fu molto caro a Barnabò. Alberico fu istitutore della
società militare di San Giorgio, che liberò l'Italia da
masnadieri esteri. La virtù e il nome di questo illustre Italiano vivono
ne' nobilissimi suoi discendenti[613].
La presa di due stendardi significava allora assai più che non farebbe
in questo secolo, nel quale abbiamo moltiplicato le insegne, non saprei a qual
altro uso, fuori di quello di attestare con maggior autenticità le
proprie perdite quando vengon prese da' nemici, stipendiando a tal fine molti
uomini inutili per
Il carattere di Giangaleazzo, si
manifesta bastantemente dalle sue azioni. Sant'Antonino lo ha dipinto con
odiosissimi colori. Il nostro Corio lo dice prudentissimo ed astuto, che
sfuggiva il commercio degli uomini, pigro, timido nell'avversità, e
audace nella prospera fortuna, simulato, vano ed infedele alle promesse. Io
dirò che egli era ambizioso, senza elevazione d'animo, superstizioso,
senza vera religione, mite, senza principio di virtù. Egli non ebbe
l'atrocità del padre e dello zio, ma nemmeno ebbe la franchezza del
carattere del secondo. Tutto in complesso, egli però fu men cattivo
principe di quello ch'essi furono: dal che non risulta gran lode. Nel suo regno
vi sono de' fatti grandi; ma nessuno ve n'ha di nobile e generosa indole. I
sudditi dovettero sopportare pesantissimi aggravii, com'era necessario di fare
per supplire alle grandiose spese che assorbivano le armate, le pompe, le
compre di Stati e di titoli, e tutti i maneggi che prese il duca a trattare. Il
nostro Annalista ci scrive: Dux noster
imposut taleas, conventiones, et mutua intra dominium subditis suis ita magna
et continua, quod ipsis oportebat per peregrina loca vagari, non valentes dicta
onera sustinere, et fuit ululatus viduarum, et orfanorum, et aliorum
singulorum, et maximus strepitus inferiorum, et immensae crudelitates. Et non
valentes solvere detinebantur, et bona sua a stipendiariis usurpabantur[615].
Questi mali però in Milano si dovettero sopportar meno che altrove. Una
popolata capitale, che è patria del sovrano, in una recente signoria,
sempre è rispettata. I clamori sarebbero troppo vicini all'orecchio del
principe. Milano in fatti, alcuni anni dopo, malgrado il disordine che dovette soffrire
sotto il governo del secondo duca, era popolata, ricca ed animata colla
industria. Allora in questa capitale colava il denaro che dovevano portarvi gli
oratori delle trentaquattro città soggette al duca, quello che vi
spendevano i ministri de' principi esteri, quello che vi consumava il duca per
la sua corte e per le sue pompe, quello che si raccoglieva per fabbricare il
Duomo dalla divozione de' cittadini delle altre città; e per conseguenza
aveva mezzi grandi per i tributi. Certamente che il duca pose in opera tutti i
ripieghi per radunare il denaro, e fra questi ricorse ad uno di que' metafisici
ritrovati che, colla idea di tener celato il tributo, opprimono i popoli,
più ancora di quello che non faccia un tributo sinceramente richiesto.
L'Argellati ci ha pubblicata la legge monetaria, colla quale comandò
quel principe che tutte le monete si dovessero spendere a maggior numero di
lire; così che, da quel giorno in avanti, la moneta che correva per tre
soldi, dovesse essere spesa ed accettata per quattro soldi; salvo però
il pagamento de' tributi, che eccettuò e volle che venissero pagati a
ragguaglio dell'antica moneta[616].
Con questa operazione quel sovrano defraudava i suoi creditori e stipendiati
d'una quarta parte di quanto loro competeva. Ma tanti furono gli inconvenienti
di questa indiretta operazione, che poco dopo la dovette rivocare, e restituire
le monete al primiero loro corso; di che ne ha trovati i documenti il conte
Giulini nell'archivio della Città[617].
La superiorità che aveva il Visconti sopra degli altri principi
confinanti si conosce dalle frasi che adoperava nelle lettere ch'egli scriveva;
e ciò anche da principio, avanti che avesse tanto dilatato il suo
dominio ed acquistata la dignità ducale. Il Corio[618]
ci trascrive le lettere che Gian Galeazzo scriveva ad Antonio della Scala,
sovrano di Verona e di Vicenza, e le risposte che da quel principe riceveva.
Allo Scaligero il Visconti scriveva nulla più che Vir Magnifice; ed
esso, nella risposta al Visconti, Illustris et excelse Pater noster
praeclarissime. Nel corpo della lettera il Visconti scriveva nobilitati,
vestrae, e nulla più; e lo Scaligero, Excelsa, Paternitas vestra,
ovvero Pater Excellentissime. Anche nel carteggio colla repubblica
fiorentina si manifestava il superiore riguardo che avevasi per il Visconti.
Egli scriveva Magnifici fratres carissimi; ed essi nelle risposte
dicevano: Magnifice et Excelse Domine, frater et amice carissime; e nel
corpo della lettera, Excellentia vestra.
Il duca Giangaleazzo, malgrado la
severa pietà che dimostrava sino alla ipocrisia, lasciò, morendo,
un figlio naturale, nato da Agnese Mantegazza. Questi aveva nome Gabriello
Visconti; e il padre, nel suo testamento, lo fece sovrano di Pisa e di Crema.
Nel testamento medesimo, egli divise a suo arbitrio lo Stato; poiché al cadetto
(de' due figli legittimi ch'ei lasciò, nati dalla duchessa Catterina,
figlia di Barnabò), non solamente lasciò la contea di Pavia, che
aveva ottenuta come un feudo separato, ma vi aggiunse Novara, Vercelli,
Tortona, Alessandria, Verona, Vicenza, Feltro, Belluno e Bassano; città
tutte staccate dal ducato, il quale doveva pure, in virtù del diploma e
colla legge de' feudi, passare interamente nel primogenito, che era Giovanni
Maria. Il primogenito adunque rimase duca di Milano; il cadetto restò
conte di Pavia; s'intitolò il primo: Johannes Maria Anglus, dux
Mediolani, etc., comes Angleriae ac Bononiae, Pisarum, Senarum ac Perusii; e
il secondogenito prese a chiamarsi: Philippus Maria, comes Papiae, et
Veronae dominus.
Dalla metà del secolo
decimoquarto sino alla metà del secolo decimoquinto, per lo spazio di
cento anni, la storia di Milano presenta come una figura colossale mal
connessa, di cui ora si raccozzano ed ora cadono i pezzi; che però in
nessuna parte mostra vaghezza od eleganza, ma rappresenta una figura truce e
deforme. Tale fu l'indole di que' tempi e di que' governi, nei quali della
virtù appena si conosceva il nome; sotto a principi che considerarono
gl'interessi loro, non solamente staccati, ma opposti a quelli del loro popolo,
che opprimevano e saccheggiavano anzi che governarlo. Ad onta però dei
vizi de' sovrani, Milano s'andò arricchendo; si animò
l'agricoltura, si aumentò sempre la popolazione, l'industria si
moltiplicò. Perché la capitale d'un vasto impero, collocata in mezzo
d'una fertile pianura, e comandata da un sovrano (che, malgrado
l'atrocità, predilige sempre i suoi concittadini), non può a meno
che non cresca. Morto il duca Giovanni Galeazzo, cadde la gran mole dello Stato
sotto il governo di due minori. Giovanni Maria, primogenito e nuovo duca, aveva
appena quattordici anni, e dieci e non più ne aveva Filippo conte di
Pavia, di lui fratello minore. Sarebbe stato difficile in que' tempi il
conservare illesa la dominazione, quand'anche il ducato di Milano fosse stato
un principato antico, consolidato dalla opinione de' popoli, e la duchessa vedova
tutrice fosse stata d'animo bastantemente elevato ed energico per sostenere il
peso del governo. Ma oltre i mali inseparabili dalla minorità, lo Stato
era un recente aggregato di conquiste, di usurpazioni, di compre; e nessun
altro titolo v'era per convincere i popoli della legittimità della nuova
dominazione, che
Il duca Giovanni Maria, mentre
stavasene occulto nel palazzo ducale, nel tempo in cui i suoi Stati erano
ceduti, invasi, saccheggiati, ovvero oppressi senza di lui saputa in suo nome,
s'annoiò della compagnia della vedova duchessa sua madre, fors'anco per
qualche buon ricordo che ella gli desse. Come la cosa andasse non lo sappiamo.
La condotta del duca Giovanni Maria era
quella d'un vero pazzo furioso; poiché nel mentre ch'egli insultava
l'umanità, la giustizia, la natura istessa coi mastini, compagnia degna
di un tal principe, egli sopportava che Facino Cane a suo pieno arbitrio non
solamente dominasse Alessandria, Tortona, Novara ed altre terre, ma disponesse
da sovrano, e in Milano ed in Pavia, ogni cosa a suo piacimento, per modo che
il Biglia ci lasciò scritto: nec multo post Facinus Mediolanum
advocatur, ut nihil jam illi ad utriusque dominium praeter nomen deesset, omnia
uni parebant, omnia pro illius imperio statuebant, ne tanto quidem ad impensas
juvenum relicto quod vitae satisfacerent[623].
Appena i due giovani principi avevano di che mangiare. Il duca aveva fatta
colla città di Milano una convenzione, la quale si trova nell'archivio
della città, e venne pubblicata dal conte Giulini[624].
In vigore di tal carta egli si sottopose in molta parte a que' limiti che
presentemente fissa la costituzione della Gran Brettagna al sovrano, almeno per
riguardo al tributo. Le regalie tutte le cedette alla città, alla quale
diede in proprietà ogni sorta di carico non solo, ma persino gli stessi
beni suoi allodiali; e ciò a condizione che la città gli sborsasse
sedicimila fiorini al mese, ossia centonovantaduemila fiorini all'anno. Il
primo duca aveva da tutto il suo Stato un milione e duecentomila fiorini all'anno[625];
ma ora non rimaneva a questo secondo duca se non Milano, e non era tenue quella
somma per que' tempi. Né questo fu pure il limite a cui si tenne il duca. Volle
che la città diventasse, in certo modo, anche amministratrice dei
centonovantaduemila fiorini; e stabilì che per la sua persona se gli
sborsassero ogni mese duemilacinquecento fiorini, per mantenimento della sua
corte, cavalli, tavola e vestito: del rimanente la città doveva pagare
ottomila fiorini di stipendio per ogni mese a cinquecento lance, tremila
fiorini al mese per lo stipendio di mille fanti, mille altri fiorini al mese
per la guardia del corpo, e millecinquecento fiorini al mese per soldo ai
consiglieri ed ai giudici. Questo contratto (che dava una esistenza morale al
corpo politico, creandolo legittimo percettore del tributo, e un essere vivente
interposto fra il sovrano ed il suo popolo, avendo un debito fisso col primo,
ed un dritto e una giurisdizione sul secondo) poteva essere una nobilissima
beneficenza verso della patria in tutt'altro principe; ma era una stolida
imbecillità in quel Giovanni Maria, incapace di governare. Tutto era in
combustione e in disordine: Vulgus quidem, dice il Biglia, annonae
copia delinitum; caeteri, quicumque bonorum civium loco essent, intolerandis
tributis gravabantur... Multi vel publica vel privata licentia interfecti[626].
I mali pubblici, l'odio contro l'infame duca, il profondo disprezzo che
si era egli meritato, giunsero finalmente al colmo. (1412) I due fratelli
Andrea e Paolo Baggi, ai quali il sovrano aveva fatto ammazzare un fratello
chiamato Giovanni; Giovanni della Pusterla, nipote dell'infelice castellano di
Monza sbranato da' cani, e cugino dell'altro disgraziato fanciullo scannato;
Francesco e Luchino del Maino, cui il duca aveva fatto decapitare due fratelli,
e sbranare da' cani Bertolino, loro parente, si collegarono, e varii altri ad
essi si unirono per togliere dal mondo quel mostro crudele, pazzo, debole,
imbecille e ferocissimo; e il giorno 16 di maggio dell'anno 1412 lo colsero,
non si sa bene se nella chiesa di San Gottardo, ovvero in una sala di corte
mentre s'inviava alla chiesa, e lo lasciarono sul momento morto dalle ferite.
Il duca Giovanni Maria così terminò la obbrobriosa sua vita,
nell'età giovenile di ventiquattro anni non per anco compiuti, dopo di
aver portato il nome di duca per quasi dieci anni. La universale detestazione contro
di lui si manifestò con segni inusitati, poiché nemmeno si volle rendere
al di lui cadavere il vano onore della pompa funebre: e una donna della
pubblica prostituzione fu la sola che diede un segno di pietà,
gettandogli sopra un canestro di rose. L'infame Squarcia Giramo fu dalla plebe
còlto e strascinato per le strade, indi appeso per la gola alla sua
casa.
Alcuni de' nostri scrittori hanno
preteso di farci credere che il duca Giovanni Maria coltivasse le belle
lettere; se ciò mai fosse, ridonderebbe un tal fatto piuttosto in
disonore delle lettere che in lode di quell'anima perversa; perché proverebbe
che si può anche da un cuore insensibile gustare la venustà e la
grazia del Petrarca, il che però sembra una contraddizione. So che la
filosofia, le lettere, la musica, la pittura, le arti tutte hanno i loro
ipocriti, come gli ha la virtù, come gli ha la religione; ma un giovine
dissoluto che si diverte a far lacerare gli uomini dai cani, non è sulla
strada d'alcuna ipocrisia.
Sarebbe un problema da esaminarsi
tranquillamente da un uomo ragionevole e non ambizioso, se veramente Matteo
Visconti abbia procurato un bene a se stesso e alla sua casa, innalzandosi al
trono. Lo stesso Matteo I morì di rammarico per gl'interdetti e le scomuniche;
Galeazzo I, suo figlio, cessò di vivere per i lunghi patimenti sofferti
nel carcere; Stefano perì di veleno; Marco venne gettato da una
finestra; Luchino fu avvelenato dalla moglie; Matteo II fu ucciso violentemente
dai fratelli; Barnabò morì in carcere a Trezzo di veleno;
Giovanni Maria fu trucidato. È una gran massa di sventure cotesta,
accadute ad una famiglia in meno di cento anni! Nella condizione privata
è ben difficile che ne accada altretanto. Azzone e Giovanni furono i due
soli principi felici, perché sensibili, benèfici e virtuosi, ma fu breve
il loro regno. Egli è vero però che questo seguito di miseri casi
nacque per i vizi di que' sovrani; quando, nella serie di cinque secoli
dell'augusta casa d'Austria non troveremo veruna traccia de' mali che in meno
d'un secolo sopportarono i Visconti.
Il duca Giovanni Maria non
lasciò figli: Juvenem his monitis imbuerunt, dice il Biglia, ut
jam uxorem, si non repudiatam, certe pro dissociata haberet[627];
né della duchessa Antonia, figlia di Malatesta de' Malatesti, si è
inteso più cosa alcuna. Filippo Maria era giunto all'età di
vent'anni. Egli era il solo avanzo che rimanesse nella discendenza di Gian
Galeazzo; ma se ne stava nascosto e pauroso nel castello di Pavia; solo spazio
sicuro che gli restava sulla terra. Pavia, Milano e tutto il rimanente dello
Stato, era occupato da piccoli sovrani. Quasi ogni città si era creato
un conte. Il più potente fra questi nuovi divisori del dominio era,
siccome dissi, Facino Cane, al di cui stipendio viveva una schiera di militi
de' migliori di que' tempi, avvezza a vincere sotto il comando di Facino. Egli
in fatti era il padrone di Milano, di Pavia, di Alessandria, di Novara, di
Tortona e di altre terre; e non gli mancava altro che il titolo di duca. Anzi
vi è tutta l'apparenza di credere che lo sarebbe diventato, e colle armi
avrebbe ricuperato per se medesimo la successione del primo duca, poiché fu
estinto Giovanni Maria, e nessun altro rimaneva che il timido Filippo Maria;
ostacolo di mera opinione, facile a togliersi colla fede e colla morale di quel
secolo d'orrore. Ma il potere supremo dispose altrimenti, e decretò che
nel medesimo giorno 16 di maggio dell'anno 1412 Giovanni Maria morisse
trucidato in Milano, e Facino Cane morisse in Pavia di natural malattia. Il
momento era giunto al fine in cui i figli dell'oppresso Barnabò
potessero far valere le loro ragioni. Non v'era forza che potesse far loro
valida resistenza; e il governo civile di Milano era talmente sconnesso ed
incerto, che nulla più doveva costare ad essi impadronirsene che lo
stendervi
Stavasene il duca Filippo Maria
inaccessibile nel castello di Milano, senza che mai fosse veduto nella
città. Le strade di Milano, le mura istesse diroccavano, e si lasciavano
senza riparazioni. Quel principe credeva all'astrologia; e questa era forse
anco la sola norma della sua morale e di tutte le sue azioni. Quando la luna
era in congiunzione col sole, egli s'intanava in qualche angolo del castello
più solitario, e non voleva mai dare risposta, né permetteva nemmeno che
alcuno la desse per lui. Aveva una macchina egregiamente lavorata; quest'opera
di orologeria dinotava il movimento dei pianeti, e quest'era l'oggetto della
più frequente osservazione del duca. Se taluno lo interpellava per avere
i suoi ordini del momento che egli credesse infausto, o taceva, ovvero
rispondeva soltanto: aspetta un poco. Egli aveva i suoi astrologi, i
quali erano i più cari di lui consiglieri, e quelli che influivano
più d'ogni altro nel governo dello Stato. Le forze del duca Filippo
Maria ci vengono descritte da Andrea Biglia. Il conte Francesco Carmagnola era
alla testa degli stipendiati ducali. Settecento cavalieri formavano la guardia
del corpo: il Biglia li chiamava familiares. Due squadroni, ciascuno di
settecento cavalieri, formavano due corpi di lance spezzate, lanceas
laceras. Aveva altra cavalleria comune, in tutto quattromila cavalli.
D'infanteria egli aveva allo stipendio mille uomini scelti, tutti coperti di
lucidissime armature, qui totis armis lucerent; e il rimanente dei
fantaccini, ben corredati, ascendeva a più di quattromila uomini[628].
Tale armata si preparava a marciare contro del marchese di Monferrato; il
quale, per evitare la guerra, cedette al duca Vigevano. (1418) Così il
duca, da Beatrice Tenda, ottenne la ricuperata sovranità di Milano,
Pavia, Lodi, Como, Vigevano, Alessandria, Tortona e Novara; e da queste otto
città e dall'armata ebbe i mezzi per dilatare nuovamente i confini dello
Stato, siccome fece. Doveva il duca venerare la sua benefattrice più
della stessa sua madre. A lei doveva tutto, persino l'esistenza, che gli
sarebbe sicuramente stata levata, se non aveva il di lei soccorso. Essa con
tutto ciò soffrì il trattamento di essere (malgrado l'età
sua e la sua virtù) dal marito incolpata d'avergli violata la fede per
un giovine cavaliere, nominato Michele Orombello, che era al di lei servizio.
Questo giovine era veramente di amabile aspetto e di pari maniere; e talvolta
la duchessa passava qualche ora con minore noia, facendolo suonare il liuto.
Volle il duca che venisse imprigionata in Binasco l'infelice Beatrice Tenda; e
il non meno disgraziato cavaliere fu parimenti posto nei ferri. Si fecero
soffrire ventiquattro strappate di corda alla duchessa, come ci narra il Corio[629].
Furono condannati e l'una e l'altro a perdere la testa sotto la scure; il che
si eseguì in Binasco nell'infausta notte susseguente al giorno 13 di
settembre dell'anno 1418. Il Corio ci attesta che, per liberarsi dagli strazi
della tortura, la duchessa incolpasse se medesima; ma poi, in presenza degli
ecclesiastici che l'accompagnarono al patibolo, prima di sottoporvi il capo,
chiamasse Iddio in testimonio dell'incolpabile sua innocenza. Ci dice il Biglia
che il giovine Orombello, lusingato di potere sfuggire il supplicio calunniando
la duchessa, preferisse la vita alla virtù, sebbene in fine perdesse e
l'una e l'altra; e che la duchessa, avanti il patibolo, da donna forte e
virtuosa, rimproverasse la vile colpa all'Orombello, e protestando la innocenza
propria, chiamandone testimonio Iddio, piegasse il capo alla mannaia. Fosse il
peso d'un troppo grande beneficio insopportabile all'anima del duca; fosse
ambizione, per cui si sdegnasse d'aver per moglie una che non era di famiglia
sovrana; fosse noia d'avere una compagna d'un'età matura; fosse l'amore
ch'egli già nutriva per Agnese del Maino, colla quale visse poi sempre,
ed a cui null'altro mancò se non il nome di moglie; fosse una trama di
qualche abbietto favorito, a cui non tornava bene che il duca ascoltasse fedeli
consigli; fosse perfine ciò prodotto da qualche astrologica predizione
che promettesse al duca felicità da un tal colpo; qualunque ne fosse il
motivo, tale fu la mercede che Filippo Maria seppe rendere ai benefici ricevuti
da quella sventurata donna. Trema la mano nello scrivere tali abbominazioni!
La città di Piacenza era stata
occupata da principio da Facino Cane; poi se n'era preso il dominio Filippo
Arcelli. Il fratello ed il figlio di questo signore caddero in potere del duca;
il quale, memore di quanto col Fogliano aveva quarantasei anni prima fatto
Barnabò, fece piantare a vista di Piacenza due forche, e fece intimare
la resa a Filippo Arcelli, minacciandogli altrimenti di fare impiccare Bartolomeo
e Giovanni, il fratello ed il figlio. Non credette Filippo che il duca volesse
a tal segno disonorarsi, e ricusò di cedere
Le avventure del conte Carmagnola sono
interessanti. Il momento in cui sconsigliatamente volle il duca disgustare quel
benemerito generale, fu quello in cui la fortuna dello Stato si cambiò;
e laddove sino a quell'ora sempre la vittoria, le conquiste o le dedizioni
avevano contrasegnati gli anni del suo regno, da quel punto cominciò a
contrasegnarli colle inquietudini, colle sconfitte, colle umiliazioni e colle
perdite. Appena era partito il conte, che il duca stese la mano confiscatrice
su tutti i poderi suoi, e si riprese tutt'i doni che gli aveva fatti. Tese
varie insidie per averlo prigione; ma non gli riuscirono. Tentò il
veleno, e certo Giovanni Liprandi, milanese, che aveva per moglie una Visconti,
provossi a Treviso di avvelenare il conte: il che verificato, perdé poi la
testa a Venezia. A tali infami azioni s'abbassava il duca per consiglio di
Zanino Riccio, e d'altri vigliacchi ed astrologi, pari a lui, mentre in vece
con qualche onesto partito nulla sarebbe riuscito più facile che
l'accomodarsi col Carmagnola, già affezionatissimo nel suo cuore al
Visconti, siccome accade sempre di esserlo, quando si sono fatti insigni
benefici, pe' quali amiamo il beneficato come cosa nostra. Il conte, pagato con
tanta ingratitudine, insidiato in così bassa ed atroce maniera, conobbe
non rimanergli più altro partito che l'operare da nemico. Egli adunque
consigliò ai Veneziani di legarsi co' Fiorentini. Temevano i primi di
perdere Verona e Vicenza, occupate recentemente sotto l'infame governo dell'ultimo
duca. I Fiorentini vedevano già nuovamente inoltrata nella Romagna
quella sovranità de' Visconti, che ventiquattro anni prima aveva esposto
all'estremo pericolo la loro repubblica; quindi si unirono co' Veneziani.
(1426) Il re
Più ancora di quelle del
Carmagnola interessano la storia di Milano le vicende di Francesco Sforza.
Questi era romagnuolo. La di lui famiglia era di Cotignola. Il primo che s'era
fatto qualche nome, era il di lui padre Giacomo Attendolo (tale era il vero di
lui cognome); poiché, servendo questi sotto il comando del conte Alberico di
Zagonara, da esso ebbe il sopranome Sforza, il quale passò nel di
lui figlio Francesco, e divenne poi nome di casato. Francesco Sforza (che fu
poi il quarto duca di Milano, e il più grand'uomo e il più gran
principe del suo tempo) nacque in San Miniato, il giorno 23 luglio dell'anno
1401, ed ebbe per madre Lucia Trezania. Niente ancora vi era d'illustre in lui,
se non l'ardor militare, ed il nome che nella milizia si era fatto suo padre.
Egli aveva ventiquattro anni, allorché, sulla fama del valore da lui mostrato
nel regno di Napoli, il duca lo invitò al suo stipendio, disgustato che
ebbe il conte Carmagnola. Una delle prime imprese che Francesco Sforza ebbe in
commissione dal duca, fu quella di soccorrere Genova, attaccata dai nemici; ma
ne uscì con poca fortuna, poiché, innoltratosi imprudentemente e con
inconsiderato impeto, fu malamente battuto e posto in fuga; per lo che il duca
lo rilegò per due anni a Mortara, ove rimase privo di stipendio.
Terminato il castigo, i cortigiani del duca, non saprei per qual motivo,
cercarono di fargli entrare in grazia Francesco Sforza; e la cosa giunse a
segno che, non avendo altri discendenti il duca, fuori che una figlia naturale
chiamata Bianca Maria, pensò di darla a Francesco Sforza. Bianca Maria
era nata da Agnese del Maino, colla quale viveva il duca come se fosse vera sua
moglie. Quella donzella non aveva per anco finiti gli otto anni, allorché il
duca, l'anno 1432, il giorno 13 di febbraio, stabilì il contratto di
nozze. Considerava in quel momento il duca di farsi per adozione un figlio, al
quale passare il suo Stato, e quindi interessarlo a difenderlo: figlio tanto
più caro, quanto più quel meschino principe era lacerato nella
solitudine da' timori che Zanino Riccio e i suoi pari facevano nascere contro
de' generali; i quali naturalmente non si saranno degnati mai di mostrare
deferenza a quella feccia di uomini da cui era il duca attorniato. Cercavano,
innalzando lo Sforza, di umiliare il Piccinino, il Torello e gli altri. Ma
poiché lo Sforza fu innalzato, la di lui ombra dispiaceva a quei raggiratori,
temendo forse un avvenire cattivo per essi. E perciò si posero colle
arti consuete a gettare il veleno nell'animo del principe, loro schiavo, e a
fargli nascere il pentimento e la diffidenza, a segno che il duca pose delle
insidie persino alla vita del disegnato suo genero. Francesco Sforza se ne
uscì dalle mani del duca, si ricoverò presso de' Fiorentini,
nemici de' Visconti, e si pose al loro stipendio. Si collegarono i Fiorentini e
i Veneziani a danno del duca, e il generale comandante delle armi collegate fu
lo stesso Francesco Sforza. Anche il papa aveva acceduto alla lega. Io non
descriverò, nemmeno questa volta, le minute azioni militari. Dirò
soltanto che gli affari del duca piegavano assai male. Il duca era giunto
all'età di cinquant'anni. Egli era mostruosamente pingue, e la
sanità sua diventava inferma. La vita inerte che menava, ed i sospetti
continui fra quali veniva tenuto dagli officiosi nemici che aveva intorno,
affrettarono la di lui morte; egli s'accorgeva della propria decadenza. I
generali di questo invisibile sovrano (che non si era mai presentato una sol
volta in vita al nemico, che dava e toglieva il favore a norma de' pianeti non
solo, il che sarebbe a caso, ma dei maligni interessi di quei poltroni che gli
stavano intorno) cominciarono a fare un accordo fra di loro per dividersi
Il Sassi[633]
e l'Argelati[634]
pretendono che il duca Filippo Maria amasse e proteggesse le lettere. Il
Decembrio, che tanto minutamente ha scritta la di lui vita, e che fu testimonio
delle azioni di lui, ci assicura diversamente: humanitatis ac litterarum studiis
imbutos neque contempsit, neque in honore praetioque habuit, magisque admiratus
est eorum doctrinam, quam coluit[635].
Ci racconta lo stesso autore che Antonio Raudense aveva tradotte in italiano a
Filippo Maria alcune vite degli uomini illustri, senza che il duca lo avesse
mai nella sua grazia; sebbene quel traduttore gli rendesse intelligibili quei
monumenti che il primo non poteva capire nella loro lingua originale. Francesco
Barbula, poeta greco di qualche merito, rifugiatosi a Milano, non poté ottenere
dal duca nemmeno il viatico per portarsi altrove. Ciriaco Anconitano, uomo di
lettere, fu scacciato dalla corte del duca. Tutta la vita di quel principe ci
dimostra ch'egli non era capace di sentire alcuna stima. Questa emozione non la
provano se non le anime che la meritano.
Ci rimane un testimonio autentico della
rozza imperizia di quel principe nelle monete battute durante il suo governo,
nelle quali per lo più è scolpito il nome Filipus con due
errori nel suo medesimo nome. Un altro solenne monumento ne abbiamo nella
barbara poesia sotto la statua di Martino V, giacché sotto di un principe colto
non si sarebbero posti i versi seguenti:
Cerne, viator, ave, hic stat imago
simillima papae
Qui bonus Ecclesiam Martinus in ordine
quintus
Pastor alit tibi, Roma etc...
Carminis est Bripius Joseph, ordinarius,
auctor,
Doctor canonici juris, sacraeque
magister
Teologiae etc.[636]
come più diffusamente può
vedersi nel Duomo, ove in segno d'onore venne collocata sopra la barbara
iscrizione la non meno barbara statua, di cui si legge:
... Ast hic praestantis imaginis auctor
De Tradate fuit Jacobinus, in arte
profundus,
Nec Prasitele minor, sed major farier auxim.[637]
Non posso perdonare a taluno de' nostri
autori storici, l'aver voluto paragonare ad Augusto il meschinissimo Filippo
Maria, e farlo un protettore delle lettere e dei letterati. Egli era, convien
dirlo, un principe da nulla. È vero che alcune epoche del regno di
questo duca hanno un aspetto grandioso e brillante, né sembrano volgari. Quando
le truppe ducali sotto del Carmagnola fecero prigioniere il comandante istesso
nemico, Lodovico Migliorati, fu questi condotto a Milano, indi accolto dal duca
con magnifica generosità; e poi da lui rilasciato onorevolmente libero e
colmo di regali. Più illustre riuscì il fatto seguente. Il duca
aveva preso parte in favore de' Francesi, che disputavano agli Spagnuoli il regno
di Napoli. Ei fece uscire dal porto di Genova una flotta in aiuto dei Francesi,
o, come allora dicevasi, degli Angioini contro degli Aragonesi. La flotta
genovese fece sì bene, che prese i due re di Navarra e di Aragona; e con
essi rientrò nel porto di Genova; togliendo i competitori alla casa
d'Angiò. Il duca ordinò che questi illustri prigionieri venissero
scortati a Milano, e il giorno 15 di settembre dell'anno 1435 Filippo Maria fu
per questo insolito caso visibile, ed ammise alla sua udienza nel castello di
Il regno di Filippo Maria durò
per trentacinque anni di guerra quasi continua. Giammai i trattati di pace
furono tanto insignificanti come allora; poiché il giorno dopo si violavano se
conveniva, e la fede pubblica si considerò una parola senza alcuna idea.
Non ho voluto fare la storia di molte marziali vicende troppo uniformi, la
minuta notizia delle quali sarebbe un peso inutilissimo alla memoria, poiché
nessun lume somministrerebbe, o per meglio conoscere lo stato de' tempi, o per
l'arte militare medesima. Avrei pur bramato di trovare qualche germe almeno di
virtù in que' tempi; ma l'ho cercato in vano. Le fisionomie degli uomini
ch'ebbero parte negli affari pubblici, mi si presentarono tutte bieche ed
odiose. La fede e la probità erano celate allora nell'oscurità di
qualche famiglia, e nel magazzino dei negozianti. La virtù nasconde e
copre la sua esistenza nell'asilo della privata fortuna per essere sicura
contro i colpi del vizio, quand'egli è armato e trionfante come in que'
tempi. Non può incolparsi a malignità di messer Niccolò
Macchiavello s'egli ha dato per norma ai principi una pessima morale. Egli era
un pittore che fedelmente ci rappresentava gli oggetti quali erano allora; la
colpa sua è quella di non aver osato di esaminare la fallacia della
politica che generalmente si praticava: io ne do la colpa alla mente, piuttosto
che al cuore di quell'autore. Per vedere anche in piccolo la fede di que'
tempi, aggiungo un fatto solo. Già dissi che il duca, l'anno 1419, aveva
comprato da Gabrino Fondulo la città di Cremona, collo sborso di
trentacinquemila ducati. Gabrino si era però riservato per sé
Castelleone, luogo forte del Cremonese, ove tranquillamente da sei anni
dimorava. Volle il duca possedere anche quella fortezza, la quale difficilmente
avrebbe superata colle armi. Fu scelto Oldrado Lampugnano, amico di Gabrino,
per tradirlo; e vi si prestò benissimo Oldrado. Si portò egli sul
Cremonese con alcuni armati, mostrando commissione di visitare le terre del
duca; e, fatto posa avanti Castelleone, spedì un uomo entro della
fortezza, chiedendo un maniscalco per ferrare un cavallo, e frattanto lo
incaricò di salutare il suo amico Gabrino, e dirgli che verrebbe ad
abbracciarlo, se la fretta di proseguire il cammino non glielo vietasse.
Gabrino Fondulo, disarmato e senza alcun sospetto, immediatamente uscì
per salutare anche per un momento il creduto amico. Oldrado Lampugnano lo
arrestò e lo tradusse a Milano: la famiglia del Fondulo fu posta nei
ferri; il suo tesoro, nel quale si trovò anche una prodigiosa quantità
di perle, fu confiscato; e Gabrino fu decapitato in Milano il giorno 21 di
febbraio del 1425. Due anni dopo Oldrado Lampugnano, che aveva sacrificato la
virtù e l'onore per ottenere la grazia del duca, perdette anche quella,
e rimase colla esecrazione di se medesimo.
(1447) Il duca Filippo Maria
morì il giorno 13 di agosto l'anno 1447, nel castello di Milano, dopo
una settimana di malattia, nella quale non permise mai che alcun medico gli
toccasse il polso. Egli morì con molta indifferenza. Corpulento sino
alla deformità, da alcuni anni sentivasi opprimere dal peso proprio. La
fortuna, da che aveva perduto il Carmagnola, eragli stata quasi sempre nemica;
s'aggiugneva a questi mali la cecità, che da più mesi era in lui
totale, sebbene simulasse di vedere: caecitatem sic erubuit, ut visum
simularet, cubicularibus clamculum eum admonentibus[640],
dice il Decembrio[641]:
onde, sebbene non oltrepassasse il cinquantesimoquinto anno, era ridotto come
un vecchio decrepito. Io non ho accennato ancora le seconde nozze contratte dal
duca colla principessa Maria di Savoia; poiché ella non ottenne se non se il
nome di duchessa, e l'amica del duca fu sempre Agnese del Maino, madre di
Bianca Maria; e si leggono in un antico messale che si conserva nella cospicua
raccolta del signor don Carlo dei marchesi Trivulzi, le orazioni che allora si
recitavano nella messa per quella compagna del duca, quasi ella fosse tale colla
sanzione de' sacri riti[642].
Il duca, senza eredi, senza prossimi parenti, così morì. Fu
seppellito tumultuariamente nel Duomo. Se vivesse allora Zanino Riccio, nol so.
L’erario, del duca venne saccheggiato da' suoi famigliari, i quali si divisero
diciasettemila ducati d'oro. Francesco Sforza era nella Romagna, né poteva
allegare titolo alcuno per il dominio di Milano. Innocenzo Cotta, Teodoro
Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolommeo Moroni furono i capi
dei Milanesi che progettarono di ricusare la signoria d'un solo come una pessima
pestilentia, dice il Corio; ed avevano ben ragione di così
risguardarla, poiché avevano provato che in dodici principi, due soli erano
stati buoni, Azzone e Giovanni arcivescovo; tollerabili quattro, cioè
l'arcivescovo Ottone, Matteo I, Galeazzo I e Luchino; e gli ultimi sei che
finalmente erano succeduti, non presentarono che vizi e detestabili tirannie.
La città adottò quel partito. Si demolì il castello di
Milano, e molte città dello Stato imitarono quest'esempio, come vedremo
nel seguito della storia. Così terminò la sovranità della
casa Visconti e la discendenza di Matteo, la quale ebbe, senza interruzione, la
signoria di Milano pel corso di centotrentasei anni, ed erano già
trentaquattro anni da che grandeggiava per averla, quando l'ottenne.
Prima di terminar questo capitolo
convien dare un'idea dello stato in cui trovossi Milano ne' tempi ultimi de'
quali ho scritto. Le città possono talvolta crescere ed ingrandirsi
anche sotto un odioso e viziato governo; purché i vizi di quello direttamente
non offendano i principii e le cagioni della prosperità del popolo. Non
furono vessati i sudditi con eccessivi tributi sotto Filippo Maria; la
proprietà de' cittadini non fu violata; le guerre si fecero al di fuori,
e la città non ebbe a soffrirne; la pestilenza, che andava girando, e
più d'una volta, non lungi da Milano, non vi penetrò. Crebbe
quindi la popolazione; si ammassarono le ricchezze in questa capitale d'un
vasto dominio; si rivolsero i cittadini all’industria del commercio; giacché
sotto di quel governo nessun uomo di mente poteva ambire altra carriera; e
così Milano diventò una tanto poderosa città, sì
che nacque il proverbio poi, che conveniva distruggere Milano per rinvigorire
l'Italia, come ci annunziò un autore imparziale. Quid dicam de
Mediolano, potentissima Italiae civitate, Galliaeque Cisalpinae metropoli; in
qua tam multa, tamque diversa artificum genera, tantaque frequentia, ut inde
vulgo sit natum proverbium, qui Italiam reficere velit, eum destruere
Mediolanum debere[643].
Andrea Biglia, scrittore di quel tempo, ci dà idea della popolazione di
Milano: nempe ut facile existiment posse in ea civitate super triginta hominum
millia armari[644];
e non sarebbe esagerazione il supporre che il solo dieci per cento della
popolazione fosse atto alla milizia. Immenso fu il popolo che uscì
incontro a papa Martino V, che venne da Costanza a Milano nell'ottobre del
1418. Il duca Filippo ebbe l'onore di avere a suoi ospiti in Milano un papa, un
imperatore e due re, e questi due ultimi suoi prigionieri. Lo stesso Biglia ci
dà una prova, ancora più precisa, delle forze della città
di Milano in quel tempo. L'anno 1427, il Carmagnola, alla testa delle armi
venete, aveva angustiato lo Stato del duca, il quale pensava ai mezzi per
Non sarà forse discaro a miei
lettori ch'io aggiunga alcune osservazioni a quel bilancio del commercio, fatto
dal Sanuto. Da Venezia ci si trasmettevano i cotoni: il valore de' cotoni
allora era otto volte maggiore che non lo è di presente: le strade del
commercio oggidì sono aperte, e ciascuna nazione procura, per vendere
presto, di contentarsi d'un minor guadagno; allora i pochi che lo possedevano,
erano arbitri del prezzo. Ho pure osservato che allora noi prendevamo appena la
metà del cotone che adesso ci spediscono gli esteri; poiché le fabbriche
delle bombagine e fustagni allora non esistevano presso di noi, e questa
manifattura era de' Cremonesi. Questa odierna manifattura ci porterà
più di settantamila gigliati per la vendita di trentamila pezze, che
attualmente ne facciamo agli esteri. La seconda osservazione cade sul
lanificio. La lana ce la vendevano i Veneziani allora più a buon
mercato, cioè circa il sessanta per cento meno che non vale
presentemente. È probabile che molte pecore si alimentassero su i nostri
prati; e che la lana fina non ci venisse da Venezia. Lo stato intero di Milano
spediva allora a Venezia cinquantamila pezze di panni. Ora le cose sono
cambiate. Il lanificio, preso tutto insieme, costa allo Stato l'uscita di
ducentocinquantamila zecchini ogni anno; i soli pannilani dobbiamo comprarli
dagli esteri per settantamila gigliati. La terza osservazione risguarda la seta
e suoi lavori; allora ne ricevevamo da Venezia di seta e drappi d'oro pel
valore cospicuo di ducati ducentocinquantamila; naturalmente una buona porzione
si sarà rivenduta. Oggidì però l'articolo della seta, computato
tutto, darà in vece l'utilità d'un milione di ducati, ossia
zecchini, ed è la principale ricchezza delle nostre terre. La quarta
osservazione appartiene alle droghe; e per esempio di pepe e di cannella allora
se ne introduceva assai più che non facciamo al dì d'oggi; e di
questi capi allora nelle mense v'era maggiore consumo, e ciò oltre il
commercio secondario che da noi se ne faceva col rivenderli. Oggidì
consumiamo appena ottantamila libbre di pepe; il che ci fa pagare agli esteri
ottomila ducati, ossia gigliati, ed allora ne compravamo per ducati
trecentomila; cioè si spendeva allora in un anno per questo articolo
quanto si spende appena in trentasei anni a' nostri giorni. Della cannella dico
lo stesso; allora spendevasi il quadruplo in paragone de' tempi nostri, poiché
ventimila libbre, che costano circa sedicimila zecchini, sono presso poco la
quantità annua che oggidì ne consumiamo. In quinto luogo ho
osservato che dello zucchero invece ne abbiamo notabilmente ampliato il
consumo; giacché allora seimila centinaia ne ricevevamo, ed ora ne consumiamo
sedicimila centinaia. Il prezzo altresì dello zucchero è
notabilmente scemato in paragone di quello ch'era allora; poiché seimila
centinaia valevano ducati novantacinquemila, ed ora sedicimila centinaia si comprano
con settantamila ducati. L'uso del mele era comune in quei tempi; e vi si
è poi sostituito lo zucchero, dappoiché le navigazioni alle Indie
Orientali, e le copiose piantagioni d'America l'hanno reso una droga più
comune. Cade la sesta osservazione sul sapone, per acquistare il quale allora
spendevasi ducentocinquantamila ducati, cioè il decuplo di quello che
ora spendiamo, ricevendone dagli esteri non più di circa quarantamila
rubli; ma allora ne facevamo rivendita, e forse non v'erano alcune fabbriche
nel paese che ora ne ha. L'ultima osservazione cade sopra un legno da tintura
chiamato verzino, che allora era enormemente caro, e costava seicento volte
più che ora non vale: ne ricevevamo allora migliaia quattro, valutate
ducati centoventimila; ora ne riceviamo più di venti migliaia, le quali
ci costano mille ducati d'oro; ma il Capo di Buona Speranza non fu scoperto se
non l'anno 1497 da Vasco de Gama, sotto il re Emanuele IV di Portogallo, e
l'America non fu scoperta dal Colombo che l'anno 1491.
Prima ch'io narri gli avvenimenti della
repubblica di Milano, vuolsi esaminare brevemente in quale stato trovavansi le
potenze che avrebbero voluto signoreggiare sopra di noi. (1447) Colla morte del
duca Filippo Maria era terminata la discendenza maschile di Giovanni Galeazzo
Visconti, infeudata coll'imperatore Venceslao; e perciò il ducato
(considerandolo come un podere) era devoluto all'imperatore. Se il destino
delle città dipendesse dal solo diritto di proprietà ereditaria,
l'imperatore solo, sulla base della pace di Costanza, avrebbe dovuto decidere
di noi, o creando un nuovo duca, o nominando un vicario imperiale, ovvero,
sotto quella denominazione che più gli fosse stata in grado, ponendo chi
esercitasse la suprema dominazione dell'Impero su questa parte dell'Impero
medesimo. Ma lo scettro imperiale era nelle deboli mani di Federico III,
principe timido, indolente e minore della sua dignità; il quale nemmeno
avrebbe potuto far valere le sue ragioni sull'Italia, oppresso, come egli era,
dalle armate del re d'Ungheria. Il lungo regno di questo Cesare lasciò
dimenticato nel Milanese il nome dell'Impero per più di quarant'anni
dopo morto l'ultimo duca. La casa d'Orleans possedeva la città di Asti,
portatale in dote dalla principessa Valentina, figlia del primo duca, conte di
Virtù. V'era un piccolo presidio francese in quella città: ma la
casa d'Orleans non regnava. Cinquantadue anni dopo ella ascese sul trono di
Francia, e colle armi sostenne le sue pretensioni sul ducato di Milano, appunto
come discendente dalla Valentina Visconti. Frattanto il re di Francia Carlo
VII, occupato nel combattere contro gl'Inglesi, che avevano conquistate alcune
province del suo regno, non aveva né mezzi né pensiero di rivolgersi a questa
parte d'Italia in favore di suo cugino. Il papa Niccolò V, di carattere
sacerdotale, non conosceva l'ambizione; e l'antipapa Felice V e il non affatto
disciolto concilio di Basilea occupavano interamente la corte di Roma. Il trono
di Napoli era incerto e disputato. I Veneziani e il duca di Savoia avevano
formato il progetto di profittare dell'occasione; ed erano e finitimi e potenti
e sagaci. La vedova duchessa di Milano, Maria di Savoia, era in Milano, e
cercava di guadagnare un partito al duca di Savoia, di lei padre. I Veneziani
avevano in Milano i loro fautori, e colle immense ricchezze possedevano i mezzi
di sostenerli e secondarli colle armi. Il conte Francesco Sforza pareva che
nemmeno dovesse porre in vista le insussistenti pretensioni della moglie e del
suo primogenito, esclusi per la investitura imperiale dalla successione nel
ducato. La condizione del conte era anche più degradata di quella del
duca d'Orleans, attesa la viziata origine della Bianca Maria. Egli possedeva
Cremona, recatagli in dote; comandava un possente numero d'armati; aveva il
nome più illustre di ogni altro nella milizia di que' tempi. Ma un
Romagnuolo, nato in Samminiato da Lucia Trezania, senza parenti illustri, e che
non ebbe fra suoi antenati un nome degno di memoria, trattone suo padre (a cui
il conte Alberico di Barbiano, sotto del quale militava, diede il sopranome Sforza),
non pareva posto in condizione da disputare con alcuno la signoria di
Milano, meno poi di prevalere. In questa situazione si trovò la
città di Milano, quando, nel 1447, morì l'ultimo duca, ed ella
intraprese a governarsi a modo di repubblica.
Appena aveva cessato di vivere Filippo
Maria, che cominciarono a comparire nuove leggi e regolamenti sotto il nome de'
capitani e difensori della libertà di Milano. Il primo
proclama col quale annunziarono la loro dignità e il loro titolo, fu del
giorno 14 agosto 1447, cioè il primo dopo la morte del duca. In esso
questi capitani e difensori della libertà di Milano confermarono
per sei mesi prossimi a venire il generoso Manfredo da Rivarolo de' conti di
San Martino nella carica di podestà della città e ducato[648].
Questi nuovi magistrati però non pretesero d'invadere tutta
l'amministrazione della città; anzi lasciarono che i maestri delle
entrate dirigessero le finanze e le possessioni che erano state del duca; e
lasciarono pure che il tribunale di Provvisione regolasse la panizzazione, le
adunanze civiche, l'annona e gli altri oggetti di sua pertinenza. I capitani e
difensori, considerandosi investiti dell'autorità sovrana, riserbate al
loro arbitrio le cose veramente di Stato, col dare, quand'occorreva, ordini al
podestà, al capitano di giustizia, al tribunale di Provvisione ecc. pe'
casi straordinari, lasciarono a ciascun magistrato la cura di provvedere,
secondo i metodi consueti e regolari, a quanto soleva appartenere alla di lui giurisdizione[649].
Questi capitani e difensori della libertà non avevano però
ragione alcuna per comandare agli altri cittadini. S'erano immaginato un
titolo, creata una carica, attribuita una autorità, addossata una
rappresentanza tumultuariamente, per usurpazione e sorpresa, non mai per libera
scelta della città. Se un virtuoso entusiasmo di gloria e di
libertà avesse animati coloro ad ascendere alla pericolosa rappresentanza
del sovrano, potevano, annientato ogni privato interesse, primeggiando il solo
pubblico bene, andare cospiranti e unanimi, e adoperare così la forza
pubblica col maggiore effetto per la pubblica salvezza. Ma come sperare che si
accozzasse un collegio di eroi casualmente, in una città oppressa da una
serie di sei pessimi sovrani? Mancava a questo corpo resosi sovrano, e la
opinione di chi doveva ubbidire, e la coesione delle parti di lui medesimo; né
era riserbato nemmeno ai più accorti il prevedere la poca solidità
e durata di un tal sistema, manifestatamente vacillante. Già nel
capitolo antecedente nominai i fautori principali del governo repubblicano,
cioè Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio
Trivulzi e Bartolomeo Morone. Non era probabile che le altre città della
Lombardia superassero il ribrezzo di farsi suddite di una città
metropoli, governata a caso e senza una costituzione politica. In fatti due
sole città, cioè Alessandria e Novara si dichiararono di essere
fedeli a Milano; le altre o progettarono di voler governarsi a modo di
repubblica indipendente, o posero in deliberazione a qual principe sarebbe
stato meglio di offerirsi. In Pavia sola vi erano ben sette partiti; gli uni
volevano Carlo re di Francia; altri, Luigi il Delfino; altri, il duca di Savoia;
altri, Giovanni marchese di Monferrato; altri, Lionello marchese di Ferrara;
altri, i Veneziani; altri, il conte di Cremona Francesco Sforza. Il Corio, che
ciò racconta, non fa menzione dell'ottavo partito, che sarebbe stato
quello di reggersi da sé e collegarsi in una confederazione di città
libere; o meglio ancora unirsi in una
sola massa e formare un governo comune. Né ciò pure terminava la serie
de' mali del sistema. I banditi ritornavano alle città loro, occupavano
i loro antichi beni, già venduti dal fisco ducale, e ne spogliavano
gl'innocenti possessori. La rapina era dilatata per modo, che nessuno era
più sicuro di possedere qualche cosa di proprio; la vita era in pericolo
non meno di quello che lo erano le sostanze; il disordine era generale e
uniforme; il che doveva accadere in una numerosa e ricca popolazione, rimasta
priva del sistema politico, mentre con incerte mire tentava di accozzarne un
nuovo. Il castello di Milano non poteva torreggiare sopra di una città
che voleva essere libera e temeva un invasore; perciò con pubblico
proclama si posero in vendita i materiali di quella ròcca[650].
Il conte Francesco Sforza, appena ebbe
l'annunzio della morte del duca, s'incamminò diligentemente verso
Milano, abbandonando la Romagna, ove si trovava. I Veneziani erano nella
circostanza la più favorevole per impadronirsi del Milanese. Lodi, Piacenza
ed altre città desideravano di vivere sotto la repubblica veneta.
Francesco Sforza vedeva che i Veneziani erano i più potenti ad invadere
e conquistare questo ducato, ch'egli aveva in mente di far suo; sebbene le
circostanze non gli fossero per anco favorevoli a segno di palesarlo. Le forze
de' Veneti già si trovavano nel Milanese prima che il duca morisse, il
che accennai nel capitolo antecedente. E come pochi mesi prima s'erano essi
presentati sotto le mura di Milano, e avevano devastato il monte di Brianza,
così v'era ragionevole motivo per cui i Milanesi temessero l'imminente
pericolo. Appena venti giorni erano trascorsi dopo la morte di Filippo Maria,
che la repubblica milanese dovette eleggere un comandante capace di opporsi
alle forze venete e salvarla; e questa scelta cadde nel conte Francesco Sforza,
dichiarato capitano delle nostre armate[651].
I denari de' Milanesi erano necessari per mantenere un corpo numeroso di
soldati, e ai Milanesi era necessario un gran capitano, la cui mente e valore,
opportunamente dirigendo la forza, li preservassero dall'invasione dei Veneti.
Questi bisogni vicendevolmente unirono da principio lo Sforza e i repubblicani
nascenti, se pure il nome di repubblica poteva convenire a una illegale
adunanza, che governava senza autorità e senza principii.
Una prova della incertezza di quel
governo la leggiamo nel proclama che i capitani e difensori della
libertà pubblicarono in data 21 settembre 1447. Per ordine di questi
vennero pubblicamente consegnati alle fiamme i catastri che servivano alla
distribuzione de' carichi, affine di rallegrare il popolo[652];
e si credette fondo bastante per le spese pubbliche la spontanea
generosità di ciascun cittadino. Appena due settimane dopo si dovette
pensare al rimedio; e fu quello che i medesimi capitani e difensori
arbitrariamente tassassero i cittadini a un forzoso imprestito[653].
Si obbligarono poi i sudditi a notificare quanto possedevano sotto pena della
confisca, invitando gli accusatori col premio; e ciò per formare nuovi
catastri per ripartire i carichi[654].
Cercavano questi incerti capitani e difensori l'opinione favorevole del popolo
con mezzi rovinosi, e vi rimediavano poi con ingiusti e odiosi ripieghi. Alcune
delle leggi che proclamarono, poiché danno una precisa idea dello spirito di
quel governo e della condizione di que' tempi, non sarà discaro al
lettore ch'io qui trascriva. Nei primi momenti della inferma Repubblica,
incerti della loro autorità, privi di legale sanzione, in una città
divisa in partiti, attorniata da città che non eranle amiche,
coll'armata veneta che invadeva le sue terre, coi Savoiardi e Francesi, che
minacciavano d'occuparlene dalla parte opposta, costretta a confidarsi al
pericoloso partito di collocare nelle mani del conte Sforza il poter militare
in così importante e seria situazione, pubblicarono un ordine il 18
ottobre 1447, rinnovando irremissibilmente la pena del fuoco ai pederasti[655].
Gli uomini nei più pressanti disastri cercano l'aiuto della
Divinità colla maggiore istanza, e a tal uopo credonsi di ottenerlo
persino col sacrificio d'umane vittime. I Greci cercavano i venti col sangue
d'Ifigenia; i Romani placavano il cielo seppellendo uomini vivi; i nostri,
bruciando i peccatori. Le pazzie e le atrocità di un secolo si
assomigliano alle pazzie e atrocità d'un altro, a meno che la coltura e
la ragione, diffondendosi largamente, non indeboliscano i germi del fanatismo
inerente all'uomo; e questa coltura, questa filosofia, contro la quale ancora
v'è chi declama, formano appunto l'unica superiorità de' tempi
presenti, Oggidì un popolo che aspiri a diventar libero e combatta per
sottrarsi dall'imminente giogo, non pubblicherà certo una legge per
proibire ai barbieri di far la barba ne' giorni festivi. Ha ben altro che fare
chi si trova al timone della Repubblica fra la tempesta, che vegliare su di
questi meschini e indifferenti oggetti; eppure allora si proclamò un
bando cosiffatto[656].
Anco un'altra legge ho riscontrata in
quei tempi, la quale merita d'essere ricordata, perché ci fa conoscere alcuni
ripieghi politici, i quali volgarmente si credono d'invenzione di questi ultimi
tempi, non erano punto sconosciuti negli stati d'Italia alla metà del secolo
decimoquinto; cioè le pubbliche lotterie. Nel capitolo nono accennai
come sino dall'anno 1240 s'era posta in uso da noi la circolazione della carta
in luogo del denaro, e a tal proposito si facessero leggi assai opportune[657];
ora dall'editto del 9 gennaio 1448 verrà assicurato il lettore
dell'antichità delle lotterie, ossia tontine, di quei tributi spontanei
in somma ai quali si adescano i cittadini colla lusinga di arricchirli[658].
Colle note potrà il lettore dalla sorgente istessa conoscere da quai
principii fosse regolato quel governo, a qual grado fosse la coltura, a quale
elevazione si trovasse la politica; né sulla asserzione mera dello storico
dovrà persuadersi della infelicità di que' tempi.
Ora conviene ch'io ponga sott'occhio
una fedele immagine del nuovo comandante delle armi milanesi Francesco Sforza.
Sì tosto che il conte Francesco fu creato capitano generale della
repubblica di Milano, e che l'armata di esso conte venne allo stipendio de'
Milanesi, ei si trovò alla testa di forze valevoli a preservare lo Stato
e dai Veneziani, e da ogni altro pretendente. Se egli le avesse rivoltate
allora per assoggettare a sé il ducato di Milano, avrebbe dovuto superare ad un
tempo medesimo e le forze venete, e le savoiarde, e le francesi, e l'entusiasmo
della nascente libertà de' popoli, non per anco staccati dai disordini
dell'anarchia. I suoi soldati avrebbero ragionato fors'anco del tradimento che
si faceva ai Milanesi, della illegalità delle pretensioni sue alla
successione nel ducato; si doveva temere o la defezione o
Agnese del Maino s'era ricoverata nella
ròcca di Pavia, dove ella ebbe influenza bastante per rendere
preponderante il partito di coloro che scelsero per loro principe il conte
Francesco, genero di lei. Se il conte avesse accettata questa sovranità
mentre era allo stipendio de' Milanesi, senza l'assenso loro, avrebbe mancato
al dovere. Pavia era, ed è una parte dello Stato di Milano vicina ed
importante. Il conte Francesco però fece conoscere che, attesa l'antica
avversione, non sarebbe stato mai possibile di ottenere una sincera sommessione
di Pavia ai Milanesi, che frattanto ella si offriva al duca di Savoia, ovvero
ai Veneziani; e sarebbe stata impresa difficile lo sloggiarli poi da quella
città munita, e pericoloso il lasciarveli: che non era possibile
sbrattare il Po dalle navi venete, e sgombrarne lo Stato, esposto alle
invasioni, se non possedendo Pavia, ove trovavansi gli attrezzi per quella
navigazione. In somma persuase che l'interesse di Milano era, dover Pavia
cadere piuttosto nelle sue mani che di alcun altro principe. Per tal modo,
coll'assenso de' Milanesi, il conte Francesco diventò signore di Pavia;
e così due città principali del ducato, Cremona e Pavia, una per
dote, l'altra per dedizione, furono del conte Francesco.
Non sì tosto ebbe il conte
acquistata Pavia, che s'innoltrò colle sue armi sotto Piacenza, occupata
da' Veneziani, e se ne impadronì il giorno 16 dicembre 1447.
Così, appena trascorsi quattro mesi dalla morte del duca, il conte s'era
già reso padrone del corso del Po; padronanza la quale indirettamente lo
rendeva arbitro di Milano, che non ha altro sale per i bisogni della vita, se
non di mare, che conseguentemente deve navigare il Po. Frattanto i Francesi,
che stavano al presidio di Asti, tentarono di occupare Alessandria e Tortona;
ma vennero rispinti da Bartolomeo Coleoni, spedito loro incontro dal conte
Francesco. Così, al terminare dell'anno in cui era morto Filippo Maria,
il conte possedeva già una importante porzione del ducato.
I repubblicani, o, per nominarli con
maggior proprietà, gli oligarchi milanesi conoscevano la loro situazione
e il pericolo imminente di ricadere sotto la dominazione d'un uomo solo, cosa
generalmente detestata; per ciò si rivolsero secretamente a fare
proposizioni di accomodamento coi Veneziani: anzi si progettò una
confederazione fra le due repubbliche per la difesa reciproca della loro
libertà e signorie, offerendo a' Veneziani il dominio di Lodi, oltre
quei di Bergamo e Brescia, che le armi venete avevano già conquistate
sotto il regno dell'ultimo duca. Niente poteva accadere di peggio per
attraversare la fortuna del conte. Quindi i partigiani di lui che trovavansi in
Milano, mossero la plebe, rappresentando che non v'era più sicurezza se
a venti miglia di Milano si collocavano i Veneziani; che quando meno ce lo
saremmo aspettato, una sorpresa rendeva Milano suddita di San Marco e
città provinciale e squallida; che non v'era più una sola notte
tranquilla pe' Milanesi, se una così vergognosa cessione si facesse. La
plebaglia, mossa da ciò, andava per le strade urlando: guerra, guerra
contro de' Veneziani! e così vennero forzati gli usurpatori del governo,
i capitani e difensori a lasciarne ogni pensiero in disparte. Frattanto il
conte Francesco, sempre vittorioso, con molti e piccoli fatti d'arme avendo
fatto sloggiare i Veneti dalle rive del Po, stava risoluto di movere sotto
Brescia, e toglierla ai Veneti, che da ventidue anni la possedevano per
conquista fattane dal Carmagnola, siccome vedemmo nel capitolo precedente.
Presa una volta Brescia, non potevano più i Veneziani conservare Bergamo
né Lodi, né altra parte delle loro conquiste. I nostri repubblicani allora
cominciarono più che mai a temere, forse più de' nemici, il loro
capitano generale; il quale se riusciva, come era probabile di rendersi padrone
di Brescia, l'avrebbe acquistata per se medesimo, siccome aveva fatto di
Piacenza; e per tal modo cerchiando Milano, l'avrebbe costretta, non che a
rendersi, a impetrare la di lui dominazione. Si spedirono adunque ordini al
conte, comandandogli che non altrimenti s'innoltrasse a Brescia, ma si portasse
a Caravaggio e facesse sloggiare i Veneti da quel borgo. Il conte
ubbidì. Nella sua armata eravi il Piccinino, generale emulo e nemico del
conte: le operazioni militari o s'eseguivano lentamente, ovvero venivano
attraversate: si lasciava penuriare il campo dello Sforza d'ogni sorta di
foraggi e di viveri: l'armata veneziana che stavagli di fronte, era di
dodicimila e cinquecento cavalli, oltre i fantaccini. Con tanti disavvantaggi
egli venne a una giornata, che rese memorabile il 14 settembre 1448; poiché nei
contorni di Mozzanica venne il conte còlto dai Veneziani talmente
all'improvviso, che nemmeno ebbe tempo di armarsi compiutamente; onde si pose a
comandare e diresse l'azione mancandogli i bracciali. L'insidiosa emulazione fu
quella che rese inoperosi i drappelli di osservazione che egli aveva postati
verso del nemico, il quale perciò poté cadere con sorpresa sull'armata
del conte. V'erano, siccome dissi, il Piccinino ed altri sotto i di lui ordini,
generali di cattivo animo. Il conte, mezzo disarmato, espose più volte
se stesso al più forte della mischia, riconducendo i fuggitivi
all'attacco, animando colla voce e coll'esempio i soldati; in somma tanto
gloriosa fu quella giornata pel conte Francesco, che interamente disfece i
Veneti, e tanti furono i prigionieri che ei fece, che fu costretto a congedarli
per mancanza di vettovaglia. Vennero portate in Milano con una specie di
trionfo le insegne di san Marco tolte ai nemici; e Luigi Bosso e Pietro Cotta,
che erano al campo dello Sforza commissari, entrarono in Milano colle medesime,
conducendo i più illustri prigionieri, fra i quali un Dandolo ed un
Rangone.
Questa vittoria di Mozzanica dava
sempre maggior motivo di temere lo Sforza; e il Piccinino, generale di credito,
nemico del conte, cercava di accrescere il popolar timore, fors'anco sulla
speranza di acquistare per se medesimo poi quella sovranità che ora
faceva comparire esosa ed esecranda[662].
Giorgio Lampugnano era, fra i più accreditati Milanesi, quegli che non
si stancava di tenere animata la plebe contro del conte, rammentando i mali
sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da' principi, le violenze
esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava la demolizione del castello di
Milano, come un motivo per cui il conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti
vi ebbero parte; anzi come una cagione di nuovi aggravii, obbligandoci a
riedificarlo con dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci
avesse fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l'impresa di
Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e così
ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s'erano presa; ma non lo
vollero i capitani e difensori della libertà. Tutte le proposizioni
dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d'ogni specie ritardati; le militari
disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava. Carlo Gonzaga aveva in
Milano un poderoso partito, ed adocchiava il trono. Con Giorgio Lampugnano e
Teodoro Bosso, primarii fautori della libertà, si univa Vitaliano
Borromeo, signore di somma significazione, perché, oltre la grandiosa opulenza
del casato, possedeva in dominio quasi tutte le fortezze del lago Maggiore.
Questi tre rivali partiti si univano contro l'imminente fortuna del conte; il
quale, posto in tale condizione, ascoltò le proposizioni della
repubblica veneta, e segretamente stipulò un trattato per cui egli si
obbligò a restituire, non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano
e Bergamasco, ma Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in
compenso, a fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre città
che aveva possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila
cavalli e duemila fanti, sborsandogli tredicimila fiorini d'oro al mese, sin
tanto ch'egli non si fosse impadronito di Milano. Poiché il trattato fu
concluso, il conte lo pubblicò nel suo esercito. Sì tosto che i
Milanesi ebbero notizia di tale accordo, concluso fra il conte Sforza e i
Veneziani, spedirono al di lui campo alcuni primarii cittadini, cercando con
modi rispettosi di giustificare le cose passate, anzi offrendo ogni
soddisfazione, salva sempre
I Veneziani spedirono le loro truppe a
servire come ausiliarie al conte. La repubblica fiorentina inviogli i suoi
legati, promettendogli amicizia. Il conte Francesco, reso per tal modo sicuro
dalla parte di Venezia, immediatamente si mosse a circondare sempre più
Milano. Da Pavia spinse le forze al castello d'Abbiategrasso, e lo costrinse
bentosto alla resa. È memorabile il fatto che, mentre il conte Francesco
conteneva i suoi, vietando loro il sacco della terra, a tradimento dalle mura
vennegli scoppiata un'archibugiata. Gli Sforzeschi correvano per vendicarsi. Il
conte, illeso, placidamente impedì che si facesse male a veruno. Fattosi
padrone di Abbiategrasso, prese a sviare l'acqua del Naviglio, e per tal modo
rese inoperosi i mulini di Milano. S'innoltrò a Novara, e se ne impadronì[663].
I Tortonesi spontaneamente si diedero al conte. Vigevano pure spontaneamente lo
volle per suo sovrano, discacciando i Savoiardi che l'occupavano; Alessandria
fece lo stesso; Parma si assoggettò. Mentre le cose erano a tal segno, i
Milanesi scelsero per loro comandante Carlo Gonzaga[664].
Allora il Piccinino, che forse aveva adocchiata la signoria di Milano,
vedendosi preferito il marchese Gonzaga, anzi che servire sotto di lui,
passò ad offrirsi al conte Francesco Sforza. Egli era stato sempre,
siccome dissi, emulo non solo, ma nemico e atroce nemico del conte; ciò
nondimeno il conte lo accettò per suo generale, e gli accordò un
onorevole stipendio. Due uomini volgarmente zelanti, certo Barile e certo
Frasco, andavano animando il conte perché lo facesse uccidere, o per lo meno lo
imprigionasse come irreconciliabile nemico, che, per necessità, simulava
in quel momento, e che poi, al primo lampo di speranza di nuocergli, se gli
sarebbe nuovamente avventato contro. Il conte Francesco rispose loro che
vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s'era abbandonato
al suo potere. In fatti il Piccinino desertò poi con tremila cavalli e
mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto, che una macchia di
più alla di lui fama, e un contraposto sempre più glorioso pel
conte Francesco.
Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso,
grandi fautori dapprincipio per la libertà, s'erano cambiati ed erano
diventati fautori del conte Sforza, o fosse ciò accaduto perché
l'esperienza gli avesse convinti della impossibilità di adattare
stabilmente alla nazione degradata un politico sistema, o fosse che la fortuna
militare e le virtù grandi del conte, e le speranze sotto la
sovranità di lui avessero mutate le loro opinioni. Carlo Gonzaga, che,
sotto nome di capitano della repubblica, era animato dalla probabile ambizione
di cingere la corona ducale di Milano, considerava i due primari partigiani
dello Sforza come i primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in
cifra, che Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s'interpretarono;
si connobbe la trama di aprirgli le porte della città, e si
destinò di consegnarli come ribelli al supplizio. La difficultà
consisteva nel trovare il modo per riuscirvi; poiché i magistrati non avevano
forze tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero
il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all'imperatore, per implorare
il suo aiuto nelle angustie nelle quali la città era posta. Essi
cercavano di procrastinare la partenza per essere mal sicure le strade; ma
Carlo Gonzaga seppe sì bene fingere, che, apprestata loro una buona
scorta d'armati, vennero indotti a portarsi a Como, dove assicurògli che
sarebbesi sborsata loro una conveniente somma di danaro per inoltrarsi nella
Germania e fare
Oppressi per tal modo i primari del
partito nobile, del quale poco si fidava il Gonzaga, e sollevata la plebe ad
ambire il comando della Repubblica, il disordine e lo scompiglio divennero
generali nell'interno della città. Artigiani, giornalieri, plebaglia la
più sfrenata arrogantemente cominciarono a disporre e della vita e delle
fortune altrui a loro piacimento. Giovanni da Ossona e Giovanni da Appiano si
segnalarono colle tirannie, usurpandosi una dittatoria facoltà e il
dominio della repubblica. Il Corio li chiama uomini iniquissimi e
scellerati. Saccheggiare i granai de' proprietari delle terre; sforzare di
notte con mano armata l'asilo delle private famiglie, rubando le gioie, gli
argenti, e quanto v'era di meglio; costringere colla minaccia dell'oppressione
i nobili agiati a manifestare e consegnare i denari che possedevano; quest'era
la forma colla quale costoro percepivano il tributo col pretesto di mantenere
l'armata a salvamento della Repubblica. Si pubblicò pena di morte a
chiunque nominasse Francesco Sforza se non per dispregio, e si andava gridando
che, piuttosto che a lui, si darebbero al Turco o al diavolo. I cittadini
ragionevoli non ardivano nemmeno d'uscire dalle case loro sotto di un sì
atroce governo. Per rimediare al disordine, Guarnerio Castiglione, Pietro
Pusterla e Galeotto Toscano formarono un triumvirato, e si posero alla testa
della città. Chiusero in carcere l'Ossona e l'Appiano. La plebaglia
liberò dal carcere costoro; indi a furore insurgendo contro i triumviri,
Galeotto Toscano venne scannato sulla piazza dei palazzo ducale; i due altri si
sottrassero colla fuga. Altri furono trucidati, uomini di virtù e di
merito. Le case de' migliori cittadini vennero saccheggiate: in somma la misera
patria divenne orrendo teatro di sciagure.
In mezzo alle vicende e alle angustie
della città stavasene in Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di
Filippo Maria, la quale, cogliendo l'opportunità, sparse la speranza che
il duca di Savoia, di lei padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. In fatti
il duca Lodovico di Savoia si affacciò a Novara per discacciarne gli
Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorché vide comparire questo
nuovo nemico al conte Sforza abbandonollo, seco traendo, siccome vedemmo,
tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre occupò, sorprendendone gli
Sforzeschi. Il conte allora spedì un suo inviato a Milano a fine di
persuadere i rettori a non avventurare una città bella, grande e ricca
alla inevitabile sciagura d'un assalto; ma l'inviato non poté parlare se non a
quei capi che non volevano abbandonare la loro chimerica sovranità. Il
marchese Gonzaga, vedendo però le forze del conte, la posizione decisiva
di lui, che possedeva quasi tutte le città del contorno, l'ascendente
del valor suo e della scienza militare, pensò ai casi propri, e a trarre
qualche profitto dalla conciliazione, prima che la necessità lo
costringesse a perdere la carica di capitano dei milanesi senza verun compenso.
Trattò col conte Francesco; e fu convenuto ch'egli passerebbe allo
stipendio del conte.
I Milanesi, attorniati dallo Sforza,
già padrone di Cremona, Parma, Piacenza, Pavia, Novara, Vigevano, e de'
borghi e terre ancora più vicine; vedendosi abbandonati dal Gonzaga; non
potendosi fidare sul Piccinino; nessuna speranza loro rimanendo nel duca di
Savoia; in mezzo ai disordini, al saccheggio, alla licenza popolare; devastati,
oppressi da' propri magistrati; non avendo un uomo solo di qualche merito nelle
cariche, usurpate da' più violenti, e da chi meno conosceva l'arte di
reggere una città, e meno forse degli altri si curava della
felicità della patria; in tale misero stato si pensò da alcuni a
conciliare la repubblica veneta colla nascente repubblica di Milano; il che,
sebbene recentemente si foss'ella collegata col conte, non mancò del suo
effetto. Stava domiciliato in Venezia Arrigo Panigarola, milanese, avendovi
casa di negozio: costui venne incaricato d'invocare il senato veneto, amatore
della libertà, in favore della patria. Fu ammesso il Panigarola a
trattare. Egli con eloquenza mosse gli animi, descrivendo lo stato a cui erano
ridotti i Milanesi, non per altro, se non perché ricusavano essi un giogo
ingiusto e illegale, e volevano reggersi da sé con una libera costituzione.
Turpe cosa, diss'egli, che i Veneziani, illustri difensori della
libertà, si colleghino con un usurpatore, per porre i ceppi
agl'Italiani, loro confratelli. Assicurò che se la Repubblica cessava di
far loro guerra, se stendeva una mano adiutrice a questa nascente repubblica,
dopo un tal beneficio, i Milanesi avrebbero amato e venerato i Veneziani come
loro padri e Dei tutelari; che da una generazione all'altra ne sarebbe passata
ai secoli la divozione e
Un tal partito non poteva convenire al
conte, giacché la maggior parte del ducato e la capitale medesima venivagli
sottratta, e se gli assegnava una sovranità di tante membra quasi
staccate, estesa per lungo spazio, difficile a custodire. Si rivolse egli
adunque ad accomodarsi col duca di Savoia, e colla cessione di alcune terre
sull'Alessandrino e sul Novarese, si assicurò da quella parte. Indi,
rivolgendosi ai Milanesi e Veneti, si pose a disputare con essi il ducato di
Milano. Io non entrerò a descrivere i fatti d'arme; inutile materia per
uno storico, a cui preme di conoscere lo spirito dei tempi, l'indole degli
uomini, lo stato della società, e non di stendere i materiali per una
tattica di poco profitto, atteso il cambiamento accaduto nella maniera di
guerreggiate: basta dire che il conte Sforza in ogni parte si presentò
abilissimo generale nel postare il suo campo, nel prevenire il nemico, nelle
marce giudiziosamente condotte, nel cogliere il momento per attaccare, nel
dirigere la battaglia, nel provvedere di tutto l'armata propria e impedire la
sussistenza al nemico, nel conservare la militar disciplina, risparmiare quanto
era possibile la miseria dei popoli, e nel tempo stesso conservarsi l'amore de'
soldati, che giungeva sino all'entusiasmo. (1449) Con tai superiori talenti,
con virtù tale ei circondò sì bene la città di
Milano, che in breve tempo si manifestò lo squallore della carestia.
Egli non volle spargere il sangue de' cittadini, né diroccare con macchine
Milano; ma costringerla per la fame a darsi a lui. In somma egli concepì
quel progetto medesimo sopra Milano, che il grande Enrico IV fece poi con
Parigi; e molta somiglianza troverebbesi fra l'uno e l'altro di questi grandi
uomini, se venissero al paragone. Le traversie che l'uno e l'altro dovettero
soffrire ne' primi anni; i pericoli della vita che corsero per le insidie delle
corti, nelle quali dovevano regnare poi; l'umanità, la
popolarità, il valore, la perizia militare dell'uno e dell'altro sono
degne di confronto. A Francesco Sforza mancò un più grande teatro
sul quale mostrarsi, e spettatori più illuminati. Enrico ebbe per campo
il regno di Francia, e per testimonio un secolo più colto[665].
La carestia fece nascere un generale
disordine. Non v'era più chi volesse ubbidire. Quei che si erano
arrogate le magistrature e il comando della città, erano considerati
come buffoni del popolo. Il consiglio generale era stato composto da essi,
scegliendo maliziosamente ad arte uomini inetti o del partito. Per dare
apparenza al popolo che si vegliava al bene della città, i rettori fecero
radunare il consiglio generale nella demolita chiesa di Santa Maria della
Scala. Pietro Cotta e Cristoforo Pagani erano sulla strada in quel contorno:
cominciarono questi a mormorare cogli astanti sulla spensierata condotta de'
rettori e sulla dappocaggine de' consiglieri. A misura che passavano i
cittadini, si trattenevano; e cominciò a formarsi un'unione di popolari
malcontenti. Ben tosto corse il grido per i quartieri della città, come
vicino alla Scala vi fosse unione di malcontenti, e da ogni parte concorsero
nuovi popolari, in modo che i rettori e consiglieri si trovavano assai
inquieti. Laonde spedirono Lampugnino da Birago, loro collega, per aringare il
popolo, e, colle buone, pacificarlo, promettendo ogni bene. Ma Lampugnino ebbe
pena a salvarsi. Comparve il capitano di Giustizia Domenico da Pesare, scortato
da buon numero di cavalleria, e facendo mostrare al popolo i capestri; ma il
popolo li pose tutti in fuga. La moltitudine de' malcontenti si creò due
capi: Gaspare da Vimercato e il sopranominato Pietro Cotta. Altri signori
spalleggiarono i malcontenti, come Giovanni Stampa, Francesco da Triulzio,
Cristoforo Pagano suddetto, Marchionne da Marliano. Vi fu del sangue sparso;
vennero espulsi i magistrati, occupato il palazzo, e distrutta l'organizzazione
civile; se ne formò una tumultuariamente. I primarii cittadini, il
giorno seguente, si radunarono nella stessa chiesa della Scala per deliberare
qual partito si dovesse prendere. Alcuni volevano rimaner liberi e non ubbidire
a verun principe. Altri, conoscendo l'impossibilità di formare una
repubblica in mezzo a tanti e sì appassionati partiti, in una
città nella quale le voci di patria e di ben pubblico non bastavano ad
ammorzate le private mire, volevano un principe. Tutti però
concordemente ricusavano i Veneziani. Si proponeva dagli uni il papa; da altri
il re Alfonso; altri suggeriva il duca di Savoia; Gasparo da Vimercato propose
il conte Francesco Sforza. Egli nel suo discorso fece vedere che la fame
minacciava a giorni la morte; che né il papa né il re Alfonso né il duca di
Savoia avevano mezzi per salvarci al momento, come chiedeva l'urgente
necessità; che non rimaneva altro partito da scegliere che o i Veneziani
o il conte. Sudditi de' Veneziani, non potevamo aspettarci se non che il destino
d'una città secondaria e provinciale, sotto una dominazione che avrebbe
temuta la nostra prosperità. Sotto del conte, valoroso, umano, benefico,
nostro concittadino per la moglie, non dovevamo aspettarci un signore, ma un
padre saggio, provvido, amoroso, da cui si sarebbe posto rimedio a' nostri
mali. (1450) Il partito per il conte prevalse per acclamazione, e si
spedì tosto ad avvisarlo[666].
Due mesi prima che la città si rendesse allo Sforza, si pubblicò
in Milano un proclama, col premio di diecimila zecchini a chi avesse ammazzato
il conte Sforza, o mortalmente ferito[667].
Così gl'imbecilli nostri legislatori si mostravano insensibili alla
virtù, ignoranti della ragion delle genti, indegni per ogni modo di
comandare agli uomini. Il conte Francesco Sforza teneva in tanta disciplina le
sue truppe, che vietò loro di non offendere per niun modo le terre o le
persone de' Milanesi, come si scorge dagli archivi dì città[668].
Ma i nostri capitani e difensori, l'istesse armi che avean rivolte contro dello
Sforza, le adoperavano ancora verso altri. Leggesi ne' registri di città
la taglia di duemila ducati d'oro a chi condurrà a
Era circondata la città di
Milano dai soldati dello Sforza, e custodita con tanta esattezza, che egli era
impossibile di ricevere alimento veruno. Un moggio di grano si vendeva a venti
zecchini S'eran vendute pubblicamente e mangiate le carni dei cavalli, degli
asini, de' cani, de' gatti e persino de' sorci. Morivano sulle pubbliche strade
alcuni cittadini di fame. In queste estremità, cioè tre giorni
prima che Francesco Sforza diventasse padrone di Milano, i capitani e difensori
della libertà pubblicarono un editto per la pudicizia e morigeratezza pubblica[670].
Oltre il Corio, che minutamente
descrive la desolazione di que' tempi, e la miseria di quel governo, anche il
Decembrio ce ne dà un'idea colle parole seguenti: - Mediolanensium
res in deterius labi caepere. Nam duce destituti, dissidentibus inter se
civibus, deteriora prioribus in dies pullulabant. Non pubblica numera a populo rite gubernari; non divites onera
conferre; non jussa quisquam exsequi poterat; sed veluti tempestate disjecta
classis, inundante pelago, hinc inde ferebatur. Si qua in residuis militibus
spes affulserat, Caroli Gonzagae ambitione turbabatur, qui ad populi dominatum
improbe aspirans, longa suspicione cuncta detinebat. Qua ex causa desperatione
et pavore squallebant omnia. Conjurationes ad haec a quibusdam perpetratae
majorem adhuc sollicitudinem singulis injecerant. Capti siquidem plerique
nobilissimi Cives, et supplicio affecti sunt: Sed nec ullorum caede mali
atrocitas leniri poterat... Boni praeterea, officiis exuti, nec sibi aut aliis
prodesse utiles, silentio languebant; plebs vero, inter spem metumque conjecta,
onus tolerabat, dominatus dumtaxat nomine exsultans[671].
Questo veramente è uno de' tratti più compassionevoli e umilianti
della nostra storia: vorrei poterla nobilitare esponendola; ma lo storico
consecrato all'augusta verità, benché contro sua voglia,
Appena il conte ebbe notizia che per
quasi unanime voto degli affamati cittadini milanesi egli veniva proclamato
signor loro e duca, volle cogliere il momento e senza dimora alcuna entrare
nella città; giacché l'indugio non poteva essere di utilità se
non ai Veneziani, ai quali fors'anco, per l'instabilità della
moltitudine, avrebbero potuto ricorrere, qualora avesse egli tardato a
soccorrerli di vittovaglia nella estremità della fame a cui erano
ridotti. Postò egli adunque di contro alle schiere venete un corpo di
armati valevole a contenerle, e immediatamente egli da Vimercato incamminossi a
Milano alla testa d'un altro corpo di fedeli soldati, i quali, oltre le solite
armi, vennero caricati sulle spalle e nelle tasche di quanto pane ciascuno
poteva portare, con ordine di lasciarsi saccheggiare allegramente dalle
affamate turbe milanesi. La strada da Vimercato a Milano era popolata da infinita
turba, dice il Corio, singolarmente nelle dieci miglia vicine alla
città. Fu uno spettacolo degno di un cuore sensibile quella pompa, nella
quale non già primeggiava il fasto o l'alterigia d'un irritato
vincitore, ma bensì l'affabile umanità di Francesco Sforza, che
amichevolmente accoglieva le grida di allegrezza del popolo, nominava e
salutava le conoscenze che aveva fatte sino da' suoi primi anni in questa quasi
sua patria, ordinava ai valorosi soldati suoi di abbandonare ogni contegno
militare e imponente, e fatti concittadini, di lasciarsi svaligiare
dall'affamata moltitudine, che avidamente si satollava col loro pane; e fra le
consolanti risa che faceva nascere l'inusitata mischia, fra le grida gioiose
de' popoli che andavano esclamando: haec est dies quam fecit Dominus, exultemus
et laetemur in ea[674],
andò accostandosi alla città e vi entrò per Porta
Nuova. Malgrado lo sterminato numero de' cittadini uscitogli incontro, dice il
Corio, benché grande era stata la moltitudine che di fuori l'haveva
salutato, molto maggiore era quella di dentro l'aspectava. Ognuno procurava
di giungere a toccar la mano al conte nuovo duca; e tanta e tanto strettamente
la moltitudine lo circondava, che il cavallo di lui parve portato sulle spalle
de' cittadini. Andossene egli direttamente al Duomo per rendere alla
Divinità il primo omaggio d'un avvenimento sì fausto per lui; ma
non fu possibile ch'egli scendesse dal cavallo, e dovette così entrarvi
e così orare: tanta era la immensità della turba e tanto era
l'entusiasmo de' nuovi suoi sudditi! Dispose poscia il nuovo duca che da Pavia,
da Cremona e da altri luoghi venisse portato quanto occorreva al vitto e ai
comodi, e in tre giorni l'abbondanza comparve nella città. Tutto venne
ordinato dal duca con paterna previdenza: pose al governo della città
uomini probi e illuminati; intimò la pace, la sicurezza, il gaudio a
ciascun Milanese; distribuì ai poveri larghi soccorsi di frumento; poi
tornò al campo contro i Veneziani, i quali si ritirarono a quartiere, e
così fece egli pure de' suoi. Ricevette l'omaggio di Bellinzona, Como e
Monza, suddite de' Milanesi. Spedì i suoi ministri alle corti estere per
dar loro avviso della nuova sua condizione. L'imperatore Federico III e Carlo
re di Francia ricusarono di trattarlo qual duca, perché il primo non doveva
riconoscere rivestito di quella dignità se non un discendente maschio
legittimo de' Visconti investiti; e l'altro pretendeva dovuto il ducato ai
discendenti della principessa Valentina. Gli altri principi lo riconobbero. Gli
uomini più turbolenti e sediziosi, quei che avevano tiranneggiato il
popolo nel tempo dell'interregno, vennero con umanità relegati nelle
città vicine.
Non voleva il nuovo duca sgomentare i
sudditi dominando sopra di essi con un potere illimitato, né che essi lo
considerassero come un dispotico conquistatore. Sarebbe stato troppo repentino
il passaggio dalla licenza alla servitù, e questo violento cambiamento
avrebbe potuto facilmente cagionar poi de' pentimenti e de' moti nel popolo;
nel qual caso un principe vi perde sempre, quand'anche giunga colla forza a
reprimere ed a punire. Ciò conosceva ottimamente il saggio duca; e
perciò volle che alla nuova dominazione di lui servisse di base un contratto,
e che i sudditi lo considerassero sovrano e non despota. Questa prudente
politica diresse il solenne contratto di dedizione, celebrato il giorno 3 di
marzo 1450, nella villa del conte Giovanni Corio in Vimercato, essendone rogato
il notaio Damiano Marliano; in vigore del qual atto venne concordato che le
gabelle sarebbero state moderate, riducendosi la macina a soldi 12, il dazio
del vino a soldi 4, e stabilendosi che non s'imporrebbero in avvenire nuove
gabelle, anzi si abolirebbe quella del fieno; che il nuovo duca avrebbe fatto
residenza in Milano, almeno per due terze parti dell'anno; che i tribunali
avrebbero sempre in Milano la loro sede; che il prezzo del sale sarebbe stato
lire 3 per ogni staio; che non si sarebbe imposto verun carico straordinario,
eccetto quello di somministrar carri e guastatori per gli usi militari; che il
solo podestà di Milano sarebbe stato forestiere, ma tutti gli altri
uffici sarebbero confidati a' Milanesi; e alla vacanza di ogni carica la
città avrebbe presentata la nomina di sei, fra i quali il duca avrebbe
fatto la scelta, salvo però l'arbitrio a lui, in casi speciali, di
scegliere anche altrimenti; che il duca avrebbe mantenuta la fede ai creditori
di Filippo Maria; che si osserverebbero gli statuti civili e criminali e que'
de' mercanti; che non si sarebbero impetrati privilegi dal papa né
dall'imperatore senza il beneplacito del duca; che i soldati a piedi, a
cavallo, saccomanni, uomini d'armi sarebbero partiti dalla città,
dovendo essa restare immune dall'alloggiamento militare, eccettuati i
contestabili alle porte; il duca però in casi speciali potrà
deviare da questa regola. Questi sono i più importanti articoli del
solenne contratto[675]:
indi il nuovo duca fece il pubblico ingresso dalla porta Ticinese, il giorno 25
marzo 1450[676].
Il nuovo duca era colla sua sposa Bianca Maria e col primogenito Galeazzo
Maria. Un numero grande di matrone andarongli incontro pomposamente. Gli
oratori delle città suddite, i nobili milanesi tutti sfoggiarono per
rendere magnifico quell'ingresso.
Erasi preparato un maestoso carro e un
baldacchino; ma un tal fasto non piacque a Francesco Sforza, che amava la
gloria e non le apparenze teatrali; e, ricusandolo, disse: ch'egli in
quell'ingresso s'incamminava al tempio per rendere omaggio al padrone
dell'universo, avanti del quale gli uomini sono tutti eguali. Cavalcò egli
adunque. La folla immensa del popolo, i ricchi arredi de' nobili, la magnifica
parata degli uomini d'armi che precedevano, tutti coperti d'usberghi
lucidissimi, il lusso de' loro illustri condottieri, tutto ciò
formò uno spettacolo sorprendente. La cerimonia si fece al Duomo, ove
smontato, il duca si pose una candida sopraveste: indi colle solennità
de' sacri riti la duchessa e il duca vennero ornati col manto ducale fra gli
applausi e i viva del popolo. Poi dagli eletti di ciascun quartiere ricevette il
giuramento di fedeltà. Essi a lui consegnarono lo scettro, la spada, il
vessillo, il sigillo ducale e le chiavi della città. Fatto ciò,
il duca fece proclamare conte di Pavia il primogenito Galeazzo. Terminossi per
tal modo la funzione in Duomo, seguendosi il rito de' duchi antecessori. Indi
per cinque giorni volle il duca che la città vivesse in mezzo alle feste
e alle allegrie. Danze, giostre, tornei di varie sorta, musica, spettacoli
teatrali, lautissimi pranzi, tutto venne così giudiziosamente
distribuito e con tal previdenza ed ordine eseguito, che si mostrò il
duca la delizia della buona società e l'anima dei divertimenti. Egli
creò molti cavalieri, scegliendo quei che più meritavano
quest'onore, e tutti li regalò nobilmente. In
Il papa Niccolò V, i Fiorentini,
i Genovesi, i Lucchesi, gli Anconitani, i Sanesi, e varii altri Stati e
principi d'Italia spedirono tosto i loro ministri per una onorevole
ricognizione al nuovo duca. Il primo pensiero di questo principe fu di rialzare
il castello di porta Giovia, demolito due anni prima, siccome dissi. Questa
fortezza, fabbricata da Galeazzo II, era necessaria per la sicurezza del duca,
il quale in una città piena di partiti, recentemente riscaldata dal nome
di libertà, rendeva sempre pericolosa la residenza del nuovo principe,
sprovveduto in fatti di legali fondamenti per succedere nel ducato. Ma nemmeno
conveniva alla prudente accortezza del nuovo signore di palesare la
inquietudine sua, né di lasciar conoscere al popolo apertamente una tale
diffidenza; essendo cosa naturale alla moltitudine il non accorgersi delle
forze proprie, se non pel timore altrui. Propose egli adunque alla
città, come ostinandosi tuttavia i Veneziani nella guerra contro di lui
e contro lo Stato, trovandosi Milano allora mal difesa dalle mura della circonvallazione,
non convenendo di acquartierare l'armata nella città, resa esente
dall'alloggio militare, non eravi modo alcuno di preservare la metropoli dai
pericoli d'un assalto, se non ricoverando in luogo munito e forte un corpo di
armati, in guisa da allontanare il nemico da simili tentativi. Propose quindi
alla deliberazione della città medesima il determinare, se dovesse per
tutela di lei riedificarsi il castello, assicurando nel tempo medesimo la
città che vi sarebbe stato collocato per castellano non mai altri che un
nobile milanese per tutti i tempi a venire. Questa moderazione di cercare
l'assenso per una cosa ch'egli avrebbe potuto da se medesimo fare
immediatamente; le maniere umanissime e nobilissime del duca; tante
virtù militari e civili riunite in questo grand'uomo impegnarono i
primari cittadini ad ottenergli la pubblica acclamazione per rialzare la
demolita fortezza. Si fecero le adunanze del popolo in ciascuna parrocchia per
deliberare su tale richiesta. La storia ci ha conservato un discorso tenuto in
tale occasione da Giorgio Piatto, allora celebre giureconsulto. Egli era
nell'adunanza della parrocchia di San Giorgio al Palazzo[677].
Questi parlò così: «Se il virtuosissimo
Il regno di Francesco Sforza fu breve,
poiché durò sedici anni e non più. Egli non visse mai in pace, né
poté pienamente rivolger l'animo alla parte del legislatore ed alla politica
della nazione. Sarebbe troppo noioso il racconto delle minute azioni di queste
guerre. Sopra tutto i Veneziani continuarono a muover le armi contro del nuovo
duca. (1451) Pretendeva egli Bergamo e Brescia, possedute dai Visconti, e per
solo diritto di conquista usurpate durante il dominio di Filippo Maria.
Pretendeva Verona e Vicenza, come il retaggio della casa Scaligera, terminata
nell'ava di sua moglie, cioè nella duchessa Catterina. Per lo contrario
i Veneziani pretendevano di portare il loro confine all'Adda. Sedicimila
cavalieri stavano in campo per la repubblica di Venezia, e diciottomila ne
presentava all'opposto il duca Francesco. (1452) I Fiorentini erano collegati
col duca, i Savoiardi colla repubblica veneta. Le ostilità non cessarono
ancora per quattro anni da quella parte. (1453) Finalmente, innoltrandosi i
Turchi, padroni di Costantinopoli, verso la Grecia e verso la Dalmazia, i
Veneziani ricorsero alla mediazione di papa Niccolò V, affine di
ottenere la pace col duca, onde poter rivolgere tutte le forze in loro difesa
contro del Turco; (1454) il duca piegossi ai paterni uffici del sommo
sacerdote, e, coll'opera del nobil uomo Paolo Balbo, ai 9 d'aprile del 1454, fu
sottoscritta la pace di Lodi, celebre per noi, poiché oltre le ragioni della
casa della Scala, alle quali rinunziò il duca, cedette pure i suoi
diritti sopra Brescia e sopra Bergamo, anzi abdicò dal ducato la
città di Crema e suo territorio, trasferendone il dominio nella
repubblica veneta, che la possedette dappoi. Alle guerre in seguito che il duca
ebbe co' Savoiardi, si pose termine con una pace che fissò il fiume
Sesia per limite ai due Stati. Le città che formarono lo Stato sotto il
dominio del conte Francesco primo duca Sforza, e quarto duca di Milano, furono
quindici, cioè Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Novara, Alessandria,
Tortona, Valenza, Bobbio, Piacenza, Parma, Vigevano, Genova e Savona. Queste
due ultime città le acquistò lo Sforza nel 1464 per la cessione
che gliene fece Luigi re di Francia; il che non bastando, colle armi sottomise
Genova al suo potere. Come poi il re di Francia, Luigi XI avesse fatta questa
cessione, dopo che il di lui padre Carlo VII aveva ricusato di riconoscerlo per
duca, e come a questo segno pregiasse egli l'aiuto e l'amicizia dello Sforza,
ce lo insegnano più autori. La Francia era immersa nella guerra civile;
il re aveva collegati contro di lui il duca di Calabria, il duca di Borbone, il
duca di Bretagna, il duca di Bari, il duca di Namur, i conti di Charolois,
Dunois, Armagnac, Dammartin; e questa lega formata contro del re cristianissimo
si qualificava la Lega del ben pubblico. Il re Luigi sommamente onorava
Francesco Sforza, a tale che interamente si reggeva a norma de' consigli di
lui. Il signor Gaillard, uno de' più accreditati scrittori francesi,
dice a tal proposito - Les talens politiques de Sforce égaloient ses
vertus guerrières. Louis XI, qui se
connoissoit en hommes habiles, le consultoit comme un sage. Ce fut François
Sforce qui lui traça le plan qu'il suivit pour dissiper la ligue du bien
public: aussi Louis XI ne souffrit-il jamais que la maison d'Orleans, qu'il
haïssoit, troublât Sforce dans la possession du Milanez[679]. Il Corio dice che il re pregò Francesco Sforza, duca di
Milano, che gli sporgesse adiuto; per lo che il duca preparò un
valido esercito, e lo spedì nella Francia sotto il comando di Galeazzo
Maria, conte di Pavia, di lui primogenito. In quell'esercito servivano da
generali Gaspare Vimercato, Giovanni Pallavicino, Pier Francesco Visconti e
Donato da Milano. Il duca di Savoia accordò il passaggio a quest'armata;
la quale dal Delfinato passò nel Lionese, s'impadronì di
Pierancisa, vi pose comandante Vercellino Visconti, indi, passato il Rodano,
postossi sul Borbonese e servì il re con tanta fermezza e valore, che Sforzeschi
più che huomini erano extimati, dice il Corio, e vennero costretti i
collegati a sottomettersi al re; per lo che quel monarca, l'anno 1466,
mandò al duca una solenne ambasciata per ringraziarlo di tanto
beneficio: sono parole del Corio. Per tai motivi il re di Francia cedette
al duca tutti i diritti suoi sopra Genova e Savona.
Ma Genova, siccome dissi, fu di
mestieri sottometterla colle armi comandate dallo stesso Gaspare Vimercato che
introdusse lo Sforza in Milano e fu nella spedizione di Francia. I Genovesi,
assoggettati, spedirono a Milano ventiquattro oratori, accompagnati da
più di dugento loro cittadini, e il duca accolse onorevolmente
l'omaggio, spesandoli e alloggiandoli signorilmente[680].
Né soltanto co' Veneti, co' Savoiardi,
colla Lega e co' Genovesi fu costretto a guerreggiare per mezzo de' suoi
generali il nuovo duca; ma ben anco nel regno di Napoli, come ausiliario di
Renato d'Angiò, mantenne le sue schiere. Renato pretendeva quel regno
come figlio adottivo della regina Giovanna II, ed aveva seduto sul trono di
Napoli come re, sintanto che il più fortunato di lui, Alfonso d'Aragona,
ne lo scacciò, e si pose in suo luogo. Venne a Milano il re Renato, e lo
accolsero il duca e
Frammezzo a' pensieri militari per
difendere lo Stato e rivendicarne le usurpate membra, il duca Francesco non
dimenticò mai le cure d'un padre benefico de' suoi popoli.
Abbellì, ristorò e rese più vasto il palazzo ducale,
fabbricato da Matteo I, ornato poscia da Azzone, rifabbricato da Galeazzo II, e
cadente e quasi abbandonato allorché il duca Francesco divenne signore di
Milano; poiché Filippo Maria, come vedemmo, non mai vi alloggiò.
Riedificò maestosamente il castello di Porta Giovia, che tuttora
è in piedi; sebbene cinto al di fuori di fortificazioni fattevi durante
il governo della Spagna. (1456) Intraprese e condusse a fine la fabbrica
dell'Ospedal Maggiore, aperto indistintamente a sollievo dell'egra umanità,
senza risguardo a patria né a religione. Il Turco, l'ebreo, il cattolico,
l'acattolico, purché siano ammalati e poveri; ivi trovano ricetto e assistenza.
Intraprese in fine e condusse pure al suo termine la grand'opera del canale,
ossia Navilio, che da Trezzo conduce a Milano le acque dell'Adda. Il
Decembrio così ci assicura: - Conversus deinde ad excolendam
urbem, vicis arenâ latereque constratis, Arcem Portae Jovis, populi tumultu
antea disjectam, e fundamentis erigi magnificentissime curavit. Curiam etiam priscorum
Ducum, vetustate fatiscentem, non solum restituit, sed ampliavit, ornavitque.
Acquaeductum quoque ex Abdua, defosso solo, per viginti milliaria deduci
jussit, quo agri finitimi irrigarentur, populoque necessariae copiae suppeterent[681].
(1457) Questo canale, che chiamasi tra noi Naviglio della Martesana[682]
fu progettato l'anno 1457. Bertola da Novate fu l'ingegnere cui Francesco
Sforza trascelse per quest'opera: egli era nostro cittadino milanese. Fu
condotto a termine l'anno 1460[683].
Le principali difficoltà del progetto erano di derivare un ramo
perenne d'acqua dall'Adda in un luogo di corso assai rapido, di continuare per
alcune miglia il nuovo cavo in una costa sassosa, e di attraversare con esso il
torrente Molgora e il fiume Lambro[684].
Questo canale è sostenuto dapprincipio da un argine grandioso di
pietra sino all'altezza di 40 braccia sopra il fondo dell'Adda. La lunghezza
del canale e è circa di
Questi sono i pubblici monumenti che ci
rimangono del nostro buon duca Francesco Sforza; ma la storia ci ha conservato
de' tratti di lui, che più intimamente ancora ci palesano la di lui
anima. Il Corio ce lo rappresenta così: Fu questo principe
liberalissimo, pieno de humanitate, e mai veruno di mala voglia se partiva da
lui; e singolarmente honorava li homini virtuosi e docti: contra gli homini
semplici non exercitava alcuna inimicizia. Ma haveva in summo hodio li versuti
e maliciosi. In nissuno fu maggiore observantia di fede: amò sempre la
justizia e fu amatore de la religione: Ebbe eloquenza naturale, e nulla
extimava gli astrologhi. La figura del duca era sommamente dignitosa. Negli
atteggiamenti era elegante e nobile senza studio alcuno. La statura era
più grande della comune degli uomini; e guardandolo alla fisionomia sola
del volto, ognuno ravvisava in lui un uomo nato per comandare. Non vi fu chi lo
superasse mentre fu giovine nella robustezza, ovvero nella agilità. Fu
pazientissimo d'ogni disagio, caldo, freddo, fame, sete: tutto sopportava con
volto sereno. In faccia al nemico non palesò mai, non che timore, ma nemmeno
inquietudine; né mai si mostrò dolente per le ferite che riportò.
Abitualmente visse sobrio in ogni cosa, moderato alla mensa, sempre semplice e
frugale. Amava di pranzare in compagnia; ed oltre ai commensali, lasciava a
moltissimi la libertà di visitarlo mentre era a mensa, ed ascoltava
quanto ciascuno voleva esporgli con pazienza e bontà. Poco dormiva, ma
quel poco non mai lo perdé, né per animo turbato, né per rumore alcuno: dormiva
in mezzo a qualunque strepito. Egli era dotato di un ingegno penetrante e di
una esimia prudenza, per modo che niente intraprendeva se prima diligentemente
non l'avesse esaminato; ma poich'era deciso, con mirabile magnanimità e
celerità incredibile l'eseguiva. Malgrado la scostumatezza di quei tempi
egli fu sempre alieno dal disordine, né si lasciò sedurre alla lascivia.
La virtù signoreggiollo per modo, che negli avversi casi non
s'avvilì giammai; e quanto più gli venne prospera la fortuna,
tanto più modesto mostrossi ed incapace di usar contumelia a' nemici;
anzi nel corso intero di sua vita non si vendicò
Già da due anni era stato
idropico il duca, e sebbene ei nell'aspetto sembrasse ristabilito, soffriva
nelle gambe, le quali anche talora si gonfiavano. Egli tentò qualche
rimedio per ridurle alla loro figura di prima; e v'è chi attribuisce a
tal cagione la quasi improvvisa di lui morte, accaduta con due soli giorni di
malattia. (1466) Il giorno 8 di marzo dell'anno 1466, all'età di
sessantacinque anni, dopo sedici anni di signoria, morì il duca Francesco
Sforza. Tutta la città rimase squallida e desolata a tale inaspettata
disgrazia: stimando ogniuno, dice il Corio, non solo havere perduto
uno duca, ma uno colendissimo patre.
Mentre l'imperatore Federico III venne
di qua dall'Alpi, e si fece incoronare in Roma dal papa, egli non toccò
nemmeno le terre soggette allo Sforza; non volendo pregiudicare alle ragioni
dell'Impero col riconoscere per legittimo sovrano e duca l'usurpatore d'un
feudo imperiale, ch'ei non aveva forze per difendere. Era questo un oggetto
importante assai per la dominazione della casa sforzesca, di cui era mancato il
sostegno e lo splendore. Galeazzo Maria, in marzo del 1466, allorché
morì suo padre, era, siccome già dissi, nella Francia, comandando
nel Delfinato l'armata che il duca aveva allestita in soccorso del re contro
Quando uno Stato, anche vasto, sia
accozzato insieme con male arti, con sorprese, con insidie, con tradimento, al
morire del sovrano cessa il timore ne' sudditi e ne' vicini; e per poco che il
successore sia debole o mancante d'artificio, si scompone, siccome avvenne
della signoria che radunò il primo duca Giovanni Galeazzo. Ma quando per
lo contrario la dominazione s'acquisti col valore personale, e si innalzi colla
generosità delle virtù del sovrano, e siavi stato tempo bastante
per imprimere nel cuore degli uomini la riverenza e l'amore che l'eroismo fa
nascere, ancora dopo spento l'eroe, l'ammirazione e l'affezione de' popoli
aiutano il figlio, come parte viva di lui, e malgrado i difetti e la poca
somiglianza che egli abbia col padre, lo coprono colla di lui gloria.
Così accadde al nuovo duca Galeazzo Maria, il quale poco imitò il
magnanimo suo padre. Uno de' primi fatti di Galeazzo lo svela.
(1469-470) Il duca Galeazzo amava la
pubblica magnificenza, e a tal fine comandò che si lastricassero le vie
di Milano: il che non fu puocha graveza, ma quasi intollerabile danno,
dice il Corio[692].
Francesco di lui padre le fece riattare. Sarà stata una saggia
provvidenza quella di lastricarle solidamente: ma tai riforme di lusso si fanno
giudiziosamente e per gradi. (1471) La pompa del duca si palesò
singolarmente nel maestoso viaggio ch'ei fece colla duchessa a Firenze l'anno
1471. Condusse egli un tal corredo, che oggidì nessuno de' monarchi
d'Europa penserebbe nemmeno a simile teatrale rappresentazione. Il Corio ce la
descrive minutamente; ed io la racconterò, perché simili oggetti danno
idea del modo di pensare di que' tempi. I principali feudatari del duca ed i
consiglieri gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi
d'oro e d'argento; ciascun di essi aveva un buon numero di domestici
splendidamente ornati. Gli stipendiari ducali tutti erano coperti di velluto.
Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro. Altri camerieri
aveano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta,
ornata d'argento. Cinquanta corsieri con selle di drappo d'oro e staffe dorate:
cento uomini di armi, ciascuno con tale magnificenza, come se fosse capitano:
cinquecento soldati a piedi, scelti: cento mule coperte di ricchissimi drappi
d'oro ricamati; cinquanta paggi pomposamente vestiti: dodici carri coperti di
superbi drappi d'oro e d'argento: duemila altri cavalli e duecento muli coperti
uniformemente di damasco per l'equipaggio de' cortigiani. Tutta questa
strabocchevole pompa andava in seguito del duca; ed acciocché non rimanesse
nulla da bramare, v'erano persino cinquecento paia di cani da caccia, v'erano
sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale fu il fasto di quel
memorando viaggio, che doveva recare incomodo ed ai sudditi del viaggiatore ed
agli ospiti. Questa superba comitiva nell'accostarsi a Firenze venne accolta
con somma festa e onore da quel senato. I nobili e i primari della città
si affacciarono i primi: indi molte compagnie di giovani in varie fogge
uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi le giovani
pulcelle, cantando versi in laude de lo excellentissimo principe, dice
il Corio. Indi, accostandosi alla città, ricevettero gli ossequi de'
magistrati; finalmente gli accolse il senato, che presentò al duca le
chiavi della città. Entrò il duca con una sorta di trionfo, e
venne collocato nel palazzo di Pietro dei Medici, figlio di Cosimo. Non accadde
altra cosa degna d'essere raccontata; basti osservare che non poteva verun
altro monarca essere onorato di più di quello che furono Galeazzo e la
Bona in Firenze. Da Firenze passarono questi principi a Lucca; ove vennero
accolti con somma pompa: anzi vollero i Lucchesi perfino aprire una nuova porta
nelle mura della loro città, onde trasmettere ai tempi a venire memoria
di questo magnifico ingresso. Da Genova poi ritornarono Galeazzo e la Bona a
Milano. Oggidì, che i sovrani hanno nelle mani il potere per mezzo della
milizia stabilmente stipendiata, non si curano più di abbagliare i
popoli.
(1472) Poiché ritornò dal
viaggio, il duca pensò a dare una moglie al di lui figlio primogenito
Giovanni Galeazzo, bambino ancora di quattro anni. Questa fu Isabella
d'Aragona, figlia del duca di Calabria Alfonso e d'Ippolita Sforza,
conseguentemente germana cugina dello sposo. Queste nozze si pubblicarono
l'anno 1472. Il duca era strettamente collegato col cardinale di San Sisto,
nipote ed assoluto padrone di papa Sisto IV: l'oggetto della reciproca unione
era la loro fortuna. Il duca doveva adoperarsi per fare papa il cardinale colla
rinunzia dello zio. Il cardinale, asceso al sommo pontificato, doveva innalzare
lo Sforza incoronandolo re d'Italia, ed aiutandolo a ricuperare tutte le
città già possedute dal primo duca. I Veneziani non potevano
essere contenti di un tal progetto che loro toglieva tutta la terra ferma.
Malgrado lo studio di celare questa trama politica, convien credere ch'essi ne
avessero qualche contezza. Il cardinale, ch'era stato magnificamente accolto in
Milano, bramò di vedere Venezia; e quantunque cercasse di dissuadernelo
il duca, egli volle insistere e passarvi. (1473) A tale proposito dice il Corio:
da quello senato fu grandemente honorato, e per la intrinseca amicizia quale
enteseno Veneziani havere lui con Galeazzo Sforza fu affirmato havergli dato il
veneno; impero che in termine de puochi giorni, pervenuto a Roma,
abandonò la vita[693].
Io non sono mallevadore de' sospetti di que' tempi: bastano però
per far conoscere qual fede e quanta umanità regnassero, se così
si giudicava dei governi. (1474) In mezzo ai sospetti di veleno, in mezzo alle
asiatiche pompe, in mezzo ai gemiti de' popoli, oppressi dalla mole di tributi
corrispondenti a quelle, l'anno 1474, il 15 marzo, venne a Milano il re
d'Ungheria e di Boemia Mattia I. Egli s'era reso padrone dell'Ungheria,
scacciandone Casimiro, figlio del re di Polonia, e s'era impadronito della
Boemia, scacciandone Giorgio Podiebrad. Egli era stato in pellegrinaggio a San
Giacomo di Galizia, e passava di ritorno a Milano. Galeazzo, che stipendiava
cento cortigiani e cento camerieri, e pomposamente vestivagli, alloggiò
l'ospite nel palazzo ducale colla magnificenza e profusione degna di lui.
Mostrò a quel re il suo tesoro, valutato due milioni d'oro, oltre le
gioie, le quali valevano circa un altro milione. Il re Mattia chiese un
prestito dal duca: ed egli gli fe' consegnare diecimila ducati, ossia zecchini.
Dopo lautissimo ed onorevolissimo trattamento prese commiato il re; e
poich'egli fu nell'Ungheria, si lusingò il duca ch'egli avrebbegli
concesso di comprarvi dei cavalli. (1475) A tal fine spedì nell'Ungheria
Bernardino Missaglia, suo famigliare, con molta somma di denaro. Il re fece
imprigionare il Missaglia, e tolsegli i denari confidatigli dal duca; a stento
finalmente gli permise di ritornarsene a Milano: così narra il Corio[694].
(1476) La fama della casa Sforza era giunta a segno che persino il soldano
d'Egitto spedì al duca ambasciatori; e questi vennero a Milano
nell'ottobre del 1476, accolti, alloggiati, regalati splendidamente dal duca.
Il duca Carlo di Borgogna tentava d'impadronirsi della Savoia. Né alla Francia
piaceva questo, né al duca Galeazzo; una bellicosa e potente nazione vicina non
conveniva; e Galeazzo aveva di più per moglie Bona, principessa di
Savoia. Il duca Galeazzo si collegò col re di Francia, indi spinse
l'armata contro de' Borghignoni; e felicemente gli Sforzeschi fecero ritirare i
nemici fino alle Alpi. Il rigido inverno non permise di portare più
oltre l'impresa; onde il duca Galeazzo ridusse a quartiere i soldati, aspettando
la primavera per ripigliare la guerra e discacciare affatto dall'usurpato paese
i Borghignoni, e ritornarsene a Milano, ove di lì a poco morì.
Le circostanze della morte del duca
Galeazzo Maria Sforza ci sono minutamente trasmesse dagli scrittori di quel
tempo; e siccome sono feconde nelle loro conseguenze, io non le
ometterò. Gli storici di quel tempo ci hanno lasciata memoria degli auguri
sinistri pe' quali credettero presagita la sciagura di quel sovrano. Mentre il
duca Galeazzo Maria trovavasi in Abbiategrasso, comparve una cometa, e questo
è il primo infausto presagio. Il secondo fu che in Milano il fuoco prese
nella stanza in cui egli soleva abitare. Ciò inteso, Galeazzo quasi
più non voleva riveder Milano; pure vi s'incamminò, e mentre da
Abbiategrasso cavalcava verso la città, tre corvi lentamente passarongli
sul capo gracchiando, il che cagionogli tanto ribrezzo, che, poste le mani
sull'arcione, rimase fermo; poi volle superarsi, e proseguendo venne a Milano.
Così allora si pensava; e tali pusillanimità cadevano anche in
uomini di coraggio militare, come era il duca. Conciossiaché l'uomo ardisce di
affrontare un pericolo conosciuto, e cimentarsi contro altri uomini; ma contro
potenze invisibili ed invulnerabili il sentimento delle proprie forze lo
abbandona. Ai soli progressi della ragione siamo debitori noi viventi della
superiorità nostra. Per lei siamo liberati da una inesauribile sorgente
d'inquietudini; per lei finalmente sappiamo che la nebbia impenetrabile entro
cui sta celato il nostro avvenire, è un benefizio della Divinità;
e sappiamo per lei che la sommissione rispettosa ai decreti della provvidenza
è il più saggio ed utile sentimento dell'uomo.
La vigilia di Natale, verso sera, il
duca, secondo l'usanza, scese nella gran sala inferiore del castello, dove
stava d'alloggio; ed a suono di trombe e con istupendissimo apparato vi scese
colla duchessa Bona e co' suoi figli. I due fratelli del duca, Filippo ed
Ottaviano, portarono il così detto zocco, e lo collocarono sul
fuoco. Gli altri tre fratelli del duca erano assenti. Ascanio, in Roma; e
Lodovico e Sforza, duca di Bari, erano rilegati da Galeazzo nella Francia.
Così si soleva in que' tempi radunare la famiglia al Natale. Il giorno
vegnente poi nuovamente radunossi con varii cortigiani, e il duca in circolo
parlò della casa Sforza; e noverando i fratelli suoi, i cugini, i figli
in numero di dieciotto, tutti di età fresca, osservò che per
secoli non sarebbe finita. Pranzò in pubblico. Il giorno poi di santo
Stefano dal castello s'incamminò a cavallo con tutto il corteggio per
ascoltare la messa nella chiesa collegiata di detto santo, ove giunto, da tre
nobili giovani venne con più pugnalate ucciso al momento. I congiurati
furono Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. I due
primi erano cortigiani del duca. Giovanni Andrea finse di voler far largo al
duca; ed avventandosegli pel primo, lo ferì nel ventre, e gl'immerse
nuovamente il coltello nella gola. Frattanto Girolamo lo trafisse alla mammella
sinistra, poi nella gola, indi nelle tempie. Carlo, nel tempo stesso, nella
schiena, e nella spalla lo colpì con due ferite, pure mortali. Il duca
appena poté esclamare: oh nostra donna! e cadde all'istante
là nella chiesa. Così terminò la sua vita di duca Giovanni
Galeazzo, il giorno 26 dicembre del 1476, dopo dieci anni di sovranità,
all'età di trentadue anni. La serie di questa congiura è nota, e
si è anche più conosciuta col dramma: la Congiura contro di
Galeazzo Sforza; tragedia di sentimenti grandi, arditi, liberi; piena di
lezioni utili ai principi, utili ai sudditi; che ci rappresenta la tirannia co'
suoi tratti odiosi, il fanatismo pericoloso, quando anche nasca da nobili
principi; che interessa e sviluppa un'azione che è la sola della nostra
storia posta sul teatro, e la presenta col costume de' tempi; tragedia che
sgomenta le anime gracili, e scuote deliziosamente le energiche. La storia
è adunque, che in Milano eravi un uomo d'ingegno, erudito, eloquente e
di sentimenti arditi, che aveva nome Cola Montano: si dice ch'ei fosse Bolognese[695].
Egli viveva col mestiere delle lettere, ed era un rinomato maestro, alla scuola
di cui varii giovani nobili andavano per istruirsi. Taluno, assai versato negli
aneddoti, mi asserì che questo Cola Montano fosse stato dileggiato dal
duca Galeazzo Maria. Concordemente la storia c'insegna che Montano ne' suoi
precetti sempre instillava nel cuore de' suoi nobili alunni l'odio contro la
tirannia, la gloria delle azioni ardite, la immortalità che ottiene chi
rompe i ferri alla patria, e la renda libera e felice. Egli animava gli alunni
suoi a mostrare una virile fermezza, ad amare la vigorosa virtù, a
cercar fama con fatti preclari. Poiché co' discorsi e cogli esempi della
virtù romana ebbe trasfuso il fanatismo nelle vene bollenti degli scolari,
egli coglieva l'occasione che il duca colla pompa accostumata passasse davanti
la scuola; e trascegliendo i più ardenti ed audaci, mostrava loro un
Tarquinio nel duca, ed una mandra di schiavi, buffoni effeminati ne' suoi
magnifici cortigiani, veri sostegni della tirannia e pubblici nemici.
Confrontavali co' Cartaginesi, co' Greci, co' Metelli, co' Scipioni romani.
Giunti al grado del fervore al quale cercò di ridurli, collocò
alcuni di essi al mestiere delle armi sotto Bartolomeo Coleoni, acciocché imparassero
a conoscere i pericoli, ad affrontarli, a ravvisare le proprie loro forze[696].
Condotta la trama al suo termine, finalmente furono trascelti quei che egli
giudicò più adattati; e furono appunto Giovanni Andrea
Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. Si pensò con un colpo
ardito di liberare la patria, mostrando quando sarebbe facile l'impresa, purché
i cittadini si ricordassero soltanto d'essere uomini. Avanti la statua di
sant'Ambrogio venne congiurata la morte del tiranno Galeazzo Maria, usurpatore
del trono, oppressore della libertà che pur godevasi ventisei anni
prima, nimico della patria, impoverita colle enormi gabelle ed insultata col
lusso di un principe malvagio. Così formossi segretamente la trama, che
scoppiò prima che alcuno ne sospettasse. Giovanni Andrea Lampugnano,
appena fatto il colpo, cadde poco lontano dal duca, ucciso da un domestico
ducale. Girolamo Olgiato, che aveva ventitre anni, si sottrasse col favore
della confusione, e ricoveratosi presso di un buon prete, aspettava di ascoltar
per le vie della città gli applausi per l'ottenuta libertà, ed
impaziente attendeva il momento per mostrarsi come liberatore della patria. Ma
udendo invece gli urli e lo schiamazzo della plebe, che ignominiosamente
strascinava per le strade il cadavere del Lampugnano, s'avvide troppo tardi
dell'error suo, perdé ogni lusinga, e venne imprigionato. Dal processo che se
gli fece, si seppe
Il merito principale nell'aver
conservata la città tranquilla in mezzo a tale scossa improvvisa, l'ebbe
Francesco Simonetta, che si chiamava Cicho Simonetta. Egli era stato il
primo ministro e l'amico del duca Francesco; uomo di Stato e di molta
virtù, e tale che, allorché Gaspare Vimercato, a cui Francesco in parte
doveva e Milano e Genova, ardì parlargliene svantaggiosamente, il duca
freddamente risposegli: essere tanto necessario a lui ed allo Stato Cicho, che
s'ei morisse, ne avrebbe fatto fabbricare uno di cera. La vedova duchessa Bona
lasciò che Cicho disponesse ogni cosa. Egli si servì del conte
Giovanni Borromeo per tenere in calma
V'erano due supremi consigli. Quello di
Stato si radunava nel castello avanti il sovrano o la tutrice; quello di
giustizia si radunava nella corte ducale di Milano. Lodovico e Sforza, fratelli
del defunto duca, immediatamente dalla Francia, ove tenevali rilegati il
fratello Galeazzo, volarono a Milano; lusingandosi, come zii del duca, di
prendere le redini del comando. Simonetta li destinò con onore a
presedere al consiglio supremo di giustizia. Fremevano vedendosi così
delusi; ma il marchese di Mantova e il legato pontificio, venuti per ufficio
alla corte di Milano, tentarono di calmare i loro animi; e restò
concluso che si pagassero ogni anno dodicimila e cinquecento ducati a ciascuno
degli zii del duca, e che si assegnasse a ciascuno un palazzo in Milano, e
così uscissero dal castello. I fratelli del duca Galeazzo, zii del
vivente, erano cinque, cioè Sforza, Filippo, Lodovico, Ascanio e
Ottaviano.
(1477). Genova si ribellò.
Dodicimila uomini vennero spediti per sottometterla. Se ne confidò il
comando a Lodovico ed Ottaviano, fors'anco per allontanarli. L'impresa riuscì
bene, poiché, malgrado la vigorosa resistenza de' Genovesi, gli Sforzeschi se
ne impadronirono; e il giorno 9 di maggio 1477 resero i Genovesi nuovamente
omaggio al duca[698].
Ritornarono a Milano Lodovico ed Ottaviano colla benemerenza di tale vittoria.
Simonetta teneva l'occhio sopra di essi. Venne imprigionato un confidente di
questi due principi, da cui seppe le trame che ordivano contro lo Stato. I due
fratelli pretesero che il loro confidente venisse liberato; e ciò non
ottenendo, posero mano alle armi, e sollevarono più di seimila persone
in Milano. La duchessa e Simonetta stavasene nel castello; e in esso, dalla
parte esterna, fecero entrare tutte le genti d'armi vicino a Milano, il che
bastò per far deporre le spade. Ottaviano non volle fidarsi del promesso
perdono, e se ne fuggì; e, giunto a Spino, vicino a Lodi, temendo di
essere arrestato, si avventurò a passar l'Adda, e vi si affogò
cadendo da cavallo, il che avvenne l'anno 1477. Egli aveva 18 anni; il di lui
cadavere si ritrovò poi, e venne tumulato in Duomo. Simonetta fece
formare un processo della sedizione, e risultò che gli zii del duca
avevano tramato di togliergli lo Stato. Indi vennero relegati, Sforza, duca di
Bari, nel regno di Napoli, Lodovico a Pisa, ed Ascanio a Perugia.
Sforza, trovandosi nel regno di Napoli,
mosse il re Ferdinando in favor suo e de' fratelli; e naturalmente
Dum fidus servare volo patriamque
ducemque,
Multorum insidiis proditus, interii.
Ille sed immensa celebrari laude meretur,
Qui mavult vita, quam caruisse fide[699].
Come poi venisse abbandonato a
così indegno destino un ministro tanto illibato ed illustre, ce lo dice
il Corio; cioè per la fazione de' nemici, i quali giunsero a prendere le
armi contra lo stesso Lodovico, avendo alla
Poco tardò a verificarsi il
rimanente del vaticinio del Simonetta. (1481) Il favorito della duchessa
Trassino, accecato, siccome avviene alle anime basse, dalla prospera fortuna,
mancando ai riguardi ch'egli doveva verso Lodovico, venne scacciato nel 1481, e
portò seco a Venezia un tesoro di gioie e di denaro. La duchessa si
avvilì talmente, che rinunziò a Lodovico la tutela con un atto solenne[700],
sperando con ciò di rimaner libera, ed uscendo dallo Stato rivedere il
favorito: ma il primo uso che Lodovico fece del potere confidatogli, fu
d'impedirle l'uscita dallo Stato, e ad Abbiategrasso venne arrestata.
Così Antonio Trassino, senza saperlo, fu quegli per cui
(1482) L'Italia si pose in armi l'anno
1482, e per due anni ne sopportò i mali. Il re
(1489) Il duca di Bari Lodovico il
Moro, poiché Giovanni Galeazzo, suo nipote, duca di Milano, giunse
all'età di venti anni nel 1489, pensò di accompagnarlo colla
principessa Isabella di Aragona, a cui era già stato promesso dal
defunto duca. Ermes Sforza e il conte Gian Francesco Sanseverino furono destinati
ambasciatori alla corte di Napoli per tal solenne inchiesta. Il Calco ce ne
rappresenta
Lodovico reggeva lo Stato come
governatore a nome del duca, e nelle monete eravi da una parte l'immagine del
duca: Johannes Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Dux Mediolani Sextus, e
dall'altra l'immagine di Lodovico colla leggenda: Ludovico Patruo
gubernante. Ma questo governatore sotto varii pretesti rimosse dalle
fortezze i castellani affezionati del duca, e sostituì uomini
interamente dipendenti da esso Lodovico. (1491) Poi pensò ad
ammogliarsi; e l'anno 1491, al 31 gennaio, condusse a Milano la sua sposa
Poste a convivere insieme le due
principesse, cioè
(1493) Dopo di ciò Lodovico il
Moro attentamente osservava i movimenti del re di Napoli. Seppe che si
allestiva un'armata contro di lui, e si preparava una flotta a cui doveva comandare
Alfonso, padre della duchessa, principe valoroso e prudente. A un tal nembo
avrebbe potuto resistere Lodovico colle forze proprie, se avesse potuto fidarsi
de' sudditi che governava. In ogni governo vi è sempre un buon numero di
malcontenti, essendo le voglie de' popoli sempre maggiori del potere sovrano; e
questi malcontenti avrebbero abbracciato il partito del loro sovrano,
l'oppresso duca Giovanni Galeazzo, di cui la condizione moveva a pietà,
sì tosto che si fosse avvicinata un'armata a sostenerlo. Conveniva
suscitare un potente nemico all'Aragonese re di Napoli, e distoglierlo
così dal pensiero degli Stati altrui, per difendere il proprio. Carlo
VIII, re cristianissimo, era nel bollore dell'età; aveva ventiquattro
anni; amava le imprese grandi; era capace di riscaldarsi l'animo. Lodovico, che
avea vissuto alcuni anni nella Francia e conosceva la nazione, formò il
progetto di far prendere le armi al re Carlo, per ricuperare il regno di
Napoli. Spedigli come ambasciatore Carlo Barbiano, conte di Belgioioso, il
quale lo animò a scacciare da Napoli gli usurpatori aragonesi, e
rivendicando le ragioni della casa di Angiò, unire quel regno alla
corona di Francia. Il re aveva già in mente di frenare i Turchi, che
minacciavano la cristianità: e nessun paese era a ciò più
vantaggioso, quanto il napoletano. Oltre a ciò si rappresentò al
re Carlo, che il denaro di Lodovico, le sue milizie erano agli ordini suoi; i
desiderii de' Napoletani erano per lui; i principi d'Italia, il papa, i
Fiorentini, i Veneziani, tutti avrebbero favorita l'impresa. Così
offerivasi a Carlo VIII di rinnovare nell'Italia la memoria di Carlo Magno.
Già i Turchi minacciavano la Dalmazia e l'Ungheria. La gloria di salvare
i regni cristiani era riserbata al primogenito fra i cristiani, il re di
Francia. In tal guisa il conte di Belgioioso destramente persuase il re. Vinse
colle maniere accorte e col denaro di Lodovico alcuni primari favoriti.
L'impresa venne decisa, e il re, convocati gli Stati a Tours, pubblicò
la guerra pel regno di Napoli; ed ivi anticipatamente distribuì i feudi
di quel regno, e si appropriò il titolo di re di Gerusalemme e di
Sicilia, oltre quello di re di Francia. Alcuni ministri francesi, per comandare
più liberamente colla lontananza del re, applaudirono. Vi era chi conosceva
non essere facile l'impresa; essere il re Ferdinando avveduto; essere valoroso
Alfonso di lui figlio; aver essi il fiore della milizia al loro stipendio;
essere tuttora dubbioso qual partito prenderebbero il papa, i Fiorentini e i
Veneziani; doversi temere l'imperatore Massimiliano e il re di Spagna
Ferdinando, pronti forse ad invadere la Francia, se ella rimaneva sprovveduta.
Lodovico si adoperò per togliere
le dissensioni fra Massimiliano imperatore e Carlo VIII. Senza di ciò
poteva il re cristianissimo venir costretto a retrocedere per difendere
Lodovico aveva il diploma imperiale che
lo dichiarava duca di Milano; ma lo teneva nascosto. Già vedemmo che
l'imperator Federigo non concesse mai il ducato di Milano né a Francesco Sforza
né a Galeazzo Maria. Giunto alla suprema dignità dell'impero
Massimiliano I, ei ne conferì il ducato, non già al primogenito
dell'ucciso Galeazzo, ma al tutore di esso, Lodovico il Moro. Il diploma venne
spedito in Anversa il giorno 5 settembre
Stacchiamo lo sguardo, almen per poco,
dai tristi avvenimenti della politica, rimiriamo oggetti più ameni,
cioè i progressi che la coltura fece presso di noi sotto il governo di
Lodovico il Moro. Lodovico dapprincipio fabbricò il vastissimo claustro
del Lazzaretto secondo l'uso di que' tempi; ma in appresso egli pose
all'architettura per maestro il Bramante da Urbino, alla pittura, Leonardo da
Vinci. Questi grandi uomini erano cari a Lodovico. Sotto la scuola di
quest'ultimo si formarono Polidoro da Caravaggio, Cesare da Sesto, Bernardo
Luino, Paolo Lomazzi, Antonio Boltrasio ed altri, dai quali ebbe vita ed onore
la scuola milanese. L'architettura era ne' primi anni sotto Lodovico resa
elegante bensì, ma conservava capricciosi ornamenti, siccome scorgevasi
nella facciata della casa de' signori conti Marliani[710].
Poi s'innalzò il magnifico tempio della madonna di San Celso; si eresse
la facciata del palazzo arcivescovile; si fabbricò il chiostro,
veramente nobile e grandioso, dell'imperial monastero di Sant'Ambrogio[711];
e così si esposero allo sguardo pubblico modelli di bella architettura.
Lodovico grandiosamente stipendiava gli abili artisti e gli uomini d'ingegno;
accordava loro piena immunità da ogni carico; animava i progressi della
coltura. Demetrio Calcondila, Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Giulio
Emilio erano fra noi gl'illustri letterati protetti e beneficati dal Moro.
Bartolomeo Calco, segretario di Stato ed uomo colto, per secondare il genio del
suo principe, instituì le scuole pubbliche, le quali sino a' giorni
nostri ne portano il nome. Tommaso Grossi eresse e dotò altre pubbliche
scuole per gratuita istituzione della gioventù; e queste pure conservano
il nome del loro fondatore. Tommaso Piatti, che sommamente era in favore presso
Lodovico, instituì pubbliche cattedre di astronomia, geometria, logica, lingua
greca ed aritmetica. Con tali beneficenze pubbliche si otteneva l'amicizia di
Lodovico; il che certamente fa sommo onore alla memoria di lui. Non è
dunque da meravigliarsi se di que' tempi le belle lettere venissero in fiore, e
se da quella scuola uscissero poi Girolamo Morone, di cui accaderà in
breve ch'io parli, Andrea Alciato e Girolamo Cardano. Scrivevano allora la
storia patria Tristano Calco, memorabile per l'elegante stile latino, e per la
molta accuratezza; Bernardino Corio, inelegante scrittore bensì, e
credulo compilatore delle antiche favole, ma accurato e fedele espositore delle
cose de' tempi più vicini. Allora la poesia, la musica, tutte le belle
arti ebbero vita e onore. Il cavaliere Gaspare Visconti in quella età
scriveva rime degne di leggersi[712].
Ecco quasi per saggio tre sonetti di lui fra i molti che ho esaminati. Il
primo, singolarmente nei due quaderni, mi pare assai robusto e poetico.
Rotta è l'aspra catena e il
fiero nodo
Che l'alma iniquamente già mi
avvinse;
Rotto è il gruppo crudel che il
cor mi strinse,
Onde mia sorte ne ringrazio e lodo.
Fuor del pensiero ho l'amoroso chiodo,
Che poco meno a morir mi sospinse;
E il volto che nel petto amor mi pinse,
Lì dentro è casso, e
senza affanni or godo.
Ringrazio il cielo, il qual m'ha
liberato
Dalla cieca prigion, piena d'orrore,
Dove gran tempo vissi disperato.
E quando a sé pur mi rivogli amore,
Me leghi a un cuor che sia fedele e
grato,
Ch'io servirò per fino
all'ultim'ore.
L'altro sonetto seguente parmi assai
leggiadro, e ci fa vedere che l'allegria e la sociabilità erano
conosciute da que' nostri antenati. Anco un'altra osservazione sul costume ci
si presenta; ed è che, usando allora le gentildonne abiti pesantissimi
di broccato, non potevano altrimenti ballare e vivacemente, come ora si
costuma; ma unicamente potevano moversi con graziosa lentezza, modice et
venuste, siccome nel capitolo precedente vedemmo[713]:
perciò Gaspare Visconti, nel seguente sonetto, fra i pregi delle
ballerine, annovera il mover lenti lenti i piedi. Ecco il sonetto:
Io vidi belle, adorne e gentil dame
Al suon di soavissimi concenti
Co' loro amanti mover lenti lenti
I piedi snelli, accese in dolci brame.
E vidi mormorar sotto velame
Alcun degli amorosi suoi tormenti,
Dividersi, e tornare al suono intenti,
E cibar d'occhi l'avida sua fame;
Vidi stinger le mani, e lasciar l'orme
Dolcemente stampate in lor non poco,
E trovarsi in due cor desio conforme.
Né mirar posso così lieto
giuoco,
Ch'a pensier lieto alcun possa disporme
Senza colei che notte e giorno invoco.
D'un altro genere, men elevato
sì, ma pregevole per la facilità, è il sonetto seguente
ch'ei scrisse a messer Antoniotto Fregoso, da cui veniva avvisato che una
indiscreta vecchia non cessava d'infamarlo. Così rispose:
Omai, Fregoso, io son come il cavallo
Che porta il tuon delle pannonie
schiere,
O come quel qual usa il schioppettere,
Che al bombo del schioppetto ho fatto
il callo
Riprenda pur la plebe ogni mio fallo,
Che tanto fa il suo dir quanto il
tacere,
Qual son l'opere mie, quale il volere,
Chi il vero intende, apertamente sallo.
Che diavol sarà poi con questa
femmina,
La qual non altra cosa che zizania
Nel steril orto del rio volgo semina!
Sola sé stessa infin, non altri lania;
E quanto più suo pazzo error
s'ingemina,
Tanto a chi sa, dimostra più sua
insania.
Dal fine d'un sonetto ch'egli scrisse
alla Beatrice d'Este si conosce qual ascendente quella principessa avesse
sull'animo di Lodovico:
Donna Beata, e spirito pudico,
Deh, fa benigna a questa mia richiesta
La voglia del tuo sposo Lodovico.
Io so ben quel che dico:
Tanta è la tua virtù, che
ciò che vuoi
Dello invitto suo cor disponer puoi[714].
Di questo magnifico e generoso
cavaliere aurato, Gaspare Visconti, consigliere ducale, evvi pure un poema
stampato per magistro Philippo Mantegatio, dicto el Cassano, in la
excellentissima cittade de Milano, nell'anno Mcccclxxxxv, a dì primo de aprile. Questo poema
ha per titolo: Paulo e Daria amanti. Non v'è traccia che meriti
di seguirne
Messer Luchino in segno di letizia
Fece ordinar un bel torneamento,
E de' compagni della sua milizia
Ne scelse appunto al numero ducento;
Ciascun de' quali ha forza e gran
divizia;
Milanese ciascun, pien d'ardimento;
Che allor Milano al marzial negozio
Molto era intento e non marciava in
ozio
Giunto era il giorno al tornear
proposto
Da Luchin di Milan, signor e padre,
Qual credo fosse a' quindici d'agosto.
Quando vennero in campo ambe le squadre
Ognun quanto più può, fa
del disposto,
Con sopraveste e fogge alte e
leggiadre,
All'uso pur di quel buon tempo prisco,
Ch'ogni ornamento suo pagava el fisco.
La compagnia d'Èstor tutta
ross'era;
L'altra di Dario candida si vede,
Che de' Visconti la divisa vera
Bianca e rossa è, se al ver si
presta fede, ecc.
Canto II[715].
Il Corio ci descrive l'urbanità,
l'opulenza, il raffinamento e il lusso della corte di Lodovico, prima che
sventuratamente promuovesse l'invasione dei Francesi. Spettacoli, giostre,
tornei occupavano l'ozio felice di que' tempi, ne' quali quel signore compariva
il più rispettato principe d'Italia. L'ambasciator veneto Ermolao
Barbaro, spettatore di quei' tornei, compose i seguenti versi conservatici dal
Corio:
Cum modo constratos armato milite
campos
Cerneret, expavit pax, Ludovice, tua.
Et mihi: surge inquit; circum sonat undique ferrum,
Me meus ejectâ Conditor arma parat.
Te rogo per Veneti sanctissima jura
Senatûs,
Occurre ingenti, si potes, exitio.
Tunc ego: pone metum, Dea; te Lodovicus adorat,
Numine plus gaudet, quam Jovis, ille tuo.
Nec tu bella time, simulacra et ludrica
sunt haec;
Misceri hoc tantum convenit arma loco.
I nunc, et coelo terras cole, Diva, relicto;
Sin minus, hic pro te sufficit, alta pete,
Sforciadasque tuos terrâ defende marique,
Et belli et pacis artibus egregios[716].
Frutto di questa universale coltura
promossa dal duca e dalla giudiziosa scelta ch'egli sapeva fare degli uomini di
merito, fu la riunione del canale della Martesana con l'altro antico, cavato
del Tesino. Lionardo da Vinci, siccome ho accennato al capitolo decimosettimo,
con sei sostegni superò la differenza del livello di circa tredici
braccia, e rese la navigazione comunicante dal Tesino all'Adda. L'invenzione
dei sostegni a gradino era appunto di quel tempo; e i primi modelli in questo
genere si sono veduti nei navigli di Bologna e di Milano. Così dice
il sullodato Paolo Frisi[717].
Il sistema del governo allora era
questo. Lodovico aveva quattro segretari. Bartolomeo Calco era alla testa degli
affari di Stato; egli apriva le lettere dei principi esteri; disponeva le
risposte; dirigeva il carteggio co' ministri alle corti estere; trattava coi
ministri forestieri residenti in Milano. Aveva sotto di sé varii cancellieri,
uno per Francia, uno per Germania, uno per Venezia, e così dicendo. Il
reverendo Jacopo Antiquario era segretario per le cose ecclesiastiche, per le
spedizioni de' benefizi e cause dipendenti. Giovanni da Bellinzona era
segretario per gli affari di giustizia e singolarmente criminali. Giovanni
Jacopo Terufio aveva gli affari della camera, e fissava la lista delle spese
de' salariati ed altre costanti, spedendole ai Magistri delle entrate,
ossia a quel corpo che oggidì chiamasi Magistrato, accioché ne
facesse seguire alle scadenze i pagamenti. Questi quattro segretari avevano i
loro dipartimenti nel castello, ordinaria residenza del duca[718].
Le entrate del duca ascendevano, tutto compreso, a seicentomila annui zecchini[719].
Delle gioie da monarca che Lodovico il Moro possedeva, le quali diede in pegno
per averne danari, quattro pezzi sol bastano per darcene idea. Da un
manoscritto antico conservato nella grandiosa collezione del signor principe di
Belgioioso d'Este[720],
ciò ho rilevato. La carta si intitola: Zoye impegnate che erino
dell'illustrissimo signor Lodovico Sforza - El balasso chiamato el Spino,
estimato ducati venticinquemille. El rubino grosso con la insegna del Caduceo,
de carati 22. Con una perla de carati 29, estimati ducati
venticinquemille. La punta grossa di diamante, estimata ducati
venticinquemille. La perla grossa pesa con l'oro den. 6, gra. 9,
vale ducati diecimille. Il Corio ci descrive Lodovico Sforza come uomo di
molto ingegno, d'aspetto veramente maestoso, di contegno nobile e singolarmente
pacato mai sempre, anche nelle occasioni nelle quali è più
difficile il conservarsi tale. Le immagini che ci rimangono di lui, ci
rappresentano appunto una fisionomia corrispondente, ed anche nel conio delle
monete di allora si conosce la eleganza e maestrìa d'ogni bell'arte.
Ripigliamo il filo della storia. I
Francesi, entrati nell'Italia sotto il loro re Carlo VIII, la trascorsero come
un fulmine dalle Alpi sino al regno di Napoli, di cui quasi senza contrasto
s'impadronirono. Nessun riguardo usarono sulle terre del duca; anzi a
Pontremoli uccisero varii del paese, ed alcuni degli stipendiati del duca.
Cominciò allora, ma tardi, ad accorgersi Lodovico del vortice pericoloso
in cui si era voluto immergere. Il duca d'Orleans in Asti non dissimulava punto
d'essere quella l'occasione opportuna per far valere le ragioni della
principessa Valentina, di lui ava, sul ducato di Milano. Il re Carlo si
presenta a Firenze, e senza ostacolo se gli aprono le porte. Passa a Roma;
indi, in tredici giorni, scaccia da Napoli e dal regno gli Aragonesi, ai quali
appena erano rimaste alcune città marittime. Questo fatto veramente
memorando e romanzesco, benché verissimo, sbigottì tutti gli Stati
d'Italia. Ma il tempo lasciò loro ripigliar animo. L'armata francese
insolentita per tanta fortuna, disprezzava troppo gli abitatori del paese. Non
avevano limite alcuno le violenze di ogni genere. La rapina era senza nemmeno
un velo di pudore. La virtù e la bellezza si credevano un prezzo giusto
della conquista. Nessun asilo era sicuro contro della scostumatezza del
vincitore. Il nome francese in pochi giorni divenne odioso a tutto il regno; ed
il re Carlo trovossi mal sicuro e incerto di avere la comunicazione libera
colla Francia. Il duca di Orleans mosse le sue genti dalla città di Asti
verso Novara, e inaspettatamente la occupò; spiegandosi senza mistero di
prendere egli per sé il Milanese, come discendente dalla Valentina. Lodovico
Sforza, costernato per tal rovescio, mal sicuro dei sudditi (presso i quali la
morte dell'innocente duca Giovanni Galeazzo, la depressione della misera
duchessa Isabella, il supplizio del Simonetta, l'usurpato dominio e la
comperata investitura erano argomenti di avversione, malgrado le altre molte
sue eccellenti qualità), Lodovico Sforza adunque in tal condizione si
abbandonò d'animo a segno, che divisò di ricoverarsi in Aragona,
ed ivi privatamente finire i giorni suoi, di che tenne discorso col ministro di
Spagna residente in Milano. Ma Beatrice d'Este lo rianimò, s'intromise e
lo costrinse a pensar da sovrano. Si formò una nuova lega fra il papa, i
Veneziani e il duca di Milano. Sollecitamente riunirono le loro milizie per la
comune salvezza dell'Italia. Le forze si postarono verso gli Appennini,
attraverso dei quali dovevano passare i Francesi. Il re immediatamente
partì da Napoli, lasciando in quel regno varii presidii nelle fortezze,
e conducendo seco circa quindicimila uomini. Il papa si ricoverò in
Ancona. Passò il re dalla Romagna e dalla Toscana, e giunto fra le
angustie de' monti a Val di Taro, ivi ritrovò circa dodicimila soldati
della nuova lega. Per un araldo il re fece significare ai collegati di maravigliarsi,
trovando impedito il passaggio, non cercando egli se non di ritornarsene in
Francia, pagando col suo denaro i viveri. Risposero i collegati che non lo
avrebbero permesso, se prima non si restituiva Novara, indebitamente sorpresa.
Ritornò l'araldo dicendo, che il re intendeva di passare senza
condizione veruna; e che in caso di rifiuto ei si sarebbe fatta la strada sopra
i cadaveri degl'Italiani. Questi risposero al re Carlo, che non si sarebbe egli
spianata la via così facilmente, come gli era accaduto a Napoli, che lo
aspettavano alla prova. Seguì poscia un'azione sanguinosa da ambe le
parti, in cui però nessuna ebbe compiuta vittoria. Il re non si
aprì l'uscita, né rimase oppresso. Conobbe però il re Carlo che
l'impresa non era sì facile, quanto se l'era immaginato. Spedì un
araldo chiedendo tregua per tre giorni, onde seppellire i cadaveri, e i
collegati l'accordarono per un giorno e mezzo. In sì fatto labirinto
trovavasi il re cristianissimo, donde ne uscì il giorno 8 di luglio
1495, fingendo di attaccare l'armata della lega, e frattanto ponendosi in
marcia per uno stretto mal custodito dalla parte della Trebbia, e così
ritornossene nel suo regno con poca gloria: poiché il re aragonese di Napoli,
il quale erasi ricoverato nell'isola d'Ischia, ben tosto ricomparve nella sua
capitale, dove fu con applauso e festa ricevuto; ed i presidii francesi,
mancando di soccorso, attorniati da un popolo nemico, dovettero un dopo l'altro
abbassare le armi e rendersi. Lo storico Voltaire si è lasciato sedurre
dall'amor nazionale a segno di essere ingiusto cogl'Italiani in raccontando
questa spedizione del suo re; quasi che effeminati, molli, degradati, non vi
fosse più fra di noi né coraggio né valor militare. Gli storici
contemporanei d'Italia sono una manifesta prova dei traviamenti dell'autore
francese nella decantata sua opera sulla storia generale; traviamenti che io
appunto ho notati, perché in moltissimi altri luoghi, riscontrandolo, hollo
trovato tanto vero ed esatto, quanto elegante pensatore.
(1496) Il duca Lodovico, quantunque
liberato dall'imminente pericolo, non avea peranco riacquistato quel robusto
vigor d'animo, senza di cui non si preserva lo Stato negli eventi contrari.
Fortunatamente
I Veneziani, il
I fatti erano avverati. Il duca non
volle far male alcuno a coloro che avea beneficati ed amava. Prima di
abbandonar Milano egli portossi dalla duchessa Isabella, le cedette il ducato
di Bari, le chiese il di lei figlio Francesco per salvarlo e condurlo seco
nella Germania; ma la duchessa nol consentì. Pensò Lodovico il
Moro di confidare il castello di Milano ad un uomo di provata fede, giacché dalla
difesa di esso dipendeva
Gian Giacomo Trivulzi, che da alcuni
anni era esule dalla patria, entrò in Milano come generalissimo
dell'armata francese il giorno 6 di settembre, quattro giorni dopo che il duca
l'aveva abbandonata. Egli si portò solennemente al Duomo a ringraziare
l'Arbitro delle cose, di un avvenimento gloriosissimo per esso lui. Tre giorni
dopo l'armata francese venne in Milano; e furono collocate le truppe a San
Francesco, a Sant'Ambrogio, all'Incoronata. La licenza militare de' giovani
soldati francesi era somma in ogni genere; e il Trivulzio pensò di
contenerla con fermo rigore nella disciplina. Il Corio ci racconta che per un
pane violentemente rapito, due soldati guasconi vennero tosto appiccati a due
piante fuori della porta Ticinese; che un altro Francese, per aver rubata una
gallina, venne immediatamente appeso; che al Pontevetro sul momento venne
appeso un Francese che aveva rubato un mantello; e che ivi pure, senza riguardo
né indugio, fu fatto appiccare un cavalier francese, monsieur di Valgis, che
aveva poste le mani violentemente sopra di una zitella. Ciò serviva ad
impedire quei disordini che avevan reso odioso il nome francese nel regno di
Napoli quattr'anni prima; e serviva pure a conciliare la benevolenza de'
nazionali verso del comandante. Ma il posseder Milano, mentre una fortezza,
quale era il castello, era presidiata validamente dagli Sforzeschi, era un
pericolo anzi che un vantaggio. Una vigorosa uscita degli Sforzeschi poteva
essere funesta ai Francesi sparsi ne' conventi. Pensò dunque il
Trivulzio di corrompere Bernardino da Corte castellano, giacché la strada di un
formale assedio doveva esser lunga, di evento dubbioso, di molto dispendio e
diminuzione delle forze francesi. Il vilissimo Bernardino da Corte, senza
nemmeno aspettare un apparente assedio cominciato, pattuì il prezzo del
suo tradimento, e si divisero le ricchezze depositate nel castello fra il Trivulzio,
il Corte e varii altri complici. Il Corio ci racconta che tal novella arrivasse
all'orecchio dell'infelice duca mentre egli cavalcava fra i Grigioni prima di
giungere nel Tirolo; ma siccome il tradimento si eseguì e
manifestò il giorno diecisette di settembre del 1499, cioè
quattordici giorni dopo che Lodovico era già partito da Como, mi pare
più verosimile la cronaca del Grumello, che dice: et ritrovandosi
epso Ludovico in la cita di Insprucho in sua camera, assentato sopra il suo
lecto, parlando co' suoi gentilhomini di riacquistar el stato suo di Milano,
hebe nuova del perduto castello suo di porta Giobia. Leggendo le lettere
recepute, intendendo nuova pessima, stando sopra di sé, non parlando come fusse
muto, alciando gli occhi al cielo, disse queste poche parole; da Juda in qua
non fu mai il maggior traditore di Bernardino Curzio; et per quello giorno non
mosse altre parole[724].
Resasi per tal modo l'armata francese
padrona in un baleno del ducato di Milano, il re Lodovico XII immediatamente
scese dalle Alpi; il 21 settembre fu a Vercelli, il
Giunto a Vigevano, il re Lodovico,
prima di ripassar le Alpi e rivedere il suo regno, volle piantare un nuovo
sistema politico nel Milanese. Quindi, in data del giorno 11 novembre
La condotta del re Lodovico XII non
poteva essere più giudiziosa per rendersi affezionati i nuovi sudditi.
Egli affidò la suprema autorità alle mani di un nazionale. Visse
colla maggiore affabilità, quasi da privato conversando. Stabilì
un senato colle facoltà da me ricordate. Con tal sistema la forza
militare rimase unicamente in potere del luogotenente, e così sciolta e
pronta senza alcuna formalità alla difesa dello Stato. La vita e la
libertà e le sostanze dei sudditi rimasero all'ombra di una moderata
monarchia, dipendenti da quel senato, composto di molti senatori, di stato
differente; per modo che non era da temersi che la violenza entrasse a prendere
giammai il nome della giustizia. La pietà degli ecclesiastici, l'onore
de' militari, l'accurata ponderatezza dei dottori, vicendevolmente doveano
contenere i privati affetti. Il gran cancelliere, senza il sigillo del quale
non valeva alcun decreto, poteva riferire nel senato, indipendentemente dal
governatore, que' tentativi che per avventura il governatore proponesse a danno
della civile libertà di alcuno, e così eluderli. Il governatore,
non potendo da sé punire i senatori, dovea però vegliare sopra di essi,
e col diretto carteggio alla corte dovea prevenire l'abuso che mai o il senato
o gli individui di esso facessero della autorità. Per una provincia
rimota, alla testa di cui si voglia porre un suddito, non pare possibile
l'architettare un sistema più ragionevole di questo, e convien dire che
tale ei fosse, se malgrado le variazioni che vi si fecero guastandolo, pure,
anche sotto diverse dominazioni, si sostenne poi per secoli.
(1500) Poiché il re Lodovico XII ebbe
abbandonato Milano per ritornarsene nel suo regno, una porzione dell'armata
francese s'incamminò verso della Romagna per togliere Imola e le altre
città promesse al duca di Valentinois, dalle mani del conte Girolamo
della Rovere. Il duca di Valentinois era figlio di Alessandro VI, il conte
Girolamo era figlio di Sisto IV. È facile l'immaginarsi quai dovessero
essere i costumi di que' tempi, se tali esempi diedero anche i poscia graduati
al sommo sacerdozio. Doveva quindi quel corpo di Francesi innoltrarsi ad
occupare il regno di Napoli. Divenne così meno imponente nella Lombardia
la nuova forza conquistatrice. Il governatore maresciallo Trivulzio
stabilì la sua residenza nella corte vicino al Duomo, avendovi una
guardia di trecento Tedeschi. Malgrado la severità della disciplina
usata dal Trivulzio, siccome accennai, non era possibile il prevenire ogni
disordine. Un Francese pose violentemente le mani sopra di una contadina che
portava il pane a cuocere al pubblico forno in Lardirago, terra lontana da
Pavia cinque miglia. La contadina si difese robustamente. Il Francese non volea
desistere. Accorse il di lei padre con un bastone. Il Francese lo stese morto.
Varii contadini si scagliarono sull'uccisore, che dovette soccombere. Un corpo
di Francesi postato nel contorno sopravenne; saccheggiò la terra,
bruciò le case, impiccò varii. In Milano pure si cominciarono a
vedere delle tumultuarie adunanze di malcontenti. La plebe in Porta Ticinese si
attruppò e gettò a terra i banchi ai quali si riscuotevano le
gabelle. Il governatore Trivulzio vi si recò; e dopo di avere
inutilmente procurato che badassero alle di lui parole, diè mano alla
spada, e, secondato da' suoi domestici, uccise alcuni e molti altri rimasero
assai mal conci. L'affare non terminava così, se messer Francesco
Bernardino Visconte, signore sommamente autorevole, non vi accorreva. Si
abolirono alcune gabelle, venne sedato quel disordine; ma non perciò
rimase quieta
Frattanto Lodovico il Moro (che in
Inspruck era stato accolto umanamente e con sensibilità dall'imperator
Massimiliano) non aveva omessa cosa alcuna affine di accelerare il suo ritorno
nella patria. Vero è che nell'avversa fortuna quel principe non seppe
mostrare quel vigor d'animo e quella serenità di mente, che solo possono
farci reggere fra le sventure e superarle. Egli da Inspruck spedì
Ambrogio Bugiardo per Bari, e Martino Casale per Pesaro, colle istruzioni a
ciascuno di portarsi a Costantinopoli. Questa commissione fu data a due, e per
vie separate, acciocché uno almeno potesse eseguirla. Voleva che a di lui nome
animassero il Turco a passare nell'Italia ed aiutarlo a ricuperare Genova,
promettendo di unirglisi per far la guerra ai Veneziani. Parrebbe incredibile
questo partito, se il Corio non ci avesse stampate le istruzioni dalle quali
furono accompagnati que' due ministri[733].
Ma la protezione dell'imperatore procurò allo Sforza soccorsi più
reali e solleciti; essendosi per ordine suo radunato un valente corpo di
Svizzeri e di Tedeschi. Questi l'aspettavano ne' confini; e trovandosi, siccome
accennai, diminuite le forze dei Francesi, pel corpo di milizia spedito
all'impresa d'Imola sotto il comando dell'Allegre, riuscì facil cosa al
duca di nuovamente presentarsi; e le inquietudini del popolo ne furono
opportuna occasione. Messer Sanseverino comandava quattromila fanti svizzeri.
All'accostarsi di questi, il Trivulzio abbandonò Milano. Il giorno 4 di
febbraio 1500 il duca Lodovico rientrò in Milano per Porta Nuova, cinque
mesi e due giorni dopo che l'ebbe abbandonata. Tutti i corpi politici gli
andarono incontro. Mentre il duca Lodovico passava verso la Scala, dove
oggidì è il teatro, venne avvisato che i Francesi, padroni del
castello, facevano una sortita; il che alquanto lo sconcertò.
Nulladimeno vi si pose ordine, ed egli proseguì l'intrapreso cammino al
Duomo, d'onde passò ad alloggiare nella corte, su cui l'artiglieria del
castello, sebbene operasse, non poté far danno, per esserne premuniti i tetti.
Un giorno solo rimase Lodovico in Milano: egli passò a Pavia, lasciando
al governo di Milano il cardinale Ascanio suo fratello.
Gli Sforzeschi saccheggiarono le case
del castellano traditore Bernardino Corte e de' Trivulzi[734].
Messer Erasmo Trivulzio si avventurò di presentarsi al duca,
chiedendogli perdono. Il duca, innasprito dalle vicende, lo condannò ad
esser chiuso nel forno di Monza, cioè nel carcere orrendo fabbricato e
sofferto da Galeazzo I[735].
Ma il cardinale Ascanio, più saggio, persuase al duca di non usare
Dee cagionar maraviglia il vedere come
senza spargersi quasi sangue umano, ritornassero gli Sforzeschi ad impadronirsi
di Milano, e ne scacciassero i Francesi. Vero è, com'è notato
più sopra, che l'armata francese erasi indebolita per la spedizione
dell'Allegre; vero pure è che sedicimila Svizzeri e mille corazzieri
tedeschi s'erano uniti allo stipendio del duca Lodovico; che non mancava il
duca né d'artiglieria né di corrispondenti munizioni: ma pure potevasi disporre
colle truppe francesi un campo e disputare almeno l'ingresso nel Milanese allo
Sforza. Ciò non si fece per le rivalità consuete fra i primi
generali e ministri. Gian Giacomo Trivulzio era, come si è detto,
luogotenente del re e governatore. Ma i primari Francesi, mal sofferendolo,
attraversavanlo in ogni cosa. Il conte di Lignì, uomo di somma
autorità nella guerra, disponeva le cose per modo, che appena lasciava
al Trivulzio il titolo di governatore. Il vescovo di Luçon, gran cancelliere e
presidente del senato, bramava non meno dell'altro la rovina del Trivulzio. Si
voleva che gli affari andassero male a segno, che il re fosse costretto di
togliere al Trivulzio
Lodovico il Moro stette per due
settimane a Pavia per ivi radunare le sue soldatesche, le quali s'andavano ogni
dì aumentando, mercé gli Svizzeri e Tedeschi che scendevano dalle Alpi e
si ponevano allo stipendio di lui. Milano frattanto era inquietata dalle
scorrerie che tentavano i Francesi acquartierati nel castello, malgrado la
custodia del cardinale Ascanio; volavano di tempo in tempo le palle sulla
città: avvenimento che cinquant'anni prima avea preveduto il buon
Giorgio Piatto. Il duca, avendo più di sedicimila Svizzeri, mille
corazzieri tedeschi e molta cavalleria italiana, forz'era che tentasse qualche
azione. Egli mancava di denaro, né poteva lungamente mantenere al suo stipendio
quest'armata. I Francesi dell'Allegre da Imola ritornarono per unirsi ai
compagni. Dalla Francia era spedito nuovo rinforzo sotto il comando del duca
della Tremouille; non v'era speranza pel Moro, se non nella rapidità di
approfittare dell'occasione favorevole. Dispose adunque d'impadronirsi di
Vigevano, e da Pavia partitosi ai 20 di febbraio 1500, il giorno 25 se ne rese
padrone. Per animare i suoi egli aveva loro promesso il saccheggio di quella città,
e gli Svizzeri avevano raddoppiati con tal mercede i loro sforzi. Ma il duca
amava quel luogo, e non ebbe cuore di vedere eseguita la rovina di que'
cittadini. Fece distribuire a ciascun soldato un ducato d'oro, di che rimasero
tutti assai malcontenti. Poi Lodovico Sforza co' suoi si inoltrò verso
Mortara, otto miglia distante da Vigevano, e collocò le tende in faccia
del Trivulzio. I Francesi erano alquanto sbigottiti dai prosperi eventi dello
Sforza; gli Sforzeschi per questi medesimi erano animosi. Francesco
Sanseverino, uomo che avea un nome nella milizia, animava il duca a cogliere
l'occasione e venire tosto a giornata, prima che un nuovo corpo di Svizzeri e
il duca de la Tremouille rendessero formidabile il nemico; ma il duca, sempre
incerto e mancante di energia, rispondeva esser meglio il vincere
temporeggiando, che tentare l'incerta fortuna di una battaglia; la qual massima
non poteva essere più fuori di luogo che in bocca d'un principe gli
Stati di cui sieno occupati da un nemico potente, e che non avea per
liberarsene altro mezzo che una momentanea armata, senza un erario con cui
tenerla quanto occorresse allo stipendio; giacché il cardinale Ascanio, per
raccogliere danaro, era ridotto a far coniare moneta cogli argenti delle chiese
di Chiaravalle, del Duomo, di Sant'Eustorgio, di San Francesco e di San Marco.
Ma il duca Lodovico non aveva ereditati i talenti militari del duca Francesco
suo padre. Egli era un principe colto bensì, ma non un eroe; principe di
vaste idee anzi che di grandi e solide, snervato dall'avversa fortuna, privato
della duchessa, abbandonato a consigli vacillanti. Avrebbe dovuto cimentarsi
coll'armata francese; ma invece levò le tende e trasportò il suo
campo sotto Novara, che era in poter de' Francesi sotto il comando del conte di
Musocco, figlio del maresciallo Trivulzio. Il duca promise il sacco di Novara;
il che era in quei' tempi un diritto militare, allorché per assalto e senza
capitolazione veniva presa una città. Alcuni cittadini novaresi
segretamente intrapresero a concertare col Moro per introdurlo nella
città. Novara era assai ben munita, né facil cosa era l'impadronirsene.
La prima condizione che i cittadini vollero, fu quella di aver salve le cose
loro. Il duca, contentissimo per sì inaspettato mezzo, che spianava ogni
ostacolo, a tal condizione aderì, e così entrarono gli Sforzeschi
in Novara; sicché a stento poté appena per la porta opposta correre a
salvamento quel presidio. Ciò accadde il giorno 20 di marzo 1500. I
soldati si posero a saccheggiare a norma della parola datane loro dal duca; ma
egli nuovamente lo proibì; il che sempre più alienò da lui
l'animo di quell'armata, composta di soldati che non aveano legame veruno col
duca; gente collettizia, radunata allora allora per la speranza di far bottino,
e che vedevasi delusa e quasi schernita dal duca, malgrado la sua parola, e
malgrado anche i loro diritti militari.
Mentre Lodovico Sforza stavasene co'
suoi entro Novara, il di cui castello tuttavia era in mano dei Francesi, il
ministro del re di Francia alla dieta del corpo elvetico, Antonio Brissey,
maneggiava il colpo decisivo, per cui il suo re, senza contrasto, rimanesse
duca di Milano. Gli scrittori sinora hanno rappresentata la prigionia del Moro
come un tradimento degli Svizzeri; ed hanno offeso con ciò, non
solamente il carattere de' fedeli ed onorati Elvezii, ma la verità e il
buon senso, che non permetterebbe mai di credere che sedicimila uomini si
unissero per tradire chi li paga[738].
Le lettere del Morone ci svelano come seguisse il fatto[739].
Poiché fu Lodovico in Novara, i Francesi s'accrebbero; e molta gente venne
dalla Svizzera sotto le loro bandiere. S'avvide allora il duca del male che
avea fatto non ascoltando i consigli del Sanseverino; e, come dice il Morone: se
ipsum arguere, propriamque vecordiam accusare non cessabat, nec quid
consilii caperet satis intelligebat[740].
Galeazzo Visconti era il ministro del duca alla dieta elvetica, ed ivi non
cessava di animare quella sovranità a cogliere l'onorevole occasione di
dar la pace alla Lombardia. Solo che la dieta lo volesse, doveano cessare al
momento le ostilità; giacché le forze principali dei due eserciti
consistevano negli Svizzeri, che avevano bensì la libertà di
vendere i loro militari servigi alla potenza che più era in grado a
ciascuno; ma conservavano sempre il carattere di sudditi della dieta, alla
quale non avrebbero potuto mancare, se non sacrificando l'onore, la patria, i
parenti e i loro poderi. Bastava un ordine supremo agli Svizzeri dei due
eserciti, per cui si vietasse loro di combattere, che la sospensione d'armi era
al momento fatta. Bastava spedire abili negoziatori che, a nome della
sovranità elvetica frapponendosi, conciliassero la pace; e per
necessità doveano l'una e l'altra parte piegarsi e ricevere in certo
modo
Appena fu il duca nelle mani de'
Francesi, che, in quel medesimo umiliante arnese da fantaccino svizzero, fu
condotto alla presenza del comandante Gian Giacomo Trivulzio. Pareva che la
presenza di quel principe, già suo sovrano, ora suo prigioniero, dovesse
eccitare nell'animo del Trivulzio, non già la collera, ma
Dalla presa del duca Lodovico sino al
1507, poco o nulla accadde nel Milanese che meriti luogo nella storia, fuori
che gli Svizzeri si resero padroni di Bellinzona, ed il re di Francia
accondiscese a lasciarne loro il dominio. Negli anni 1502 e 1503 la pestilenza
venne a Milano da Roma e fece strage. Quest'era la undecima volta, dal nono
secolo in poi, in cui Milano fu esposta a tal miseria; avendo io osservate memorie
di pestilenza negli anni 883, 964, 1005, 1244, 1259, 1361, 1373, 1400, 1406 e
1485. Nel secolo XVI, del quale ora scrivo, più volte vi penetrò,
come vedremo. (1507) L'anno 1507, il giorno 24 di maggio, Lodovico XII, per la
seconda volta, venne in Milano. Egli si era impadronito di Genova e fece il
solenne ingresso, andandogli incontro, oltre il clero e i corpi pubblici,
ducento giovani vestiti di drappo di seta celeste, ricamato a gigli d'oro. Il
re entrò per Porta Ticinese sotto diversi archi trionfali, essendo le
vie tutte coperte di tela, magnificamente parate. Così erano le vie sino
al castello, dove terminò l'entrata. Eranvi in seguito de' carri dorati,
a foggia de' trionfi dei Romani antichi. Il re stava sotto a baldacchino di drappo
d'oro, con corteggio immenso di principi, marchesi, conti, sei cardinali, e
quattro altri ne vennero il giorno seguente, in tutto dieci cardinali. Il re
visse in Milano coll'affabilità istessa dell'altra volta; andava ai
pranzi, e fu da Galeazzo Visconti, da messer Antonio Maria Pallavicino; e sopra
ogni altro si ricorda il festino veramente magnifico che diede Gian Giacomo
Trivulzio al re ed alla corte, in cui sedettero più di duecento
gentiluomini, cinque cardinali e centoventi damigelle milanesi. Inoltre vi
furono tavole imbandite per quattrocento arcieri reali, ed altretanti domestici
e cortigiani; onde più di mille convitati sedettero alle mense del
Trivulzio: e ciò, essendo la stagione favorevole, seguì il 27 di
maggio, sotto sale posticcie, piantate lungo il corso di Porta Romana. Indi vi
si ballò e s'ebbe il divertimento delle maschere. Al re singolarmente
piacque una bellissima giovine, Catterina di San Celso, che cantava, suonava e
ballava sorprendentemente, ed aveva
Fra i varii spettacoli che in quella
occasione si videro, uno ve n'ebbe il quale minacciò di cagionare degli
inconvenienti. Il giorno 14 giugno 1507 fu destinato ad una rappresentazione
militare. Il giorno precedente cadeva la solennità del Corpus Domini, ed
il re, con sette cardinali, col duca di Savoia, e i marchesi di Monferrato e
Mantova, e una schiera di ministri esteri, aveva decorata la solita
processione. La comparsa militare consisteva nel mostrare l'attacco di una fortezza.
Erasi accomodato, a foggia di una ròcca, a quest'oggetto, il palazzo
dove soleva dimorare il governatore, ch'era Carlo, gran maestro d'Amboise,
succeduto al cardinale di Rohan[746].
A difendere il forte, stavano esso governatore, il marchese di Mantova e il
maresciallo Trivulzio, con cento uomini d'armi. L'attacco si faceva con forti
bastoni, e tanto fu l'ardore, che alcuni vi rimasero morti, molti feriti; e la
cosa era talmente impegnata, non volendo alcuna delle due parti cedere, che,
per evitare una funesta scena, dovette il re in persona porsi di mezzo. Un mese
e mezzo dimorò il re Lodovico questa seconda volta in Milano, d'onde
partissene il giorno 11 luglio alla vòlta di Savona, per abboccarsi col
re di Spagna, e concertar il matrimonio della sorella del duca di Nemours con
quel re. I Veneziani, vedendo che il re Lodovico XII si era con facilità
impadronito di Genova, cominciarono a temere questo potentissimo vicino, che
aveano incautamente invitato ed assistito. Mossero delle pratiche per animare
l'imperator Massimiliano, il quale aveva alla sua corte i due esuli principi
Massimiliano e Francesco, figli del duca prigioniero. Non poteva il capo
dell'Impero considerare mai come legittima l'invasione fatta dal re di Francia
nel Milanese. Il feudo non passava nelle femmine, e quindi era viziato il
titolo su cui fondavasi il re. Veramente ancora più viziato era quello
che poteva mostrare Francesco Sforza; poiché
I Veneziani radunarono un esercito di
sessantamila uomini; e ne confidarono il comando al conte Bartolomeo d'Alviano.
Si presentarono i Veneti all'Adda. Di contro comparve il governatore di Milano
gran maestro Carlo d'Amboise, con una men forte armata. I Veneziani posero il
fuoco a Treviglio; il loro comandante voleva prendere Lodi e Milano, od almeno
tentarlo prima che giugnesse il re di Francia, il quale con nuovi armati
passava le Alpi; ma i provveditori veneti non lo permisero. (1509) Comparve
Lodovico XII in Milano il giorno l° di maggio del 1509, e fu questa la terza
volta. Vi dimorò otto giorni; indi co' suoi s'incamminò alla
vòlta di Cassano. Egli avea al suo seguito da cento de' primi
gentiluomini milanesi, che seco conducevano più di mille cavalli corredati
con maravigliosa magnificenza; e questi combattevano a proprie spese senza
stipendio; su di che il Prato: al vedere quelle cavalcanti compagnie
sì di Francesi come di Milanesi, con i sajoni quasi tutti di broccato
d'oro sopra le fulgenti armi, avendo il re, vestito di bianco, nel mezzo, era
veramente uno obstupescere l'occhio del riguardante. Giunse il re a
Cassano; si pose di fronte ai Marcheschi. I Veneziani erano vantaggiosamente
accampati alla sinistra riva dell'Adda, che scorreva avanti al loro campo.
Voleva il re arditamente passare il fiume ed attaccarli, ma Giovan Giacomo
Trivulzio lo sconsigliò da questo temerario partito a fronte di una
numerosa armata, provveduta di molta artiglieria. Il re fece de' ponti, e su di
essi passarono i Francesi; ciò accadde il 10 maggio 1509. V'erano il
Trivulzio, La Palisse, il duca di Bourbon. Il conte Bartolomeo d'Alviano voleva
attaccare i Francesi al momento in cui stavano passando il fiume; e si
lagnò de' provveditori veneti, che gli strappavano dalle mani la
vittoria e lo esponevano poi alla rovina. Non permisero i provveditori che
scendesse dal suo campo trincerato. Il re pose il suo accampamento col fiume
alle spalle e fece rompere i ponti, acciocché i soldati sapessero che non
rimaneva scampo alcuno colla fuga. I Veneziani si ritirarono verso Caravaggio.
Il 14 maggio 1509 si posero in marcia i Francesi. I Veneziani avevano circa
ventimila fanti e mille uomini d'armi. Fra i primi nell'attaccare furono i
nostri Milanesi. Il fatto seguì fra Agnadello e Mirabello. Rimasero sul
campo sedicimila persone. Alcuni dissero persino ventimila. L'Alviano fu
ferito. Ventitre pezzi di grossa artiglieria vennero in potere de' Francesi.
Molti Veneziani rimasero prigionieri. Il poco che rimase dell'armata marchesca
fuggì verso Brescia. Dopo questa insigne sconfitta d'Agnadello, del 14
maggio, i Francesi presero Caravaggio il 16; il giorno 18 maggio Bergamo si
sottomise al re; e il giorno 23 maggio Brescia pure conobbe il re di Francia
per suo signore. Crema nel mese istesso si sottomise. Tale fu l'impressione che
fece la vittoria di Agnadello, che Verona, Vicenza e Padova portarono al re le
chiavi, e il re le fece consegnare agli ambasciatori del re de' Romani, come
città a lui appartenenti.
Dopo un così rapido corso di
vittorie il re Lodovico XII, il giorno 1° di luglio, entrò in Milano con
una sorta di trionfo. Girò da San Dionigi dietro la fossa per entrare
solennemente da Porta Romana, che allora era al ponte; e da Porta Romana al
castello erano le case coperte di panni di razza, con li padiglioni sopra; come
dice il Prato, che descrive la pompa essere stata tale, che ardiva paragonarla
ai trionfi de' Romani antichi. Vi erano quattro archi trionfali, e l'ultimo
sulla piazza del castello, il quale, fra gli altri belli, era bellissimo,
d'altezza di più di cinquanta braccia, disopra avendo di rilievo la
imagine del re, sopra un cavallo tutto messo a oro, di maravigliosa grandezza,
con due giganti a canto, e tutte le commesse battaglie intagliate e dipinte,
che era una bellezza a vedere, e più superba cosa saria stato, se la
subita venuta del re non avesse il mezzo dell'opera intercisa; così
il Prato. Il re era preceduto da carri dorati, che rappresentavano le
città sottomesse, alla foggia de trionfi romani. S'era preparato un magnifico
carro trionfale, tutto dorato e condotto da quattro cavalli bianchi, coperti
superbamente di ricamo, e scortato da ventiquattro pomposi custodi; ma il re
non volle ascendervi e rimase a cavallo, corteggiato da gran numero di
principi, conti e marchesi, ducento gentiluomini francesi, e molti gentiluomini
milanesi sì superbamente vestiti, che il più domestico abito
era semplice broccato; così il Prato. Il re poco dopo tornò
in Francia[747].
Mentre i Francesi riunivano al ducato
di Milano Brescia, Bergamo e Como, l'imperatore possedeva Verona, Vicenza e
Padova; e il papa s'era reso padrone di Ravenna, Cervia, Imola, Faenza,
Forlì, Rimini e Cesena. Ma, come accade sempre alle forze collegate, che
i separati interessi de' soci le scompongono ben tosto, così
riuscì ai Veneziani di riprendere Padova. Poco dopo, segretamente il
papa fece pace co' Veneziani, ed ottenne la signoria delle città che
avea conquistate nella Romagna, con di più il patto che la Repubblica
non
Dopo la vittoria di Agnadello, il re di
Francia Lodovico XII aveva ottenuta dall'imperatore Massimiliano l'investitura
del ducato di Milano collo sborso di centocinquantacinquemila scudi d'oro[748].
Così quell'augusto parve che sagrificasse i due suoi cugini germani,
Massimiliano e Francesco Sforza, spogliandoli di quel diritto ch'ei medesimo
aveva dato ad essi nell'investitura di Lodovico il Moro, loro padre. Ma se le
circostanze momentanee consigliarono un tal partito, in forza della lega di
Cambrai, considerata per un mostro politico; cambiate queste, ben tosto
gl'interessi di ciascun potentato ripigliarono il loro vigore; e nello Sforza
preferì Cesare un principe stretto parente e protetto da lui, ad un
rivale formidabile, quale era il re di Francia. (1510) Il
Il governatore di Milano e comandante
delle armate francesi nell'Italia era il gran maestro Carlo d'Amboise di
Chaumont, il quale, nel 1505, era succeduto al signore du Benin; e questi aveva
avuti due altri prima di lui, il maresciallo Trivulzio e il cardinale di Rohan.
Questo quarto governatore morì di malattia in Coreggio, il 10 marzo
1511, e venne trasportato solennemente in Milano il 31 di esso mese. Il Prato
ci descrive quel corredo funebre. Due cavalli coperti di velluto nero, ricamato
d'oro, portavano il sarcofago, similmente coperto, con sopra la collana d'oro
di San Michele. Precedevano cinque cavalli coperti sino a terra di velluto
nero. Sul primo eravi un paggio con in mano la lancia: sul secondo, altro
paggio portando un bastone dorato; sul terzo, un simile con mazza dorata; sul
quarto il paggio aveva sul capo l'elmo dorato, e nella mano lo stocco; il
quinto cavallo era a sella vuota, collo stocco pendente dall'arcione, ed era
condotto a mano. Veniva poi la cassa di piombo, portata e coperta come ho scritto;
seguitavanla i soldati e cortigiani, tutti in lutto, con abiti sino a terra, e
con certi cappucci in capo, con cui quasi elefanti mi sembravano, dice
il Prato. Indi seguivano quattrocento poveri, vestiti di nuovo, con torce nere
in mano; poi quanti preti e frati v'erano in Milano, venivangli dietro con
torce in mano. Il Duomo, ove la pompa finì, era tutto coperto di panni
funebri, ed ornato di torce in sì gran numero, che una non era
più di due braccia discosta dalle altre. Stavano alle porte alcuni che
gettavano denaro ai poveri. La funzione fu magnifica. Il cadavere poi
privatamente fu trasportato in Francia. Tali singolarità meritano luogo
nella storia, perché ci rappresentano i costumi ed il lusso dei tempi.
L'onorare le ceneri de' trapassati sembra cosa quasi naturale all'uomo, poiché
sino da' più remoti secoli se ne scorgono le tracce; e le nazioni
selvagge eziandio ne hanno dato esempio. L'estinguere questo pietoso sentimento
sarebbe difficilissimo e forse un cattivo progetto. Il limitare la profusione
di tai pompe sembra conforme ad una saggia legislazione. Se questo affetto poi
di preservare la spoglia e perpetuar la memoria delle persone che ci furono
care, si rivolga in favor delle belle arti, animando la scultura, merita
incoraggiamento e lode. Nel secolo XVI cominciò tra noi una severa e
poco avveduta vigilanza contro siffatti monumenti, e se ciò non fosse
stato, avremmo assai più ornati i nostri sacri templi di riconoscenti
memorie de' cittadini, e del progresso delle belle arti, che non abbiamo.
Poiché Giulio II ebbe mancato di fede
al re di Francia, staccandosi dalla lega ed unendosi coi Veneziani, movendo gli
Svizzeri, ed accostandosi agli Spagnuoli, alcuni cardinali, o partitanti della
Francia, o malcontenti per la vita assai più militare che ecclesiastica
del sommo pontefice, si radunarono in Pisa, ove si andava formando un concilio
per deporlo, e dichiarar vacante
Né già i pericoli che stavano
d'intorno a Giulio II limitavansi a questa scarsa e dispregiata congregazione,
già dal papa scomunicata e resa obbrobriosa o ridicola ai popoli. Il
pericolo assai maggiore stava riposto nel valor militare del duca di Nemours,
Gastone di Foix, nipote per parte di madre del re Luigi XII, fatto governatore
e capitano generale dopo la morte del gran maestro di Amboise. Questo giovine
eroe, all'età di soli ventidue anni, mostrò i talenti di un gran
generale. Dal Milanese vola a soccorrere Bologna, assediata da don Pietro di
Navarra, e lo sorprende prima ch'egli abbia nemmeno notizia ch'ei marciasse a
quella vòlta; lo pone in fuga, batte la retroguardia di lui; rende libera
Bologna. Coglie il momento di questa impresa il conte Luigi Avogadro, e,
profittando della assenza de' Francesi, apre le porte di Brescia a' Veneziani,
i quali occupano Brescia e s'innoltrano sino al Mincio. Al momento parte
Gastone dal Bolognese, si affronta al Mincio coi nemici, che gliene disputano
il passo, e li disperde; si presenta a Bergamo e la prende; si presenta a
Brescia, e se ne rende padrone; e tutta questa maravigliosa serie di fatti si
eseguisce in pochi giorni. Il 29 di febbraio prese Bergamo, il l° di marzo
prese Brescia; al quale proposito il Guicciardini scrive[752]:
Fu celebrato per queste cose per tutta la Cristianità con
Questa presa di Brescia servì di
argomento al signor di Belloy per la tragedia che intitolò: Gaston et
Bayard, nella quale l'Avogadro apparisce come un ribelle del suo legittimo
sovrano, e traditore della patria, e gl'Italiani vi figurano miseramente il
personaggio di gente senza virtù alcuna. I Bresciani da ottantatre anni
vivevano sudditi della repubblica veneta; quando, nel 1509, furono assoggettati
alla forza dell'armi francesi. Il conte Avogadro tentò di liberare se
stesso e la patria da un giogo straniero, e riconsegnarsi al nativo suo
principe. Il governo poi che i Francesi facevano della di lui patria, suggeriva
di liberarla da quella infelicità[753].
Il grado di longitudine sotto cui siamo nati su questa sferoide, non dovrebbe
cagionate diversità di partiti: l'uomo virtuoso e dabbene è
patriota de' suoi simili sparsi per ogni clima, ed è forestiere al suo
vicino malvagio e vizioso. L'infelice conte Avogadro terminò miseramente
i suoi giorni sul patibolo, ed i suoi figli, tradotti a Milano, per mano del
carnefice finirono pure
Dopo ch'ebbe di volo sottomesse le
città di Bergamo e Brescia, il duca di Nemours Gastone di Foix
passò per Milano; indi rapidamente marciò a Ravenna. È
celebre la battaglia che vi si diè il giorno 11 d'aprile, che in
quell'anno fu il giorno di Pasqua, cioè quaranta giorni dopo la presa di
Brescia; ed è notissima non meno la morte che vi trovò Gastone,
dopo di avere riportata una compiuta vittoria; né appartiene alla storia ch'io
mi sono limitato a scrivere, la precisa narrazione di tai fatti. Marc'Antonio
Colonna comandava nella città di Ravenna; il viceré
SIMVLACRVM GASTONIS FOXII
GALLICARVM COPIARVM DVCTORI
QVI IN RAVENNATE PRAELIO CECIDIT ANNO
MDXII
CVM IN AEDE MARTAE RESTITVENDA
EIVS TVMVLVS DIRVTVS SIT
HVIVSCE COENOBII VIRGINES
AD TANTI DVCIS IMMORTALITATEM
HOC IN LOCO COLLOCANDVM CVRAVERE
ANNO MDLXXIV[755]
I bassi rilievi che adornavano la
tomba, vennero, non saprei per qual destino, rotti e divisi; alcuni se ne
veggono nella deliziosa villa di Castellazzo, altri sono presso alcuni privati.
Sempre più si conosce che un buon libro è il solo monumento
durevole, col quale un uomo sia sicuro di tramandare ai secoli venturi la
memoria di se medesimo: i marmi, gli edifizi, le pubbliche fondazioni, tutto si
scompone e disperde; ma Orazio aveva ragione di scrivere, ch'egli s'innalzava
un monumento co' versi suoi più durevole de' bronzi[756].
Dopo la battaglia di Ravenna, in cui si
disse che rimasero morti sul campo ottomila fanti e mille cavalieri pontificii,
e prigionieri il viceré di Napoli don Pietro di Navarra, il cardinale dei
Medici, il marchese di Pescara,
Massimiliano Sforza dall'età di
nove anni sino al vigesimoprimo era stato esule dalla patria e ricoverato sotto
la protezione dell'imperator Massimiliano, suo cugino. Egli, scortato dal
cardinale di Sion e dagli Svizzeri, entrò solennemente in Milano il
giorno 29 dicembre
(1513) Giulio II, il primo motore degli
avvenimenti de' tempi suoi, quel papa che, coll'usbergo sul petto e l'elmo in
capo, diresse l'assedio della Mirandola, e vi entrò per la breccia,
terminò la sua vita la notte dal 20 al 21 di febbraio del 1513. Questo
colpo cambiò nuovamente le combinazioni politiche in Europa. I
Veneziani, che tre anni prima, per ricuperare la terra ferma occupata da'
Francesi uniti coll'imperatore, avevano cedute al papa le città
marittime della Romagna, ascoltarono le proposizioni che fece loro la Francia,
la quale prometteva ad essi la terraferma, Verona, Vicenza, Brescia, Bergamo e
Crema, e con tali condizioni si collegarono con Lodovico XII nel trattato di Blois
13 marzo[761].
Con tale nuova confederazione si obbligavano i Veneziani ad assistere il re per
ricuperare il Milanese; ed il re obbligavasi ad aiutare la Repubblica per
riacquistare le terre della Romagna perdute colla lega di Cambrai. Contro del
papa si mossero parimenti gli Spagnuoli; ed il viceré di Napoli
s'impadronì di Parma e di Piacenza, sebbene per poco, costretto a
restituirle al papa[762].
Mentre si andava disponendo nella Francia una nuova invasione nel Milanese, a
respingere la quale forz'era rivolgere le spalle a' Veneziani collegati colla
Francia, il duca Massimiliano Sforza si abbandonava alla molle lascivia, che
appena si perdona ai principi sicuri nel loro Stato. Per festeggiare il
soggiorno che la marchesa di Mantova faceva in corte col nostro duca, ad altro
non pensava egli che a giuochi ed a pompe, quasi ch'ei fosse nel seno della
pace. Fece fare, fra le altre cose, un torneamento; il che accadde il giorno 13
di febbraio 1513, dimenticandosi che nel castello stavano i Francesi. Il duca
vide, per le palle di cannone ch'essi gli fecero piovere sulla corte, che aveva
inopportunamente scelto il tempo ed il luogo[763].
Questo principe non sembra che avesse alcuna energia né elevazione d'animo;
egli spensieratamente portava il titolo di duca, e in mezzo all'umiliazione
propria ed alla miseria de' sudditi pensava a passar giocondamente il suo
tempo. Donava feudi, donava regalie, regalava denaro, roba, a tutti i suoi
favoriti con profusione, in guisa che aveva sempre l'erario esausto.
Donò a Girolamo Morone la contea di Lecco: la città di Vigevano
al cardinale di Sion; Rivolta e la Ghiara d'Adda ad Oldrado Lampugnano. Coteste
sue profusioni facevansi da esso lui come se nulla fossero, dice il
Prato, il quale si esprime a tal proposito così: ma poco delle dicte
cose curandosi il duca nostro, facea, como dice il proverbio, manco roba, manco
affanni; et solo attendeva a piaceri; unde essendo venuto a Milano la moglie
del marchese di Mantova con alquante sue zitelle, o per meglio dire ministre di
Venere, tanto piacere de conviti e de balli e de altri che io non scrivo, se
prendea assieme con lo effeminato viceré di Spagna, che era una cosa a ogni
sano judicio biasimevole, et non so se mi dica una parola, tuttavia, essendo
dicta da Salomone nella Cantica, la posso dir anch'io: Veh tibi terra cuius rex
est puer[764]!
Così il Prato. Ma chi è fanciullo a ventun'anni, non è
giunto mai a diventar uomo. Questa scioperatezza dovea ricadere a danno de'
sudditi, ai quali forza era d'imporre maggiori aggravii; e non osandolo fare da
sé il duca Massimiliano, prima di accrescere la gabella del sale di trenta
soldi ogni staio, ne impetrò dal papa il permesso; della qual supplica
ho letta io stesso una copia, scritta di quei tempi e conservata nella
signorile raccolta de' manoscritti nell'insigne archivio Belgioioso d'Este, e
dice così: Beatissime Pater: - Manifesta est et satis nota apud S. V.
immoderata nimium longe lateque dominandi ambitio, et aliena indebite usurpandi
cupiditas Gallorum regis, adeo ut non modo principatum Mediolanensem, verum et
universae Italiae subjugandae omnibus votis aspirare videatur: e conclude
alla fine: quare ad B. V. confugere cogor pro re quae (sic) in
evidentem totius Italie commodum cedet et mihi et tam immensae publicae
necessitati consulet; etiam supplicando quatenus, in praemissis opportune
providendo, B. V. auctoritate Apostolica qua fungitur, motu proprio, ex certa
scientia et de plenitudine potestatis etiam absolutae, licentiam potestatem et
auctoritatem indulgere dignetur in universa ditione ducatus Mediolani imponendi
praedictas additiones solidorum triginta pro stario salis etc[765].
Né ciò bastando, delegò il duca Bernardino ed Enea Crivelli
per esigere dai feudatari uno straordinario tributo[766].
Vendé persino i due canali navigabili, il Naviglio grande e quello della
Martesana alla città di Milano[767].
In un sol mese vendette tante regalie, che ne incassò dugentomila
ducati; alienazioni tutte fatte in ragione del sette per cento[768].
Impose nuovi aggravii sopra di ogni ruota di mulino, accrebbe i tributi sopra
le terre irrigate[769].
I sudditi, al paragone del governo francese conobbero quanto avessero
peggiorato sotto di questo sventato principe naturale. Lodovico XII, re di
Francia ne' tredici anni ne' quali signoreggiò nel Milanese, non impose
alcuna taglia né tributo straordinario. Fu un buon principe, moderato nelle
spese, popolare, amante dell'ordine e della giustizia. Egli piantò nel
Milanese quel sistema di governo che durò sino a' tempi nostri. Questo
monarca prima di regnare era dominato dall'amore; la gioventù, la
grazia, la bellezza lo seducevano: poiché salì sul trono, seppe
frenarsi, e nobilmente signoreggiare sopra di se medesimo. Ei meritò dai
posteri il glorioso nome di Padre del popolo. Il paragone colla
spensierata condotta del duca Massimiliano era svantaggioso pel successore.
Non sarà discaro a' miei
lettori, s'io sottopongo a loro sguardo lo specchio delle spese fisse che si
facevano sotto il duca Massimiliano dall'erario ducale. Questo prezioso
aneddoto, siccome molt'altri, fu da me tratto dall'insigne collezione pocanzi ricordata[770].
Spese dello stato di Milano sotto il
duca Massimiliano Sforza
Pensioni agli Svizzeri |
ducati |
100,000 |
Alle guardie de' castelli di Milano,
Cremona, Novara, guardia della corte, e capitano di giustizia |
» |
72,000 |
Alla gente d'armi |
» |
74,600 |
Alla compagnia del Bregheto,
computata la provvisione sua |
» |
3,000 |
Al signor Manfredo da Coreggio, per
esso e cavalli cento |
» |
6,800 |
Alla casa ducale, computata la stalla |
» |
26,000 |
Spese delli cavallari |
» |
8,000 |
Agli oratori e famigli cavallanti |
» |
12,000 |
Alla munizione e lavoreri ducali |
» |
12,000 |
Alle guardie delle fortezze, oltre le
dette disopra |
» |
6,000 |
Spese straordinarie |
» |
25,000 |
Officiali salariati |
» |
25,000 |
Vestiario del duca |
» |
30,000 |
Spese di Sanità |
» |
4,000 |
Elemosine ducali |
» |
2,000 |
Staffieri del duca |
» |
660 |
Trombetti |
» |
540 |
Interessi passivi di debiti |
» |
10,000 |
Ristauri per guerra e peste |
» |
6,000 |
Lettere e bollettini di esenzione |
» |
2,000 |
Beneplacito del duca |
» |
5,000 |
A conto del signor duca di Bari |
» |
3,350 |
Legna e altro per la cancelleria
ducale e camera |
» |
2,000 |
Al signor Giovanni e a Maddalena
Lucrezia per suo vivere |
» |
1,700 |
Annuali ed obblazioni |
» |
500 |
|
|
________ |
|
ducati |
438,150 |
Le rendite poi del duca a quel tempo
veggonsi nel codice medesimo[771]
ascendenti a scudi d'oro del sole 499,660, soldi 64, denari 8. Ora computati
gli scudi del sole com'erano, una mezza doppia, e i ducati in valore di un gigliato,
apparisce che il duca aveva ogni anno una spesa eccedente di più di
ventiquattromila ducati, quand'anche nelle spese di capriccio ei non avesse
ecceduto.
I Francesi adunque, nel numero di
dugento uomini d'armi e ventimila fanti, sotto il comando di Luigi de la
Tremouille e del maresciallo Trivulzio, superate le Alpi, scesero verso lo
Stato di Milano. A tal nuova i Veneziani si accostarono e si resero padroni di
Pizzighettone, di Martinengo e di Cremona. Molti fra i sudditi del duca,
malcontenti del governo di un tal principe, bramavano di ritornare sotto il
dominio del re Lodovico XII. Un tumulto popolare si eccitò in Pavia, un
simile contemporaneamente comparve in Alessandria. Già queste due
città non avevano aspettato l'arrivo de' Francesi per considerarsi
suddite della Francia. Messer Sacramoro Visconti, che aveva il comando degli
Sforzeschi posti a bloccare il castello di Milano, lasciava segretamente che
entrassero di notte le vittovaglie ai Francesi del presidio; il che scoperto,
egli si ricoverò nella Francia, ed ebbe dal re la collana,
pregevolissima allora, dell'ordine di San Michele. In somma le cose andavano
come forz'era pure che andassero sotto di un principe sfornito di mente e di
cuore che lo innalzassero sugli uomini volgari, e lo mostrassero degno di
comandare agli altri uomini. Gli Svizzeri però vollero sostenere questo
duca, e con ciò conservarsi non solamente i baliaggi che avevano
occupati, ma il dominio del Milanese, che realmente esercitavano già
sotto il nome del duca Massimiliano. Si radunarono ne' contorni di Novara nel
numero di diecimila, a quanto scrive il Guicciardini[772],
o settemila, come scrive il Prato; e il giorno 6 di giugno del 1513 assalirono
l'armata francese con tanto impeto e sì impensatamente, che, quasi per
sorpresa impadronitisi dell'artiglieria de' nemici, la rivoltarono contro de'
Francesi medesimi; e questo arditissimo impeto sgomentò talmente i
Francesi (i quali s'immaginarono essere sopraggiunta una nuova armata di
patriotti svizzeri), che senza consiglio si abbandonarono alla fuga; e da un
drappello di fantaccini, senza cavalleria, senza artiglieria venne
siffattamente distrutto un corpo di armata, che si contarono rimasti sul campo
ben diecimila de' Francesi, ed il rimanente con somma sollecitudine ripassò
le Alpi. Così gli Svizzeri in quel luogo medesimo ove tredici anni prima
erano stati accusati di aver tradito il padre, avendo a fronte lo stesso
Trivulzi, in quello stesso luogo, e contro del generale medesimo, col loro
valore mantennero lo Stato al figlio Massimiliano Sforza, e ripararono l'onore
delle loro armi e della fedeltà loro. Il Prato attribuisce quella
sciagura de' Francesi al disprezzo che imprudentemente essi fecero de' loro
nemici; non supponendo possibile ch'essi ardissero di provocar l'armata
francese. Attribuisce però singolarmente allo sbigottimento che ebbe
colla sorpresa il comandante supremo la Tremouille, il poco onore che in quella
giornata si fecero le armi francesi; ed il Trivulzio, costretto a fuggire cogli
altri, andava ripetendo, a quanto il Prato scrive, noi fuggiamo et la
victoria è nostra. Nella Francia la Tremouille vide, non senza
carico di vituperio, cassato il suo nome dalla lista dei stipendiati, la
qual cosa non avvenne al Trivulzio; ma sia come si voglia, la fuga fu vituperosa[773].
Gli Svizzeri raccolsero in quella giornata un prezioso bottino, avendo perduti
i Francesi tutti i loro attrezzi. Dopo un tal fatto i Veneziani sgombrarono il
paese; ritornarono le cose come se nulla fosse accaduto; e il duca, acceso
d'una passione degna del suo animo, si recò a stanziare nei contorni di
Pavia per vagheggiare una mugnaia che vi stava domiciliata[774].
La gloria delle armi francesi non
poteva essere riparata nell'Italia con nuovo esercito, poiché gl'Inglesi avendo
allora appunto mossa la guerra a Lodovico XII, ei doveva adoperare le sue forze
per impedire i progressi di trentamila Inglesi e ventitremila Tedeschi, i quali
erano spediti nella Francia da Enrico VIII e Massimiliano Cesare collegati.
Quindi i pochi Francesi che stavano al presidio de' castelli di Milano e di
Cremona, esausti di munizioni e di viveri, oppressi da miserie, disperando
soccorso, cedettero le fortezze ed uscirono, salve le persone e robe loro. Il
castello di Milano per tal modo venne in potere dello Sforza il giorno 19
novembre 1513, e da quel giorno non rimase più dominazione alcuna
nell'Italia al re Lodovico XII. (1514) Ma lo Sforza altro di duca non
conservò che il titolo; vivendo egli meschinamente come un ostaggio
sotto la tutela degli Svizzeri, e sopra tutto del terribile cardinale di Sion,
il quale col nome del duca adoperava ogni mezzo per cavar denaro dai popoli,
abbandonati ad un'anarchia militare; e così senza alcun memorabile
avvenimento passò l'anno 1514. (1515) L'anno seguente 1515
incominciò colla morte del re Lodovico XII senza figli, e colla
incoronazione di Francesco I, l'avo paterno del quale era zio paterno del
defunto, anche egli discendente dalla principessa Valentina Visconti. Il nuovo
re era nel ventesimoprimo anno dell'età sua. Trovò la Francia in
pace pel trattato seguito poco prima della morte di Lodovico XII. Il suo primo
pensiero fu di ricuperare il Milanese; ed a fine di radunare nell'erario quanto
bastasse alla spedizione, pose, con esempio infausto, in vendita le cariche
della giudicatura della Francia. Si collegò nuovamente co' Veneziani.
Dichiarò reggente del governo la duchessa d'Angoulême sua madre; e
si dispose a venire egli stesso alla testa della sua armata nel Milanese. Il
duca prese al suo stipendio, in qualità di capitano delle genti d'armi,
Prospero Colonna. E come tutto ciò che dà idea de' costumi di
quei tempi deve aver luogo nella mia storia, così io non ometterò
un magnifico convito che il Colonnese imbandì in quella occasione, e di
cui ci lasciò memoria il Prato. Ciò seguì il giorno 20 di
febbraio 1515. Il duca e i cortigiani furono invitati, ed inoltre trentasei damiselle
milanesi, dice il Prato. Fabbricò apposta un superbo salone di
legno, riccamente dorato e dipinto, e dagli architetti fu stimato cosa
notandissima, come dice il nostro scrittore. Quattro ore durò
Poco giovava alla difesa dello Stato la
scelta di un magnifico e galante generale; conveniva avere un'armata, e gli
Svizzeri s'impegnarono a difenderlo colla paga di trecentomila ducati.
Comparvero in Milano dodici commissari per ricevere anticipatamente la promessa
paga. Il duca pubblicò una imposizione per riscuotere dai sudditi questa
eccessiva tassa. Sotto il regno di Lodovico XII non s'era mai pagato, se non i
tributi costituzionali. Un'arbitraria tassazione, per tal modo dispoticamente
comandata, commosse gli animi de' cittadini. L'editto si pubblicò il
giorno 8 di giugno del 1515. Sembrò questa una vera oppressione. La città
fece presentare le sue preghiere al cardinal di Sion, precipuo motore di simili
risoluzioni; ma l'inflessibile prelato non diè orecchio a verun moderato
partito. La città si pose in tumulto; alcuni Svizzeri furono uccisi;
alcuni Milanesi pure rimasero morti in una zuffa alla sala della piazza dei
Mercanti. E come si avvicinavano i Francesi, ed il partito de' malcontenti con
tale notizia si rianimava, così il duca fu costretto con nuovo proclama
a disdire l'imposta taglia. Si entrò a trattare. La città di
Milano comprò dal duca il Vicariato di provvisione, la giudicatura delle
strade e quella delle vettovaglie collo sborso di cinquantamila ducati, di che
stesero pubblico documento, il giorno 11 di luglio 1515, i notai Stefano da
Cremona e Paolo da Balsamo. Da quel contratto ebbe origine poi la nomina che la
città di Milano presentava al principe od al suo luogotenente, di alcuni
cittadini, dai quali esso trasceglieva chi gli era in grado alle accennate
cariche, che cominciarono allora ad essere privativamente appoggiate ai così
detti patrizi milanesi. Con questi cinquantamila ducati, cioè colla
sesta parte soltanto della somma loro promessa, ritornarono i commissari
svizzeri al loro paese. Nella dieta nazionale si pose in deliberazione, se
meglio convenisse l'accettare le pensioni che offeriva con molta istanza il re
Francesco, ovvero proseguire all'impegno di mantenere Massimiliano Sforza duca
di Milano; ed il secondo prevalse, avendo gli Svizzeri profittato più
de' Francesi nemici colla recente sconfitta data loro presso Novara, di quanto
ne avrebbero ottenuto se fossero stati loro alleati. A ciò s'aggiunse
poi la considerazione, che, fin tanto che Massimiliano Sforza rappresentava il
personaggio di duca di Milano, non sarebbe mancata occasione e mezzo di
costringere la città allo sborso della promessa paga, e di maggiori
ancora. In pochi giorni quarantamila Svizzeri scesero dai loro monti, e si
radunarono verso Novara. Il cardinale di Sion tanto dispoticamente e con tanta
atrocità comandava in Milano, che, sospettando egli di Ottaviano Sforza,
cugino del duca e vescovo di Lodi, che avesse delle pratiche co' nemici, nulla
rispettando il carattere di consanguinità col sovrano, né la persona del
vescovo, crudelmente per mero sospetto lo fece torturare con quattordici tratti
di corda; il che narrato viene dal Prato, e dalla cronaca manoscritta di
Antonio Grumello, pavese[775].
Il Prato nota persino il giorno in cui ciò avvenne, che fu il 21 di
maggio 1515, e racconta che il vescovo spontaneamente veniva al castello per
corteggiare il duca, quando quivi fu arrestato, rinchiuso nella ròcca,
ed aspramente torturato a fine di chiarirsi s'egli mai avesse tramato contro lo
Stato. Dopo due settimane, non risultando dai processi altro che la innocenza
del vescovo cugino del duca, fu il vescovo tradotto nella Germania, d'onde
l'infelice prelato passò a Roma. Tali erano i costumi e le opinioni
d'allora; tali i pensieri di un cardinale, di un vescovo di Sion, verso d'un
figlio d'un sovrano, di un vescovo, di un innocente. Gli uomini presso a poco
son sempre stati gli stessi; ma questo presso a poco è il vantaggio
della generazione vivente. Invidii chi non sa la storia i tempi antichi.
Benediciamo Dio, di vivere in un secolo in cui le passioni e i vizi degli
uomini sono (almeno in apparenza) meno atroci, e meno sfacciatamente insultano
Il buon re di Francia Francesco I
radunò un'armata formidabile, e si preparò a discendere egli
stesso nell'Italia. Accrebbe sino a millecinquecento il corpo delle sue lance,
numero per que' tempi esorbitante; allestì un imponente corredo
d'artiglieria; prese al suo stipendio diecimila Lanschinetti, seimila fanti
della Gheldria; radunò diecimila Guasconi[776]:
in somma, formò una terribile armata con quindicimila uomini d'armi,
quarantamila fantaccini, tremila pionieri ossia guastatori[777],
e nell'esercito si contarono più di ottantamila persone[778].
Il contestabile di Bourbon aveva il comando della vanguardia. Il re s'era
riserbato il comando del corpo di battaglia; al duca d'Alençon aveva affidata
la retroguardia; Lautrec, Navarra, Gian Giacomo Trivulzi, la Palisse, Chabanne,
d'Aubigny, Bayard, d'Imbercourt, Montmorency, i più illustri che
militavano sotto le insegne di Francia, tutti gareggiavano per combattere sotto
del giovane e coraggioso loro re. Reso istrutto il duca di tai preparativi, e
di forze di gran lunga superiori alle sue, le quali senza dimora s'andavano
innoltrando, mentre egli aveva alle spalle i Veneziani, combinati a di lui
danno, affidò a Prospero Colonna dugento uomini d'armi e quarantamila
Svizzeri. Non conveniva aspettare nella pianura della Lombardia un esercito
fortissimo, animato dalla presenza del re; ed era sperabile l'arrestarlo colle
forze affidate al Colonna. Quindi, da saggio comandante, ei s'innoltrò
nelle difficili strette delle Alpi, nei contorni di Susa, ed ivi, impadronitosi
de' luoghi eminenti, si dispose a disputare con molto vantaggio il passo
all'armata nemica. Egli era acquartierato a Villafranca, vivendo sicuro che i
Francesi dovessero presentarsi a Susa. In fatti, due strade sole erano conosciute
allora onde passare dal Delfinato nell'Italia; una pel monte di Ginevra,
l'altra pel monte Cenis; e tutte due si univano a Susa. L'esercito francese,
avvisato come in quelle angustie de' monti l'aspettassero i nemici, disperando
di superarli, era in procinto di abbandonare l'impresa: ma il maresciallo Gian
Giacomo Trivulzi, che già una volta aveva conquistato alla Francia il
Milanese, ebbe il merito di farglielo acquistare anco in quella seconda
occasione. Egli divisò una nuova strada affatto impensata; e, coll'aiuto
di alcuni cacciatori nazionali, trovò il modo d'evitare il passo di
Susa, e di guidare l'armata per Saluzzo. Così entrò in Italia
l'armata francese: e Prospero Colonna, mal servito dagli esploratori, venne
sorpreso e fatto prigioniere da que' Francesi ch'egli supponeva di là
dai monti. Così, scesa nella pianura senza contrasto, si avvicinò
l'armata francese quasi alla vista di Milano. Il duca si ricoverò nel
castello. La città spedì i suoi deputati al re Francesco I, che
gli accolse umanamente. La città di Milano però non era disposta
a ricevere presidio; ed il maresciallo Trivulzio, avendo procurato
impensatamente d'introdurvene da Porta Ticinese, la plebe si pose in armi. Il
duca, consigliato da Girolamo Morone a giovarsi di quel movimento popolare,
uscì con parte del presidio per sostenere il popolo; per lo che,
conoscendo il Trivulzio che l'impresa non era tanto facile quanto l'aveva
sperata, con qualche uccisione de' suoi, si ritirò all'armata, ch'era
accampata a Boffalora. Il duca, per sempre più animar la plebe, fece
proclamare ch'egli voleva affidar le chiavi della città al suo popolo;
che in avvenire voleva rendere immuni i cittadini da ogni aggravio, e che i
pesi dello Stato dovevano portarli i ricchi e i nobili. Contemporaneamente vennero
cacciati i nobili dalle magistrature municipali, e collocate persone le
più accette alla plebe. L'odio ereditario contro de' nobili si
manifestò con eccessi d'ogni sorte. La plebe, sensibile alle prepotenze
ed al fasto orgoglioso de' magnati, non ebbe limite, dappoi che venne sciolta
ad agire, anzi animata. La roba, la vita de' nobili non rimase più
sicura; e il duca, arbitrariamente, esigeva esorbitanti sussidi dai facoltosi,
usando ridire spesse fiate: essere meglio rovinare ch'essere rovinato. Così
procurò egli d'impegnare in sua difesa il numero maggiore e i più
determinati sudditi, come quelli che poco hanno da perdere.
Se dall'una parte questa imponente e
vigorosa comparsa del re in Italia cagionava molta inquietudine al partito
dello Sforza, non lasciava dall'altra di valutarsi il numero e la risolutezza
degli Svizzeri, pronti a discendere, e l'animo de' popolani del paese, che
già s'era manifestato. Quindi in Gallarate s'erano introdotti da ambe le
parti discorsi d'accomodamento[779];
anzi erasi al punto di stabilire la pace, collo sborso di grosse pensioni del
re di Francia agli Svizzeri; e gli articoli principali, che già
sembravano accordati, erano: che il Milanese fosse del re di Francia; che gli
Svizzeri e i Grigioni restituissero al ducato le valli che avevano occupate,
cioè Lugano, Mendrisio, Locarno, Valtellina, ecc.; che il re assegnasse
a Massimiliano Sforza il ducato di Nemours, ed un'annua pensione di dodicimila
franchi: che gli concedesse una principessa del sangue reale in moglie, e gli
desse la condotta di cinquanta lance al servigio della Francia[780].
Ma il cardinale di Sion troncò i discorsi di accomodamento. Egli
condusse in Milano, il giorno 10 di settembre del 1515, un corpo di Svizzeri
numeroso. Cotesto cardinale compariva militarmente in habito de bruno
seculare,come dice il Prato; e gli Svizzeri vennero eccitati a combattere
colla grandiosa promessa di ottocentomila ducati d'oro, se vincevano. Della
qual somma il ministro del re di Spagna, residente a Milano, ne promise
dugentomila a nome del suo monarca, ed a nome del papa Leone X dugento altri
mila ne furono promessi; cosicché al duca rimaneva il peso di quattrocento mila
ducati. Gli Svizzeri, gloriosi per la sconfitta data, due anni prima, a Novara
ai Francesi sotto il comando de la Tremouille, si consideravano il terrore
de' monarchi, e tenevansi la vittoria sicura. Il re, vedendo inevitabile il
tentar la fortuna delle armi, avendo consumati i viveri de' contorni di
Magenta, Corbetta e Boffalora, marciò coll'armata, prima a Binasco, indi
passò a Pavia; finalmente pose, in settembre, il suo campo a Marignano.
Le scorrerie de' Francesi venivano sotto le mura della città, e, non
solamente da quella parte che risguardava la loro armata, ma persino sulla strada
di Monza, per lo che non eravi sicurezza nell'uscire da Milano.
Il giorno 14 di settembre 1515 divenne
famoso nella storia per la battaglia di Marignano, da alcuni anche detta
di San Donato. Il Prato ci racconta, come venuta la chiarezza del
dì, cominciarono essi (Svizzeri) ad uscire per Porta Romana; et
durò il loro passaggio sino alle ventidue ore, il che prova il loro
numero, con animo tale, che non pareva già che a guerra, ma
più presto a certi segni di vittoria andassero, et con essi era il cardinale.
Il re di Francia aveva seco lui sei ambasciatori svizzeri, i quali stavano
trattando della pace; per lo che l'attacco fu una vera sorpresa pei Francesi, e
potrebbe chiamarsi anche un'insidia oltraggiosa al gius delle genti, se il
corpo elvetico non fosse un aggregato di più distinte sovranità.
I cantoni di Uri, Swit e Undervald, i quali privatamente possedevano Bellinzona
e le province acquistate sul ducato di Milano, dovevano preferire il rischio
della battaglia, anzi che cedere le loro conquiste: gli altri cantoni, dai
quali non si cercava nella pace sagrifizio alcuno, non avendo che
l'utilità delle pensioni dalla Francia promesse, dovevano preferire la
pace ai pericoli di una giornata. In fatti, gli Svizzeri di Berna, Soletta e
Basilea ricusarono di marciare contro de' Francesi; ma destramente ingannati
coll'avviso che la vittoria era già decisa pe' loro compatriotti, essi,
per non ritornare alle case loro colla vergogna di non aver partecipato alla
gloria degli altri, e per non perdere la porzion loro del bottino, che
già si tenevano sicuro, sull'esempio di quanto era loro toccato a Novara
col la Tremouille, si unirono e marciarono a San Donato. Il progetto era di
vincere con impeto la prima resistenza de' Francesi: impadronirsi, come era seguìto
a Novara, dell'artiglieria, e adoperarla contro del re. Guicciardini, Gaillard,
Prato vanno concordi nella descrizione di quanto v'è di essenziale in
questo fatto, che decise totalmente in favore del re, e che fu una delle
più ostinate e sanguinose battaglie che si sieno date. Cominciò
la mischia il giorno 14 settembre, due ore prima del tramontar del sole[781].
Durò ferocemente sino alle quattro ore della notte, non volendo né
cedere i Francesi, né ritirarsi gli Svizzeri. Le tenebre si accrebbero al
segno, che fu indispensabile il cessare, pioché non si distinguevano più
gli amici dai nemici. Il re profittò di quell'intervallo, spedì
ordine all'Alviano, comandante de' Veneti, acciocché si presentasse tra Milano
e San Donato. Passò il re il rimanente della notte, animando e
disponendo i suoi, e giacque in riposo sopra un cannone. Al comparire
dell'aurora, più accaniti che mai, ritornarono al loro impeto gli
Svizzeri, ed i Francesi con fermezza lo sostennero e rispinsero. Si sparse voce
fra gli Svizzeri che l'Alviano marciava per coglierli alle spalle. Laonde,
spossati dalla enorme fatica, disperando di superare i Francesi comandati dal
loro re, vedendosi in pericolo di ritrovarsi fra due fuochi, piegarono alla
vòlta di Milano. Affermava il consentimento comune, dice il Guicciardini[782],
di tutti gli uomini, non essere stata per moltissimi anni in Italia
battaglia più feroce... Il re medesimo, stato molte volte in pericolo,
aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso,
che dall'aiuto de' suoi... in maniera che il Triulzio, capitano che aveva
vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia, non di uomini, ma
di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto, erano state, a
comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Vi si contarono morti sul
campo più di quindicimila Svizzeri e seimila Francesi. Il Trivulzi vi
corse pericolo: ei s'era impegnato fra le alabarde e le aste nemiche per
salvare un suo alfiere, già circondato dagli Svizzeri; ebbe ferito il
cavallo, il suo elmo privato de' pennacchi; era ridotto al punto di essere
oppresso dal numero, se non veniva un drappello de' suoi, che lo trasse a
salvamento. Il re ebbe il cavallo ferito, e nella persona ricevé molte
contusioni, e vi combatté come ogni altro soldato: vi si distinsero il
contestabile di Bourbon, il conte di San Pol. Il conte di Guise ricevette molte
ferite; rimase sul campo Francesco di Bourbon, fratello del contestabile, che
aveva il titolo di duca di Castelleraud; vi rimasero morti parimenti Bertrando
di Bourbon Carenci, un fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, il
principe di Talmont, i conti di Sancerre, di Bussi, d'Amboise, di Roye ed altri[783].
Il cavaliere Bayard, quegli che aveva e meritava il titolo di Cavaliere
senza tema e senza macchia, in quella memorabile azione fece prodigi di
valore, per modo che il re di Francia medesimo, Francesco I, dopo ottenuta la
vittoria, volle ivi sul campo essere creato cavaliere per mano del valoroso
Bayard. Gli Svizzeri mal conci sopravissuti a quella carneficina ritornarono a
Milano, ed io li rappresenterò colle volgari, ma ingenue parole
adoperate da un merciaio che allora aveva bottega aperta in Milano, e si
chiamava Gian Marco Burigozzo: tanto che fu la rotta a questi poveri
Sviceri, et se comenzorono a voltare, et vennero a Milano quelli pochi che
erano avanzati, et tutti avevano bagnate le gambe, et questo era perché il
signor Giovan Jacopo, come astuto capitano, venendo li Sviceri in campo su un
certo prato, et lui li dette l'acqua, per modo che la fu una gran ruina a
quelli poveri Sviceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non
ammalati et homeni maltrattati, in modo che pareva che costoro fusseno stati in
campo dieci anni, tutti polverenti dal mezzo in suxo, et dal mezzo in giuxo
bagnati, tanto che li homeni de Milano, vedendo tanta desgrazia, tutti si
miseno sulle porte ovver botteghe, chi con pane, et chi con vino, a letificar
li cori di questi poveri homini, et questo facevano a honor di Dio, et per
tutto questo dì non cesorno de venire poveri Sviceri, tutti malsani, et
il più sano durava fatica a star su in piedi[784].
Dopo la battaglia di Marignano il duca
si ricoverò nel castello di Milano con bastante presidio. Il cardinale
di Sion prese seco il duca di Bari Francesco, e lo condusse alla corte
imperiale, dove era stato educato, riserbandolo a tempi migliori pel caso che
Massimiliano rimanesse in potere de' Francesi, che il cardinale odiava
irreconciliabilmente. Gli avanzi di Marignano si ricoverarono nelle loro
montagne svizzere, e così il Milanese rimase sgombrato ed aperto al
dominio del re, tranne i castelli di Milano e di Cremona. Si vociferava non per
tanto della disposizione di cinquanta altri mila Svizzeri a venire in soccorso
del duca. Era recente la memoria di quanto aveva saputo fare Giulio II; e non
era da fidarsi di Leone X, che gli era succeduto nel sommo sacerdozio. Un
regolare assedio al castello di Milano, ben provveduto di viveri e di
munizioni, portava molti mesi di tempo, ne' quali i maneggi della politica
potevano annientare i vantaggi dal valore e dal sangue francese ottenuti nella
recente segnalatissima vittoria. Voleva la ragione di Stato che il re offerisse
a Massimiliano Sforza i compensi che egli avesse saputo chiedere, purché
cedesse il castello di Milano, rinunziasse alle pretensioni sul ducato, e
riconoscesse il re Francesco per duca di Milano. Girolamo Morone, che stavasene
nel castello col duca, fu mediatore di quest'accordo. Massimiliano Sforza rinunciò
al re di Francia il ducato di Milano, gli consegnò il castello,
passò a terminar da privato i suoi giorni nella Francia con
trentaseimila scudi di pensione, che assegnogli il re, il quale oltre a
ciò s'obbligò di pagargli i debiti. Al Morone il re promise di
farlo senatore e regio auditore. Il giorno 8 di ottobre del 1515 venne ceduto
il castello ai Francesi; e non erano ancora compiuti i due anni da che n'erano
usciti. E così terminò la sovranità di Massimiliano
Sforza, il quale per poco più di tre anni rappresentò la figura
dell'ottavo duca di Milano; principe che venne definito assai bene dal Gaillard
nella vita di Francesco I re di Francia colle seguenti parole: à juger
de lui par sa conduite, il paroit que c'étoit un prince foible, fait pour
être gouvernè. Ni politique, ni
belliqueux, on ne l'avoit vu ni préparer sa defense par les intrigues du
cabinet, ni commander ler armées qui combattoient pour lui. Il sembloit que la
querelle du Milanès lui fût étrangère. Mais il eut du moins
le mérite d'avoir renoncé de lui même à un rang au quel il n'étoit
point propre, et de ne l'avoir jamais regretté dans
Nel tempo stesso in cui si
assicurò il re di Massimiliano Sforza, e s'impadronì delle
fortezze del Milanese, mosse colla maggiore sollecitudine i suoi maneggi per
concertarsi col papa Leone X, detto prima il cardinal Giovanni de' Medici, che
combatté a Ravenna contro dei Francesi. Sommamente stava a cuore al pontefice
l'assicurare alla sua casa in Firenze quella sovranità che
effettivamente godeva, sebbene sotto apparenza di repubblica, e sempre per se medesima
precaria. Il re si fece garante di mantenere il governo di Firenze nel sistema
in cui si trovava. La città di Bologna, e per la sua grandezza e per la
situazione vantaggiosa, premeva al papa di possederla assai più di
quello che dovessero interessarlo Parma e Piacenza. I Francesi avevano
mantenuti i Bentivogli nella signoria di quella città, anche cogli
ultimi fatti del duca di Nemours, che ne aveva discacciati i pontificii, i
quali l'assediavano. Il re si mostrò disposto ad abbandonare i Bentivogli,
e guarentire Bologna alla Santa Sede. In compenso il papa doveva riconoscere il
re come sovrano del ducato di Milano, e restituirgli Parma e Piacenza, come due
città dipendenti dal ducato. Così venne concertato, ed il
trattato venne sottoscritto in Viterbo il giorno 13 di ottobre 1515.
Quantunque i Francesi possedessero
Milano sino dal giorno 17 settembre, il re, sin che non ebbe la dedizione del
castello, volle risedere a Pavia, ed in Milano dimorava il contestabile di
Bourbon, luogotenente e governatore a nome del re. Resosi poi padrone del
castello, il re fece la sua solenne entrata in Milano il giorno 11 d'ottobre
1515. Lo corteggiavano il duca di Savoia, il duca di Lorena, il marchese di
Monferrato, il marchese di Saluzzo, e varii altri signori, tutti partecipi
della battaglia di San Donato. Alla porta Ticinese gli si presentarono i
delegati della città, i quali gli offersero lo scettro ducale, la spada
e le chiavi della città. Il re era a cavallo, vestito di ferro, con un
manto di velluto celeste a gigli ricamati d'oro. Avanti se gli portava una
spada sguainata; dodici gentiluomini milanesi lo fiancheggiavano. Dugento
gentiluomini francesi, coperti di ferro e con ricchissimi manti, venivangli in
seguito. Poi mille fantaccini tedeschi armati, condotti dai loro capitani
riccamente ornati, venivangli in seguito. Chiudeva la marcia un corpo di
cavalleria. Giunti alla notizia dell'imperator Massimiliano questi avvenimenti,
egli spedì a Milano un suo ambasciatore al re di Francia per
interpellarlo con qual titolo egli occupasse il ducato di Milano. Il re
indicogli la sua spada; giacché non essendo egli discendente dell'ultimo
investito, cioè Lodovico XII, non aveva alcun altro titolo da addurre
fuori che l'essere discendente ei pure dalla Valentina, madre del di lui avo
Giovanni conte d'Angoulême; il quale titolo non era adattato ai principii
dell'Impero, né alle leggi del feudo instituito da Venceslao, siccome
transitorio ne' soli discendenti maschi. Se l'interpellazione fatta da Cesare
aveva l'apparenza di un feciale spedito a intimare la guerra, la risposta del
re aveva il significato della disposizione sua per difendersi. Il re, per
rassodare sempre più la buona corrispondenza col pontefice,
concertò d'abboccarsi con esso a Bologna; partì da Milano, dopo
di esservi dimorato cinquantatre giorni, il 3 del mese di dicembre, e il giorno
14 dello stesso mese e dello stesso anno
Frattanto però l'ostinatissimo
cardinal di Sion moveva ogni mezzo alla corte imperiale per determinare Cesare
a scendere nell'Italia. Varii Milanesi, avversi alla dominazione francese,
dimoravano negli Svizzeri, e procuravano di promovere gl'interessi della casa
Sforza, tuttora intatti nella persona del duca di Bari Francesco, il quale non
aveva abdicata, come aveva fatto il maggior fratello Massimiliano, la ragione
sua alla successione nel ducato di Milano. La fiera risposta data dal re alla
intimazione imperiale, sembrava che obbligasse quell'augusto a prendere il
partito suggerito dal cardinale. Così appunto seguì, e nel
Il principio del regno di Francesco I,
poi che fu in pace, promise un ridente avvenire ai Milanesi; e il duca di
Bourbon, generoso e magnanimo principe, governatore e luogotenente del re,
procurò di rendersi affezionati gli animi di questi nuovi sudditi, e far
loro dimenticare con un felice governo e i suoi naturali principi, e i mali
sofferti. Il senato di Milano, che tanto a dire quanto esso re (dice
il Prato), ordinò che venissero stimati i danni sofferti da' cittadini
per le case incenerite ne' borghi, e sulla relazione degl'ingegneri commise ai
tesorieri del re di risarcirli. Ma le angustie dell'erario non permisero che
interamente fossero indennizzati. In oltre il contestabile di Bourbon
donò alla città il dazio della macina, che si valutava allora
diecinovemila ducati di annua entrata; e donò pure il dazio del vino
minuto, d'annua rendita di settemila ducati. Nacque disparere fra i
ventiquattro rettori della città. Alcuni proposero di abolire questi due
aggravii, perché venisse sollevato il popolo, e non si accumulasse denaro nella
cassa pubblica, d'onde sovente, col titolo di prestito, i rettori medesimi lo
sviavano per non più restituirlo, abolendo così il nome di un
molesto aggravio. Tal proposizione era di pochi; i più si opponevano; la
disputa era impegnata, ostentando l'uno e l'altro partito il nome di patria e
di pubblico bene, siccome è l'uso. Né accadde allora ciò che pure
succede, cioè che, mentre due partiti cozzano e guerreggiano, entri una
più scaltra, o più potente persona di mezzo ad usurparsi la cosa
disputata. Venne ordine in nome del re alla città di non disporre di tai
regalie, intendendo il sovrano di conservare intiera la corona ducale. In vece
però di que' due tributi il re assegnò diecimila ducati annui
alla città, da convertirsi in opere di pubblico beneficio. L'ordine del
re è in data del 7 luglio 1516, e contiene: Christianissimus rex,
animo revolvens fidelitatem et integritatem quam cives Mediolanenses erga Suam
Majestatem habuerunt, et damna intolerabilia, quae passi fuerent, libere
praedictae civitati donat atque concedit summam ducatorum decem milium annui et
perpetui redditus, per manus receptoris civium recipiendos a mercaturae
datiariis, quae quidem summa in commodum et utilitatem praedictae civitatis
tantummodo et non aliter convertatur[787].
Poi passa a stabilire che la metà di questa somma s'impieghi
ogni anno per formare un canale sotto la direzione del vicario e dei Dodici di
Provvisione; ducento annui ducati si lasciano da distribuire all'arbitrio del
vicario e Dodici suddetti; e quattromila e ottocento si distribuiranno
chiamando col vicario e Dodici anche quattro dottori di collegio de' fisici,
quattro negozianti e quattro nobili deputati dello spedale. Ogni anno il
ricettore renderà i suoi conti al magistrato camerale, chiamandovi il
vicario e i fiscali[788].
Era vicario di provvisione Bernardo Crivelli[789].
Gli architetti idraulici che s'impiegarono, furono Bartolomeo della Valle e
Benedetto Missaglia. Si cercò di fare un canale che ci rendesse comoda
la navigazione col lago di Como. Primieramente si esaminò la valle di
Malgrate, e risultò impossibile, perché conveniva scavare un canale
profondo trenta braccia per più d'un miglio, e ciò sotto il fondo
del lago di Civate; e protraendo il canale sino al lago di Pusiano per imboccare
il Lambro, che ne esce, conveniva sprofondare il Lambro cento braccia e dieci
once. Perciò abbandonarono quella idea, e si rivolsero ad esaminare se
meglio convenisse cominciare il canale sotto Airuno, e trovando che ivi
dovevasi sprofondare centosessantadue braccia per attraversare quella costa, ne
lasciarono pure anche tale idea. (1517) Poi, l'anno seguente, esso Missaglia
con altri ingegneri, Giovanni Simone della Porta e
Queste beneficenze del re animarono la
città di Milano a spedire a Parigi alcuni deputati con una supplica al
re in cui proposero alcuni stabilimenti. Essa distesamente vien riferita nel
manoscritto del Prato. Io ne esporrò quanto vi è di più
importante. Si chiedeva dalla città di Milano che il governatore e
luogotenente non avesse né direttamente né indirettamente ingerenza alcuna
nelle cose di giustizia tanto civile quanto criminale; che nessuna
autorità egli avesse negli affari delle regalie, e nemmeno
facoltà di proclamare editti; ciò che il re non volle accordare.
Accordò egli bensì che nessun comandante militare potesse nelle
città di presidio o nei castelli esercitare giurisdizione sopra i
cittadini. Si conosce da quanto trovasi in quella supplica, che di que' giorni
i questori, i quali dovevano giudicare delle questioni fra gl'impresari e il
popolo, non erano di rado soci secreti degl'impresari medesimi; onde essendo
costoro ad un tempo giudici e parte, non vi era più modo agli oppressi
di trovare giustizia; su di che la città implorò la sovrana provvidenza.
Essi poi, come ministri camerali, all'occasione di confische (le quali in
quella età di frequente cambiamento di dominazione, col pretesto di
fellonia non erano rare) occupavano indistintamente tutto il patrimonio e del
reo e de' consanguinei che vivessero indivisi con lui, e quindi gl'innocenti si
trovavano costretti a dispendiosissime liti, dalle quali erano prima rovinati
che ottenessero la loro porzione devastata. Fa poi ribrezzo maggiore il
conoscere da quella supplica quanto ingiusta e crudele fosse la procedura
criminale esercitata in quell'epoca da coloro che avevano una carica di
capitano di giustizia. Questo supremo giudice, assistito dal suo vicario e da
quattro fiscali, procedeva servato et non servato jure comuni[790].
Vi fosse o non vi fosse il corpo del delitto, questo non arrestava
La plebe era superstiziosa e violenta
oltre modo; e ne fecero la prova i monaci di San Simpliciano, i quali nell'anno
1517, avendo scoperte alcune urne, ed esposti i corpi creduti di San
Simpliciano, di San Martino, di San Siro ed altri santi; ed essendo per
disgrazia caduta in que' dì una grandine dalla quale vennero flagellate
e devastate le nostre campagne; col modo di ragionar volgare attribuendosi il
fenomeno fisico allo sdegno dei santi, i quali bramassero riposo ed
oscurità, anzi che luce e movimento; e traducendosi i Benedettini
siccome rei di sacrilegio e di pubblica sciagura; non furono essi più
sicuri non solamente nelle piazze e per le vie della città, ma nemmeno
nel loro monastero; e dice il Prato ch'essi furono sì sconciamente
battuti, che tal fu di loro, che vi lasciò non solamente la
cappa, ma et la forma di quella. Né la supposta empietà di cavare
dalla tomba i santi bastava a spiegare allora cagion della grandine. La inquisizione
non volle starsene oziosa; volle trovar delle streghe colpevoli di quel
turbine, e volendolo efficacemente, se ne trovano sempre. Alcune infelici
donnicciuole avevano dei segni, quai fossero non lo sappiamo; bastarono
però a farle splendidamente gettar nel fuoco. Si ascolti il Prato: anche
da li segni le quali, judicate dalla inquisizione per strie, furono in quelli
medesimi dì a Ornago et a Lampugnano sul monte di Brianza a gran
splendore arse. Convien dire che anche nel ceto ecclesiastico allora
l'ignoranza fosse grande; e merita d'essere riferito a tal proposito un fatto
singolare che ci vien raccontato e dal Prato e dal Burigozzo. Un uomo sen venne
a Milano grande, sottilissimo per l'estrema magrezza, che, andando scalzo,
vestito di rozzo panno, a capo scoperto, non portando camicia, vivea con pane
di miglio, erbaggi ed acqua, e dormiva sulla nuda terra. Costui, presentatosi
alla curia arcivescovile, chiese il permesso di predicare; ma siccome egli era
laico e non fregiato di alcun ordine ecclesiastico, gli venne ciò
negato. Malgrado ciò egli cominciò nel Duomo a parlare al popolo,
e continuò per un mese a farlo ogni giorno con tanta grazia di
lingua, che tutto Milano vi concorreva[794].
Egli prese un tal ascendente col favor del popolo, che nessuno poteva fargli
contrasto; e nella chiesa del Duomo disponeva come se ne avesse titolo. Le
costui prediche versavano singolarmente nel rimproverare la corruttela degli
ecclesiastici; i quali, indifferenti per la religione, col di lei manto altro
non bramavano se non ricchezza, autorità e comodi; non mai sazi di
onori, di latifondi, di voluttà, nimici delle sante regole de' loro
istitutori, alieni dalla carità, dallo studio de' libri sacri, dalla
cura del bene altrui, dalla pazienza, dalla umiltà, dai travagli; cose
tutte che pure sono di obbligo dello stato a cui sono sublimati; e quindi in
vece di animare i laici alla virtù col loro esempio, sono la cagione
della corruttela universale de' costumi. Così con veemente eloquenza
questo uomo laico cercava di scuotere gli ecclesiastici. I preti non si
mossero; ma i frati non furono tanto pazienti; e que' di Sant'Angelo
l'accusarono come sedizioso, fautore segreto de' nimici del re. Egli,
interrogato dal maresciallo Trivulzi e dal presidente del senato, fu trovato un
uomo semplice, pio, ed affatto diverso da quello che era stato rappresentato.
Insensibilmente poi questo amor popolare, prodotto dalla eloquenza e dalla
austerità, sempre imponente, della vita, svanì; ed il romito dopo
sei mesi, senza alcun romore, se ne partì. Era costui dell'età di
trent'anni, Toscano; aveva nome Girolamo; dotto assai nelle sacre pagine. Tutto
ciò il Prato. Di costui il Burigozzo dice che era di Siena, di bella
persona, e nobile: era vestito de panno tanè, haveva le brazza
discoperte et le gambe nude senza niente in testa, con la barba lunga, ed
haveva dissopra un certo mantelletto a modo de sancto Giovanni Battista. Se
mi si permette una conghiettura, parmi che questa straordinaria missione fosse
un avviso salutare degl'imminenti torbidi luttuosi che nacquero pochi mesi dopo
nella Germania contro degli ecclesiastici; e che riuscirono, come ognun sa,
all'infausto dissidio dei protestanti e dei pretesi riformati.
Il contestabile duca di Bourbon, governatore
e luogotenente del re, venne richiamato per uno di quegl'intrighi, i quali non
son rari nelle corti, quando il monarca non giudichi co' suoi principii, ma si
lasci indurre ad abbracciare i partiti che destramente gl'insinuano le persone
che se gli accostano più da vicino. La duchessa di Angoulême aveva
molto ascendente sull'animo del re suo figlio. Non minor potere aveva nel cuore
di quel giovine e vivace sovrano la contessa di Chateau-Briant, che era nel
fiore dell'età, il fiore della bellezza e della grazia; ed era amata dal
re[795].
La duchessa favoriva il duca di Bourbon, senza ch'egli se ne avvedesse, per
inclinazione naturale; la contessa bramava che si desse a Lautrec, di lei
fratello germano, il comando nell'Italia delle armi francesi. Perciò nel
1517 egli venne a Milano governatore, e fu il settimo. Odetto di Foix, signore
di Lautrec, maresciallo di Francia, era cugino e compagno d'armi del celebre
Gastone di Foix. Alla battaglia di Ravenna egli fu de' pochi che non
l'abbandonò, quando, per uno sconsigliato ardimento, si scagliò
incontro alla sua morte. Si batté, lo difese quanto un uomo solo lo poteva
contro di una folla di armati. Lautrec gridava agli Spagnuoli, mentre
combatteva, avvisandoli che Gastone era il fratello della regina loro. Ferito
egli pure in più guise, giacque creduto morto a canto a Gastone.
Riconosciuto poi, ed assistito, ripigliò Lautrec il suo vigore, e sotto
del contestabile continuò a dar saggi del suo valor militare. Le ferite
che Lautrec aveva ricevute sul viso nella battaglia di Ravenna, l'avevano reso
di aspetto truce e deforme; né il di lui carattere contrastava colla fisionomia[796].
(1518) Lautrec, governatore di Milano, mal sofferiva il maresciallo Trivulzio,
il quale viveva con una magnificenza reale, ed era più considerato nella
città, che non lo fosse Lautrec. Trivulzio era maresciallo, era stato
governatore, aveva acquistato alla Francia il Milanese, viveva indipendente. Il
perché venne accusato e indicato per sospetto, per essere egli il capo della
potente fazione de' Guelfi, e per essersi fatto ascrivere alla naturalizzazione
elvetica, e perché il di lui nipote serviva i Veneti. Queste accuse del Lautrec
vennero nell'animo del re malignamente rinforzate dalla contessa di
Chateau-Briant, la favorita di quel monarca. Trivulzio, franco e sensibile,
informato dell'attentato, al momento partì; e quantunque avesse
ottant'anni, nel cuore dell'inverno, superate le Alpi, si presentò alla
corte di Francia, dove però non poté avere udienza dal re. Questo
rispettabile vecchio si fe' condurre in luogo per cui doveva passare il
monarca; e poiché fu alla distanza di essere ascoltato, disse: Sire,
degnatevi di accordare un momento d'udienza ad un uomo che s'è trovato
in diciotto battaglie al servigio vostro e dei vostri antenati. Il re,
sorpreso, lo guarda, lo ravvisa, e passa oltre senza far motto. Tale fu la mercede
di quarant'anni di servigi resi alla Francia. Trivulzio si ammalò
gravemente. Il re gli fece fare delle scuse; ed il Trivulzio gli rispose che
era sensibile alla bontà del re, ma che lo era stato pure ai rigori, ed
il rimedio era tardo[797].
Frattanto il Lautrec profittò dell'assenza del Trivulzio per arrestare a
Vigevano la vedova ed i figli del conte di Musocco, nuora e nipoti del
Trivulzio. Il maresciallo fu sepolto a Bourg de Chartres, sotto Montlehery, dove
aveva trovata la corte, e dove morì[798].
Burigozzo dice ch'ei morì il giorno 4 di dicembre del 1518. Nel
vestibolo di San Nazaro Maggiore della nostra città avvi un tempio di
assai grandiosa e nobile architettura, intorno al cui architrave veggonsi
collocate in alto le tombe della famiglia Trivulzio; il qual edifizio credesi
fatto fabbricare dal maresciallo, la tomba del quale sta nel mezzo, colle due
sue mogli poste ai lati; e sta scolpito: QUI NVNQVAM QVIEVIT HIC QVIESCIT. TACE[799].
Della sconoscenza ed ingratitudine del re Francesco I ne scrive anche il Prato;
havendo non una, ma due et tre volte, dic'egli, con tanta
fatica et arte in bona parte dato il stato di Milano a Francesi, ed hora ne ha
pagato di sì meritevole guiderdone. Il Trivulzio fu un gran soldato,
un signore magnifico, e d'animo reale. L'ambizione sua però fu rivolta
più a soggiogare i nemici viventi, ed a vendicarsene, che a procacciarsi
una fama generosa presso
Dell'atrocità di que' tempi, e
degli effetti dell'ignoranza e delle torture può esserne pure chiara
testimonianza il fatto orribile di Isabella da Lampugnano, la quale, il giorno
22 di luglio del 1519, sulla piazza del castello, fu arruotata viva ed
abbruciata. Si credette che per sola crudeltà ella colle lusinghe
si facesse venir in sua casa i bambini, e loro togliendo il sangue, gli salasse
e divorasse. Si asserì che la cosa venisse a sapersi, perché una gatta
di lei fu osservata avere in bocca la mano d'un bambino: Fu subito detenuta,
dice il Prato, et stata per alcun tempo perseverante ne' tormenti
horribili, negando sempre il vero, finalmente confessò il tutto. La
logica non permette di credere che si commettano siffatti orrori per sola
crudeltà e senza un fine. La cognizione del cuore umano nemmeno
consente di crederne preferibilmente capace una donna, più sensibile
alla compassione che non è l'uomo. La ragione e la sperienza ci
dimostrano che questa è una prova di più, che coll'uso dei
tormenti horribili finalmente si costringe un innocente ad accusarsi di
qualunque più chimerico delitto. Ci accaderà di trattarne
più diffusamente, mi lusingo, in avanti, proseguendo la storia.
La condizione de' Milanesi era assai
infelice sotto il duro e dispotico governo del maresciallo Lautrec: aggravii
indiscreti, indiscretamente percepiti: patiboli, confische, proscrizioni;
quest'era l'arte colla quale colui governava. Io non riferirò quanto ne
scrivevano gl'Italiani di quel tempo, che potrebbe forse anco credersi dettato
dallo spirito di partito nazionale. Brantome così parla nella vita di
Lautrec. On dit qu'avant qu'il fust chassé de Milan,
venoient au roy plusieurs nouvelles et plaintes de luy, et qu'il estoit trop
sévère et mal propre pour un tel gouvernement.... mais pour gouverner un
état il n'y estoit bon. Madame de Chasteaubriant, soeur de mons. de Lautrec...
en rebatit tous les coups, et le remettoit tousjours en grace. E lo storico Gaillard, nella vita di Francesco I
re di Francia, dice: le maréchal de Lautrec gouvernoit depuis long temps le
Milanés avec une rigueur bien contraire à la clemence de son maître. Les
proscriptions avoient depeuplé Milan. Les bannis étoient en si grand nombre
qu'on les voit jouer un rôle dans l'histoire, se rassembler, former des
entreprises, et susciter beaucoup d'affaires aux François. On remarqua que la
plus part de ces bannis étoient les plus riches citoyens du Milanés[800]. Fu ben diverso il regno di Lodovico XII da quello di Francesco I,
non già per cattiva indole di quest'ultimo, ma perché, sotto il nome suo
spensieratamente lasciava in balìa d'un favorito il destino de' sudditi.
In quel torno morì il nostro celebre Bernardino Corio[801],
d'anni sessanta, e fu l'anno 1519. Quattro anni prima lo storico Tristano Calco
lo avea preceduto.
(1519) L'odioso governo che il Lautrec
faceva dello stato di Milano aveva fatto emigrare un buon numero di cittadini,
o per sottrarsi alla violenza o per aspettare un miglior tempo, sotto un meno
arbitrario governo. Girolamo Morone, il quale era l'âme de toutes les
intrigues, et le véritable chef des mécontens[802],
dispose che questi esuli malcontenti si radunassero in Reggio di Lombardia,
città che allora era posseduta dal papa, e quest'adunanza avea per
oggetto l'espulsione de' Francesi dall'Italia, e lo stabilimento della casa
sforzesca sul trono di Milano, col riconoscere per duca Francesco, duca di Bari,
fratello del duca Massimiliano, e figlio del duca Lodovico Maria. Per
comprendere quali apparenze vi fossero da concepire quest'idea, conviene dare
un'occhiata alle combinazioni politiche generali di que' tempi. L'imperator
Massimiliano avea terminata la sua vita il giorno 12 di gennaio 1519, e,
malgrado gli uffici della Francia, era stato eletto imperatore il re di Spagna
Carlo, il quale rese poi nelle serie de' cesari famoso il suo nome di Carlo
V. Questo monarca, nel vigore del ventesimo anno dell'età sua, favorito
dalla natura d'un animo attivo, elevato, passionato per farsi un nome, favorito
dalla fortuna, che gli avea dati i regni delle Spagne, quei delle due Sicilie,
la Fiandra, l'Olanda e gli stati della Germania; questo imperatore potente,
appena innalzato al trono cesareo, rivolse lo sguardo all'usurpato dominio di
Francesco I nel Milanese, feudo imperiale dominato dal re senza investitura o
dipendenza dall'Impero. Nella Germania le nuove dottrine di Lutero s'andavano
spargendo; già varii sovrani le proteggevano; e correva rischio il papa
di perdere del tutto la Germania, se Carlo V, vigorosamente opponendosi, non
avesse posto al bando dell'Impero il promotore de' nuovi dommi, il quale sarebbe
stato facile, dandogli qualche dignità o qualche modo onesto di vivere,
di farlo pentire degli errori suoi, dice il Guicciardini[803],
se il cardinal Gaetano, legato apostolico, colle ingiurie e colle minacce non
l'avesse spinto al disperato partito che prese dappoi. Il papa per questo
gravissimo oggetto della Germania avea bisogno di tenersi amico l'imperatore.
Il papa non perdeva di vista Ferrara, Parma e Piacenza, e, collegandosi con
Carlo V per discacciare i Francesi da Milano, otteneva di staccare nuovamente
dal ducato di Milano queste due città, già usurpate da Giulio II,
e di consegnare il rimanente del ducato a Francesco Sforza. Segretamente si
andava concertando la lega fra Carlo V e Leone X. Francesco Sforza stavasene a
Trento. L'imperatore gli assegnò centomila scudi, ed ottantamila gliene
assegnò il papa, colle quali somme poté assoldare degli Svizzeri, a
ciò aiutato dal cardinal di Sion[804].
I Fiorentini, il marchese di Mantova entravano nella lega contro dei Francesi.
Motto confidavano e Cesare e il papa sulla buona volontà de' Milanesi,
l'affetto dei quali molto doveva contribuire all'esito della guerra. E questo
motivo fu quello per cui dal Morone vennero essi chiamati a Reggio, di che
veggasi l'opera, poco sinora conosciuta, ma che merita di esserlo, del
Sepulveda: de Rebus gestis Caroli V imp. et regis Hisp., autore
contemporaneo, che scriveva i fasti del monarca al quale serviva, e dal quale
anche a voce poteva chiedere istruzione de' fatti che esponeva in buon latino
nel di lui regno. Della qual opera v'era bensì la tradizione nella
Spagna, ma a caso venne a trovarsi manoscritta soltanto l'anno 1775, e si
publicò dalla regia stamperia di Madrid nel 1780, sotto la direzione
della reale accademia di storia[805].
(1520) Il maresciallo di Foix, ossia
Lautrec, informato di questa unione che si andava facendo in Reggio, quantunque
le intelligenze fra il papa e l'imperatore fossero segrete, senza rispetto alla
pace vigente, invase a mano armata il Reggiano, e si accostò alla
città con animo di sorprendere i Milanesi forusciti. Il Guicciardini
storico era allora comandante di Reggio, e seppe rendere vano il progetto de'
Francesi, le violenze de' quali, commesse in quella infruttuosa spedizione,
sono da lui medesimo descritte. Un tal fato, seguìto nel seno apparente
della pace e ad insulto delle terre del papa, cagionò negli animi sempre
maggiore il ribrezzo verso della dominazione francese, che sconsigliatamente il
Lautrec aveva reso disgustosissima ai popoli. (1521) Questa incauta scorreria
sul reggiano seguì nel 1521, ed un fenomeno fisico, accaduto poco dopo
in Milano, si combinò sgraziatamente pei Francesi onde alienarne sempre
più gli animi degl'Italiani, colla persuasione di essere la stessa
divinità manifestamente nimica della dominazione francese. Erano stati
poco prima scomunicati dal papa Leone X gl'invasori del Reggiano[806].
La vigilia appunto di San Pietro, cioè il giorno 28 di giugno del 1521,
due ore prima che tramontasse il sole, essendo il cielo quasi sgombro, da una
nuvola si scagliò un fulmine sulla massiccia torre di marmo che stava
sulla porta del castello di Milano. Quivi era a caso collocata una porzione di
polvere, destinata a spedirsi alle altre fortezze dello Stato, che dal Gaillard
si fa ascendere a dugentocinquantamila libbre. Prese fuoco, e la esplosione fu
orrenda. Il comandante del castello, signor di Richebourg, e trecento soldati
francesi acquartierati vi rimasero sepolti[807].
La torre era, come attesta il Guicciardini[808]
di marmo, bellissima, fabbricata sopra la porta, nella sommità della
quale stava l'orologio, il che produsse la rovina quasi totale del
castello; e la piazza del castello, sulla quale in quel punto trovavansi molti
al passeggio, rimase coperta di cadaveri e di tanti sassi, che pareva cosa stupendissima[809];
alcuni sassi di smisurata grandezza volarono lontani più di cinquecento
passi. Il Burigozzo così descrive il fatto: ma a dì 28 zugno
1521, che fu la vigilia de Santo Pietro, a due ore prima di notte, venne
uno horribile tempo da sorte che la sajetta dêtte in el torrazzo in mezzo
alla fazada del castello, dove gli era gran quantità de polvere da
bombarda, talmente che quella torre sino al fondamento fu fracassata, et
portò prede grandissime sino al mezzo della piazza, e tutto el castello
se squassò, adeo che per la ruina grande che fu, moritte el capitaneo et
da rôcca et da castello, sotto le prede qual ruinorno, et moritte innumerabile
altra gente, d'onde questo fu una gran cosa. E il Grumello riferisce il
fatto nel modo seguente: A dì 28 junio 1521 da hore 23
dêtte la saietta in la torre de le hore del castello di Porta Giobia de
Milano, cossa stupendissima et da non credere chi non la vide, et io la vidi
con gli occhii levar la media parte de dicta torre et li fondamenti insiema et
portarla oltra il revellino et la fossa, et gittarla in su la piazza de dicto
castello, et hebe occixo li doi castellani et il cavalero Vistarino, quale hera
ditenuto in prigione in epso castello, et foreno occixi la più parte de
le gente herano habitante in detto castello. Le ruine de le stancie et tecti et muraglie non ne dicho niente. Più
ruina fece Iddio in un momento in epso castello, che non haveria facto
l'artellaria dil re gallico in un anno. De le ruine facte di fora dil castello
non ne scrivo, como ruinamenti de tecti, de ecclesie, caxe, rompimenti di
catenazi, de botteghe, invedriate, cose admirande[810]. Di questo
disastro ne scrive un'altra cronaca citata dal Lattuada[811],
ed è di Bernardino Forni di Gallarate. Il papa non tralasciò di
far ravvisare la vendetta di San Pietro in questo avvenimento; e questo ancora
contribuì non poco a sgomentare i partigiani francesi, e ad animare
sempre più i loro avversari. Quindi còlta l'opportunità
della violenza fatta sulle terre pontificie, e datane ai Francesi tutta
l'odiosità, su pubblicò senz'altro la lega, e si radunò
verso Bologna la già disposta armata.
Il papa Leone X spedì seicento
uomini d'armi papalini, toscani e mantovani. Seicento altri uomini d'armi ne
fece marciare da Napoli l'imperatore Carlo V. Diecimila fantaccini vi erano,
parte italiani, parte spagnuoli, ed ottomila fantaccini oltramontani[812].
Prospero Colonna comandava l'armata della lega pontificia; sotto di lui
comandava Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara; ed era già in modo
distinto in quell'armata Antonio da Leiva, soldato di fortuna, il quale ebbe
poi molta influenza nel Milanese, come si vedrà. Il conte Guido Rangoni,
Giovanni de' Medici, principe della casa di Toscana, Girolamo Morone, vi si
trovarono parimenti. A questa armata si unì un corpo di Svizzeri
condotti dall'ostinatissimo cardinale di Sion[813].
L'armata de' collegati prese Parma. Gli Svizzeri stipendiati da Lautrec
mancando di paga lo piantarono, dice Guicciardini. I collegati, dopo
ciò, poco penarono ad impadronirsi del Milanese. Lautrec tentò
invano a Vaprio di disputar loro il passaggio dell'Adda. Giovanni de' Medici,
montato su d'un cavallo turco, arditamente fu il primo a passar l'Adda, il che
animò l'esercito a seguirlo. Lautrec si ricoverò in Milano, dove
arrivato, o per non perder l'occasione di saziar l'odio prima conceputo, o per
mettere con l'acerbità di questo spettacolo terrore negli animi degli
uomini, fece decapitare pubblicamente Cristofano Pallavicino; spettacolo
miserabile per la nobiltà della casa, e per la grandezza della persona,
e per l'età, e per averlo messo in carcere molti mesi innanzi alla guerra[814].
Questo illustre signore, parente della casa Medici, forse in odio del papa
mandato dal Lautrec al patibolo, aveva settantacinque anni[815].
Dopo l'affare di Vaprio, Lautrec entrò in Milano il giorno 10 di novembre
1521, e il giorno 11, due ore avanti giorno, venne il Pallavicino decapitato
sulla piazza del castello di Milano. Egli era stato fatto prigione con insidia
dal fratello di Lautrec, ch'era compare di lui. Stavasi Cristoforo Pallavicino
nel suo castello di Buffetto dove accolse l'insidiatore[816].
Già sino dal giorno 6 di luglio il di lui nipote Manfredo Pallavicino
era stato squartato vivo sulla medesima piazza del castello, e le sue membra
poste sulle porte della città; et a molti altri gentiluomini
milanexi, placentini, et dil Stato fureno tagliate le teste[817].
Bartolomeo Ferreri, a detta del Guicciardini, insieme col di lui figlio,
aveva terminati per mano del carnefice i suoi giorni. Insomma il Gaillard dice: le mareschal de Foix se ressasia de vengeances
cruelles, et combla le désespoir des malheureux Milanois, le suplice fut le
partage de tous ceux, qui avoient eu les moindres relations avec Moron[818].
Frattanto che il crudele Lautrec
inferociva in Milano, l'armata de' confederati s'accostò alla
città. Io, come sempre, così al presente tralascio di annoiare il
lettore colla esatta descrizione delle mosse e dei minuti avvenimenti marziali.
Pare che gli scrittori prendano un piacer singolare ad internarsi colle
descrizioni in siffatte carneficine, e nelle gloriose sceleraggini della
guerra. La filosofia c'insegna a non abituarci a mirare con
insensibilità simili sciagure; e forse il bene dell'umanità
suggerirebbe di non consecrarle alla gloria, ma di punirle col silenzio degli
storici. L'armata de' collegati s'impadronì di Milano il giorno 19 di
novembre 1521. Vi entrarono Prospero Colonna, il cardinale dei Medici, il
marchese di Mantova, ignorando quasi i vincitori, dice Guicciardini, in
qual modo o per qual disordine si fosse con tanta facilità acquistata
tanta vittoria. Molte case vennero saccheggiate dagli Spagnuoli col
pretesto che fossevi roba de' Francesi. Venne proclamato duca Francesco II
Sforza, e Girolamo Morone vi comparve governatore in nome di lui. Lautrec
lasciò nel castello di Milano un presidio francese, sotto il comando del
capitano Mascaron, di nascita guascone. Cremona pure conservò nel
castello i Francesi sotto il comando di Janot d'Herbouville; Como, Lodi, Pavia,
Alessandria, Piacenza e Parma vennero tosto in potere della lega. Appena Leone
X ebbe la nuova d'essersi occupate dalle armi pontificie le città di
Parma e di Piacenza, e d'essere in potere della lega lo stato di Milano, e
proclamato lo Sforza, ch'ei morì improvvisamente, all'età di
quarantaquattro anni, il giorno l° di dicembre 1521, non senza sospetto di
veleno, per cui venne carcerato Barnabò Malaspina, suo cameriere,
deputato a dargli da bere. La morte del sommo pontefice, che aveva somma
influenza negli affari appena innoltrati, cagionò non lieve inquietudine
negli animi.
(1522) Al momento che gli avvenimenti
cominciarono a mostrarsi prosperi, Francesco Sforza, il quale coi denari
somnistratigli da Cesare e dal papa, aveva presi al suo stipendio seimila
Tedeschi dal Tirolo, passò nella Lombardia; e come dice Sepulveda: Franciscus
quoque Sfortia, quem Germanorum sex milia sequebantur, Mediolanum pervenit,
singulari civitatis gratulatione; e ne adduce il motivo, perché era vir
de cujus humanitate, temperantia et justitia, magna erat hominum opinio[819].
Da Trento passò pel Veronese senza ostacolo con seimila fanti
tedeschi, ai quali i Veneziani non fecero opposizione, indi per il Mantovano,
Casalmaggiore e Piacenza portossi a Pavia. Lautrec e alcuni corpi veneziani
s'erano posti a Binasco per impedire la venuta a Milano del duca; ma lo Sforza,
còlto opportunamente il tempo, passò a Milano il giorno 4 aprile
1522. Dove è incredibile a dire[820]
con quanta letizia fosse ricevuto dal popolo milanese, rappresentandosi
innanzi agli occhi degli uomini la memoria della felicità con la quale
era stato quel popolo sotto il padre e gli altri duchi sforzeschi, e
desiderando sommamente di avere un principe proprio, come più amatore
de' popoli suoi, come più costretto ad avere rispetto e fare estimazione
dei sudditi, né disprezzarli per la grandezza immoderata; e la cronaca del
Grumello: fece la intrata in
Frattanto Lautrec co' suoi Francesi,
con ottomila Svizzeri, e coi Veneziani s'era ricoverato a Monza, ove eranvi il
Montmorenci, il maresciallo Chabannes, il Bastardo di Savoia, il gran scudiere
Sanseverino, il duca d'Urbino, Pietro di Navarra[822],
ed altri illustri personaggi. L'armata della Lega, sotto il comando di Prospero
Colonna, aveva posto gli alloggiamenti alla Bicocca, luogo situato fra
Milano e Monza, e lontano circa quattro miglia della città; il luogo era
vantaggioso per
Ad animare il popolo molto giovò
un frate Agostiniano, che il Guicciardini chiama Andrea Barbato[828].
Costui, eloquente predicatore, mosso fors'anche dal sagacissimo Morone, aveva
preso sopra del popolo quel predominio, che ebbe già in prima frate
Jacopo de' Bussolari in Pavia, come vedemmo nel secondo tomo, cap. XIII; e
senza ricorrere ai secoli trasandati, come l'ebbe in Napoli il gesuita Pepe, il
quale, padrone del popolaccio, a forza di biglietti stampati con alcune parole
pie, ammassò tanto da far gittare una statua d'argento di naturale
grandezza. Egli dal pulpito annunziò la morte del proposto Lodovico
Antonio Muratori, padre e maestro della critica e della erudizione, onore
dell'Italia, e lo annunziò Franco Muratore, e nemico della
vergine, nemico de Mamma mia. Lo stesso spirito mosse a declamare
altri da que' pulpiti contro Pietro Giannone, costretto a perdere la patria, e
ridotto a terminare i suoi giorni in un carcere in pena d'averli spesi ad onore
dell'Italia, patria nostra, sedotta dalla interessata e sediziosa voce d'un
sacro declamatore. Morone conobbe quanta utilità poteva cagionare un tal
mezzo, e l'adoperò. Questo frate si pose a predicare con applauso, anzi
con entusiasmo universale in Milano, e confortava i Milanesi a difendersi
contro dei Francesi, che stavano per discendere dalle Alpi, ricordando che se
erano stati crudeli per lo passato, ora per odio e vendetta di aver abbracciato
il principe naturale, non si sarebbero saziati di carneficine, né appagati con
tutto l'oro, ed avrebbero con più ferocia rinnovata memoria del
Barbarossa. Ricordava gli esempi de' valorosi antenati, assicurava la salute
eterna a chi moriva colle armi in mano per difesa della patria e del suo
legittimo sovrano. Comparve sommamente animato il corpo de' cittadini milanesi
formato dalla milizia urbana. Era meraviglioso l'odio del popolo milanese
contro ai Francesi, maraviglioso il desiderio del nuovo duca; per le quali
cose, tollerando pazientemente qualunque incomodità, non solo non
mutavano volontà per tante molestie, ma messa in arme la
gioventù, ed eletti per ciascuna parrocchia capitani, concorrendo prontissimamente
giorno e notte le guardie... alleggerivano molto le fatiche dei soldati.
Il duca Francesco Sforza l'anno 1522
confermò il senato; stabilì che venisse composto di ventisette
senatori, cioè cinque prelati, nove cavalieri e tredici dottori.
L'editto è del giorno 18 maggio 1522[829].
Questo corpo ebbe in quella occasione la pienissima podestà di
procedere, e giudiziariamente, ed anche per la via della equità: possitque
ea omnia quae justitiae et aequitatis[830].
Creato, siccome vedemmo, nel principiare del secolo XVI, egli, sebbene
mutata la forma e ridotto a soli undici giureperiti, de' quali nove soli
sedenti, durò sino alla primavera del 1786 per lo spazio di
ducent'ottantacinque anni. Gaillard, nella sua assai bella storia del re
Francesco I, ci informa di varii aneddoti, i quali hanno relazione immediata
cogli avvenimenti accaduti nel Milanese. Lautrec, siccome accennai, aveva da
bel principio chiesto soccorsi di denaro al re, protestandosi incapace di far
fronte ai collegati senza di questo mezzo, per mantenere l'armata ed
accrescerla cogli Svizzeri. Il re credeva che Lautrec avesse ricevuti
quattrocentomila scudi, ch'egli aveva comandato se gli spedissero; e
restò sorpreso, allorché intese da Lautrec in sua discolpa che nulla
eragli giunto, e che i Francesi erano creditori dello stipendio di diciotto
mesi. L'ordine l'avea dato il re ad un vecchio ed onorato ministro di somma
integrità, che il re chiamava padre suo, cioè al sopraintendente
Saint-Blançay, il quale, interpellato dal suo monarca sulla spedizione di
quella somma, tremando e sbigottito, gli significò che la duchessa
d'Angoulême l'aveva obbligato a consegnarle i quattrocentomila scudi, comandandogli
il segreto, e rendendosi ella mallevadrice delle conseguenze. Il povero
ministro aveva la polizza segnata dalla duchessa, da cui appariva lo sborso
fattole. Sin qui si scorge un intrigo di corte per fare scomparire Lautrec,
fratello della favorita, a costo della perdita d'una provincia e del sangue di
migliaia d'uomini. Luisa di Savoia, madre del re, e duchessa d'Angoulême,
secondò due personali passioni, l'avidità del denaro, e la
gelosia di comandar sola nell'animo del re suo figlio. Qualche cosa ancora di
peggio manifestò ella poi, quando chiamò mentitore il
SaintBlançay, e sostenne che que' denari erano un capitale suo, che se le
restituiva. L'orrore poi va al colmo, sapendosi che quell'onoratissimo vecchio
ministro venne impiccato a Montfaucon[831].
(1523) La duchessa d'Angoulême, nel 1523, aveva quarantasette anni,
nudriva qualche passione pel duca di Bourbon, contestabile di Francia, avendo
essa contribuito a fargli avere degli onori, dovuti alla nascita e merito suo,
ma che il re da se medesimo dati non gli avrebbe, attesa la nessuna
conformità fra l'umore vivace del re e la grave fierezza del duca; aveva
trentaquattro anni il contestabile, allorquando le attenzioni della vedova
duchessa d'Angoulême divennero sì pressanti, che ei lasciò
chiaramente scorgere quanto importune gli fossero. La duchessa era tanto bella,
quant'era possibile all'età sua. Ma ella avea l'anima tanto bassa e
plebea, che pensò di vendicarsene, o di ridurre il duca a capitolare con
lei promuovendogli de' mali. Cominciò a fargli sospendere le pensioni.
Il duca non se ne lagnò, anzi a dispetto di lei accrebbe il fasto e la
pompa, per mostrare quale ei fosse indipendentemente dai soldi del re. Il
contestabile invitò il re alla sua terra di Moulins, e lo accolse con
feste splendidissime[832].
La duchessa fece proporre al contestabile la sua mano; egli sdegnò e
derise queste nozze. Allora la donna in furore, adoperando il cancelliere di
Francia Duprat, uomo nemico del contestabile, creatura della duchessa, e degno
di tal protettrice, intentò una lite a nome del re al contestabile per
ispogliarlo di tutti i suoi feudi, il Borbonese, l'Auvergne, la Marche, il
Forêt Beaujolis, Dombres e molte altre signorie. La lite cominciò
collo spogliare il contestabile, e porre i suoi beni sotto sequestro. Egli era
il secondo principe del sangue reale, il primo pel suo merito e contestabile
del regno. Carlo V, che avea l'occhio sulla Francia, colse il momento
opportuno, e, per mezzo del conte di Beaurein, fece al contestabile le
più vantaggiose proposizioni: si trattava d'invadere la Francia, e colle
armi spagnuole dare al contestabile la sovranità delle terre sue, con
aggiunta di altre: contemporaneamente Arrigo VIII dovea invadere altre
province, sulle quali l'Inghilterra avea delle pretensioni. Così il re
di Francia diventava un principe da non più contrastare a Carlo V. La
trama venne scoperta. Il contestabile, a stento, travestito, si pose in salvo
nella Franca Contea. Il re Francesco avrebbe voluto che il parlamento di Parigi
fosse sanguinario contro i complici, e lo mostrò tenendo un letto di
giustizia, e rimproverando al medesimo le sue mitigate sentenze. Coloro che
credono siffatti intrighi di corte invenzione dei tempi a noi più
vicini, leggano meglio
Frattanto gli affari de' Francesi
andavano ogni dì peggiorando. Il presidio francese nel castello di
Milano, il giorno 15 d'aprile 1523, avea ceduto il suo posto, custodibus
partim morbo absumtis, partim morae taedio inopiàque cibariorum adactis[833],
dice Sepulveda[834].
Non rimaneva più alcuno spazio occupato dai Francesi, trattone il
castello. Il loro comandante Janot d'Herbouville, signore di Bunon, era morto.
Erano in tutto quaranta Francesi, e trentadue essendone periti, i soli otto che
rimanevano si obbligarono con giuramento di non ascoltare mai proposizione di
rendersi, e diciotto mesi si sostennero. Così almeno ce n'assicura lo
storico Brantôme[835].
I Veneziani, vedendo andare così alla peggio gli affari del re di
Francia, informati della indole del re, distratto dalle occupazioni, immerso
ne' piaceri, dominato a vicenda da due donne, conobbero che erano passati i
tempi del buon Lodovico XII, e che l'essere collegati colla Francia non poteva
essere loro di verun giovamento, anzi riusciva di molto pericolo, attese le
minacce del potentissimo ed attivissimo Carlo V. Veramente non aveano i
Veneziani alcun plausibile pretesto per mancare alla lega che univali colla
Francia; ma la Francia istessa, quattordici anni prima, colla lega famosa di
Cambrai aveva insegnato ad essi a sostituire al codice del gius delle genti
quello della convenienza. Il re di Francia in oltre era minacciato d'una
invasione per parte degl'Inglesi. A ciò si aggiungeva la moderazione che
Cesare mostrava, consegnando al duca Francesco Sforza le fortezze acquistate
dai Francesi, il che toglieva dall'opinione l'inquietudine che un monarca
troppo potente, occupando il Milanese, nol ritenesse, e li rendesse confinanti
d'una terribile sovranità. Tutto ciò mosse i Veneziani a
collegarsi coll'imperatore, col
La duchessa d'Angoulême voleva
che si ricuperasse il ducato di Milano, come lo bramava pure il re; ma voleva
che l'onore di quest'impresa venisse accordato all'ammiraglio Bonnivet, e il re
al solito accondiscese. Trentamila fanti e duemila uomini d'armi furono posti
in marcia sotto il comando di Bonnivet, creatura della duchessa
d'Angoulême; e questo Bonnivet fu poi cagione della totale irreparabil
rovina de' Francesi e della prigionia dello stesso re, siccome vedremo. Il
vecchio generale de' collegati Prospero Colonna, non trovandosi forte a segno
di sostener l'impeto di quest'armata, che s'incamminava verso del Milanese,
divise ne' presidii i soldati. Diè Pavia da comandare al Leyva, per sé
tenne il comando di Milano. Mentre si disponeva questa invasione, il duca
Francesco Sforza fu in pericolo colla sua morte di lasciare più libero
il campo alle ragioni del re di Francia; poiché, venendo egli da Monza a Milano
a cavallo, ed avendo ordinato alle sue guardie di stargli lontane per non
soffrire la polve che alzavano col calpestio, se gli accostò Bonifazio
Visconti, giovine di nobilissima famiglia, e giunto ad un quadrivio, a
tradimento sfoderò una daghetta e tentò di percuotere il duca
nella testa; ma il movimento del cavallo fe' sì che appena leggermente
lo ferì sulla spalla. Questo Bonifazio era assai domestico
dell'eccellenza del duca, dice Burigozzo, il quale asserisce essere
accaduto il fatto nel giorno 21 d'agosto
(1524) Rimanevano i Francesi
acquartierati ad Abbiategrasso, non senza molestia della città, la quale
riceve una buona parte della provvisione dal canale detto Naviglio, che
passa appunto in Abbiategrasso, quindi quella via rimaneva intercetta, a meno
che non se ne facesse sloggiare i Francesi. Il duca, amato e riverito da' suoi
Milanesi, pensò a questa impresa. I Milanesi avevano somministrati
novantamila ducati al loro buon principe, che ne avea bisogno per difendersi[844].
Nel mese di aprile del 1524 il duca Francesco II, con una scelta squadra de'
suoi Milanesi, marciò ad Abbiategrasso, e impetuosamente per assalto se
ne impadronì[845],
e poco dopo l'ammiraglio Bonnivet ripassò i monti, e così
terminò questa spedizione[846].
Sgraziatamente però terminò per Milano la vittoria di
Abbiategrasso, poiché eravi la pestilenza; ed i Milanesi vincitori la portarono
nella patria, la quale pestilenza fu una delle più funeste e micidiali.
La strage maggiore seguì nei mesi caldi di giugno, luglio ed agosto del 1524[847].
La cronaca del Grumello dice: et fu un pessimo sacco per
Carlo V per dare al re di Francia di
che occuparsi nel suo regno, senza pensare al Milanese, spedì un corpo
d'armati oltre i Pirenei. S'impadronì di Fonterabia, che si arrese al
contestabile di Castiglia Inigo Velasco. Il comando di quell'armata venne in apparenza
affidato al duca Carlo di Bourbon, e, secondo il trattato, dovevano occuparsi
Forêt Beaujolis, Bourbonnois, Auvergne ed altri feudi del duca, il quale
voleva rapidamente marciare a Lione, e così di slancio accupare la
Francia meridionale, promessagli da Carlo V, confidandosi molto nel cuore de'
suoi sudditi, sdegnati contro l'ingiustizia del re, ed affezionati a lui ed
alla sua casa. Ma Carlo V temeva ch'egli, poiché avesse ottenuto l'intento, non
si accomodasse col re. Pescara eragli a fianco, e ne attraversò l'idea.
Si progettò di occupare le fortezze poste alle spiagge, acciocché
l'armata per mare avesse la sussistenza, la quale sarebbe stata in pericolo di
esserle intercetta, qualora avesse dovuto passar per le gole de' Pirenei. Si
pose l'assedio a Marsiglia. Il re di Francia, animato dall'ammiraglio Bonnivet,
si dispose a portare in persona la guerra nel Milanese. Questo colpo, che
sembrava ardito ed inconseguente, nacque da uno di que' segreti di Stato, i
quali rare volte si indovinano dal pubblico; perché non sono parti di una
sublime politica, alla quale soglionsi attribuire forse con troppa
generosità tutte le risoluzioni de' gabinetti; e rare volte trovansi
scrittori informati o coraggiosi a segno di pubblicarli. Il segreto di questa
risoluzione ci vien palesato dallo storico Brantome nella vita dell'ammiraglio
Bonnivet. Bonnivet fece venire al re la smania di vedere
L'armata francese, che scese dalle
Alpi, guidata dal suo re in persona, era composta di duemila uomini d'armi,
tremila cavalli leggieri, ventimila fanti, metà francesi e metà
svizzeri, seimila fanti tedeschi e cinquemila fanti italiani[853].
Alla metà di ottobre del 1524 passò le Alpi. A tal nuova,
quantunque Milano fosse resa deserta dalla pestilenza, e mancante affatto di
ogni provvisione, i pochi cittadini che rimanevano, offersero al loro
Comandò dunque il duca ai
Milanesi che non irritassero i nemici, piegassero ai tempi, e confidassero
nell'aiuto della Divinità e nella fortuna di Cesare. Egli partì
da Milano il giorno 3 di ottobre, e si collocò a Soncino nel Cremonese
col viceré
Il re da principio, profittando
dell'ardore dei suoi soldati, cercò d'impadronirsi di Pavia con assalti
impetuosissimi e replicati, poi, vedendosi vittoriosamente respinto e
disperando di ottenere la città col mezzo, si pose a battere le mura
coll'artiglieria per diroccarle ed aprirsi la strada; ma le rovine del giorno
si andavano con maravigliosa avvedutezza riparando la notte dagli assediati,
che, con fascine, cementi, travi, terra, riempivano i vani che s'andavano
formando. Fra le altre prove della sconsigliata condotta del re, vi è
quella che mancogli la polve per continuare nell'impresa, e se il duca di
Ferrara non gliela somministrava, egli era costretto a desistere[860].
Vedendo inutili gli assalti, delusa l'azione dell'artiglieria, si rivolge
al progetto di sviare il Tesino da Pavia, ed inalvearlo tutto nel Gravellone,
col mezzo d'una chiusa posta al luogo ove si divide il fiume in due correnti.
Il progetto fu d'un tenente della compagnia d'uomini d'arme del signor
d'Alençon, che aveva nome Silly baglì di Caen. Se riusciva il progetto,
il re presentava le sue forze dal lato debole della città, marciando nel
letto del fiume; ma una piena rovesciò
In mezzo a tai felici successi
però i Tedeschi presidiati in Pavia, mancando di paghe, si mostrarono
malcontenti; fecero quanto potevano i Pavesi radunando denaro per acquietarli.
Il Leyva fece battere l'argenteria sua in forma di denaro, stampandovi il nome proprio[864];
ma non bastavano questi sforzi a formare una somma corrispondente al loro
credito. Il giorno 22 di novembre tumultuarono a segno di minacciare che
avrebbero aperte le porte al nemico. Il comandante di questi Tedeschi aveva
nome Azarnes[865],
ed era l'autore principale di tal emozione[866].
Il viceré Lannoy, informato di tal pericolo, raccolse a stento tremila ducati
d'oro; tant'era la penuria in cui trovavasi l'armata, e per fargli entrare in
Pavia si servì dell'opera di due semplici fantaccini spagnuoli, i quali
cucirono nella sottoveste questa somma, e comparvero al campo francese come
disertori, ed ivi, còlto il momento d'una uscita che fecero gli
assediati, s'immischiarono nella zuffa, e nel ritirarsi che fecero i Cesariani,
con essi entrarono in Pavia, e consegnarono il denaro al Leyva. La fede,
l'onore, il nobile sentimento di questi due uomini mi ha fatto bramare di
sapere i loro nomi; ma in varii scritti da me esaminati ho trovata bensì
la virtuosa azione, ma non i due nomi che meritavano luogo nella memoria de' posteri.
Con questo sebben tenue soccorso, distribuito come un pegno del maggiore che
aspettavasi per una sovvenzione dei Genovesi, si calmarono gli animi; e
pienamente poscia venne ristabilita la tranquillità colla morte
dell'Azarnes, procuratagli, come sembra, dal Leyva, insidiosamente e per
veleno. I costumi de' tempi si conoscono dai fatti non solo, ma dal modo ancora
col quale gli storici li raccontano. Senza verun sentimento di ribrezzo un tale
attentato del Leyva si descrive come un rimedio prudentemente adoperato da lui[867].
Era impaziente il re d'impadronirsi di
Pavia, e lo doveva essere, perché frattanto s'andavano accrescendo le forze de'
Cesariani, siccome vedremo. Non giovando gli assalti, essendo delusa e riparata
l'azione dell'artiglieria, reso vano il progetto di deviare il Tesino,
allontanata la speranza di ottenere colla fame una città di cui il
presidio colle frequenti scorrerie, per lo
più fortunate, riportava nuovi soccorsi, pensò a vincere
corrompendo il comandante. Questa avventura sarà da me riferita colle
parole del Tegio. Il primo giorno di dicembre il re di Francia
mandò entro la città un frate dai zoccoli, a cui soleva ogni anno
confessarsi Antonio da Leva, ad esso Leva che gli persuadesse a volerli dare la
città, che altrimente esso, con tutti i suoi, sarebbe stato tagliato a
pezzi con tutti li cittadini, e distrutta tutta la città sino alli
fondamenti, non lasciando di fare tutte quelle crudeltà che si
potessero; il che s'egli avesse voluto fare, oltra molto tesoro, gli avrebbe
ancora donate molte buone entrate nello stato di Milano: la cui ambasciata
avendo bene isposta il frate, Antonio da Leva, salito in gran collera, proruppe
in tai parole: Se tu non fossi nunzio regale, e tale, come io ho sempre
creduto, di buoni costumi et di santità di vita, io ti farei oggi finire
la tua vita sopra la forca: non pigliar mai più tale impresa; per hora
vanne senza veruna offesa; e dirai alla regia maestà ch'io mi maraviglio
molto di quella, che abbi mandata una tal ambasciata a me, il quale ho sempre
anteposto la fede a qualunque magistrato o dignità ed oro. Sia lontano
da me ogni nome di perfidia e di traditore; ch'io accetterei piuttosto
qualunque sorte di crudel morte. Pavia è di Cesare, e data al
sapientissimo Francesco Sforza, duca di Milano, e quella mi sforzarò di
conservargliela con ogni cura, studio e diligenza, e di rendergliela. Malgrado
però l'industria e il valore degli assediati i viveri erano assai pochi
in Pavia. Si vendevano alle macellerie carni di cavalli e d'asini. Una gallina
si vendeva per un ducato d'oro, le uova si vendevano venticinque soldi l'uno.
Mancava il burro, non v'era lardo né olio; di che Tegio minutamente c'informa.
Tutto soffrivasi da' cittadini però, anziché ubbidire nuovamente al
dominio di un re che Lautrec aveva reso odiosissimo. In mezzo alla pubblica
miseria Matteo Beccaria, il giorno 12 dicembre 1524, insultò
l'umanità, dando un convito magnifico agli ufficiali del presidio. Il
Tegio lo racconta come una magnificenza nel modo seguente. Lavate prima le
mani con acqua nanfa, posto in tavola primamente focaccine fatte col zuccaro et
acqua rosata, e marzapani et offellette e pane biscotto; lo scalco portò
poi fegati arrostiti di capponi, galline, et anitre, aspersi con sugo di
aranci, e lattelli di vitello, e cotornici e tortore molto grasse, arrostite
nello spiedo; terzo, furono portati pavoni e conigli arrosto, e varii piattelli
di carne di manzo trita, condita con zenzevero, canelle e garofani; da poi
capponi e lonze di vitello a rosto, con piattelli di carne di caprioli, con uva
in aceto composta. Poi petti di vitello, capponi a lesso, con tortellette di
formaggio e cinamomo, coperte con bianco mangiare, ovvero sapore composto con
mandorle, zucchero e sugo di limone; poco da poi teste di vitello condite con
passule e pignoli, e gran pezzi di carne di manzo, con senape e ulive; da poi
colombi, anatre, lepretti acconci con pere, limoni e aceto. D'indi a poco
furono portati porcelletti arrosto intieri, coperti di salsa verde; poco
appresso papari grassi, cotti con cipolle e pepe; dopo lo scalco fece portare i
latticini e fritelle fatte a modo tedesco; e cose fatte di cacio di molte
sorti. Ultimamente si posero mirabolani, citrini, kebuli, e corteccie di cedro
e zucche confettate. Ho tralasciato il pane bianco come neve, e vini bianchi e
rossi, al nettare o all'ambrosia non cedenti, di che i Tedeschi
maravigliosamente se ne godevano e con grande stupore. V'erano molti cantori e
suonatori di varie sorti con trombe e tamburi, che rallegrarono molto i
convitati, nel qual mangiarono certamente più di trecento uomini.
Oggidì si conosce meglio la virtù, e meglio s'imparano i doveri
sociali. Un pazzo che facesse altretanto, avrebbe la esecrazione pubblica, e
l'autore che lo riferisse, non lo farebbe certamente con lode.
Allorquando l'anno 1804, nelle Notizie
premesse alle Opere Economiche del conte Pietro Verri nella Raccolta degli
Scrittori classici italiani di Economia Politica (tomo XV della Parte
Moderna) mi dolsi della sfortuna accaduta alla di lui Storia di Milano, di
essere stata mutilata e interpolata da mano inesperta per la metà del
secondo volume della edizione originale, e spiegai il desiderio che fosse una
volta restituita nella sua integrità; era ben lungi dal prevedere che
dopo tanto intervallo di tempo avrebbe il caso recato a me l'incarico di
riformare e di compiere questo lavoro. E quando vidi che gli editori della
ristampa della storia, confidando nella mia buona volontà, nel chiudere
il terzo volume contrassero col pubblico l'impegno di dare riveduto e compito
per mia mano il restante dell'opera, me ne incaricai di buon grado senza che
ben sapessi ciò che si sarebbe potuto da me mantenere, e mentre non
abbastanza conosceva sino a qual segno avrei potuto giovarmi de' materiali
lasciati dal conte Verri, né quanto avrebbe importato la riforma del centone
del canonico Frisi. Il che feci, per quella costanza di affetto e di
venerazione che mi unirono all'autore nell'ultimo periodo della sua vita, e per
un dovuto ricambio della benevolenza con cui mi distinse, benché io avessi
allora oltrepassato appena i ventiquattro anni; e da ciò altronde ne
venne che soltanto alcuni mesi dopo la fatta promessa mi trovai posto in grado
di dare incominciamento all'opera, coll'essermi stati dal figlio dell'autore,
istruito e cortese cavaliere, comunicati i manoscritti contenenti le prime
tessere da quello predisposte per il proseguimento della storia. Ho quindi
dovuto protrarre quasi d'un anno l'allestimento di questo quarto volume; né
altro da me si è potuto per compensarne il ritardo, se non che
adoperarvi la possibile diligenza onde reggesse con minore vergogna al paragone
del lavoro che lo precede.
Nella seguente esposizione intorno
all'opera del conte Verri e al merito di essa, e di quanto si è fatto
dal canonico Frisi e da me per proseguirla, sarò possibilmente breve, e
per tal modo con minor noia de' lettori riuscirò più presto a
sdebitarmi.
Pietro Verri pubblicò nel 1783
il primo volume in 4° della sua Storia di Milano. Tre anni
dopo, avendo ottenuto quel riposo da ogni pubblico incarico, che per oscure
cabale era desiderato non meno da lui, che da chi doveva concederlo, pareva che
egli avrebbe con alacrità progredito nel suo lavoro; ma il disgusto che
ne avea preso, e di cui si dirà in seguito, ne lo allontanò;
sicché dalle sue carte non si ha traccia che se ne sia di nuovo occupato, se
non nell'ultimo anno della sua vita, nel quale intraprese la stampa del secondo
volume, che era giunta alla pagina 208, e fino all'epoca del 1524, allorquando,
nella notte del 26 giugno 1797, cessò improvvisamente di vivere, essendo
in età prossima all'anno settantesimo. Il canonico Anton-Francesco
Frisi, fratello dell'insigne matematico e filosofo di questo nome, che
sopravegliava all'eseguimento della stampa, s'incaricò pure di compiere
il volume, e lo continuò con quell'esito del quale si renderà
conto nel § III.
Dopo di avere trascorsa la miglior
parte della sua vita in difficili e importantissime incumbenze in servigio del
sovrano e del suo paese, e dopo di essersi meritato l'estimazione del pubblico
come letterato di fino gusto, e scrittore profondo di filosofia e di economia
politica, il Verri si preparò alla sua opera storica, esaminando con
somma pazienza le farraginose cronache comprese nell'insigne collezione del
Muratori, gli storici patrii che il precedettero, e in ispecie il conte
Giulini, cui rese la dovuta lode e il tributo della propria riconoscenza nella
prefazione alla Storia; e gli spogli che si propose di farne, distinse e
classificò in tre grossi volumi in foglio, tutti scritti di sua mano, il
primo de' quali intitolò Cronache, e comprende i tempi anteriori
al secolo XV, e un altro Annali per i tempi posteriori, ordinati per
decennio. In un terzo volume scrisse gli estratti politici ed economici, senza
titolo speciale, e aventi la sola data del
Anno 1188... V'erano in tutto in Milano
sei monasteri di frati e sette di suore. Al giorno d'oggi siamo assai
più divoti, e se non vi fosse
1515. Morì Tristano Calco, né
poté condurre a fine la Storia di Milano. Il conte Giulini è
morto pure a mezzo il suo lavoro. Sarebbe uno sproposito insigne se io pure
facessi questa cattiva creanza di abbandonare a mezzo i miei cortesi lettori.
Per servir bene la nobiltà loro bisogna passeggiare più che non
faccio; mangiare più sobriamente di quello che non soglio; lasciar
andare il mondo comodamente col suo moto: e allora staremo bravamente sani e
saldi, ricordandoci che nostro padre è morto di ottantotto anni, e
nostro avo di novantadue. Esempi imitabili veramente!
1621. Il 31 marzo muore Filippo III in
età di anni quarantatre. Morì per etichetta. Era convalescente, e
si trovava a sedere nel suo consiglio. Una bragiera di fuoco lo incomodava; era
assente l'ufficiale, cui spettava maneggiare il fuoco; il re non volle moversi
dal suo posto; nessuno ardì di guastare l'ordine di corte, trasportando
la bragiera: infine il mamalucco morì.
Di siffatti spogli egli giovossi nello
scrivere la Storia, senza più essere costretto ad interrompere l'ordine
e la scorrevolezza del suo dettato per rintracciare nelle fonti i fatti e le
discussioni di essi. Che tale fosse il suo intento nella paziente e noiosa
opera di formare quegli spogli, apparisce chiaro dal vedersi ch'essi concernono
esclusivamente gli antichi e bassi tempi; e nel volume degli Annali, che
unico si estende oltre di quelli, dal principio del secolo XVI in poi, le
materie vanno rendendosi sempre più scarse, a segno che, per gli ultimi
due secoli, si risolvono in nude note cronologiche, e queste pure incomplete,
sparse raramente di qualche racconto di fatti parziali o di cenni
caratteristici di alcuni personaggi. E specialmente intorno ai fatti del secolo
XVI, di cui stava occupandosi nel proseguimento del suo secondo volume, varii
lunghi frammenti avea scritto l'autore, in separati fogli, da inserirsi poi
agli opportuni luoghi, diversi de' quali mi furono mostrati dall'autore stesso
mentre gli scriveva, come li avrà veduti il canonico Frisi; ma di quelli
non esiste più traccia.
Condusse il conte Verri il suo lavoro
con sobria erudizione, con fina critica e con moderata filosofia, quale si
conveniva alla condizione dell'illustre autore, e allo scopo da lui propostosi
di ammaestrare dilettando. Sprezzò le assurde e magnifiche favole delle
origini municipali, oggetto di comune ridicolo, compensato e reso muto in
ciascun municipio dal pericolo di un eguale ricambio; svolse dalle tenebre de'
primi e de' bassi tempi le istituzioni, le sorti, i costumi che diedero luogo
allo sviluppamento della successiva nostra civiltà, talvolta nei fatti peggiore
della prisca barbarie; chiarì la prepotenza dei pochi a rendere
sottomessa la massa della nazione, e la reazione di questa, resa forte per
l'industria, il commercio, l'unione, per ristabilire l'egualità delle
condizioni, siccome è il voto della natura nella egualità della
specie. Dimostrò le vicende del clero, prima favoreggiato dai popoli
come mediatore di pace, di concordia, di consolazione; poi accarezzato dai
sovrani come strumento per abbassare l'orgoglio e contenere il soverchiar de' magnati;
quindi costituitosi difensore de' popoli contro le pretese e le vessazioni del
partito imperiale; reso in seguito audace per l'acquistato ascendente, giunto a
riclamare per sé maggiori prerogative di quelle contrastate ai nobili e
agl'imperatori; e infine, nella lotta tra esso e i sovrani d'accordo coi
popoli, sceso a moderare l'esorbitanza delle sue pretese, e a limitarsi per
gradi ad una preminenza di considerazione, che sola gli è dovuta.
Narrò come lo stato di Milano, primo tra gli altri d'Italia, al pari di
essi, per la libera scelta, per i compri voti, per l'aperta forza, passò
alla piena obbedienza di coloro che, a riguardo de' propri meriti e della
dignità del casato, erano stati promossi ai consigli ed alla direzione
delle forze del comune; come i popoli furono per lungo tempo zimbello
dell'ambizione, de' raggiri e de' tradimenti de' loro nuovi tiranni; e come
questi furono successivamente con giusta vicenda traditi e sottomessi da
tiranni maggiori, e per ultimo tutti assorbiti nel vortice delle grandi monarchie,
che avrebbero pur recato ai popoli la pace da tanto tempo sospirata, se non
avessero scelta l'Italia a teatro delle loro interminabili querele, non che de'
capricci e della rapacità de' loro generali e governatori. Era entrato
l'illustre autore a svolgere gli accidenti di quest'infausto periodo della
nostra storia, quando, sorpreso dalla morte, fu causa che al canonico Frisi e a
me toccasse l'incarico di un proseguimento, ingrato e difficile per il
soggetto, e assai più pericoloso per il confronto.
Non gli sfuggì la massima
rammentata da Robertson nella Prefazione all'Istoria dell'America, che
chi scrive gli avvenimenti delle epoche rimote, non merita la confidenza
del pubblico, se non avvalora con testimonianze le proprie asserzioni. E
nel produrre queste testimonianze fu egli esattissimo, non affastellando le
citazioni altrui, alla foggia di un suo invidioso censore, che ci
occuperà nel § II, ma attingendole alle fonti, dopo che, non fidando
alla critica altrui, l'aveva affinata al crogiulo del suo sperimentato
criterio. Opportuno fu in ciò il suo avvisamento, ed ottimo sarebbe
riuscito, se egli vi avesse aggiunto una diligenza di più, lasciando
scorrevole e piana la sua narrazione, e riservando alle note le discussioni e
le testimonianze, specialmente in lingue straniere, sicché queste non fossero
d'inciampo ai lettori, con rendere quindi necessario per una non piccola parte
di essi l'espediente adottato dagli editori della presente ristampa, di far
eseguire da abile mano ed aggiungere in pie' di pagina la traduzione dei
frequenti passi di latinità, per lo più barbara, che si
incontrano nel testo. Dei due metodi di scrivere la storia, intorno ai quali
è da tanti secoli contrastata e disputata la preferenza, egli prepose
all'aridità delle cronache la spontanea e ragionata esposizione de'
fatti, quale è sporta dalla natura nella famigliarità del
discorso, dove il racconto si trova frammischiato colle riflessioni suggerite
all'opportunità dall'esperienza e dall'ingegno del narratore. E in vero,
il pretendere che la narrazione sia arida e circoscritta ai nudi fatti,
è contrario al principale istituto dello storico, che è
d'istruire cogli esempi, mentre nissuno contenderà che novanta almeno
sopra cento lettori sono incapaci di concordare e commentare ciò che leggono;
laddove per la maggior parte possono appropriarsi e far tesoro per il loro
ammaestramento delle riflessioni che trovano pronte e naturalmente esposte
frammezzo e come conseguenze delle cose narrate. Colla riunione di tante doti
di talento, di dottrina, di esperienza e di filosofia, non è da stupirsi
se Verri è riuscito a primeggiare fra il popolo degli storici
particolari dell'Italia; ché ben popolo può chiamarsi lo sterminato loro
numero, a segno che il semplice catalogo di essi raccolto dal Coleti in un
grosso volume in 4° appena ne racchiude circa
Per la fatica di molti anni, per molte
spese fatte per consegnare nelle mani dei Milanesi una storia leggibile della
loro patria, e un libro che senza rossore potessero indicare ai forestieri
curiosi d'informarsene, io non ho avuto dalla città di Milano nemmeno un
segno che s'accorgesse ch'io abbia scritto. Ma già lo sapeva prima
d'intraprendere un tal lavoro, e conosceva rerum dominos gentemque togatam.
Nella Toscana, nella terra-ferma veneta e nella Romagna vi è sentimento
di patria e amore della gloria nazionale. Ivi almeno una medaglia, una
iscrizione pubblica, un diploma d'istoriografo, qualche segno di vita si
darebbe, se non altro per animare alla imitazione. Ma noi viviamo languendo in
umbra mortis. Non si sapeva il nome di Cavalieri; l'Agnesi è all'Ospedale;
Frisi e Beccaria non hanno trovato in Milano che ostacoli e amarezze. Il sommo
bene di chi ardisce di far onore alla patria è se ottiene la
dimenticanza di lei. Io forse l'ho ottenuta...
Il Conte Verri, per ciò che
appare da' di lui scritti, mostrò di occuparsi soltanto della critica
fatta ad un passo della sua storia dal canonico
ben lungi dal farne io un rimprovero al
saggio scrittore, gli tributo l'encomio che ha meritato colla immensa fatica da
lui sopportata, è coll'esatta critica adoperata esaminando fatti che
meritavano la luce, e per essere preziosi avanzi di que' tempi, e per la
possibilità che servano a beneficio di private persone; sebbene non
siano materiali servibili per tesserne una storia.
Era chiaro in questo passo
l'intendimento dell'autore, che non contendeva il merito di cotali ricerche, ma
solo dolevasi della poco utile mêsse che se n'era conseguìta. Ma
il canonico Lupi, qual chi è avvezzo a misurare l'importanza dei lavori dalla
fatica impiegatavi, riguardò il concetto del Verri come una sentenza di
riprovazione degli studi antiquari, e alla colonna 1040 del suo Codice
Diplomatico sortì colla seguente doglianza: Propterea miror
vehementer clarissimum Comitem Petrum Verri, in recentissima sua Mediolanensi
Historia, p. 57, tradidisse, hujusmodi monumenta ad historiam harum
aetatum nihil conferre, quod quidem adeo absonum mihi videtur, ut fateri cogar
me ignorare quidnam historiae nomine clarissimus auctor intelligat[868].
Si meritò quindi una nota di risposta, dataci imperfetta dal
canonico Frisi e riprodotta intiera in questa edizione, che può leggersi
al capitolo vigesimosesto di questo quarto volume.
Qualora si prescindesse dall'avvertire
che avevasi a fare con un soggetto che avea trascorsa la più gran parte
e la migliore della sua vita tra le lettere, la filosofia e le gravi incombenze
di alte e difficilissime magistrature, altre e più sode avvertenze
potevano esser fatte intorno alla sua opera storica, e alcuna se ne fece, ma
con quella moderazione che si addice agli uomini veramente dotti parlando di
persona rispettabilissima. Non meno l'abate Cisterciense Angelo Fumagalli, che
il conte Gian-Rinaldo Carli, l'uno nelle Antichità
longobardico-milanesi, e il secondo nelle Antichità italiche rimarcarono
e dimostrarono l'esagerazione sostenuta dal nostro autore, d'essere stata
Milano pressoché distrutta dalla vendetta del generale de' Goti Uraia. Scarsa
nella Storia di Milano, più che non potevasi, è la parte
storica e politica delle dominazioni barbare, e alla sterilità delle
notizie si aggiunse per i tempi dei Longobardi l'adozione de' volgari
pregiudizi intorno alla loro rozzezza e brutalità, dimostrate
insussistenti da una critica più diligente e più severa; per i
quali due oggetti merita particolar lode un altro patrizio, il marchese
Giuseppe Rovelli, il quale, nelle Dissertazioni Preliminari della sua Storia
di Como, con meno alti voli, ma con più pazienza, illustrò in
particolare la legislazione de' Barbari che tra noi dominarono. Mentre
s'incontrano nella Storia del Verri varie discussioni di fatti oscuri o
disputati, condotte con isquisita diligenza, quale tra le altre è quella
delle lunghe e sanguinose contestazioni agitate tra il clero milanese nei
secoli IX e X per il celibato de' preti, alcune inesattezze vi si rimarcano
all'opposto, pure in argomenti parziali; e basterà il citarne alcuni
esempi. 1. Il severo e ingiusto giudizio dato del governo della repubblica
milanese succeduta alla morte del duca Filippo Maria Visconti, riportando con
affettato studio le minuzie delle ordinarie prescrizioni municipali, che sole
per caso furono a notizia dell'autore, e non le varie utili istituzioni, non la
sagacità, il vigore e la costanza degl'istantanei provvedimenti, non le
leghe destramente conchiuse co' sovrani esteri, non il valor militare in
più occasioni dimostrato; con aggiungere per tal modo verso quel breve
governo il peso di non meritati rimproveri al torto, già per sé
grandissimo, di essere rimasto succombente.
Un nuovo censore surse contro la storia
del Verri nel
Qualche moderno storico, per servire ai
tempi in che fioriva, e per coprire la viltà di palpare i viventi colla
non pericolosa baldanza di mordere i trapassati, ha ripreso come ingiusto ed
insensato l'unanime consentimento de' Milanesi, dopo la morte del duca Filippo
Maria Visconti, di sottrarsi ad ogni soggezione di principe, e puerili, stolte
e cenobitiche ha dichiarate le leggi che i capitani e difensori della
libertà, la Repubblica rappresentanti, intorno al buon governo di essa
han pubblicate: ec.
La critica essendo chiarissima, non ha
bisogno di commenti; vediamone l'applicazione. Verso la fine di giugno 1797,
quando fu sorpreso dalla morte, era giunto il Verri alla metà della
stampa del suo secondo volume; e dal vedersi che il funesto caso interruppe
nello stesso tempo la stampa e lo scritto, per modo che tosto dopo ha dovuto il
canonico Frisi dar mano al proseguimento del lavoro, è chiaro che
l'autore faceva progredire nella stampa a misura che innoltravasi nel dettato
della storia; cosa tanto più eseguibile da esso per la somma
facilità sua nello scrivere, nota a quanti lo conobbero. Questa
osservazione servirà a confermare il successivo mio discorso: intanto
suppongasi ch'egli abbia composto quel capitolo, ch'è il primo del suo
secondo volume (terzo di questa edizione) durante l'antico governo austriaco:
quali erano sotto di esso i potenti che l'autore settuagenario voleva blandire?
Forse i ministri, de' quali era disgustato? Forse i nobili, coi quali ben poco
simpatizzò? Altronde, quale sorta di blandimento poteva esser quello che
ancora non conoscevasi, e che anzi andava ad esser reso pubblico dopo che quei
ministri non erano più tra noi, dopo che i nobili avevano perduta ogni
prerogativa? - Tutto pertanto induce a persuaderci che quella parte di storia,
quella specie di satira de' mondi confusi, discordanti, tumultuari di uomini
recentemente ordinati ad istituto di Repubblica, fu scritta dopo gli
sconvolgimenti politici incominciati nel maggio 1796; e siccome sotto le nuove
istituzioni doveva essere pubblicata, così se pur v'era un'allusione,
era quella di fare ciò che i Francesi direbbono una parodìa dei
nuovi e strani ordini che allora chiamavansi governo. Scopo era questo
consentaneo al carattere imparziale e franco di Verri, scopo degno del suo
libero e forte animo, perché non senza pericolo. E gli sdegni che nel profondo
del petto gli fervevano per i deliri di quel tempo, e che a stento comprimeva,
de' quali io e i pochi altri suoi confidenti eravamo continui testimonii, ben
potevano aver avuto forza di farlo declinare dalla severa imparzialità
dello storico, per dare un'indiretta lezione di saviezza a' suoi concittadini,
del pari che si tentò da pochi altri, e tra questi dal noto autore de' Romani
in Grecia. Una più seria doglianza a difesa della estimazione di un
amico infelice debb'essere da me fatta contro il signor Rosmini, e risguarda i
molti documenti ch'egli aggiunse alla sua storia del Magno Trivulzio, e alla
posteriore di Milano, limitati all'epoca sforzesca. Non è che
verità il dire che la ricerca, il rinvenimento, la scelta di que' molti
pregevoli atti, è dovuta soltanto alla diligenza e al noto spontaneo
zelo per i progressi de' buoni studi delle antichità patrie di don
Michele Daverio, che, fino alla cessazione del regno d'Italia, presiedette alla
direzione del ricchissimo archivio di governo, detto di San Fedele, dove
la mole preziosa di tutte le carte precedenti dalla dinastìa degli
Sforza trovavasi concentrata e pressoché intatta; e che il cavaliere Rosmini
appena salutò di uno sguardo alcuni de' copiosi documenti stati
trascritti ed editi a grandi spese dal suo generoso mecenate: la quale cortesia
egli rimeritò allora in più lettere (ch'io possiedo) con profuso
rendimento di grazie, ma nessuna menzione ne fece poi nel pubblicarli; egli che
si smania nel mostrarsi riconoscente verso le viventi illustri persone che il
fornirono di minimi aneddoti, i quali con affettata premura inserì
almeno nelle note della sua prolissa istoria; egli che non avea dimenticato il
nome di quegli cui di tanto era debitore, avendolo citato alla pagina 305 del
volume II, come raccoglitore di alcune Memorie stampate, però
stortamente indicandolo come archivista della città; egli che in
tutte le sue opere, e più nella storia di Milano, si mostra con ragione
così tenero dell'osservanza de' precetti della buona morale, tra i quali
al certo non è l'ultimo quello di dare a ciascuno il suo e la
gratitudine de' beneficii, e che tanto s'incollerisce allorquando si avviene in
esempi contrari; egli infine che, per la famigliare educazione di persona ben
nata, e per il consorzio di distinti signori che l'ammisero alla loro
dimestichezza, avrebbe dovuto avere avvezzato il proprio animo a quella
cortesia che piuttosto abbonda anzi che mostrarsi scarsa nel rimeritare, almeno
con officiose parole, i servigi che si ricevono. E sia questa una specie di
funebre olocausto, che l'occasione offerì e l'amicizia tributa alla
memoria di Michele Daverio, che, fuori del torbido de' tempi in cui visse, e in
altro paese, avrebbe gioito della stima dovuta al candore della sua anima, alle
sue sociali e domestiche virtù, alla purissima e fervida smania che il
commoveva per il bene della sua patria; ...benché in essa pochissimi sapranno
ch'egli abbia finito di subitanea morte la sua mondana carriera in Zurigo nei
primi giorni del cadente anno.
Un'altra censura fatta al conte Verri,
non parziale alla storia, ma estesa a tutte le sue opere, è quella di
essere licenzioso scrittore in fatto di lingua. La difesa ch'egli fece a sé e
a' suoi colleghi nel noto foglio periodico il Caffè, come
pretendenti ad un illimitato arbitrio, provocò gli sdegni di un
giudizioso ma intemperante critico, Giuseppe Baretti; il quale, dalla sua
famigerata Frusta letteraria in poi, continuò fino alla morte
l'incessante suo chiasso per questa, a suo dire, imperdonabile arroganza.
Verri, in que' primi ardimenti del suo ingegno scriveva da filosofo, non da
grammatico; forse errò nel menarne vanto; ma nel calore di una fazione
di guerra, quale era quella propostasi dagli animosi e illustri giovani della
società del Caffè contro i parolai e i pedanti, come misurare le
mosse a compasso e pretendere che non trascendasi? Consimili cose erano state
da me dette nelle Memorie biografiche che ho fatto precedere agli Scritti
scelti del Baretti, pubblicati nel 1822, e sembravami di avere con
ciò servito abbastanza alla giustizia e all'imparzialità; né
credeva che fosse necessario di ripetere ad ogni passo sempre lo stesso
avvertimento, imitando il costume de' legali nelle dispute forensi colle parole
solenni, come le avrebbero chiamate i giureconsulti romani, d'impugno, nego,
ec., per modo che il non opporle si avesse per una confessione dell'assunto
dell'avversario. Ma così non parve all'anonimo che in due estratti
inseriti nella Biblioteca Italiana (numeri CII e CXII) rese conto di
quel mio lavoro; e nell'estratto II, non contento di quanto io aveva scritto a
correzione delle invettive del Baretti nei capi X e XVI e in una nota
all'articolo 25 del capo XIX delle citate Memorie, altre annotazioni
pretese che da me lombardo si fossero fatte a difesa de' lombardi
ingegni. Premesso incidentemente ch'io non ho l'onore di appartenere alla
Lombardia se non per la scelta del domicilio, essendo nato in un borgo del
Novarese, non so con quale logica si pretenda che le lodi e le difese degli
autori debbano prendere incitamento dall'accidentale affinità del
municipio, anzi che dalla ragione; e forse che, conseguenza di questa logica,
fu che l'autore di quegli estratti, per non essere Lombardo, ha creduto di
potersi dipartire nel secondo di essi dalla decenza serbata nel primo, e per
cumulare qualche critica di più asserì che raro è
unicamente ciò che è inedito, e che di cose inedite appena un
terzo si contiene in quella mia collezione; delle quali osservazioni
dirò soltanto che nella prima farneticò, e nell'altra
mentì apertamente, non essendo questo il luogo di estendermi in
più copiose parole.
Avendo il conte Verri lasciata
interrotta la sua storia circa alla metà del secondo volume, siccome si
è detto, il canonico teologo Anton-Francesco Frisi si assunse di
proseguirla, e la condusse per la successione di quarant'anni sino al
pontificato del cardinale arcivescovo Carlo Borromeo, chiudendo il suo lavoro
col di lui elogio dettato colle parole di un vescovo francese e di un dottore
della Sorbona, e mettendo in luce il volume nel 1798. Ne scrisse quindi un
terzo volume, nel quale la storia è continuata fino al 1750; e questo,
che ha la data del 1813, rimase inedito e si conserva nell'archivio della casa
Verri. Nella nota alla p. 208 del vol. II, dove il Frisi ci avvisa
dell'interruzione del lavoro per la morte dell'illustre autore, soggiunse: Al
compimento di esso mi sono data la pena di fedelmente raccogliere la più
parte di quanto segue da alcuni tomi in foglio manoscritti ritrovati presso il
defunto. Avendo io, vivente l'autore, avuto il comodo di vedere quei tomi,
aveva potuto convincermi che l'asserita fedeltà non reggeva; quindi
nelle Notizie che scrissi intorno alla vita e alle opere di Pietro
Verri, colla franchezza che si conviene alla manifestazione del vero, diedi
pubblico rimprovero al Continuatore (tomo I, p. 38 di quest'edizione) «di aver
violato la protesta da lui fatta di trascrivere fedelmente i frammenti
dell'autore, mentre osò di mutilarli». Sopravisse tredici
anni ancora il canonico Frisi, cioè fino al 20 luglio del 1817, e
riputando la difesa impossibile, non aprì mai bocca su quell'accusa, non
ostante che ben conoscesse l'opera nella quale fu pubblicata, e ch'egli cita
alla p. 211 del rammentato tomo III inedito della sua Continuazione. Ho voluto
estendermi in questi dettagli, mentre qualche lettore superficiale avrebbe
potuto appormi a viltà l'accingermi a combattere un morto; né senza la
presente occasione avrei più parlato di lui; e nella necessità di
parlarne e di giustificare la mia asserzione, il farò più
compendiosamente che mi sarà possibile.
Non è colpa del canonico Frisi
se, per la diversità dell'educazione e degli studi, e, diremo anche, per
la sproporzione de' talenti, si trovò egli inferiore di forze a
sostenere lodevolmente un carico che l'amicizia e la stima per l'illustre
defunto gli fecero assumere; e così se egli, credendo di far meglio,
stemperò in circonlocuzioni e frasi contorte e floscie il testo chiaro,
preciso, robusto, evidente del Verri; se, come canonico e teologo, tanto nel
proseguimento stampato che nel tomo manoscritto, modificò o tacque
ciò che di sfavorevole incontrava in argomenti di giurisdizione
ecclesiastica, riducendo il suo lavoro ad un perpetuo panegirico de'
governatori e degli arcivescovi di Milano, se avendo trovato nelle memorie del
Verri le incisioni di quattro figure di danzatori ed una lunga di lui nota
intorno ai balli e ai teatri della fine del secolo decimosesto, non ha potuto
resistere alla bramosìa di pubblicarle, e per riuscirvi trasportò
la nota racconciata a suo modo dall'anno 1598, cui spettava, al 1545, con
manifesto anacronismo; e se, vagando per tutta la storia dell'Europa,
impinguò il suo testo con lunghi riempitivi presi dal Guicciardini e dal
Muratori, senza riguardo al savio precetto del Verri nel tomo I, ove dice: Non
avendo io preso a scrivere una storia generale, ma unicamente quella di Milano,
né per ora né in seguito mi stenderò mai sugli avvenimenti d'Italia se
non di volo, e per quella connessione che ebbero colla nostra
città. Siccome sbagli innocenti debbono pure riguardarsi nel lavoro
del Frisi diverse inesattezze di epoche o di nomi; quale è per esempio
quella a p. 248, dove con aperta distrazione di mente fa condurre da Lannoy,
noto generale di Carlo V, un esercito francese in Italia in servizio della
Lega; quella alla p. 263, nell'avere indicato Francesco I qual possessore
tuttavia di una buona parte del Milanese, invece del duca Francesco II, come
dice il Verri con più proposito; quella di aver detto alla P. 269 che
Clemente VII creò cardinale il figlio del gran cancelliere Morone nel
1542, mentre quel papa era morto fino dal 1534; e del pari l'altra, a p. 358,
che il governatore duca di Sessa fosse giunto in Milano in marzo dell'anno
1558, laddove il signor Salomoni, nelle sue Memorie storico-diplomatiche,
p.
Ma nelle ultime centosettantadue pagine
del seguente volume della storia di Milano, che comprendono l'opera del Frisi,
s'incontrano ben più gravi alterazioni in confronto de' frammenti che di
quell'epoca in gran copia ci rimangono nei manoscritti del Verri; alterazioni
eseguite il più delle volte avvertitamente per coscienziosi riguardi, e
talvolta pure senza un fine espresso e per la sola cagione di non avere inteso
il suo testo. Porgerò alcuni esempi delle une e delle altre. Delle
copiose memorie raccolte dal Verri intorno alla celebre battaglia di Pavia, il
suo continuatore molte ne traspose, altre ne ommise e in generale le confuse.
Alla p. 225 dice che il re di Navarra comprò la libertà dai
militi cesariani del marchese di Pescara per settemila scudi; laddove furono
questi pagati dal marchese ai soldati per avere il re in proprio potere, e
quindi sottoporlo ad un esorbitante riscatto. Riferisce a suo modo, alla p.
228, le sollecitazioni allo spergiuro fatte al re di Francia da chi meno il
doveva; e mutila alla p. 231 il racconto delle trattative per la lega italica,
tacendo l'assicurazione data dal papa al Pescara di poter mancare di fede
all'imperatore, benché fosse provata colla testimonianza di un prelato, lo
storico Sepulveda. Invece di riportare, alla p. 240, i fatti che sono ne'
manoscritti del Verri, per mostrare la situazione disperata nella quale
trovavansi i Milanesi nel 1526, li tace in gran parte, ed accenna seccamente le
uccisioni notturne: i fatti all'opposto recano maggiore convincimento, oltre che
danno alla storia un interesse drammatico. Con notabile mala fede ha mutilato,
alla p. 242, il transunto della risposta di Carlo V al breve del papa,
trasmessogli per mezzo del suo nunzio Baldassare Castiglione; ed a
convincersene basta il confronto del suo e del mio testo, il qual ultimo
è preso letteralmente dai manoscritti del Verri. Nel racconto
dell'assassinio legale del Maraviglia, alle pp. 284-286, oltre le stemperature
con cui il Frisi sconciò abitualmente il testo del suo autore, ne
travolse pure il senso. Verri dice:
Sembra che il duca, sempre sotto gli
occhi e la sorveglianza di Antonio de Leyva, non potesse sopportare la meschina
figura che faceva, e cercasse pure qualche mezzo per liberarsi da sì
umiliante condizione, e a ciò debba attribuirsi la brama di avere un
ministro del re di Francia, col quale all'occasione prendere un concerto; ma
inopportunamente svelatasi la cosa, siasi il duca ridotto al miserabile partito
di tradire atrocemente il dovere più sacro a fine di disarmare lo sdegno
dell'imperatore.
Il Frisi, volendo variare, secondo il
suo costume, ne inverte del tutto il senso, dicendo stranamente... Ma
sciaguratamente svelatasi la cosa, siasi il duca ridotto al miserabile ripiego
di non si curare dei patti solennemente giurati con Cesare, e di cercare a ogni
modo pretesti di romperla seco lui, ed impegnarlo in nuove guerre col di lui
gran rivale Francesco I. Se non si avessero altre prove della cultura
d'ingegno del canonico Frisi, a giudicarlo dal riferito passo, si dovrebbe
conchiudere ch'ei non capiva quello che leggeva né quello che scriveva.
Un'altra insigne prova degli
stravolgimenti usati dal continuatore sia la seguente: Il Verri, nelle Osservazioni
sulla tortura, § II, entrando a parlare della peste dell'anno 1630,
dice: La storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio che
dalla corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora governatore. Il
dispaccio era firmato dal re Filippo IV, ec. Il Frisi dà la colpa a
quel dispaccio di tutti i danni recati dalla peste; e se la famiglia del conte
Verri non avesse avuto il buon giudizio di lasciar manoscritto il terzo tomo
della storia, il pubblico avrebbe letto nel compendio di quelle osservazioni
ivi inserito il detto passo, tramutato come segue: «un dispaccio che dalla
corte di Madrid venne in questo tempo al marchese Spinola, governatore dello
Stato di Milano, rese fatalmente quella pestilenza una delle più
spietate che rammemori la storia, avendo essa distrutti niente meno che due
terze parti di cittadini. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV, ec.», e
prosegue quindi la narrazione come sta nell'opera di Verri.
Ancora un esempio, e darò fine.
Negli Annali riportò il Verri, sotto l'anno 1617, il racconto di
una misera cameriera, stata bruciata come strega per avere ammaliato il
senatore Melzi. Il Frisi l'ommise nel manoscritto del suo terzo tomo, e
lasciò negli Annali del conte Verri l'annotazione di averlo fatto
avvertitamente, perché molte principali persone vi fanno poco buona figura,
e la notizia della strega non interessa
L'opera da me impiegata fu di due
maniere. Per l'epoca dal 1525 al 1565, intorno alla quale esisteva la stampa
del Frisi, mi circoscrissi a ristabilire nella loro integrità le parti
spettanti al Verri col confronto delle minute da lui lasciateci; e dove lui
trovai mancante di questa scorta, ridussi il testo alla dicitura che mi
è sembrata più naturale e conveniente, seguendo l'ordinario lume
della critica, che facilmente mi ha insegnato a distinguere lo stile stemperato
e da predica, ed a sostiturgli quello di una spontanea e compendiosa
narrazione. Il confronto che voglia farsi tra la stampa frisiana e la mia, ne
mostrerà la somma differenza. Il togliere, l'aggiungere, il mutare fu
opera di lunga lena e di gran noia, e quel ristauro importò una fatica
assai maggiore, che non sarebbesi usata nel fare di nuovo. E il fu ancora di
più, attesa la fedeltà propostami di conservare scrupolosamente
il testo del Verri, e perfino qualche trascuratezza di lingua, riflettendo che
l'emendare questi nêi nel solo quarto volume avrebbe recato
difformità in confronto degli altri; e sono altronde macchie lievissime
nel nostro storico presso qualunque lettore che nelle storie richieda, come
principal merito, pensieri, nervo, stile, e non badi che per ultimo alle
parole.
La stessa scrupolosa fedeltà ho
osservato nell'inserire nel mio successivo lavoro i frammenti che ho trovato
servibili nelle note del mio autore; ed oltre il fatto già accennato
dell'uccisione del Maraviglia, e il ragguaglio dello stato in cui erano in
Milano l'arte del ballo e del teatro al termine del secolo decimosesto, suoi
sono i racconti del fine tragico della contessa di Celano, dell'ingresso in
Milano dell'arciduchessa sposa del re Filippo III, della legazione a Roma del
senatore Giambattista Visconti, della cameriera del senator Melzi bruciata nel
1617 come strega; la nota sul carattere de' nobili circa la metà del
secolo decimosettimo i fatti della condizione di Milano sotto il governatore
Ponze di Leon; i caratteri del conte di Fuentes, del duca d'Ossuna e di alcuni
ministri sotto il governo della casa d'Austria; la relazione della venuta e
dimora in Milano dei Gallo-Sardi nella guerra del 1733, e dell'imperatore
Leopoldo II nel
Se le accennate ed altre ommissioni
furono volontarie, di altre diverse hanno debito le circostanze; ma sarebbe ora
superflua cura il farne discorso. Chiuderò quindi desiderando che,
nell'accingersi a giudicarmi, di due cose siano avvertiti i miei lettori:
l'una, che loro si presenta l'opera di un novizio in questa parte di studi;
l'altra, che vogliano disporsi ad una moderata aspettazione dal lato
dell'importanza de' fatti che ho avuto a narrare, i quali non avrei potuto
rendere più copiosi e interessanti, se non imitando il comune difetto
degli scrittori di storie particolari, coll'innestare nel mio lavoro i fatti
della storia generale.
24 dicembre 1825.
Il re Francesco I rimane prigioniero.
È condotto a Madrid. Sua liberazione.
Vicende in questi tempi della lega di
Francesco Il Sforza, duca di Milano, e di Girolamo Morone
Leone X, alleato di Carlo V, avea
terminata la vita, siccome si è detto di sopra, nel tempo appunto in cui
si otteneva lo scopo della Lega col discacciare i Francesi dalla Lombardia.
Adriano VI, suo successore, nel breve suo pontificato d'un anno e mezzo, o poco
più, si mostrò piuttosto sacerdote che sovrano. Clemente VII
Medici, cugino di Leone X, fu creato sommo pontefice, mentre i Francesi, sotto
Bonnivet, se ne ritornavano al loro paese, dopo un tentativo infelice per
occupar Milano. Dovevasi ognuno promettere che questo papa mantenesse la lega;
poiché ei da cardinale l'aveva formata; ma così non avvenne. Clemente
VII si unì col re Francesco I, promettendogli il regno di Napoli, e
ricevendo dal re la guarenzia dello Stato Ecclesiastico e della repubblica
fiorentina per
Ho procurato d'indagare come mai il
duca Francesco Sforza, principe che non mancava di valore, s'accontentasse di
starsene quasi ozioso nel Cremonese, mentre si disponeva il gran fatto d'armi
che doveva decidere del destino dello Stato suo. L'armata cesarea era comandata
dal vicerè di Napoli don Carlo Lannoy: ivi trovavasi il duca di Bourbon,
ivi il famoso don Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, ivi il marchese del
Vasto; ed il duca Sforza, che alla Bicocca e ad Abiategrasso aveva superati
coraggiosamente i nemici, ora erasi limitato a sgombrare il fiume Po da ogni
comunicazione co' Francesi. Non mi è accaduto di trovare che alcuno
degli scrittori avesse la medesima curiosità. Quindi o convien supporre
che gl'Imperiali per gelosia e sospetto non lo bramassero, ovvero ch'egli non
vedesse di sua convenienza il trovarsi in un esercito, nei suoi Stati, senza
averne il comando, e senza nemmeno avere il titolo di generale al servigio di
Cesare.
Ai sovradetti indebolimenti dell'armata
francese aggiungasi che Sant'Angelo sul Lambro era presidiato da ottocento
Francesi, sotto il comando di Pirro Gonzaga, e da ducento cavalieri. Fu preso
d'assalto; e il marchese di Pescara fu il secondo che ascese le mura, ed ebbe
l'abito forato da due archibugiate; la guarnigione uscinne disarmata,
coll'obbligo di non servire per un mese. Casal Maggiore era occupato da'
Francesi sotto il comando di Giovanni Lodovico Pallavicino, che lo presidiava
con duemila fanti e quattrocento cavalli. Alessandro Bentivoglio, alla testa di
un corpo d'Italiani fece, con un fatto d'armi, prigioniero il Pallavicino,
caduto da cavallo, e disperse affatto il presidio francese. Prima che si
avanzasse l'armata cesarea a Pavia, conveniva, assicurarsi le spalle e non
lasciar dietro i Francesi in que' due luoghi, d'onde difficoltavano le
provvisioni. Se i Francesi avessero avuta la stessa precauzione, non si
sarebbero inoltrati a Pavia, lasciando presidiata Alessandria da Gaspare del
Maino, il quale, siccome ho accennato pocanzi, batté e disarmò un corpo
di duemila soldati, che erano in marcia venendo dalla Francia per unirsi al re.
Oltre a questi primi danni, cioè al distacco del Principe Stuardo di
Scozia, spedito verso Napoli, alla perdita di due presidii di Sant'Angelo e
Casal Maggiore, alla perdita di duemila sorpresi verso Alessandria, un nuovo
accidente sventurato accadde al re e forse più gravoso, cioè che
quattromila soldati grigioni, che erano al di lui stipendio, se ne partirono
quasi improvvisamente. Giovanni Giacomo Medici, che s'era reso signore del
castello di Musso, con insidie s'era altresì reso padrone di Chiavenna,
città importante dei Grigioni. Per la qual cosa con lettere della loro
Repubblica vennero immediatamente chiamati i Grigioni in soccorso della patria,
sotto pena di infamia e di confisca. Così l'esercito francese si ridusse
di numero quasi uguale al cesareo.
Il duca di Borbone e il marchese di
Pescara ricevettero frattanto il rinforzo di ottomila Tedeschi. Fecero radunare
le truppe che tenevano acquartierate in Cremona, Lodi ed altri luoghi;
formarono un corpo di ventiduemila fanti, oltre i cavalli, e per Sant'Angelo
marciarono a Pavia, e si collocarono vicini e di fronte al campo francese,
cosicché le guardie avanzate nemiche si parlavano. Il Guicciardini[871]
scrive che Pescara s'avviò per la battaglia sotto Pavia con settecento
uomini d'arme, settecento cavalli leggieri, mille fanti italiani, e più
di sedicimila tra Spagnuoli e Tedeschi. Ivi si mantennero per venti giorni,
mettendo in allarme e inquietando i Francesi, ut primum metu ac
sollicitudine vexarent, deinde cum vanum timorem consuetudine remisissent,
securiores offenderent, ubi visum esset vero praelio lacessere[872].
Il re Francesco stava ben munito nel suo campo, situato nel parco, il quale,
essendo cinto di mura, non dava accesso a' Cesarei, se non per alcune porte ben
presidiate da' corpi avanzati francesi. Sperava il re che, stando a fare la
guerra difensiva, e guadagnando tempo, l'armata imperiale, mancante di stipendio
e mal provveduta di tutto, dovesse sciogliersi da sé medesima. Infatti i
comandanti cesarei temevano lo stesso, e perciò deliberarono di
commettersi alla fortuna d'una battaglia[873].
Allora i soldati erano mercenari e liberi. Nessun bottino potevano sperare i
Francesi debellando i Cesariani, mancanti di tutto. Per lo contrario sommo
profitto avevano in vista i Cesarei battendo i Francesi, il re, i principali
signori del regno, tutti radunati con immense ricchezze e pompe, e ciò
oltre il profitto del riscatto di sì illustri prigionieri. I Francesi
avevano la presenza del loro re ad animarli, l'ambizione di segnalarsi sotto
de' suoi sguardi, ma l'armata non era per la maggior parte di Francesi; v'erano
Tedeschi, Svizzeri, Italiani, Spagnuoli, ed oltre a ciò, i più
erano affatto mercenari e gregari. Perciò la condizione de' Cesarei era
migliore d'assai. Il quartiere del re stava a Mirabello, delizia de' duchi di
Milano. Il campo era cinto di terrapieno con fossa, fuori che da un lato, che
si credeva bastantemente munito col muro del parco. Il marchese di Pescara, che
da ogni canto osservava la posizione del re, s'avvide che poco custodivano i
Francesi quella parte che credevano più sicura pel riparo del muro. Se
il muro si gettava a terra, il che non era difficile, era aperto l'adito ad
impadronirsi di Mirabello.
Confermatisi il duca di Borbone e il
marchese di Pescara nella risoluzione di avventurare la battaglia, passarono di
concerto col comandante di Pavia Antonio Leyva, e si fissò il giorno di
san Mattia, 24 febbraio, giorno di gala per essere l'anniversario della nascita
di Carlo V. Frattanto negli otto precedenti giorni gli Imperiali
incessantemente, anche di notte, diedero l'allarme ai Francesi, e col favore
dello strepito di trombe e de' timpani guastarono per qualche tratto le mura
del parco, sicché alla minima scossa cadessero poi. Queste mosse ingannarono i
Francesi, che credettero uno de' molti falsi allarmi anche l'attacco importante
del giorno 24. Per essersi gl'Imperiali accostati così d'appresso al
campo francese, il te tenne un consiglio nel quale Luigi d'Ars, il Sanseverino,
il Galiot de Genouillac, il maresciallo di Chabannes, il maresciallo di Foix, e
il famoso la Tremouille opinarono che fosse da abbandonarsi il blocco di Pavia
e ritirarsi a Binasco; ma prevalse il Bonivet, secondato dal Montmorenci, da
San Marsault e da Brion, i quali adularono l'inclinazione del re, che
già aveva promulgato per l'Europa, che o prendeva Pavia, o vi periva[874].
L'ammiraglio Bonnivet ebbe il comando
di quella giornata. Il campo francese, esteso più di tre miglia, era
postato in guisa che impediva l'ingresso da ogni parte in Pavia, comunicava col
parco di Mirabello, e dominava vantaggiosamente
Il re faceva prodigi di valore, e si
riconosceva da un manto di tela d'argento (cotte d'armes), e dal
cimiero fregiato di copiose e lunghe piume. Di sua mano egli uccise Castriotto,
marchese di Sant'Angelo, ultimo discendente degli antichi re d'Albania, che
contava per suo avo paterno Scanderbeg. Il re si batté lungamente con un
gentiluomo della Franca Contea, per nome Andelot, e lo ferì nella
faccia. Il marchese di Pescara con mille e cinquecento archibugieri Baschi
piombò sulla gendarmeria del re. Costoro, scaricato l'archibugio, con
mirabile disinvoltura si nascondevano, caricavano, e ritornavano a ferire. Il
re, per coglierli, dilatò i suoi gendarmi; e gli archibugieri, penetrati
e sparsi per entro, in meno d'un'ora rovinarono il corpo invincibile della
gendarmeria francese. La Tremouille cadde ferito nel cranio e nel cuore. Il
gran scudiere Sanseverino cadde moribondo. Guglielmo di Bellai Langey,
vedendolo cadere, scese da cavallo per dargli soccorso: non ho più
bisogno d'alcun soccorso, disse il moribondo, pensate al re, e
lasciatemi morire. Luigi d'Ars, il conte di Tournon caddero morti. Il conte
di Tonnerre appena poté essere riconosciuto fra i morti, tante erano le ferite
della sua faccia! Il barone di Trans stavasene all'ala sinistra sotto il
comando del duca d'Alençon, assai malcontento di dover trovarsi nella inazione.
Il figlio suo unico era nel corpo del re, e, dopo d'aver combattuto ed esaurite
le sue forze, si ritirò presso del padre. Il barone di Trans gli chiese
dove fosse il re: Nol so, rispose, ansante e grondante di sudore, il
figlio. Va e sappilo, disse il padre severamente, arrossici di non lo
sapere. Il figlio Trans s'ingolfa fra i combattenti, s'accosta al re, e per
un colpo d'archibugio cade a' suoi piedi.
Il duca Carlo d'Alençon, primo principe
del sangue, in vece di porgere soccorso al re, si ritirò colla sua ala
di cinquecento cavalieri[877],
e fu il primo a vituperosamente fuggire[878];
se non fu maliziosamente (dice il Bugati)[879],
come tennero alcuni, aspirando egli ad esser re, morto che fosse il re
Francesco. Tagliò il ponte di legno che poco di sotto a Pavia era
fabbricato a San Lanfranco, acciocché non l'inseguissero i Cesarei.
Perciò molti Francesi, ivi giunti sulla speranza di passarvi sicuri
all'altra sponda, dovettero avventurarsi ai gorghi del fiume e sommergervisi;
poi v'erano a forza spinti dai fuggitivi, che colla fiducia stessa correvano
sulle loro tracce, e vi si affogavano[880].
Gli Svizzeri, vedendo scoperto il loro fianco sinistro per la ritirata del
duca, e credendosi a tradimento sacrificati all'odio dei Tedeschi di Frandsperg
e Sith, che marciavano loro incontro, non vi fu più modo di tenerli.
Diespach disperatamente si scagliò solo a farsi uccidere dai soldati di
Frandsperg. Abbandonato il re a pochi, perirono intorno di lui il maresciallo
di Chaumont, d'Amboise, Estore di Bourbon, il visconte di Lavedan, Francesco
conte di Lambesc, fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, ed una
moltitudine di valorosi cavalieri. Il Bastardo di Savoia, gran maestro di
Francia, vi morì. Il maresciallo di Foix, col braccio fracassato e
mortalmente ferito, galoppava furiosamente per rinvenire l'ammiraglio Bonivet,
al quale attribuiva il disastro, per traforarlo col braccio che gli rimaneva, e
morire contento d'aver vendicato la Francia; ma perdette tanto sangue, che
cadde, e fu portato a Pavia, dove morì nella casa della contessa di
Scaldasole. Bonivet, vedendo perduta ogni speranza, si scagliò quasi
inerme fra i Lanschinetti del duca di Borbone, e si fece uccidere. Il duca di
Borbone bramava di far prigioniere Bonivet, e vedendolo steso morto
esclamò: Ah misero, tu sei cagione della rovina della Francia e della
mia!
Il re, tenuto sempre di vista onde
farlo prigione, rimase solo in faccia de' nemici, avendo un parapetto di morti
avanti di sé. Raggiunto in un prato paludoso da un colpo di fucile, gli cadde
finalmente sotto il cavallo. Egli aveva due ferite in una gamba. Caduto che fu,
venne attorniato da un nembo di soldati; Tedeschi e Spagnuoli se lo
disputavano. Il re, ferito come era anche in fronte, combattendo a piedi, si
difendeva colla mazza di ferro. Per buona sorte sopragiunse il Lannoy, al quale
egli si arrese prigioniero; e fu opportuno il di lui arrivo, poiché altrimenti
correva pericolo il re di essere fatto in pezzi, tanta era la voglia che
ciascuno aveva di possedere un tal prigioniero. Due cavalieri spagnuoli,
Giacomo ossia Diego d'Avila e Giovanni Urbieta Biscaino, conosciuto chi egli
era, lo aiutarono a salire a cavallo; ma il d'Avila gli tolse la spada, e
l'Urbieta la collana del toson d'oro[881].
Il re rimase spogliato di quanto aveva di prezioso. La di lui sopraveste fu
squarciata in cento parti, e i pennacchi dell'elmetto reale furono spaccati in
minimi frammenti, gloriandosi ciascuno di portare una memoria di così
illustre presa. Don Carlo Lannoy, smontato da cavallo, baciò
rispettosamente la mano al re inginocchiandosi; altretanto fecero i primi
signori che ivi sopragiunsero. Questa memorabile battaglia non durò due
ore; e rimasero in essa estinti novemila del campo francese. I feriti e
prigionieri furono, oltre il re di Francia, Enrico d'Albret, re di Navarra, il
gran Bastardo di Savoia, il principe di Lorena, l'Ambricourt, Bonavalle, San
Polo, Galeazzo e Bernabò Visconti, Federico Gonzaga da Bozzolo, Girolamo
Aleandro, vescovo di Brindisi e nunzio del papa, e varii altri signori. Degli
Imperiali solo mille e cinquecento rimasero morti, con due soli capitani di
conto, cioè don Ugo di Cardona, e Ferrante Castrioto, marchese di
Sant'Angelo.
Il re cristianissimo con molto rispetto
fu condotto all'alloggiamento del viceré don Carlo Lannoy a San Paolo; dove,
medicate le ferite, scrisse alla duchessa d'Angoulême, sua madre, quella
breve e terribile lettera: Signora, tutto è perduto, fuor che
l'onore. Il duca di Borbone presentò al re magnifiche vesti
per disarmarsi; ed al pranzo il viceré Lannoy lo servì, presentandogli
il catino da lavar le mani, il marchese del Vasto versò l'acqua, il duca
di Borbone lo sciugatoio. Il Borbone lasciava cader le lagrime, mirando
prigioniero il re. La sera il re volle che Lannoy e Vasto cenassero seco.
Pescara venne ad osservarlo senza pompa e con modeste maniere, e piacque al re
sopra ad ogni altro. Gli si concessero i suoi paggi, si ricuperarono abiti,
camiscie e molte cose rappresagliate, che i soldati medesimi generosamente
presentarono, e fra queste una coppa d'oro, in cui soleva bere il re, ed una
croce di oro che papa Leone gli aveva posta al collo in Bologna, e così
venne nobilissimamente trattato come se fosse stato, non che libero, ma nella
stessa sua reggia[882].
Tre giorni stette nel monastero di San Paolo il prigioniero Francesco I; indi
il 28 di febbraio, fu condotto nella fortezza di Pizzighettone, e collocato
nella Rocchetta, col gran maestro di Francia, il duca di Montmorenci, ove
dimorò sino al 18 maggio. Così il Grumello[883];
il quale aggiugne che ne' giorni che ivi stette, sintanto che venissero da
Spagna gli ordini, il re giuocava a varii giochi et maxime al ballono.
Il Muratori, ne' suoi Annali, ne accerta altresì che al re
Francesco furono concessi per sua compagnia venti de' suoi più cari,
scelti da lui tra quelli ch'erano rimasti prigionieri[884].
Una vittoria così compita, con tanta strage dell'esercito francese,
e poca perdita degl'Imperiali, è troppo naturale che producesse quanto
afferma il Bugati[885],
vale a dire che tutto il campo francese restasse in preda de' soldati, et
più de gli Spagnuoli, per cotal vittoria fatti sì ricchi et
sì insolenti, quanto altra fiera milizia che più fosse in Italia,
minacciando apertamente di cacciar di Stato il duca di Milano, se presto non
gli soddisfaceva di quante paghe dovevano avere, e che i Francesi
abbandonassero Milano in un momento. Anzi v'è chi scrisse che il grido
di questa vittoria fu tale, che nel giorno medesimo restò libera dai
Francesi, non solo la città, ma tutto il ducato. Giunta a Madrid la gran
nuova della presa del re cristianissimo e della disfatta terribile del suo
esercito, il re
Tanta felicità delle armi
cesaree eccitò ben presto negli animi di quasi tutti i principi d'Italia
un ragionevole timore d'essere l'uno dopo l'altro oppressi e soggiogati dal
vicino esercito; ond'è che, dopo varii ripieghi, specialmente progettati
tra Clemente VII ed i Veneziani, stimò più opportuno il pontefice
di stabilire una concordia cogli Imperiali per mezzo di Gian-Bartolomeo da
Gattinara, ministro di Cesare in Roma, restando conchiuso quest'accordo, il 1°
di aprile 1525, pubblicato poi nel dì 10 di maggio dello stesso anno. Le
condizioni principali di questo trattato, nel quale fu compreso Francesco
Sforza qual duca di Milano, furono la scambievole difesa del ducato di Milano e
degli Stati pontificii, compresa Fiorenza coi Medici che vi dominavano, e la
contribuzione di centomila ducati da darsi dai Fiorentini, con che le truppe
cesaree partissero dai quartieri occupati nelle terre di Parma e Piacenza. I
Veneziani, a' quali era stato lasciato il luogo d'entrarvi, intese le mire del
re inglese di collegarsi colla regina, madre del re prigioniero, sospesero di
determinarsi ad alcun partito. Frattanto gl'insorti lampi di speranza per la
tranquillità dell'Italia lasciavano luogo a qualche angustia d'animo ne'
ministri cesarei sulla sicurezza del re Francesco in Pizzighettone. Infatti il
Lannoy ragionevolmente sospettava che il re da Pizzighettone non venisse o
tolto per subornazione di qualche generale, o per tumulto de' soldati, mal
pagati e vinti dalla umanità del re, o per effetto di qualche unione de'
principi italiani, e singolarmente dello Sforza, il quale poteva acquistarsi un
sicuro godimento dello Stato col liberare Francesco I, o coll'opera del duca di
Borbone, che potevasi riconciliare con tale beneficio. Forse questi sospetti
del viceré Lannoy accelerarono nell'animo di Carlo V la risoluzione di volere
al più presto in Ispagna tradotto il re prigioniero. Lannoy, vedendo il
re impaziente della sua liberazione, colse l'opportunità di persuadergli
che in un'ora di colloquio coll'imperatore si sarebbe terminato ciò che
portava degli anni, trattato ministerialmente. Quindi fecegli desiderare di
andare in Ispagna. Tutto fu segretamente concertato, fingendosi di condurlo a
Napoli per custodia più sicura. Venne destinato a scortare il re in
Ispagna, a preferenza del marchese di Pescara, a cui principalmente dovevasi la
insigne vittoria di Pavia. Preferenza ingiuriosa, e che perciò produsse nel
Pescara una palese malcontentezza di Cesare, ed un'inimicizia aperta col
Lannoy, da cui poscia derivarono gravi conseguenze. Pertanto, sul fine di
maggio, scrive il Muratori[888],
scortato esso re da trecento lance e da quattromila fanti spagnuoli, fu
menato a Genova, dove, imbarcatosi con dieci galee genovesi ed altretante
franzesi, ma armate dagl'imperiali, in compagnia del viceré Lanoy,
arrivò poscia a Madrid; dopo però di essere stato per qualche
tempo rinchiuso nella fortezza di Xsciativa nel regno di Valenza, dove i re di
Arragona anticamente custodivano i rei di Stato, siccome è concorde
testimonianza degli storici. Il capitano Alarçon fu assegnato custode del re,
da quando, prigioniero, fu tradotto a Pizzighettone, fino al termine del suo
destino in Madrid. La permanenza del re in Pizzighettone fu di settantanove
giorni, quanti se ne contano dal giorno 28 febbraio sino al 18 maggio, in cui
accadde il suo trasporto in Ispagna[889].
Il
Carlo V venne in chiaro della lega, per
avere i collegati tentato di trarre dal loro partito Fernando d'Avalos marchese
di Pescara, vincitore del re Francesco, il quale a quel tempo era mal contento
dell'imperatore, perché, senza riguardo ai segnalati servigi da lui resi alla
corona, avea confidato al Lannoy la custodia e la trasmissione a Madrid del re
di Francia. Anzi si era lasciato credere al Pescara, che da Genova il re si
dovesse trasportare a Napoli; né egli seppe il destino del re, se non quando lo
seppe ognuno. Questa diffidenza e questa ingratitudine di Carlo V, avevano
lacerato l'animo sensibile del marchese di Pescara. Il marchese era Italiano; e
la nazionale gelosia tra Spagnuoli ed Italiani fu la cagione di un mistero
inopportuno ed ingiurioso. Perciò Girolamo Morone, gran cancelliere del
ducato, ed intimo consigliere del nostro duca, uomo di molta eloquenza,
dignità e dottrina[894],
fu dai collegati incaricato ad aprire discorso col marchese di Pescara.
Sepulveda ne riferisce il transunto[895].
Ricordò il Morone al Pescara, che a gran proposito era l'occasione; che
tutti i principi italiani erano pronti a far causa comune per la patria; che
altro non mancava se non un capitano d'animo, di cuore, di sperienza, di
celebrità, degno d'essere posto alla testa di un'armata; che il marchese
di Pescara era quegli che ciascuno eleggeva; che il servigio ch'egli avrebbe
reso all'Italia, oltre la gloria, non sarebbe stato senza degna mercede,
poiché, scacciati i barbari, né rimanendo più alcun dominio straniero in
Italia, ed assicurato Francesco Sforza e stabilito libero duca di Milano, il
premio dell'invitto marchese sarebbe stato il possedimento del regno di Napoli[896].
Non è dubbio, prosiegue il Guicciardini[897],
che tali consigli sarebbero facilmente succeduti, se il marchese di Pescara
fosse in questa congiunzione contro Cesare proceduto sinceramente. Il marchese
di Pescara ascoltò la proposizione con apparente favore; soltanto
mostrò d'avere avanti gli occhi la fortuna e la potenza di Carlo V, e le
difficoltà da superarsi. Si protestò interessatissimo per la
salute della patria. Per lo che il Morone gli svelò il piano della lega
già fatta fra il papa, i Veneti, i Fiorentini, lo Sforza, il re Arrigo
d'Inghilterra ed il regno di Francia. Il Pescara destinò di tenerne
più comodamente discorso in casa, attesoché questo primo cenno se gli
era dato sulla spianata del castello di Milano. Ma diffidando egli di
un'impresa dipendente da tanti interessi combinati, e facili a sciogliersi,
concepì il piano di comparire fedele all'imperatore, ed ottenere in
premio il ducato di Milano, col pretesto della fellonia di Francesco Sforza[898].
All'intento quindi di aver le prove dell'ordita trama, nascose Antonio de Leyva
dietro i parati della stanza, ed ivi insidiosamente indusse il Morone a
palesargli il piano della lega. Comunicato il fatto a Cesare, questi
lodò la condotta del marchese di Pescara, il quale, per non romperla col
Morone, mostrossi pronto, soltanto che venissero tolte le inquietudini ch'egli
provava internamente col tradire l'imperatore che lo stipendiava; al che si tentò
dal papa di rimediare. Pontifex, fallacibus quibusdam, sed a juris specie
ductis argumentis, Marchioni persuadere nititur id facinus ab ipso pie atque
sancte patrari posse[899].
Gli ordini di Cesare volevano che venisse imprigionato il Morone per avere
giuridicamente le prove della lega, e soprattutto contro il duca Francesco
Sforza. In questo mentre si ammalò il marchese in Novara, e
chiamò a sé il Morone, nella persona del quale si può dire che
consistesse l'importanza di ogni cosa[900].
Il Morone, che se ne diffidava, e di cui aveva detto al Guicciardini non
essere uomo in Italia né di maggiore malignità né di minor fede del
marchese di Pescara, volle un salvo condotto da lui; il quale poiché ebbe
ottenuto, in compagnia di Antonio da Leyva cavalcò a Novara il giorno 14
di ottobre 1525. Visitato che ebbe il marchese e congedatosi da lui, mentre il
Morone salutava il Leyva nell'anticamera per andarsene, questi gli disse: venite
a casa con noi; il Morone ringraziò dell'invito; il Leyva
ripigliò: voi ci verrete, essendo prigioniero dell'imperatore[901].
In tutto questo fatto il Pescara si disonorò. Egli adoperò
l'industria d'uno sbirro, anziché mostrare l'animo nobile e franco d'un
illustre capitano. Proposizioni di cotal fatta o non si dà luogo a
farle, o, fatte, si accettano, o, dispiacendo, la lealtà vuole che diasi
avviso di abbandonare il progetto, o di doverlo altrimenti palesare. Carlo V non
ebbe torto diffidando del Pescara. Chi è capace di servire da sbirro,
è capace di mancar di fede[902].
Il marchese di Pescara morì poi il 3 dicembre di quell'anno, di morte
sospetta[903].
Il duca Francesco Sforza spedì a Novara il
Questa pericolosissima sciagura del
Morone ebbe origine dallo sdegno per le esorbitanti vessazioni con cui l'armata
imperiale smungeva lo stato di Milano. Francesco Sforza non aveva che il nome
di duca, sebbene l'imperatore avesse preso le armi per lui. L'imperatore avea
posto un tributo di centomila ducati sul Milanese, indi chieste somme
esorbitanti allo Sforza per l'investitura[905].
Inoltre il duca, vedendo vessati sopramodo i suoi sudditi dall'esercito
cesareo, avea fatto un accordo col marchese di Pescara di pagargli altri
centomila ducati, con che, represse tutte le estorsioni, si prendesse egli la
cura di provvedere l'esercito di viveri e di stipendi[906].
La somma di queste disavventure ed
oppressioni del duca Francesco si fu che, giovandosi il marchese di Pescara ed
Antonio de Leyva dei progetti manifestati da Girolamo Morone, fecero, in un
congresso tenuto in Pavia, sentenziare di fellonìa il duca Sforza,
dichiarato sovrano del Milanese l'imperatore Carlo V. In conseguenza della
quale dichiarazione il marchese di Pescara fece domandare allo Sforza il
castello di Milano, quello di Cremona ed altri, presidiati dal duca. Il povero
duca appena cominciava a riaversi da una malattia mortale, quando gli venne
fatta sì terribile intimazione dall'abate di San Nazaro. Ricusò
egli di dare al Pescara i due nominati castelli: bensì accordò
gli altri, e disse che se l'imperatore voleva anche quelli, e a lui fosse
constato, non solamente i castelli, ma lo Stato eziandio e la vita gli avrebbe
dato; ch'egli era sempre stato ed attualmente era innocente e fedele a Cesare,
e sperava che tale sarebbesi fatto conoscere. Si lagnò del suo destino,
che, bambino ancora, lo aveva portato esule lontano dalla patria, colla
prigionia e rovina del padre; poi, ricuperato appena lo Stato nella sua
adolescenza, il re di Francia ne lo aveva balzato. Finalmente, fatto prigione
il re, mentre credeva veder pacifici i sudditi e ristorati dai sofferti lunghi
danni, mentre credevasi tranquillo, ecco una mortal malattia, ecco una calunnia
a rovinarlo. A malgrado di siffatte querele il marchese di Pescara volle
entrare in Mlano. Lo Sforza chiedeva soltanto che si aspettasse la risposta di
Sua Maestà cesarea; che se quella comandava che egli fosse privato dello
Stato, era pronto a tutto cedere. Il Pescara ricusò di aspettare,
mandò tremila Tedeschi ad assediare il castello, ove il povero duca
s'era ricoverato, e da mille altri Tedeschi e cinquecento Spagnuoli fece
occupare Cremona[907].
I nostri cronisti proseguono a dire che il duca, assediato nel castello di
Milano, faceva spesse sortite con grave danno de' Cesariani, mentovando un
curioso cambio di prigionieri: il duca rimise liberi cinquanta Lanschinetti per
cinquanta vitelli[908].
In queste turbolenze e desolazioni
dello Stato di Milano, la disegnata lega pensava seriamente a prevenire il
pericolo di divenire bersaglio delle vendette di Cesare, e Cesare stesso non ne
ignorava gli sforzi ed i pericoli; laonde, per allontanare il turbine che
andavasi formando, rivolse l'animo a trarre il pontefice in una nuova alleanza
per distaccarlo della contraria; il che tuttavia non ebbe effetto per volersi
troppo pretendere da ambe le parti. Uno però degli accordi più
importanti a quest'oggetto fu il trattato conchiuso della liberazione del re
Francesco, mosso l'imperatore a ciò fare dal vedere collegati contra di
sé tutti i principi d'Italia. Ma l'affare, per la esorbitanza delle condizioni,
andò lento. Perciò, scrive il Muratori[909],
esso re, mal sofferendo questa gran dilazione, e forse più per non
averlo mai l'imperatore degnato di una visita, cadde gravemente infermo, sino a
dubitarsi di sua vita. Allora fu che l'augusto Carlo, non per
generosità, ma per proprio interesse, andò a visitarlo, e di
sì dolci parole e belle promesse il regalò, che a questa sua
visita fu poi attribuita la di lui guarigione. È qui da notarsi col
Guicciardini che Carlo V operò col suo prigioniero, come Ponzio Sannita
co' Romani alle Forche Caudine. Non l'oppresse né lo trattò con
generosità. Conveniva o lasciar libero il re
Campo della Lega a Marignano.
Morte del Borbone, e saccheggio di
Roma.
Disfatta de' Francesi. Pace di Cambrai
(1526) Continuava il duca Francesco
Sforza a starsene bloccato nel castello di Milano, d'onde coll'artiglierie, non
che colle uscite, inquietava gli assedianti. Nella città comandavano
Antonio de Leyva e Alfonso d'Avalo marchese del Vasto, succeduti al Pescara, e
anche l'abate di San Nazaro. La plebe amava il superstite unico rampollo de'
principi sforzeschi. La sua bontà, il valore che aveva dimostrato, la
memoria delle guerre e dei mali sofferti sotto un'estranea dominazione, la
serie delle sue sventure, la oppressione in cui tenevasi, tutto disponeva
l'animo del popolo ad odiare i Cesariani. S'aggiunse la vessazione incessante
colla quale il Leyva ed il marchese del Vasto imponevano taglie, oltre il peso
dell'alloggio degl'indiscretissimi soldati. Per lo che, saccheggiate le terre,
esausti i sudditi, emigrati i coloni, tutto portava all'impazienza, onde colla
forza rispingere
I capitoli per timore accordati dal
Leyva e dal marchese del Vasto non potevano rendere affezionato il Popolo ai
soldati, né questi al popolo; e la memoria delle violenze usate, e della
pertinace ostilità per cui si teneva bloccato il duca, teneva pronti ad
avvampare di nuovo i principii di una guerra civile. Una sera, andando Antonio
de Leyva per la contrada de' Bigli, vide un giovane con un giubbone di velluto
verde, e gli disse: Che fai qui? vieni con me. Il Leyva era scortato da
sessanta fucilieri. Il giovane rispose che non voleva altrimenti venire, e si
pose in fuga; i satelliti del Leyva lo uccisero. Un altro giovane, sentendo il
rumore, uscissene di casa colla spada, e venne pure ucciso dai satelliti; altri
concorrendo, si fece un grido: Italia, Italia! Il dì 16 di giugno
il tumulto fu assai grande, e tutta la notte fu la città sulle armi, e
si sparse sangue alla Scala e in Porta Vercellina, e si fecero barricate
attraverso le vie della città con travi, fascine, botti, ec.; e la
domenica, 17 giugno, essendo gli Spagnuoli collocati sul campanile del Duomo,
donde facevano i segnali, la plebe si avventò contro la guardia di
corte, ed il capitano di essa, fingendosi favorevole ai Milanesi, diede loro il
Santo, col quale contrasegno li assicurò che quei del
campanile l'avrebbero consegnato senza opporsi. La plebe credette, e spedì
un certo Macasora, il quale salì, credendosi sicuro col nome del Santo;
ma in riscontro ebbe un'archibugiata, che lo distese morto: il che veduto dal
popolo, tanto sdegno prese pel tradimento, che, posto gran fuoco sotto di
quella torre, arrostì coloro che la presidiavano, indi
s'impadronì del capitano, e lo ammazzò tra il campanile e la
guardia di corte. Vi rimasero morti centotto soldati. Gli Spagnuoli diedero
fuoco a diversi quartieri della città, alla Scala, alle Cinque Vie, al
Bocchetto. La plebe allora si smarrì, tanto più che non aveva
alcuno alla testa che la reggesse; e molti cittadini, entrati nelle stalle del
marchese del Vasto, montarono su que' cavalli e fuggirono lungi da Milano.
Pareva Troia. Ardeva molta parte della città, ciascuno era occupato a
salvare la sua roba, gli Spagnuoli ed i Lanschinetti rubavano e disarmavano:
tutto era rovina[913].
Il Bugati così descrive la situazione della nostra città circa
questo tempo: Stava allora la città di Milano tutta sotto sopra,
essendo ogni giorno i Milanesi alle mani cogli Spagnuoli et co' Tedeschi, per
le insopportabili gravezze et mali portamenti, in maniera che per tre notti (per
intervallo di qualche giorno) si combatté continuo, aiutando i suoi fin
le donne dalle finestre... Raffreddati i petti de' Milanesi, et deposte le armi
per aver promesso il Leyva e il Vasto di non imporre al popolo più
gravezza, pian piano detti capitani astutamente fecero venire alla città
il restante delle copie loro, sparse per varii luoghi dello Stato, et rompendo
ogni fede, accrebbero le taglie maggiori ai mercanti et a tutti quelli che
parve loro, eseguendo i soldati proprii le commissioni: il che fu cagione che
rinnovarono i tumulti, e si venne all'arme. Ma assaltata la città
davanti et da dietro, cioè da quelli dell'assedio et dalla nuova milizia
entrata, che prese le porte, stettero sotto i Milanesi, parte banditi, altri
proscritti, altri imprigionati, altri tormentati, et altri assassinati: di
sorte che non fu ingiuria, oltraggio, danno et crudeltà che i Milanesi
non soffrissero dagli Spagnuoli et da Tedeschi[914].
Fino dal giorno 17 maggio 1526 erasi
fatta la lega in Cugnac fra il papa, il re di Francia ed i Veneziani, per
liberare l'Italia da tante ostilità, ricuperare il ducato di Milano a
Francesco Sforza, e ridurre in libertà i figli del re, ostaggi di Carlo
V. Abbiamo da Sepulveda[915]
che Francesco I, appena liberato dalla prigionia e giunto nel suo regno,
trovò un breve del papa, in cui, dopo essersi rallegrato della sua liberazione,
lo esorta che, siccome ha ricuperato coll'integrità del regno la
libertà del corpo, così dovesse riprendere la libertà
dell'animo, al fine di provvedere alla
dignità e al comodo proprio, e al bene pubblico del regno; che nel tempo
della sua prigionia avesse fatta qualche
promessa per forza o per timore, quella non era da attendersi: Qua in
re, ne forte, impeditus religione, timidius ageret, se illum jurejurando; si
quod forte Carolo ad suam fidem adstringendam dedisset, auctoritate apostolica liberare;
proinde quasi re integra, nullo jurejurando, nulla fide data, fortiter de suis
rebus statueret. Multa praeterea in hanc, ut gentium, sic divino juri adversam
sententiam, mandatis, per epistolam, addit, omnia persecutus quibus ille ad
negligendum jus gentium, fallendamque fidem produci posse videretur[916].
Il re, contentissimo per questo breve, aderì alla lega,
approvò quanto aveva fatto il suo ambasciatore in Roma, Alberto Pio; e,
caldo per la voglia che si scacciassero onninamente dall'Italia tutti gli
Spagnuoli e Cesarei, accondiscese a questo ancora: Ne Gallo quidem regi
ullum esset in Italos imperium, sed annuis tributis esset contentus aureorum
millium quinquaginta, quae ipsi a duce mediolanensi, septuaginta vero quae a
rege neapolitano, Italorum suffragio deligendo, penderentur[917].
Il giorno 24 di giugno, dedicato a san Giovanni Battista, giorno solenne
per Firenze, patria e sovranità del papa, era destinato dalla santa lega
a portar la guerra nel Milanese, per soccorrere il duca Francesco, rinchiuso
nel castello di Milano già da sette mesi. Il duca d'Urbino, Francesco
Maria, comandava le truppe de' Veneziani, e Giovanni Medici le pontificie.
Clemente VII però non volle comparire aggressore, e scrisse a Carlo V un
breve, rammemorandogli le attenzioni che gli aveva usate, le ingiurie che da
esso aveva sofferte, il mancare ai trattati, l'ambizione di conquistare
l'Italia, e turbare la pace de' cristiani, torti ch'egli attribuisce
all'imperatore, dicendo che, dopo d'avere senza alcun profitto tentata ogni via
per calmarlo, costretto, suo malgrado, a prendere le armi, attestava Dio che lo
esortava a pensare a dar pace, ed ascoltare sentimenti più umani, e
provvedere alla propria fama. Questo breve venne spedito al nunzio presso di
Cesare, ch'era l'elegante prosatore e poeta Baldassare Castiglione. Tre giorni
dopo il papa si pentì d'aver fatte delle accuse insussistenti, et
alteram epistolam mittit aequiorem et moderatiorem perpaucis verbis in eamdem
sententiam, sed calumniis ex parte sublatis[918],
acciocché, se era in tempo, sopprimesse il primo breve e presentasse
quest'ultimo; ma il Castiglione avea già eseguito il primo comando.
L'imperatore pubblicò la lettera del papa e la risposta, la quale
conteneva che non era stato superato dai benefizi del papa; anzi nulla aver
fatto il papa che non contenesse l'utilità del papa istesso. Avere
santamente osservato Cesare i trattati. Aver sempre operato per la tranquillità
e la pace fra' cristiani; non mai aver fatto la guerra se non provocato. Si
maravigliava come il sommo pontefice facesse menzione di turbamento della
pubblica pace, nel mentre ch'ei stesso, in mezzo alla quiete universale, aveva
sollecitate le città e i principi cristiani alla guerra, e il re di
Francia a violare i trattati e gli stessi giuramenti; la qual sorta di consigli
non pareva si dovesse aspettare da quello che rappresenta il vicario di Cristo,
autor della pace. Finalmente rispondeva che, se il papa brama la pace,
ciò dipende da lui; lasci le armi che ha imbrandite a danno proprio e
dei suoi, e l'imperatore si dichiara pronto ad ogni equa condizione di pace. Se
poi, invece di voler la pace, persiste a promovere il disordine, l'imperatore
se ne appella al futuro sacro ecumenico Concilio, e prega il sommo pontefice,
in un tempo che lo rende necessario alla religione per le dissensioni
teologiche, e alla repubblica cristiana per la sua tranquillità, a
volerlo convocare; e ne lo prega in nome di Dio immortale. Che se ricusava
d'ascoltarlo, Cesare, autorizzato dal rifiuto e dalle leggi, si sarebbe servito
del suo potere per porre rimedio a tanti pubblici mali. Tale è il
transunto del cesareo manifesto che allora venne pubblicato, e che si riferisce
dal Sepulveda[919].
Durante questo carteggio tra il papa e
Carlo V, i Veneziani, comandati dal duca d'Urbino, presero Lodi per sorpresa, e
con segreta intelligenza di Lodovico Vistarini, stipendiato cesareo, che
tradì il suo padrone. I Pontificii a tale annunzio passarono il Po a
Piacenza e si unirono co' Veneti; e tutti di concerto posero il campo a
Marignano. Frattanto i cittadini milanesi, spogliati delle armi e costretti ad
alloggiare nelle loro case i soldati, che ne depredavano a man salva ogni cosa,
furono ridotti a tali estremi, che non rimaneva altro rimedio, fuorché cercare
di fuggirsi occultamente da Milano, perché il farlo palesamente era proibito.
Onde, per assicurarsi di questo, molti dei soldati, massimamente spagnuoli,
perché nei fanti tedeschi era più modestia e mansuetudine, tenevano
legati per le case molti de' loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli,
avendo anche esposto alla libidine loro la maggior parte di ciascun sesso ed
età. Però tutte le botteghe di Milano stavano serrate; ciascuno
aveva occultate in luoghi sotterranei o altrimenti recondite le robe delle
botteghe, le ricchezze delle case, gli ornamenti delle chiese... d'onde era
sopra modo miserabile la faccia di quella città, miserabile l'aspetto
degli uomini, ridotti in somma mestizia e spavento; cosa da muovere ad estrema
commiserazione, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli
che l'avevano veduta poco innanzi pienissima di abitatori, e per la ricchezza
dei cittadini e per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per
l'abbondanza e dilicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le
superbe pompe e sontuosissimi ornamenti così delle donne come degli
uomini, e per la natura degli abitatori, inclinati alle feste ed ai piaceri,
non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima e felicissima sopra
tutte le altre città d'Italia[920].
In Milano non vi era che penuria e desolazione; e la fuga stessa non era
sufficiente presidio, poiché gli Spagnuoli diroccavano le case dei cittadini
che altrove ricoveravansi. Riuscì tuttavia di conforto ai Milanesi
l'impensata spedizione da Madrid del duca di Borbone con centomila ducati per
le paghe dell'esercito, sembrando loro che tale sussidio potesse mitigare in
parte tante gravezze ed acerbità. Egli avea la promessa dall'imperatore
di essere investito del ducato di Milano, qualora ne scacciasse lo Sforza[921].
Il Borbone, che sotto Francesco I dieci anni innanzi era stato governatore di
Milano, venne accolto come un padre dai Milanesi, che da lui solo speravano la
cessazione de' mali enormi cui erano sottoposti. Il Guicciardini reca per
esteso le supplicazioni fattegli dai principali cittadini milanesi[922],
ai quali il duca rispose commiserando la loro infelicità; ma aggiunse
che il solo mezzo di tenere in freno i soldati era quello di pagarli; che non
bastando il danaro che avea seco recato per soddisfare gli stipendi arretrati,
gli abbisognavano ancora diecimila ducati, paga d'un mese, mediante la qual
somma avrebbe fatta uscire dalla città tutta
Intanto il duca Francesco II trovavasi
a mal partito, mancando omai di viveri nel suo castello. Quindi fece uscire
ducento uomini di notte, i quali attraversarono, dove meno era custodito, il
passo, e quasi tutti giunsero all'armata de' collegati, rappresentando loro la
estremità alla quale era ridotta la guarnigione, alleggeritasi anche a
tal fine con questa diminuzione. S'avanzarono verso Milano i collegati, e
posero il quartiere al Paradiso, di contro a Porta Romana. Dopo tre giorni
Giovanni Medici si presentò alla porta, e co' cannoni cominciò a
tentare di atterrarla e farsi adito. I Cesarei invece spalancarono
Oltre gli Svizzeri venuti in rinforzo
dell'armata collegata, non indugiò il re di Francia in quel torno a
spedire in aiuto di essa, giusta i patti, quattromila Guasconi, quattrocento
corazzieri, e quattrocento cavalleggieri sotto il comando del marchese Michele
Antonio di Saluzzo. L'imperatore Carlo V, per impedire la guerra, col mezzo di
Ugo Moncada, avea fatto al
Intanto che il pontefice, seguendo il
suo costume, si piegava a nuovo partito a seconda degli avvenimenti, l'esercito
della Lega, reso potente pei successivi rinforzi pervenutigli, si lusingava di
espugnar Milano colla fame, cingendola da più lati per chiudere ogni
adito alle vittovaglie, quando seppe che Giorgio Frandsperg nel Tirolo radunava
un armamento in soccorso degli Imperiali; il quale infatti nel mese di novembre
discese dal Tirolo in Italia con tredici in quattordicimila fanti tedeschi,
radunati colle promesse di gran preda; e per il Mantovano giunse a Borgoforte
sulla riva del Po. Cambiaronsi allora le speranze dei Collegati, e passarono
dalla guerra offensiva alla difensiva, in modo che il duca d'Urbino, lasciati
in Vaprio i Francesi e gli Svizzeri sotto il comando del marchese di Saluzzo,
accorse col restante dell'esercito a far argine ai Tedeschi; ma il pronto
accorrere dei Collegati non valse a trattenerli, mentre essi piombarono sul
Piacentino, non curandosi di Milano, già ridotto all'estrema indigenza,
risoluti di passare al saccheggio di Firenze e di Roma. Quest'esempio
eccitò ben presto un'egual brama nei soldati cesarei accampati nel
Milanese: e l'estrema scarsezza dei viveri fra di noi fece nascere un generale
fermento ne' soldati, che attribuivano al papa i disagi e i mali che
sofferivano, e costrinsero i comandanti a marciare con essi a quella vòlta[925].
Il Borbone, confidato il Milanese al Leyva, si pose alla loro testa. I soldati
l'adoravano. Egli soleva dir loro: Figliuoli miei, sono un povero
cavaliere, non ho un soldo, né voi ne avete: faremo fortuna insieme. Una
così impensata e potente irruzione di queste forze riunite
costernò maggiormente l'animo di Clemente VII, sì che
acconsentì ad una tregua di otto mesi coll'imperatore, stipulata
coll'opera del vicerè Lannoy, luogotenente cesareo per l'Italia.
Spedì allora il Lannoy incontro agli Imperiali coll'ordine di non
inoltrarsi, atteso l'armistizio concluso, sotto pena d'infamia. Ma l'armata,
pronta a marciare senza capitani, minacciò di uccidere chi parlasse di
ordini contrari. Sepulveda porta opinione che il Borbone accettasse il comando
di questa armata per disperazione di miglior partito, attesa l'assoluta
deficienza degli stipendi; al che concorda eziandio il Grumello[926].
(1527) Partì adunque da
Milano il Borbone verso la metà di gennaio del 1527, e
andò ad unirsi verso Piacenza coi Tedeschi di Giorgio Frandsperg, seco
conducendo cinquecento uomini d'arme, molti cavalli leggieri, quattro o
cinquemila Spagnuoli, e circa duemila fanti italiani; i quali, uniti co'
tredici o quattordicimila fanti del Frandsperg, formarono un potentissimo
esercito; e d'accordo si proposero, come fecero, d'inoltrarsi a Firenze ed a
Roma, depredando e saccheggiando per via tutte le città e luoghi del
loro passaggio. Il Frandsperg si ammalò in cammino, e fu trasportato a
Ferrara per farsi curare. Chi il disse colà morto di apoplessia nel mese
di marzo 1527[927],
fu indotto in errore, mentre trovansi lettere di questo capitano dei Tedeschi,
in data di Milano, delli 25 luglio dell'anno seguente[928].
Il Borbone, costante nel suo proponimento, messosi alla testa di tutta
quell'armata, attraversò rapidamente gli Appennini, e s'incamminò
verso Firenze. La qual città trovando egli, fuor d'ogni suo avviso, ben
munita e pronta alla difesa, avendo l'armata della Lega vicina, neppur
tentò di accostarvisi[929].
Giunto sotto Roma, il duca spedì un araldo chiedendo al papa che
mandassegli alcuno per concertare seco le condizioni della pace. Ma nemmeno si
permise che l'araldo entrasse in città: tanto credevansi il papa e i
Romani sicuri, perché i Cesarei, senza artiglieria e mancanti di tutto, non
potevano fare assedio né persistere, essendo vicino e pronto al soccorso
l'esercito confederato. Questa estremità di miseria de' Cesarei fu
appunto motivo della presa di Roma, poiché la tentarono con sommo impeto, da
disperati.
Sembra che Carlo V nulla sapesse della
spedizione intrapresa dal suo esercito d'Italia contro Roma, né che fosse in
sua potere di liberare il papa. L'esercito era composto di gregari stranieri,
che non erano sudditi dell'imperatore, che non erano pagati da lui, e che non
conoscevano se non i loro generali, e il Borbone sopra tutti. Le armate allora
erano collettizie, e radunate per un tempo e per un oggetto determinato. Il
viceré Lannoy, a nome dell'imperatore, tentò invano di distogliere il
duca di Borbone dall'impresa, ed altamente riclamava l'osservanza della tregua
da lui fatta con Clemente VII in nome cesareo. A Carlo V né dovea né poteva
piacere la mossa del Borbone e dell'esercito suo verso di Roma, se non per
altro, perché nessun utile egli ritraeva dalla oppressione del papa, e sommo
odio acquistavasi presso tutta la cristianità.
Appena il duca di Borbone fu alle mura
di Roma, che fu ai 5 di maggio, fece apprestar le scale, ed egli alla testa,
spinse l'intiero esercito ad entrar per forza dalle mura più basse nella
città; ma ferito in un fianco da un'archibugiata, rimase estinto nella
fresca età di trentott'anni. Il principe Filiberto di Oranges gli
subentrò nel comando, e diresse il sacco di Roma, che durò
più settimane. Il duca di Borbone, prima di dare la scalata a Roma (come
racconta il Grumello)[930],
disse a' suoi capitanei che era sicuro che tutti seriano richi et se
caveriano la fame, ma li ebbe domandato una grazia che non volessero
saccheggiare dicta città se non per un giorno, che li faceva promissione
di darli tutte le sue paghe avanzavano con Cexare, che erano circa dece overo
dodece; et così fu stabilito per li capitanei et militi cexarei… Il
povero Borbono, quale haveva animo di salvar la città da le crudelitate,
et forse contro la voluntà del Magno Idio, che voleva che Roma in tutto
fosse distructa, per li horrendi peccati regnavano in essa città...
rimase sul colpo. Giunta a Carlo V la nuova del sacco di Roma,
ordinò pubbliche preghiere in tutta la Spagna per la liberazione del
sommo pontefice, assediato in castel Sant'Angelo dalla sua armata. Forse queste
dimostrazioni non furono una ipocrisia, come taluno ha creduto; ipocrisia che
non avrebbe fatto altro effetto, se non quello di macchiare la
Mentre il duca di Borbone aveva
condotte a Roma le principali forze di Cesare, e che stavasene il Leyva a
Milano con pochi armati, i Veneziani s'innoltrarono, lo Sforza uscissene dal
Cremonese, e si pensò di cogliere il momento per discacciare l'imperiale
potenza dall'Italia. Anche il re cristianissimo a tempo assai opportuno,
cioè verso la fine di luglio, mandò in Italia Odetto di Fois
signore di Lautrec, con mille uomini di armi e ventiseimila fanti. Passò
questi le Alpi con apparenza di liberare il papa; ma si trattenne in Lombardia,
prese Alessandria e Vigevano, e s'impadronì della Lomellina. Genova pure
ritornò a' Francesi, che ne affidarono il comando al maresciallo Teodoro
Trivulzio. Tutte le altre fortezze erano rimesse nelle mani di Francesco
Sforza, perché i Veneziani e gli altri collegati non avrebbero tollerato che
rimanessero in potere de' Francesi. Lautrec pose l'assedio a Pavia. Il conte
Lodovico Barbiano di Belgioioso la difendeva con diecisette bandiere d'Italiani,
ma non complete, e tutti non formavano più di mille combattenti. Lautrec
batteva la parte più forte, cioè il castello, affine di prendere
tutto in un sol colpo. I cittadini pavesi odiavano i Francesi, e combattevano
come soldati. Respinsero tre assalti con gloria, e nove insegne tolsero ai
nemici. Il conte Lodovico ne rese informato il comandante supremo don Antonio
Leyva, che governava Milano, e quello gli mandò a dire, che avendo
fine a quell'ora riportato tanto onore e gloria contra i nemici, gli pareva
ben fatto, e così lo consigliava,
anzi gli comandava, per aver lui pochissima gente in aiuto della difensione di
essa città, che vedesse col miglior modo che avesse saputo ritrovare, di
lasciare la città in preda ai nemici, uscendone lui con la sua gente a
salvamento; suadendoli ancor questo per il meglio con questa ragione, che,
saccheggiando i nemici la città di Pavia, si sarebbero poi la maggior
parte di loro dispersi con li bottini fatti in essa città, andando alle
loro patrie ricchi, laonde non si sarebbero poi fatto stima di ritornar
più al soldo de' Francesi, di modo che esso Lotrecco, ritrovandosi poi
per detta causa con niuno ovver pochissimo esercito, sarebbe stato sforzato a
lasciar l'impresa di gire a Napoli, come aveva supposto, la qual era di
più importanza e di maggior danno che la perdita d'essa città.
Avendo dunque avuto detto conte Barbiano detto avviso, anzi comandamento
espresso, subito ricercò di avere e così ottenne da' Francesi
salvo condotto[931].
S'impadronirono pertanto i Francesi di Pavia il giorno 5 di ottobre del 1527; e
a pretesto di espiar essi la precedente disfatta e la presa del loro re, la
città fu crudelmente posta a sacco, e poco mancò che non
rimanesse affatto distrutta. Il Lautrec il 18 ottobre abbandonò Pavia
rovinata, e lasciando Milano bloccata e mancante di viveri, s'avviò a
Piacenza, dove aggiunti alla Lega i duchi di Ferrara e di Mantova,
proseguì la sua marcia alla vôlta di Napoli. Giovandosi il Leyva della
partenza di Lautrec, uscì da Milano, respinse alcuni corpi nemici e
s'impossessò di Novara, scacciandone il presidio sforzesco coll'aiuto di
Filippo Torniello.
L'unico vantaggio che risultò da
questi alternanti successi furono le trattative di pace intraprese tra
l'imperatore Carlo V e Francesco I re di Francia. Ma sì bella speranza
si dileguò quasi appena mostratasi; tantoché nel giorno 25 di gennaio
del 1528 gli ambasciatori della Francia intimarono in nome della Lega nuova
guerra all'imperatore, e si riaprì più terribile che mai questo
marziale teatro, specialmente ad esterminio della misera Lombardia.
L'imperatore, vedendo il re di Francia mancare francamente alle promesse e ai
giuramenti, prese il ministro francese da solo a solo in Granata, e dissegli: Dica
al suo re, ch'egli manca alla parola che mi ha data a Madrid, e pubblicamente e
da solo; ch'egli non opera rettamente, né da un uomo bennato; e se lo nega, mi
esibisco di provare in persona a lui la verità, e terminare la
controversia col duello. Questa commissione diè luogo alla missione
di due famose lettere tra i due sovrani, che ci furono conservate dallo storico
Sepulveda[932].
Sentivano più che
Mentre le cose nel Milanese erano
giunte a questo estremo, e i Francesi facevano progressi nel regno di Napoli,
il Lautrec morì colà di malattia il 7 agosto del 1528. Gli
successe monsignor Vaudemont, che presto egli pure morì, e rimase a
comandare l'armata francese nel regno il marchese di Saluzzo, dove per i
Cesarei comandava il principe d'Orange. Ma dopo tante speranze di conquistare
quel regno, le forze galliche, diradate prima dalla pestilenza, furono
annichilate vicino ad Aversa il 28 agosto; tutta l'armata si rese a
discrezione, ed i soldati vennero lasciati in libertà con un giubbone ed
un bastone bianco in mano[935].
Frattanto un altro corpo di Francesi, comandati dal conte di San Pol, entra in
Lombardia, prende Sant'Angelo, Marignano, Vigevano, ricupera Pavia, e si
presenta a Milano. Ma il pericolo di perder Genova fece sì che i
Francesi colà celeremente si trasferissero. Genova, col l'aiuto dell'immortale
Andrea Doria, scosse ogni giogo straniero, e soppresse lo spirito di fazione in
guisa che non vi rimase più dopo quell'epoca vestigio alcuno de' Guelfi
e Ghibellini, né degli Adorni e dei Fregosi. Si riconciliarono le famiglie, si
formò un sistema politico, cioè un determinato corpo presso di
cui risiedesse la sovranità, si stabilì il numero delle cariche e
l'autorità di ciascuna, e il metodo delle elezioni. Tuttociò fu
per opera di Andrea Doria, che ricusò ogni carica. (1529) Da quel punto
Genova diventò libera e repubblica, e i Francesi la perdettero per
sempre. Il conte di San Pol, di ritorno dalla infausta spedizione di Genova,
ridusse il Leyva alle sole città di Milano e Como; il rimanente non era
più dell'imperatore. Leyva coglie il momento in cui il conte di San Pol
coi Francesi era a Landriano, avendo staccato una parte de' suoi; lo batte, lo
prende prigioniero coll'artiglieria e tutte le bagaglie; i Francesi furono
totalmente disfatti[936].
Il Leyva era tormentato dalla podagra, ed era portato sopra una sedia da
quattro uomini.
Ancora una buona parte del Milanese
rimaneva a Francesco II, acquistata da' Francesi e da' collegati, onde facea
duopo tuttavia di una seria guerra per ispossessarnelo. Carlo V colse il punto
che i Francesi erano stati disfatti nel regno di Napoli e nel Milanese, per far
pace e lega col papa, e si dispose a comparire nell'Italia da pacificatore e da
gran monarca, generoso e moderato. Egli concesse Margherita d'Austria, sua
figlia naturale, nata da Margherita Van-Gest, fiamminga, in moglie ad
Alessandro Medici, figlio naturale di Lorenzo II, e cugino di Clemente VII, il
qual papa era pure figlio naturale di Giuliano de' Medici. Per tal modo il papa
assicurò la sovranità di Firenze alla sua famiglia. Fra gli altri
patti vi fu quello per cui il papa obbligò il Milanese a comprare il
sale di Cervia. Rispetto allo Sforza si stabilì che l'imperatore avrebbe
giudidicato della di lui condotta, e se fosse trovato innocente, si sarebbe
restituito a lui il ducato; se fellone, se ne sarebbe investita persona
benevisa al papa. Con tai riguardi cercò d'indennizzarlo de' mali
cagionatigli dal duca Borbone. Il trattato venne solennemente pubblicato in
Barcellona il 29 giugno del 1529. Poi il 5 di agosto dell'anno medesimo fu
segnata a Cambrai la pace fra l'imperatore e il re di Francia, per cui questi
riebbe i figli suoi ch'erano in ostaggio in Ipagna, e cedette ogni ragione sul
ducato di Milano.
Disposte così le cose a
diffondere la sospirata pace per tutte le contrade d'Italia, fu trascelta la
città di Bologna, dove Carlo V avesse a ricevere di mano del pontefice
la corona imperiale. Verso la metà d'agosto navigò egli da
Barcellona a Genova con mille cavalli e novemila fanti, condotti seco per mare su
ventotto galee, sessanta barche e molti altri navigli. Il papa spedì
colà tre cardinali legati, Alessandro Farnese, che poi fu suo successore
nel papato, Francesco Quignone, spagnuolo, e Ippolito Medici. Cesare, pochi
giorni dopo, passò a Piacenza. Antonio de Leyva vi fu ben accolto dal
suo sovrano, né gli fu difficile di ottenere l'assenso di riprender Pavia; cosa
che gli premeva assaissimo per suo privato interesse. Ritornato in seguito il
Leyva al governo del Milanese, guidò le sue genti alla conquista di
Pavia, che presto riebbe e senza sangue, atteso che Annibale Picenardo,
comandante di quella città, disperando di poterla difendere
dall'aggressione de' Cesariani, la cedette loro senza grande resistenza[937].
Prima di conchiudere questo capitolo
giova di riferire il seguente fatto, narrato dal Grumello[938],
e che potrebbe servire di argomento per una tragedia. Un mercante, nativo di
Casale Monferrato, chiamato Scapardone, da povero diventò padrone di
più di centomila scudi. Allora lo scudo era mezza doppia, e anche da
ciò si vede qual messe si raccoglieva allora nel commercio. Morì
questo ricco mercante, lasciando un'unica sua figlia erede. Questa era una
giovine molto bella e ancora più gentile, graziosa e amabile. Fu
maritata in Milano al signor Ermes Visconti, nobilissimo e ricchissimo, che la
lasciò giovine e vedova senza successione. Sposò poi un
Savoiardo, monsieur di Celan, uomo degno e benestante; ed essa, dopo qualche
tempo, fuggì dal marito e portò seco gioie e denari. Si
recò a Pavia e abitò in casa d'Ascanio Lonate, suo parente, ed
era in Pavia corteggiata da ogni ceto di persone. Passò indi a Milano.
Il signor di Massino, che era venuto dalla Spagna col duca di Borbone, amava
madama di Celan; il conte di Gaiazzo era pure nel novero dei suoi adoratori, e
quest'ultimo era preferito; per lo che sdegnato, il Massino la
abbandonò, né si conteneva di sparlare di lei. Ella, di ciò
informata, determinò di vendicarsi colla di lui morte, e animò il
Gaiazzo a meritarsi sempre più l'amor suo coll'eseguirla. L'amante non
si oppose, temporeggiò, lasciava sperare, ma non volle eseguire il
delitto. La Celan, doppiamente sdegnata, cercò di mettere la bellezza a
prezzo di un omicidio, e don Pedro de Cardona, figlio del conte di Collisan,
giovine valente, accettò il crudel partito e uccise Massino. Il duca di
Borbone volle che non rimanesse impunito l'atroce fatto. Madama di Celan fu
imprigionata nel castello, regolamente processata e conosciuta rea; una sera il
capitano di giustizia andò in Castello con un sacerdote e due monache,
le annunziò la morte; essa chiese se con denari si potesse salvarla, e
le fu risposto che tutto l'oro del mondo non lo poteva. Le fu troncata la testa
sul rivellino del castello, indi nella chiesa di San Francesco stette esposta,
e pareva che fosse viva. Svegliò molta compassione.
Nuovo congresso di Bologna.
Matrimonio del duca Francesco II, e sua
morte, per cui cessa la linea sforzesca.
Eccoci, dopo tanti disastri, ad
un'epoca apportatrice di pace alla desolata Italia, e ridente foriera di
più tranquilli tempi per la nostra patria. Questa è il congresso
apertosi in Bologna tra il pontefice e Carlo V. Recossi pertanto a Bologna sul
finire di ottobre Clemente VII, col collegio de' cardinali, affine di
maggiormente condecorare la solennità del congresso, e di assistere in
seguito all'incoronazione dell'imperatore; e nel dì 5 novembre vi entrò
l'imperatore Carlo V. Prese egli alloggio nel palazzo del legato, dove abitava
il pontefice. Francesco II Sforza, duca di Milano (cui quest'anno medesimo era
mancato il fratello Massimiliano, morto in Parigi in età di anni
trentanove), da Cremona, ove soggiornava, giunse egli pure in Bologna il giorno
22 di novembre, sì mal concio di salute, che destava compassione in chi
lo vedeva. Presentossi il duca all'imperatore, e modestamente restituì a
Carlo V il salvo condotto che gli aveva spedito, nobilmente dichiarando che
egli non cercava miglior sicurezza che l'equità di Cesare e l'innocenza
sua. Fece cadere ogni colpa sul morto marchese di Pescara. Carlo V amava di
rendere fausta questa solennità, e farne l'epoca della pace d'Italia. Il
papa, i Veneziani lo persuadevano a ciò. Il solo Antonio de Leyva
incessantemente ne sconsigliava l'imperatore. Il Leyva poteva tutto nel
Milanese finché duravano le ostilità; cedendolo al duca Francesco, era
terminato il potere. Inoltre, dopo molti anni di condotta ostile, era il Leyva
male animato contro lo Sforza, e fors'anco gli era insopportabile il duca, non
pel male che ne avesse ricevuto, ma pel gran male che sapeva di avergli fatto;
il che rende assai più difficile una sincera riconciliazione. Il
Sepulveda espone tutti gli argomenti del Leyva per distogliere l'imperatore
dalla pace[939].
Mentre questi alti affari si trattavano
in Bologna, il celebre Girolamo Morone, essendo passato in Toscana onde unirsi
coll'esercito pontificio alla spedizione di Firenze in favore dei Medici,
cessò di vivere in San Casciano, il giorno 15 dicembre, in età di
anni cinquantanove. Egli fu onorato dal duca Massimiliano del titolo di conte
di Lecco. Fu commissario generale dell'esercito cesareo in Italia, creato da
Carlo V. Fu ambasciatore a Leone X e a Clemente VII, il quale promosse il di
lui figlio Giovanni al vescovado di Modena. Era uomo di molto ingegno, ed
elegante scrittore latino.[940]
Non ostante la pertinace opposizione
del Leyva, dopo lunghe discussioni, fu la pace conchiusa il 23 dicembre del
1529 tra l'imperatore Carlo V, il
Valse finalmente a calmare le ire e
l'animosità del Leyva contro lo Sforza la munificenza di Cesare, che gli
assegnò in feudo la città di Pavia e la contea di Monza, colla
dipendenza dal duca Francesco II; donazione confermata in appresso dallo Sforza
con diploma segnato in Vigevano il 6 febbraio 1531.
Sollecitato l'imperatore Carlo V di
restituirsi in Germania, volle che seguisse la sua solenne incoronazione, uno
de' principali oggetti della sua venuta. Quindi il 24 febbraio fu incoronato
colla massima pompa in Bologna da
Terminato il congresso di Bologna, il
duca Francesco Sforza si restituì pure ne' suoi Stati, donde in
settembre si recò a Venezia per alcune pratiche tendenti a conservare il
beneficio della pace; ma ben tosto ritornò. Rivoltosi alla interiore
sistemazione dello Stato, dié nuova forma al senato, elesse abili magistrati, e
sopratutto un abilissimo capitano di giustizia, Giovanni Battista Speziano, per
opera del quale i malviventi sgombrarono le strade, e divenne sicuro il
trasporto delle derrate; il che anche contribuì a ricondurre
l'abbondanza. Ma tale era la popolazione delle terre, che dice il Burigozzo[944],
fu tanta quantità di lupi su per lo paexe, che era una cosa granda, e
fazevano tanto male in amazare persone, zoè puttini e donne, che quaxi
se temeva a andare in volta, se non erano 3 o 4 persone insema,
tanto era el terror de questi lupi; et questa non era maraviglia, perché nelle
ville erano mancade le persone. Ciò si conferma dal Bugati[945],
dicendo che que' lupi voraci fin dentro de' borghi della città
entravano... Cosa veramente crudele! imperocché queste fere per la peste et per
la guerra (nelle quali periva gente assai) tanto familiare
s'havevano fatto la carne umana, che poi non trovandone, fecero cose grandi per
divorarne, come assaltar gli uomini armati, cavar dalle culle e dalle braccia
delle madri i fanciulli, ec.
(1531) Sul principio del 1531
riuscì al duca Francesco Sforza, mediante il raddoppiamento delle
imposizioni, di pagare a Cesare la convenuta prima annata di quattrocentomila
ducati, per cui gli vennero consegnati il castello di Milano e quello di Como.
Ma quasi non bastassero all'oppressione de' sudditi gli sforzi che avea dovuto
fare il duca per approntare quel primo gravosissimo sborso, sopragiunse la
guerra della Valtellina, della quale fu cagione l'occupazione di Chiavenna
fatta da Gian Giacomo Medici, di già padrone di Musso e di Lecco.
Perciò lo Sforza fu necessitato di ricorrere a nuovi aggravii; onde,
come attesta il Burigozzo[946],
il giorno 20 giugno s'imposero alla macina soldi 50 per moggio, e
soldi 32 per ogni brenta di vino; e ciò oltre il solito tributo;
per lo che un moggio di grano per essere macinato pagava lire cinque. Questa
nuova gabella eccitò una tale turbolenza nella plebe di Cremona, che,
impugnatesi le armi, furon uccisi molti di quelli che presedevano al governo
della città. Accorsero a tempo in sussidio del castellano Paolo Lonato
alcune truppe spedite da Milano, le quali sedarono il tumulto, e col supplizio
di cinque dei più sediziosi l'ammutinamento ebbe fine. (1532) Ma
non così presto cedette il Medici alle sue usurpazioni, mentre poté
resistere valorosamente per più mesi; e finalmente dopo l'uccisione di
Gabriele suo fratello, e di Luigi Borserio, che comandava le sue navi armate,
ottenne ancora dal debole duca il perdono di tutti i trascorsi,
trentacinquemila scudi d'oro in compenso delle fortezze che andava a cedere, e
la concessione di un feudo di non minor reddito di scudi mille: ed ebbe poi
Marignano col titolo di marchese. Dopo quest'accordo, il Medici, nel mese di
marzo 1532, si ritirò nel Vercellese. Il castello di Musso, ricovero ed
asilo del propotente Medici, fu demolito[947].
L'imperatore Carlo V, informato che
Francesco re di Francia non avea deposte le mire di riacquistare lo stato di
Milano, si determinò di ritornare in Italia per stabilirvi una lega
valevole a frenare qualunque improvviso tentativo. Appena infatti ebbe egli
liberata Vienna da una minacciosa invasione dei Turchi, giunse, per la via del
Friuli, il 7 novembre, in Mantova, dove splendidamente fu trattenuto per più
giorni dal duca Federigo. Vi accorsero sollecitamente ad ossequiare l'augusto
Carlo, oltre Alfonso duca di Ferrara, Francesco Sforza duca di Milano, il duca
di Albania, Alessandro de' Medici ed altri principi ed ambasciatori, i quali
poscia lo accompagnarono alla vôlta di Bologna, nella quale città
trovò giunto poco innanzi il pontefice. Nel nuovo congresso si
trattò infruttuosamente della convocazione di un generale concilio;
infruttuosamente pure instò Cesare che fosse data in moglie al duca di
Milano Catterina dei Medici, figlia legittima di Lorenzo il Giovane, e quindi
nipote del papa, mentre Clemente VII ricusò di aderirvi, persistendo
nelle pratiche già intraprese, e non ignote all'imperatore,
d'imparentarsi per di lei mezzo col re di Francia, dandola in isposa al duca
d'Orleans, suo secondogenito. (1533) Riuscì soltanto a
conchiudere, non ostante il dissenso de' Veneziani, la proposta lega co'
principi d'Italia, la qual fu pubblicata l'anno 1533, nel giorno 24 di
febbraio. I principali interessati in questa lega furono, oltre l'imperatore,
il sommo pontefice Clemente VII, Ferdinando re de' Romani, Francesco II Sforza
duca di Milano, Alfonso d'Este duca di Ferrara, i Genovesi, i Sanesi ed i
Lucchesi; come anco il duca di Savoia, il duca di Mantova, e tacitamente pure i
Fiorentini. Per ciascuna delle parti fu stabilito un proporzionato contributo a
mantenimento di un esercito sociale, di cui si elesse general capitano il
celebre Antonio de Leyva, fissando la sua ordinaria residenza in Milano. Pochi
giorni dopo la conclusione della lega, l'augusto Carlo, accompagnato dal duca
Francesco Sforza, visitò Milano con grande comitiva; e dopo la dimora di
quattro giorni, il 14 marzo, passò a Genova per ritornarsene nelle Spagne[948].
Quanto poco sicura fosse la fede nuovamente giurata dai collegati, è
provato dal contegno del pontefice, principale tra essi; mentre appena fu
tornato da Bologna a Roma, si determinò, senza verun riguardo
all'alta sua dignità[949],
di portarsi a Nizza, indi in Marsiglia per conferire col re Francesco I, ed ivi
conchiudere, come fece, il matrimonio di Catterina de' Medici con Enrico duca
d'Orleans, secondogenito del re. Così Clemente, bilanciandosi
accortamente fra le contese di due grandi emuli che sconvolgevano l'Europa,
senza dichiararsi amico o nemico d'alcun di loro, li faceva servire
all'ingrandimento della sua famiglia, coglieva le occasioni, non si esponeva
alle vicende, non dimenticava il sacco di Roma. Tali sono i sentimenti coi
quali termina questo punto di storia un vivente scrittore nel tomo III di un
suo inedito manoscritto, che abbiamo altrove annunciato[950].
Nel corso di quest'anno 1533 accadde in
Milano un'atrocità che non inopportunamente si vuol qui registrare. Un
gentiluomo milanese, della famiglia dei Maravigli[951],
erasi stabilito in Francia sino dal regno di Luigi XII, e vi si era arricchito
servendo quel monarca e il successore Francesco I. Egli era zio del
gran-cancelliere Francesco Taverna, cui vedemmo sostituito al Moroni. Taverna
andò per commissione in Francia; e trovandosi a Fontainebleau col re, si
concertò che questi facesse risedere in Milano un suo ministro, il che
sarebbe stato di genio del duca e di utilità al re, al quale non poteva
essere indifferente il vegliare sull'Italia. Questa proposizione piacque a
Francesco I, e, innoltrandosi per eseguirla, si conchiuse che non convenisse,
per non insospettire Carlo V, né spedire un Francese né dargli uno scoperto
carattere ministeriale. Maraviglia venne proposto, non potendo essere
misterioso il ritorno suo nella patria, e si stabilì ch'egli verrebbe
munito di doppie lettere, che le credenziali le conserverebbe secrete e
soltanto mostrabili all'occasione, e le lettere da palesarsi sarebbero di
semplice raccomandazione del re al duca. Ciò fermato, e assegnato lo
stipendio al Maraviglia, venne questi a Milano. Egli vi si presentò con
uno splendore pomposissimo. Vedevasi usare alla famigliare col duca; sempre
alla corte, sempre in sua compagnia in ogni festa o divertimento. L'imperatore
ne fu avvisato; ne chiese conto al duca, il quale, sebbene gli facesse comunicare
le lettere visibili di raccomandazione, non poté tuttavia togliergli dalla
mente il sospetto di una nuova fellonìa. Un gentiluomo di camera del
duca, della famiglia Castiglioni, vedendo il Maraviglia con sommo fasto e
corredo passare in compagnia del duca, voltosi ad un domestico del Maraviglia,
lo investì con parole insultanti il suo padrone. Nacque un alterco, e
passato che fu il duca, stavasi per venire alle mani fra i domestici d'una
parte e dell'altra. S'interposero alcuni cavalieri. Castiglione negò di
aver detta veruna ingiuria, e Maraviglia ne rimase soddisfatto. Il duca
comandò che non se ne parlasse più. Ma il Castiglione si pose a
passare più volte innanzi al palazzo del Maraviglia, accompagnato da un
branco di bravi, coll'opera dei quali una sera attaccò e pose in fuga
cinque domestici del Maraviglia. Questi ebbe ricorso al giudice, che promise
pronta giustizia, e nulla fece. Castiglione comparve nuovamente ad offendere i
domestici del Maraviglia, i quali, prevenuti e armati, si difesero, sì
che il Castiglione rimase morto sulla strada. La mattina seguente, che fu un
venerdì, giorno 4 di luglio, lo stesso giudice che non aveva voluto
prevenire il male, viene, conduce prigione il Maraviglia co' suoi, e pone i
domestici alla tortura senza risparmiar nemmeno un povero vecchio sordo, di
ottant'anni. La domenica notte va il giudice dal Maraviglia, gli fa troncar la
testa nel carcere, e fa esporre il di lui corpo il lunedì mattina 7
luglio sulla pubblica piazza. Un parente del Maraviglia corre in Francia, ed avvisa
il re dell'insulto fattogli nel suo ministro. Sembra che il duca, sempre sotto
gli occhi e la sorveglianza di Antonio de Leyva, non potesse sopportare la
meschina figura che faceva, e cercasse pure qualche mezzo per liberarsi da
sì umiliante condizione; e a ciò debba attribuirsi la brama di
avere un ministro del re di Francia, col quale all'occasione prendere un
concerto; ma inopportunamente svelatasi la cosa, siasi il duca ridotto al
miserabile partito di tradire atrocemente il dovere più sacro affine di
disarmare lo sdegno dell'imperatore[952].
In fatti Francesco I ne fece altissime querele presso tutte le corti d'Europa,
e Carlo V, contento della condotta dello Sforza, decise di stringere seco lui
parentado con dargli una sua nipote in isposa.
Le nozze del nostro duca erano
desiderate, per opposti interessi, da tutti i membri della lega: dai principi
italiani, perché il ducato non ricadesse al fisco imperiale, come avrebbe
dovuto per i patti dell'investitura quando fosse morto il duca senza
successione maschile; da Carlo V per rendersi più dipendente lo Sforza,
e per isventare i disegni del re di Francia, in cui scorgeva non per anco
deposto il pensiero di appropriarsi quello Stato. Parve a Cesare opportuno a
tal uopo il matrimonio di Cristina o Cristierna, figlia del re Cristierno II di
Danimarca e di Elisabetta d'Austria, e perciò nipote di Carlo V,
fratello di Elisabetta. Le nozze, appena proposte, furono conchiuse; e il conte
Massimiliano Stampa fu spedito da Francesco Sforza a Brusselles ad isposare in
suo nome
Al volgere di quest'anno avvenne la
morte del
Al conte Massimiliano Stampa,
castellano del castello di Milano, fu dato l'incarico delle disposizioni per le
solenni esequie del defunto duca Francesco; e a cagione degli apparati da farsi
nella metropolitana fu mestieri il differirle sino al 19 di novembre stesso.
Intanto il cadavero dello Sforza, chiuso in una cassa coperta di velluto nero,
fu, di notte, trasportato dal castello al Duomo, coll'accompagnamento di tutto
il clero metropolitano, e riposto in luogo appartato finché fossero celebrati i
solenni suffragi; dopo de' quali il di lui sarcofago, ornato alla ducale, venne
collocato nella metropolitana suddetta nel sito dov'era quello di Gastone di
Foix, vale a dire fra i pensili avelli de' duchi suoi predecessori. Per dare
un'idea del costume di que' tempi anche nelle pompe funebri, penso che non
sarà discaro il leggere qui l'esatta descrizione del funebre trasporto del
duca Francesco Sforza, stesa dal nostro Burigozzo[959].
Circa questo tempo ebbero origine o
incremento varie religiose instituzioni nella nostra città. Certo frate
Bono di Cremona, dopo di avere introdotte le orazioni delle Quarant'Ore, diede
principio allo stabilimento del ricovero delle donne convertite, detto di Santa
Valeria, col mezzo di questue da lui fatte. Dipoi l'autorità pubblica se
ne ingerì improvvidamente, e si ha memoria di un decreto del senato
dell'anno 1561, prescrivente che, se una convertita di Santa Valeria fuggisse
ovvero tentasse di fuggire, dovesse quella essere bollata in fronte con un
ferro infuocato[960].
Cominciarono pure a farsi maggiormente conoscere i nuovi Cherici regolari,
instituiti verso il 1526, e che dal ricovero di San Barnaba, stato loro
concesso nel 1538, si dissero poi Barnabiti[961];
ed inoltre una nuova associazione di zitelle, che si chiamavano Dimesse, e
furon dette in seguito le Angeliche. Il Burigozzo così ne scrive[962]:
Si vedono certi preti con abito abietto, con una berretta tonda in testa, e
tutti senza capelli e tutti vestiti a un modo, vanno con la testa bassa et
habitano tutti insema verso Sant'Ambrosio (loro primo ricetto), e
lì dicono che fanno li suoi offizi, e lì viveno de compagnia, e
sono tutti gioveni. Poi un'altra compagnia de giovinette, qual ghe dicono
Dimesse, vanno alla cerca certi dì della septimana a certi suoi lochi,
et vanno mal vestite, con un patelazzo di lino in testa, la testa bassa,
serrate dinanzi sino sotto la gola, senza ornamento nessuno; attorno vanno per
Milano 4 e 6 alla volta, però con una compagnia di una o
do vegette dredo, et vanno con el volto descoperto: e queste tal compagnie
sì de preti sì de queste putte, pare che sia capo una contessa,
qual ghe dicono la contessa de Guastalla. Infatti la contessa di Guastalla
Lodovica Torella beneficò largamente i Barnabiti, fece fabbricare colla
spesa di ottantamila scudi d'oro l'insigne monastero di San Paolo per le sue
Dimesse, che cominciarono ad abitarvi nel 1535[963],
e diciotto anni dopo si ridussero a clausura con disgusto della fondatrice; e
successivamente fondò, nel 1542, il monastero del Crocifisso per le
Convertite, e nel 1557 il collegio per l'educazione di nobili povere fanciulle,
detto della Guastalla, dallo Stato di questo nome ch'essa avea ereditato dal
suo padre Achille Torello, e che vendette al principe don Ferrante Gonzaga per
convertirne il prezzo in siffatte pie beneficenze.
Congresso di Nizza, pace di Crespy,
morte del duca d'Orleans, dichiarato da Cesare duca di Milano
(1535) Dopo la morte del duca Francesco
II Sforza, Giovanni Paolo Sforza, marchese di Caravaggio, figlio naturale del
duca Lodovico e fratello del duca defunto, consigliato da molti amici,
cavalcò per le poste alla vôlta di Roma, affine di impegnare il papa
presso Cesare ed ottenerne il ducato di Milano. Il diritto di successione avea
in esso minori ostacoli di quello che allegò in suo favore il primo
Sforza, di essere cioè marito di una figlia naturale di Filippo Maria
Visconti. Ma il marchese di Caravaggio era in tutto sfornito dell'alto presidio
della gloria militare di Francesco Sforza. Ben è vero che gl'interessi
del pontefice, de' Veneziani e de' Toscani consigliavano di dar opera che il
ducato di Milano non cadesse nel dominio di Cesare, già sovrano del
regno di Napoli, e di tant'altra parte del mondo. La Francia avrebbe forse
appoggiata una tal successione, disperando di avere per sé il Milanese; ma
passando (Giampaolo) gli Appenini, fu assalito da un velenoso flusso,
che gli tolse la vita[964].
Il conte Massimiliano Stampa, castellano, fu spedito con altri deputati
all'imperatore, affine di riconoscerlo a nome della città e dello Stato
per loro sovrano, sì per le ragioni dell'Impero, come per commissione
del defunto duca. Cesare benignamente li accolse; diede il marchesato di
Soncino al conte Stampa, lo confermò castellano, e dichiarò il
principe d'Ascoli Antonio da Leyva suo luogotenente e governatore generale del
Milanese. Questo cesareo rescritto giunse in Milano il 27 novembre 1535.
In quel torno di tempo era approdato a
Napoli l'imperatore dopo la gloriosa impresa di Tunisi, in cui vinse
Barbarossa, terrore del Mediterraneo, e ripose sul trono Muley Assan, che
Barbarossa avea deposto per regnare in sua vece. Presso di Carlo V era
ambasciatore di Francia il signor di Velly, il quale, spenta che fu la linea
de' Sforzeschi, intraprese a negoziare coll'imperatore, acciocché investisse
del ducato di Milano il figlio secondogenito del re Francesco I, duca
d'Orleans, discendente dalla Valentina dal lato della regina Claudia, sua madre
e figlia di Lodovico XII. Chiedendosi il ducato per il duca d'Orleans non si
destava inquietudine tra' principi italiani, i quali si sarebbero sgomentati
invece se chiedendosi pel delfino, si riunisse al regno di Francia. Il duca
d'Orleans avea sposata Catterina de' Medici, unica legittima di quella
famiglia. Il re proponeva che rinunzierebbe alle sue ragioni sopra la Toscana e
il ducato d'Urbino. Carlo V tenne accortamente a bada il progetto: più
volte sembrò giunto il momento per concludere, ma nascevano poi nuove
difficoltà. Ora voleva far duca di Milano il terzogenito del re, duca
d'Angoulême, e il re non voleva far torto al secondo. L'imperatore
insisteva sul pericolo che, morendo il delfino, il Milanese s'incorporasse alla
corona di Francia, cedeva finalmente e s'accontentava del duca d'Orleans, a
condizione che Francesco I facesse ritornare nella Chiesa cattolica Enrico VII,
re d'Inghilterra, poi che rinunziasse ad ogni pretensione come successore della
Valentina, e puramente riconoscesse il ducato dalla investitura imperiale.
Inoltre Carlo V pose in campo il re di Portogallo Giovanni III, suo cognato, a
chiedere il ducato di Milano per l'infante don Luigi suo fratello. Insomma
quando pareva che mancasse un filo al compimento, destramente nasceva un motivo
impensato di nuova trattativa. Si voleva che Francesco I rompesse il matrimonio
progettato fra una principessa della casa di Vandome ed il re di Scozia,
dandogli in di lei vece la duchessa vedova di Milano, nipote di Carlo V. Il
minuto racconto di questi raggiri si può leggere nelle Memorie di Langey[965],
che vi ebbe parte, e sopratutto Gaillard[966].
Francesco I frattanto, cui adombrava l'irresoluzione
di Carlo V, ed anche per vendicare l'affronto fattogli nella persona del
Maraviglia, sul cadere del 1535 trovò maniera di aprire la strada alla
spedizione delle sue armate in Lombardia. (1536) Nel mese di marzo del
Antonio de Leyva, che stava al governo
dello stato di Milano, veggendo i rapidi progressi dell'esercito francese,
radunate quante milizie gli fu possibile, accorse, ai 30 di marzo, ad impedire
ai nemici ogni avanzamento, e pose un buon presidio in Vercelli, al
mantenimento del quale fu imposta nel Milanese una taglia sopra la macina e il
sale, limitata poi per convenzione in seimila ducati al mese[969];
cosicché i Francesi, per le difficoltà di ulteriori progressi,
ritrocedettero, fermo restando il campo cesareo in que' contorni. Il deciso
contegno del Leyva lasciò il comodo alla riunione dei rinforzi
imperiali, che l'imperatore, irritato, volle comandare in persona. Egli giunse
celeremente in Lombardia, e senza entrare in Milano, portossi da Pavia in Asti
per vegliare dappresso i Francesi. In meno di tre mesi si trovò forte di
oltre cinquantamila combattenti sotto il comando di rinomati generali, Antonio
da Leyva, Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, Don Ferrante Gonzaga viceré di
Napoli, e il duca d'Alba. Fra i principi che seguivano l'armata cesarea
contavansi i duchi di Savoia, di Baviera e di Brunswich, ai quali un accidente
fece aggiungere Francesco marchese di Saluzzo; ed eccone il come. Inteso che
ebbe il re di Francia il grosso armamento di Carlo, richiamò a sé
l'ammiraglio de Brion, per l'assenza del quale il comando delle truppe francesi
nel Piemonte rimase al marchese di Saluzzo. Il marchese si lasciò
sedurre da alcune profezie che si sparsero, le quali assicuravano che in
quell'anno il re di Francia o sarebbe preso o sarebbe ucciso. Il marchese,
persuasissimo della profezia, credette di non dover combattere per un principe
abbandonato dal cielo. L'amicizia del re, la gratitudine per l'ordine di San
Michele, di cui l'avea decorato, la confidenza d'avergli affidato il comando
del suo esercito, vennero rese inefficaci dal fanatismo per la profezia; se pur
questa non fu un pretesto. La religione guida l'uomo alla virtù; l'abuso
della religione lo conduce a soffocar la natura, a calpestare i doveri
più sacri, e per fino a perdere il rossore nel commettere il delitto.
Veggansi le memorie del Langey[970],
dalle quali anche scorgonsi i discorsi tenuti dall'autore inutilmente per disingannare
il marchese. L'imperatore si decise di portare la guerra in Francia; né valsero
a rimuoverlo da questo proponimento tutte le ragioni che gli furono opposte
concordemente da' suoi generali, tranne il Leyva, per dissuadernelo. Quindi,
dopo di aver lasciato all'assedio di Torino il marchese di Saluzzo Gian Giacomo
de' Medici, diresse Carlo V le marce in guisa, che l'armata entrò
appunto ne' confini di Francia il 25 luglio, giorno di San Giacomo, protettore
degli Spagnuoli, giorno in cui l'anno antecedente era giunto nell'Africa e
aveva cominciata l'impresa di Tunisi, gloriosamente finita poi. Ciò gli
servì mirabilmente per animare i soldati; ma il successo non corrispose
all'ardire. I Francesi devastarono la Provenza; onde Carlo V, tuttoché si
avanzasse senza contrasto, ritrovossi in paese sprovveduto di tutto. Senza dare
un battaglia, in breve cotanto esercito si ridusse alla metà. La fame,
le malattie, gli attacchi continui de' montanari avevano cagionata questa
diminuzione, senza nemmeno aver tentato l'attacco del campo francese,
trincierato verso Avignone. Tra le persone distinte morirono in Provenza di
malattia il conte Pietro Francesco Visconte, capitano de' cavalleggeri, in
età d'anni 28, il conte Pietro Francesco Borromeo, in età di anni
30, e per ultimo il fomentatore di cotesta malaugurata intrapresa, Antonio de
Leyva, che cessò di vivere in Aix di Provenza il giorno 25 settembre intollerandis
miserabilis morbi doloribus, omnibus artubus contracti et perpetuo occupatis[971],
siccome leggesi nella di lui iscrizione sepolcrale. Dovette Carlo V
abbandonar l'idea di far conquiste in Francia, ripassare le Alpi vicine al
mare, e ritornarsene con pochi soldati sani da un'impresa di nessuna gloria e
di rovina per un gran numero d'uomini. Ricondotta che ebbe la sua armata
nell'Italia, e nominato il marchese del Vasto in luogo del Leyva, l'imperatore
per mare ritornò nella Spagna. Riuscì però questa guerra
assai grave anche al re di Francia, cui costò spese immense e danni
incalcolabili, e quel che è più, l'innaspettata morte del delfino
Francesco, suo primogenito. Egli era disordinatissimo negli amori e negli
stravizzi. Era in cammino per recarsi all'armata nel più cocente della
state. Fermatosi a Tournon, dopo di aver giuocato fervorosamente alla palla,
stanco e smaniante di caldo e grondante di sudore, bebbe molta acqua fredda, e
in quattro giorni di febbre morì. Un onorato gentiluomo modonese, il conte
Sebastiano Montecuccoli, suo coppiere, venne accusato d'averlo avvelenato ad
instigazione di Antonio da Leyva e dell'imperatore; e a forza di spasimi e di
torture fu costretto a confessarsi reo, e venne squartato in Lione per sentenza
del 7 ottobre. Furono presenti a tale scempio il re Francesco I, i principi del
sangue e tutti i prelati, ambasciatori e signori[972]:
prova della rozzezza de' tempi.
(1537) Inasprito piucché
Sempre rimaneva sospesa l'investitura
del Milanese non ricusata mai, né mai decisamente concessa al figlio
secondogenito del re Francesco. (1540) Quando, giunta a Madrid l'infausta
notizia della sollevazione di Gand, Carlo V, per trasferirsi più
sollecitamente nelle Fiandre, pensò di attraversare la Francia, e
Francesco I nel compiaque. Nella breve dimora che fece l'imperatore in Parigi
diede al re nuova lusinga, pacificato il Brabante, di conferire al duca
d'Orleans il ducato di Milano; ma appena ebbe repressa e punita la ribellione
de' Gantesi, ne investì il proprio figlio don Filippo, sebbene ancor
pupillo, con solenne atto segnato in Brusselles gli 11 di ottobre[976].
Questa dissimulazione accrebbe il torto dell'imperatore nell'animo di Francesco
I, il quale grandemente s'irritò di nuovo per il fatto seguente. (1541)
Durante la tregua, essendo tuttora al governo dello stato di Milano il marchese
del Vasto, e comandando a' Francesi nel Piemonte il Langei, il re di Francia
spedì due ambasciatori, uno a Venezia, e fu Cesare Fregoso, cavaliere
dell'ordine di San Michele e cognato del celebre Rangoni; l'altro a
Costantinopoli a Solimano II, e fu Antonio Rincon, gentiluomo ordinario di
camera del re. Questi, attraversando sul Po il Milanese vicino allo sbocco del
Ticino nel Po, furono assaliti da due barche cariche di armati e massacrati.
Tutti i barcaiuoli vennero posti nelle secrete carceri di Pavia. Langei, che
avea resi avvertiti gli ambasciatori delle insidie, e invano cercato di far
loro prendere più sicura strada, aveva avuto la precauzione di farsi
consegnare le loro carte per non avventurare il segreto dello Stato, le quali
carte avrebbe spedite loro, poiché fossero giunti a Venezia. Malgrado la
politica del marchese del Vasto, Langei trovò mezzo di formalmente e per
processo fare constare la perfida azione eseguita per ordine del marchese, il
quale cercava di avere le carte. Ciò attestarono alcuni domestici degli
ambasciatori che poterono salvarsi, e particolarmente i navicellai che, per
opera del Langei, fuggirono e vennero da lui. Questo fatto diede l'ultimo
impulso al re Francesco I per ricominciare le ostilità sospese dalla
tregua di dieci anni, la quale avrebbe dovuto durare fino al 1548. Verso questo
tempo, determinatosi l'imperatore di portar la guerra in Algeri, divenuto, dopo
la conquista di Tunisi, il ricovero de' corsari, calò di nuovo in
Italia, e, corteggiato dal marchese del Vasto, da Ercole II duca di Ferrara, da
Ottavio Farnese duca di Camerino, dal duca Francesco di Mantova e dal cardinale
Ercole, di lui zio, entrò in Milano il 22 agosto 1541, frammezzo ad un
grande sfoggio di apparati. Fu attribuito a modestia di lui il costume della
sua nazione, essendo stato veduto entrare sotto baldacchino a cavallo,
vestito de panno nero, con un cappelletto de feltro in testa[977].
In questo tempo trovandosi compite e approvate dal senato le Nuove
Costituzioni per il dominio milanese, opera incominciata sotto il duca
Francesco II, furono presentate all'imperatore, che le sancì con diploma
del 27 agosto, e vennero poi pubblicate dal governatore del Vasto il 5 del
seguente ottobre. Partito due giorni dopo, ebbe un abboccamento a Lucca col
pontefice Paolo III, che fu sterile d'effetto; indi si affrettò, guidato
dalla sua mala fortuna, ai lidi africani; imperocché, sconfitto sotto Algeri
dai Barbareschi, e battuto in mare dalla tempesta, approdò assai
malconcio il 3 dicembre a Cartagena.
Il re di Francia Francesco I,
giovandosi dei recenti disastri sofferti da Cesare, pubblicata una
dichiarazione di guerra il 10 luglio del 1542, strinse lega con Solimano, gran
signore de' Turchi, e fece ricominciare le ostilità nel Piemonte, dove
il marchese del Vasto era alla testa degl'Imperiali, e il Langei de' Francesi,
in potere dei quali era Torino. Continui furono gli attacchi, e, come suole
nelle ordinarie fazioni di guerra, alterni i successi. Ma divenuto paralitico
il Langei, sottentrò al comando de' Francesi D'Annebaut, che poco dopo
fu supplito da Boutieres, e questi dal conte d'Enghien. (1543) Nell'estate del
1543 Carlo V visitò ancora l'Italia di passaggio per la Germania, e il
22 giugno ebbe una nuova conferenza col papa in Busseto sul Po. In quel breve
congresso l'ambizioso pontefice cercò di far concorrere i bisogni di
Cesare ai vantaggi della propria casa, interessando per fino le lagrime della
figlia di Carlo V,
Da queste alternative vicende dei due
monarchi belligeranti eccitato, Paolo III rivolse piucché mai le sue premure a
tentar nuovi progetti di una stabile pace, unico rimedio alle universali
sciagure. A tal fine lo zelante pontefice inviò due legati, cioè
il cardinale Giovanni Morone all'imperatore, e il cardinale Marino Grimani al
re cristianissimo. L'opera loro, secondata da personaggi distintissimi,
sì ecclesiastici che secolari, ottenne questa volta il bramato intento;
di modo che nel giorno 18 settembre del
Fin dal 1543 avea il sovrano approvate
due istituzioni non meno utili al regio erario, che al buon ordine
dell'amministrazione; e in conseguenza profittevoli ai contribuenti. Fu la
prima l'erezione della congregazione dello Stato, composta del vicario di
provvisione della città di Milano e dei rappresentanti, ossia oratori e
sindaci delle altre città del ducato[979].
Questa magistratura avea l'incarico di presiedere allo stabilimento delle
imposizioni, e di curare l'interesse de' pubblici, e non fu abolita che dopo
duecentoquarantatre anni, nel
Il 13 dicembre 1545 si aperse il concilio
di Trento, che durò tredici anni, essendo terminato nel 1593.
(1546) La tanto sospirata pace non fu
di alcun sollievo allo stato di Milano, mentre non cessavano le eccessive
contribuzioni imposte dal marchese del Vasto, per le quali innoltrarono i
Milanesi fino al trono le loro doglianze. Il marchese corse per giustificarsi
in Ispagna, ma ebbe ordine di tosto restituirsi in Italia per subire il
sindacato della sua condotta. Logorato però da un'interna febbre, appena
fu giunto a Vigevano, vi morì verso gli ultimi giorni di marzo, dopo un
governo di nove anni. Gli succedette don Ferrante Gonzaga, vicerè di
Sicilia e zio del duca di Mantova. Fu questi un signore colto e buono,
attentissimo al suo ufficio, di facili maniere[982].
Egli fece costruire le nuove mura che tuttora circondano la città, e che
furono terminate nel 1555[983].
Atteso la morte del duca d'Orleans
trovandosi ancora libera la successione nel dominio dello stato di Milano,
l'imperatore Carlo V ne dispose nuovamente in favore di suo figlio il principe
don Filippo. L'investitura è in data di Ratisbona il 5 luglio 1546, e
con successivo atto 12 dicembre 1549, detto la Bolla d'oro, venne poi fissato
l'ordine della successione[984].
(1547) Circa questo tempo fu liberato l'augusto Carlo del suo maggior nemico,
il re di Francia Francesco I, reso a stento placabile dal peso dell'età,
fatto maggiore per le malattie; il quale morì il 31 marzo del 1547. Ma
non perciò mancarono occasioni e attori per nuove guerre, ed una
impensata ne sorse a motivo dell'occupazione di Piacenza fatta dalle truppe
cesaree il 12 settembre, appena due giorni dopo la tragica morte del duca Pier
Luigi Farnese. Imperciocché il
(1548) I Milanesi, pressoché oppressi
dalle imposizioni straordinarie occorrenti per il comandato ristauro delle
fortezze ed altri apparecchi di difesa, ebbero occasione di rallegramento a un
tempo e di maggiori dispendi per la notizia avuta che il loro principe don
Filippo era partito dalla Spagna onde recarsi a visitare i suoi stati d'Italia.
Il governatore Gonzaga si accinse tosto alle disposizioni per il solenne suo
ricevimento. Formò parte di queste l'abbellimento della città.
Allora si vide ampliata la piazza maggiore colla demolizione dell'antica e
cadente chiesa di Santa Tecla; si videro riattate le strade, atterrate le
logge, i verroni, i palchi e tetti che ingombravano Milano, e impedivano la
vista delle contrade. In tale occasione, dice il Bugati[985],
fu in grandissimo pericolo di esser gettata a terra quella bellissima
anticaglia della colonnata del tempio di San Lorenzo[986]:
il che era un troppo errore, anzi fallo mortale; conciossiaché se i grandi
uomini, di elevato spirito, spendono le migliaia di scudi per una statua
antica, e per un capo solo, ritratto di un qualche Divo o Diva, le centinaia,
questa sì ampia di marmo, non solamente non meritava ruina, ma di esser
conservata in piedi fino ad una scaglia, ancorché sin qui non vegga animo
eroico che, cadendo, la repari, né del proprio né del comune, come né anco
molt'altre anticaglie degne di memorie e di ristoro nella città, delle
quali non s'ha considerazione per una ignobilità troppo vergognosa.
Tuttavia, avvertito di questo fatto il Gonzaga, lasciolla, anzi adornolla
questa colonnata in loggia d'arco e d'uno portico molto superbo, pel quale
passò il re Filippo poi. Dopo ventidue giorni di navigazione,
don Filippo d'Austria, duca di Milano, sbarcò in Genova il 22 novembre,
e in principio del successivo mese fece la sua solenne entrata nella nostra
città. Maravigliose e veramente reali furono per l'invenzione, la
varietà e la magnificenza le feste date al real principe. Egli
partì da Milano il giorno 8 gennaio 1549, e passando per Cremona,
Mantova e Trento s'incamminò verso Brusselles, dove trovavasi
l'imperatore suo padre.
(1550) Il cardinal del Monte era
succeduto, col nome di Giulio III, nel papato a Paolo III, che morì di
ottantadue anni. (1551) La lega stretta dal suo successore col re di Francia fu
confermata dal duca Ottavio Farnese; e non sussistendo più i medesimi
interessi, il nuovo papa si collegò invece coll'imperatore contro il
Farnese e la Francia, per cui il governatore don Ferrante Gonzaga non fu tardo
ad occupare Brescello e Colorno, ed investire Parma colle truppe cesaree.
Così fu rinnovata la guerra, alla quale pure diedero principio i
Francesi coll'avere spedito in Piemonte un grosso corpo d'armata, comandato dal
signor di Brissac, e il riacceso incendio si estese in Toscana, in Germania e
in Ungheria. (1552) La scarsezza delle truppe nel Milanese pose eziandio in
prossimo pericolo gl'Imperiali, sull'entrare dell'agosto nel 1552, di essere,
per sorpresa dei Francesi, cacciati dal castello di Milano. L'affare
seguì in questo modo[987].
Lodovico Biraga, milanese, al servizio di Francia, uomo assai intraprendente e
voglioso di celebrità, e che per varie segnalate imprese erasi distinto
nel Piemonte, seppe che il castello di Milano era mal custodito dalle guardie.
Accertatosi col mezzo di fidi esploratori della verità del fatto, si
pose in animo di sorprendere quel forte; quindi tratto al suo partito un certo
Giorgio Senese, soldato arditissimo, che dimorava in Milano e che colle sue
accorte maniere erasi procacciata la confidenza di molte famiglie nobili, e
segnatamente di Giovanni de Luna, castellano del forte, nel quale giorno e
notte entrava ed usciva solo senza alcun ostacolo, commise il Biraga a questi
l'esecuzione dell'impresa. Era il disegno di scalare con sufficiente numero
d'armati uno sperone di esso castello, di uccidere la sentinella e il
castellano, e, superato il corpo di guardia, calar il ponte onde introdurvi
altri appostati soccorsi. Premesse in fatti alcune squadre scelte e coraggiose,
venne il Biraga con altri prodi armati clandestinamente dal Piemonte per la via
degli Svizzeri, ed appiattatosi in città, aspettava l'avviso dell'esito
dell'impresa. Entrò frattanto il Senese colle sue genti nel buio della
notte nella fossa del castello, ed appoggiate le scale alle mura, trovaronsi
corte al montarle; laonde insorto non so qual bisbiglio negli aggressori,
questo fece sì che per la confusione e il sospetto d'essere sorpresi, si
diedero subitamente alla fuga. Le scale ivi abbandonate porsero indizio della
trama: Giorgio Senese venne carcerato, e previo processo fattogli da Niccolò
Secco, capitano di giustizia, fu squartato vivo. Salvaronsi gli altri, uscendo
precipitosamente dai confini dello Stato; e Lodovico Biraga, termina il
Bugati, fu gridato ribelle della patria per commission di Cesare e
del senato.
È nella natura de' popoli l'attribuire
al ministro presente la colpa delle soverchie imposizioni, o comandate dal
lontano padrone, o rese necessarie dalle difficoltà de' tempi. (1554)
Perciò i Milanesi si associarono al castellano Giovanni de Luna, ch'era
mosso da altri fini di rivalità e di ambizione, e di concerto con esso
innoltrarono al sovrano forti rimostranze contro il governo del Gonzaga. Fu
questi chiamato in Ispagna a giustificarsi, e durante la di lui assenza furono
severamente sindacati in Milano tutti gli atti della sua amministrazione. Venne
dichiarato innocente, ebbe dall'imperatore premii e distinzioni; ma non fu
repristinato nel suo governo. Egli si ritirò a menare vita privata in
Mantova, e passò poscia a Brusselles, dove morì il 15 novembre
del 1557.
Il fiero turbine di guerra, da cui era
percossa o minacciata nelle varie sue parti la vasta monarchia spagnuola,
influì ad accelerare l'eseguimento della magnanima risoluzione che
l'augusto Carlo andava da qualche tempo volgendo nell'animo, di alleggerirsi
del peso di tanti regni. Quindi, nel corrente anno 1544, rinunciò a
favore del figlio Filippo II gli stati d'Olanda e dei Paesi Bassi, il regno di
Napoli e il ducato di Milano, per cui nell'ottobre dello stesso anno fu spedito
a Milano don Luigi di Cardona per ricevere il giuramento di fedeltà al
nuovo sovrano. (1555) La guerra co' Francesi nel Piemonte proseguiva alternata
da reciproci vantaggi e perdite; ma nel 1555 la fortuna si mostrò
più volte contraria agl'Imperiali; né valse l'avere richiamato dalla
Toscana il famoso Gian Giacomo de' Medici, marchese di Marignano, per porlo
alla testa dell'esercito, poiché verso gli 8 novembre cessò di vivere in
Milano pochi giorni dopo il di lui arrivo[988].
Egli conseguì poscia l'onore di un magnifico sepolcro, che gli fu fatto
erigere nel Duomo di Milano dal papa Pio IV, di lui fratello[989].
I vantaggi riportati dai Francesi non furono senza gravi sagrifizi; quindi gli
animi de' monarchi belligeranti si trovarono disposti ad accogliere le
proposizioni per un accomodamento, che loro vennero fatte di commissione del
papa dal cardinale Reginaldo Polo, arcivescovo di Cantorberì, che poco
prima avea riconciliato l'Inghilterra colla Sede Romana. (1556) Ne fu
conseguenza la tregua quinquennale conchiusa a Cambrai il 5 febbraio del 1555,
secondo l'èra fiorentina e veneta, e del 1556 secondo l'èra comune[990].
L'imperatore Carlo V colse quest'istante per compire la rinuncia al figlio
Filippo II del restante de' vasti suoi dominii insieme colla corona di Spagna e
della corona imperiale al fratello Ferdinando I, re dei Romani, d'Ungheria e di
Boemia. Quest'atto solenne fu eseguito in Brusselles, donde Carlo V si recò
per mare a Vagliadolid nel regno di Castiglia. Bastarono quattro mesi di dimora
in quella città per portare al colmo il suo disinganno delle cose
mondane, mentre gli si ritardava la corrisponsione degli appuntamenti ch'egli
s'era riservati; e rara era la concorrenza dei cortigiani, che nulla più
avevano a sperar da lui. (1558) Perciò si decise di farsi un merito
della necessità, e ritirossi nel monastero de' Girolamini di San Giusto
nell'Estremadura, ove fu talmente macerato dalla noia, che volle farsi celebrare,
lui vivo e presente, le funebri esequie, e dopo dicianove mesi di dimora in
quella monastica solitudine diede fine alla procellosa sua vita il 21 settembre
1558, avendo di poco oltrepassati gli anni cinquantotto.
I governatori spediti nel Milanese dopo
la partenza di don Ferrante Gonzaga furono don Giovanni di Figueroa, il duca
d'Alva, il cardinale Cristoforo Madruccì, principe e vescovo di Trento,
e Gonsalvo Ferrante di Cordova, duca di Sessa; ma il loro governo non
lasciò traccia che meriti una speciale ricordanza. Sotto di essi, benché
senza loro partecipazione, fu fondato nel 1559 dal conte Ambrogio Taegi il
collegio di San Simone per dodici poveri e nobili fanciulli[991];
nel 1554 furono istituite due cattedre di logica e di filosofia morale, dette
dal loro fondatore Paolo Canobbio le Scuole Canobbiane, per le
quali fu eretta un'ampia e magnifica aula, che esiste tuttora, coperta dappoi
di un'elegante cupola nel 1681[992];
e nell'anno seguente il
Verso la fine del 1550 finì i
suoi giorni in Pavia il celebre giureconsulto Andrea Alciati, non avendo
compito l'età di cinquantott'anni[994],
e fu eretto alla di lui memoria un elegante monumento di marmo, che ancora
esiste nei portici di quell'Università. Il 5 aprile del 1555 morì
in Milano Marc'Antonio Maioraggio, d'anni quarant'uno. Egli fu pubblico
professore di belle lettere, rinomato per l'eleganza del suo scriver latino.
Molte opere di lui ci rimangono in versi e in prosa. Bayle gli ha dato luogo
nel suo dizionario. Egli fu battezzato col nome di Antonio Maria, e il
cangiamento che ne fece per genio di latinità gli fu cagione di una
seria molestia, per cui dovette difendersi avanti il senato, e mostrare che non
per ciò egli ricusava il culto alla Vergine Maria[995].
(1559) La tregua di Cambrai, procurata
dal papa, fu presto rotta dagl'intrighi de' di lui nipoti, i quali lo indussero
a collegarsi colla Francia; ma le vittorie degli Spagnuoli sgominarono
quest'effimera alleanza; sicché, quattr'anni dopo, nella stessa città di
Cambrai fu, il 3 di aprile del 1559, conchiusa la pace tra la Francia e la
Spagna, essendosi in quella convenuto che ciascuna delle sovranità
d'Italia ricuperasse le proprie città e i luoghi perduti durante
(1560) L'anno 1560 fu contrasegnato
dalla morte del gran cancelliere Francesco Taverna, conte di Landriano. Egli
nasceva da una nobile famiglia, e per la via della toga fu dottor collegiato,
poi fiscale, indi senatore, poscia presidente del magistrato straordinario,
creato per ultimo gran cancelliere del duca Francesco II, e confermato da Carlo
V. La probità, i talenti, l'attività, il cuore e la prudenza di
questo degno ministro si conobbero in varie legazioni ch'egli felicemente
eseguì presso
(1565) Benché il cardinale Borromeo
fosse stato investito fin dal mese di febbraio del 1560 dell'arcivescovato di
Milano per rinunzia del cardinale Ippolito II d'Este, nella di cui casa era
rimasto in commenda per più di sessant'anni, egli dovette rimanere in
Roma presso lo zio come suo segretario di Stato; e soltanto il 23 settembre del
1565, essendo in età d'anni ventisei[1000]
poté recarsi alla sua diocesi per assistere al concilio provinciale, la di cui
convocazione avea, stando in Roma, ordinata. Il suo ingresso fu sontuosissimo.
Le vie dalla Basilica di Sant'Eustorgio fino alla chiesa metropolitana erano
ornate magnificamente e affollatissime di popolo. Oltre la lunga comitiva del
clero secolare e regolare che il precedeva, ebbe l'accompagnamento del
governatore, del senato e delle altre magistrature e di quasi tutta la
nobiltà, tra la quale furono scelti quelli che splendidamente vestiti e
a piedi faceano corteggio intorno della sua persona, e reggevano il baldacchino
che lo copriva[1001].
Egli stesso ebbe cura di far avvertito il vescovo di Como che il governatore,
cavalcando alla di lui sinistra, si teneva costantemente ad un minor passo, per
modo che la parte posteriore del suo cavallo restava allo scoperto; e i
sensi della maggiore soddisfazione ne scrisse del pari al cardinale Altemps, commentando
in ispecie la religione e la pietà del governatore, e che di
averlo trovato devotissimo a sé ed al pontefice sommamente si compiaceva[1002].
I vescovi che si considerarono suffraganei di Milano al primo sinodo tenuto
dall'arcivescovo Borromeo furono delle seguenti città: Acqui, Alba,
Alessandria, Asti, Bergamo, Brescia, Casale, Cremona, Lodi, Novara, Piacenza,
Savona, Tortona, Ventimiglia, Vercelli e Vigevano. Appena, finito il concilio
provinciale, avea il cardinal Borromeo dato principio alle riforme in quello
stabilite, fu sollecitamente richiamato a Roma dalla notizia della grave
infermità del papa, e giunse in tempo di assistere alla di lui morte, avvenuta
il 9 dicembre, e per prendere una parte attivissima all'elezione del
successore. Uno scrittore contemporaneo, e apparentemente bene informato, ci
è testimonio che il cardinale Borrorneo avea somma autorità, e si
era proposto di far papa il cardinale Giovanni Morone, milanese[1003];
il quale per le vicende della fortuna, dopo di essere stato perseguitato e
fatto carcerare da Paolo IV come eretico, richiamato in favore sotto Pio IV,
avea legato apostolico, presieduto e posto termine al concilio di Trento.
(1566) I due che più potevano, erano il cardinal Farnese e il Borromeo.
Aderivano al primo gli elettori fiorentini, inclinando a far nominare il
cardinale di Montepulciano; erano per il secondo, Altemps, suo cugino, e le
creature di Pio IV. Tra queste gare prevalse un terzo partito, che
innalzò alla sede pontificia il cardinale Ghislieri, col nome di Pio V.
Restituitosi il cardinale arcivescovo
alla sua diocesi di Milano, riassunse tosto il pieno esercizio delle sue
funzioni con quello zelo vivace ed insistente ch'era proprio del di lui
carattere. E siccome l'antica milizia ecclesiastica, i Francescani ed i
Domenicani, non avevano la di lui confidenza, così prese a suoi
coadiutori i Gesuiti, la di cui istituzione era stata approvata da Paolo III.
Fin dal 1563 egli erasi fatto precedere in Milano da un drappello di essi,
sotto la direzione del padre Palmio. Ad essi, conferì la soprintendenza
del seminario; tre anni dopo la loro introduzione li traslocò dalla
modesta casa di San Vito ad altre presso San Fedele, dove apersero pubbliche
scuole; e dopo altri tre anni fece dar principio, sul disegno dell'architetto
Pellegrino, alla bella chiesa che tuttora vi esiste, e di cui egli stesso pose
solennemente la prima pietra[1004].
Intervenne poco dopo opportuna a fornire i mezzi di presto ridurla a compimento
la catastrofe degli Umiliati, de' quali la serie delle accadute vicende mi trae
a far parola.
L'ordine degli Umiliati, che dalla
Lombardia erasi esteso in diverse parti d'Italia, fu in origine un consorzio di
persone pie, viventi in comune sotto l'osservanza di alcune regole religiose,
il di cui principale istituto era l'occuparsi delle manifatture di lana.
Applicarono in seguito al negozio delle loro merci; con che arricchirono, e
l'ordine degenerò. All'epoca della quale trattasi, allorché per lunga
consuetudine i capitoli, i monasteri e i vescovadi più ricchi erano dati
in commenda ai cardinali e ad altri favoriti della corte di Roma, anche le
prepositure degli Umiliati erano passate quasi in patrimonio di varie potenti
famiglie, che, con assenso del papa, le trasmettevano in appanaggio ai figli cadetti[1005].
Il cardinale, che per propria natura era inclinato alla magnificenza, vide
nella riforma di quest'ordine la possibilità di ritrarre i mezzi che gli
mancavano per eseguire le grandiose opere da lui divisate; e fin da quando era
in Roma presso Pio IV fu sollecito d'informarsi della situazione di esso, e ne
ritrasse che gli Umiliati non oltrepassavano fra tutti il numero di cento
individui, compresi i prevosti, e che dai conti fatti sui loro redditi, di
sessantamille scudi d'oro, una sì scarsa famiglia veniva assai
parcamente pasciuta, siccome ne scrisse al prelato Ormaneto, suo confidente[1006].
Il Borromeo era protettore dell'ordine. (1567) Si fece fare delegato apostolico
per riformarlo, e predisposti i mezzi a render nulla ogni resistenza[1007],
radunò il capitolo generale a Cremona, ove promulgò la riforma,
per la quale i prevosti perdevano ogni proprietà e venivano soggettati
alla vita monastica. Era naturale che, come di cosa insolita e per essi
sommamente nociva e umiliante, ne concepissero gravissimo sdegno non meno i
prevosti che le nobili famiglie cui appartenevano[1008];
quindi ne emersero grandi susurri e querele e maldicenze infinite; il papa fu
sollecitato a rimettere in parte la severità de' nuovi statuti; i
principi, instigati a non lasciar ledere la loro giurisdizione; e quando per
nessun'altra via ha potuto aver sfogo il soverchio degli umori, questi proruppero
poi e finirono in un attentato vile e vituperevole, colla rovina dei suoi
autori.
Con non minore severità diede
opera alle altre parti delle meditate riforme: e senza partecipazione o assenso
de' magistrati facea citare i laici per titoli appartenenti al suo fôro; altri
ne facea tradurre alle proprie carceri; accrebbe di molto il numero del
satellizio arcivescovile, e pretese che a questo fosse lecito di portare, oltre
le altre armi, anche le astate e l'archibugio, che da' regii ordini erano
generalmente proibite[1009].
All'inflessibilità dei governo, alla severità de' tribunali
oppose l'arcivescovo
Quattro religiosi Umiliati, Clemente
Mirisio, prevosto di Caravaggio,
(1572) Essendo morto dopo la
metà del 1571 il governatore duca d'Albuquerque, gli successe,
nell'aprile dell'anno seguente, don Luigi di Requesens, commendator maggiore di
Castiglia, uomo destro e stimabile[1020],
ma zelatore non meno fervido, e perseverante della giurisdizione regia, di
quello che il cardinal Borromeo il fosse della ecclesiastica[1021].
Perciò le controversie giurisdizionali si riprodussero ancora più
vive; e desse continuarono, benché meno clamorose, anche sotto il moderato
governo del marchese di Ayamonte, che succedette al commendatore de Requesens,
e resse queste province per otto anni. (1575) Il senato mandò
espressamente a Roma, nel 1575, il senatore Politone Mezzabarba, uomo di gran
merito, per far valere le sue ragioni[1022].
All'opposto le parti del Borromeo erano vivamente protette a Madrid da
monsignore Ormaneto, già suo residente in Roma, cui era riuscito di far
nominare internunzio apostolico a quella corte. Nel 1581 vi spedì
inoltre l'altro suo familiare Carlo Bescapè, prevosto generale de'
Barnabiti, e che fu poi il migliore storico della sua vita. Narrasi da questi
di aver avuto replicati congressi col domenicano Diego Clavesio, confessore del
re, e da lui delegato ad ascoltarlo; e possono leggersi presso di esso i modi
moderati e conciliatori coi quali fu licenziato[1023].
A calmare maggiormente queste
scandalose contese, rivolgendo la comune attenzione ad un oggetto infinitamente
più grave e funestissimo, sopragiunse la pestilenza. (1576-1577) Questa
fu promossa da una delle non insolite sue cause, lo straordinario concorso di
gente a Roma per il Giubileo dell'anno avanti. Si manifestò dapprima nei
monti di Trento, e propagatasi a Verona e Mantova palesò i primi suoi
segni verso la fine di luglio in Milano, dove da piccola scintilla
divampò in un baleno a vastissimo incendio. Egualmente pronti, benché
non tutti provvidi dei pari, furono gli ordini dati dalla pubblica
autorità. Le unzioni venefiche che illusero la rozzezza de' Romani nel
principio del quinto secolo dalla loro esistenza, e che centoventiquattro anni
dopo l'epoca della quale trattiamo, furono argomento in Milano stessa della
più orrenda tragedia, eccitarono l'attenzione del marchese d'Ayamonte,
che, con editto del 12 settembre, proposti insigni premii ai delatori, minacciò
gravissime pene ai rei; e per la nissuna scoperta di essi si lusingò
d'averli frenati. Ma fuori di questo tributo pagato dal saggio governatore
all'ignoranza del secolo, tutti gli altri e non pochi provvedimenti emanati
sì da lui che dalla magistratura civica resero testimonianza non men di
zelo che di saviezza. Era allora vicario di Provvisione Giambattista Capra, che
meritò la riconoscenza de' posteri pel bene che fece[1024].
Si ordinò che ciascuno non uscisse dalla sua casa. Frequenti erano le
guardie per tenere in freno il popolo; le forche, erette in più luoghi
della città, indicavano ai disobbedienti la qualità e la
prontezza del castigo. Furono fissate le persone cui era permesso di girare
liberamente, sì per servire i relegati nelle case, che per ogni pubblico
bisogno. Era cosa miseranda il vedere una città pocanzi soprabbondante
di popolo, lieta di ogni dovizia, florida, vivace, sfarzosa, frequentatissima,
ridotta in un istante in un'immensa solitudine. Due terzi de' suoi abitanti,
per poco che ne avessero i mezzi, si rifugiarono alla campagna, e quelli che
furono costretti a rimanere, nella noia del loro forzato ricovero, fra la
vicendevole mestizia, nella continua angoscia, cagionata dalla tema di essere
instantaneamente sopragiunti dal mortifero morbo, non avevano altre distrazioni
che il periodico pulsare alle porte di chi recava loro un misurato alimento, o
il lento trascorrere de' carri per le vie carichi di morti o di semivivi, lo
stridore delle di cui ruote era stato reso maggiore coll'arte, affinché
all'appressarsi di quelli ciascuno più prontamente s'allontanasse. Non
bastando il vastissimo Lazzaretto a contenere i malati, fuori d'ogni porta
della città si dispose un recinto, dove gli altri si trasferivano. Un
difficilissimo oggetto fu pure la cura delle vittovaglie. Per più di sei
mesi circa cinquantamila persone furono a spese pubbliche alimentate; e non
bastando le rendite civiche, le elemosine de' facoltosi, l'entrate de' luoghi
pii, la città vi destinò altresì i capitali che ritrasse
dalla vendita de' suoi dazi. Il dispendio prodotto da questo sommo disastro fu
calcolato di quasi un milione di zecchini[1025].
Il morbo non si estinse del tutto che dopo diciotto mesi. I morti nella sola
città ascesero a circa diecisettemila; e il Bescapè, che ho
particolarmente seguìto in questo doloroso racconto, aggiunge che in
quello spazio di tempo v'ebbero quattromila e trecento nati[1026].
A questa sciagura debbono i Milanesi l'esistenza di una bella chiesa, quella di
San Sebastiano, eretta per voto del corpo civico sul disegno dell'architetto
Pellegrino de' Pellegrini, e dotata di ricchissimi arredi[1027].
Verso il principio del 1577, però senza colpa della peste, morì
Girolamo Cardano, di settantacinque anni, illustre per il suo sapere, per il
suo ingegno e per la sua esimia credulità nelle scienze occulte.
Durante quel gran disastro rifulse
splendidissima la somma carità del zelante pastore verso l'afflitto suo
gregge, cui dedicò ogni sua cura, soccorse colle sue largizioni e
cercò persino di giovare colla erezione delle croci ne' quadrivi (con
poca opportunità rese poi stabili), perché i rinchiusi nelle case
potessero in qualche modo assistere alle sacre funzioni che si celebravano
innanzi ad esse: mezzo assai adatto di distrazione e di rincoramento agli animi
sbigottiti; e se la piena del suo zelo non fosse trascorsa a dar causa di
più propagarsi il contagio colle processioni, la sua lode sarebbe molto
maggiore e intemerata. Né perciò interruppe l'esecuzione de' molti suoi
benefici e magnifici progetti, ed ogni anno era segnato dall'esecuzione di
più d'uno di quelli, con una
Avendo cessato di vivere il governatore
d'Ayamonte nell'aprile del 1580, tenne il suo luogo, per quasi tre anni, il
castellano don Sancio di Guevara, del quale l'arcivescovo Borromeo era assai
contento, come appare da una di lui lettera a monsignor Speciano; ad un suo
cenno furono banditi ciarlatani, commedianti, e tolto ogni divertimento, il che
non avea potuto ottenere dagli altri governatori. È gaio l'aneddoto
riferito dal marchese Lorenzo Isimbardi nella sua cronaca[1030],
in proposito de' figli del marchese d'Ayamonte. Trovavasi egli alla sua villa
del Cairo in Lomellina, quando occorse avere ad alloggiare in casa una notte
li figlioli del marchese d'Ayamonte, governatore dello Stato di Milano; il
qual, essendo morto pochi giorni prima, questi figlioli se ne ritornavano in
Spagna, de' quali il maggiore era di circa dieci otto anni. Ed essendo a
tavola, cenando, successe caso assai ridicoloso, ma tanto più
misterioso, quanto che procedette da semplicità contadinesca; perché,
trovandosi a caso in quell'ora sotto al portico un contadino, qual, veduto
venire dalla credenza quattro paggi senza cappello o berretta in testa, con
torce accese in mano, che accompagnavano nel mezzo di loro un altro, pur
scoperto, qual teneva in mano una tazza d'argento, coperta, sopradorata, e
questi, passando per detto portico per entrar in sala a dar da bere al padrone,
con la cerimonia che suol usar alcuni grandi di Spagna, il buon contadino, non
sapendo altro, subito all'improvviso si buttò a terra in ginocchione,
col cappello in mano, battendosi il petto; il quale, interrogato perché facesse
tal atto, ed ammonito di levarsi su, rispose: Non volete ch'io adori ed onori
il mio Signore? Persino le bevande che dovevano entrare nello stomaco di un
grande di Spagna erano onorate, venerate, adorate quasi! Dopo il Guevara
venne al governo del Milanese il duca di Terranova, che, per esser dottore,
prediligendo il senato, ordinò non doversi esso più intitolare
serenissimo re, ma potentissimo re, stabilì il titolo di magnifici ai
senatori, e altre cose simili; gli successe Juan Fernando de Velasco,
contestabile di Castiglia, che governò per otto anni, sebbene
interrottamente. Egli diede il nome ad una delle contrade della città,
aperta al suo tempo, ed emanò varii ordini per contenere gli
ecclesiastici, e tra gli altri, nelle congregazioni si posero gli assistenti regii[1031].
Nominato, verso la fine del 1584,
monsignor Gaspare Visconti al vacante arcivescovado di Milano, alla metà
del seguente anno ne prese il possesso. (1590) Cinque anni dopo, la nostra
città vide promosso alla Santa Sede il cardinal Nicolò Sfondrati,
col nome di Gregorio XIV. Questo fu il quinto papa milanese, essendo stati i
quattro precedenti Anselmo da Baggio, che, nel 1061, prese il nome di
Alessandro II, Uberto Crivelli, innalzato nel 1185 col nome di Urbano III,
Goffredo Castiglioni, fatto papa l'anno 1241, col nome di Celestino IV, e Pio
IV, ch'era in prima Gian-Angelo Medici, creato l'anno 1559, del quale si
è parlato nel capitolo precedente. Sotto l'arcivescovo Visconti, la
chiesa di San Lorenzo, caduta nel 1573, fu rifabbricata sul disegno di Martino Bassi[1032];
furono pure erette le chiese del Paradiso e della Maddalena[1033],
e il convento dei Cappuccini in Porta Orientale[1034];
i Somaschi, introdotti a Santa Maria Secreta, e stabiliti i religiosi ospitalieri,
detti Fate bene Fratelli[1035].
(1595) il Visconti resse l'arcivescovado di Milano fino al 1595, e gli fu dato
in successore il cardinale Federico Borromeo, in età d'anni trentuno,
che governò
(1598) In tutta quest'epoca, sterile di
notizie civili, null'altro ci si offre da riferire se non che l'ingresso in
Milano di Margherita d'Austria, sposa dell'Infante don Filippo, che fu poscia
Filippo III; e la morte quasi contemporanea accaduta in Madrid del re Filippo II,
dopo lunga malattia, essendo d'anni settantadue. L'arciduchessa era stata
sposata in Ferrara dal pontefice Clemente VIII, che, in quell'anno medesimo,
aveva tolto quella città alla casa d'Este, fece l'entrata in Milano il
30 novembre, e vi si trattenne per circa due mesi. Per questa occasione il
corpo civico fece erigere dall'architetto Martino Bassi, a foggia di magnifico
arco,
In que' tempi le arti cavalleresche, e
singolarmente il ballo, avevano la loro sede in Milano. A convincersene, basta
leggere il libro già rammentato di Cesare de' Negri, che contiene i
precetti del ballo, varii balletti, relazioni di mascherate e feste de' suoi
tempi, e i nomi delle più distinte dame e cavalieri che ballavano sotto
della di lui scuola. Qui si vede che i Francesi, i Romani, gli Spagnuoli imparavano
allora il ballo dalla scuola milanese. Pietro Martire, milanese, era il
ballerino stipendiato dal duca Ottavio Farnese in Roma sotto il pontificato di
Paolo III. Francesco Legnano, milanese, fu stipendiato da Carlo V e da Filippo
II, e venne largamente premiato. Lodovico Pavello fu caro al re di Francia
Enrico II e al re di Polonia. Pompeo Diobono, pure milanese, era d'una
nobilissima e graziosissima figura dalla testa ai piedi, di somma
agilità e leggerezza nei movimenti. Il re Enrico II di Francia lo fece
maestro del suo secondogenito il duca d'Orleans, che, fatto poi re col nome di
Carlo IX, lo amò sempre. Enrico III pure gli confermò le
pensioni. Virgilio Bracesco, milanese, insegnò il ballo al re Enrico II
di Francia e al primogenito il delfino. Francesco Giovan Ambrogio Valchiera fu
preso al soldo del duca di Savoia Emanuele Filiberto, e fatto maestro del
(1599) Nel mese di luglio del seguente
anno furonvi nuove feste in Milano per l'ingresso dell'Infanta donna Isabella
d'Austria, sposata coll'arciduca Alberto, che venne con lei[1043].
Per questa occasione nel teatro di corte si fece una bellissima festa con
maschere a quadriglie, oltre una rappresentazione teatrale, intitolata: l'Armenia.
Parmi di vedere il primo germe dell'opera in musica ne' due intermezzi, i
quali vennero cantati. Si scelsero due argomenti adatti alla musica. Il primo
fu l'Orfeo, il quale con flebil canto sfoga il suo dolore per la morte della
cara sua Euridice. L'Eco rispondeva, e un dialogo tra Orfeo ed Eco
insegnò al vedovo sposo che colla magia del suo canto poteva tentar la
via d'Averno, placare i mostri e rivedere Euridice. S'accosta all'antro
funesto, e al suono della sua lira si spalancano le porte, si scopre quella
terribile contrada. Plutone, Proserpina in trono, i giudici, le furie, Caronte,
Cerbero, in somma tutto vedenvasi quello che Virgilio e Ovidio hanno cantato.
La soavità del canto d'Orfeo, gradatamente interrotta dalle grida
infernali, poco a poco vince, e, ammutoliti gli spiriti, sembrano resi umani
dalla dolcezza della voce d'Orfeo, il quale supplichevolmente implora Euridice.
Un basso risponde in musica, concedendo la grazia col noto patto ch'egli non la
rimiri sintanto ch'entrambi non siano usciti dall'Averno; e qui dice il Negri[1044]:
E se ben non pare che il decoro et verisimilitudine della favola admetta
musica in Plutone, fu ciò introdotto per maggior soddisfazione degli
aspettatori et ascoltanti, et per gusto di chi poteva comandare, il che
sembrami che dimostri non essere stata prima di quel tempo cantata un'intiera
azione drammatica presso di noi. Il secondo intermezzo rappresentava il viaggio
degli Argonauti, e, per introdurvi un tratto di musica, si posero le Sirene su
varii scogli, col loro canto cercando d'invitare i passaggieri ad accostarvisi.
Orfeo si pose sulla prora della nave, e, sciogliendo una voce imperiosa con
canto sublime, rincorò gli Argonauti a proseguire l'impresa immortale, e
a non curare l'insidioso canto. L'abate Arteaga, spagnuolo, nella sua opera
sulle Rivoluzioni del teatro musicale italiano, c'insegna come sotto
Leone X in Roma siasi rappresentata in musica la Disperazione di Sileno, poesia
di Laura Guidicioni, dama lucchese, posta in musica da Emilio del Cavalieri.
Questo dramma allora riuscì male; si abbandonò il tentativo, onde
poteva in Milano comparire una vera novità. Nell'anno 1646 il cardinal
Mazzarino fece rappresentare, nel palazzo reale a Parigi, delle opere in musica
da cantori che fece venire dall'Italia, e Voltaire dice che questo nuovo
spettacolo era da poco tempo nato in Firenze[1045].
(1600) La massima di non lasciar troppo
a lungo una stessa persona ne' grandi governi si trovò d'accordo colla
gelosia del duca di Lerma, favorito del re Filippo III; onde, destinato ad
altre funzioni il contestabile di Castiglia, che reggeva il Milanese da otto
anni, fece nominare in sua vece don Pietro Enriquez de Azevedo, conte di
Fuentes. Allontanò così un uomo, sebbene settuagenario, ardito,
avveduto e d'animo elevato, e che, non avendo figli, faceva professione di
parlar franco. Egli godeva inoltre d'un gran credito alla corte per aver avuto
la confidenza di Filippo II, che correa voce si fosse meritata col prender
parte alla morte dell'infante don Carlos. Perciò il senatore
Giambattista Visconti, che seguirò particolarmente nel parlare di questo
personaggio, dicea di esso: et di lui è costante fama, che
acquistasse la grazia di Filippo II col macchiarsi la mano nel sangue di
persona la di cui morte per interesse d'onore egli comandò[1046]:
tant'era, in prossimità del fatto, generale e indubitata l'opinione che
don Carlos fosse perito di morte violenta, che che ne dica un recente storico
sulla fede dei registri dell'Inquisizione, quasi che l'arte delle reticenze non
fosse antica quanto il mondo.
Il conte di Fuentes fece il solenne
ingresso in Milano il 16 ottobre. Volle che il consiglio, benché non fosse che
un aggregato di ministri scelti e non avesse rappresentanza, facesse corpo con
lui e precedesse il senato. Già erasi mostrato aspro e impaziente, senza
cortesia, co' deputati che gli erano stati spediti incontro a Genova per
complimentarlo, e nell'entrata pure con cinica sincerità mostrò
di non pregiar nulla delle disposizioni onorevoli fatte per lui. (1601) Le
circostanze dell'Italia gli porsero tosto occasione di dar prove di quel
risoluto vigor d'animo che gli era proprio, stante la guerra mossa dal re di
Francia Enrico IV al duca di Savoia per la successione nel marchesato di
Saluzzo. (1602) Col tenere l'esercito forte, pronto e sotto buoni ordini
serbò in credito le armi spagnuole; acquistò il Finale e la
piccola, ma allora importante città di Monaco; e ricuperò Novara,
che trovò ipotecata al duca di Parma. (1603) I Grigioni, che già
stavano sotto la protezione della Francia, essendosi collegati co' Veneziani,
eccitarono la di lui gelosia; egli fece appoggio di molto apparato militare
alle negoziazioni, e quasi all'estrema sponda del lago di Como, di fronte alla
Valtellina, fece erigere un forte (1604) chiamato dal di lui nome, che, dopo di
aver servito talvolta come prigion di Stato di minor ordine a comodo de'
lontani padroni, fu demolito nel 1797. Con questi modi ridusse i Grigioni ad
accondiscendere ad un accomodamento, che fu segnato in Milano dai loro
deputati, e garantito dagli Svizzeri. Reso più libero dalle cure
esterne, attese a procurare l'ornato della città. Fra le disposizioni di
questo genere eseguite sotto il suo governo si noverano il riattamento della
strada che dal palazzo di giustizia conduce alla real corte, e che ha ancora il
nome di Strada Nuova, e la ricostruzione di quel palazzo. (1605) Egli
volle che la memoria di queste opere fosse tramandata alla posterità con
due iscrizioni, nelle quali il gusto ampolloso del secolo sembra aver preso i
suoi colori dallo stile orientale. Leggesi nella prima che il governatore aperse
quella via dalla reggia al pretorio, per rendere più facile e certo
l'accesso e il ritorno dalla giustizia alla clemenza[1047];
e nell'altra, che il governatore stesso, vincitore dell'esterna guerra e
domatore invitto della guerra domestica, amabile colla destra, formidabile
colla sinistra, regnando Filippo III, potentissimo re delle Spagne, pose di
fronte le porte delle carceri alla regia corte, perché l'occhio del principe
vigilante è la più fida custodia della giustizia[1048].
Rimase senza titolo onorifico un altro beneficio probabilmente procurato dal
conte di Fuentes, la donazione fatta dal re alla città di Milano della
vasta casa che oggidì chiamasi il Broletto, e altre volte fu del
conte di Carmagnola[1049].
Essa era allora destinata ad uso di pubblici granai; ivi nel 1714 venne
collocato il banco di Sant'Ambrogio, e circa l'anno 1772 vi si trasferì
il consiglio generale, il tribunale di Provvisione, e tutti gli uffici civici,
che prima stavano alla Piazza de' Mercanti. Egli fece mettere i parapetti ai
ponti della città, tentò di abolire i varii pesi, e di dare al
commercio il comodo di un peso uniforme, siccome di abolire le stadere e
sostituirvi le bilance; ma non vi riuscì. Col proibire l'esportazione
delle armi, rovinò la famosa e ricchissima manifattura di esse[1050],
al segno di non più risorgere. (1607-1608) Con infelice esito fu pure
sotto di lui incominciato il canale che da Milano dovea decorrere a Pavia, ma
per non voler credere a chi doveva, et governarsi col parere di chi gli
piaceva, fu ingannato, et gittò gran somma di danari[1051].
Ce ne rimane l'iscrizione senza l'opera, poiché immaturamente da quella si
volle incominciare. In essa è detto che con questa insigne opera le
acque dei laghi Maggiore e di Como, fin qui condotte, furono immesse nel Ticino
e nel Po, fiumi irrigatorii e navigabili, all'oggetto di ampliare, colla
facilità delle comunicazioni e del commercio, la feracità e
l'abbondanza de' campi, l'industria degli artefici, e la ricchezza pubblica e privata[1052].
Ciò che nel 1608 fu onorato di una lode gratuita e precoce, si
verificò dopo due secoli; e il canale di Pavia, incominciato e
proseguito oltre due terzi dell'opera sotto il regno d'Italia, fu dal presente
governo felicemente ridotto a compimento.
La figura del conte era alta, capo
piccolo, faccia sanguigna, occhi piccoli e vivaci, e guardatura fiera, voce
acuta, stridula e femminile. Vestiva semplice; a mezzodì e mezzanotte
pranzava e cenava, e stipendiava cuochi eccellenti. Teneva lontani i medici.
Ogni sabbato sentiva la messa a San Celso; le altre volte nella cappella
pubblica. Per via amava assai d'essere corteggiato da' ministri, né gliene
mancava mai buon numero; e amava d'essere ascoltato a rimproverarli, mentre,
strada facendo, parlava d'affari. Egli era frizzante e motteggiatore. Aveva una
prodigiosa memoria. Era facile ad ammettere chiunque, ma riusciva difficile il
parlargli, perché d'ordinario, interrompeva e rimandava malcontenti e
strapazzati. Sebbene non inclinasse ai divertimenti, pure dilettavasi delle
pubbliche feste e de' balli, come mezzi di palesare la sua magnificenza, e vi
si tratteneva tutta
Durante il suo governo si collocarono
sovente negl'impieghi uomini di nessun merito, stante che nella scelta egli
preferiva i più sommessi ad ogni sua opinione e volere, siccome diceva
Tacito di Tiberio[1055];
così gli animi più vili ed abbietti ascesero e s'impadronirono
degl'impieghi. Avvelenato da una certa falsa gloria di autorità e
protezione, dice il senator Visconti, et quasi affettando il titolo
d'onnipossente in questo Stato, come che tutto dipendesse da lui, per radicare
negli uomini questa opinione ha innalzate persone indegnissime, che s'hanno
saputo accomodare all'adulazione et altre arti et servigi troppo vili..., ma
in pari tempo si vide tirare ogni cosa a sé, turbando gli ordini dei negozi
e de' tribunali. Il che sebbene egli fece con incredibile vigor d'animo,
vigilanza, assistenza, memoria e cura, tuttavia fu necessario che errasse
infinite volte, come fece, oltre il patire le male conseguenze che ne
risultano. Perciocché, così facendo, un governatore si tira addosso
un'occupazione intollerabile, contrae particolar obbligo di render conto a Dio
e al mondo d'infinite cose che non gli toccano, et s'acquista grandissimo odio
non solo de' particolari offesi, ma ancora de' magistrati. De' particolari,
perciocché de' tormenti, privazioni de' beni, esigli et morti, quando vengono
per corso ordinario di giustizia et quasi dalla mano del giudice et tribunali frapposti
tra il principe, e il delinquente, niun odio ne tocca al principe, che pare non
ne habbia parte se non l'obbligazione di fare che si renda giustizia, la quale
è cosa favorevole et non odiosa; dove che, facendo egli quasi
immediatamente et fuori degl'instituti della provincia, ne segue che i
delinquenti, non potendo scaricare l'odio sopra il ministro che dovrebbe esser
di mezzo tra la suprema podestà e le persone private, tutto lo indirizza
contro di lui: et tanto più che, facendo il governatore quello che per
l'ordinazione de' tribunali non gli tocca, dà occasione di sospettare et
dire che così faccia non per zelo di giustizia, ma per passione et
capriccio proprio, al quale il vulgo sempre vuol trovare qualche cagione poco
honorevole. Dai ministri parimente odiato, perché parendo loro in questa guisa
d'essere da lui offesi nella riputazione, alcuni ancora, sentendo il danno de'
propri interessi, alienano gli animi da lui; et se bene scopertamente et
dincontro non puonno offenderlo, tuttavia quest'odio pubblico s'interna in
maniera nei petti loro, che poi quasi naturalmente gli vanno difficoltando
tutti i negozi, et gli praticano contro, tanto in materia di stimazione et
gusto, quanto nella sostanza delle cose. Finalmente questo stesso fatto di che
parliamo, mette i tribunali et ministri in vilipendio et mala opinione appresso
a' sudditi, i quali quasi col testimonio del governatore gli stimano mali
huomini et con l'esempio suo li dispregiano: dal che nascono pessime
conseguenze nella repubblica. Laddove, contentandosi (parlo per
ordinario) il governatore della soprintendenza, del riprenderli e
castigarli quando inciampano, et frattanto honorarli et ben trattarli, et
lasciar correre i negozi a' suoi tribunali, viene a tener bene accordata
quest'armonia civile. Del resto la giustizia hoggidì potrebbe essere
meglio amministrata, poiché, non havendo molti officiali le parti che bisognano
a chi maneggia la repubblica, non è maraviglia che i giudicii hanno
tardissima espedizione. I giudici s'allontanano senza rispetto dalle leggi et
statuti, et giudicano quasi per loro opinione. Non vale alcune volte
l'autorità delle leggi e la dottrina, poiché si vince piuttosto con arti
et ambiti machinati, che per buona guerra di giustizia, et si può
dubitare che appresso ad alcuni più valga l'avidità della
pecunia, che il piacere che nasce dall'azione virtuosa. Et è sempre
stata cosa certa appresso ai savj che chi perviene ai magistrati per male arti,
cerca l'oro come pasto dell'avarizia, quasi rimborsandosi di quello che ha
speso per ottenerlo; laddove l'uomo giusto et retto stima le leggi et la
giustizia, et l'esercita virtuosamente, quasi per rimunerare il principe
dell'honore che gli ha fatto colla collazione della giurisdizione. Dalle cose
di sopra dette è seguìto nel governo suo, che molti intimiditi e
disgustati da lui non pensavano né curavano il servitio di sua maestà,
né del pubblico, e godevano degli errori che gli vedevano commettere. Così
quell'uomo saggio, il senatore Giambattista Visconti, tanto più
stimabile quant'erano allora più rare ed oscure le cognizioni di Stato.
Se il passo surriferito mostra il profondo politico, ne produrrò un
altro a far prova del suo retto pensare in uno de' punti disputati della
pubblica economia, l'annona granaria; ed eccone l'occasione. Nel decennio in
cui governò il conte di Fuentes, fu una costante fertilità.
Tuttavia egli volle imbarazzarsi nel fissare il prezzo de' grani, inclinando a
tenerlo sempre più basso. Questa violenza, fatta pure senza specie di bisogno
alla libertà delle contrattazioni, porse argomento al senator Visconti
di così ragionare: Circa al prezzo et valore ho sentito uomini savi e
molto versati in questa materia affermare che non è bene né utile in
comune che si riduca a gran viltà, et io ne son persuaso, imperciocché
questa viltà di prezzo è dannosa alla maggior parte de' sudditi.
I nobili et possessori de' beni non ponno mantenere il loro stato se non cavano
mediocremente da' loro frutti. L'infima plebe et tutto quel popolo che vive con
le opere diurne, non trova da lavorare, perché non havendo il ricco denaro, non
può spendere. Dei contadini, quelli che sono fittaiuoli (che sono
per lo più ne' paesi irrigati dalle acque) non ponno soddisfare
ai fitti e s'impoveriscono totalmente; gli altri che lavorano a parte (et
è tutto quel tratto di provincia che non s'irriga), non hanno con
che far denari per comprar bovi, vestiti, pagar carichi camerali et far altre
simili spese, se non col prezzo di poco frumento che avanza loro; poiché la
maggior parte, pagato il fitto, consuma in semente; et la segale, miglio et
altri grani simili appena bastano per vivere poveramente. Il vino, quando si
raccoglie (che, oltre il ricercare spesa grande, è sottoposto a
tante ingiurie del cielo), paga i debiti contratti col patrone negli anni
sterili e calamitosi, in modo che, se col pochissimo frumento che gli avanza,
non sovviene alle altre sue necessità, è spedito. Il resto dei
contadini con le braccia si vede per ferma esperienza che, se il pane è
a gran buon mercato, non voglion fare opera, et abbandonano il fittaiuolo né
maggiori bisogni dell'agricoltura, o il tiranneggiano con prezzi eccessivi; dal
che siegue maggior danno, spendendosi molto per raccoglier frutti che valgon
poco; in modo che questa gran viltà de' prezzi non giova ad altri che a
quella specie di huomini che, esercitando mercanzie, comprano pane e vino,
perché essi, vendendo caro né più né meno le merci loro et spendendo
poco nel vivere, arricchiscono. Hora giovare ad un membro et nocere a tutti gli
altri non è medicina, ma uccidere; laddove con prezzi mediocri tutta
questa corrispondenza civile resta ben proporzionata. Basta dunque curare che
le cose abbondino, et impedire i prezzi troppo eccessivi, che veramente
sarebbono perniciosi. Di quest'uomo che seppe tanto, io non posso credere che
ignorasse questa verità, et pure curò tanto di ridurre i prezzi
al nulla, non so se per amore d'una certa inane fama appresso al vulgo
ignorante, o per odio de' nobili, che stimasse troppo agiati.
Ho voluto trattare a lungo del governo del
conte di Fuentes, come del più celebre e forse del migliore governatore
mandato dalla Spagna in questi Stati, per dare una più estesa e chiara
idea di que' tempi e di que' governi, e perché tengo ferma opinione che non
solo le cose utilmente operate, ma ancor più gli errori degli uomini
grandi, sono sorgente ai futuri di più sicuro ammaestramento. (1610)
Egli morì in Milano nella età di oltre ottant'anni, il 21 luglio
del 1610, avendo conservato grandissima fortezza d'animo, e regolato gli affari
sino al fine. Lasciò un esercito effettivo di ventiquattromila uomini,
cioè dodicimila fanti italiani, seimila Lanzichinetti, seimila Svizzeri
e trecento corazze borgognone. I suoi successori, per tutto il periodo di tempo
compreso in questo capitolo, trapassarono oscuri; ed alcuni, che più
sembravan promettere, non ebbero campo sufficiente di mostrare quanto
valessero. Primo tra essi è il contestabile di Castiglia, venuto per la
seconda volta, il di cui carattere dolce e umano traeva maggior risalto dalla
recente ricordanza del carattere opposto del suo predecessore; ma, per
malattia, gli si scemò
Il personaggio più illustre di
quel tempo, ad onore di Milano, è un suo concittadino ed arcivescovo, il
cardinale Federico Borromeo. Ricco, di pietà soda e senza ostentazione,
saggio, prudente, generoso, magnifico, protettore degli studiosi, dotto,
giudizioso e laborioso scrittore egli stesso, promosse, non solo gli studii
ecclesiastici, che per istituto dovea prediligere, ma altresì ogni
maniera di lettere, di scienze e di arti, e rese glorioso il suo lungo
pontificato coll'erezione della biblioteca Ambrosiana, stabilita sopra un piano
sì esteso, che pochi sovrani pareggiarono, e non ha altro esempio in un
privato. Biblioteca doviziosissima di preziosi manoscritti, raccolti con sommo
dispendio, non solo dall'Italia, ma da tutta l'Europa, dalla Grecia e dall'Asia
più rimota, e cui dotò di sufficienti rendite; aggiunse un
collegio di dottori, una scuola di lingue orientali, un museo di naturali
curiosità, una tipografia lautamente assortita, anche di caratteri
esotici; e un'accademia di belle arti, a corredo della quale cumulò un
tesoro di capi d'opera, specialmente di disegno e di pittura. In sei anni la
maestosa fabbrica fu ridotta a compimento, sicché nel 1609 la biblioteca fu
aperta al pubblico; ed esatto è il giudizio che dell'architetto di essa,
Fabio Mangoni, fu dato da un buon intendente[1059]:
Quest'uomo, che si cangiava in ragione de' differenti usi delle fabbriche e
della varia ubicazione ed estensione de' luoghi, seppe così entrare
nello spirito della cosa, che, sopra la più bislunga e stretta area che
veder si possa, ideò ed eseguì una biblioteca che può
servir di modello a chiunque ama di unire la magnificenza alla comodità.
Dopo tanta generosità, si rende ancor più notabile la
modestia del cardinale, mentre non denominò quello stabilimento né
Federiciano né Borromeo, come a buona ragione e più che altri il potea,
ma preferì di chiamarlo dal nome del santo titolare e protettore della
chiesa milanese[1060].
Al tempo dell'arcivescovo Federico
Bortomeo, e in parte per la sua influenza, vide Milano ricostruita la chiesa di
Santo Stefano sul disegno di Aurelio Trezzi; eretta la vasta chiesa di
Sant'Alessandro, disegno di Lorenzo Biffì o Binago, barnabita; non che
l'altra di San Giuseppe presso la Scala, opera dell'architetto Francesco
Richini; fabbricati il convento de' Carmelitani Scalzi, e il monastero di San
Le controversie giurisdizionali si
suscitarono a diversi intervalli anche sotto il cardinale Federico; ma appena
fu egli assunto all'arcivescovato, si mosse alle pratiche di un sincero
accordo: al qual fine delegò per conferire co' ministri regi i
monsignori Carlo Bescapè e Marsilio Landriani, vescovo il primo di
Novara, l'altro di Vigevano, savii e dotti uomini. In seguito, col consenso del
re cattolico, venne rimesso l'esame a Clemente VIII per uno stabile trattato di
concordia. Il sommo pontefice mostrò molto impegno; le congregazioni
tenevansi avanti di lui, ed erano frequenti; l'arcivescovo di Milano fu
chiamato ad intervenirvi, e stette quattr'anni in Roma; ma quantunque il papa
abbia vissuto ancora ott'anni dacché si incominciarono queste pratiche,
morì nel 1605 senz'aver nulla conchiuso. Gli fu sostituito Paolo V. Le
troppo famose sue contese coi Veneziani, e l'interdetto che fulminò
contro quella Repubblica mostrarono tosto che poco si aveva a sperare da esso
per la concordia giurisdizionale del Milanese, la quale infatti fu protratta di
molti anni ancora; e finalmente sollecitata con infinite cure e sommi dispendii[1061]
dal cardinal Federico in Milano, a Roma, a Madrid, fu segnata nel 1615, sancita
due anni dopo dal re e dal papa, e pubblicata il 19 febbraio del 1618, senza
quasi aver effetto per le nuove contestazioni che immediatamente dopo
sopravennero. Esse ebbero origine dalla pretesa degli ecclesiastici che il
privilegio dell'immunità si estendesse ai loro coloni. Gli
amministratori rurali vi si rifiutarono, perché il carico sostenuto dai soli
laici sarebbe riuscito insopportabile a cagione del tributo sovrimposto per le
guerre del Piemonte. I membri del clero, insorgendo l'uno dopo l'altro,
intimarono e promulgarono le censure ecclesiastiche contro i deputati, consoli
e sindaci de' comuni; i parrochi ricusarono di amministrar loro i Sacramenti, i
vescovi di assolverli dalle censure, se non previo il ristauro dei danni e data
cauzione di astenersi per l'avvenire. Il senato di Milano s'indirizzò al
re esponendo di aver maturamente esaminato l'affare, ed essere l'opinione
più vera e più generalmente ricevuta che sia in podestà
del principe di esigere la colletta dai coloni della Chiesa sul valore
dei frutti ad essi spettanti; così osservarsi in altre province; e
così pure essersi osservato in tempi poco rimoti in molte parti di
questo dominio, e in tutti molti anni addietro. Contuttociò, vedendo il
senato che i vescovi e lo stesso sommo pontefice persistevano nelle censure, né
sapeva come rimoverli dal loro proposito, né con quali mezzi difender contro di
essi i laici che perseveravano nell'esigere i carichi, invocava in tali
angustie le prescrizioni di Sua Maestà[1062].
Il re Filippo III, con dispaccio dal 2 febbraio 1619, prescrisse che dove lo
esiga il servizio militare per la difesa dello Stato, anche nelle case de'
coloni ecclesiastici si pongano a quartiere i soldati, e che pure i detti
coloni siano sottoposti al tributo, limitandolo all'ottava parte de' frutti.
Stabilì in quelle altre norme, che poi lascia al governo d'ampliare o
restringere col parere del senato, come si sarebbe trovato conveniente per
acquietare gli ecclesiastici. Il governatore duca di Feria più volte
intervenne in senato a trattare di ciò, e si concluse di spedire a Roma
un senatore. Fu questi il più volte nominato Giambattista Visconti, che
vi si recò col fiscale Schiaffinati, e molto appoggio ebbe dal duca
d'Albuquerque, allora ministro di Spagna alla Santa Sede. Ma a Roma non si fece
altro se non tenerli a bada. S'andavano riunendo delle congregazioni per
guadagnar tempo, e frattanto si faceva agire a Madrid il nunzio apostolico col
debole re. Il governatore duca di Feria consultava tutto col senato.
Gl'invidiosi, che il senatore Visconti aveva e meritava, perch'era uomo
d'ingegno e di lettere, come si conosce dal suo scritto, mal sofferendo la
commissione datagli dal governatore, e attraversandone l'esito, facevano che il
senato desse pareri atti a rompere le negoziazioni, che si sciolsero in fatti.
A Roma si sapevano le consulte del senato dai cardinali prima che il Visconti
ricevesse le lettere corrispondenti.
Fervevano ancora quelle moleste
contese, allorché venne di nuovo ad affliggere i Milanesi la pestilenza, e
più sterminatrice di quella che avevano sofferto cinquantaquattro anni
avanti. (1629) Per soprabbondanza di mali fu dessa preceduta dalla carestia e
accompagnata dai disastri della guerra che combattevasi nel vicino Piemonte. La
plebe di Milano, ridotta a pascersi d'erba e nel pericolo di morir di fame,
siccome alcuni se ne trovarono morti per le strade[1063],
diede il sacco ai prestini, ed assalita la casa del signor Lodovico Melzi,
vicario di Provvisione, e atterratene le porte, fu in procinto di assassinarlo[1064].
Il consiglio generale della città si affrettò di approvvigionare
di grano il Lazzaretto fuori di Porta Orientale, e colà raccolse la
più mendica plebe; né bastando quel vastissimo recinto al numero
eccessivo degli affamati, destinò allo stesso fine lo spedale della
Stella. Si distinse in questa pubblica calamità l'arcivescovo Borromeo
coi soccorsi di cui fu prodigo, sì che meritossi d'esser chiamato il
padre dei poveri[1065].
Ma le incessanti querele di que' mendichi a pretesto della cattiva
qualità del pane, la loro insubordinazione, i loro feroci clamori, facendo
temere più gravi eccessi, indussero il governo della città a
scioglierli dai loro pietosi ergastoli, restituendoli tutti alla beata
libertà del mendicare. Fra una turba sì grande di popolo,
estenuata dalla fame ed oppressa da ogni genere d'indigenza, la peste che
sopragiunse non potea trovare più pronti veicoli per diffondere
rapidissimamente il mortal suo veleno. Questa volta fu essa recata in Italia
dalle truppe imperiali per la guerra di Mantova, e un soldato milanese di
quell'esercito, venuto a visitare i suoi, la recò in Milano nel novembre
del 1629. Sì egli che gli abitanti della casa dove alloggiò,
tutti morirono; e queste furono le prime vittime[1066].
(1630) La casa fu isolata da ogni comunicazione; ma poco più vi si
badò; e le feste, che anche in tanta miseria si celebrarono nel
principio del seguente anno per la nascita dell'infante primogenito di Spagna[1067],
fecero che facilmente quel funesto avviso fosse posto in dimenticanza. Il fatal
vulcano rimase sopito, o almeno diede segni non osservati fino al mese di marzo,
quando l'esplosione si fece in un tratto violenta ed invase tutte le parti
della città. Il popolo, compreso dallo stupore, s'attenne per lungo
tempo al partito che più s'accomodava alla sua ignoranza e pigrizia, il
non credere; e allorché fu tratto d'inganno per lo spaventevole moltiplicar de'
malati e de' morti, e col produrre agli occhi di tutti i marciosi cadaveri,
esponendoli lungo le vie, o facendoli condurre intorno ammucchiati e scoperti
sui carri, si abbandonò ad ogni sorta di deliri e di eccessi.
Quell'ostinata e prolungata incredulità lasciò libero al contagio
di estendersi immensamente, e fu in ciò secondata dall'indolenza
dapprima, poi dagli scarsi, inefficaci o improvvidi ordini de' magistrati. La
lunga successione de' cattivi governi avea fatto dilatare l'avvilimento,
l'inerzia, la stolidezza dalla plebe alle classi superiori, per modo che in
quelle difficilissime circostanze il consiglio generale, il tribunale di
Provvisione, quello di Sanità, il senato, il governo, tutti non si mostrarono
che plebe, ed ebbero con essa comuni le stravaganze e i vaneggiamenti. Tranne
il ricoverare gli appestati nel Lazzaretto, nessun altro opportuno
provvedimento fu adottato in quest'occasione di quelli che pure il furono nella
peste del
Ma il delirio più scandaloso e
ch'ebbe più tragici effetti, fu quello delle unzioni venefiche. La
storia ci attesta che si è prestata credenza a questa sciocca cagione in
altri contagi, ed abbiamo veduto che l'opinione ne corse anche nella peste del
1576. Ora a darle maggior voga venne un dispaccio del re Filippo IV, che
avvisava il governatore di far invigilare che non s'introducessero nel Milanese
alcuni uomini portatori di unguenti pestiferi, ch'erano stati veduti in Madrid
e di là fuggiti[1073].
Queste precedenze erano più che sufficienti perché si asseverasse che
siffatte unzioni già facevansi in Milano, e così avvenne. Un
editto del tribunale di Sanità, del 19 maggio, asserendo il fatto per
indubitato, promise il premio di ducento scudi a chi avrebbe data certa notizia
de' rei, e di più l'impunità al denunciante qualora fosse uno de'
complici, ma non il principale[1074].
Poche settimane dopo, per racconto di donne, si divulgò che il
commissario della sanità Guglielmo Piazza era stato veduto a far tali
unzioni; egli confessò ne' tormenti che l'unto gli era somministrato dal
barbiere Gian-Giacomo Mora; e questi e molti altri sono pur carcerati e
tormentati. La compassionevole narrazione di questo nefando processo è
già nota[1075];
e qui basterà il dire che il Piazza e il Mora, e altri non pochi,
dichiarati rei di un delitto impossibile, furono condannati ad essere condotti
al patibolo su di un alto carro; ad aver nel cammino arse le carni da tenaglie
roventi, tagliata la mano destra; indi fracassati dalla ruota, e intessuti ancor
vivi fra le gaviglie della ruota stessa, scannati dopo sei ore, finalmente
abbruciati, e sparse le ceneri al vento. Tutto ciò fu eseguito; e stando
i miseri fra le mani del carnefice si protestarono innocenti innanzi al popolo,
e di morir volontieri per gli altri peccati loro, ma di non avere mai
esercitata l'arte di ungere, né aver pratica di veleni o sortilegi[1076].
Quanto possedevano quelle due vittime fu confiscato; la casa del Mora,
distrutta dai fondamenti, e sull'area di essa eretta una colonna per pubblico
decreto dichiarata infame, accompagnata da un'iscrizione in marmo per
tramandare la memoria del fatto alla posterità. E la posterità
l'ha giudicato: nel 1778 la colonna si trovò clandestinamente atterrata;
l'iscrizione fu levata di poi, la casa rifabbricata; onde non rimane più
traccia visibile dello scelerato giudizio[1077].
Né il Piazza e il Mora, e i molti soci ch'ebbero nel processo furono soli
sacrificati al fanatismo del volgo e all'ignoranza togata. Si volle scoprire un
distributore d'unzioni anche tra gli appestati del Lazzaretto, Gian Paolo
Rigotto, il quale andò al patibolo li sette di settembre, e l'accompagnò
il padre Felice, cappuccino, con un altro padre Teatino, che là dentro
amministrava li Sacramenti; et affermarono questi che, al solito degli altri,
aveva costui rivocata la confessione e sin all'ultimo fiato protestato di
morire innocente[1078].
Quali tempi, quai giudici, e quanto infelice nazione! A compiere l'orrenda
scena basterà che si sappia aver quella pestilenza mietuto
centoquarantamila vite di cittadini milanesi, secondo il più moderato
calcolo che desunse il Ripamonti dalle tabelle del tribunale della sanità[1079],
mentre il Somaglia l'accresce di altre quarantamila. La città non fu del
tutto sana che circa due anni dopo, nel 1632.
Le persone notabili morte ne' decorsi
trent'anni furono frà Paolo Moriggia, Gesuato, autore di molte opere
mediocri o cattive sulle Antichità Milanesi, morto nel 1605, d'anni
settantanove; Carlo Bescapè, vescovo di Novara, che morì il 6
ottobre 1615, contando sessantacinque anni di età e ventidue di
episcopato, uomo assai dotto e pio, e il più sincero scrittore della
vita di san Carlo, benché ne fosse famigliarissimo e ammiratore; e Giovanni
Pietro Carcano, morto il 5 agosto 1624, che destinò le sue molte ricchezze
a beneficare splendidamente lo spedale Maggiore e la chiesa
metropolitana di Milano, e ad erigere un monastero di vergini, dette dal nome
del fondatore le Carcanine. Chiude questa lista necrologica il
più grande e il più utile cittadino del suo tempo, il cardinale
arcivescovo Federico Borromeo, che cessò di vivere il 21 settembre del
1631, nell'età di circa anni sessantasette.
Nel progredire di questa storia, la
materia che debbo trattare quasi mi scoraggisce. Sterile ed ingrata
necessariamente per la condizione del paese dopo l'estinzione de' principi
sforzeschi, lo diviene ancora maggiormente, giacché alla mancanza de' fatti
storici va succedendo quella dei grandi caratteri, rimarchevoli per sublimi
virtù o per vizi illustri; onde il vasto, fertile e già ricco
stato di Milano in quest'epoca non può essere rappresentato da una
più vera imagine di quella di un gran podere, quasi in ira al cielo e
agli uomini, abbandonato dalla non curanza di uno sconosciuto padrone,
all'imperizia e al capriccio dei succedentisi amministratori. Nel corso di
quasi settant'anni, su cui versa questo capitolo, i buoni governatori furon
rari, e per maggiore sventura del paese sono quelli che vi fecero più
breve dimora. I danni del Milanese crebbero per le guerre che ripetutamente si
suscitarono in questo intervallo nella Valtellina e nel Piemonte, tanto per i
campeggiamenti e le rapine degli eserciti, quanto per doverli provvedere di
viveri e di soldo, giacché se anche ne' migliori tempi di Carlo V e di Filippo
II ben poco danaro era qui spedito dalla Spagna, a quest'epoca non poteva
aspettarsene sussidio veruno; non bastando neppure le scarse rendite di
quell'indolente e degenerata nazione a saziare l'avarizia de' favoriti e de'
cortigiani. Tali poi furono gli effetti di più di un secolo di cattivo
governo straniero, dell'agricoltura in più luoghi abbandonata, della
scoraggiata industria, della sofferta fame e di due pestilenze sterminatrici,
che rese esauste tutte le sorgenti della pubblica prosperità: la
popolazione per la penuria del vivere non poté riprodursi; e Milano che da
lungo tempo e per tutto il secolo decimoquinto fu ricca, florida e popolosa di
oltre trecento mila abitanti, nel decimosettimo non giungeva a centomila, e in
questo limite se ne stette quasi stazionaria, mentre l'indistruggibile
fertilità del suolo impedì all'ignoranza e al mal volere degli
uomini di farla maggiormente retrocedere.
(1632) Il vacante arcivescovato di
Milano fu, il 28 novembre del 1632, conferito dal papa Urbano VIII al patrizio
milanese Cesare Monti, già insignito della dignità di patriarca
d'Antiochia e nunzio apostolico nella Spagna, e nell'anno seguente fatto
cardinale. E poiché la storia civile non ci offre altra occasione di parlar di
lui, soggiungeremo ch'egli resse la chiesa milanese con pace e dignità
per quasi diciotto anni, fece ridurre a compimento le chiese del Lentasio e di
Sant'Agnese, stabilì il conservatorio di Santa Febronia per le figlie
povere, eresse la chiesa e il convento di Concesa e il monastero di Santa Maria
di Loreto, istituì il seminario di Monza, e, morendo, legò per
testamento agli arcivescovi suoi successori una scelta raccolta di
ducentoventun quadri, il di cui catalogo leggesi presso il Latuada[1080],
e che, riordinata e ristaurata pochi anni sono da mano maestra, forma tuttora
un magnifico ornamento al palazzo arcivescovile.
(1633) Nel 1631 era tornato al governo
di questi Stati don Gomez Suarez di Figueroa e Cordova, duca di Feria; ma dopo
due anni avendo egli dovuto, d'ordine del re cattolico, recarsi in Germania in
soccorso dell'imperatore Ferdinando II con un esercito di diecimila fanti e
mille e cinquecento cavalli, parte Spagnuoli e Lombardi, e parte Napoletani,
venne in suo luogo il cardinale infante di Spagna, fratello del re; ma non rimase
al governo che circa un anno, essendo passato a governare le Fiandre. Dal poco
che ci rimane delle sue leggi, appare ch'egli avea di mira l'esatta
amministrazione della giustizia. I successivi governatori fino al 1670 furono
il cardinale Egidio Albornoz, il marchese don Diego di Leganes, il duca
d'Alcalà, il conte don Giovanni di Sirvela, il marchese di Velada, don
Bernardino Fernandez de Velasco, contestabile di Castiglia, il conte di Haro,
don Luigi Benavides, marchese di Caracena, il cardinale Teodoro principe
Trivulzi, il conte di Fuensaldagna, il duca di Sermoneta, don Luigi de Guzman
Ponze di Leon, il marchese d'Olias e Mortara, e don Paolo Spinola, marchese de
los Balbases, duca del Sesto. Sono in trentasei anni quattordici governatori,
tra i quali il marchese di Caracena durò per otto anni, e il conte di
Fuensaldagna per quattro. L'inettitudine, l'inesperienza, il breve governo, la
distrazione delle guerre furono cagione che que' signori fecero poco bene al
paese, e lasciarono intatti i disordini, se pure non li accrebbero.
Gioverà a dare un'idea del loro modo di governare il sapersi che mentre
le provincia, rovinata dai disastri della peste, dalle lunghe guerre e dalla
pessima e tenebrosa amministrazione, esigeva i più seri provvedimenti,
il marchese di Caracena non trovò altro di meglio a fare per il ben
pubblico che vietando alle meretrici di andare in carrozza ai corsi, e il conte
di Fuensaldagna, di proibire che anche nel carnevale si ballasse dopo la mezza
notte, e che alcuna donna si mascherasse da uomo, o uomo da donna. Quel
marchese accrebbe le fortificazioni del castello di sei mezze-lune. Più
importanti furono i provvedimenti del governatore Ponze di Leon. All'intento di
soccorrere alle angustie del pubblico banco di Sant'Ambrogio, che, disordinato
e soccombente sotto il peso de' suoi debiti, avea ridotto alla metà il
pagamento degl'interessi, ordinò, con decreto del 18 luglio 1662, che i
fondi e i dazi destinati dalla città di Milano per dote di quello,
passassero in libera amministrazione di una congregazione da lui delegata; con
che per allora fu assicurata la pubblica fede. Egli fu autore di un altro
insigne beneficio a suggerimento del conte Bartolommeo Arese, presidente del
senato, personaggio di gran senno ed influenza, ed amantissimo del suo paese,
l'instituzione del così detto Rimplazzo. Esso regolava
l'alloggiamento militare sotto la direzione di un provveditore generale, il
quale forniva d'alloggio l'esercito in tempo di pace ad un determinato prezzo
per ciascuna razione da pagarsi in via d'imposta sopra tutto lo Stato, secondo
la fatta ripartizione. Così furono procurati opportuni e comodi
alloggiamenti alle truppe, liberati i pubblici e i cittadini dalle vessazioni,
e assicurata l'uguaglianza del carico. Ma questo Ponze di Leon era uomo
sì arbitrario e violento, che, senza rispetto alla giurisdizione de'
tribunali e del senato facea esercitare la giustizia a suo piacere: e ne basti
un esempio. Un cieco, conosciuto col nome di Alessandrino, andava cantando per
le vie della città una canzone popolare, in cui deridevansi gli
Spagnuoli. Il governatore se lo fece condurre innanzi, gli fe' dar a bere e
volle udir la canzone; indi ordinò che immediatamente fosse condotto
alla piazza de' Mercanti, ed alla mezza notte, a porte chiuse, fosse impiccato
e subito seppellito. Egli stesso nel giorno vegnente a comune terrore, fece
dare pubblicità alla sentenza ed all'esecuzione. È però da
confessarsi che i tempi erano convenienti per simili violenze; e i nobili in
ispecie, resi brutali dall'ignoranza, invasi dalla boria spagnuola e degradati
dalla prepotenza valorosa de' loro avi, eransi abituati alla prepotenza
facinorosa, che col mezzo di mani mercenarie procacciasi comoda e senza
pericolo la vendetta, la quale infame costumanza si mantenne in vigore fin
oltre la metà del secolo scorso[1081].
Per siffatte prepotenze la città di Milano era in tanto disordine, che i
privati cautamente si facevano scortare per le strade da uomini armati. Persino
il residente del gran duca di Toscana, Gian-Francesco Rucellai, in Porta
Vercellina, verso mezzodì, venne assalito da molti armati, Per cui, dopo
valida resistenza, costretto a sottrarsi al maggior numero, il governatore e il
senato, mancando di altro mezzo, fecero pubblicare che chiunque suddito del
re cattolico avesse in quest'occasione prestata assistenza al residente,
sarebbe stato dalla maestà sua assai gradito; e il marchese Annibale
Porroni lo fece servire da certo capitano Ampio con un centinaio di
bravi, e, così scortato, il residente prese congedo dal governatore,
dall'arcivescovo e dal presidente del senato. La stessa scorta lo
accompagnò fino a Piacenza; il fatto avvenne nel 1656[1082].
(1634) Per essere più libero e
sicuro d'impiegare le sue forze nella Germania e ne' Paesi Bassi, il re di
Spagna si era adoperato per trarre al suo partito il duca di Savoia; e
già il
(1637) Reso libero da que' due nemici
il governatore marchese di Leganes, e trovandosi al comando di dieciottoniila
fanti e quasi cinquemila cavalli per rinforzi avuti dalla Spagna, dalla
Germania e da Napoli, si decise a spingere con vigore la guerra nel Piemonte,
colla lusinga di facili progressi per la morte accaduta del duca Vittorio
Amedeo, lasciando due figli in età infantile sotto la tutela della
madre. Prese quindi il forte di Breme nella Lomellina, invase il Monferrato e
assediò Vercelli. (1638) Poi, collegatosi col cardinale Maurizio e col
(1647) Il cardinale Mazzarino,
succeduto al defunto cardinale Richelieu nella suprema direzione del regno di
Francia, accrebbe un nuovo fomite alla guerra in Italia coll'essere riuscito a
far entrare nella lega contro gli Spagnuoli Francesco I d'Este, duca di Modena.
Perciò i Gallo-Estensi occuparono con grandi forze Casalmaggiore, che
tennero per due anni, e assediata inutilmente Cremona, disertarono il
Cremonese. Ma la vigorosa resistenza opposta dal governatore marchese di
Caracena, l'occupazione da esso fatta di più terre del modenese, e gli uffici
dei duchi di Mantova e di Parma indussero il duca di Modena a rappacificarsi
colla Spagna. (1649) Liberati dalle angustie di questa nuova guerra potettero i
Milanesi prestarsi più alacremente a festeggiare l'arrivo della loro
sovrana, l'arciduchessa Marianna d'Austria, che da Vienna recavasi a Madrid,
sposa del re Filippo IV. Essa fece il suo ingresso in Milano il 30 maggio del
1649, il quale è così descritto dal Brusoni[1083]:
Entrò la regina privatamente in Milano per Porta Tosa, a causa delle
grandissime pioggie che diluviarono in quei giorni; e fece poscia la sua
solenne entrata per Porta Romana, incontrata dal marchese di Caracena,
governatore, con tutti i tribunali, e dal clero in processione. Il governatore,
messo piede a terra, presentò alla Maestà Sua diciotto cavalieri,
coperti di scarlatto guernito di brocato, e altri sessanta, vestiti di tela
d'argento, destinati a servirla. Dopo che, collocata sovra una chinea da' duchi
di Machedea e di Terranova, venne salutata da una salva di mille e ducento
mortaletti e da tutto il cannone della città. Per tutte le contrade e le
piazze per le quali passò la regina, oltre agli addobbi che le
adornavano, si vedevano spallierate le milizie della città e dell'esercito
sotto i loro maestri di campo e generali, con vaghissima e superba mostra. Fu
servita fino al Duomo, e poscia al palazzo di sua abitazione, con ordine e
pompa veraramente regia e maravigliosa. Fermossi la regina per alcuni
giorni in Milano con Ferdinando IV re d'Ungheria e di Boemia, suo fratello,
onorata dai principi d'Italia o personalmente o per ambasciatori. Durante la
sua dimora mostrò di commiserare la sorte di don Odoardo di Braganza,
fratello del nuovo re di Portogallo, e benemerito dell'imperatore suo padre, il
quale da sette anni gemeva in stretta carcere nella rocchetta di quel castello;
e forse sarebbesi a di lui favore interposta presso il re suo sposo, se in quel
tempo appunto non fosse morto dopo brevissima malattia[1084].
(1650) Il 16 di agosto dell'anno seguente morì pure il cardinale
arcivescovo Cesare Monti, in di cui vece fu promosso alla sede arcivescovile
monsignore Alfonso Litta. Questo prelato, nel lungo pontificato di
vent'ott'anni, accrebbe di comodi ed ornamenti il seminario Maggiore,
ristaurò il cadente seminario della Canonica, ed aggiunse nuovi redditi
al collegio de' Nobili. Negli affari ch'ebbe a trattare in corte di Roma e ne'
varii conclavi ai quali intervenne, si meritò lode di zelo e d'accorgimento;
e nelle emergenze di dispareri giurisdizionali si condusse generalmente con
moderazione; che se nel fatto che vado a narrare si mostrò dapprima
animato da soverchio calore, non fu tardo a piegarsi al più maturo
consiglio della saviezza.
Era stato ucciso con una pistolettata
il cavaliere Uberto dell'Orto su la porta del procuratore Gadolini, vicino a
San Giorgio in Palazzo. Il sospetto cadeva sopra un Landriani che si pose
nell'asilo di San Nazaro. Il governatore Ponze di Leon ordinò che il
Landriani venisse ad ogni modo imprigionato, e gli sbirri lo presero
sull'altare mentre s'era attaccato al tabernacolo. L'arcivescovo ne fece fare
acerbe doglianze, accolte dal governatore trascuratamente. Minacciò
scomuniche e interdetti, ma il governatore non gli badò. Fece intimare
il primo monitorio al capitano di giustizia Clerici, e fu sprezzato.
Intimò il secondo monitorio, che venne accolto come il primo. Venne un
prete per intimare il terzo monitorio, e gli alabardieri del capitano di
giustizia lo ferirono. L'arcivescovo era smanioso. Il governatore gli fece dire
che se scomunicava avrebbe fatto impiccare alle porte dell'arcivescovato il
Landriani. Stando così le cose, entrò di mezzo il presidente del
senato, Bartolommeo Aresi; e persuase all'arcivescovo pensieri più miti,
poiché alle chiese si deve rispetto, ma non per ciò che servano di
ricovero agli scelerati; che in Venezia non si conosceva immunità, ed
eravi anche per le scomuniche l'esempio di Venezia stessa nell'interdetto di
Paolo V; e in fine che questi privilegi, non avendo altro appoggio che la
tolleranza del re di Spagna, non conveniva di compromettere la dignità
sua con maggiore insistenza. Il qual unico partito fu seguitato dalla saviezza
dell'arcivescovo. Il
Il Milanese trovavasi ridotto alla
condizione più compassionevole per i danni e gli eccessivi dispendi
cagionati dalla guerra. (1651) Avendo esaurito ogni mezzo di dar danari, e
sopracaricato di debiti, al di cui soddisfacimento non bastavano le continuate
vendite delle regalìe, l'avere impegnato le sue rendite ne' partiti
Balbi e Ceva, e le sovvenzioni procuratesi coll'erezione del monte di San
Carlo, fu duopo staccare dallo Stato Pontremoli col suo distretto, vendendolo
al gran duca di Toscana. Venne in seguito da Madrid una regia carta di pien
potere, per obbligare ed anche vendere qualunque fondo camerale, estendendosi
questa facoltà anche alla concessione de' feudi. Farà sorpresa ai
lettori che in sì estreme angustie non siasi mai pensato al più
semplice e natural rimedio, il metter fine a una guerra che durava da tanti
anni più o men viva, regolata dal solo capriccio, senza piano o stabile
condotta, in cui erano sì rari i tratti di valore e di perizia militare
nei capi, e nella quale null'altro v'era di certo se non che la distruzione
degli averi e delle vite dei sudditi. Ma questo pensiero troppo ripugnava ai
fini personali de' governatori di questo Stato, ai quali premeva di perpetuarsi
(come dice opportunamente il Muratori) nel lucroso mestiere di comandare
un'armata. (1652) Perciò il marchese di Caracena non ebbe
ritegno di destare il quasi sopito incendio con muoversi e discacciare i
Francesi da Casale di Monferrato, giovandosi del favore che incautamente gli
prestava in questo progetto il duca Carlo II di Mantova, padrone di quella
città, e che, per il matrimonio di sua sorella Leonora coll'imperatore
Ferdinando III, erasi necessariamente affidato al partito spagnuolo. La mossa
improvvisa fu coronata da un felice esito, e nel principio d'autunno sì
la città che i forti caddero in potere degli Spagnuoli. (1653) Ma
ciò ch'erasi temuto, avvenne; mentre appena due mesi dopo, i Francesi,
sollecitamente rinforzati, calarono ad infestare il territorio alessandrino e
trascorsero fino alle porte di Novara. I due eserciti altro non fecero per la
maggiore parte dell'anno seguente che starsi vicendevolmente in osservazione per
esser pronti ad ostare dall'una parte e dall'altra a qualunque avanzamento. Il
torbido e impaziente Caracena profittò di questa calma per muover briga
al duca di Modena col pretesto di chiedere spiegazioni per le milizie che
assoldava e il fortificare di Brescello. (1655) Invaso il territorio del
duca, minacciò di assediare quella piazza e di bloccar Reggio; ma le
copiose pioggie della primavera e il crescere del Po lo costrinsero a levar il
campo, e a ripassare il fiume precipitosamente dopo una spedizione di soli
venti giorni, e di aver ridotto un amico sospetto a divenire nemico dichiarato.
E di là appena a due mesi trovò ben molto più a fare in
casa propria, mentre il
L'allontanamento di quell'ambizioso
governatore, se sparse di qualche balsamo le esulcerate piaghe della misera
Lombardia, non valse a impedire il nuovo incendio di guerra che si
suscitò tosto dopo il ritorno del duca di Modena da Parigi, ov'erasi
recato appena fu sano della sua ferita. Prima impresa de' collegati fu
l'investire Valenza sul Po, che, ostinatamente difesa, dovette arrendersi il 7
di settembre. (1658) Nei due anni successivi, stando le armi spagnuole
unicamente sullo schermirsi, molti danni sofferse lo stato di Milano dalle
scorrerie nemiche; quando, nel
(1661) Dopo la pubblicazione della
sospirata pace cominciò a respirare l'oppresso popolo milanese, il quale
ottenne pure di veder limitata l'obbligazione dell'alloggiamento militare a
quattromila fanti e duemila cavalli, con reale dispaccio 30 novembre del
Magnifici furono i funerali celebrati
in Milano per il defunto re. Nel seguente anno ebbero i Milanesi occasione di
facile rallegramento nelle feste fatte per l'arrivo dalle Spagne, di passaggio
per Vienna, dell'infante donna Margherita d'Austria, sposa dell'imperatore
Leopoldo. Il governatore fece per ciò ristaurare splendidamente il
palazzo ducale. (1668) Senza rispetto per la miseria pubblica, il lusso
sfoggiato dalla nobiltà spagnuola e milanese, e dagli ambasciatori de'
sovrani d'Italia nel ricevimento di quella principessa, fu straordinario: e
basti per un esempio, che il conte Filippo d'Agliè, ministro del re di
Sardegna, si mostrò con un seguito di trecento persone, e il pomposo
corteggio di cento tiri-a-sei. Due anni dopo morì il governatore Ponze
di Leon, e dopo tre mesi di governo morì pure il suo successore
Francesco de Oronco, marchese de Olias, Mortara e San Reale. Fu allora mandato
il duca del Sesto don Paolo Spinola, marchese de los Balbases, il quale appena
trascorso un anno cedette la carica a don Gaspare Tellez Giron, duca d'Ossuna,
nome reso celebre dal di lui avo don Pietro, vice-re di Napoli. La regina
vedova lo spedì governatore a Milano, per consiglio del gesuita Everardo
Nitard, confessore, ch'essa avea condotto dalla Germania, e ciò per
allontanarlo da don Giovanni d'Austria, ch'erasi insinuato nella confidenza del
piccolo re. Governò per quattro anni. Quello che siamo per dire di lui
è preso da un raro libretto, venuto allora in luce, che, quantunque sia
principalmente un epilogo di scandalose storielle tendenti alla diffamazione di
alcune gentildonne e cavalieri milanesi, contiene varii fatti storici che hanno
tutta l'apparenza della verità[1086].
Fu assai pomposa l'entrata ch'ei fece in Milano. Precedevano alcune compagnie
di cavalleria colla pistola alla mano, la corazza sul petto e la celata in
capo. Poi venivano più di cento cavalli, carichi di arredi, coperti di
panno scarlatto trinato d'oro, e colle funi di seta intrecciate di oro. Ogni
cavallo aveva un palafreniere che lo conduceva, vestito in uniforme scarlatto,
trinato d'oro e pennaccio nel cappello. Poi venivano i cavalli del duca,
coperti pure di scarlatto trinato d'oro, con simili palafrenieri. Indi
seguivano i carabinieri, con lucidissime armature e ricchi ornamenti. In
seguito in magnifica gala cavalcavano i gentiluomini milanesi, accompagnati da numeroso
stuolo de' loro palafrenieri. Poi venivano tre carrozze del duca superbissime.
Il carro e le ruote erano intagliate con sommo lusso, e tutto il legno dorato e
i ferri smaltati; i cerchi delle ruote erano d'argento, e gli apparenti e
rilevati chiodi nella prima erano d'oro, nelle due altre d'argento dorato;
l'interno delle carrozze era tutto ricamato a profusione d'oro. Donna Mizia,
moglie del duca, era nella prima carrozza con due sue figlie, e il duca
cavalcava, superbamente bardato, alla portiera destra, costeggiati dalla
guardia svizzera. Veniva in seguito la compagnia delle lance, indi altra
soldatesca. La corte era stata mobigliata da esso duca in modo che un monarca
non avrebbe potuto avere di più.
Questa pompa sorprendente annunziava
nel nuovo governatore un personaggio ricchissimo o un ladro; forse fu l'uno e
l'altro. Per ogni mezzo egli cercava di far danari; il conte Antonio Trotti,
per essere eletto generale, dovette sborsargli ottantamila genovine[1087].
Il consiglio secreto procurò di porvi qualche argine; ne furono portate
forti rimostranze a Madrid, per cui il duca una volta succombette, avendo
dovuto disfare dodici capitani che aveva creati di suo capriccio. Dovette pur
scomparire un altra volta, e pare a torto. Un suo domestico avea percosso un
cane della principessa Trivulzi, e i domestici di essa lo uccisero. Il duca
ordinò al capitano di giustizia la carcerazione degli omicidi; il
capitano si portò nella casa della principessa e li fece imprigionare.
La principessa era Spagnuola, spedì un corriere alla corte, venne
l'ordine che dovessero i detenuti ricondursi nella casa Trivulzi, e il capitano
di giustizia ne chiedesse scusa. Così rovesciavasi ogni idea di
giustizia e di buon governo per una raccomandazione. Scemato per tal modo il
rispetto verso il governatore, si videro affisse delle satire contro di lui; e
non potendosi trovare indizio dell'autore, malgrado i premii proposti, il duca
ebbe ricorso a un negromante, il qual ciurmatore fece credere che un frate
fosse il colpevole. Per caso nominò un frate contro cui, secondo le
opinioni religiose di que' tempi, non si poteva altro castigo imporre che il
bando; e l'ebbe il padre Giudici, crocifero, sulla prova del mago, ben pagato
per questo. Il duca non era né affabile né cortese; era violento, capriccioso,
orgogliosissimo, giuocatore vizioso, scostumato, rapace: così ce lo
dipinge l'autore. Come vivessero i popoli sotto il di lui governo e quali
esempi ricevessero, è facile comprenderlo. Se recò maraviglia in
Milano il trovarsi quattordici lire nella tesoreria generale alla partenza del
duca del Sesto, molto più fece sorpresa l'erario totalmente esausto
lasciato dall'Ossuna in tempi meno infelici. I costumi della nobiltà
milanese erano allora assai ritirati e gelosi. Fu cosa che spiacque, e che non
ebbe seguito, una conversazione che il duca d'Ossuna aprì una sola
volta.
(1674-1698) Dalla partenza del duca
d'Ossuna nel 1674 fino al termine del secolo, vide Milano succedersi cinque
governatori, che tutti trapassarono insignificanti, il principe di Ligne, i
conti di Melgar e di Fuensalida, il duca di San Lucar, marchese di Leganes[1088],
e don Carlo Enrico di Lorena, principe di Vaudemont, che, venuto nel 1698,
durò nel governo per otto anni. Quest'ultimo abbellì la corte
ducale, introdusse società fra i nobili inselvatichiti, fece conoscere
costumi gentili e colti, e la nazione passò dalla rusticità al
libertinaggio. È celebre la memoria della villa fuori di Porta
Orientale, la Belingera, ove quel principe passava l'estate; i giardini
erano frequentati da cavalieri e dame. Prima non conversavano i due sessi se
non tra prossimi parenti. Il conte Verri, che ci ha lasciati questi cenni, ci
è pure testimonio di avere egli stesso ascoltate le declamazioni sul
costume allora corrotto. Nello stesso periodo di tempo si succedettero tre
arcivescovi, e furono i cardinali Federico Visconti nel 1681, Federico Caccia,
eletto nel 1693, ma che trovandosi nunzio a Madrid, si è recato alla sua
sede soltanto tre anni dopo, e Giuseppe Archinto nel 1699, che resse poi per
tredici anni la Chiesa milanese. Intorno alla solenne entrata che fece in
Milano il cardinale arcivescovo Caccia l'11 dicembre del 1696, abbiamo un libro
pubblicato dal segretario del consiglio generale de' LX decurioni, Baldassare Paravicini[1089].
Può esser grato alla boria municipale il sapere che in tale occasione fu
mandato a Roma ambasciatore della città di Milano il conte Uberto
Stampa, il quale era cavaliere d'Alcantara, maestro di campo nelle armate
spagnuole, e sedeva nel consiglio secreto. Il duca di Medina-Celi, ambasciatore
cattolico in Roma, gli diede ogni assistenza, così pregato dalla
città. Lo Stampa partì per Roma, accompagnato dal conte Vincenzo
Ciceri e da don Guido Brivio. L'ambasciatore del re cattolico e i prelati
nazionali spedirongli incontro le loro mute, i cardinali gli spedirono i loro
gentiluomini, e l'ambasciatore milanese andò all'udienza del
Nel restante di questo secolo rimase il
Milanese quasi libero dalle guerre, se non che la cessione di Casale nel
Monferrato fatta alla Francia dal duca di Mantova
Oltre le sacre e pie fondazioni dovute
alla munificienza de' cardinali arcivescovi Monti e Litta, di cui abbiamo fatto
cenno, si ha a commendare l'istituzione fatta, nel 1637, dal patrizio Giovanni
Ambrogio Melzo di un luogo pio, che portava il di lui nome, per distribuire ai
poveri; specialmente vergognosi, larghi sussidii di viveri, panni per
decentemente coprirsi, e varie doti per il collocamento di oneste zitelle[1090].
La chiesa di Santa Maria alla Porta fu ricostruita nel 1652 sul nobile disegno
di Francesco Richini, essendo concorso alla spesa con ragguardevol somma il
conte Bartolommeo Aresi, che n'era parrocchiano. Lo stesso conte, dopo di aver
giovato colle sue ricchezze all'abbellimento o al ristauro di varie altre
chiese, sì dentro che fuori della città, eresse, nel 1665, nella
basilica Porziana di San Vittore, col disegno di Gerolamo Quadrio, la ricca
cappella gentilizia dedicata alla Vergine Assunta[1091].
Quattro anni dopo fu ridotta a compimento la chiesa della Vittoria a spese del
cardinale Omodeo, che vi aveva una sorella, essendone architetto Giambattista Paggi[1092].
Nel 1674 si eresse il monastero delle Carmelitane Scalze; nel 1688, essendo
caduta
Primo tra le persone distinte mancate
di vita in questo tratto di tempo ci si presenta quel Lodovico Settala,
protomedico, che sì male ha figurato nel processo della strega, da cui
si disse ammaliato il senator Melzo; ma la sua credulità alle arti magiche,
quasi generale in allora, non gli toglie il merito di uomo dottissimo in
più scienze e anche nella politica, e di essersi col massimo zelo
adoperato in favore de' suoi concittadini nelle pestilenze del 1576 e del 1630.
Egli morì il 12 settembre del 1633, nell'anno ottantesimo della sua
età, essendo nato il 27 febbraio 1552[1093].
Circa la fine del 1641 cessò di vivere il canonico Giuseppe Ripamonti,
autore di molte opere, descritte dall'Argellati[1094]:
cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore
delle cose de' suoi tempi[1095].
Bonaventura Cavalieri, allievo del Galileo e di Benedetto Castelli, autore
della Geometria degl'Indivisibili, maestro di Stefano degli Angeli e del
Torricelli, lasciato oscuro nella sua patria, dove soltanto gli fu offerto
dalla filantropia del cardinale Federico Borromeo un posto di dottore nel nuovo
collegio dell'Ambrosiana, del tutto estraneo a' di lui studi, morì
professore in Bologna il 3 dicembre del 1647, di soli quarantanove anni[1096].
Il conte Bartolommeo Arese, più volte nominato, uomo di grand'ingegno e
destrezza, che fu per molti anni reggente nel supremo consiglio d'Italia, e
quindi presidente del senato, dopo di essere stato assai volte adoperato in
commissioni difficilissime ed importantissime, giunto all'anno
sessantesimoquarto di età, finì di vivere il 23 settembre del
1674. Essendo prossimo agli ottant'anni, terminò pure il mortal corso il
16 febbraio 1680 il canonico Manfredo Settala. Era figlio dell'illustre
protomedico Lodovico. Fu allevato a Siena. Viaggiò l'Italia, la Sicilia,
l'Egitto, Cipro, Candia, Negroponte, Costantinopoli, Smirne, la Siria, e
ritornò in patria ricco di cognizioni, scrivendo bene più lingue
e conoscendo le orientali. Possedeva la musica, aveva molta abilità
delle sue mani, e moltissimo ingegno e amore delle curiosità naturali o
esotiche. Fu egli che formò il museo tuttora celebre sotto il suo nome,
descritto da Paolo Maria Terzago e da Pietro Francesco Scarabelli, e del quale
fece dono alla biblioteca Ambrosiana[1097].
Il di lui funerale fu decorato con orazione recitata dal padre Giambattista
Pastorino, gesuita, e il marchese Giovanni Battista Visconti descrisse e
stampò la relazione di queste solenni esequie. «Pare che allora (dice il
conte Verri) vi fosse qualche senso di stima e di gratitudine verso di un
cittadino che onorava la patria». Il 22 aprile del 1699 morì infine, di
sessantanove anni, il segretario del senato Carlo Maria Maggi. Avea fatto i
suoi studi in Bologna, e vissuto lungamente nella gioventù in Roma e
Napoli. Era dotto nella letteratura greca, latina e italiana; dee però
la sua maggiore celebrità alle commedie e poesie che scrisse nel dialetto
milanese, in cui con tanto corredo di sapere non è maraviglia se sia
così ben riuscito. Non dee escludersi da questa lista necrologica un
Milanese d'altissimo ingegno e meritevole di compassione più pe' suoi
deliri che per le sue tristi vicende, il
Mentre, essendo tolta ogni speranza di
successione, declinavano rapidamente la salute e la vita del re di Spagna Carlo
II, l'ambizione delle principali potenze di Europa non fu lenta a predisporre
macchine e leghe onde ripartirsi i possedimenti della vasta monarchia
spagnuola; e già fino dal mese di marzo del 1700, dopo una negoziazione
di due anni, il re di Francia avea conchiuso un trattato col re d'Inghilterra e
gli Olandesi, in cui, tra l'altre disposizioni, aveasi convenuto che il
Milanese fosse dato al duca di Lorena invece della Lorena, che dovea
incorporarsi alla Francia. Ma diversi erano i titoli che si allegavano dai
sovrani esteri, e specialmente dal re di Francia e dall'imperatore, in appoggio
delle loro pretese[1099],
e giova di riferirli brevemente.
Di due prime figlie avute dal re
Filippo IV, le infanti Maria Teresa e Margherita, la prima era stata data in
isposa al re cristianissimo Luigi XIV, la seconda all'imperatore Leopoldo I.
Per volere del padre l'infante Maria Teresa aveva rinunciato alle ragioni che
le competevano al trono di Spagna, ciò che all'altra figlia non era
stato richiesto. In conseguenza da entrambi que' sovrani aspiravasi alla
successione; dal re di Francia, a favore dell'unico suo figlio il Delfino,
riputando inattendibile la rinuncia; e dall'imperatore, per l'arciduca Carlo,
che gli era nato nel 1685. Conoscendosi che il re Carlo II si avvicinava al
termine della sua vita, crebbero gl'intrighi e le pratiche dalle due parti. Per
trovarsi libero all'imminente nuova lotta, non ostante la memorabile vittoria
di Zenta, conchiuse l'imperatore col Gran Turco la tregua di Carlowitz. Il re
di Francia, all'opposto, strinse con fina astuzia un nuovo trattato con
l'Inghilterra e l'Olanda, di cui base era lo smembramento della Spagna, non
perché questo avesse effetto, ma al solo fine che la nazione spagnuola, per
ciò sbigottita, si volgesse a favorire la successione del Delfino, siccome
avvenne. Aggiunse a questo maneggio due altre arti, la promessa che, premorendo
il re di Spagna, il Delfino ne avrebbe sposato la vedova, e una dichiarazione
procuratasi dal papa, che giudicava prevalente la pretesa della Francia e
convenevole al bene comune. Questa dichiarazione finì di vincere l'animo
irresoluto dell'infermo re di Spagna, per cui, il 2 ottobre del 1700,
istituì, con secreto testamento, erede di tutta la monarchia spagnuola
Filippo di Borbone, duca d'Anjou, secondogenito del Delfino, in tanto che non
cessava di assicurare l'imperatore della sua predilezione. (1701) Manifestatasi
la testamentaria disposizione dopo la morte del re Carlo II, avvenuta, come si
disse, il primo giorno del successivo novembre, non era ancora la corte
imperiale rinvenuta dalla sorpresa per questo inaspettato avvenimento, che il
duca Filippo, proclamato in Parigi re delle Spagne col nome di Filippo V, era
di già partito per Madrid, dove fece il suo solenne ingresso il 14 del
seguente aprile. L'imperatore oppose a questo fatto la pubblicazione di un
manifesto, in cui dimostrava la prevalenza delle sue ragioni, intanto che dalle
due parti preludevasi all'imminente guerra coi più formidabili
apparecchiamenti.
I Gallo-Ispani, avendo per
generalissimo il duca di Savoia, sotto il comando del maresciallo di Catinat,
marciarono alle rive dell'Adige per opporsi all'esercito imperiale, che, sotto
gli ordini del
(1704) Mosso il re di Francia dal
doppio intento di deviare il turbine che assembravasi verso le sue frontiere
del Reno, e di vendicarsi del duca di Savoia, spedì contro di questi il
duca di Vendome, di cui prima istruzione e mossa fu di intercettargli le
comunicazioni collo stato di Milano. Il maresciallo conte di Staremberg, coi
soccorsi che fu pronto a condurre in Piemonte per l'interdetta e malagevole
strada del lago Maggiore, fece più commendevole la sollecitudine che
notabile il vantaggio; tanto era il contrasto delle forze nemiche. Queste si
estesero e stabilironsi successivamente in una gran parte del Piemonte. Trino,
Vercelli, Susa, la Brunetta, le città d'Ivrea e d'Aosta, e il forte di
Bard caddero in loro potere. (1705) Verrua e Guerbignano, piazze assai
forti, strette di lungo assedio e difese con vigore, dovettero pur cedere. Il
duca di Savoia fu obbligato di ritirarsi a Civasso, e lasciar Crescentino in
mano ai nemici. Non mancava che di assediar Civasso perché fosse libero ai
Gallispani di penetrare fin sotto Torino. La politica che reggeva allora il
gabinetto austriaco, era evidente, di lasciare che il nuovo amico e il natural
nemico egualmente si consummasser o sicché il primo restasse in fede, o, quando
mai se ne dipartisse, non fosse temibile, e l'altro, assalito poi con forze
intiere, potesse facilmente esser vinto. Ma quando il duca di Savoia trovavasi
ormai ridotto a non poter dir proprio che lo spazio occupato dallo stanco e
infiacchito suo esercito, vide la corte di Vienna che un più lungo
temporeggiamento poteva mettere in pericolo la somma delle cose, per cui si decise
a rispedire in Italia il
Il
(1712) Le mutate circostanze persuasero
le potenze guerreggianti a' pensieri di pace. (1713) Al qual fine, i loro
plenipotenziari, nel mezzo dell'inverno, si unirono in congresso ad Utrecht, e,
dopo nove mesi di trattative, fu dapprima conciliata una sospensione d'armi,
seguìta poscia dalla pace, conchiusa l'11 aprile del 1713. Il 2 di
questo mese entrò in Milano l'imperatrice, che dalla città di
Barcellona andava a raggiungere il consorte in Vienna, lasciando abbandonata la
Catalogna a' suoi nuovi destini. Le tennero dietro varie migliaia di esuli
spagnuoli; per provvedere alla cui sussistenza, fu staccato dal Milanese il
Finale, venduto alla repubblica di Genova per un milione e duecentomila pezze
da lire cinque di Milano, riservato il vano titolo di feudo all'Impero. (1717)
Distratto il
La prima intrapresa del governatore
principe di Lewenstein in Milano, fu la costruzione del teatro di corte, ch'era
stato consunto dalle fiamme il 5 gennaio 1708, e che, dopo avere sussistito per
quasi sessant'anni, soggiacque ad un'uguale sciagura il 24 febbraio del 1776.
Né d'altro poté occuparsi, essendo stato sorpreso dalla morte il 26 dicembre
dello stesso anno. Questo fu il nono governatore morto durante il suo governo,
dopo estinta la linea de' duchi sforzeschi. Gli otto antecessori furono il
cardinale Caracciolo, il duca di Albuquerque, il marchese d'Ayamonte, il conte
di Fuentes, don Ambrogio Spinola, il cardinale Trivulzi, don Luigi Ponze de
Leon, e il marchese d'Olias e Mortara. Lewenstein fu tumulato in San Gottardo;
gli antecessori lo furono in Duomo, a Santo Stefano, alla Scala, alla Pace, a
San Celso, ai Cappuccini di Porta Vercellina. (1719) Gli fu dato in suo
successore il conte Gerolamo di Colloredo, che giunse al suo posto sul finire
della primavera del 1719. Egli cinse di sbarre la fossa interna della
città, a difesa de' passeggeri, e, dopo sei anni di buon governo,
partì in cattivo stato di salute per recarsi a morire a Vienna,
succedendogli il maresciallo conte Daun.
La nascita d'una terza figlia avendo
quasi tratto di speranza l'imperatore Carlo VI di aver prole maschile,
s'indusse egli a stabilire con solenne atto, conosciuto sotto il nome di Prammatica
Sanzione, una legge di successione, per la quale in mancanza di maschi,
sono chiamate le figlie con ordine di primogenitura; legge garantita non solo
dalla dieta dell'Impero, ma pur dall'Olanda, dalla Francia, dalla Spagna e
dall'Inghiterra, e più efficacemente lo è stata in seguito dalla
forza dell'armi. (1725) Una segreta convenzione stipulata il 30 aprile 1725 tra
Carlo VI e Filippo V confermò al primo tra gli altri vantaggi in Italia
il possedimento dello stato di Milano; il che diede causa ai Lombardi di
sinceri tripudii, fondandosi, più che nelle sempre incerte speranze
dell'avvenire, nella lunsinga della stabilità della condizione presente.
(1729) Questi fausti presagi furono sconvolti da un turbine improvviso, avendo
la prossima estinzione delle famiglie regnanti de' Farnesi negli Stati di Parma
e Piacenza, e de' Medici in Toscana ravvivate le pretese dell'imperatore Carlo
VI, contro le quali la Francia, la Spagna e l'Inghilterra convennero in secreto
trattato, conchiuso in Siviglia il 9 novembre del 1729. Perciò da ogni
parte si pose cura agli apprestamenti guerreschi, e l'imperatore si
mostrò nell'attitudine più imponente. Per di lui ordine il
governatore conte Daun fece ristaurare le piazze forti del Mantovano e del Milanese,
radunò magazzini copiosissimi, e si accinse con ogni diligenza ad
ammassar denaro. L'esercito imperiale in Italia, accresciuto con rinforzi
venuti di Germania, fu presto numerosissimo, e si disse ascendere a
sessantamila fanti e ventimila cavalli. (1730) Il conte di Mercy,
generalissimo, lo distribuì in un accampamento continuo lungo il Po, da
Ostiglia sino a Pavia, avendo fatto centro in Cremona per il deposito delle
vittovaglie e d'ogni corredo militare. Così, quantunque le
ostilità non abbiano incominciato che assai tempo dopo e per effetto di
altri ravvolgimenti politici, la Lombardia soggiacque a tutti i danni della
più aspra guerra guerreggiata. La diaria, convenuta pagarsi dallo
Stato per la difesa del paese, fu aumentata dalle tredici alle sedicimila lire
al giorno, per cui ascese ad annui cinque milioni e ottocentoquarantamila lire
milanesi. Nella ripartizione di un sussidio straordinario di quattordici
milioni di fiorini imposto alla monarchia, due milioni dovette contribuire
l'Italia austriaca. I frequenti passaggi delle truppe, le requisizioni de'
generi e in ispecie dell'avena accrebbero i dispendii e le vessazioni. Tutte le
casse pubbliche erano esauste, e la regia camera sospese i pagamenti ai
creditori che per l'indisputata liquidità de' loro titoli erano detti di
giustizia. A questi mali s'aggiunse che fino dal 1726 i creditori, o
come chiamavansi i Reddituari de' monti di San Carlo, per conseguire
almeno una parte de' loro redditi, aveano dovuto accondiscendere alla riduzione
de' capitali al sessanta per cento, e degl'interessi dal cinque al tre, e che
da più anni l'intiera provincia soggiaceva al sopracarico delle spese
per il nuovo censimento, le quali dal 1718 al 1733 salirono alla somma di sei
milioni. Altri minori aggravii s'introdussero in allora; essendo stata privata
la camera de' mercanti di Milano dell'antichissimo possesso di avere un proprio
corriere per la corrispondenza nella Germania, e stabilita la nuova gabella di
francare le lettere, laddove prima si pagava soltanto al riceverle, non a spedirle.
(1733) In questo stato di guerra senza
guerra aperta si durò per tre anni, fino al 1733, quando l'influenza
esercitata dalla corte imperiale per l'elezione del re di Polonia Federico
Augusto III, in onta de' maneggi del gabinetto di Francia, fu il grano di
polvere che mancava a far accendere la mina, da tanto tempo accumulata, e
mentre altresì l'esercito austriaco in Italia, pocanzi sì
formidabile, erasi, per varie cause, di molto diminuito. Questa volta la
politica della corte austriaca fu vinta dall'astuzia e dalla simulazione degli
avversari. Il re di Francia Luigi XV, il re Filippo V di Spagna e il nuovo re
di Sardegna Carlo Emmanuele si collegarono, il 16 settembre, con segreto
trattato di alleanza contro la maestà cesarea; e fu questo talmente segreto,
che gli armamenti intrapresi dal re sardo si riputarono in Vienna fatti in
difesa propria e dello Stato di Milano contro i Francesi, al segno che, avendo
lo stesso re chiesto di estrarre dal Milanese circa trecentomila moggia di
grano, dai ministri imperiali fu tosto ordinato che vi si acconsentisse. E in
quest'erronea opinione stettero così ostinati, che quando il conte Daun,
chiarito dall'inviato cesareo in Torino della contratta lega, della quale il re
di Sardegna era stato eletto generalissimo, ne diede avviso alla corte, non fu
creduto. Spedì corrieri, spedì suo figlio, tutto fu riguardato e
deriso come un sogno e un terror panico del governatore; e la procella
sopragiunse tanto precipitosa, che appena egli ebbe tempo di porsi in salvo,
rifugiandosi a Mantova il 22 ottobre. A tale inaspettato sconvolgimento tutti i
ministri e il paese furono in costernazione. I sessanta decurioni di Milano si
radunavano ogni giorno: si destinò la milizia urbana alla custodia delle
porte della città, si fece una processione a Sant'Ambrogio, e si
concertò come avevasi a far buon viso ai nuovi padroni. Il 2 novembre i
delegati di Milano rendettero omaggio al re di Sardegna presso Abbiategrasso,
accolti con distinzione, avendo voluto che si coprissero; e furono tenuti due
ore con lui, mentre sfilavano otto battaglioni francesi e quattro savoiardi
destinati ad occupare
I Gallo-Sardi, quanto furono celeri
nell'invasione, altretanto si mostrarono lenti nell'approfittare
degl'improvvisi riportati vantaggi, e della sorpresa e debolezza
degl'Imperiali, che in tutto non avevano in Italia quattordicimila uomini. Si
lasciò loro il tempo di riprender lena, di raccogliere le sparse, benché
tenui forze de' diversi presidii, e di far di Mantova il centro d'unione de'
soccorsi spediti in fretta dalla Germania. Anche il re di Sardegna fu sollecito
ad accrescer forze all'esercito collegato colle copiose leve eseguite, non meno
ne' suoi stati della Savoia e del Piemonte, che nel ducato di Milano, dove, non
ostante l'avversione del volgo ai Piemontesi e ai Francesi per antiche gare ed
animosità, il reclutamento fu numeroso. Avvenne sul finire dell'anno la
battaglia campale di Guastalla, egualmente gloriosa per le due parti, ma senza
esito decisivo. Però il partito imperiale in Italia soggiacque ad un
colpo funesto per la spedizione marittima partita di Spagna alla conquista de'
regni di Napoli e di Sicilia a favore dell'infante don Carlo. Entrò
questi in fatti vittorioso in Napoli, il giorno 15 maggio, donde era fuggito il
viceré conte don Giulio Visconti, e cinque giorni dopo venne proclamato re
delle due Sicilie fra gli urli d'applauso e di tripudio di quella plebe
sfrenata e salvaggia, abituata da tanti secoli a festeggiare i presenti e a
maledire chi si ritira, quando l'occasione non le sia propizia per fargli un
male maggiore. (1735) All'uscire da' quartieri d'inverno l'armata cesarea si
trovò accresciuta di alquante migliaia di soldati, che retrocedevano da
Napoli col capitano generale duca di Montemar, e all'opposto giunse di Francia
in Milano, verso la fine di marzo, il maresciallo di Noailles, e ai primi di
maggio in Cremona il re di Sardegna. Incalzati gl'Imperiali dai Gallo-Sardi,
furono dal loro maresciallo Koningsegg, con lodatissima provvidenza[1102],
concentrati verso il Tirolo, avendo prima posto in salvo i bagagli, i malati, i
cannoni, e ogni altro attiraglio e impedimento militare. Gli succedette nel
comando il generale conte di Kevenhüller, al tempo del quale null'altro accadde
fuorché la conquista della Mirandola, riuscita al duca di Montemar, intanto che
gli alleati consumavano il tempo e le forze nel blocco di Mantova. Questa
lentezza, non accostumata al carattere delle due nazioni, non era senza
mistero; e questo fu in parte svelato, allorché, il 16 dicembre, il duca di
Noailles spedì al conte di Kevenhüller il gradevole avviso di una
sospensione d'armi, la quale fu tosto seguìta dalla pace. Questo esito
era stato preparato dai segreti maneggi del cardinale di Fleury, primo ministro
del re cristianissimo, cui si trovò pronto ad aderire il gabinetto
austriaco, che dalla sbilanciata sua fortuna era ridotto a più moderati
consigli. La somma delle cose convenute sul terminare del 1735 nei celebri
preliminari di Vienna, e tosto dopo ratificata nel congresso di Parigi, fu
Ne' decorsi trentasei anni vide la
città di Milano un solo nuovo arcivescovo, monsignor Benedetto Erba
Odescalchi, già nunzio apostolico in Polonia e poco dopo promosso al
cardinalato. Egli fu eletto il 18 aprile del
(1737) Restituito lo stato di Milano in
seno alla pace, fu necessariamente, per varii anni, privo di avvenimenti degni
di essere ricordati, per cui appena si ha a far parola dell'ingresso in Milano
del nuovo cardinale arcivescovo, Carlo Gaetano Stampa, accaduto il 10 maggio del
1737. Il 6 luglio dello stesso anno morì Giovan-Gastone, ultimo gran
duca di Toscana della casa Medici, succedendogli, per le precedute convenzioni,
il duca di Lorena, sposo dell'arciduchessa Maria Teresa. È non meno
meritevole di ricordanza la morte, accaduta in Milano, del gesuita Tommaso
Ceva, nella grave età d'ottantotto anni. I piacevoli suoi costumi, i
suoi versi latini, qualche produzione matematica, e il suo buon gusto nelle
belle lettere, del quale ci fan prova i precetti conservatici dal Muratori
nella di lui Vita, lo resero uomo distinto. (1739) Due anni dopo,
l'arciduchessa Maria Teresa d'Austria e il gran duca Francesco di Lorena, di
ritorno dai loro Stati di Toscana, onorarono, nel mese di maggio, la
città di Milano colla loro presenza, e furono accolti cogli accostumati
festeggiamenti. (1740) L'anno 1740 fu di funesto presagio per l'Italia, mentre
all'esito infelice della guerra turchesca, colla perdita di Belgrado, si
aggiunse, il 20 ottobre, la morte dell'imperatore Carlo VI, essendo d'anni
cinquantacinque, dopo una malattia di soli tre giorni. Con esso ebbe fine la
linea maschile dell'augusta casa d'Austria, la quale, nel corso di
quattrocentosessantasette anni, diede al romano Impero sedici cesari e sei re
alla Spagna. Appena divulgata la funesta nuova, l'arciduchessa Maria Teresa,
come primogenita, secondo la prammatica sanzione, fu proclamata e riconosciuta
regina d'Ungheria e di Boemia, e principessa sovrana di tutti i regni e Stati
già appartenenti all'augusto genitore. Due suoi dispacci, spediti due
giorni dopo la di lei assunzione al trono, giunsero in Milano; col primo de'
quali ordinava la celebrazione de' funerali e le dimostrazioni del lutto per
l'estinto monarca; e col secondo confermò il conte Traun in governatore
dello Stato. Con altro dispaccio del 7 dicembre annunziò a questa
città la generosa risoluzione di aver promosso il real consorte a
coreggente in tutti gli acquistati dominii, senza lesione della
sovranità o pregiudizio della prammatica sanzione. (1741) Di là a
pochi mesi ebbero i sudditi lombardi motivo di nuova allegrezza per la notizia
della successione assicurata alla casa austriaca, colla nascita di un arciduca
primogenito, avvenuta il 13 marzo, che fu poi l'imperatore Giuseppe. Il conte
Verri, mosso da ciò che quest'augusto prometteva nell'aurora del di lui
regno, registrò nelle sue Memorie la nascita di esso, appellandolo il
Giusto e l'Amico degli uomini. Ma dietro quest'aura di
prosperità, e sotto quest'apparenza di ciel sereno, sorgeva minacciosa
la più funesta procella, suscitata dalla concorde ambizione di tanti
altri sovrani, per dividersi il ricco patrimonio di tanti regni. Stromento
immediato riputavasi il re di Sardegna; e il caso volle che, per lasciarlo
maggiormente libero di seguire gl'impulsi della sua politica, morisse a quel
tempo
(1742) La prima esplosione della
procella seguì nella Germania, cumulandosi allo sforzo dell'armi gli
effetti delle macchinazioni politiche. Nello stesso tempo che l'invasa Boemia
apriva ai nemici le porte della sua capitale, gli elettori, radunati a
Francoforte, proclamavano all'Impero il duca di Baviera, col nome di Carlo VII.
Intanto la Lombardia era minacciata dagli Spagnoli, partiti dal Napoletano e
radunatisi in Romagna, ai quali fece fronte il governatore di Milano,
maresciallo conte Traun, possentemente sussidiato dal re di Sardegna, avendo
instituita, per rappresentarlo nell'amministrazione dello Stato, una real
giunta di governo. La milizia civica fu posta a presidiare il castello; nella
quale onorevole incumbenza durò per dieci mesi. Quasi contemporaneamente
un altro esercito spagnuolo invase la Savoia; il che costrinse il re sardo ad
accorrere alla difesa de' propri Stati. (1743) Il 23 dicembre di quest'anno
morì, più che sessagenario, l'arcivescovo cardinale Stampa, cui dal
sommo pontefice Benedetto XIV, il 15 del successivo giugno, fu sostituito
l'arciprete della chiesa metropolitana, Giuseppe Pozzobonelli, promosso tre
mesi dopo al cardinalato: onorificenza ormai consueta ai titolari di questa
sede arcivescovile. Circa la metà dell'anno, videro pure i Milanesi
cambiato il loro governatore, il quale passò al comando degli eserciti
in Germania, lasciando in queste parti grata memoria dei suo discreto ed
onorato procedere, della sua moderazione ed affabilità, del suo
disinteresse, e di molta carità verso i poveri[1105];
ed ebbe in successore il
Queste felici combinazioni politiche,
certamente influenti al buon esito definitivo della gran lotta, non valsero a
dissipare la fiera procella che da tanto tempo ci sovrastava. Le corti di
Francia e di Madrid, costanti nel proponimento di fondare una seconda
sovranità borbonica in Italia in vantaggio dell'infante don Filippo,
strinsero ad Aranjuez un trattato colla repubblica di Genova, obbligandosi a
pagarle un sussidio mensile di centomila scudi[1106],
e si decisero ad assalire con una massa preponderante di forze l'esercito
austro-sardo, al di cui comando era venuto di recente il conte di Schulembourg
in vece del principe di Lobkowitz, il quale era stato pure separatamente
supplito nel governo della Lombardia dal tenente maresciallo conte Gian Luca
Pallavicino, con titolo di ministro plenipotenziario e autorità di governatore.
Attesa l'alleanza coi Genovesi, nuovi rinforzi francesi e spagnuoli ebbero
facile e sicuro il passo per la via d'Oneglia, ed unitisi col nerbo militare
già esistente, e coi contingenti di Napoli, di Modena e di Genova,
fecero centro in Acqui. Fra tutti ascendevano a settantamila combattenti,
comandati da Francesco III duca di Modena, dal general conte di Gages e dal
maresciallo di Maillebois. Di là il duca di Modena, scacciati gli
Austro-Sardi da Savona, da Novi e da Tortona, si diresse alla conquista di Piacenza
e Parma; nel mentre che il conte di Gages, con tremila granatieri e qualche
cavalleria, gettato un ponte sul Po alla Stella verso Belgioioso, nella notte
del 22 settembre sorprese Pavia, essendosi quel presidio ritirato in fretta nel
castello. A tale nuova il conte di Schulembourg, comandante gli Austro-Sardi
accampati in Bassignana, mandò tosto a presidiare il castello di Milano,
e con tutta la sua artiglieria per la Pieve del Cairo si appressò a
Vigevano, ed incalzato da' nemici, ritirossi quindi verso Casal-Monferrato.
Queste mosse difensive lasciarono luogo all'infante don Filippo d'investire
Alessandria e Valenza, di acquistar Asti ed altri castelli in que' contorni; e
di estendersi a suo piacere nella Lombardia, abbandonata anche dal plenipotenziario
conte Pallavicino, ch'erasi rifugiato in Mantova.
Mentre i supremi comandanti della lega
nemica, radunati in Pavia, divisavano di progredire nelle operazioni militari
coll'occupar Modena e Reggio, riservando il facile conquisto di Milano come una
conseguenza dell'assicurata vittoria, giunse loro un ordine pressante dalla
corte di Madrid di eseguirlo di preferenza e senza ritardo. Ciò
procedeva dall'impazienza della regina Elisabetta di accelerare lo stabilimento
dell'infante suo figlio, e procurargli un dovizioso appanaggio; e con questa
improvvida risoluzione si lasciò il campo alla fortuna austriaca di
risorgere in Italia. Occupate pertanto le rive del Ticino, il conte di Gages
fece avanzare l'esercito verso Milano, dove il 16 dicembre entrò il generale
di Camposanto con molti fanti e cavalli e parte degli equipaggi del principe, e
in egual tempo due altri corpi furono spediti a prender possesso di Lodi e di
Como. Mancando ancora la grossa artiglieria per intraprendere l'assedio del
castello, munironsi di palafitte le strade interne che a quello conducevano, e
le due vicine porte della città furono murate. Il vicario di Provvisione
co' delegati civici si trasferì, il 18 dicembre, a Magenta, per adempire
alla solita cerimonia della presentazione delle chiavi all'infante don Filippo,
il quale nel giorno seguente entrò con gran pompa nella città.
È inutile il dire che la popolazione si mostrò giuliva e
plaudente, che la nobiltà e le magistrature si presentarono al novello
principe col sorriso sul labbro e con sommo rispetto, e ch'egli accolse i loro
omaggi con graziosa clemenza. Questi uffici e siffatte dimostrazioni sono di
tutti i tempi; fu però speciale di quella circostanza la grida
pubblicata il 24 dicembre dalla Giunta interinale allora instituita, con cui fu
aumentato il valore di tutte le monete correnti, e valga per saggio il filippo
stabilito al prezzo di lire otto: col qual ordine il nuovo governo fece prova
di essere o ignorante o truffatore.
(1746) Ma benché gli Spagnuoli fossero
in possesso della capitale e si estendessero per un gran tratto di paese, gli
Austriaci tenevano, oltre il castello di Milano, Pizzighettone, Cremona e
Mantova; il re di Sardegna occupava la cittadella di Alessandria, e il principe
di Lichtenstein erasi ritirato col suo corpo verso Trino e Crescentino, donde
poteva agire di concerto coll'esercito austro-sardo non molto di là
discosto. Inoltre l'imperatrice regina, pacificatasi opportunamente sulla fine
di dicembre col re di Prussia, si trovò libera di spedire copiosi sussidii
di gente in Italia; i quali, a malgrado de' rigori dell'inverno, giunsero in
febbraio sul Mantovano e senza far posa, oltrepassato il Ticino, recaronsi al
campo del principe di Lichtenstein. Con tali aiuti il principe, unitamente ai
Piemontesi, ha potuto sorprender Asti, liberare Alessandria, riprender Acqui e
stringere i nemici tra Gavi e Novi, senza però essere riuscito a toglier
loro le comunicazioni col Genovesato e coi Napoletani. Da un altro lato il
tenente maresciallo conte Pallavicino, che comandava nel Mantovano, avanzossi
alla destra del Po verso Guastalla, rinforzò la parte dell'esercito
ch'era nel Cremonese, e ricuperò Modena. Nel corso di queste operazioni,
che andavano rendendo sempre peggiori le sorti della federazione nemica,
l'infante don Filippo passava il tempo in Milano, ristorandosi dai disagi de'
campi ne' tripudii delle feste e de' teatri, finché, avendo gli Austriaci
riacquistato Codogno e Lodi, e spinte le loro scorrerie fino alle porte di
quella metropoli, il generale conte Gages fu costretto, nella notte precedente
al 19 marzo, di annunziare al real principe la necessità di una pronta
partenza; la quale fu eseguita nell'alba seguente con tale precipitazione e
scompiglio, che, se fosse avvenuta dopo la perdita di una battaglia campale,
non poteva essere più disastrosa. Così, dopo soli tre mesi di
effimera occupazione spagnuola, tornò la Lombardia sotto il dominio
austriaco, e tosto riassunse le cure del governo
Dopo lo sgombramento di Milano,
abbandonarono di seguito i Gallispani il restante della Lombardia, ritirandosi
a Piacenza. Verso la stessa città furono incalzati gli altri loro corpi
che occupavano Guastalla, Reggio e Parma. Un fatto d'armi, avvenuto il 15
giugno, al collegio di San Lazaro presso Piacenza, e un altro, il 9 agosto, a
Rottofredo, entrambi vantaggiosi agli Austriaci, decisero la piena ritirata de'
collegati, resa ancor più sollecita per la notizia ricevuta a Voghera
della morte del re Filippo V. Onde, per la stessa via della Riviera di Ponente,
che sette mesi addietro aveano percorso, avanzandosi gonfi di tante speranze,
non più si ristettero finché giunsero nella Provenza. La repubblica di
Genova, che aveva aperto e favorito il passaggio ai nemici, non doveva andare
impunita. Investita per mare e per terra, si arrese, e fu occupata dagli
Austriaci. Ma questi presto la perdettero, essendone scacciati dalla
popolazione, irritata per l'eccesso delle contribuzioni e delle vessazioni, ed
eccitata clandestinamente dall'influenza francese; né dee tacersi che, a
stancare per tal modo la pazienza de' Genovesi, fu principale stromento un
nobile italiano, il marchese Botta Adorno di Pavia, che comandava gl'Imperiali.
(1747) Egli fu allora privato d'ogni comando; ed essendo poi stato trasferito
al governo delle Fiandre, venne colà egualmente in esecrazione,
così che, non ostante la protezione della corte, dovette esserne
rimosso. Questo ministro era attaccatissimo agl'interessi dell'augusta padrona,
ma avea la sfortuna di rendersi ovunque sommamente odioso, e parea nato a posta
per far sorgere de' tumulti[1107].
Per l'esito della guerra in Italia, era il gabinetto austriaco pressato da due
opposte cure: avrebbe voluto trarre pronta vendetta dello smacco di Genova, che
offendeva l'onor delle sue armi, non meno per le cause che negli effetti; e
l'incalzava la brama di portare il flagello della guerra nel paese del nemico.
Fece dar opera all'uno e all'altro divisamento, e nessuno gli riuscì.
Furono senza buon esito i campeggiamenti nella Provenza, per la novità
dei luoghi, per la difficoltà de' viveri, per le scarse forze; e
mancò del pari l'impresa di Genova, per essere stata condotta
senz'unità di piano, fra la rivalità delle corti e la gelosia de'
comandanti. Né i Francesi e gli Spagnuoli si distinsero con alcun fatto
memorabile, se si eccettua il funesto capriccio del maresciallo di Bellisle di
aver voluto far superare a forza i trinceramenti del Colle dell'Assietta, tra
Exilles e Fenestrelle, difesi valorosamente dagli Austro-Sardi sotto gli ordini
de' conti di Colloredo e di Bricherasco, senz'altro esito che di avere
sagrificato infruttuosamente cinquemila francesi, e insieme con essi il proprio
fratello. Questa vittoria fu, a buon dritto, festeggiata con varii Te Deum sì
in Piemonte che in Lombardia[1108].
Se la perdita di Genova fu cagione
della disgrazia del generale Botta Adorno, il non averla ricuperata
portò il richiamo del comandante supremo, conte di Schulembourg, cui
venne sostituito il conte di Traun, e del ministro plenipotenziario, conte Gian
Luca Pallavicino, caduto forse in sospetto per essere di nascita Genovese,
entrambi partiti per Vienna a render conto del loro operato. Per il governo
della Lombardia fu creata una real Giunta, composta del gran-cancelliere, conte
Beltrame Cristiani, stato assunto a questa carica fino dal 1744, dai presidenti
del senato e dei magistrati ordinario e straordinario, ed altri otto soggetti.
Lasciò il Pallavicino fama d'uomo disinteressato e magnifico, ed eguale
la mantenne allorché, di là a tre anni, restituito in grazia,
tornò alla primiera carica in Milano. Nel triennio intermedio a questi
due suoi governi, la carica congiunta di governatore e di capitano generale
della Lombardia austriaca fu coperta dal conte Ferdinando Bonaventura di
Harrach, venuto il 19 settembre. Egli fu un buonissimo signore, senza fasto,
umano, amico dell'ordine e della tranquillità, nemico delle novazioni.
La contessa di lui consorte, giovane, vivace, e anche bella e galante, diffuse
l'allegria nel paese, e introdusse la moda di cavalcar le dame anche in
città, e di girare pe' palchi le maschere al carnevale[1109].
Non solo l'Italia, ma l'Europa intiera
era stanca ed estenuata dalla guerra, laonde l'ambizione dovette ricevere la
legge dalla necessità. (1748) Tutti i sovrani erano, nel loro cuore,
concordi nel voler la pace, e per conseguirla meno svantaggiosa, fecero un
ultimo sforzo, ponendosi ciascuno nell'attitudine più guerresca. Fu essa
sottoscritta in Acquisgrana dai ministri plenipotenziari delle varie potenze, e
il 23 ottobre il fu dal conte di Kaunitz per l'imperatrice regina, la quale,
per quel trattato, conservò tutti gli Stati ereditari, ad eccezione
della Slesia e della contea di Glatz, cedute alla Prussia; ricuperò i
Paesi Bassi, ma rinunziò alle conquiste che avea fatte in Italia;
cedette i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, da erigersi in sovranità
a favore dell'infante don Filippo, e confermò le cessioni fatte al re di
Sardegna. (1749) L'esecuzione di questo trattato, quanto all'Italia, rese
necessario un parziale congresso, apertosi nel mese di dicembre in Nizza di
Provenza, che tutto sistemò con buon ordine, per cui, nella seguente
primavera, eseguite le rispettive cessioni e ripristinazioni, ha potuto anche
È gradito incarico allo storico
imparziale, dopo di aver dovuto narrare i vizi e gli errori de' potenti e la
conseguente oppressione e l'impoverimento de' popoli, di poter talvolta
ricreare la mente propria e quella de' lettori colla rappresentazione di tempi
meno infelici, e col racconto di un genere di pubblica amministrazione
più consentaneo alla dignità e al ben essere degli uomini. Questa
lode è meritamente dovuta al regno di Maria Teresa, la quale, a malgrado
delle lunghe guerre da cui era bersagliata la monarchia, sì
mostrò costantemente intenta a dar migliori ordini ai varii rami del suo
governo. E fu in ciò provvidamente secondata dalla sorte, mentre, avendo
risoluto di liberarsi del referendario Bartenstein, che colla sua prepotente
arroganza avea svergognato la diplomazia austriaca sotto Carlo VI, assunse, nel
1753, al supremo ministero il conte, indi
(1758) Erano quasi ridotti al loro
termine i lavori del censimento colle assidue cure di nove anni, quando,
essendo stato il Neri richiamato a Firenze, la Giunta fu sciolta, e costituita
una governativa delegazione; a questa fu dato l'onore di proclamare il
compimento dell'opera, e s'incominciò nel
(1759) Fu dato in successore al conte
Cristiani nella carica di ministro plenipotenziario nella Lombardia il conte
Carlo di Firmian, che giunse in Milano, il 16 giugno del 1759. Figlio cadetto
di una famiglia nobile tirolese, egli avea passato la sua gioventù in
Roma come aspirante nella carriera prelatizia senza far fortuna. Di carattere
pusillanime e di scarsi talenti, amava più la rappresentazione che gli
affari, ed avea l'arte di coprire le qualità che non possedeva, colla
compostezza, colle scarse e misurate parole, e con un officioso sussiego. In
altri tempi, quando i governatori erano i despoti e i legislatori del paese,
questa mediocrità poteva nuocere; ma dacché il conte di Kaunitz fu
assunto al supremo ministero della monarchia, le disposizioni legislative e di
buon governo procedevano dall'alto, e i ministri nelle province divennero
semplici referendarii ed esecutori; onde tutto il male che poteva farsi da
essi, limitavasi a qualche sfavorevole relazione alla corte, e a qualche abuso
di minuta polizia, della quale erano lasciati árbitri. Durante il ministero del
conte di Firmian furono eseguite le più importanti riforme; e in queste
si fecero procedere di pari passo le materie civili e le ecclesiastiche. Si
fece sparire ciò che ancora rimaneva delle immunità personali e
reali del clero; si proibirono le carceri private alle comunità
religiose; fu abolito l'asilo sacro: istituzione incompatibile coi nuovi tempi,
e per lo più scandalosa nella pratica. (1762-1768) Il Santo Ufficio
dell'Inquisizione venne soppresso. Si limitò la giurisdizione
ecclesiastica e il diritto di acquistare alle mani-morte, e si sottoposero le
spedizioni di Roma alla cautela del regio Exequatur, senza il quale non
potevano essere eseguite[1112];
fu delegata una Giunta per le materie ecclesiastiche miste[1113],
cui fu poscia sostituita una Giunta economale[1114],
con giurisdizione privativa ed inappellabile; s'instituì in fine una
Giunta subalterna per la riforma dei luoghi pii e delle parrocchie[1115];
e queste diverse disposizioni, dopo l'esperienza di sei anni, furono
dall'autorità sovrana definitivamente stabilite e confermate[1116].
(1769) Forse il caso e forse la precoce
antiveggenza dell'imperatore Giuseppe II a raffermare gli animi de' sudditi, fu
cagione del primo viaggio che fece quel sovrano in Italia. Partito da Vienna
sul fine di febbraio sotto il nome di conte di Falkenstein, che conservò
sempre ne' viaggi successivi, trascorse senza fermarsi Mantova e Firenze, e fu
diritto a Roma con piccolissimo seguito, dove dopo Carlo V nissun altro cesare
erasi mostrato. L'improvviso arrivo, la modestia dell'accompagnamento,
l'affabilità de' modi, il rifiuto d'ogni pomposa onorificenza furono
argomenti di generale sorpresa e meraviglia. Giuseppe II, osservate le cose
più insigni di Roma e di Napoli, visitate le nuove fortezze costrutte
sull'Alpi dal re di Sardegna, si trattenne nel ritorno nella sua Lombardia nel
23 giugno al 15 luglio. Egli vi si fece ammirare come amico dell'ordine e della
giustizia, desideroso del pubblico bene, nemico degli abusi, di
un'attività straordinaria, e singolarmente ricco di utili cognizioni. E
poiché i fatti parziali sono tavolta pù instruttivi di un'intiera
storia, così non è da tacersi che quel sovrano, il quale appena
ebbe dalla madre nella prima gioventù il potere di ordinare tutto
ciò che concerneva l'esercito, ad imitazione del sistema prussiano volle
introdotta la coscrizione militare in tutti gli stati austriaci, ad eccezione
de' Paesi Bassi, dell'Ungheria, del Tirolo e del Milanese[1117].
Avendo, nella visita de' monasteri fatta in Milano, osservato che le monache
non occupavansi se non di poco utili esercizi, mandò ad esse una
gran quantità di tela affinché ne preparassero camicie per i soldati[1118].
Una inclinazione guerriera, associata ad un istinto di beneficenza e di
novità, fu infatti il caratteristico di questo sovrano.
E le riforme proseguivano. Fino dal
1765 era stato creato un supremo consiglio di economia: in quasto dicastero,
trasformato poscia in magistrato politico camerale, sedettero successivamente
gli uomini che maggiormente onorarono il paese, Gian-Rinaldo Carli, Cesare
Beccaria e Pietro Verri. (1770) Si eresse un nuovo monte dei creditori
camerali, che, dal nome della sovrana, si disse di Santa Teresa, e in esso
furono trasportati i creditori del monte civico e del banco di Sant'Ambrogio,
salvo a quelli che non amassero il nuovo investimento di ritirare fra un mese i
loro capitali[1119].
Si ordinò che nello stesso monte fossero versate le somme di riscatto
dei debiti di mani-morte, de' quali era permessa la redenzione[1120];
e vi furono pure inscritti a credito de' possessori, coll'interesse del sei per
cento, i capitali rappresentanti i dazi, i pedaggi e le altre gabelle d'ogni
sorta, che nel corso di due secoli e mezzo erano stati venduti, e che furono
rivocati alla regia camera[1121].
L'esame delle entrate e delle spese delle diverse amministrazioni dello Stato e
de' pubblici, che da prima era generalmente avvolto nel mistero, confuso e
arbitrario, fu ridotto in un solo centro e ad un metodo uniforme
coll'istituzione di una Camera de' conti[1122];
e fu una prova del merito di essa, frammezzo a tante mutazioni successive, la
continuata sua sussistenza. Per fine, le pubbliche finanze, che nella sola
vista di servire al bisogno presente erano state, nel 1751, date in appalto ad
una compagnia di speculatori, i quali, da una condizione oscura, salirono poi a
grandi onori e richezze, furono per esse gradatamente richiamate allo Stato;
prima, nel 1766, coll'averle ridotte ad una Ferma mista, con un terzo di utili
e un rappresentante regio; e quindi, nel 1771, con una piena emancipazione, che
recò inoltre al regio erario centomille zecchini di maggiore beneficio. (1771)
Questo lucro servì all'appannaggio del reale arciduca Ferdinando, che
nell'anno stesso si stabilì in Milano, dove il 16 ottobre contrasse,
secondo le convenzioni, il matrimonio colla principessa estense Maria Beatrice
Riccarda, ed entrò nell'esercizio della carica di governatore e capitano
generale della Lombardia. Né perciò si restituì a' suoi dominii
il vecchio duca di Modena, che lo avea fino allora rappresentato; ma alternando
la sua dimora tra Milano e la sua villeggiatura di Varese, morì in quest'ultima,
di ottantadue anni, il 22 febbraio del
(1773-1779) La presenza e
l'attività del reale arciduca diedero moto a provvedimenti più
immediatamente utili al paese. Ne' sette anni dal 1773 al 1779 si prepararono
colla maggiore maturità i lavori, che diedero poi all'Italia nella
moneta milanese i più bei tipi e il più ben calcolato sistema
monetario che allora si conoscesse[1124].
Si instituì un magistrato generale degli studi, e l'università di
Pavia fu riorganizzata, ampliata, arricchita[1125];
e salì poi ad altissima fama pei sommi uomini che onorarono le sue
cattedre, Tissot, Gian-Pietro Frank, Mascheroni, Spallanzani, Volta. Milano
che, fino dal 1766, avea avuta una specola astronomica, fondata sotto la
direzione di Ruggiero Boscovich, vide quella ampliata dopo la soppressione de'
Gesuiti nel 1773, data una nuova e più ampia consistenza alle loro
scuole col titolo di real Ginnasio, raccolta e aperta al pubblico con gran
dispendio nel loro collegio di Brera una copiosissima biblioteca, e applicati i
beni di essi alla pubblica struzione. Le scuole Palatine, nelle quali era stata
eretta qualche anno addietro una cattedra[1126]
di economia pubblica col titolo di Scienze Camerali (seconda in Italia, dopo
quella di Napoli, instituita da un privato filantropo), n'ebbero un'altra per
ammaestrare nell'esercizio dell'atte notarile[1127];
all'instituzione della quale succedette il provvidissimo stabilimento di un
generale archivio per la custodia degli atti de' notari civili di tutto il
ducato[1128].
Nel 1773 venne fondato presso le scuole dì Sant'Alessandro un museo di
storia naturale e di mineralogia, e di là a tre anni si vide eretta una Società
Patriottica per i progressi dell'agricoltura, delle arti e delle
manifatture, con una dotazione per i premii da distribuirsi annualmente, e
l'assegno di un terreno per gli esperimenti[1129]:
fondazione di gloriosa ricordanza per i beneficii da essa recati al paese, e di
cui è comune vergogna il trascurato repristinamento dacché e Firenze e
Torino e Verona hanno restituito in fiore le loro società e accademie
agrarie. Nello stesso anno[1130],
dopo quasi tre secoli trascorsi in isterili progetti e in infelici tentativi,
fu resa perfetta la navigazione dall'Adda a Milano coll'apertura del canale
detto di Paderno, tagliato nel margine del monte, per cui le navi dal
bacino di Lecco scendono liberamente nell'antico naviglio della Martesana. Le
arti e le manifatture ebbero più sorta d'incoraggiamenti con premii, con
privilegi, con sovvenzioni in danaro. E tra le belle arti l'architettura in
ispecie godette del più deciso favore. Era di già stato chiamato
da Napoli il migliore architetto che allora avesse l'Italia, Luigi Vanvitelli,
a dirigere gl'importanti ristauri che si fecero nel palazzo di corte per
l'arrivo del reale arciduca[1131].
Si chiamò poscia il più distinto de' suoi discepoli, Giuseppe
Piermarini di Foligno, il quale cogli esempi de' molti nobili lavori che
eseguì nel corso di più di vent'anni[1132],
potentemente in ciò sussidiato dagli abili professori ed allievi della
nuova accademia delle belle arti, restituì in onore l'architettura tra
noi, purgandola di quanto ancora le rimaneva degli stupri Borromineschi, benché
né l'uno né gli altri fossero riusciti ad elevarla alla maestà dei
grandi modelli. Sono opere di Piermarini la regia ducale corte, la real villa
di Monza, il compimento del palazzo di Brera, il monte di Santa Teresa, il
nuovo gran teatro costruito dove esisteva la collegiata della Scala, di cui
ritenne il nome, compito nel 1778, e l'altro della Canobbiana, aperto al
pubblico nell'anno seguente. I privati signori si volsero, com'è il
solito, a corteggiare il gusto di chi presiedeva al governo dello Stato,
imitandolo; onde si viddero più antichi palazzi ristaurati o rinnovati,
e tra questi meritano speciale menzione i due palazzi del principe e del conte
generale di Belgioioso, l'uno eretto circa i tempi di cui parliamo, sotto la
direzione di Piermarini, l'altro nel 1790 (salito poi all'onore di real villa)
dall'architetto Leopoldo Polack, di cui bell'opera fu pure la facciata
dell'insigne tempio di Rhò, ch'era stata lasciata imperfetta dal celebre
Pellegrini.
Gli effetti di un tal regime illuminato
e benefico erano rapidi e progressivi. La popolazione accrescevasi; le moderate
imposizioni, e l'impiego della parte di esse eccedente le spese dello Stato, in
opere pubbliche di strade, canali, fabbriche di ogni sorta, nell'arricchire le
biblioteche, i musei, i gabinetti scientifici, in sovvenzioni e premii a
promovere l'agricoltura e le manifatture, diffondevano l'istruzione,
l'agiatezza e la prosperità in tutte le classi: beati tempi, allora non
conosciuti né apprezzati abbastanza, non tanto per la naturale abitudine degli
uomini di adattarsi al bene con indifferenza, quanto per l'apatìa
propria dei Lombardi, e che, per la forza di più secoli di pessimo governo,
era divenuta in essi una seconda natura. (1780) Tuttavia fu questa vinta dalla
forza de' benefizi; e i Milanesi, che avevano già dato prova di
affettuosa sensibilità verso la loro sovrana quando nel 1767 era stata
posta dal vajuolo in grave pericolo della vita, accorrendo in folla ai tridui,
che allora celebraronsi in tutte le chiese, mostrarono un sincero dolore
all'inaspettato annunzio ch'essa avea cessato di vivere per idropisia di petto
il 29 novembre del 1780. Essa avea sessantatré anni, quaranta de' quali ne
trascorse tra le cure del governo de' vasti suoi dominii. Si mostrò
costante e prudente, non meno nella contraria che nella prospera fortuna.
Economa per abito, sapeva all'opportunità essere liberale. Fu zelante
osservatrice della religione, e amante della giustizia; ma diede un'importanza
eccessiva alle minute pratiche di quella, e si mostrò talora
intollerante; dava pure facile orecchio alle segrete delazioni, e con
predilezione occupavasi de' piccoli affari. Ebbe perciò alcuna volta a
lagnarsi di essersi ingannata nelle sue scelte, e che le sue intenzioni fossero
state male intese o mal eseguite. Con tutto ciò il regno di Maria Teresa
è il secolo d'oro dei popoli della casa d'Austria[1133].
In essa si estinse l'illustre casa d'Absburg, dopo però di essersi quasi
propaginata e già riprodotta in quella di Lorena, ora regnante. Il conte
Gherardo d'Arco, Paolo Frisi e monsignor Turchi ne scrissero l'elogio, e ognuno
di questi dotti uomini vi si mostrò quale doveva essere, colto e
giudizioso patrizio, scrittore filosofo, frate panegirista.
L'indole del successore, l'augusto
Giuseppe II, inclinato fervidamente a beneficare i suoi sudditi, temperò
il danno della fatal perdita; se non che l'impeto e la precipitazione con cui
soleva operare, resero spesso spiacevole, e talvolta agli occhi del volgo
travisarono il beneficio. Con non lunghi intervalli si susseguirono tre altre
morti, che per la Lombardia furono memorabili. (1782) La prima è quella
del ministro plenipotenziario conte di Firmian, avvenuta il 20 giugno del 1782.
Alcuna cosa già si disse del di lui carattere, al che poco rimane ad
aggiungere. La sua autorità che, ne' primi dieci anni fu
sufficientemente estesa in molti oggetti di minuto dettaglio, si attenuò
dopo la venuta del reale arciduca. La di lui bontà permise che alcuni
suoi scrivani favoriti abusassero della sua confidenza. Coloro che confondono
la bibliomanìa coll'amore delle lettere il tennero e il dissero un
mecenate. I Milanesi lo compiansero. Fu sostituito al conte di Firmian il conte
di Vilzek, personaggio mediocre al pari di quello, e che lasciò fama di
non aver fatto né bene né male. (1783) Nel seguente anno morì pure il
cardinale arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli, dopo di avere presieduto alla chiesa
Milanese per il lungo corso di anni quaranta: prelato saggio, attento e
unicamente occupato del sacro suo ministero. Il 1° settembre dell'anno medesimo
gli fu dato in successore monsignore Filippo Visconti, in di cui lode
basterà il dire che ne' tempi burrascosi successivi al 1796 egli si
meritò di essere pubblicamente difeso da un vecchio filosofo, il conte
Pietro Verri, contro le forsennate invettive de' demagoghi rivoluzionarii.
(1784) Non molto dopo morì l'insigne letterato e matematico Paolo Frisi,
che, non potendo soffrire gl'incomodi di una fistola dolorosa, si sottopose ad
un'operazione che in brevissimi giorni, in ancor fresca età, il trasse
al sepolcro. Il poc'anzi citato conte Verri, di lui amico, supplì alla
solita noncuranza della città, onorata dalla nascita e dagli studii di
quell'uomo illustre, tessendo di lui un nobile elogio, ed ergendogli un modesto
monumento in Sant'Alessandro, chiesa de' Barnabiti, alla di cui congregazione
aveva il defunto appartenuto per qualche tempo.
Fece Giuseppe II due nuovi viaggi in
Italia, l'uno in quest'anno, l'altro nel successivo. Nel primo corse fino a
Roma, dove ricusò il ricambio di onorificenze che il papa voleva
prestargli per quelle a lui usate in Vienna due anni addietro. Conchiuse però
con esso un concordato, col quale fu conceduto ai duchi di Milano la nomina ai
vescovati e ai beneficii della Lombardia austriaca, che prima spettava alla
Santa Sede[1134].
Stipulò pure colla Toscana, il 4 dicembre, a favore della Lombardia
stessa, un trattato per le reciproche successioni de' sudditi nel due Stati[1135],
del pari ch'erasi precedentemente stabilito colla Francia e la Prussia[1136],
col governo Sardo[1137]
e colla repubblica di Venezia[1138].
(1785) Egli si trattenne in Milano dal 19 febbraio al 9 marzo. L'ultimo viaggio
fu limitato alla Lombardia, con una permanenza di soli sette giorni: la
più lunga fu quella del primo viaggio nel 1769, che ne durò
ventuno. In quest'anno vendette l'imperatore al papa i possedimenti della
Mesola nel Ferrarese per novecentomila scudi[1139];
e il re e la regina di Napoli, visitando per piacere l'Italia, si trattennero
in Milano dal l° al 23 luglio, festeggiati con sontuosa magnificenza. Prima di
partire da Vienna per il suo secondo viaggio, lasciò Giuseppe II ai capi
dei dicasteri aulici la legge de' suoi voleri, che, tradotti dal tedesco,
circolarono allora per l'Italia. Appare in essi ad ogni passo il suo amore per
l'ordine, per il buon servigio e per il pubblico bene; e, nella certezza di
farne un gradito dono ai lettori, si riportano in pié di pagina[1140].
L'Imperatore in que' viaggi raccoglieva
e maturava gli elementi per compire le sue riforme. Intanto le parti di esse
ch'erano già in corso presso il ministero, andavansi successivamente
pubblicando e mettendo in esecuzione. Erano queste d'ogni specie, scientifiche
ed economiche, di beneficenza e di polizia, civili e religiose, e si
estendevano dai minimi ai massimi argomenti. A rendere più comune l'arte
di frenare e regolar le acque, che in ispecie devastavano frequentemente il
Mantovano, fu eretta una cattedra d'idrostatica ed idraulica[1141].
Perché i piccoli commercianti di seta non fossero più posti nella
necessità di vendite precipitose, s'instituì un Monte o
Depositorio delle sete, da cui, mediante un tenue prò, potevano avere in
prestito quasi l'intiero loro capitale per alimentare le successive speculazioni[1142].
Fu proclamata la tolleranza dell'esercizio delle diverse religioni separate
dalla Chiesa romana[1143].
Si proibì di ricorrere a Roma per le dispense agl'impedimenti canonici
de' matrimoni; indi fu stabilita su quest'oggetto una speciale legislazione[1144].
Si tolse pure alla corte di Roma la collazione de' benefici, restituendola ai
vescovi diocesani per quelli in cura d'anime o portanti dignità
capitolare, e attribuendo quella de' semplici al governo; e tutti per concorso[1145].
E di tolleranza, e di matrimoni, e di benefizi, e di ricorsi a Roma si
trattò di nuovo in successivi ordini, chiarendo, modificando,
confermando[1146].
Anche l'università di Pavia ebbe confermati ed ampliati i suoi regolamenti[1147].
E i monti di Pietà che esistevano per antica istituzione in varie parti
dello Stato, e in particolare quello di Milano, furono riorganizzati, estesi e
muniti di provvide norme[1148].
(1786) Il torrente delle innovazioni
proruppe nel 1786. Tutti gli ordini civili furono sconvolti e obbligati a
subire una nuova forma. Il magistrato politico camerale, la commissione
ecclesiastica, il tribunale araldico, quello della Sanità, la
Commissarìa generale e la Congregazione dello Stato vennero soppressi, e
le loro attribuzioni concentrate in un consiglio di governo; conservarono
soltanto una separata esistenza la Camera de' conti, l'Intendenza generale
delle finanze e una congregazione di Patrimonio per ciascuna città[1149].
S'istituirono otto intendenze politiche in altretante province, nelle quali fu
diviso il paese[1150];
e si eresse in Milano un nuovo ufficio generale di polizia, conforme a quello
stabilito nella Germania, donde fu mandato un buon numero di soldati invalidi
per fare le funzioni di guardie, che, con denominazione francese, chiamaronsi
di Police, e procedevano armati di bastone[1151].
Nuova forma, nuovo metodo, nuovi vocaboli ebbero i tribunali giudiziari. Il
senato fu soppresso. Questo corpo, rispettabile per la ruggine dell'età,
e che aveva introdotto il dispotismo nel santuario della giustizia, vantandosi
di giudicare tamquam Deus, si estinse dopo ducentottantacinque
anni di esistenza senz'aver lasciato memoria di un solo beneficio recato allo
Stato. Si crearono più giudici o tribunali di Prima Istanza, uno
d'Appellazione ed un supremo di Revisione per i casi che le due precedenti
sentenze fossero discordanti; le cause di commercio e di cambio ebbero ne'
tribunali mercantili una prima Istanza separata[1152].
Un regolamento giudiziario civile stabilì le norme per la procedura, e
queste per la chiarezze dell'ordine, per l'esclusione d'ogni arbitrio, per la
sobria tutela prestata ai litiganti meritarono gli encomii de' saggi
giureconsulti. Di un conio meno felice fu il codice criminale. Mentre questo
proscrisse quasi la pena di morte, riservandola ai soli delitti di ribellione[1153],
surrogò ad essa una lenta morte con durissimi supplici, esercitati nel
segreto degli ergastoli, e perciò senza pubblico esempio[1154].
Dopo di avere stabilito la giusta massima che la pena non può colpire
che l'autore del delitto, così che il castigo e il supplizio stesso
del malfattore non debbano recar danno alla moglie, ai figli, ai parenti, agli eredi[1155],
ordina pei delitti di lesa maestà e di ribellione la confisca de'
beni, senza riguardo alcuno che vi siano figli[1156].
Si aggiunsero come inasprimenti di pena la marca infame della forca da
imprimersi con un bollo a fuoco sulle guance o ne' fianchi[1157],
un più rigoroso digiuno, e bastonate e nervate e vergate, delle quali e
della loro ripetizione è lasciato arbitro il giudice colla sola riserva
di non oltrepassare i cento colpi per volta[1158].
Il qual malaugurato esercizio del bastone s'incontra ad ogni passo in quel
codice criminale, e figura non meno distintamente nel codice de' delitti
politici, che a quello succede; onde, dopo di avere con filosofica idea
dichiarato doversi i bestemmiatori trattare come frenetici, imprigionandoli
nello spedale de' pazzi[1159],
vuole che alle pene della prigionia più o meno dura e del lavoro
pubblico decretate contro gli sprezzatori della religione, gli scandalosi, i
rei di delitti venerei, i banditi disobbedienti, sia sempre aggiunta l'altra
delle bastonate[1160].
Un inasprimento di pena non accennato nel codice, e che sarà stato
ordinato da posteriori istruzioni, ricordomi di aver veduto in Milano nella mia
prima gioventù, nell'essere condotti i rei a ricevere in pubblico
l'impressione della marca infame, distesi sopra un graticcio, e strascinati da
un cavallo al luogo del supplizio.
(1786-1789) Le cose ecclesiastiche,
argomento favorito in allora del ministero austriaco e prediletto
dall'imperatore, furono in quell'anno soggetto di tanti ordini, editti,
regolamenti, che sembrava che, dopo il molto ch'erasi già operato da
venticinque anni in poi, nulla ancora si fosse fatto. Fino dal 1782 erasi dato
mano a sopprimere i conventi e monasteri, specialmente i più ricchi,
come Certosini, Cisterciensi, Olivetani e simili. Fattesi ora le soppressioni
più numerose, s'intimò un'egual sorte alle monache, quando non si
prestassero a rendersi utili nell'educazione femminile[1161];
e talmente prevalse l'abitudine al tedio dell'ozio claustrale, che il
più gran numero preferì di essere soppresso, rendendosi
generalmente oggetti di ludibrio per l'imperizia de' costumi sociali, e a molti
di compassione. Si espulsero i seminaristi elvetici dal loro collegio, e vi
s'installò il consiglio di governo. Fu stabilito un nuovo compartimento
delle Parrocchie; si determinò lo stipendio de' parrochi, e sulle
rendite de' regolari soppressi fu supplito alle mancanti congrue; si
vietò l'ordinazione de' cherici quando non avessero fatto il corso de'
loro studi nel seminario generale eretto in Pavia; tutti i consorzi, che vari e
sotto diversi nomi esistevano presso le chiese, furono aboliti, salve le
confraternite della carità o della dottrina cristiana, che si dissero
poi del Santissimo[1162].
Una legge sontuaria fu emanata pe' funerali[1163],
la tumulazione nelle chiese, già dapprima abrogata[1164],
fu di nuovo proibita severamente, sostituendovi i cimiteri da erigersi fuori dell'abitato[1165].
Il numero de' giorni festivi fu ridotto; limitate le funzioni sacre e le
processioni, vietate le novene, le ottave, i tridui; fissato il tempo di
suonare le campane, e l'orario per tener aperte le chiese[1166].
Queste minuzie, bensì opportune, ma disdicenti alla maestà del
sovrano, spiacquero al volgo più che le grandi riforme, sparsero di ridicolo
i di lui regolamenti, e giustificarono il frizzo di Federico II, re di Prussia,
che usava chiamarlo: mio fratello il sagrista. Provvedimenti che
più generalmente ottennero la pubblica soddisfazione, furono la
sistemazione de' dazi e l'erezione delle scuole normali. La prima, contro il
solito, procedette per gradi, e non fu fissata che dopo lunghi e maturi esami;
durò quindi più che ogni altra. Si fece precedere l'abolizione
dei dazi intermedi tra i territorii dell'una e dell'altra città; si
soppressero varie minute gabelle locali, di sostratico, di pascolo, sui
quadrupedi, detta della dogana viva, su molti prodotti indigeni, sulle
manifatture, sui pellami, sulle telerie, sul sapone, sui nastri e perfino sugli
zolfanelli[1167].
Fu quindi pubblicata una nuova tariffa daziaria, con lo stabilimento di un
dazio unico e la libertà dell'interna circolazione delle merci[1168].
L'istruzione elementare erasi in addietro abbandonata alla tirannìa de'
pedanti; si volle rendere ragionevole, più generale ed uniforme; il che
si ottenne colle scuole normali, benché abbiasi voluto fare una distinzione tra
il povero e il facoltoso, prescrivendo per quest'ultimo. l'obbligo di un
meschino annuo pagamento[1169],
abrogato poscia nel 1791. Non furono trascurati l'ornato e la decenza della
città, e ciò che spetta alla polizia amministrativa. Le case
furono numerizzate, le lampade dell'illuminazione poste per le strade, formato
un giardino pubblico dove prima era il ritiro delle Celestine. La libera
circolazione ed esportazione de' grani fu proclamata e regolata[1170].
Non meno le farmacìe, che l'esercizio della medicina e della chirurgia
ebbero una nuova sistemazione[1171].
Con saggio intendimento fu deciso di togliere la mendicità questuante,
ma non si provvide a sufficienza per renderla operosa. Perciò i
cittadini con compassione ed isbigottimento videro gli agenti della Police
dare la caccia ai pitocchi per le strade e strascinarli in carcere; ma per
risparmiare il pane che consumavano, rilasciavansi in breve con giuramento di
non più mendicare; quindi, con quasi ridicola vicenda, imprigionavansi
di nuovo per aver contravvenuto al giuramento, costretti dalla
necessità. Prima di dar mano a tante mutazioni, e frattanto che si
eseguivano le più clamorose, si trovò conveniente che il reale
arciduca governatore partisse per un viaggio. Egli lasciò la sua
residenza il 29 dicembre 1785; andò da Genova a Nizza, dove passò
l'inverno; poi dopo un viaggio in Francia, Inghilterra e Germania, ritornò
in Milano la sera del 16 dicembre dell'anno successivo. La popolazione,
riguardando la sua assenza come una disapprovazione delle fatte novità,
gli andò incontro con immenso concorso.
Questo generale sconvolgimento, e
ricostituzione degli ordini di uno Stato, non operavasi nella sola austriaca
Lombardia; anzi non fu che l'applicazione ad essa di quanto erasi già
posto in pratica nella Germania. I motupropri, gli editti, le istruzioni, i
regolamenti, i decreti furono colà del pari così varii e
moltiplicati, che colla loro unione si formò una raccolta assai voluminosa[1172].
Né queste altresì erano le sole cure che occupavano l'ardente, inquieto
e risoluto animo del sovrano. Nel breve e tumultuario suo regno di dieci anni,
egli impegnò gravi discussioni coll'Olanda per la libera navigazione
della Schelda; assistette nell'acquisto importantissimo della Crimea
l'imperatrice delle Russie, che male il rimeritò; drizzò le
più diligenti macchine politiche ad impossessarsi della Baviera in
cambio de' suoi Paesi Bassi, e ne rimase deluso per l'astuzia e l'opposizione
del vecchio re di Prussia; e mentre già trovavasi in gravi imbarazzi per
la ribellione dei Fiamminghi, la brama di partecipare colla Russia allo
smembramento della Turchia l'impegnò improvvidamente in una guerra
disastrosa e disgraziata che divorò uomini e tesori, per i cui danni
inestimabili non ebbe specie di compenso, e nel corso della quale l'onore
dell'armi fu appena salvato dalla vittoria sociale di Rimnick, e dalla presa di
Belgrado, seguìta il 9 ottobre 1789. Fu questa una scarsa consolazione
all'animo afflitto e abbattuto dell'imperatore per l'offeso amor proprio, per
la delusa ambizione, per le perturbazioni e disobbedienze interne, essendo
esausti e malcontenti i popoli, più province rovinate dalla guerra, e
vuoto l'erario, (1790) I disagi del corpo nei campeggiamenti militari, ai quali
infaustamente ha voluto prender parte nella guerra turchesca, la soverchia
applicazione agli affari, e le angustie e le afflizioni morali aveano logorato
la robustezza del suo fisico temperamento, e lo ridussero a morire di
consunzione il 20 febbraio del 1790, essendo appena giunto all'età
d'anni quarantanove. Sembra che Giuseppe II avrebbe dovuto essere fra i sovrani
il più facile ad essere giudicato, perché fece più fatti; pure fu
quello su cui i giudizi rimasero più divisi, perché le sue opere erano
talvolta fra sé contraddicenti, e perché le passioni, una religione male
intesa, e gli offesi interessi presero parte a que' giudizi. Tutti si accordano
nell'attribuirgli un carattere dispotico, inflessibile, irrequieto, novatore.
Era economo e temperante, avea modi disinvolti e famigliari, e discorsi
insinuanti. In generale le sue intenzioni furono migliori che i fatti, e
questi, migliori dei modi usati nell'eseguirli. Chi disse ch'egli avea voluto
procurare la felicità dei sudditi a colpi di bastone, disse il vero con
acerbe parole. Uno de' primi suoi atti fu, nel
Restituire la calma fra i popoli,
metter fine alla guerra e ad ogni spesa straordinaria, ristaurare le fonti
della rendita, furono le prime cure di Leopoldo II, giunto in Vienna il 12
marzo. Dopo di aver formato nel lungo governo di venticinque anni la
felicità della Toscana, egli recava sul trono austriaco la più
bella riputazione di un sovrano filosofo e filantropo, ed ebbe in questa il
miglior mediatore per riuscire nel suo intento. Eletto il 30 settembre
all'Impero, ricevette il 15 novembre la corona d'Ungheria, e partì da
Buda pienamente riconciliato con quella generosa nazione. Ristabilì come
poté e gli parve la sua autorità nelle province belgiche; e nell'estate
seguente fermò la pace co' Turchi, con restituir loro Belgrado e le
altre conquiste. In questa sistematica riconciliazione del sovrano de' suoi
sudditi la Lombardia non fu trascurata. I corpi civici furono invitati ad
esporre in iscritto le loro rimostranze, e queste furono recate a Vienna dai
deputati loro, colà espressamente chiamati[1175].
(1791) Né tardarono ad essere conosciute le sovrane risoluzioni[1176].
La congregazione dello Stato di Milano, abolita nel 1786, venne repristinata.
Si confermarono le prerogative ai corpi civici. L'amministrazione de' luoghi
pii fu restituita ai capitoli e alle congregazioni, conservato in Milano il
corpo elemosiniere. Soppresse le intendenze politiche provinciali, ne furono
delegate le incumbenze ai pretori; così la polizia di Milano
passò nelle attribuzioni del capitano di giustizia. Fu modificato il
regolamento per le scuole normali, e queste rese gratuite indistintamente[1177].
A tali provvidenze seguì dappresso una nuova sistemazione del governo,
coll'erezione di una conferenza governativa e la repristinazione del magistrato
politico camerale, cui furono aggregate le attribuzioni del soppresso consiglio[1178].
Anche i Mantovani furono rimandati contenti, coll'essersi separata
l'amministrazione della loro provincia da quella del Milanese, alla quale era
stata aggregata sei anni avanti, colla sola dipendenza dal governo generale
della Lombardia[1179].
Ho creduto di dover esporre con un preciso dettaglio la storia sommaria della
legislazione austriaca in questo paese, incominciando dal regno di Maria
Teresa, per più ragioni. Primieramente perché finora questo lavoro non
era stato fatto; inoltre perché corre di quella una confusa celebrità,
mentre i contemporanei in generale, per la rapida successione, e
l'affastellamento delle cose, se ne formarono un'idea poco diversa da quella
del caos; e finalmente perché, oltre qualche nascita o morte di persone
illustri, e qualche caso o istituzione patria, le fasi e i fatti
dell'amministrazione interna sono i soli elementi per la storia di uno Stato di
provincia. Ché se quelli tra i miei lettori, non avvezzi a siffatte
discussioni, a questa parte della mia narrazione si saranno annoiati, io
confesso con verità che ben più di essi mi sono annoiato
scrivendola.
In quest'anno, per la morte della
principessa Maria Teresa Cibo Malaspina, vedova del duca di Modena Francesco
III e signora del ducato di Massa e Carrara, la di lei figlia Maria Beatrice,
consorte del reale arciduca Ferdinando, le succedette in que' dominii. Nel mese
di aprile venne l'imperatore in Italia, accompagnando a Firenze il suo
secondogenito Ferdinando, nuovo gran duca di Toscana. Passò da Venezia,
dove ritrovossi col re e colla regina di Napoli; nel ritorno dalla Toscana
visitò Mantova, indi Cremona, Lodi, Pavia, e il 28 maggio entrò
in Milano. Ammise primo all'udienza l'arcivescovo, quindi il ministro
plenipotenziario, poi il comandante delle armi; in seguito tutti ad un tratto i
consiglieri, e finalmente in corpo i ciambellani. La vita che menò in
Milano era uniforme. Alla mattina visitava i pubblici stabilimenti, poscia
ammetteva chiunque all'udienza. Nell'anticamera vi era tutta la
cortesìa, e il primo venuto era il primo introdotto, col solo riguardo
che le donne precedevano. La sera poche volte fu in teatro, e fu veduto a piedi
girare per le strade della città colla sola compagnia di due arciduchi
suoi figli, che seco avea condotti. Questo principe non amava di accostarsi né
i magnati, né i militari, né i prelati, né alcuna persona che si desse per
importante; e preferiva di ammettere alla familiarità persone che non
avessero pretensione alcuna. Era co' suoi figli affettuoso senza
sovranità, ed essi lo trattavano come un amico. Visitò
minutamente le carceri, ma non fece liberare alcuno. Parve che le opinioni
teologiche e le teorie criminali fossero le due cose che sopra le altre lo
interessassero. Si trattenne in Milano fino alla sera del 28 giugno. Partendo
lasciò il popolo a sé affezionato, ed ha potuto conoscerlo dalla folla
accorsa alla partenza, e dalle voci che mostravano desiderio della sua
felicità e brama del suo ritorno.
Né egli, né il popolo sapevano che
salutavansi per l'ultima volta. Non era per anco tornato a Vienna che s'avvide
della mala riuscita delle pratiche da lui mosse per frenare il torrente della
rivoluzione di Francia a difesa di una sorella e di un cognato che sedevano su
quel trono[1180],
e d'essersi tirato addosso la guerra che voleva evitare. (1792) Essendo in
quest'angosciosa agitazione d'animo, egli esalò in Vienna il 1° di marzo
l'ultimo fiato, in tre soli giorni di malattia, dopo due anni del nuovo regno,
e circa quarantacinque di età. Chi il disse morto di malattia di petto,
chi di dissenteria; e come è costume del volgo nel giudicare delle morti
precipitose dei grandi, non mancò chi pretese di attribuirla ad una
causa straordinaria[1181].
Egli lasciò i popoli più tranquilli, ma angustiati dalle esigenze
dei preparativi guerreschi, e agitati per la prospettiva di un procelloso e
sinistro avvenire. E non s'ingannarono; mentre l'eredità che da lui
conseguirono il successore e i sudditi, furono ventidue anni di guerre
distruggitrici e di calamità senza fine e senza esempio. Fu principe di
carattere pacifico, affabile, amante dell'ordine e dell'economia. Col suo
fratello e antecessore ebbe comune il rimprovero di essere stato troppo amico
delle novazioni e troppo minuzioso ne' regolamenti, come la lode di avere
fondato tra i popoli un migliore governo. Più del fratello
rispettò la pubblica opinione, e non meno fermo di lui, si mostrò
più avveduto e più prudente. La stima che lasciò di sé
come imperatore, fu inferiore a quella che aveasi acquistato come gran duca. A
giustificare questa differenza possono allegarsi più cause: la
brevità del nuovo regno, la confusione e gli imbarazzi in cui l'ha trovato,
la somma difficoltà de' tempi, che preludevano al più grande
sconvolgimento politico, e alla successiva più grande catastrofe che
abbia mai veduto il mondo; ma quando si osservi che ne' fatti pubblici di que'
due anni (che pure molti ne operò) non fece mostra Leopoldo di alcun
lampo di quel genio che sfavillò di sì bella luce nella Toscana,
sembra potersi accostare di più alla verità, dicendo che il nuovo
teatro delle sue azioni fu per esso troppo vasto; e avvenne di lui ciò
che sarebbe accaduto nel regno delle belle arti a Giulio Clovio, miniatore
eccellentissimo, se la sorte lo avesse costretto ad eseguire le gigantesche
imprese di Michelangelo.
[1]
I Galli... sbaragliati i Toschi non lungi dal Ticino, avendo udito che il paese
in cui si erano fermati, si chiamava degli Insubri, nome pure di una borgata
degli Edui, cogliendo l'augurio del luogo, fabbricarono una città e
[2] Sul passaggio de' Galli in Italia questo ci venne riportato.
[3] Quella nazione dicesi aver passate le Alpi.
[4] Ant. It. Med. Æv., diss. XXI.
[5] Tanti cadaveri di città semi-distrutte.
[6] Rer.
Italic. Script., tom. II, p. 691.
[7] Il suolo della città modenese, occupato enormemente dall'eccessivo straripamento dell'acque, dai ruscelli che scorrono all'intorno e dagli stagni che straboccano dalle paludi, si vede ancora essere deserto per la fuga degli abitanti. Laonde anche oggidì si mostra una congerie di pietre d'ogni maniera, e veggonsi sassi di grande volume, attissimi un tempo alla costruzione di eccelsi edifizi, ora, come dicemmo, sommersi dalla frequente inondazione delle acque.
[8] Vitr., lib. I, cap. 4. - Strab., lib. 5.
[9] Alle mura dai Galli edificate,
Che pelle ostentan di lanuta troia.
[10] Che da lanuta troia il nome tragge.
[11] Una città grandissima delle Gallie e popolatissima, nominano Milano. Questa i Galli Cisalpini tengono per loro capitale. Plutarc., Vit. Marcelli.
[12] Recaronsi a Milano, città principale degl'Insubri; Cornelio, impadronito essendosi della città, che oltremodo piena era di frumento e di ogni genere di vettovaglie, insiegue i Galli. Polib. Histor., lib. 2.
[13] Questo monastero più non esiste.
[14] Lib. 3, cap. 2.
[15] Quale e quanto grande fosse la gioia conceputa per l'una e per l'altra vittoria, può da questo raccogliersi, che e Domizio Enobarbo e Fabio Massimo nei luoghi stessi nei quali pugnato avevano, eressero torri di pietra, e sopra vi piantarono trofei ornati delle armi nemiche.
[16] Cronica di Vincenzo Canonico di Praga.
[17] Monumenti storici della Boemia, non mai in addietro pubblicati. Praga.
[18] Torre fortissima e grandissima di solidissima costruzione marmorea, che nominavasi Arco Romano. Tom. I, p. 18.
[19] Isaaci Casauboni Animad. in Svet., lib. I, p. 32,
num. 17, ed. Paris, 1610; et Plutarc. in Vit. Caesar: invitatus Mediolani ad
coenam, hospite
[20] Statua ejus aenea fuit Mediolani (scilicet statua Bruti) in Gallia Cisalpina posita. Hanc, quae imaginem ejus bene repraesentabat, et erat artificiose facta, ut post vidit, Caesar praeteriit: mox subsistens, compluribus audientibus vocavit magistratus, civitatem eorum ferens sibi compertum esse foedus pacis rupisse, quod hostem suum apud se haberet. Ac primum sane negaverant, et quemnam significaret ambigentes, intuebantur se mutuo. Ut vero conversus Caesar ad statuam, contracta fronte, nonne, inquit, hic stat hostis noster? multo illi magis perculsi obmutuere. At Caesar arridens laudavit Gallos, quod amicis essent etiam in adversis rebus stabiles, praecepitque ne statua loco moveretur. Plutarc. in Vit. Bruti, in fine. (Eravi una di lui statua [di Bruto] di bronzo eretta in Milano, città della Gallia Cisalpina; e in progresso di tempo veduta avendo Cesare una tale statua, che ben somigliava a quel personaggio, e leggiadramente lavorata era, passò oltre, indi fermatosi, mandò chiamando i magistrati, e lor disse, alla presenza di molti che udironlo, ch'egli trovato aveva essersi rotte dalla città loro le convenzioni di pace, tenendo essa dentro di sé un suo nemico. Da principio adunque, com'era ben convenevole, negaron essi la cosa; e non sapendo di cui egl'intendesse, si guardavan l'un l'altro. Rivoltatosi però Cesare verso la statua e facendo ceffo: «E che! disse, non è qui posto costui che è mio nemico?» E coloro vie maggiormente sbigottiti, si tacquero. Ma egli allor sorridendo lodolli, siccome quelli che tuttavia costanti e fedeli erano ai loro amici, quantunque caduti in avverse fortune; e comandò che lasciata fosse la statua in quel luogo medesimo).
[21] I superbi edifici di Roma ed altre città, ed in particolare Cartagine, Milano e Nicomedia, adorne di nuove ed eleganti mura.
[22] Così crede che si chiamasse quella di Sant'Eufemia il signor conte Giulini.
[23] «Milano ancor di maraviglia degno
Tutto presenta: Universal dovizia;
Ben ornate le case, innumerevoli;
Pronti e facondi son gli umani ingegni,
Antichi e venerabili i costumi;
Con doppio ordin di muro anco ingrandito
Vedi il recinto, e popolar diletto
Formano il circo, e co' suoi gradi in giro
D'ampio teatro la racchiusa mole;
Sorgono templi e palatine rocche
E opulenta officina di monete,
E delle terme la region, cui fama
Crebbe ed onore per l'Erculeo nome,
E di scolpiti marmi intorno adorni
I peristili tutti, e in vasto cerchio
Quasi un campo a
formar stese le mura;
Tutto è
sublime, ed emular le forme
Delle grand'opre
sembra, e non temere,
Vicina ancora, il
paragon di Roma».
[24] Maravigliose tutte.
[25] Della fusione dei metalli.
[26] Affinché dessimo ai cristiani ed a tutti libero potere di seguire quella religione che ciascuno volesse. Lactantius, de Moribus persecutorum, cap. 48.
[27] Muratori, Anecdota, t. I, p. 223. Impress. Mediol. 1697.
[28] Bingam., Orig. Eccles., lib. IX, cap. I, § 5 e 6. - Dupin, de Antiq. Eccles. disciplin., diss. I, § 6. - Giannone, Storia del regno di Napoli, lib. II, cap. VIII.
[29] Ai sacerdoti ed al clero milanese.
[30] Siccome tuttavia il fine a cui tende l'antica mia
deliberazione è che alcuna persona mescolarsi non debba nello assumere
l'incarico della cura pastorale, colle orazioni io secondo la vostra elezione.
S. Gregorii papae I cognomento Magni opera omnia. Venetiis, 1744, tom. 2,
col.
[31] Perciocché poi ponete mente alla esazione del patrimonio della provincia di Sicilia, di diritto della Chiesa santa, alla quale, per divina autorità, presiedete... per ciò è d'uopo che la santità vostra istituisca una persona a trattare questo negozio, colla quale la chiesa romana possa solidamente conchiudere qualche cosa. Lib. I, Epist. 82. S. Greg., Operum, tom. 2, col. 565.
[32] Al reverendissimo e santissimo confratello Ansperto, arcivescovo milanese.
[33] Troppo imperiti mostraronsi alcuni interpreti,
dicendo: perì questa città, rovinata è la chiesa, non vi
ha più ragione alcuna di vivere. Anzi havvi motivo di vivere più
giustamente e più santamente, perché Dio onnipotente, che con grande pietà
queste cose dispone, non diede già in mano ai nemici la città che
in voi consiste, ma le sole abitazioni; né la chiesa sua, che è
veramente la chiesa, lasciò che consumata fosse dall'incendio, ma affine
di correggerci permise che abbruciato fosse il ricettacolo della chiesa...
Perciocché, dopo quella ruina, tanto grande e lagrimevole, ecco il sommo suo
sacerdote salvo rimane, intatto il clero; e la plebe stessa, sebbene viva in
continuo timore e mesta, conserva
[34] Si ricorda essere stata la presente opera pubblicata nel 1783. [Nota del Custodi].
[35] De bello Gothico, lib. II, cap. 21.
[36] Ricevette Agilulfo, che era cognato del re Autari, cominciando il mese di novembre, l'esercizio della regia dignità. Ma pure, congregati essendo da poi i Longobardi in assemblea nel mese di maggio, da tutti presso Milano fu innalzato al regno. Lib. 3, cap. ultimo.
[37] Adunque nella state seguente, nel mese di luglio, fu innalzato Adaloaldo re sopra i Longobardi presso Milano nel circo, alla presenza del padre suo il re Agilulfo, coll'assistenza dei legati di Teodeberto, re dei Franchi. Lib. 4, cap. 31.
[38] Abitano la Germania situata intorno al Reno, dalla prima parte settentrionale i Brusacteri, detti piccioli, ed i Sicambri, gli Oqueni, i Longobardi.
[39] La parte interna e la mediterranea occupano principalmente gli Svevi Angli, i quali più orientali sono dei Longobardi.
[40] La scarsezza dei Longobardi forma la loro nobiltà, perché circondati da moltissime e valorosissime nazioni, non per mezzo di ossequio si mantengono sicuri, ma bensì colle pugne e coi pericoli.
[41] Ristorato dalle forze dei Longobardi, con varietà di lieta e di avversa fortuna contro i Cheruschi guerreggiava.
[42] Giulini, tom. I, p. 228, tom. 2, p. 383.
[43] Giulini, tom. I, p. 396.
[44] Giulini, tom. 2, p. 171.
[45] Giulini, tom. 4, p. 364.
[46] Sormani, Passeggi, tom. 2, p. 20.
[47] Giulini, tom. 2, p. 416.
[48] Giulini, tom. 3, p. 499.
[49] Giulini, tom. 3, p. 228.
[50] Giulini, tom. 3, p. 346.
[51] Giulini, tom. I, p. 388.
[52] Giulini, tom. 2, p. 361.
[53] Per la eccessiva scarsezza degli abitanti. Landulph. Senior, lib. 2, cap. 26.
[54] Giulini, tom. 2, p. 322.
[55] Giulini, tom. 5, p. 442.
[56] Giulini, tom. 2, p. 439.
[57] Dove è da sapersi che la città di Milano, per le molte distruzioni, non era internamente fabbricata con case murate, ma per la maggior parte composte di paglia e di graticci. Laonde se il fuoco ad una casa appiccavasi, tutta la città si abbruciava.
[58] Giulini, tom. 4, p. 144.
[59] Arnulph., lib. 4, cap. 8.
[60] Landulph. Junior., cap. 8.
[61] Giulini, tom. 4, p. 510.
[62] Che si è professato di vivere secondo la legge
dei Romani.
Che si reputa
vivere secondo la legge de' Longobardi.
Che mi sono
professato, per la mia nazione, di vivere secondo
[63] Giulini, tom. 1, p. 430.
[64] Noi Alberico conte nel Placito pubblico per
amministrare a ciascuno
[65] Giulini, tom. 1, p. 356.
[66] Mantenitor del voto, in voler fermo.
[67] Giulini, tom. I, p. 381.
[68] Giulini, tom. I, p. 383 e sg.
[69] Quello tra i cardinali preti diaconi o sarà trovato più degno, coll'aiuto di Cristo, all'onore dell'arcivescovado, promuovessero.
[70] Giulini, tom. I, p. 385 e 411.
[71] Pienamente e ad evidenza intendiamo, come tu con fedele devozione, e con tutto lo sforzo della mente, per il pristino stato e vigore, e per lo ristoramento della santa Chiesa milanese, tre volte e quattro sei rimasto devoto e zelante nell'ossequio di Ansperto reverendissimo tuo arcivescovo e confratello nostro, e ad esso nelle cose tutte fedelissimo. Giulini, tom. I, p. 419.
[72] Giulini, tom. 2, p. 61.
[73] Liutprand., lib. I, cap. 22.
[74] Rer. Italic., tom. 2, part. II. Chron. Novaliciense.
[75] Vegnendo noi a Pavia nel sacro palazzo, ed ivi fatta
nella persona nostra la elezione,
Antiquit. Medii Ævi, tom. I, p. 87 .
[76] Nel palazzo di Pavia, che è la capitale del
nostro regno. Antiquit. Medii Ævi, tom. I, p. 779.
[77] Liutprand., lib 2, cap. 15.
[78] Giulini, tom. 2, p. 153.
[79] Dissert.
Med. Æv., tom. VI, p. 325.
[80] Tom. 2, p. 163.
[81] Giulini, tom. 2, p. 267.
[82] Che egli voleva in quel luogo costruire una fortezza, colla quale, non solo i Milanesi, ma molti principi d'Italia altresì avrebbe saputo tenero in freno. Liutprand., lib. 3, cap. 4.
[83] Gli concedette di poter cacciare il cervo nel suo parco, il che mai accordato non aveva ad alcuno se non ai carissimi ed illustri suoi amici.
[84] Mentre presso le mura della città cavalcava.
[85] Nella propria lingua, cioè nella teutonica, così parlò ai seguaci suoi: Io non sono Burcardo, se non faccio che gli Italiesi tutti si servano di un solo sperone, e per cavalcatura si valgano di cavalle pregne o deformi. Punto non curo la solidità o l'altezza di quel muro; giacché, col solo gettare la mia lancia, morti precipiterò dal baluardo i nemici.
[86] Venne a Pavia e col consentimento di tutti assunse il regno. Liutprand, lib. 3, cap. 5.
[87] Ugone e Lotario regi.
[88] Liutprand., lib. 4, cap. 6. - Arnulph., lib. I, cap. 1 e
[89] Giulini, tom. 2, p. 208.
[90] Liutprand.,
lib. V, cap. 4 e sg.
[91] Tristani Calchi, Hist. Patr., lib. I, p. 18. - Alciati, lib. II, p. 125.
[92] Mentre nel nome di Dio, nella città di Pisa, alla corte dei signori re, dove il signor Ugone e Lotario gloriosissimi ai re presiedevano, sotto le viti, la dove topia (pergola) si chiama, entro la corte medesima, ecc. Muratori, Antiq. Med. Ævii, tom. I, p. 953.
[93] Mentre nel nome di Dio, al monastero del santo e confessore di Cristo, Ambrogio, ove sepolto riposa il di lui corpo, ove il signor Lamberto, piissimo imperatore, presedeva, in una casa della stessa santa chiesa milanese, in una lobia (terrazzo, anziché portico, come interpreta il Du Cange) della casa medesima, sedeva a giudicare Amedeo, conte del palazzo, insieme con Landolfo, nominato arcivescovo, affine di amministrare a tutti giustizia e deliberare, ecc. Giulini, tom. II, p. 473.
[94] Nel nome di Dio, essendo che nella città di Milano, nella corte del ducato, entro la lobia della stessa corte sedeva a giudicare Magnifredo, conte del palazzo, e conte dello stesso contado milanese, per amministrare giustizia a ciascuno, risiedendo con esso Rotcherio, visconte della stessa città, ecc. Giulini, tom. II, p. 469.
[95] Confermo che tutti i miei servi e le mie ancelle siano Aldioni, ed appartenga la loro brigata (mundium) allo stesso ospedale, ricevendo essi un soldo per testa ciascuno, siano maschi o femmine; e così voglio pure che quegli uomini miei che consueti sono, col vitto giornaliero, a prestarmi le opere loro, stabilisco che qualora lavori debbano eseguirsi, compiano i detti lavori, ricevendo il vitto dallo stesso ospedale.
[96] Questo ospedale sia diretto e governato da Warimberto, umile diacono dell'ordine della santa chiesa milanese, nepote mio e figlio della buona memoria di Ariberto di Besana ne' giorni della sua vita. Giulini, tom. II, p. 110.
[97] Da coerenza a questa da due parti tenente Ursone, e così pure l'isola comense, dalla terza parte il podere di San Vittore di Missaglia, dalla quarta il podere di San Retro di Civate. Giulini, tom. II, p 199.
[98] Giulini, tom. I, p. 366 e 471.
[99] Giulini, tom. I, p. 72.
[100] Sembra questo in contraddizione con quanto si
è asserito; cioè, che quando il genere umano fu più
tormentato, gl'ingegni si sono riscossi, e ne è nata la coltura e
[101] Landulph. Senior., lib. II, cap. 10; Rer. Ital., tom. IV. - L'anno 1440, il cardinale Branda Castiglione, signore accreditatissimo, avendo sottratti i rituali ambrosiani per introdurre il rito romano, corse pericolo della vita. Il popolo attorniò il suo palazzo; egli fu costretto a gettare dalle finestre i libri ambrosiani, e finché visse, non s'arrischiò a porre mai più il piede in Milano.
[102] Tom. II, p. 151.
[103] Landulph . Sen., lib. I, cap. 9.
[104] Debbono dunque essere istrutti i laici, affinché
nelle case loro debbano con fervore celebrarsi i divini misteri, il che
è assai lodevole; siano però i misteri trattati da coloro che dai
vescovi siano stati esaminati, e si approvano allorché sono dagli ordinatori
loro accompagnati con lettere commendatizie, mentre per avventura debbono
recarsi in terre straniere. Se adunque si trovano sprezzatori dei canoni, che
straordinariamente ed illecitamente esercitino il ministero, e che ardiscano
violare sacramentalmente le cose divine, siano da prima gli uni e gli altri dal
vescovo rimossi, tanto cioè il cherico o il sacerdote errante, quanto
quello che, con usurpazione, si appropria il di lui ufficio; e qualora non
vogliano da questa temerità trattenersi, siano scomunicati.
Canon. XVIII. Synod. Regiaticini ann. 850 regnantib. piissim. Augg. Hlotario ac Hlodovico. Labbei Concilior., tom. IX, p. 1071. Edit. Venet., 1782, Albrizzi e Coleti.
[105] Leo Hostiens., lib. II, cap. ultimo.
[106] Giulini, tom. II, p. 244.
[107] Giulini, tom. II, p. 280.
[108] Intanto, celebrando Valperto i divini misteri, con molti vescovi circostanti, il re tutte le regali insegne, la lancia, nella quale chiuso era un chiodo di N. S. e la spada reale, la bipenne, il cingolo, la clamide imperiale e tutte le regie vesti depose sull'altare di Sant'Ambrogio... Valperto, magnanimo arcivescovo, di tutti gli abiti reali, col manipolo di suddiacono, sovrimposta al capo la corona, astanti tutti i suffraganei di Sant'Ambrogio e molti duchi e marchesi, con maraviglioso decoro rivestì ed unse Ottone re, acclamato e in tutti i modi confermato.
[109] Landulph.
Sen., lib. II, cap. 26.
[110] Soggiogati avendo i Milanesi, rinnovò la loro moneta, e anche in oggi quelle monete chiamansi Ottelini.
[111] Goldast.
Chatol rei Monet., tit. 48.
[112] L'arcivescovo, scortato da una grande squadra di soldati, che ornati erano di pelli di martori, di zibellini, o con pellicce di vaio e di armellino, delle quali cose fornito lo aveva maravigliosamente l'imperatore.
[113] Ornato delle vesti episcopali, colla stola, senza la quale non costumò giammai di trovarsi fuori o nella città, qualunque fosse il negozio che interveniva o che lo turbava... e dallo stesso mirabile monarca con grande onorificenza ricevuto, si trattenne in conversazione, siccome al vescovo conveniva.
[114] Giulini, tom. III, p. 23.
[115] Giulini, tom. III, p. 24.
[116] Per amore del santissimo vescovo Ambrogio.
[117] Giulini, tom. III, p. 151.
[118] Arcivescovo della santa chiesa milanese.
[119] Tom. III, p. 153.
[120] Giulini, tom. III, p. 183.
[121] Giulini, tom. III, p. 217.
[122] La società evitando de' suoi pari, Eriberto, nonostante il malcontento loro e la loro ripugnanza, recossi nella Germania, risoluto di eleggervi ei solo un re teutonico. Rer. Italic. Scriptor., tom. IX, p. 14.
[123] Egli stesso ricevuto lo avrebbe e con tutti i suoi signore e re pubblicamente acclamato, e tosto coronato lo avrebbe.
[124] Oltre molti donativi il vescovado di Lodi, affinché, siccome consacrato aveva il vescovo così pure lo investisse.
[125] Sicuro di ogni cosa ritornando, tutta colle sue ambascerie sovvertì l'Italia, altri coi fatti, altri colle speranze tenendosi benevoli.
[126] Giulini, tom. III, p. 197.
[127] Arnulph., cap. 7
e Giulini, tom. III, p. 211.
[128] Glaber. Rodulph, lib.
4. cap. 2.
[129] Landulph. Sen., lib. 2,
cap. 27.
[130] Giulini, tom. III, p. 219.
[131] Tom. III, p. 222. Riferisco le parole d'un autore dei nostri giorni anzi che quelle di Landolfo, contemporaneo, perché il lettore si appaghi essere il fatto non controverso, ma accordato da un illustre erudito, e da un Guelfo.
[132] Contro il volere d'Ariberto.
[133] A tale feccia di
costumi, peggiorando giornalmente da se stesso, si riduce il mondo, che, non
solo giace dallo stato suo decaduto qualunque ordine di laica o ecclesiastica
condizione, ma languisce ancora la stessa monastica disciplina, dalla consueta
perfezione della sua elevazione piegata, direi quasi, al suolo. Perì il
pudore, svanì l'onestà, cadde la religione, e, quasi in un
drappello raccolta, andò lontana la turba di tutte le sante virtù.
Muratori, Dissert. Med.
Æv., tom. X, p. 65.
[134] Lib. 2, cap. 8.
[135] Arnulph., lib. I, cap.
10. - Flam. Manip. flor., cap. 141.
[136] Fornita di grandissima quantità di popolo.
[137] Giulini, tom. III, p. 327.
[138] Giulini, tom. III, p. 334.
[139] Convocati i sacerdoti e
i diaconi, con somma devozione assunta avendo la penitenza di tutti i peccati,
e fatta alla presenza di tutti la sua confessione e l'assoluzione dai sacerdoti
ottenuta coll'imposizione delle mani, cooperando lo Spirito Santo, con
umiltà e devozione
[140] Giulini, tom. III, p. 411.
[141] Giulini, tom. III, p. 422.
[142] Inoltre l'arcivescovo di Milano, per autorità imperiale godeva alcune altre rendite cospicue: sulle strade regie, da qualunque parte del contado si uscisse, avea un pedaggio, e qualunque volta entrava uno straniero a cavallo, o in cocchio o a piedi, pagava il censo al gabelliere dell'arcivescovo, o piuttosto ad innumerabili gabellieri, e l'arcivescovo era tenuto a far custodire i passi, e tutti coloro che alcun danno sostenuto avessero entro il territorio, risarcire dovea del suo di tutta quella somma alla quale fossero stati apprezzati i danni. Flamma, Chronic. Mediolan., p. 227.
[143] Oltre il consueto abusar del dominio della città. Arnulph., cap. 10.
[144] Ai tempi di Ottone imperatore primo, Bonizone... come duce stabilito per facoltà ricevuta dall'imperatore, reggeva col suo governo il castello. Landulph. Sen., lib. 2, cap. 17.
[145] Sia tenuto ad alimentare cento poveri, e per ciascun povero dia un mezzo pane e lardo per companatico, ed una libbra di cacio tra quattro ed uno staio di vino.
[146] Comperino pesci, affine di ristorarsi col cibo e rallegrarci ogni anno nel giorno anniversario della morte di essi Falkerodo monaco e Giovanni prete, per suffragio delle anime loro, che ad essi procuri gaudio e salute dell'anima. Giulini, tom. III, p. 81.
[147] Affinché essi luminari risplendano per la di lui anima. Giulini, tom. III, p. 377 e 465.
[148] E faccia ardere nella
quadragesima maggiore sopra la sepoltura del fu di lui genitore Andrea. Giulini, tom. IV, p. 271.
[149] Dissert. Med. Æv., tom. V, dissert. LIX.
[150] Per cagione del retto giudizio che su le cose già nominate pronunziammo tra esso e Riccardo. Dissert. Med. Æv., tom. IV, p. 197.
[151] Giulini, tom. II, p. 337.
[152] Le facoltà della Chiesa e molti benefizi ancora dei cherici distribuì ai soldati. Arnulphus, cap. 10.
[153] Promettendo a quelli
tutte le pievi e tutte le dignità e gli ospedali, che i maggiori
ordinari ed il primicerio dei decumani e gli arcipreti e Cimiliarchi delle
chiese di questa città godevano, asserendo con giuramento, e
consolidando un patto così detestabile. Landulph.. Sen., lib. 2, cap. 18.
[154] Rerum Italic. Scrip., tom.
IV, p. 121.
[155] Degli uffizi dei ministri.
[156] Che dirò della monogamia de' sacerdoti? Mentre un solo connubio è loro permesso, e non mai ripetuto; e questa è la legge di non passare a seconde nozze. Landulph. Sen., lib, I, cap. II.
[157] Ma a che parlerò
io della castità, quando si permette un solo, non ripetuto, connubio? E
adunque nello stesso matrimonio è posta la legge di non rinuovarlo. Sancti Ambrosii Opera, edit. Maurin., Paris, 1686, tom. II,
Column. 66 B.
[158] Maestro delle virtù è adunque l'apostolo il quale insegna doversi redarguire con pazienza anche i contraddicenti, siccome quello che ingiugne che l'uomo sia sposo di una sola donna, non già perché totalmente escluda il non coniugato, (perciocché questo è al di là della lettera del comandamento), ma perché, colla castità coniugale, goda della grazia della sua assoluzione, giacché nel coniugio non vi ha colpa, ma legge. Per questo l'apostolo la legge stabilì dicendo: Se alcuno senza delitto è marito di una sola moglie; dunque quello che senza delitto è marito di una sola moglie, sarà tenuto alla legge del sacerdozio sopradetto; quello poi che passasse a seconde nozze, non incorre realmente la colpa d'uomo che siasi macchiato, ma privato viene della prerogativa del sacerdozio. Rer. Italic. Script., tom. IV, p. 109.
[159] Maestro delle
virtù è dunque l'apostolo il quale insegna doversi redarguire con
pazienza anche i contraddicenti, siccome quello che ingiugne lo sposare una
sola donna, non già perché totalmente escluda il coniugio (perciocché
questo è al di là della legge del comandamento), ma perché
l'uomo, colla castità coniugale, conservi la grazia della sua
purificazione; né ancora intese di dire che l'autorità apostolica
invitasse a procreare figliuoli nel sacerdozio o a rinnovare il matrimonio,
giacché parlò di chi avea figliuoli, non di chi li procreava. Sancti
Ambrosii Mediolanensis Episcopi Opera ed. Maurin., Paris., 1686, tom. II, Column.
[160] Perciò l'apostolo stabilì la legge, dicendo: se alcuno senza delitto è marito di una sola moglie, è tenuto alla legge del sacerdozio che dee assumere; quello però che passasse a seconde nozze, non incorre realmente la colpa d'uomo che siasi macchiato, ma privato viene della prerogativa di sacerdote. Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi Opera, edit. Maurin., Paris., 1686, tom. II, Column. 1037 B.
[161] Che i padri del concilio Niceno aggiugnessero qualche trattato, e che chierico essere non dovesse chi contratto avesse seconde nozze.
[162] Moltissime variazioni sono state fatte agli scritti
di Sant'Ambrogio. Il canonico regolare Giovanni Coster, nella prefazione alle
opere del santo dottore, stampate in Basilea nel 1555, così s'esprime a
tal proposito: (a) Cum ego igitur ante biennium D. Ambrosii Epistolas
antiquis et elegantioribus characteribus conscriptas... nactus essem,
caepissemque, meo more, cum excusis libris eas conferre, mirum dictu quantum
hic erat dissidii, quantum varietatis, ut statim non potuerim non destomachari
in eos qui, editis libris, speciosis quidem sed inanibus et mendacibus titulis,
omnia castigatissima... pollicentur. Francesco Junio, nella prefazione all'Index
expurgat., riferisce che, visitando in Lione Luigi Saurio, correggeva le
edizioni della stamperia Fresloniana, gli mostrò il Saurio le
interpolazioni ed i troncamenti fatti al testo di sant'Ambrogio da due frati.
Il Rivet pure racconta lo stesso: Critic. sacr., lib. 3, cap. 6. Il
Dableo nel suo libro: De l'usage des saints Péres, move le stesse
querele. Vero è che i Maurini, nell'edizione di Parigi del 1686,
confutano queste opinioni. Ma è altresì vero che nell'edizione
delle opere di sant'Ambrogio, fatta in Roma nel 1580 da Domenico Basa, il
cardinale di Montalto (che divenne poi Sisto V) nella prefazione dichiara
d'avere associati al lavoro: (b) Praeclaros doctores, viros doctrina, et
pietate graves, ac linguarum intelligentia, et historiarum cognitione insignes,
praeterea in scholastica theologia et Patrum lectione admodum versatos delegi,
mihique laboris socios adscivi... quorum ope, atque adminiculo obscura
explicuimus, manca supplevimus, adjecta rejecimus, transposita reposuimus, depravata
emendavimus, omnia demum ut germanam Ambrosii phrasim redolerent, ejusque
dignitati, atque gravitati responderent sedulo curavimus, et ut ipsemet auctor
loqui videretur suppositiis quibuscumque abscissis, pro viribus studuimus.
Attenendoci per altro anche all'edizione de' Maurini sembra che in alcuni
tratti sant'Ambrogio vada d'accordo coi testi che si citavano dai nostri
sacerdoti. Nel primo libro di Abramo, cap. III, num. XIX, leggesi: (c) Ab
ipso quoque domino mercedem quam postulet consideremus. Non divitias ut avarus,
exposcit; non longaevitatem vitae istius, ut meticulosus mortis; non potentiam;
sed dignum quaerit sui haeredem laboris: Quid mihi, inquit, dabis? Ego
autem dimittor sine filiis. Et infra: quia mihi semen non dedisti,
vernaculus meus mihi haeres erit. Discant ergo homines conjugia non spernere, tom.
I, col. 288. D. Altrove, nella sposizione del Vangelo di san Luca, lib.
IV, num. X, scrivendo delle fallacie colle quali sotto aspetto di bene vengono
sedotti gli uomini, dice: (d) Videt integrum et illibatae castimoniae virum;
suadet ut nuptias damnet, quo ejiciatur ab Ecclesia, studio castitatis a casto
corpore separetur., tom. I, col. 1337, B. Se il disapprovare il matrimonio
è un'eresia, il disapprovare il matrimonio de' sacerdoti, pare che non
dovesse sembrare un atto religioso. Più chiaro sembra il testo del santo
dottore nel libro: (e) De Benedictionibus Patriarcharum, cap. III, num.
XII, ove leggesi: (f) Ut ubi inhabitatores ante lasciviae, et principes
luxuriae versabantur, ubi fuerant incentiva libidinis et fomenta nequitiae, ibi
nunc sancti sacerdotes magisteria doceant castitatis, et plurima virginalis
integritatis exempla quodam supernae lucis fulgore resplendeant, tom. I,
col.
(a) Avendo io
adunque trovato già da due anni le lettere di sant'Ambrogio,
scritte in caratteri antichi ed assai eleganti.... e cominciato avendo, secondo
il mio costume, a confrontarle sui libri stampati, maravigliosa cosa è a
dirsi quanta differenza io vi scorgessi, quanta varietà; cosicché
all'istante non potei non rimanere stomacato di coloro che nelle edizioni de'
libri, con titoli speciosi veramente, ma vani e mendaci, le cose tutte
gastigatissime... promettono.
(b) Mi elessi come
soci della fatica dottori illustri, uomini gravi per dottrina e per
pietà, ed insigni per la intelligenza delle lingue e la cognizione delle
istorie, inoltre molto versati nella teologia scolastica e nella lettura dei
Padri... col di cui aiuto e giovamento spiegammo le cose oscure, supplimmo le
mancanti, rigettammo le sopragiunte, rimettemmo a suo luogo le trasposte,
emendammo le depravate, tutte finalmente procurammo di ordinarle in modo che la
genuina frase di Ambrogio suonassero, e convenevolmente corrispondessero
alla dignità e gravità di quello scrittore; e ci adoperammo
affinché sembrasse parlare lo stesso autore, troncate avendo noi tutte le cose
intruse.
(c) Consideriamo
ancora quale mercede richiegga dallo stesso Signor nostro; non chiede ricchezze
come l'avaro; non la lunghezza di questa vita come timoroso della morte; non la
potenza; ma domanda un degno erede della sua fatica. Che mi darai? dice egli:
io già sono congedato senza prole. E più abbasso: Perché non mi
hai accordato prole, un mio connazionale raccoglierà la mia
eredità. Imparino dunque gli uomini a non disprezzare i matrimonii.
(d) Vede un uomo
incorrotto e di illibata castità, e lo persuade a condannare le nozze,
affinché cacciato sia dalla Chiesa, e per istudio di castità espulso sia
da un casto corpo.
(e) Delle
benedizioni dei patriarchi.
(f) Affinché dove aggiravansi da prima coloro che nella lascivia dimoravano, e il principato tenevano nella lussuria, dove gli incentivi trovavansi della libidine e i fomenti della perversità, colà ora i santi sacerdoti i precetti insegnino della castità, e numerosi esempli di integrità virginale di un cotale splendore di celeste luce risplendano.
[163] È buona cosa che l'uomo non tocchi la moglie; ciascuno però abbia la propria moglie affine di evitare la fornicazione.
[164] È duopo adunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, ecc.
[165] Nel sinodo di Damaso I tenuto in Costantinopoli da centoquaranta vescovi, al quale intervenne il beato Ambrogio, nacque grandissima controversia tra i sacerdoti ammogliati da una parte, e i sacerdoti viventi senza moglie dall'altra, i quali sacerdoti senza moglie dicevano, che i sacerdoti ammogliati non potevano salvarsi. Il sommo pontefice rimandò questa questione al beato Ambrogio, il quale così parlò: La perfezione della vita non consiste nella castità, ma nella carità, secondo quel detto dell'apostolo: se io parlassi colle lingue degli uomini e degli angeli, ecc. Per questo la legge concede ai sacerdoti di condurre sposa per una sola volta una vergine, ma non accorda loro di reiterare il matrimonio. Se poi morta essendo la prima moglie, il sacerdote ne sposasse un'altra, perde il sacerdozio.
[166] Tutti questi,
benedicendo il beato Ambrogio, concedette loro che di una sola moglie
usare potessero, morta la quale, vedovi anch'essi rimanessero in eterno. La
quale consuetudine durò per settecent'anni fino al tempo di
[167] Sant'Ambrogio ai sacerdoti della sua Chiesa.
[168] Tom. IV, p. 7.
[169] Landulph, Sen., lib. 3,
cap. 4.
[170] Tom. IV, p. 14.
[171] In questo tempo medesimo un grandissimo orrore invase il clero ambrosiano... il di cui principio e la di cui serie, essendo la cosa tuttora presente agli occhi nostri, per quanto è in nostro potere, narriamo... Certo diacono adunque dei decumani, per nome Arialdo, molto delicatamente nutrito presso il vescovo Widone, e colmato di assai onori, mentre allo studio delle lettere attendeva, severissimo interprete diventò della legge divina, contra i soli cherici esercitando crudeli giudizi. Il quale, trovandosi fornito di scarsa autorità, siccome nato di basso lignaggio, si avvisò in prevenzione di associarsi Landolfo, come uomo più generoso, e a questo fatto idoneo, divenuto essendo seguace di un suo favorito. Landolfo poi, dotato essendo di lingua e voce più spedita, ed eccessivamente avido del pubblico favore, all'istante capo si fece della parola, usurpato avendo contra il costume della Chiesa l'ufficio della predicazione. Questi, non essendo elevato per alcun grado dell'ecclesiastica gerarchia, grave giogo imponeva alle cervici dei sacerdoti, mentre soave è quello di Cristo e leggiero il suo peso. Arnulph., lib. 3, cap. 8.
[172] Carissimi seniori, io non posso più oltre trattenere il discorso che nel cuor mio ho conceputo. Non vogliate, signori miei, non vogliate nò sprezzare le parole di un giovine e di un imperito; perciocché spesso Iddio rivela al minore, quello che al maggiore ricusa. Ditemi: credete in Dio trino ed uno? Rispondono tutti: crediamo. E soggiunse: munite le fronti vostre del segno della croce. E questo ancora fu fatto. Dopo di questo disse: io mi compiaccio della vostra devozione, ma a compassione mi muove l'imminente grandissima perdizione. Perciocché già da gran tempo addietro non è conosciuto in questa città il Salvatore. Gran stagione egli è che voi siete in errore, giacché più non avete alcun vestigio di verità; invece della luce palpate le tenebre, ciechi tutti divenuti, poiché ciechi sono i vostri capi. Ma un cieco forse può egli guidare un cieco; non cadono l'uno e l'altro nella fossa? Conciossiaché abbondano in molti modi gli stupri; si sparge l'eresia simoniaca nei sacerdoti e nei leviti e negli altri ministri de' sacri riti; i quali essendo nicolaiti e simoniaci, ben a ragione debbono essere cacciati, e dai quali quind'innanzi, se salute sperate dal Salvatore, dovete del tutto guardarvi, non venerando alcuno dei loro uffizi, giacché i sagrifizi loro sono la stessa cosa come lo sterco canino, e le loro basiliche sono stalle di giumenti. Per la qual cosa, riprovati quelli all'istante, si vendano al pubblico i loro beni. Sia a tutti lecito il rapire i loro averi, qualora si trovassero nella città o fuori. Arnulph., lib. 3, cap. 9.
[173] Acremente avesse tuonato. Rer. Italic. Script., tom. IV, p. 24.
[174] La cosa essendo tuttora agli occhi nostri presente.
[175] Arialdo, invasato da un certo zelo di superbia, il quale poco prima accusato di certa nefandissima scelleratezza, e convinto innanzi a Guidone, alla presenza di molti sacerdoti di questa città, e in parte perché i sacerdoti urbani non consentivano che quelli di fuori della città entrassero togati, e non permettevano che le chiese della città servissero se non come tonsurati, cercava in qualunque modo l'occasione di potere, aizzando la possa del popolo, allontanare tutti i sacerdoti dalle loro mogli.
[176] Giulini, tom. IV, p. 16.
[177] Venendo in un giorno solenne alla chiesa (Arialdo) con turba di popolo dalla piazza, tutti coloro che salmeggiavano, con violenza cacciò dal coro, inseguendoli per tutti gli angoli e nei loro alloggiamenti; provvide quindi maliziosamente che si scrivesse il Pitacio della conservazione della castità, ommesso il canone, estorto dalle leggi mondane, al quale tutti i sacri ordini della diocesi ambrosiana, a malgrado loro, soscrivono, opprimendoli egli stesso coi laici. Intanto i predatori, oltre alcune case rovinate nella città, visitavano la parrocchia, frugando nelle case dei cherici, col rapire i loro averi.
[178] Giulini, tom. IV, p. 18.
[179] Landulph. Sen., lib. 3, cap. 5 e sg.
[180] Giulini, tom. IV, p. 19.
[181] Arnulph., lib. 3, cap. 10 e sg.
[182] Idem., lib. 3, cap. 2.
[183] Giulini, tom. IV, p. 21.
[184] Giulini, tom. IV, p. 24.
[185] Tom. IV, p. 24.
[186] Leo Ostiens., lib. 2.
[187] Forse tu solo sopra di noi accendi la fiamma del popolo, che, impetuosa, aggirasi come il mare, e questo per cagione della esacrabile patalia (eresia de' patarini) e di molti giuramenti viziosi e detestabili? Landulph. Sen., lib. 3, cap. 7 e sg.
[188] Mentre tu pensasti a commovere il giudizio di questa inudita patalia, qualunque si fosse la tua intenzione, avresti dovuto da prima con molti digiuni pigliare consiglio da qualche uomo religioso. Landulph., lib, 3, cap. 2.
[189] Ma i nobili della città, dal cui valore i sacerdoti poco prima erano difesi, da eccessiva ira e da sdegno commossi, uscivano altri dalla città, altri aspettavano il tempo in cui ponessero fine a quella procellosa calamità. Landulph. Sen., loc. cit.
[190] Col concorso di quasi tutti i cittadini, i quali volontieri ascoltavano le sregolatezze dei cherici; altri aggravati dall'inopia o dai debiti, e tutta la speme loro riponenti nella preda e nelle rapine, nulla meno bramavano che la pace e la concordia della città. Trist. Calch. Hist. Patr., lib. 6, p. 131.
[191] Per la fazione dei cherici, repentinamente si solleva mormorio nel popolo. Dicesi, non dovere la chiesa ambrosiana soggiacere alle romane leggi, né al romano pontefice competere alcun diritto di giudicare o di disporre le cose di quella sede. Troppo indegno reputasi che quella Chiesa la quale sempre fu libera sotto i nostri progenitori, ora, per obbrobrio della nostra confusione, ad altra Chiesa, il che non faccia il cielo, sia assoggettata. Giulini, tom. IV, p. 34.
[192] Gonfiato quindi per il fasto della sua legazione, volle nelle pubbliche funzioni essere preferito al nostro arcivescovo; ma il popolo, sopportare non volendo che nella propria diocesi fosse l'ambrosiana dignità violata, cominciò a fremere e a tumultuare all'intorno. Spaventato da quel timore, l'Ostiense si ritrasse dal suo proposito, ed ultimò i negozi urgenti, e varie pene, come vendicatore, infliggeva a coloro che alcun delitto commesso avevano, a norma della gravità del loro fallo; altri, accordando loro una dilazione, ad altro giudizio riserbava. Finalmente, come nuovo censore ed arbitro delle cose nostre, egli cangia le antiche consuetudini; nuove leggi introduce; le conferma colle sue lettere e co' suoi sigilli, e queste forza a soscrivere l'arcivescovo e gli ordinari di Milano, minacciando di suscitare il popolo, qualora non obbedissero. Tristan. Calch. Hist. Patr., lib. VI, p. 132.
[193] Dodici scudi.
[194] Rer. Italic. Scriptor., tom. IV, p. 26.
[195] Giulini, tom. IV.
[196] Oh Milanesi insensati! Chi vi ha affascinati? Ieri acclamaste il primato di una sola sede; oggi confondete lo stato di tutta la Chiesa; veramente mostrate di avere a schifo una pulce, ed un cammello inghiottite. Forse queste cose meglio non disporrebbe il vescovo vostro? Voi direte per avventura: veneranda è Roma nell'apostolo. Lo è diffatto; ma non è da disprezzarsi Milano in Ambrogio. Che sì che queste cose non sono scritte senza motivo nei Romani Annali, perciocché dirassi in avvenire Milano assoggettata a Roma.
[197] Giulini, tom. IV, p. 40.
[198] Ecco il vostro metropolitano, fuor dell'usato, viene in Roma chiamato al sinodo.
[199] Giulini, tom. IV, p. 54.
[200] Giulini, tom. IV, p. 47.
[201] Il che fatto si dice con grandissima arte ed astuzia dal monaco Ildebrando, il quale, oriundo di Soana, città dell'Etruria, alla prontezza dell'ingegno riunita aveva non mediocre erudizione delle sacre lettere; e tosto, per il suo gran merito, fu ammesso nell'ordine de' cardinali, e più di tutti distinguendosi per il vigore dell'animo, facilmente ottenne il primo luogo tra i sacerdoti. Tristan. Calch. Hist. Patr., lib. VI, p. 130.
[202] A tutti i Milanesi, al clero ed al popolo.
[203] Speriamo poi in quello che degnossi di nascere da una vergine, che nel tempo del nostro ministero sarà esaltata la castità santa de' cherici, e confusa la lussuria degli incontinenti con tutte le altre eresie.
[204] Come però piacque all'Altissimo, scrutatore delle reni e dei cuori, quello che lungo tempo meditato aveva su l'altrui lassitudine ed inopia, si dolse della sua propria infermità; e, dopo di avere per due anni languito per vizio del polmone, l'uso perdette della voce, affinché di quell'organo appunto mancasse, col quale molti molestati aveva, dicendo la Scrittura che nelle parti colle quali alcuno pecca, in quelle viene tormentato. Ma di lui si taccia, affinché non sembri che i morti vogliamo accusare. Arnulph., lib. 3, cap. 14.
[205] A Landolfo, cherico e di stirpe senatoria, e cospicuo per lo splendore della perizia nelle lettere.
[206] Puricelli, De Sanctis Arialdo et Herlembaldo, lib. IV, cap. 15.
[207] Voi però, dilettissimi, membra mie, viscere dell'anima mia. Giulini, tom. IV, p. 69.
[208] Giulini, tom. IV, p. 79.
[209] Tom. IV, p. 80.
[210] Vano dice essere quel rito, non comunicato per alcuna istituzione di Cristo o dei discepoli; usurpato soltanto dagli antichi adoratori degli idoli; i quali nella primavera girare solevano i carapi in onore di Bacco e di Cerere.
[211] Tristan. Calch. Hist., Patr., lib. VI, p. 133.
[212] Giulini, tom. IV, p. 89.
[213] Giulini, tom. IV, p. 91.
[214] Frequentissime legazioni.
[215] Munite dei sigilli apostolici.
[216] Lib. 3, cap. 15.
[217] Giulini, tom. IV, p. 97.
[218] Giulini, tom. IV, p. 131.
[219] Giulini, tom. IV, p. 140.
[220] Erlembaldo, recando in mezzo certo Attone, mostrandosi esso consenziente, innanzi a tutto il popolo adunato, colla sua bocca illecitamente lo elesse. Questo vedendo la turba de' maggiori e de' minori, tanto del partito suo, quanto di quello degli avversari, che nuovamente giurata aveva fedeltà all'imperatore, pigliate le armi, ed attaccata grande mischia, Attone, recentemente eletto, con molte ferite e giuramenti costrinse a ricusare irrevocabilmente l'arcivescovado.
[221] Tom. IV, p. 160.
[222] Giulini, tom. IV, p. 189.
[223] Giulini, tom. IV, p. 192.
[224] Lib. I, cap. 10.
[225] Nell'ora medesima dopo questo insigne trofeo, tutti i cittadini trionfali inni fanno risuonare ad onore di Dio e del loro protettore Ambrogio, armati recandosi alla di lui chiesa. Il dì seguente, insieme col clero, i laici nelle litanie e nelle divine lodi portandosi di nuovo a sant'Ambrogio, confessano a vicenda i loro passati falli, ed essendo l'assoluzione accordata loro dai sacerdoti, che pronti erano, il popolo tutto torna in pace alle proprie case. In questo si vede il termine di quello scisma, che per dicianove anni sempre dalla stessa radice continuò a pullulare.
[226] Giulini, tom. IV, p. 197.
[227] Muratori, Anedoct., tom. I, p. 246.
[228] Giulini, tom. IV, p. 254.
[229] Al reverendissimo e santissimo confratello.
[230] Sembra al nostro discernimento, che, secondo il tenore del nostro comandamento,... tu faccia. Ivon., part. VI, cap. 405.
[231] Giulini, tom. IV, p. 388.
[232] Come leggiamo essere stato dai santi padri stabilito, esecriamo l'eresia simoniaca nelle sacre ordinazioni e nei benefizi ecclesiastici, ed in ogni modo vogliamo radicalmente dalla Chiesa estirparla.
[233] Stabiliamo ancora a norma delle istituzioni dei santi Padri e della forma della Chiesa primitiva, che ad alcuno dei cherici non è lecito il possedere benefizi delle chiese, se, dopo di avere rinunziato tutto il proprio, non vuole farsi discepolo di quello alla di cui sorte sembra essere eletto. Se però alcuno vuole rimanere di fuori, non gli togliamo il chericato, solamente gli vietiamo il godere benefizi ecclesiastici.
[234] E perché alcuni nella santa Chiesa, tanto cherici, quanto laici, per successione paterna... l'arcidiaconato, o l'arcipresbiterato o il cimiliarcato, o anche qualche parte dei benefizi spettanti agli uffizi delle chiese, finora si sono sforzati di possedere: in questa sacra adunanza è stato fissato e definito ad universale notizia che, se alcuno mosso da questa nefanda cupidigia, tentasse ulteriormente di possedere una chiesa e presumesse di ottenere per eredità il santuario di Dio, secondo la voce profetica, soggiaccia al vincolo dell'anatema, fin tanto che ravveduto non si mostri.
[235] Paghi ogni anno nel mio annuale ai canonici e decumani e custodi della stessa Chiesa che non abbiano moglie, e che all'annuale intervengano, per ciascun canonico quattro denari, due ai custodi e decumani.
[236] Se però alcuno di que' canonici fosse infermo, anche non intervenendo egli a questi annuali, voglio che abbia questa benedizione, e se alcuno fosse ammogliato, voglio che sia privato di questa benedizione.
[237] Quest'asserzione è contraria a quella del conte Giulini, il quale sul testimonio d'una moneta pubblicata dal Muratori, in cui v'è il nome solo Mediolanum, e dall'altra sant'Ambrogio, che l'incisore ha rappresentato a testa nuda senza la mitra, ha argomentato che appunto verso la metà del secolo duodecimo, essendosi inventato l'ornamento vescovile della mitra, la moneta dovesse essere anteriore a quell'epoca. Se quel dotto cavaliere (che cessò di vivere il giorno 26 dicembre 1780, giorno in cui perdemmo il benemerito nostro cronista, ed io in particolare un amico) riconoscesse ora la moneta che conservo presso di me, vedrebbe l'inesattezza di quell'incisore, poiché ella è posteriore all’introduzione della mitra, che realmente è scolpita sul capo del santo arcivescovo.
[238] Tealdo, detto arcivescovo milanese, e Guiberto ravennate, i quali con inudita eresia e superbia si sono levati contra questa santa chiesa cattolica, sospendiamo totalmente dall'ufficio episcopale e sacerdotale, e sopra di essi rinnoviamo l'anatema già pronunciato. Giulini, tom. IV, p. 226.
[239] Giulini, tom. IV, p. 423
[240] Sia fatto, sia fatto.
[241] Giulini, tom. V, p. 260.
[242] Giulini, tom. V, p. 485.
[243] Giulini, tom. V, p. 403.
[244] I Pavesi e i Milanesi stabilirono e giurarono tra di loro patti i quali ad alcuni sembrano essere stati troppo contrari alla maestà imperatoria ed all'autorità apostolica; avendo que' cittadini giurato tra di essi di conservare le persone loro e i loro beni contra qualunque mortale nato o nascituro.
[245] Anselmo di Buis, arcivescovo milanese, quasi ammonito per autorità apostolica, studiossi di radunare dalle diverse parti un esercito, col quale si impadronisse del regno babilonico, e con questo avvisamento prevenne la scelta gioventù milanese, perché le croci assumesse e cantasse la canzone di Ultreja, ultreja. E alla voce di quest'uomo prudente, uomini di qualunque condizione per le città de' Longobardi, per le ville e per le castella, pigliarono le croci e cantarono quella canzone di Ultreja, ultreja. Landulph. Jun., cap. 2.
[246] Giulini, tom. IV, p. 430.
[247] Contra
[248] Alla voce di quest'uomo prudente.
[249] Rer. Italie. Script.,
tom. V, p. 476.
[250] Tu pure, col naso e le orecchie tronche per il nome di Cristo, sei più lodevole, giacché hai meritato di giugnere a quella grazia che da tutti dee desiderarsi, e colla quale, perseverando sino all'estremo, dai santi non differisci. Sminuita è veramente la integrità del tuo corpo ma l'uomo interno che di giorno in giorno si rinnova, ha ricevuto grande incremento di santità; più brutta è la forma visibile, ma più bella è divenuta l'immagine di Dio, che è la forma della giustizia. Laonde nella Cantica dei Cantici la Chiesa si gloria col dire: nera sono, o figliuole di Gerusalemme.
[251] Martire di Cristo. Landulph. Junior, cap. 6.
[252] Per donativo ricevuto dalla mano, per donativo ricevuto dalla lingua, per donativo ricevuto dall'ossequio. Landulph. Junior., cap. 9.
[253] La turba di Grossolano, battagliando contra il primicerio, con un sasso uccise Landolfo, cherico dello stesso primicerio. Landulph. Junior., cap. 10,
[254] Avanti l'introito della messa confessava di soffrire sete ardentissima, e bevette una coppa piena di vino forastiero, e dopo di questo partecipò alla mensa celeste. Agnelli, De sancto Georgio.
[255] Questo Grossolano, che trovasi sotto questa cappa e non dico già d'altri, è simoniaco per riguardo all'arcivescovado di Milano. Landulph. Jun., cap. 10.
[256] Va indietro, o Satana.
[257] Dio, fammi salvo nel tuo nome, e liberami colla tua virtù.
[258] La presenza dei vescovi suffraganei non accordò pieno favore a quella legge e a quel trionfo. Landulph. Jun., cap. II.
[259] La moltitudine, trista per il caso avvenuto e per la ruina di Grossolano, di là a pochi giorni, con iscandalo, portossi contra quel prete e contra la di lui legge.
[260] Un angelo mi si fece all'incontro dicendo: il prete Liprando, di ritorno dalla Valtellina, giace infermo nel monastero di Civate. Landulph. Jun., cap. 14.
[261] Giulini, tomo IV, p. 519.
[262] Giulini, tom. IV, p. 515.
[263] Molti d'oro e d'argento eletti vasi,
Con moneta copiosa, ogni cittade
Ad esso offrì: sol gli negò servigio,
Né di rame gli diè pur un baiocco
La popolosa e nobile Milano.
Rerum Ita1icar. Script., tom. V, p. 378.
[264] Però Ottone Visconti, milanese, con molti combattenti per lo stesso re, in quella strage cadde con morte che dolorosissima riuscì a coloro che la città milanese e quella chiesa amavano. Landulph. Junior., cap. 18.
[265] Gerusalemme liberata, canto I, stanza 53.
[266] I Milanesi ancora, mentre questo imperatore per la via di Verona incamminavasi nella Germania, colla spada e col fuoco e con diversi strumenti, dai fondamenti distrussero Lodi, seconda città della Lombardia. Landulph. Junior., cap. 18.
[267] Tom. I, part. 2, p. 235.
[268] Il giorno settimo delle calende di giugno dell'anno MCXI fu la città di Lodi presa dai Milanesi.
[269] Nell'anno MCXI il giorno settimo avanti le calende di giugno fu distrutta la città di Lodi e giacque per anni XLVIII.
[270] Ben a ragione il prudente lettore avrebbe desiderato maggiori notizie intorno alla distruzione di Lodi; ma è duopo che con meco passi oltre, giacché, sebbene io abbia fatte diligenti ricerche, alle mie mani non giunsero informazioni più copiose. Egli è certo però che dure leggi e servitù disdorosa furono ai vinti imposte; ed atterrati tutti gli altri edifizi e le mura della città, appena lasciati furono ai miseri cittadini per loro abitazione quartieri simili a quelli delle campagne e tuguri dei poveri; e fu reputato grandissimo vantaggio che i vincitori lasciassero un quartiere detto Piacentino, nel quale ogni otto dì si continuasse il solito mercato; ma lecito non era il fare alcuna vendita, né il contrarre matrimonio, né l'uscire in pubblico dopo il tramontare del sole, né l'uscire da certi confini, senza avere riportato l'assenso del magistrato milanese; se alcuni tenuto avessero appena qualche discorso segreto, sospetti tosto di nuove trame, puniti erano con una multa in danaro, o percossi con bastonate; per le quali calamità sdegnati moltissimi, vollero piuttosto recarsi in diversi luoghi in esilio, ed in perpetuo vivere lontani dai patrii confini. Tristan. Calch. Mediol. Histor. Patr., lib. 7, p. 149.
[271] Giulini, tom. V, p. 355.
[272] Ai consoli, ai capitani, a tutta la milizia e a tutto il popolo milanese. - Inclita città di Dio, conserva la libertà, affinché tu ritenga del pari la dignità del tuo nome, poiché fintanto che ti sforzerai di resistere alle potenze nemiche della Chiesa, godrai dell'aiuto di Cristo Signore, autore della vera libertà. Martene, Collect. Veter. Scriptor. et monument. Tom I, p. 640.
[273] Gli ordinari adunque, e i sacerdoti decumani, e tutti
gli altri che
[274] Il papa ebbe a sua disposizione un messaggiero tanto idoneo a queste faccende, quanto lo fu Bernardo, abate di Chiaravalle.
[275] Veramente, ad insinuazione di questo abate, tutti gli ornamenti ecclesiastici, in oro, in argento, in vesti che nella chiesa della città stessa vedevansi quasi da quell'abate guardati con disprezzo, chiusi furono negli scrigni. Landulph. Junior., cap. 42.
[276] Io domani monterò sul mio palafreno, e s'egli mi porterà fuori delle vostre mura, non sarò per voi quello che voi chiedete; e in questo modo da Milano partì. Landulph. Junior., cap. 42.
[277] Andando per la città, fecero a favor loro copiosa raccolta d'oro, d'argento e di molt'altre cose.
[278] Preso mandollo a Roma, e colà, come suona la fama, quell'Anselmo, nello stesso mese, finì di vivere nelle mani di Pietro Latro, ch'era il procuratore di Innocenzo.
[279] Giulini, tom. V, p. 338.
[280] Nella prima portata, polli freddi. gambe cotte col
vino, e carne porcina fredda; nella seconda, polli ripieni, carne vaccina
condita col pepe, e una piccola torta del laveggiuolo; nella terza, polli
arrostiti, lombetti col panico, (o con pane gratuggiato), e
salami (a).
(a) Sembrerà alquanto ardita questa traduzione, giacché né il Giulini, né il Verri non attentaronsi ad indicare cosa fossero queste vivande. Io dubitai fin da principio che si dovesse leggere cambar de vino, che si è scritto talvolta in luogo di caneas, come che dicesse canevette, o botticelli. Ma osservo che si parla esclusivamente di cibi, e le parole gambas e gambonos si trovano frequenti nelle nostre carte antiche, indicanti quella parte che la gamba propriamente detta congiunge al piede. La piperata io interpreto condimento col pepe, appoggiato agli antichi scrittori, anziché vaso da conservare il pepe, come fa il Du Cange. Egli sotto il nome di panitium intende il panico; io amo meglio in questo luogo il pane gratuggiato. Hannovi poi molte ragioni per credere che i nostri padri porcellos plenos nominassero i salami. [Nota del Custodi].
[281] Tom. V, p. 473.
[282] Sponsali di futuro.
[283] Se per titolo degli sponsali dato fosse anello, o corona o cingolo o altra simile cosa, o vestito o manto o zendado, non seguendo il matrimonio, la metà si restituisce, se nel frattempo è stato dato un bacio.
[284] "Al re degli Angli, di Salerno tutta
Scrive la scuola", ecc. Argellat. Bibl. Script. Med., num. 916.
[285] Venga in potere dell'abate dello stesso monastero di sant'Ambrogio, che ne' tempi avvenire in perpetuo sarà ordinato nello stesso santo monastero... una cappella... che io ho di nuovo edifìcata... in onore di san Michele e di san Pietro, consacrata dal signor Ariberto arcivescovo. Giulini, tom. III, p. 216.
[286] L'edizione di cui mi
servo è quella di
[287] Pag. 186.
[288] Per di lui comando, e parimente per insinuazione del divo Federico imperatore. Pag. 260.
[289] Murena, in Rer. Italic. Script., tom. VI, p. 957.
[290] Tra le altre città di quel popolo stesso ora tiene il primato... non solo per la sua grandezza e per l'abbondanza di uomini forti, ma ancora per ciò che due città vicine, poste nel territorio medesimo, cioè Como e Lodi, ha aggiunte al suo dominio. Otto Frisingens, De Gestis Federici, lib. 2, cap. II.
[291] Distrutta Tortona, i Pavesi, affinché glorioso trionfo ci apprestassero dopo la vittoria, alla città ci invitarono.
[292] I consoli ed il popolo
milanese ai consoli tortonesi e a tutto il popolo salute. - Crediamo, essere
noto a tutto il romano imperio, che la vostra città, la quale del
rimanente con piena confidenza nostra appelleremo, contra il diritto e
spietatamente quasi del tutto con ingiustizia distrutta, da noi audacemente e
con virile animo è stata ristorata, e col sudore vicendevole di tutti i
nostri, circondata di mura nuovamente costrutte. Tre insegne cittadinesche
adunque a voi mandiamo a perenne memoria della cosa. Una tromba cioè di
bronzo, colla quale il popolo sia convocato ad assemblea, il che significa
l'incremento della vostra popolazione. Un vessillo bianco colla croce del
Signor nostro Gesù Cristo, distinta nel mezzo con colore rosso, il che
significa che dalle mani dei nemici, dopo molte e grande angosce, voi siete
stati liberati; e in questo abbiamo voluto che rappresentati fossero il sole e
[293] Muratori, Dissert. Med. Æv., dissert. II, tom. II.
[294] Lib. 1, cap. 33.
[295] I Milanesi però, siccome uomini amanti delle guerre e valorosi, la città loro di grandi fossi circondarono, e all'imperatore audacemente e con animo virile vollero resistere.
[296] Anonimi Chronicum
Bohemicum, nella raccolta Scriptores Rerum Germanicarum del
Menckenio, tom. III, col. 1707, Radevic., lib. I, cap. 25. - Vincentii
canonici Pragensis Chronicon, in tomo I. Monum. Hist. Boemiae, a P. Gelasio Dobner, edita Pragae
penes Clauser, 1764, p.
551.
[297] Radevic., lib, I, cap. 32.
[298] Monumenta Historica Bohemiae a P. Gelasio Dobner edita Praga, 1754, p. 57.
[299] Stavano armati sulle mura, senza fare alcuno strepito, e dubitossi, se il veder giugnere il principe a tutti avesse insinuato quel rispetto e la disciplina di quel silenzio, o pure incusso timore.
[300] Divise essendo, come già si è detto, tra i comandanti dell'esercito le porte della città, ciascuno di essi si diede a gara ad affrettare i preparativi ed a munire il campo con pertiche, pali ed altri mezzi di difesa, onde prevenire le improvvise scorrerie de' nemici. Né già credevansi che una città così grande potesse essere assalita con vigne, torri, arieti e macchine guerresche di altro genere. Ma temevano piuttosto, che, stanchi per lungo assedio, costretti fossero ad arrendersi, o pure di essere superati, se, fidandosi pel loro numero, fatta avessero qualche sortita. Radevic., lib. I, cap. 34.
[301] Intanto i soldati di Milano uscivano dalla città, e agli scudieri dell'esercito toglievano i cavalli, e tanti ne acquistarono, che un cavallo vendevasi per quattro soldi di terzuoli.
[302] Aperte le porte ed usciti cogli uomini più valorosi, sgominate le guardie, scorrono fino ai campi degli eroi suddetti, combattono, feriscono. Gli Alemanni, allorché si avvidero che i nemici giugnevano, colpiti all'istante da quel movimento inopinato ed improvviso, l'uno dopo l'altro cominciarono a tremare ed a tumultuare; poscia l'un l'altro chiamavansi a vicenda, si esortavano: pigliavano le armi, ricevevano gli assalitoti, respingevano i più arditi: udivansi grida mescolate con esortazioni, strepito d'armi ecc.
[303] Radevic., lib. I, cap.
34.
[304] Tom. I, p. 56.
[305] Verso l'ora del vespro... si attacca battaglia dall'una e dall'altra parte; si uccidono fortissimi guerrieri, né questi né quelli vincono. Vedendo però il suddetto principe che da sé solo sostenersi non poteva, molti avvisi manda al re di Boemia, richiedendolo di soccorso colla sua milizia.
[306] I Milanesi, per la libertà pugnando, valorosissimamente resistono agli avversari loro; dall'una e dall'altra parte cadono fortissimi soldati. Dura la battaglia dall'ora del vespro sino al crepuscolo. I Milanesi finalmente, essendo moltissimi di essi perduti o presi, resistere non potendo all'urto de' Boemi, entro le mura si ritraggono, ed i Boemi vincitori, uccidendoli, gli inseguono sino alle porte medesime. Intanto la notte mette fine alla pugna.
[307] I Milanesi veramente, i macchinamenti de' nostri prevedendo, ignominioso reputavano, se, pari essendo o anche maggiori di numero, con minore coraggio agli assalitori si opponessero. Radev., lib. I, cap. 36.
[308] Lib. I, cap. 31.
[309] Ma dubitossi se dal timore o dal rispetto dell'imperatore trattenuti fossero dal non far scorrerie né pure alla porta, ove la milizia del principe piantato aveva l'assedio. Radev. lib. I, cap. 38.
[310] Lib. I, cap. 40.
[311] Il fetore de' cadaveri dall'una e dall'altra parte intollerabilmente molestava gli eserciti, cosicché moltissimi già affetti erano da gravissime infermità. Monumen. Hist. Bohemiae a P. Gelasio Dobner collecta, tomo I, p. 59.
[312] Autore di questa trattativa si disse Guido conte di Biandrate, uomo prudente, buon parlatore ed atto a persuadere. Essendo questi cittadino naturale in Milano, in quella occasione erasi condotto con tale prudenza e moderazione, che al tempo stesso, cosa in quel cimento difficilissima, e caro riuscì alla corte, e non generò alcun sospetto ne' cittadini suoi. Radevic., lib. I, cap. 40.
[313] Giulini, tom. VI, p. 151.
[314] Giulini, tom. VI, p. 70.
[315] Vicende di Milano, p. 93.
[316] Goldast., Statut. et Rescript. Imperialia, p. 55. - et Radevic., lib. I, cap. 41, p. 286. Edit. Basileae. 1569.
[317] Maravigliarsi egli della prudenza dei Latini, i quali, gloriandosi principalmente della scienza delle leggi, trovavansi poi in gravissima trasgressione della legge; e mentre tenacissimi seguaci si vantavano della giustizia, i tanti affamati e sitibondi l'ingiustizia loro evidentemente mostravano.
[318] I Milanesi chiama a consiglio, e ad essi chiede come fedeli mantenere si debba le città dell'Italia; i quali gli danno il consiglio che suoi podestà, per mezzo de' suoi nunzi, costituisca coloro che nelle città d'Italia riconosce ad esso fedeli... Il quale consiglio l'imperatore lodando, fino a tempo opportuno, chiuso nel suo cuore lo mantenne.
[319] Rispondono, non potere essi farlo in alcun modo; promettevano tuttavia di fare interamente tutto quello che contenevasi nel privilegio dell'imperatore, che io Vincenzo scritto aveva per parte dell'imperatore e del re di Boemia.
[320] Cioè che essi medesimi eleggessero i consoli che volessero, ed eletti li presentassero all'imperatore, o al di lui nunzio, affinché giurassero all'imperatore stesso fedeltà. All'opposto i nunzi dell'imperatore rispondono, avere essi dato in Roncaglia all'imperatore il consiglio che, per mezzo de' suoi nunzi, nelle città della Lombardia stabilisca i podestà; onde anch'essi facciano uso di questo avvisamento.
[321] Veggasi il citato Dobner, tom. I, pp. 61 e 62.
[322] Nelle loro sortite tentarono o d'incendiare le macchine, o di distruggere le torri, o di ferire mortalmente alcuni dei nostri; né fuvvi alcun genere di audacia o di ostinazione che essi, ignari delle cose future, ommettessero; e mentre già abbattuta reputavasi la loro superbia, tumidi gloriavansi delle commesse sceleratezze. Radevic., lib. 2, cap. 45.
[323] Comanda adunque che vendetta si faccia dei loro prigionieri, e ordina che appiccati siano alle mura.
[324] Il popolo però, contumace, troppo ansioso di rendere la pariglia, trasse esso pure in egual modo al supplizio alcuni dei nostri, che prigionieri trovavansi.
[325] Ordina che si conducano gli ostaggi loro al numero di quaranta, affinché sieno appiccati.
[326] Allora intanto conduconsi prigionieri sei militi tra i nobili milanesi, i quali erano stati trovati in luogo, ove coi Piacentini perfidi ragionamenti tenevano... Perciocché, come sopra si è detto, anche allora Piacenza al principe aderiva con finta devozione e simulata obbedienza... Questi adunque... ordina che condotti sieno al supplizio, e lo stesso fine ebbero essi della vita, che già toccato era ai primi. Radevic., lib. 2, cap. 46.
[327] Per impulso del serenissimo imperatore Federico. Lib. 2, p. 260.
[328] E già a ruina della città moltissime macchine si appressavano, e già le torri elevate ad altissima mole cominciavano ad attaccarsi. Coloro allora con grandissima forza e pertinacia si diedero a resistere e ad allontanare le torri dalle mura, e coi loro strumenti e con validi colpi di pietre, a sconcertare le macchine nostre. Credendo però il principe di potere domare i feroci loro animi, ordinò che ai loro guerreschi ordigni, (che ora nominati sono mangani, e che al numero di nove nella città trovavansi), si opponessero i loro ostaggi medesimi, alle macchine nostre legati. I sediziosi, cosa incognita presso i barbari, e cosa orrenda a dirsi, e che a udirsi sembrerà incredibile, le torri con colpi non meno frequenti percuotevano; né punto li commoveva la compassione del sangue e dell'età, né la comunanza dei vincoli naturali. E in questo modo alcuni fanciulli, colpiti dalle pietre, miseramente perirono. Altri, più miseramente ancora vivi rimanendo, pendenti attendevano quella crudelissima strage e l'orrore di asprissima calamità. Oh sceleratezza! Lib. 2, cap. 47.
[329] Usciti essendo dallo stesso castello circa ventimila uomini di diverse condizioni, fu quello dato alle fiamme, e ne fu permesso al soldati il saccheggio. Lib. II, cap. 42.
[330] Pag. 327.
[331] Federigo, per
[332] Vicende di Milano con Federico I, imperatore, pag. 55.
[333] Per ciascuna parrocchia della città elette furono due persone, e tre di queste da ciascuna porta, delle quali una io fui, affinché, secondo l'arbitrio loro si vendessero le vettovaglie e il vino e le mercatanzie, e il danaro si desse a prestito, il che ridondò a ruina della città.
[334] Hist. Rer. Laudens. Rer. Italic. Script., tom. XI, col. 1094.
[335] Tutti afflitti erano dalla fame e dall'inopia; il marito, snudando la spada, assaliva la moglie, il suocero la nuora, il fratello l'altro fratello, il padre il figliuolo, perché frodati dicevansi del pane, e dappertutto udivansi discordie domestiche e private contese. Trist. Calch. Hist. Patr., lib. 10, p. 209.
[336] Appianiamo le fosse, dirocchiamo le mura, distruggiamo tutte le torri, e tutta la città traggiamo a ruina ed a desolazione. In Dacherii Spicil., tom. V - Pagi, Crit. Baron. ad annum 1162, num. 26.
[337] Poscia le mura della città e le fosse e le torri furono a poco a poco distrutte, e così tutta la città di giorno in giorno venne sempre ridotta a ruina e a desolazione.
[338] Il popolo viene espulso dalla città: il muro tutto all'intorno atterrato: gli edifizi sono spianati al suolo, eccettuati i templi dei santi. Pistor. Nidan., Rer. German. Script., Ratisponae, 1731, tom. I, pag. 678.
[339] I Milanesi, spinti dall'assedio, dalla fame, dall'inopia, dalla discordia, per mezzo di ambasciatori chieggono dall'imperatore misericordia... l'imperatore, che proposto erasi di farti perire con diversi supplizi, a terrore degli altri, accordando loro la vita e concedendo che seco portassero quanto potevano delle cose necessarie, li disperse nelle province in modo che facoltà non avessero di rientrare nella città; quindi comandò che i suoi soldati nella città entrassero, e si distruggessero le mura, le torri, gli alti e superbi palazzi, e tutti gli edifizi.
Nella stessa raccolta del Pistorio, tom. I, p. 914.
[340] I Milanesi, stretti già da quattro anni d'assedio dal re e dall'esercito italico e teutonico, dopo molte illustri imprese di militare audacia, finalmente, attediati dalle calamità e dall'inedia, piuttosto che vinti dalla forza delle armi, supplichevoli stendono le mani all'imperatore, sé stessi e tutte le cose loro cedendo al regio potere. Ricevuti adunque alla dedizione gli ottimati e il popolo, il re, colle aquile vincitrici e con grande concorso di popolo, entrò verso la domenica delle Palme, e, conceduto avendo ai cittadini la vita e il possedimento di tutte le loro suppellettili, per di lui ordine si spianano le fortificazioni, le mura, le torri e qualunque luogo munito; gli altri edifizi, eccettuata la chiesa matrice e le altre chiese, vengono dalla vorace fiamma consunti, e quella città opulentissima... si spiana sino al suolo
[341] I Milanesi, dopo l'eccidio della loro città, in vigore di editto imperiale, quattro borghi nei quattro diversi punti fabbricarono. Manckenius, Scriptores Rer. Germanicar., Lipsiae, 1730, tomo III, columnis 220 e 222.
[342] Le mura della città abbatte e tutto spiana al suolo. Nella citata raccolta del Menckenio, allo stesso volume, colonna 1708.
[343] I Milanesi però,
non potendo resistere ad impeto così grande, stanchi dalle frequenti
devastazioni, dalla fame, dalla sete, da diverse perdite, dai tormenti e dalle
uccisioni dei fratelli e degli amici loro, cagionate dai principi tanto della
Lombardia, quanto della Teutonia, cercano il modo di trovare grazia presso
l’imperatore: ad essi così si risponde dai principi: che in alcuna guisa
non potranno ottenere la grazia dal signor imperatore, se dapprima non abbiano
nelle mani dello stesso signor imperatore consegnata Milano. E per consiglio
dei fedeli suoi vengono alla città di Lodi, e, sedendo l'imperatore sul
suo tribunale coi suoi principi, portando innanzi ad esso le chiavi di tutte le
porte milanesi, alla presenza di esso e di tanti principi, co' piedi nudi si
prostrano a terra. Per comando dell'imperatore sono avvertiti di levarsi in
piedi; e tra essi Aluchero di Vimercate così comincia a parlare:
Peccammo, ingiustamente facemmo, perciocché contra l'imperatore de' Romani,
signore nostro, movemmo le armi; riconosciamo il nostro fallo, chiediamo
perdono; il collo nostro assoggettiamo alla vostra imperiale maestà; le
chiavi della città nostra, città antica, alla imperiale
maestà offriamo, e adorando le pedate vostre, con umile e supplichevole
preghiera chiediamo che abbiate pietà di città così
grande, di antichissima opera dei passati imperatori, per amore di Dio, di sant'Ambrogio
e di que' santi che dentro vi riposano, e che l'imperiale pietà si degni
di accordare pace ai sudditi soggiogati. L'imperatore, udite avendo queste
preghiere, le chiavi delle porte dei Milanesi riceve, e così ad essi
risponde: Che siccome noto si rendette per le quattro parti del mondo, che
contra il signor imperatore, padrone della terra, presunsero essi di muovere le
armi, così per le quattro parti del mondo nota debb'essere la loro pena.
Per le quattro parti intorno a Milano, all'Oriente, all'Occidente, all'Aquilone
ed all'Austro, ognuno porti, ovunque vuole, il suo danaro: la città di
Milano si renda in potere dell'imperatore. Questo udendo, i Milanesí si
arrendono al volere suo, e, benché a malgrado loro, obbediscono al di lui
comando. I loro domicilii stabiliscono nelle quattro parti predette,
all'Oriente, all'Occidente, all'Aquilone ed all'Austro; Milano cedono al potere
del signor imperatore. L'imperatore, riunita avendo la milizia dei Teutonici,
dei Pavesi, dei Cremonesi e degli altri Longobardi, siede in Milano sul suo
tribunale, e chiede consiglio di quello che si debba di così grande
città. Al che si risponde dai Pavesi, dai Cremonesi, dai Lodigiani, dai
Comaschi e dalle altre città: Il calice gustino pur essi che diedero a
bere alle altre città. Distrussero Lodi e Como, città imperiali;
si distrugga ancora
[344] Vicende di Milano con Federico I, pp. 100, 104 e 106.
[345] Avanti la porta di San Giorgio in Noxeda. Giulini, tom. VI, p. 317.
[346] Non rimase la cinquantesima parte di Milano, che distrutta non fosse. Hist. Rer. Laudens., Rer. Italic. Script., tom. VI, colum. 1105.
[347] Da prima incendiò tutte le case; poscia anche le case medesime distrusse. Sire Raul, De gestis Federicis, in Rer. Italic. Scriptor., tom. VI, colum. 1187.
[348] Giulini, tom. VI, p. 264.
[349] Giulini, tom. VI, p. 230.
[350] Il pianto e il lutto degli uomini e delle donne, e principalmente degli uomini infermi e delle femmine sopraparto, e dei fanciulli che uscivano, e i propri lari abbandonavano. Rer. Italic. Script., tom. VI, colum. 1187.
[351] Giulini, tom. VI, p. 233.
[352] Dopo la distruzione di Milano. Giulini, tom. VI, p. 292. - Vicende di Milano, p. 80.
[353] Giulini, tom. VI, pp. 307, 309 e 328.
[354] Affinché non fossero dai fondamenti rovesciate, come Milano, che era stata il fiore dell'Italia, se ribelli all'imperatore si facessero.
[355] Vicende di Milano, p. 97. - Giulini, tom. VI, p. 338.
[356] Federico imperatore, con un esercito quasi innumerabile di Alemanni, assediò Milano. Nidan. Pistor., Rer. Germanicar. Script., tom. 2, p. 551.
[357] I Milanesi
spontaneamente fecero dedizione di se stessi e delle cose loro all'imperatore,
il quale, senza alcuna clemenza, Milano distrusse. Rer. Boicarum Scriptores, collegit Andreas
Felix Oefelius,
tom. II, p. 334.
[358] Giulini, tom. VI, p. 339.
[359] Oh quanto clamore, quanto timore, quanto lutto per quattro settimane si mantenne nei borghi, specialmente nel borgo di Noxeda e di Vigentino! Alcuno non vi aveva che osasse coricarsi nel letto. Perciocché ogni giorno dicevasi: ecco i Pavesi che vengono ad incendiare i borghi! Rer. Italic. Script., tom. VI, columnia 1191
[360] Tom. VI, p. 395 e sgg.
[361] Formaronsi insieme in un solo corpo.
[362] Giulini, tom. VI, p. 456.
[363] Vi abitava una turba di ladroncelli, di rapitori, di servi fuggitivi dai loro padroni. Rer. Germ. Script. ex Biblioth. Marquardi Freheri excerpti a Gotthellffio Struvio, tom. I, p. 342. Edit. Tertia, Argentorati.
[364]Con grande costanza da ciascuna parte spignevansi le cose della guerra; alcuni talvolta di questi o di quelli erano fatti prigioni, altri uccisi ed anche impiccati. L'imperatore però certa cosa fece degna di lode. Perciocché condotti essendo al di lui cospetto tre dei prigionieri, comandò che loro fossero cavati gli occhi. Accecati i due primi, al terzo, degli altri più giovane, domandò, perché ribelle egli fosse all'Imperio; ma quello disse: non contra di te, o Cesare, né contra il tuo Imperio io oprai; ma un padrone avendo nella città, obbedii ai di lui comandamenti, e con fedeltà lo servii; che se egli teco contra i suoi cittadini pugnare volesse, ancora lo servirei con eguale fedeltà. Dalle quali parole allettato l'imperatore, accordata avendo ad esso la conservazione degli occhi, comandò che i suoi compagni accecati nella città riconducesse. Struvius, loc. cit.
[365] Cosa degna di lode.
[366] Cinsero d'assedio Alessandria, città che viene detta fortissima, non per il giro delle mura, ma per la situazione del luogo, e con un campo fortificato grande oltre credenza, nel quale un fiume vicino derivarono; trovaronsi ancora in essa uomini valorosi in gran numero, pronti a resistere con coraggio, cosicché l'imperatore non così presto, come voluto avrebbe, riuscì ad espugnare la piazza, ma con molta fatica e grande strage de' suoi, nell'intervallo ancora di alcuni anni. Dobner, Monumenta historica Bohemiae, tom. I, p. 86.
[367] All'imperatore Federico, ottenuta da esso la pace, tutto quello vogliamo fare che fecero già gli antecessori nostri dal tempo della morte del secondo Enrico imperatore, agli antecessori suoi, senza violenza né timore. Antiquit. Med. Æv., tom. IV, p. 277.
[368] I Lombardi sono nell'una e nell'altra milizia diligentemente istruiti; perciocché sono valorosi in guerra, e nell'arte di parlare al popolo maravigliosamente eruditi. Giulini, tom, VI. p. 483.
[369] Mantengono l'eleganza del latino parlare, e la urbanità dei costumi. Nella ordinazione ancora delle città e nella conservazione della repubblica imitatori sono altresì dell'accortezza degli antichi Romani. De Gestis Federici, lib. I, cap. 12.
[370] Giulini, tom. V, p. 110.
[371] Giulini, tom. II, p. 122.
[372] Liutprand. lib. V, cap 16.
[373] Giulini, tom. VI, p. 458.
[374] Dissert, Med. Æv., tom. II, p. 28.
[375] Per ciascun carro di legne un pezzo riceveva, uno per ciascuna sporta di pesci, uno per qualunque fornata di pane. Manipul. flor., cap. 146.
[376] Giulini, tom. II, p. 243.
[377] Giulini, tom. IV, p. 247.
[378] Dissert. Med. Æv., tom. IV, p. 277.
[379] Le quali, secondo il computo del conte Giulini, equivalgono a undicimila e duecento zecchini correnti, somma ben tenue, ripartita sopra venticinque città, quante componevano la lega, dappoiché vi si compresero Pavia e Como.
[380] Giulini, tom. VII, p. 6.
[381] Monum. Bas. Ambr., n. 587.
[382] Tutti i diritti regali che l'Imperio ha nell’arcivescovado milanese, o sia nei comitati del Seprio, della Martesana, della Bulgaria, di Recco, ecc.
[383] Giulini, tom. VII, pp. 20, 21 e 22.
[384] Nel termine che i consoli di Milano col Consiglio di credenza ci indicheranno.
[385] Concedette piena giurisdizione
[386] Tom. VII, p. 24.
[387] Più di centocinquanta cavalli carichi d’oro, d’argento, di sciamiti e di manti, e di pelli grigie e di vaio, e di altre cose preziose. Giulini, tom. VII, p. 32.
[388] Dissert. Med. Æv., tom. IV, p. 731.
[389] Sì grande timore tutti coloro che rimasti erano, invaso aveva, per la grandiosità delle sue gesta, che tutti ultroneamente accorrevano, e ciascuno coll'ossequio studiavasi di ottenere la grazia della sua familiarità. Perciocché dai legati di Verona può comprendersi, quanto timore agli Italiani incusso avesse la memoria dei di lui fatti. Otto Frising., lib. 2, cap. 27, p. 256. Edit. Basileae, 1569.
[390] Trascorrendo il territorio del vescovado che si chiama Uratislavia, passò nel vescovado posnaniense, e tutta quella terra egli pure devastò col ferro e col fuoco.
[391] Radevich., lib. I, cap.
3, p. 262.
[392] Duro è certamente che dipendere debba dall'altrui arbitrio l'animo di uno scrittore, siccome privo della facoltà d'istituire egli stesso un esame. P. 255.
[393] Mentre con essi trattavamo di comperarlo, ed essi ce lo ricusavano, il nobilissimo loro castello, cioè Rosate, che cinquecento soldati aveva, facemmo prendere ed incendiare... Poi tre loro castelli fortissimi, cioè Minima, Gailarda e Treca (Trecate) distruggemmo; e celebrato avendo con grandissima giocondità la natività del Signore... distruggemmo poscia Caira, villa grandissima e molto bene fortificata, e la città d'Asti con incendio devastammo... Di là siamo venuti a Spoleto, e perché ribelle era... la pigliammo colla forza, col ferro cioè e col fuoco, e riportate avendo spoglie infinite e molte altre consumate col fuoco, la rovesciammo dai fondamenti. De Gestis Friderici Primi, Caesaris Augusti, Basileae, 1559, p. 186.
[394] La città si abbandona al saccheggio, e pria che si potessero portar via le cose che giovar possono all'uso degli uomini, appiccatovi da alcuno il fuoco, si consuma. I cittadini che avean potuto sottrarsi al ferro ed alle fiamme, la vita soltanto conservando, nel vicino monte seminudi, si riducono... Nel dì seguente, perciocché dall'abbruciamento dei cadaveri l'aere tutto corrotto generava intollerabile fetore, trasferì l'esercito nei luoghi più vicini... finché le spoglie sopravanzate all'incendio ad uso servirono, non già de' miseri Spoletani ma dell'esercito. Otto Frising., lib. 2, cap. 23, p. 252.
[395] Chiunque di essi preso fosse, il supplizio doveva aspettarsi del patibolo che innanzi alla piazza vedevasi eretto. P. 244.
[396] La città da prima fu data al saccheggio, poi rovinata ed incendiata.
[397] P. 247
[398] Quasi tutti que' prigionieri che incatenati tenevansi, erano dell'ordine equestre. Essendo adunque i suddetti presentati al principe e condannati al supplizio delle forche, uno di essi disse: Ascolta, o nobilissimo imperatore, la condizione di un uomo sfortunatissimo. Io sono Gallo di nazione, non Lombardo, e sebbene povero, di stato cavaliere, libero di condizione, ecc. Questo solo il glorioso imperatore ordinò che fra tutti esente fosse dalla sentenza di morte; imponendogli questo solo per pena che, posto il laccio al collo di ciascuno, col supplizio delle forche i suoi compagni facesse perire. E così fu fatto.
[399] Affinché a tutti i passeggeri presentassero documento della loro temerità, sula strada medesima furono posti in mucchio, ed erano, come si narra, cinquecento. Otto Frising., lib. 2, cap. 25.
[400] Il re Federico, raccolta
avendo grande quantità di principi e di altri soldati, ed aggiunti al
suo seguito Enrico, duca di Sassonia, e Federico figliuolo del re
Corrado, ed altri principi, incamminossi con un corpo numeroso di truppe
a Roma dal
[401] Giulini, tom. VII, dalla p. 137, alla p. 147.
[402] Giulini, tom. VII, p. 144.
[403] Commesso fu ad Anselmo
di Terzago, che provvedere dovesse secondo il suo giudizio intorno al reggimento
della città, ed egli elesse due consoli che per un anno
[404] Ad alcuno non fosse interdetto l'uso de' suoi beni, se non giudicata la causa ed approvata dal comune, dal podestà di Milano, o dai rettori della comunità, siccome le leggi richieggono. Corio, p. 59, dell'edizione in foglio.
[405] Dico, comando e stabilisco che in perpetuo debba fermamente osservarsi.
[406] Non possiamo ancora dimenticarci che voi, pacificato essendo di già l'Imperio, che lungamente era stato turbato, ci dirigeste legati tanto discreti e tanto onesti, coi vostri donativi, che noi, come era convenevole, ricevemmo sotto quella grazia e devozione colla quale sempre vi abbiamo riguardati, e sempre cari vi terremo; i vostri donativi altresì tanto più grati ci riuscirono, quanto che noi sapevamo che quelli trasmessi erano per effetto di pura amorevolezza. Giulini, tom. VII, p. 227.
[407] Balut, tom. II, p. 662.
[408] Giulini, tom. VII, p. 354.
[409] Giulini, tom. VII, p. 483.
[410] Fu scolpito in marmo sedente sopra un cavallo, il che fu reputato grande vituperio. Questi il primo fu a fare imprigionare gli eretici.
[411] Nuove leggi promulgate furono contra gli eretici, dei quali moltiplici erano le sètte e con nomi stranissimi distinte; perciocché, oltre i Patareni, dei quali ho fatto già menzione parlando di Arnolfo, nominavansi i Catari, i Carani, i Concorezii, i Fursici, i Vanii, gli Speronisti i Carantani, i Romolari; e questa peste non meno attaccavasi alle femmine, che agli uomini. Fu all'uno e all'altro sesso vietata questa superstizione, minacciandosi pena capitale e distruzione delle case a coloro che in essa perseverassero, o i colpevoli nelle case loro ricevessero, e in altro modo gli aiutassero. E nell'anno seguente, correndo il mese di gennaio, Goffredo, cardinale di San Marco, legato pontificio, entrato in Milano, stabilì per legge, (di comune consenso tuttavia dell'arcivescovo, degli ordinari e del popolo), che il pretore di pena capitale punisse entro dieci giorni coloro che dannati fossero per giudizio ecclesiastico. Tristan. Calch. Hist, Patr., lib. 8, p. 269.
[412] Corio, parte seconda, foglio 72.
[413] Stabilito avendo lo inquisitore, distrusse le eresie.
[414] Nazarian., cap. 109, p. 561.
[415] Corio, all'anno 1952.
[416] Diss. Med. Æv., tom.
V, p. 92 e sg.
[417] La trista vita di un
prelato nuoce al suddito ed anche a quello che è consacrato a Dio. -
Nella chiesa di Dio non debbono esservi cattivi sacerdoti e diaconi. - I preti
cattivi non possono esercitare il loro ministero. - La Chiesa non dee possedere
alcuna cosa se non in comune. - Alcun tristo non può essere vescovo. -
Non è lecito ad alcuno lo ammazzare. Muratori, Diss. Med. Æv., tom. V, p. 95.
[418] Marten. Veter. Script. et Monum. Collect., p. 1051.
[419] Perciocché in questo noi richiamiamo il costume degli antichi Cesari, ai quali, per le illustri azioni sostenute colle vittoriose insegne, il senato ed il popolo romano i trionfi e le lauree aggiudicava; al che col presente esempio della nostra serenità, secondo i voti vostri, da lungi prepariamo la via, mentre vinta avendo Milano, il carro di quella città, capo certamente della nazione dell'Italia, a voi destiniamo, come la preda e le spoglie dei nemici vinti, e la caparra vi mandiamo avanti delle nostre grandi azioni e della gloria vostra. Marten. Collect. Veter. monum., tom. II, p. 1190.
[420] Città, capo della fazione dell'Italia.
Attualmente si legge l'iscrizione incisa di quel tempo in caratteri semigotici, e sta in Roma nel muro della Scala che conduce ai signori Conservatori del popolo romano in Campidoglio, e dice:
Cesaris Augusti Federici, Roma, Secundi
Dona tene, currum, perpes in urbe decus.
Hic Mediolani captus de
strage, triumphos
Cesaris ut referat,
inclita preda venit.
Hostis in
opprobrium pendebit, in urbis honorem
Mictitur: hunc
urbis mictere jussit amor.
[421] Dell'ordine dei frati minori, i quali, non solo armati di spade e muniti di elmo, presentavano una falsa apparenza di soldati, ma anche insistendo colla predicazione, i Milanesi ed altri ancora, purché la persona nostra o quelle de' seguaci nostri offendessero, da tutti i peccati assolvevano. Giulini, tom. VII, p. 534.
[422] Duce e tutor del popolo d'Ambrogio,
Di giustizia vigor,
luce de' grandi,
Arca tu di saper,
sommo dell'alma
Madre Chiesa
campion, eccelso fiore
Di tutta
quest'amabile regione;
Al tuo cader d'Italia impallidisce
Lo splendor tutto!
Ahi, che l'aiuto nostro
Della Torre Pagan,
n'andò tra l'ombre!
MCCXLI, il dì VI di gennaio, morì il detto signor Pagano della Torre, podestà del popolo di Milano.
[423] Giulini, tom. VII, p. 431.
[424] Giulini, tom. VIII, p. 128.
[425] Al minuto alla maniera della taverna.
[426] Tom. VII, p. 462.
[427] Giulini, tom. VII, p. 420.
[428] Giulini, tom. VII, p. 423.
[429] In nome del signor nostro Gesù Cristo. Nell'anno della natività del medesimo mille dugentoquarantacinque, il giorno di venerdì, terzo di novembre, indizione quarta. Essendo che il signor Uberto di Vialata podestà di Milano, e Guido di Casate, Guido di Mandello, Filippo della Torre, Giovanni della Torre, Guglielmo di Soresina, Probino Ingoardo, Rezardo di Villa, Giustamonte Cicata, Lampugnano Marcellino, Burro dei Burri, Artusio Marinone, Guglielmo di Lampugnano, Anselmo di Lampugnano, Anselmo di Terzago, Rosate della Croce, Landolfo Crivello, Negro Grasso, Guizzardo Morigia, Mollone Becano, Caruzano Morone, Amerato Mainerio e Buonincontro Incino, consiglieri, e segretari, e sapienti del comune di Milano, con molta istanza pregando, instarono presso il signor Ardico di Soresina, arciprete di Monza, e i canonici ed il capitolo di questa chiesa, ed anche col signor G. di Montelongo, legato della Sede apostolica, affinché concedessero e prestassero allo stesso podestà e ai consiglieri, e sapienti, o sia al comune di Milano qualche parte del tesoro di quella chiesa da darsi in pegno, per il danaro necessariamente occorrente al comune di Milano, che in altro modo non può trovarsi né ottenersi; come espressamente asserivano; e che quella chiesa volevano mantenere indenne; e fare sollecitamente restituire quel tesoro: alle di cui preghiere e a quelle di questo signor legato soprascritto, i signori arciprete e canonici umilmente accondiscendendo, per l'onore e vantaggio del comune di Milano, presente e volente questo signor legato, offerirono, concedettero a questi podestà e consiglieri e sapienti ed al comune un calice d'oro del tesoro della chiesa Monzese del peso di once centosette, colle orecchiette e coll'ornamento di molte pietre preziose. E perciò il predetto signor Uberto di Vialata, podestà di Milano, e questi consiglieri, e segretari, e sapienti, data essendo loro licenza e facoltà e autorità dal consiglio dei quattrocento, e dei trecento e dei cento nuovo e vecchio, come dicevano, riformato (scritto nel libro del comune di Milano l'atto di fare la infrascritta obbligazione, e tutte le cose infrascritte) promisero, e diedero sicurtà, e tutti i beni loro e i beni del comune di Milano tutti e ciascuno di essi solidamente obbligarono in pegno al detto signor Arderico di Soresina, arciprete di Monza, accettante in suo nome, e in nome della Chiesa, e di tutto il capitolo di Monza, e di ciascuno dei canonici di detta Chiesa; che esigeranno, renderanno, e daranno senza alcuna diminuzione, liberamente e assolutamente, di qui al natale prossimo, a questo signor arciprete ed ai canonici, o sia al capitolo il soprascritto calice d'oro, ornato con gemme e pietre preziose. A tutte spese e danni di essi e del comune di Milano, e senza alcun danno o spesa dei detti arciprete e canonici e della Chiesa. E rinunziarono alla eccezione del calice non ricevuto, e ad ogni altra eccezione colla quale potessero in alcun modo premunirsi e difendersi, e massime che non potessero dire essersi obbligati per lo comune o per le cose del comune, ma sieno tenuti in modo che possano essere citati in solido, anche dopo finito e deposto il loro ufficio e la facoltà e l'autorità loro, come se tutte le predette cose fossero pervenute in potere di ciascuno di essi. E riunziarono al beneficio della nuova costituzione e della lettera del Divo Adriano e di qualunque altro aiuto col quale in alcun modo potessero difendersi per mezzo dell'uso e della legge e dello statuto e di qualunque ordinamento fatto o che farsi in avvenire potesse o si facesse; ma in qualunque tempo possano con effetto essere convenuti, non ostanti alcune ferie né le loro dilazioni fatte o da farsi. E promisero come sopra il detto podestà, e questi consiglieri, e sapienti, che né il podestà né alcuno de' predetti darà in alcun modo né con alcun sotterfugio, anche consenzienti questi arciprete e canonici, alcuna altra cosa in luogo di quel calice, fuori del predetto calice; ma daranno lo stesso calice speciale, intero con tutte le sue pietre e gemme senza alcuna diminuzione. Ed ivi il detto signore G. di Montelungo, legato della Sede apostolica, coll'autorità della sua legazione e per volontà dello stesso podestà e dei segretari, e consiglieri, e sapienti predetti, essi tutti e il consiglio comunale, dal termine infrascritto in avanti, assoggettò e sottopose al vincolo della scomunica adesso per allora, se le cose predette come sopra mantenute non fossero per quel termine; eccettuato il podestà predetto. Alla osservanza delle quali cose e maggiore loro confermazione i predetti segretari, e consiglieri, e sapienti sopranominati giurarono corporalmente, toccando i sacrosanti Evangeli, tutte le cose sopranotate, e di osservare e fare, e fare osservare dal comune di Milano ciascuna delle cose predette. Fatto nei campi d'Albairate, nell'esercito contro Federigo, una volta imperatore.
[430] Tom. VII, p. 502.
[431] Giulini, tom. VIII, p. 30 e sg.
[432] Bullar. Francescan, tom. II, p. 15.
[433] Sormani, Storia degli Umiliati, cap. 10, p. 99.
[434] Bullar. Dominican, tom.
I, p. 244.
[435] Dal consiglio dei quattrocento e dei trecento e dei cento, nuovo e vecchio.
[436] Giulini, tom. VIII, p. 256.
[437] Giulini, tom. VIII, p. 12.
[438] Giulini, tom. VIII, p. 28.
[439] Tom VIII, p. 145 e sg.
[440] Giulini, tom. VIII, p. 174.
[441] Seicento forche preparansi, alla vista delle quali si ritirarono.
[442] Manip. flor. ad an. 1260.
[443] Giulini, tom. VIII, p. 186.
[444] Giulini, tom. VIII, p. 191.
[445] Tom. VIII, pp. 192, 219, 236 e 249.
[446] Giulini, tom. VIII, p. 247.
[447] Corio a quell'anno.
[448] Giulini, tom. VII, p. 134.
[449] Giulini, tom. VIII, pp. 247 e 286.
[450] Sotto l'interdetto dei divini uffizi rimasta era la città di Milano per la contesa colla quale la famiglia dei Maravigli sembrava ingiustamente opprimere il priore di Pontida. Calch. Hist. Patr., lib. 17, p. 376.
[451] Tom. VIII, pp. 334 e 335.
[452] Il Castel Seprio si distrugga, e distrutto si mantenga in perpetuo, né alcuno ardisca presumere di abitare su quel monte.
[453] Siccome in tutte le cose sembrava entrare il sospetto, dubitava altresì che nuove trame nelle adunanze si macchinassero, e per questo comandò che coorti armate giorno e notte la città girassero, e provvedessero che riunione non si facesse tra i cittadini. Calch. Hist. Patr., lib, 17, p. 385.
[454] Avendo però il predetto Matteo Magno Visconti ottenuto il dominio di Milano, nello stesso suo primo reggimento molto virtuosamente si condusse; perciocché professò per tal modo la castità e la onestà, che tutta la di lui corte composta sembrava di uomini religiosi. Le messe con grandissima devozione ascoltava. I sacerdoti vestiva colle sue proprie mani. In tutta la quaresima faceva che i domestici suoi e tutti i suoi famigliari si confessassero, altrimente con severità li puniva. I nobili di Milano volontieri ascoltava, e ai loro consigli non resisteva. I beni del comune conservava, nulla per sé riteneva. Non versò mai il sangue di alcuno. I dominii dei borghi e delle ville tra i nobili divideva: ogn'anno però i dominii di questi cambiava, onde tutti i nobili all'amor suo invitava. Fu ancora robustissimo della persona ed agile assai; colle mani spezzava un ferro di cavallo; e molt'altre cose faceva degne di commendazione.
[455] Ad onore del Signor nostro Gesù Cristo e della gloriosa Vergine Maria, sua madre, e del beato Ambrogio, confessore nostro, e dei beati Vincenzo, Agnese, Dionisio, e di tutti i santi, e della Santa Madre Chiesa, e del sommo pontefice, e del signor re dei Romani, ed a conservazione dello Stato del venerabile padre signor Ottone, arcivescovo della santa chiesa milanese, e al buono, tranquillo e pacifico stato del popolo e del comune di Milano e di tutti gli amici, ed alla morte e distruzione del marchese di Monferrato, e di tutti i di lui seguaci, voi, signor capitano, giurerete di reggere il popolo di Milano da oggi in avanti, per anni cinque prossimi venturi, in buona fede, senza frode, e che custodirete e manterrete lo stesso popolo... e gli statuti... e se questi mancassero, osserverete le leggi romane. Corio all'anno 1288.
[456] La morte e la distruzione del marchese del Monferrato e di tutti i di lui seguaci.
[457] Giulini, tom. VIII, p. 435.
[458] Corio all'anno 1308, e Villani, lib. 8, cap. 61.
[459] Il che, chiarissimi cittadini, significa che, siccome col ferro e con ferrei strumenti si domano tutti gli altri metalli, così, per salutare consiglio, non che per insigne valore dell'armi italiche e principalmente de' Milanesi, domare dee l'imperatore tutte le altre nazioni.
[460] Giulini, tom. VIII, p. 478.
[461] Med. Æv., tom. IV, col. 632, B.
[462] Med. Æv., tom. 2, p. 593.
[463] Giulini, tom. VIII, p. 631
[464] Rer. Ital., tom. XII,
Colum. 1099, B.
[465] Ibidem, tom. XI, col.
[466] Ibid., tom. IX, col. 1242, B.
[467] Cassone ecc. Agli uomini, così fossero prudenti! Matteo Visconti, vicario e rettore, o sia capitano, al podestà, ai sapienti ed anziani, ai consiglieri, ai consoli, al consiglio, al comune della città di Milano, e a Galeazzo, Luchino, ecc.
[468] E per questo tu, Matteo Visconte, e voi altri come sopra nominati, se non vi emenderete delle predette cose, scomunichiamo in perpetuo, anatematizziamo, e priviamo di qualunque commercio umano, della ecclesiastica sepoltura e dei sacri ordini. Corio all'anno 1314.
[469] Flamma Manipul. Flor., et Annales Mediolan. ad ann. 1317.
[470] Flamma, Manipul. Flor., ad annum. 1313
[471] Di pessimi delitti e di eresia, benché non fosse colpevole. Bonincontrus Morigia, lib. 3, cap. 2.
[472] Villani, Ughelli e Bonincontro Morigia.
[473] Raynaldus, ad an. 1317,
n. 8.
[474] Bonincont. Morigia,
lib. 2, cap. 27.
[475] Raynald, num. XL ad annum 1320
[476] Raynald, § X, ad an. 1320.
[477] Lib. IX, cap. 108.
[478] Flamma, Manipul, flor.
[479] Tom. X, p. 547.
[480] Tanto perché il giudizio e la punizione del reato di sacrilegio spettano al foro ecclesiastico, quanto ancora perché, nella vacanza dell'Imperio, come ancora al presente si riconosce vacante, a noi ed alla apostolica sede appartiene, il reprimere l'ardire di questi facinorosi che nell'Imperio si trovano, il togliere di mezzo l'oppressione, e l'amministrare la giustizia agli offesi ed agli oppressi.
[481] Il profano ed empio autore di grandi sceleratezze e di delitti, Matteo Visconti di Milano, rabbioso devastatore delle parti della Lombardia, ecc. Ughelli, Ital., Sacr., tom IV.
[482] Ughelli, col. 206.
[483] Fece portare il vessillo della Chiesa sopra il tetto della casa, e colà fu proclamato che qualunque uomo o donna seguitare volesse quel vessillo, affine di distruggere il detto Matteo e i di lui fautori, libero e mondo sarebbe tanto da colpa quanto da pena. Chronic. Astens., cap. 105.
[484] Pronunziando sentenza di scomunica, coi tesori della Chiesa aperti, e da qualunque parte arruolando soldati agli stipendi contra il predetto signor Matteo e i suoi seguaci e quelli della sua stirpe fino al quarto grado. Edizione in quarto. Milano, 1771, p. 29.
[485] All'anno 1322.
[486] Certamente consta che i censori della fede, nel condannare per titolo di eresia alcuni Ghibellini, indotti furono oltremodo dallo spirito di partito. Raynald. ad annum 1341.
[487] Trovato abbiamo essere iniquamente fatti i processi e le sentenze suddette, per certe ragioni legittime e giuste che in essi abbiamo ravvisate, e col consiglio dei fratelli nostri e coll'autorità apostolica, dichiariamo iniquamente fatti e nulli ed irriti gli stessi processi e i giudizi, fatti e pronunziati dai prefati arcivescovo, Pasio, Giordano, Onesto e Barnaba, e da ciascuno di essi intorno alle predette cose, in comunione o separatamente, contra i predetti Giovanni e Luchino (erano allora que' due figli di Matteo signori tranquilli di dodici città) e tutte le cose che sono seguite ìn forza di que' giudizi o per cagione di quelli. Ughelli, tom. IV, in Archiep. Mediol., ubi de Johanne Vicecomit.
[488] Che gli altri tutti in probità superava. Pagina 36.
[489] Bonincontr. Morigia, lib. II, cap. 21.
[490] All'anno 1323.
[491] Non mancavano tuttavia a Lodovico molti argomenti di ragione coi quali, presso il maggior numero delle persone, scusare si potessero le cose da esso fatte; la controversia con Federico austriaco intorno all'Imperio, già decisa colla spada: Milano poi difesa, non affine di assistere l'eretico Galeazzo, ma di rivendicare a se stesso i diritti dell'Imperio, e di impedire che occupata fosse da Roberto re di Sicilia un'amplissima provincia dell'Imperio, che non mai forse si sarebbe ricuperata. Non però da que' motivi di ragione fu Giovanni rimosso dal meditato disegno. Raynald, ad ann. 1323, cap. 29 et 30.
[492] Intorno alla di cui
morte nulla si sa di certo. Pag.
70.
[493] Lib. III, cap. 37.
[494] Anecdot., tom. II, p. 301.
[495] Molto dal vero si allontana.
[496] Bonicontr. Morigia, R. I., tom. XII, col. 1750 D. - e la cronaca d'Azario, p. 54.
[497] R. I., tom. X, col. 901 B. - Martene, Thesaur, nov. Anecdot. tom. II. - Cod. Italic. Lunig.
[498] Pietro tornato in sé, disse: venne l'angelo del Signore, e ci liberò dalle mani di Erode e di tutte le fazioni de' giudici.
[499] Gio. Villani, Storia,
lib. X, cap. 71. - Albertino Mussato R. I., tom. X, col.
[500] Med, Æv., tom. VI, col. 186.
[501] Giorno e notte gridavano a vitupero del Bavaro: O Gabrione, ebrione, bevi, bevi, ho, ho, Babii, Babo. R. I. Tom. XII, col. 1001.
[502] Villani, cap. 289.
[503] Messale ambrosiano, stampato
l'anno
[504] Tom. X, p. 482.
[505] Vita di Giotto, tom. I, p. 95.
[506] Ivi, p. 46.
[507] Lomazzi, Arte della pittura, p. 35.
[508] Giulini, tom. X, p. 332.
[509] Gio. Villani, lib. XII, cap. 37.
[510] Giulini, tom. X, p. 410.
[511] All'anno 1348.
[512] Aveva la predetta
signora Elisabetta, di lui moglie, fatto voto di visitare la chiesa di San
Marco in Venezia, come essa diceva. Al quale viaggio acconsentì il
signor Luchino. E, fatta una comitiva di molti grandi dell'uno e
dell'altro sesso, si pose in cammino, e come una imperatrice, e con grandissime
spese e corte bandita, fu ricevuta dal signor Mastino in Verona. E
compiè il suo viaggio, e si narra che anche la sua volontà
compiesse intorno a carnale congiungimento, e le altre di lei compagne delle
primarie della Lombardia fecero la cosa stessa. Per questo nacquero di molti
scandali. Ma perché l'amore e la tosse non si possono nascondere, né tanto
è occulta alcuna cosa che non si riveli, tornata essendo la medesima, il
signor Luchino seppe ed udì quello che avvenuto era. Pure,
siccome sapiente, pensò a dare le disposizioni per
[513] « Non nuoce aver taciuto, ma parlato ».
[514] Uomo era austero nell'aspetto e nell'opere, parco nel promettere, largo nell'attendere.
[515] Mostrava prendersi cura di poche cose, ma di molte curavasi.
[516] Che il prefato magnifico ed eccelso signor Giovanni, figliuolo del fu signor Matteo de' Visconti di buona memoria, e dopo la morte di quel signor Giovanni, nello stesso modo, qualunque altro maschio discendente per linea mascolina e di legittimo matrimonio dal prefato fu signor Matteo de' Visconti, sia e sieno a perpetuità vero e legittimo e naturale padrone, e veri e legittimi e naturali padroni della città e di tutto il distretto e della diocesi e della giurisdizione di Milano.
[517] Matteo Villani, lib. I all'anno 1350.
[518] Raynald, ad ann. 1350,
n. VII.
[519] Matteo Villani, lib. I, all'anno 1351.
[520] Georg. Stellae Ann. Genuens., ad ann. 1354.
[521] Tutta poi trovo la valle del Reno abitata da colossi mandati da Augusto; questa mutazione però di sedi non cambia punto la patria alla quale si va, ma coloro che vanno. Adunque e i Galli andati nell'Asia, Asiani, e gli Italiani andati nella Frigia, Frigii, e questi, dopo l'eccidio di Troia tornati nell'Italia, di nuovo diventarono Italiani. Così i nostri, trasportati nella Gallia o nella Germania, s'imbevettero della natura di quelle parti, e de' costumi barbarici, e i Milanesi, stabiliti dai Galli, e Galli una volta, ora come uomini dolcissimi, non serbano alcun vestigio della vetusta loro origine; così da forza celeste sono modificati gli umani ingegni Francisci Petrarchae V. C. contra cujusdam Anonymi Galli calumnias, ad Ugutionem de Thienis Apologia, tom. II, p. 1083.
[522] «O caro al cielo, e per illustre schiatta
Venerato dai popoli superbi,
Almo fanciullo, a te dolce la vita,
E sia vivace nell'infanzia il brio!
Lieto t'innoltra, o lungamente atteso,
Dono alla patria, ai padri ed a noi tutti;
E di vita il cammino astri felici
T'additin certo tra secondi eventi!
Te il Po signore attende... »
[523] «Ma all’egregio garzon, già grandicello,
Questa coppa si
doni, e ad essa accosti
Le rosee labbra; a'
piccioli conviene
Picciolo dono:
minimo son io;
Ei massimo; ma
ancor l'etade è scarsa;
Appena egli apre a
nuova luce gli occhi,
E trepido lo
sguardo al ciel rivolge.
All'età
s'offron, non al grado, i doni.
Giuoco or
farà del nitido metallo
Che altero
sprezzerà d'anni più grave,
Qualora ei sappia
che lucente feccia
Dalle profonde
viscere si tragge
D'alpestre terra;
ma a lui forse grati
Saranno allor miei
carmi, e, rileggendo,
Rammenterà
ch'io lo levai dal fonte.
Tanto onor mi
concesse il genitore ».
Francisci Petrarchae Florentini V.C. operum, tom. III, p. 113.
[524] La città di
Milano, capitale dei Liguri e metropoli, sin quasi all'invidia ignara tuttora
di queste calamità, e per la salubrità e dolcezza dell'aere, e
per la frequenza del popolo gloriosa, nell'anno sessantesimoprimo deserta
rimase e squallida. De
Rebus Senilibus Epistolar., lib. III, epist. I ad Johannem Bocatium.
[525] Benaglia, Del magistrato straordinario, cap. 12.
[526] Tom. XI, p. 426.
[527] Tom. VIII, p. 392.
[528] Giulini, tom. XI, p. 32.
[529] Cioè, di pane di frumento buono e ben cotto e bianco, e di vino buono e puro in quantità sufficiente; e di capponi, uno cioè intero per ogni due persone, e di carne di bue e di porco con buone salse di pepe cioè un frammento o un pezzo di carne di bue, competente e buona per ogni due; ed un altro frammento o un pezzo di porco con buone salse di pepe per ogni due; ed un frammento o un pezzo di carne porcina fritta o arrostita col pane gratuggiato per ogni due; e tutte queste cose, secondo che è convenevole, appresti in ciascun anno a sufficienza.
[530] Tom. VIII, p. 653.
[531] Ora però nell'età presente, agli antichi costumi molte cose si sono aggiunte, come irritamenti a danno delle anime; perciocché le vesti preziose sono da ogni parte coperte di superflui ornamenti: nelle stesse vesti, tanto degli uomini, quanto delle donne, si inseriscono l'oro, l'argento, le perle. Larghissimi fregi si sovrappongono alle vesti. Bevonsi vini forastieri, e delle parti oltramarine; tutte le vivande sono sontuose, ed in grandissimo prezzo si tengono i maestri dell'arte della cucina. R. I., tom. XII, col. 1034.
[532] Che il luccicare degli specchi superavano. Perciocché i soli fabbri delle corazze montano a parecchie centinaia, senza contare innumerevoli operai ad essi subordinati.
[533] Perciocché gli stessi mercatanti scorrono la Francia, la Fiandra, l'Inghilterra, comperando lana fina, colla quale in questa città si tessono panni fini in grandissima quantità, che si tingono in qualunque sorta di colore, e che si portano per tutta Italia.
[534] R. I., tom. XI, col.
1320.
[535] Giulini, tom. VII, p. 65.
[536] Giulini, tom. XI, pp. 149, 167, 475, 497 e 502.
[537] MCCCLXXXVIII nel giorno XXII di luglio. Dai signori vicario e XII di Provvisione del comune di Milano, e dai sindaci del detto comune eletti furono gli infrascritti cittadini di Milano, che sono e s'intendono di essere il consiglio dei DCCCC del comune di Milano.
[538] Med. Æv., Dissert. 38, p. 815.
[539] Signorol. Omodeus, Cons. XXII.
[540] Giulini, tom. XI, p. 514.
[541] Giulini, tom. XI, p. 119.
[542] Decreta Antiqua, p. 51.
[543] Siccome ancora si fanno estorsioni di diversi modi dai gabellieri della dogana delle bestie grosse e minute del detto vostro contado.
[544] Vogliamo bensì che agli impresari dei dazi del detto nostro comune si mantengano i loro patti. Decreta antiqua, p. 50.
[545] Ibid., p. 173.
[546] Giulini, tom. XI, pp. 118 e 557.
[547] Cardinali della santa chiesa milanese.
[548] Giulini, tom. VII, p. 196.
[549] Una pelliccia (1) di coniglio, coperta di violato, ed altre due... cioè una di volpe, coperta di scalfanio (specie di panno), ed altra di fianchetti, coperta di saglia bruna, e... il mio cappello grigio, coperto di saglia nera, ed il mio copertorio e la scrada o la mia veste doppia... la mia cappa turchina... la mia cappa di mantellato ... cinque cucchiai d'argento, e il mio mantello foderato di zendado ... il mio vestito violato.
(1) Mastruca, come porta l'originale, è veramente pelliccia, e non solamente quella de' Sardi, come opina il Du Cange. Trovansi nei codici del medio evo altre vesti e pelliccie di fianchetti, fatte forse di pelle dei fianchi. Il mantellato era pure una specie di veste e di panno. [Nota del Bossi.]
[550] A tutti poscia i cherici proibiamo le vesti rosse o di diverso colore, gialle e verdi. Sormani, Gloria de' santi milanesi, p. 211.
[551] Vesti vergate, o bianche e nere per metà, o listate, o con fregi, o con bottoni d'argento o di alcun altro metallo.
[552] Non portanti cappucci alla maniera de' laici. Giulini, tom. VIII, pp. 642 e 644.
[553] Conviene però sapere che il giudizio del ferro rovente nella città nostra non si ammette, sebbene altrimente si osservi in alcuni luoghi posti sotto la giurisdizione del signor arcivescovo.
[554] Lib. V, cap. 81.
[555] Raynald. ad annum 1356,
num. 30.
[556] O monopolisti delle granaglie, o uomini nutriti del sangue del popolo, non aspettate il giorno del giudizio?
[557] Predicando egli, dicesi che propalassa i peccati occulti di quelli della famiglia Beccaria, che ad esso erano stati narrati nel sacramento della penitenza, e specialmente del signor Castellino disse tali cose, che tutto il popolo sedusse ed animò all'esterminio di tutti i Beccaria, e della prole e discendenza loro e de' loro amici, ed alla ruina e al saccheggio delle loro case. Ed allora tosto, senza premettere alcun avviso, tutte le case, abitazioni e palagi di essi e dei seguaci loro fece atterrare, e portar via le pietre e venderle, promulgando che ciascun Pavese tenere dovesse quelle pietre sotto il capezzale e a capo del letto, a perpetua memoria delle furfanterie commesse dai Beccaria. Petri Azarii Chronic., p. 237.
[558] Perciocché dal carroccio, nel quale spesso era portato (e beato colui che poteva toccare quel carroccio, coperto di panni per il di lui uso!) cominciò a predicare, ed a sgridare gli uomini e le donne, perché dovevano evitare i lacci mondani, cioè le vesti lussuriose e sontuose, le masserizie d'argento e le gemme preziose, e gli ornamenti... e per esecutore fece eleggere un ufficiale, che io vidi a tagliare le grandi maniche delle guarnaccie, tessute con lavoro frigio, od ornate d'oro e d'argento, e a tagliare le cinture, se qualche cosa preziosa intorno ad esse trovavasi.
[559] Fece pubblica giustizia col taglio della testa... Vendute avendo adunque le cose predette, l'oro, l'argento, le gemme, i diamanti e le pietre preziose fino a Venezia.
[560] Che non dubitasse della mancanza delle vettovaglie, sapendo esso (perciocché così asseriva) per mezzo della orazione... che avrebbe impetrato che la manna simile a quella data a Mosè nel deserto, sarebbe caduta in sufficiente quantità.
[561] Erasi pigliata cura
degli altri, non di se stesso, siccome sempre allegava nel predicare.
Veggasi l'Azario, dalla p. 235 sino alla p. 241.
[562] Raynald. ad ann. 1362, n. 12.
[563] Non sai, poltrone, che io sono papa ed imperatore, e signore in tutte le mie terre.
[564] Esso signor Barnabò ai suoi giorni ebbe in odio gli uomini scienziati, laici, cherici e prelati, e qualunque uomo virtuoso; e sempre elevò sublimemente gli idioti, i crudeli, gli uomini vili, infami ed omicidi. Annal. Mediol., p. 799.
[565] Annal, Mediol. cap.
[566] Matteo Villani, lib. XI , cap. 41.
[567] Perciò il Signore
ti distruggerà finalmente, ti svellerà e farà esule te dal
tuo tabernacolo e la progenie tua dalla terra dei viventi. Annal.
Mediolanens., cap.
[568] Raynald. ad ann. 1364, § 3.
[569] Idem, A. 1368, § 2.
[570] Raynald. ad ann. 1372, n. I.
[571] Codice A, MS., nell'archivio del R. castello di Milano.
[572] Azario, p. 282.
[573] Considerando noi i tempi di sterilità e le calamità delle guerre.
[574] Decreta. Antiqu. Mediol. Docum., p. 34.
[575] Corio all'anno 1374.
[576] Senza altra determinazione né difesa antecedente, comandò che un suo famigliare partisse per espresso colle sue lettere, dirette al podestà di Bergamo, affinché egli, quelle vedendo, facesse impiccare per la gola il detto Antoniolo, sotto pena di essere impiccato il podestà medesimo. Il quale podestà, sebbene di malavoglia, fece impiccare il detto Antoniolo nel palazzo di Bergamo, senza frapporre alcuna dilazione, se non finché confessato si fosse al sacerdote. Azario, p. 275.
[577] Annales Mediol., ad ann. 1366.
[578] Ibidem, ad ann. 1370.
[579] Ibidem, ad ann. 1381.
[580] Tom. XI, pp. 360 e 376. - Anche Matteo Villani nelle Istorie R. I., tom. XIV, p. 370, scrisse Come i Visconti feciono contro i prelati de Santa Chiesa. Avvenne in questi dì (cioè verso il maggio del 1357) che il papa mandò un valente prete in Lombardia a predicare la croce, guardandosi i maggiori prelati di non volere la grazia di quell'uffizio, e la croce si bandiva e si predicava, come è detto, contro al capitano di Forlì e al signore di Faenza; il valente sacerdote se ne andò a Milano, e, ivi favoreggiato dal vescovo di Parma, cominciò sollecitamente a fare l'ufficio che commesso gli era dalla Santa Chiesa. Come messer Bernabò ebbe notizia di questo servigio, senza vietarglielo o ammonirlo che questo fosse contro alla sua volontà, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di ferro, tonda, a modo di una botte, con manichi da voltarla, dentro vi fece mettere il sacerdote, e accesovi sotto il fuoco come si fa a un arrosto e facendolo volgere, crudelmente il fece morire.
[581] L'Azario p. 310. - Annal. Mediol. R. I., tom. XVI, col 740. - Chron. Placent., R. I. tom. eod., col. 510, E. - Veggasi anche la Cronaca di Bologna.
[582] Tom. IV, p. 160.
[583] L'intenzione del signore è che dei capi traditori si incominci il castigo a poco a poco. Il primo dì, cinque tratti di curlo (probabilmente di corda); il secondo si riposi; il terzo dì, similmente cinque colpi di curlo; l'ottavo si riposi; il nono si dia loro a bere cinque colpi di curlo; il sesto si riposi; il settimo, similmente cinque colpi di curlo; l'ottavo si riposi; il nono si dia loro a bere acqua, aceto e calcina; il decimo si riposi; l'undecimo dì, similmente acqua, aceto e calcina; il duodecimo si riposi; il decimoterzo giorno si taglino due corregge di pelle sulle spalle, e si lasci sgocciolare sopra (forse acqua od olio bollente); il decimoquarto si riposi; il decimoquinto giorno si levi loro la pelle della pianta di ciascun piede, poi si facciano camminare sopra i ceci; il decimosesto si riposi; il decimosettimo camminino sopra i ceci; il decimottavo si riposi; il decimonono si pongano sopra il cavalletto; il vigesimo si riposi; il vigesimoprimo si pongano sul cavalletto; il vigesimosecondo si riposi; il vigesimoterzo giorno si tragga loro un occhio dal capo; il vigesimoquarto si riposi; il vigesimoquinto si tronchi loro il naso; il giorno vigesimosesto si riposi; il vigesimosettimo si recida loro una mano; il ventesimottavo si riposi; il ventesimonono si tagli loro l'altra mano; il trentesimo giorno si riposi; il trentesimoprimo si taglia loro un piede; il trentesimosecondo si riposi; il trentesimoterzo si tagli loro l'altro piede; il trentesimoquarto si riposi; il trentesimoquinto si recida loro un testicolo; il trentesimosesto giorno si riposi; il trentesimosettimo si recida loro l'altro testicolo; il trentottesimo si riposi; il dì trentesimonono si tagli loro il membro virile; il quarantesimo si riposi; il quarantesimoprimo siano attanagliati su di un carro, e poscia si pongano sulla ruota.
[584] L'esecuzione di quelle pene fu compiuta riguardo a molte persone negli anni 1372 e 1373. Petri Azarii Chronicon, p. 301.
[585] Corio, all'anno 1369.
[586] Dato nel castello nostro Zoioso.
[587] Giulini, tom. XI, p. 294.
[588] La quale casa (dice
Azario), cogli ornamenti e le pitture e le fontane, oggi non si farebbe con
trecentomila fiorini. Pag.
283.
[589] Pag. 269.
[590] Siton. Monum. Vicecomit., p. 21
[591] R. I., tom. XVII.
[592] Di questi tempi è un ducato d'oro di Siena colla biscia, che possedo nella mia collezione.
[593] Ma certamente con vana credenza noi stessi deludendo, ci ingannavamo, persuadendoci che quello potesse esser fedele, che stato era tanto sleale nepote e genero e fratello, verso lo zio, il suocero e i fratelli, e del quale tante volte ed a noi e ad altri era stato provato non avere la fede alcuna costanza, se non che in questo solo che le cose promesse mai non manteneva... Noi però, cambiando la sorte delle cose, dichiariamo la guerra al tiranno della Lombardia, che cerca di farsi re, e di farsi ungere come tale. Lettere de' principi, stampate in Venezia, 1574.
[594] Ad annum 1381.
[595] Il detto signor conte, egli stesso a chi gli piaceva, conferiva tutte le dignità e i benefizi ecclesiastici dei paesi di dominio dello stesso signor conte che conferire dovevansi, e il detto signor papa confermava i detti benefizi e le dette dignità a tutti coloro che il detto signor conte aveva eletti.
[596] Annal. Mediol. ad ann. 1398.
[597] Si leghi con catena di ferro ad una colonna, con un anello di ferro che giri all'intorno, e col quale possa girarsi all'intorno l'uomo medesimo, la quale catena sia quanto più potrà farsi lunga, cosicché soffra una morte più dolorosa; colà tuttavia sia abbruciato in modo che muoia.
[598] Ad ann.
[599] Ecco, testimonio ai popoli e precettore alle genti, io ho dato lo stesso duce. - Venerabili padri e spettabili signori miei, assai giustamente venerabili, tutta la patria dei Milanesi può domandarmi con eguale premura. - Di', te ne prego, o vescovo novarese, quali motivi indussero il sacro cesareo animo ad accordare al nostro comune l'onore sublime del ducato? - Alla quale io rispondo: - la quadruplice situazione delle cose; la provvida benignità del Re Eterno; la conformità cortese di un atto degno di un congiunto; la obbediente fedeltà della casa Viperea; la congruente utilità di tutta la plebe.
[600] Celebre potenza di valido vigore; nobile prosapia di fulgido decoro; ilare clemenza del placido donatore.
[601] La prosapia della famiglia, molto raggiante; la bellezza del corpo, molto speciosa; la tranquiffità dell'animo, assai virtuosa.
[602] L'orazione può leggersi nella biblioteca Ambrosiana, nel codice MS segnato B. N., p. 116.
[603] Corio, all'anno 1395.
[604] Le misure che io assegno al Duomo, sono diverse da
quelle che si leggono presso gli autori. Io le ho fatte verificare. Il Morigia,
il Lattuada e il Sormani danno la lunghezza di braccia 300, ed errano di
cinquanta braccia. Il Morigia lo fa largo braccia 145; il Sormani 150; il
Lattuada 151. Il Torri dà la lunghezza di braccia 260, ed erra di
braccia 10½. Il Bugati s'accosta più degli altri alla
verità, ed assegna lunghezza braccia 250, col piccolo errore di mezzo
braccio; e larghezza braccia 130, la qual misura è prossimamente quella
della croce, se si voglia ommettere lo sfondato delle cappelle. L'autore del Distinto
ragguaglio dell'ottava maraviglia del mondo, ossia della gran
metropolitana dell'Insubria, volgarmente detta il Duomo di Milano, malgrado
l'ampollosità del frontispizio, fa la lunghezza minore della vera,
fissandola a braccia 248, e la larghezza braccia 128, misura parimenti minore
del vero. Nella pianta pubblicatasene coi funerali di Carlo VI augusto, risulta
ancor più erronea la lunghezza stabilitavi di braccia 245; la quale
comunemente e per tradizione si crede la vera misura, anche da chi ha ingerenza
nella fabbrica del Duomo; sebbene manchi dal vero braccia quattro e mezzo.
Questa nota può dare un'idea della poca esattezza dei nostri scrittori,
e del tedio che ho dovuto soffrire per rintracciare il vero in quest'opera. Non
sarà, credo, spiacevole ai lettori il paragone fra le misure del Duomo e
quelle di San Paolo di Londra e di San Pietro di Roma. Le misure di San Paolo di
Londra le ho estratte del The Foreigner's guide, or a necessary and
instructive companion Both, for the Foreigner and native in Their Tour
through the Cityes of London and Westminster - London - the fourth edition 1763,
p. 73. Le misure di San Pietro le ho
ottenute da Roma, e sono fatte dall'attuale architetto di quella basilica il
signor Simonetti.
San Paolo è
lungo
San Pietro è
lungo 829 1/2 palmi romani; alla croce è largo palmi 615; e dal
pavimento sino alla sommità della croce sopra il lanternino, è la
somma altezza palmi 593.
Il piede inglese
è once sei, punti uno, atomi otto e 4/5 d'atomo del braccio nostro. Il
palmo romano è quattr'once, sei punti 53/100 d'un atomo del nostro
braccio.
Ridotto il paragone a braccio milanese |
|||
|
Altezza |
Lunghezza |
Larghezza |
Duomo |
180 - |
249 1/2 |
148 1/8 |
San Paolo |
174 - |
256 - |
127 1/2 |
San Pietro |
222 1/2 |
311 1/3 |
230 3/4 |
Il Duomo di Milano supera San Paolo di Londra nell'altezza e nella larghezza; ma è 42 braccia meno alto, 61 5/6 braccia meno lungo e 82 5/8 braccia meno largo di San Pietro.
[605] Corio, all'anno 1391.
[606] A coloro che veramente saranno penitenti e che fatta avranno la loro confessione. Giulini, tom. XI, p. 651.
[607] Libero e mondo sia, tanto dalla colpa, quanto dalla pena.
[608] Mendacemente simulano queste facoltà non vere da essi pretese, mentre ancora per picciolissima somma di danaro (per servirci delle loro parole) non già i penitenti, ma coloro che il velo di una mentita assoluzione studiansi di apporre con trista coscienza alla loro iniquità, ed egualmente assolvono dagli atroci delitti senza alcuna vera contrizione, e non precedendo alcuna debita forma, o condonano le cose mal tolte, certe ed incerte, non esigendo (il che assurdissimo fu in tutti i secoli) alcuna previa soddisfazione. Raynald., ad ann. 1390, n. I.
[609] Roberto di
Baviera, per la
[610] A te Roberto di
Baviera noi Giovanni Galeazzo Visconte, per la
[611] Tom. XII, p. 54.
[612] Briani, Storia d'Italia, tom. II, p. 475, ediz. Venet. 1623. - Morigia, Storia dell'antichità di Milano, p. 644, ediz. Venet. 1592.
[613] Veggasi il Poema del P. Enrico Barelli, De Alberico VII, in Milano, presso Marelli, 1782.
[614] Rer. Ital., tom. XVI, colum. 1021 e sg.
[615] Il nostro duca impose taglie, convenzioni e prestiti così grandi e continui ai sudditi suoi entro il suo dominio, che forzati erano essi ad andare vagando in terre straniere, capaci non essendo a sostenere quei pesi, e si udirono gli urli delle vedove e degli orfani e degli altri singoli, e grande strepito degli inferiori, ed immense crudeltà. E coloro che pagare non potevano, ritenevansi prigioni, e i loro beni usurpati erano dagli stipendiati. Annal. Mediol., ad ann. 1401.
[616] De Monet. Ital., tom. III, p. 59.
[617] Giulini, tom. XI, p. 521.
[618] All'anno 1387.
[619] Andrea Biglia, lib. 2, col. 29. - Corio, all'anno 1406.
[620] Tom. VII, p. 612.
[621] Contra di molti adoperò quel genere di nefanda strage che si eseguiva aizzando i cani, tanto sitibondo di sangue, che, senza spargerlo, non lasciava un solo giorno passare. R. I., tom. XIX, col. 32 E.
[622] All'anno 1409.
[623] E non molto dopo Facino
viene chiamato a Milano, cosicché nulla più ad esso mancava al dominio
dell'una e dell'altra città se non che il solo nome; tutti obbedivano ad
un solo, le cose tutte a norma del di lui comando stabilivano, non lasciandoci
né pure per le spese dei giovani quanto bastasse al sostentamento della vita. Rer.
Ital., tom. XIX, col. 34 E.,
[624] Giulini, tom. XII, p. 611.
[625] Corio, all'anno 1397.
[626] Il volgo veramente (dice il Biglia) allettato era dall'abbondanza delle vettovaglie; ma gli altri tutti che passare potevano per buoni cittadini, aggravati erano da tributi intollerabili... Molti uccisi furono per effetto di pubblica e di privata licenza.
[627] Al giovane diedero questi avvertimenti (dice il Biglia), che la moglie, se non pure repudiata, tenesse certamente come già da esso separata.
[628] Rer. Ital., tom. XIX, col. 44 e sg.
[629] All'anno 1418.
[630] Decembrio, cap. 68; e Stella.
[631] Quest'Alberico aveva per suo avo l'altro del quale si fece menzione nel capitolo IX. Si era confederato col duca; e siccome con ciò egli esponeva le proprie terre della Romagna (come in fatti vennero poi conquistate dalle armi pontificie), così Filippo Maria gli diede la signoria e contea di Belgioioso col castello, pro aliquali rependio, come leggesi nel diploma. Per assicurarsi poi che i Barbiani non ricuperassero i loro Stati, il papa investì della contea di Lugo la casa d'Este, già dipendente pel marchesato di Ferrara. Chi ha considerata la concessione di Belgioioso come una beneficenza del duca Filippo Maria, non ha posto mente a questo fatto. Pur troppo è vero che il duca non beneficò mai costantemente un uomo di merito.
[632] Donato Bosso, all'anno 1444.
[633] De studiis Mediol., cap. VIII, p. 34.
[634] Biblioth. Script. Mediol., ubi de Philippo Maria Vicecomite.
[635] Né sprezzò egli, né tenne in onore e in pregio gli uomini addottrinati negli studi delle lettere e delle scienze, e maggiormente ammirò, di quello che ei coltivasse la loro dottrina. Decembrio, cap. 42 e sg.
[636] Salve, o viaggiatore, vedi, qui sta l'immagine somigliantissima di quel papa Martino, quinto nella serie, che, buon pastore per indole, resse la Chiesa a te Roma, ecc... Autore di questo carme è Giuseppe Brivio, ordinario, dottore di gius canonico e maestro di sacra teologia, ecc.
[637] Ma l'autore di questa insigne immagine fu Giacobino di Tradate, profondo nell'arte, che io ardirei dire non minore, ma bensì maggiore di Prassitele.
[638] Tom. XII, p. 438.
[639] Di mirabile furberia faceva uso nello scegliere i consultori, che nominati sono consiglieri; perciocché eleggeva uomini probi ed illustri per sapere; ed a questi dava per colleghi uomini scandalosi, affinché né quelli potessero appoggiarsi alla giustizia, né questi sviluppare la loro perfidia, ma egli prevenuto fosse di tutto, per la continua discordia che tra di essi regnava. Decembrio, cap. 34.
[640] Tanto arrossì della sua cecità, che fingeva di vedere chiaro, avvertendolo segretamente i suoi camerieri.
[641] Cap. 36.
[642] Oratio super populum
- Praetende, quaesumus, Domine, famulabus tuis Blanchae Mariae et Agneti
dexteram coelestis auxilii ut te toto corde perquirant, et quod digni
postulant, assequantur. Per etc... - Super Syndonem - Fac, quaesumus, Domine,
famulas tuas Blancham Mariam et Agnetem toto corde semper ad te accurrere, et
tibi subdita mente servire, tuamque misericordiam suppliciter implorare, et
tuis jugiter beneficiis gratulari. Per etc... - Super Oblata - Propitiare,
Domine, supplicationibus nostris et has oblationes famularumque tuarum Blanche
Mariae et Agnetis, quas tibi pro incolumitate earum offerimus, benignus assume,
et ut nullum sit irritum votum, nullius vacua postulatio, praesta, quaesumus ut
quod fideliter petimus, efficaciter consequamur. Per Dominum etc... - Praefatio
- Aeterne Deus, in te sperantium consolator, et subditorum tibi mentium custos,
inclina aures misericordiae tuae ad praeces humilitatis nostrae, et famulabus
tuis Blanche Mariae et Agneti propitius adesse dignare. Veniat super eas
spiritualis a te benedictionis ubertas, ut pietatis tuae repletae, muneribus in
tua gratia, et in tuo nomine laete semper exultent. Per Christum etc... - Post
Comunionem - Da, quaesumus, Domine, famulabus tuis Blanchae Mariae et Agneti in
tua fide, et sinceritate constantiam, ut in charitate divina firmatae, nullis
tentationibus ab earum integritate evellantur. Per etc...
(Orazione sopra il popolo. - Stendi, o Signore, te ne preghiamo, la destra del celeste aiuto alle tue ancelle Bianca Maria ed Agnese, affinché a te con tutto il loro cuore aderiscano ed ottengano quello che degnamente ricercano; per ecc. - Sopra la Sindone. - Fa, o Signore, te ne preghiamo, che le tue ancelle Bianca Maria ed Agnese sempre con tutto il cuore loro a te ricorrano, e a te servano con mente devota, e la tua misericordia supplichevolmente implorino, e possano un giorno mostrarsi grate col cuore ai tuoi benefizi; per ecc. - All'Offertorio. - Mostrati, o Signore, propizio alle nostre suppliche, e benigno ricevi queste obblazioni delle tue ancelle Bianca Maria e Agnese, che a te offeriamo per la loro salvezza; ed affinché irrito non sia alcun voto, né vana la preghiera di alcuno, concedi, te ne preghiamo, che quello che fedelmente chiediamo, efficacemente possiamo ottenere; per il Signore ecc. - Prefazio. - Eterno Dio, consolatore di coloro che in te sperano, e custode delle menti a te devote, piega le orecchie della tua misericordia alle preghiere della nostra umiltà, e degna di mostrarti propizio alle tue ancelle Bianca Maria ed Agnese. Venga sopra di esse la dovizia della spirituale tua benedizione, affinché, colmate dei doni della tua pietà, liete sempre esultino nella tua grazia e nel tuo nome; per Cristo ecc. - Dopo la Comunione. - Accorda, o Signore, te ne preghiamo alle ancelle tue Bianca Maria ed Agnese la costanza nella tua fede e nel sincero tuo servigio, affinché, confermate esse nell'amore divino, smosse non sieno giammai per alcuna tentazione dall'integrità di que' proponimenti, per ecc.).
[643] Che dirò di Milano, potentissima città d'Italia, e metropoli della Gallia Cisalpina, nella quale tanto numerosi sono, e tanto diversi i generi degli artefici, tanto grande è la frequenza del popolo, che di là ebbe origine il volgare proverbio: Chi volesse ricomporre l'Italia, dovrebbe distruggere Milano. Kloch., de Ærario, lib. 2, cap. 36, p. 598. Norimbergae, 1671.
[644] Cosicché facilmente si reputa che in quella città possano armarsi più di trentamila uomini. R. I., tom. XIX, p. 105.
[645] Maraviglioso è a dirsi che quello i soli Milanesi osarono promettere, che a stento in que' tempi fornito o fatto avrebbono Firenze e Venezia. Sì grande è in questa età la popolazione di una città sola, sì grande la consuetudine di trafficare nel paese e nelle straniere regioni.
[646] Rer. Ital., tom. XXII,
col. 959.
[647] Rer. Ital., tom. XXII,
col. 946.
[648] Archivio di città, registro A, foglio 40.
[649] Nell'archivio di
città al registro B. leggonsi: 17 agosto 1447, ordine dei signori
vicario e XII di Provvisione per adunare il consiglio dei novecento, onde
prestino il giuramento i consiglieri che non avevano giurato. Foglio I, tergo.
Altro dei medesimi vicario e XII, perché niuno ardisca di rompere le conche
sopra i navigli o lo steccato di Cusago, dei 23 agosto 1447. Registro B, foglio
10, e sotto la data medesima, v'è altro editto de' suddetti sulla macina
del grano, che proibisce a' mugnai la compra: pure il 24 agosto, altro simile
editto del vicario e XII proibisce ai fornai di vendere a staio il pane di
mistura; registro suddetto, foglio 2. Esso registro B. è pieno di editti
del tribunale di Provvisione, l'ultimo dei quali è al foglio 408,
contenente una proibizione di ascendere sopra il tetto del Broletto, in data 10
febbraio 1450, sedici giorni prima che Francesco Sforza si rendesse padrone di
Milano; dal che si conosce che la giurisdizione ordinaria del tribunale di
Provvisione in quel tempo di repubblica, o anarchia che ella si fosse, rimase
intatta e continuata. Lo stesso io trovo essere accaduto al magistrato
Camerale, ossia ai Maestri delle entrate, che conservarono la loro
giurisdizione; ed uno dei primi editti di quell'interregno è del 20
agosto 1447, col quale si comanda che ciascuno paghi il tributo sulle merci
alle porte della città. Veggasi registro B., foglio 6. Altro del 22
detto per la propalazione dei beni del defunto duca. Veggasi registro B.,
foglio 8, tergo. Ne è pieno quel registro sino al giorno 7 gennaio
[650] Registro civico B, foglio 14, tergo, ove leggesi questa grida del 30 agosto 1447 per la demolizione e vendita del castello e delle gioie del duca.
[651] Registro civico B, foglio 16, tergo, ove leggesi il proclama dei capitani e difensori della libertà, acciocché ogni persona atta a portare le armi si presenti a servire sotto il comando del signor conte Francesco, capitano generale, in data 3 settembre 1447.
[652] Capitanei et
defensores libertatis et excelsae Comunitatis Mediolani. - Prudentes concives
carissimi nostri. Posteaquam omnipotens Deus noster, per transmigrationem de
praesenti saeculo illustrissimi bonae memoriae principis ac domini nostri
domini Filippi Mariae gratiam libertatis nobis venditando condonavit quod
retinere et conservare omnibus modis et firma scientia statuimus, deliberavimus
comuni consensu in adurendis libris, extractibus, quaternis, filzis, et
scripturis inventariorum, taxarum, talearum, focorum, buccarum, onerisque salis,
et aliorum quorumvis onerum signum dare, quo populus et plebs intelligant se
post hac futuros immunes et exemptos ab angariis et gravaminibus ejusmodi. Indeque bonam spem de statu ipsius
libertatis et hujus nostre reipublicae percipientes, gaudeant gratulenturque et
debitas gratias agant proinde ipsi omnipotenti Deo nostro. Nec minus animum
firment et disponant velle, quod olim inviti et coacti fatiebant, nunc sponte
atque perlibenter fatiere, in exponendis videlizet, videlizet et exhibendis,
juxta facultates, pecuniis, tum pro formando et conplendo thexauro
gloriosissimi S. Ambrosii, patroni et protectoris nostri, tum pro
expeditionibus genzium armigerarum Comunitatis praelibatae, quibus mediantibus
non tantum libertatem nostram, ut caepta est, retinere conservareque valeamus,
verum etiam rempublicam confirmare, locupletari, augere, et in dies melius
ampliare atque dilatare, in confusionem eorum omnium qui satagunt huic inclitae
Civitati omni conatu suo, suisque omnibus insidiis aemulari. Volumus igitur quatenus,
facta electione statim duorum ex vobis, ordinetis quod ii duo simul, cujus
infra nominatis inquirant et sibi exhiberi faciant quoscumque libros extractus,
quaternos, filza, et scripturas omnes inventariorum, taxarum, talearum,
focorum, oneris salis, et aliorum onerum cujusvis generis, spetiei, ac materiei
fuerint. Et his bene ac iterum revolutis visisque ac diligentissime examinatis,
retinendo eo sdumtaxat quibus videatur aliqua utilitas camerae prefatae
Comunitatis, et territorio et singularium etiam aliquarum personarum, reliquos
omnes ex praedictis igni palam et pubblice cremandos dari et committi faciatis,
quo veluti spectaculo populus ipse pariter et plebs, voluptatem inde assumentes
peringentem, exultare jubilareque possint, laudesque dare sancto memorato. Qui
inclitam hanc urbem in felici et fausto statu semper servet atque tueatur.
Data
Mediolani, die XXI septembris MCCCCXLVII.
Johannes de Mantegaxis - Stefanus de Gambaloytis - Cabriolus de Comite - Federicus de Comite - Johannes de Fossato - Francius de Figino - Johannes de Gluxiano - Jacobus de Cambiago Raphael - A tergo. Nobilibus et prudentibus concivibus carissimis nostris duodecim Provisionum excelsae Comunitatis Mediolani. Registro civico A, foglio 47.
(I capitani e difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa comunità di Milano. - Prudenti concittadini nostri carissimi. Poiché l'Onnipotente Iddio nostro, per il passaggio da questa ad altra vita dell'illustrissimo principe e signor nostro Filippo Maria, di buona memoria, la grazia della libertà a noi liberalmente accordò, che noi stabilito abbiamo di ritenere e conservare in tutte le maniere e con fermo intendimento, di comune consenso abbiamo deliberato di abbruciare i libri, gli estratti, i quaderni, le filze e le scritture degl'inventari, delle tasse, delle taglie, dei fuochi, delle bocche e dell'aggravio del sale, e di qualsivoglia altro aggravio, e di dare così un segno per cui il popolo e la plebe intendono che quind'innanzi saranno immuni ed esenti da simili angherie e gravezze. E quindi concependo buona speranza dello stato della libertà medesima, e di questa nostra repubblica, si rallegrino e si congratulino, e le dovute grazie rendano per questo allo stesso Dio Onnipotente Signor nostro. Né meno rafforzino l'animo loro, e dispongansi a volere in oggi spontaneamente e di buona voglia fare quello che altre volte loro malgrado e forzati facevano, cioè nel dar fuori, secondo le loro facoltà, il danaro, tanto per formare e compiere il tesoro del gloriosissimo sant'Ambrogio, patrono e protettore nostro, quanto per le spedizioni delle compagnie di armigeri della comunità predetta, per mezzo delle quali non solo la libertà nostra ritenere e conservare possiamo, come è incominciata, ma ancora confermare, arricchire ed aumentare la repubblica, e sempre giornalmente in meglio ingrandirla e dilatarla, a confusione di tutti coloro i quali si studiano con ogni loro sforzo e con tutte le loro insidie di rivalizzare con questa inclita città. Vogliamo adunque che, fatta la elezione, a due dei vostri subito ordiniate che essi due insieme, dei quali si inseriranno più abbasso i nomi, ricerchino e si facciano consegnare tutti i libri, gli estratti, i quaderni, le filze e tutte le scritture degli inventari, delle tasse, delle taglie, dei fuochi, della gravezza del sale e di tutte le altre gravezze di qualunque genere, specie e materia esse fossero. E questi documenti, bene rivoltati una e due volte, e visti e diligentemente esaminati, con ritenere quelli soltanto nei quali si riconosca qualche utilità della camera della predetta comunità e del territorio, ed anche di alcune singole persone; tutti gli altri predetti documenti facciano palesemente e pubblicamente dare ed abbandonate al fuoco, perché sieno abbruciati, colla quale specie di spettacolo il popolo stesso parimente e la plebe pigliandone gratissimo piacere, possano esultare e giubbilare e tributare lodi al santo rammemorato, il quale quest'inclita città in felice e fausto stato sempre conservi e difenda.
Data a Milano, il giorno XXI settembre MCCCCXLVII.
Giovanni
dei Mantegazii - Stefano dei Gambaloiti - Cabriolo del Conte - Federico del
Conte - Giovanni di Fossato - Francio di Figino - Giovanni di Giussano -
Giacomo di Cambiago Rafaele. - Su
[653] Registro civico A, foglio 44, editto del 5 ottobre 1447.
[654] Registro delle gride dal 1447 al 1450, nell'archivio civico, volume B., foglio 142, 212 e altrove, come dalle gride 30 agosto 1448 e 21 gennaro 1449, nella seconda delle quali si ricorre a ripartire i carichi per focolare.
[655] Capitanei et defensores libertatis illustris et excelsae
communitatis Mediolani. Dilecte noster. Ad solidandum, augendum, ornandum hujus
nostrae caeptae libertatis optabilem statum, non magis conveniens quam
necessarium arbitramur virtutum coli decentiam, abbominari vitiorum sordes; ita
n. et suscepti a Deo muneris grati videbimur, et accumulatiores ab ejus
omnipotentia gratiarum sperare poterimus largitiones. Animadvertentes igitur
quam foedissimum et detestandum, quam horrendum sit innominabile Sodomiae
crimen, existimantesque quod impunitas incentivum parit, deliquendique etiam
malos efficere deteriores solet, deliberavimus, et mente nostra decreto stabili
firmavimus hoc execrabile exitium nullatenus tollerare. Quamquam igitur ad
detrahendos ab hoc scelestissimo crimine qui in eo maculati sunt, ad faciendum
ne de caetero in tale crimen incidant posse satis et debere sufficere videntur
constituta per sanctissimas leges ac statuta hujus civitatis, quam ita
vulgarissimam ignorare quidem non debent, ignis poena, ut tamen eorum infamis
turpitudo reddatur prorsus inexcusabilis, volumus et tibi mandamus, quatenus,
his receptis, patenter ac pubblice, voce praeconis, divulgari per solita hujus
civitatis loca facias, quod amodo quisquis cujusvis status et conditionis
existat, sive terrigena, sive forensis, aut stipendiarius vel provisionatus, et
generalite, quisquis se ab eo penitus caveat et abstineat crimine, nec illud
committere audeat quoquomodo; sciens et ex certo tenens quod si dehinc illud
incidisse comperietur, irremissibili profecto, juxta legum sanctiones, punietur
ignis poena. Tuque deinde ad investigandum et inquirendum de hujusmodi
sceleratis et diligentiam omnem, studium et curam adhibeas, et contra
quoscumque quos amodo id crimen perpetrasse comperies, debite procedas, eos,
jure justitiaque mediante, puniendo. In qua quidem re, quo magis vigil magisque
diligens fueris, eo magis honori debitoque servies, et nostrae menti
vehementissime complacebis. Et tu ab ejusmodi delictis malefactores se
abstineant, volumus quod accusatoribus, seu denuntiatoribus ipsorum delictorum,
cum bonis tamen inditiis, satis fiat pro qualibet vice, et teneantur secreti,
de ducatis decem auri, ex et de bonis delinquentis, quam satisfactionem volumus
per te et successores tuos fieri debere, omni exceptione et contradictione
cessante. Scribimus etiam super hoc d. Bartolomeo Cacciae, capitaneo justitiae
hujus civitatis, cumquo volumus habeas intelligentiam in fieri facendis
proclamationibus praedictis - Mediolani, die XVIII oct. 1447.
(I capitani e difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa comunità di Milano. Diletto nostro. Affine di consolidare, aumentare, condecorare questo desiderabile stato della libertà che abbiamo ricevuta, reputiamo non tanto convenevole, quanto necessario, il coltivare il decoro delle virtù, l'abbominare le brutture dei vizi; perciocché in questo modo e grati ci mostreremo a Dio del ricevuto donativo, e dalla di lui onnipotenza sperare potremo più liberale accumulamento di grazie. Riflettendo noi adunque quanto sporco e detestabile, quanto orrendo sia il delitto da non nominarsi della sodomìa, e reputando che la impunità genera un incentivo, e i già infetti di quel vizio suole rendere peggiori, deliberammo e confermammo di nostro avviso con durevole decreto, di non volere più in alcun modo tollerare questo esecrabile e rovinoso eccesso. Sebbene adunque sembri che a ritrarre da questo sceleratissimo delitto coloro che macchiati ne sono, ed a fare che più in avvenire non cadano in simile delitto, bastare dovrebbe la pena del fuoco stabilita dalle leggi santissime e dagli statuti di questa città, che come cosa divulgatissima ignorare certamente non debbono; tuttavia, affinché la loro infame turpitudine si renda totalmente inescusabile, vogliamo, e a te espressamente comandiamo, che, alla ricevuta delle presenti lettere, patentemente e pubblicamente colla voce del banditore tu faccia divulgare per i luoghi consueti di questa città: che quind'innanzi qualunque persona, di qualunque stato e condizione essa sia, o del territorio, o forestiera, o stipendiata, o godente alcuna provvigione, ed in generale chiunque sia, si guardi e si astenga totalmente da quel delitto, né ardisca commetterlo in qualunque modo, sapendo e tenendo per certo che se si scoprirà che in quel delitto sia caduto, irremissibilmente sarà punito colla pena del fuoco, a tutto rigore di legge. E tu poscia dovrai adoperare ogni studio e diligenza e cura ad investigare e ricercare questi scelerati, e dovrai procedere contra qualunque tu scoprissi in avvenire avere commesso questo delitto: punendolo a tenore di diritto e col mezzo della giustizia. Nella qual cosa quanto maggiormente sarai vigilante ed accurato, tanto più avrai servito al dovere ed all'onore, e meglio avrai secondato la nostra intenzione. Ed affinché gl'inclinati al male da questi delitti si astengano, vogliamo che agli accusatori o denunziatori di quegli stessi delitti, però con di buoni indizi, si accordi un premio per ciascuna volta, e si tengano segreti, il quale premio sarà di dieci ducati d'oro da levarsi su le facoltà del delinquente, la quale prestazione vogliamo che debba farsi da te e da' tuoi successori, rimossa qualunque eccezione e contraddizione. Scriviamo pure intorno a questo al signor Bartolommeo Caccia, capitano di giustizia di questa città, col quale vogliamo che tu proceda d'intelligenza nel fare eseguire le predette proclamazioni. - Milano, il giorno XVIII di ottobre, MCCCCXLVII.
[656] Capitanei et
defensores libertatis illustris et excelsae civitatis Mediolani - Visa
requisitione barbitonsorum inclitae Urbis hujus pro confirmatione cujusdam
eorum statuti et ordinis tenoris infrascripti, videlizet. Magnifici et excelsi
domini hujus inclitae civitatis; barbitonsores, tum recta conscientia ducti,
tum praesertim a religiosis confessoribus et animarum suarum consultoribus
admoniti, deliberant ad celebrandum festivos dies et vacandum ab opere
temporibus illicitis cum vestrae magnificentiae licentia, et assensu, statutum
ordinem et edictum quod est tenoris infrascripti. Reverenter ideo supplicantes
ut ad ipsum, quod quidem salutiferum et commendabile videtur, auctoritatem
vestram interponentes, dignemini statutum hoc et ordinantionem patentibus
literis confermare, validare, servarique et executioni mandari jubere, mandando
etiam quibuslibet jusdicenti et offitialibus Mediolani, ad quos inde recursus
habeatur, quatenus ad omnem requisitionem abatis Paratici dictorum
barbitonsorum circa ipsius statuti observantiam et executionem, praestent omne
juvamen, auxilium, et favorem opportunum. Item statuerunt et ordinarunt quod
non liceat alicui magistro de dicta arte, habitanti in civitate vel suburgiis
Mediolani, laborare, nec laborari facere de arte ipsa nec in apotecha seu domo
habitationis suae nec extra, die aliquo festivo per sanctae matris ecclesiae
tam Romanae quam Ambrosianae istitutiones celebrari ordinato nec etiam in
ipsorum festorum vigiliis ubi vigiliae institutae reperiantur nec diebus sabati
post horam vigesimam quartam ipsius vigiliae vel sabati, sub poena librarum
duarum nuperiorum qualibet vice qua fuerit contrafactum, eamdemque poenam
incidat quilibet famulus seu laborator de dicta arte qui sine licentia et
contra voluntatem magistri sui laboraret contrafatiendo praesenti statuto,
talisque famulus aut laborator de dicta arte non debeat nec possit de dicta
arte aliqualiter laborare in civitate ipsa nec suburgiis nisi prius
condempnationem ipsam solverit, et ante solutionem hujusmodi non debeat aliquis
magister ipsius artis illi dare aliquod adiutorjum nec aliquem favorem sub
eadem poena, si tamen evenerit quod ad horam vigesimam quartam dicti sabati aut
vigiliae ut supra quispiam magister aut laborator inter manus aliquem haberet
ante horam ipsam jam acceptum; eo casu tali prius accepto possit impune caeptam
operam prosequi et finire, nec pro eo poenam incurrat; harumque omnium poenarum
medietas applicetur fabricae majoris ecclesiae Mediolani et alterius medietatis
duae partes dentur Paratico ipsorum barbitonsorum et reliqua tertia pars
accusatori qui talem contrafactionem denuntiaret. Possunt quoque abbas dictae
artis et sui offitiales qui per tempora erunt, defitientibus in praemissis
opportunis probationibus; pro habenda in hiis veritate artare quemlibet
magistrum et laboratorem ad juramentum si et prout viderit expedire. Et
considerata in hoc devota et laudabili dispositione dictorum barbitonsorum, cum
statutum ipsum, quod etiam per spectabiles dominos consiliarios justitiae
prefatae comunitatis diligenter examinari fecimus et honestum et ad
observantiam orthodoxae fidei nostrae atque mandatorum ecclesiae videatur
tendere, ipsorum requisitioni praedictorum benigne volentes annuere, prasentium
tenore, etiam ex certa scientia, statutum ipsum, quod in volumine etiam aliorum
statutorum et ordinamentorum comunis Mediolani inseri et conscribi mandamus et
volumus, gratum habentes, approbamus et confirmamus; mandantes propterea
vicario et XII Provixionum ac aliis offitialibus antedictae comunitatis
praesentibus et futuris, ad quos spectat et spectare possit et pro dicti statuti
observatione recursum fuerit, quatenus ipsum statutum et ejus dispositionem
inviolabiliter observare fatiant et ad omnem abatis Paratici ipsorum
barbitonsorum requisitionem pro hujus statuti observantia et in contrafatientes
debita executione omne prestent juvamen, auxilium et favorem opportunum, et hoc
dummodo nichil exinde contra aliorum praefatae comunitatis statutorum et
ordinamentorum dispositionem et in eorum detrimentum fiat vel sequatur. In
quorum testimonium praesentes fieri registrarique jussimus, sigillique
praefatae comunitatis munimine raborari. Dat. Mediolani, die sexto decimo
aprilis MCCCCXLVII. Sign. Ambrosius. Il citato registro A, foglio 51,
tergo.
(I
capitani e i difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa
città di Milano. - Veduta la richiesta dei barbieri di quest'inclita
città, perché sia confermato certo loro statuto ed ordine; la quale
petizione è del tenore seguente: Magnifici ed eccelsi signori di
quest'inclita città; i barbieri, tanto guidati dalla retta coscienza,
quanto ammoniti principalmente dai religiosi confessori e consultori delle loro
anime, deliberarono di celebrare i giorni festivi, e di astenersi dalle opere
nei tempi illeciti, proponendo, con licenza e consenso della vostra
magnificenza, l'ordine stabilito e l'editto, che è dell'infrascritto
tenore. Riverentemente adunque supplicano che ad esso, siccome salutifero e
commendevole, come sembra, vi degniate d'interporre l'autorità vostra, e
di confermare, convalidare e comandare che osservato sia e messo ad esecuzione,
con lettere patenti questo statuto, e la relativa ordinazione, comandando
altresì a qualunque giusdicente e agli ufficiali di Milano, ai quali in
appresso si ricorresse, che a qualunque richiesta dell'abate del Paratico dei
detti barbieri intorno all'osservanza ed all'esecuzione di quello statuto,
prestino qualunque giovamento, aiuto e favore opportuno. Così adunque
stabilirono ed ordinarono che lecito non sia ad alcun maestro della detta arte,
abitante nella città o nei sobborghi di Milano, lavorare né far lavorare
di quell'arte, né nella bottega o nella casa di sua abitazione, né al di fuori,
in alcun giorno festivo, ordinato da celebrarsi dalle istituzioni della Santa
Madre Chiesa, tanto Romana, quanto Ambrosiana, e né pure nelle vigilie di
quelle feste, qualora le vigilie trovinsi stabilite, nei giorni di sabbato dopo
l'ora vigesimaquarta di quella vigilia o del sabbato, sotto pena di lire due
delle nuovissime (il testo dice nuperiorum, ma forse dee leggersi imperialium),
per ciascuna volta in cui si contrafacesse, e nella pena medesima incorra
qualunque domestico o lavoratore della detta arte, il quale, senza licenza e
contra la volontà del suo maestro, lavorasse in contravvenzione a questo
statuto, e che tale domestico o lavoratore della detta arte, non debba né possa
in alcun modo esercitare la detta arte nella città stessa e nei
sobborghi, se prima non avrà pagata la stessa multa, ed avanti quel
pagamento non debba alcun maestro della stessa arte accordargli alcun aiuto, né
alcun favore sotto la medesima pena; se però avvenisse che alle ore
ventiquattro del detto sabbato o di una vigilia come sopra, alcun maestro o
lavoratore avesse tra le mani alcuno già ricevuto nella bottega avanti
quell'ora, in quel caso possa proseguire sopra quell'individuo che avesse da
prima ricevuto impunemente l'opera sua, e finirla senza incorrere in alcuna
pena; e di tutte quelle pene la metà si applichi alla fabbrica della
chiesa maggiore di Milano, e dell'altra metà due parti se ne dieno al
Paratico degli stessi barbieri, e l'altra terza parte all'accusatore che
denunziata avesse
[657] Tomo I, p. 254.
[658] 1448 die martis nono Januarii - Notitia sia a ciascuna persona como li illustri capitanei et difensori della illustre ed eccelsa nostra libertà vogliano dare via le borse de la ventura, le quale borse sono septe, della quale la prima harrà dentro ducati trecento contanti, la seconda ducati cento, la terza settantacinque, la quarta cinquanta, la quinta trenta, la sesta venticinque, la settima venti, e vogliono darle via a la ventura in questa forma, cioè: ciascuna persona de qual conditione, stato e grado voglia se sia, tanto forestiero come cittadino e contadino, et tanto clerico come layco, et maschi e femine, possano portare quelli ducati che a loro parirà o uno o due, como loro vorranno al banco de Xphôro figliolo di messere Stefano Taverna banchero, quale è stato lo inventore di questa cossa, el qual banco è per mezzo li ratti fuori del Broletto, lui ne farà nota nel suo libro fatto solo per questo, cioè a dì tale, la tal persona ha portati tanti ducati, uno o duy quelli che sarano, per volere guadagnare per ciascuno ducato una delle sopra scritte borse, secondo che Dio li darà buona ventura, e così farà nota de tutti quelli portaranno infina alla prima domenica di febraro prossimo, quale è il dì deputato a dare via le borse, in quello dì serano domandati tutti quelli haveranno messi li denari per guadagnare le borse, et si serà fatto tanti scritti per ciascuno quanti ducati harrano messo, li quali scritti haranno suxo il nome loro, e questi tal scritti serano messi in una corba suso una baltresca la quale sara posta su la piazza di Sancto Ambrosio onde è usato stare el banco di frate Alberto, acciocché ciascuna persona possa vedere mettere li scritti tutti in la corba, e vederli voltare tutti sotto sopra per lo dicto Xphôro thesaurario, deputato a questo, ovvero per persona fidata electa per li illustri capitanei, poi sarà tolto una altra corba, nella quale corba saranno messi altretanti scritti bianchi senza scrittura alcuna, salvi che in quelli sara sette scritti, che l'uno harrà scritto suxo la borsa trecento, l'altro la borsa de li ducati cento, e l'altro de la borsa de' ducati settantacinque, l'altro la borsa de li ducati cinquanta, l'altro la borsa de li ducati trenta, l'altro la borsa de li ducati venticinque, e l'altro la borsa de li ducati venti.
Et questi scritti serano voltati molto bene sotto sopra tutti cum quelli non serano scritti. Poi el dicto Xphôro overo li deputati per l'illustri capitanei, stando di sopra la baltresca, vedando ogni persona, domanderà un qualche bono homo, metterà la corba quale haverà dentro li scritti de li huomini che harranno messi li denari de la mane dritta, e l'altra corba ne la quale serano gli altretanti scritti bianchi, et quelli sette de le borse metterà da la mane sinistra. E poi quello bono homo torrà suso alla ventura duy scritti, cioè l'uno fora de una corba con una mane, e uno fora de l'altra corba cum l'altra mane, tutti duy li scritti ad un tratto, e drieto a questo bono homo seranno due altre fidate persone ellecte da li illustri capitanei e non suspecte a persona alcuna l'uno de la mane dritta, l'altro da la mane sinistra, li quali torranno quelli duy scritti quali quello bono homo harà tolto suxo ogniuno da la sua parte e il lezeranno, odando ogni persona quelli tali scritti, verbi grazia l'uno scritto dirà Gioanni da Como, e l'altro nagotta, o vero bianco, quello tale Gioanni da Como per quello scritto serà fora di ventura de havere le borse, et serà infilzato, quello scritto che non avrà suxo nagotta, che sera bianco, sera scarpato; poi quello bono homo ne torra suxo duy altri scritti in quella medesima forma, et quelli duy leveranno verbi gratia l'uno scritto dirà Antonio da Pavia, l'altro serà bianco, similmente sera facto de questi duy, cioè l'uno infilzato, e l'altro scarpato. Et così andara quello bono homo tollendo suxo duy scritti per volta, tanto che torrà suso uno de li scritti de le borse; verbi gratia avrà tolto uno scritto che dirà Petro da Lecco farè, l'altro dirà la borsa di trecento ducati, quello Petro da Lecco avrà guadagnato quella borsa de li ducati trecento, la qual borsa subito in presentia de tutti sarà data per lo dicto Xphóro Taverna al dicto Petro da Lecco. Poi quello bono homo anderà tolendo suxo le scritte a duy a duy in fino che saranno tolti fora tutti quelli sette scritti delle borse et a chi toccarà la ventura, si sarà date le borse, come è dicto de la prima.
E pertanto anche pare che a chi sia possibile da mettere uno ducato fuosse poco savio a non metterlo, peroche una persona ricca a mettere uno ducato o duy o dece poco li serà sebene no avesse la ventura, avendola tanto migliora una persona mezzana, el simile a una persona povera che in estremo non fusse miserabile seria piuttosto da mettere che li altri, peroché per uno ducato che metta serbandolo in capo dell'anno non se ne accorgerà, a tanto in za come in la li bisogna stentare et lavorare, et se per ventura Dio li presentasse la grazia che avesse una de quelle borse, massime la magiore, non stentereve mai più, si che chi è savio porterà dinari, avisando tutti che li denari che avanzaranno et che se haveranno saranno della comunità nostra, si che quelli che non avranno la ventura delle borse, potranno far rasone averne donati a la comunitate uno ducato, el quale se po appellare averlo donato a se medesimo.
Et se fosse alcuna persona che non intenda bene vada al banco del dicto Xphôro Taverna tesaurario a questo, che in breve gliel darà ad intendere a bocca. - Innocentius Cotta Prior - fu pubblicato questo avviso da Antonio di Areno tubatore. - Gride dal 1447 al 1450, volume B., foglio 65 tergo.
[659] Giornalmente sempre più ammirava tanto la di lui prudenza, la facondia e gli egregi costumi, quanto la bellezza della persona e la maestà del volto e del portamento. Simonetta, lib. 2, col. 202, R. I., tom. XXI.
[660] Simonetta, Vita di Francesco Sforza, Rer. Ital., tom. XXI, lib. I, col. 183.
[661] Il citato Simonetta,
lib. 1, col. 187 dice: Quo nuntio Franciscus gravissime affectus, dolorem
immensum per summam constantiam supprimit, seque a lachrymis singultibusque
continet. Sed quod maxime expediebat, suos a pugna, rejectis hostibus, revocat.
Dal
quale avviso gravemente afflitto Francesco, con
[662] Di quei disordini
così parla il Decembrio: - Interea Mediolanenses varie inter
se fluctuabant. Quidam, victoria elati, Franciscum ad astra praecipuis laudibus
ferebant; alii verbis dumtaxat libertatem praedicabant, verum impensè
onus curamque detrectabant. Erant quibus servitus libertate potior videretur
esse... Quibus autem vivendi cum principe consuetudo inerat, quo in numero vir
insignis Petrus Pusterla et alii fuere, Franciscum, veluti Philippi filium et
afflictis rebus succurrere potentem, magnopere laudabant. E contra, quibus mercatorum familiaritas et usus
aderat, quorum minima pars fuit, Venetos, ut divinos quosdam homines,
praeponendos dictitabant. Nihil in medium consulebatur; sed ut vulgo mos
est, studia in contraria incerte scindebantur. Sic, confusis civium
voluntatibus, plebs omnium ignorans, libertatis dumtaxat nomen sibi adsciverat,
et nullo salubri consilio perducta, in optimum quemquam ferebatur, etc. - Rer. Italic. Script., tom. IX, column. 1040, cap.
XXXV. Decemb. Vita Franc. Sfortiae.
Intanto
i Milanesi variamente nei loro avvisi ondeggiavano. Alcuni, gonfi per la
vittoria, con grandissime
[663] Novariam, Parmam, Dertonam, Alexandriam, aliasque urbes ditioni suae subdit. - Decembr. Vita Franc. Sfortiae, Rer. Ital., tom. XX, column. 1041, cap. XXXVI.
(Alla sua giurisdizione assoggettò Novara, Parma, Tortona, Alessandria ed altre città).
[664] Il proclama è il seguente - (*) 1448 die XVI novembris - Li illustri signori capitanei et diffensori de la libertà de la illustre ed excelsa comunità di Milano. Considerate le summe et excelse virtute, probitate et magnanimitate et firma costantia d'animo, la experimentata et inconcussa fede et la longa experientia de le cose bellice et mestiero de arme, et lo braxado amore et admirabile devozione che porta et ha portato et demonstrato con admirabile opere et experientia infinite a questa illustre et excelsa comunità de Milano lo illustre et magnifico messere Carlo da Gonzaga cavallero et marchese etc. degnamente l'hanno constituto deputato, et electo capitano del popolo de questa illustre città, e de la libertate nostra gloriosa, acciocché possa provvedere et ordinare tutte quelle cose che siano a salute, tutela e conservazione del dicto populo et de la sancta libertà nostra. Il perché si ha facta publica crida per parte de li prefati signori capitani per notitia et mandamento a ciascheduno de quale grado, stato et conditione voglia se sia in la dicta città et borghi in li lochi consueti debia obedire a li commandamenti del prefato messere Carlo in tutte quelle cose che concernano il bene, l'honore, conservazione, tutela et augumento de la dicta comunità de Milano, et libertà, sotto pena pecuniaria et personale (a) usque ad ultimum suplitium inclusive, secondo si contiene ne la lettera del dicto capitaneo ad esso messere Carlo concessa per li prefati signori, (b) et ulterius, sotto pena all'arbitrio de li prefati signori capitanei a chi contrafarà a questa soa crida et intensione - (c) Joannes de Meltio prior - Raphael - Cridata ad scalas palatii et per loca solita civitatis per Bertolium de Forlivio trombettam, die Jovi 14 novembris, sono tubarum et pifferorum praemisso. Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 151 nell'archivio della città.
(*) 1448, il giorno XVI novembre.
(a) Fino all'ultimo supplizio inclusivamente.
(b) Ed ulteriormente.
(c) Giovanni di Melzo priore - Rafaele - Promulgata alle scale del palazzo, e per i soliti luoghi della città, da Bertolio da Forlì, trombetta, il giorno di giovedì 14 di novembre, premesso il suono delle trombe e dei pifferi.
[665] In Milano le cose
erano in cattivo stato. Non si può meglio conoscerle, che dalle carte
autentiche di quei tempi; e tale è la lettera di Giovanni Teruffino ai
signori Rafaele e Barnaba Adorni, genovesi, che ritrovasi nell'archivio di
città - Codice C, fogl. 69. - Essa così dice: - (a) Magnifici
Majores honorandissim.i, - Quamvis altro di nuovo non me occorra, tamen
acciò non vi maravigliate che niente scriva, scrivarò poco da poi
le altre lettere a voi scritte. Io non sono andato dalla excellentia del conte,
tum peroché essa se lungo da qui, tum per la novitate de Francesco
Piccinino occorse, ma avuto Maragnano, che spero con la gratia de Dio sera
infra pochi dì, delibero di andare a la excellentia sua, tam per lo
compromesso de Zenovesi ad Galeotto, quam per altro, e sono certo che la
disposizione sua sia eadem. Io desidero che si manda ad executione lo facto de
Bosco, secundo che altra volta ne dicesti. Li facti di Milano breviter hanno
questa conditione. Frumento ghe pochissimo et hanno vetato quelli signori che
pane di frumento non se venda, perciocché quello poco frumento lo quale
gli è restato voleno per li soldati, ma non gli può bastare per
dexe; di segale e miglio hanno per tutto il mese che viene. Dapoi sette
dì che Francesco Piccinino e lo fratello andero a Milano non gli
hanno dato dinari, eccetto che due mila ducati de molti promissi.
Appropinquandosi apresso Milano la excellentia del conte come se bene, havuto
Marliano, verosimile è che Milano non se tegnerà quindici
dì per mancamento e de victuaglie, et de dinari, et de strame, e per
infinita gente malcontenta. Dio governa la cosa in modo che questa nostra
provincia habbia quiete. Bene valete - (b) Dat. Papiae, die XXVIII aprilis 1449. - Vester famulus Teruffinus - a
tergo: Magnificis Majoribus honorandis Dominis Raphaeli et Barnabae Adornis et
Petro Spinulae etc.
(a) Magnifici maggiori onorevolissimi.
(b) Dato in Pavia, il giorno XXVIII di aprile 1449. - Vostro servo Teruffino. Su la coperta: Ai magnifici maggiori onorevoli i signori Rafaele e Barnaba Adorni e Pietro Spinola, ecc.
[666] Sei giorni prima che
Milano accogliesse Francesco Sforza, Gaspare Vimercato uscissene dalla
città con apparenza di volersi abboccare con Pandolfo Malatesta,
comandante delle truppe di Venezia, e probabilmente concertò in vece la
dedizione al conte. Il passaporto che gli si consegnò trovasi nel codice
C, foglio 135 tergo, nell'archivio di città, e dice: - Per illustres dominos
Capitaneos et defensores libertatis Illustris et Excelsae Comunitatis Mediolani
concessa est licentia strenuo Gaspari de Vimercato exeundi hanc Civitatem cum
famulis suis ad numerum usque octo, suisque valixiis, bulgis, rebus et bonis,
et hoc tute, libere et impune, omnique reali et personali impedimento prorsus
amoto, dummodo se non conferat ad partes hostiles, et vadat ad illustrem
dominum Sigismundum Pandulphum de Malatestis Ariminensem ac illustrissimi
dominii Venetorum etc. Capitaneum Generalem. Ambrosius Prior - Antonius,
MCCCCL, dei XX februarii.
Dagli illustri signori capitani e difensori della libertà della illustre ed eccelsa comunità di Milano viene conceduta licenza al valoroso Gasparo di Vimercato di uscire da questa città con i suoi domestici fino al numero di otto, e con sue valigie, bolge, cose e beni, e questo sicuramente, liberamente ed impunemente, rimosso qualunque impedimento reale e personale, purché egli non si rechi alle parti dei nostri nemici, e vada dell'illustre signore Pandolfo dei Malatesta riminese, e capitano generale dell'illustrissimo dominio dei Veneti, ecc. Ambrogio Priore. - Antonio, MCCCCL, il dì X febbraio.
[667] 1449, die 27 mensis
decembris. (1449, il dì 27 del mese di dicembre.) Al nome del
Omnipotente et Eterno Dio et del gloriosissimo nostro patrone sancto Ambrosio
deliberando li illustri signori capitanei et difensori della libertate che
ciascuno quale metta la persona sua a pericolo per fare uno relevato servitio a
tutta questa nostra patria, la quale è indegnamente afflicta da li
nostri inimici, ne abbia merito e premio qual sia certo grande et honorevole,
fanno noto a ciascuna persona di qualunque stato, grado et conditione se sia,
che chi ammazzarà il perfido conte Francesco Sforza, overo ferirà
mortalmente, guadagnarà ducati dece millia d'oro, e dece millia in possessione,
quali instantemente gli serano numerati contanti, et dati; et se quella persona
sera rebelle o bandezata sarà cavata de ribellione et de bando, et
restituiti i soy beni, et havera li dicti premii, et se quella persona sera
squadrero o conductero de gente d'arme o di majore conditione, ultra li dicti
premii, gli sera dupplicata
[668] Vol. C, gride dal 1447 al 1450, foglio 107.
[669] Codice C, foglio 115.
[670] 1450, die 23
februarii - (1450, il dì 23 febbraio.) Se in ogni tempo debbe
cadauno voglia essere chiamato fidele e devoto cristiano guardarse da fare
contro li comandamenti del nostro Signore Dio, molto più è
necessario emendare la vita nel tempo della tribulazione et afflictione per
impetrare gratia et misericordia da la divina bontà. Intendando aduncha
li illustri signori capitanei et deffensori de la libertà nostra
prohibire quanto sia possibile, etiam mediante le pene et punitione temporale,
la disonestà et detestabile vita de quelli tengano femine e soa posta,
et etiandio alcuni quali non temendo il juditio divino, presumano biastemare
Dio e la sua gloriosa Madre et li suoi sancti e sancte, li quali duy gravissimi
peccati grandemente et pubblicamente si commettono in questa città et in
li borghi soi, non senza evidentissimo pericolo de provocare majore ira de Dio
contra de noi tutti, denno fare crida et bando che niuno de qualuncha stato,
grado, o conditione voglia se sia dal majore al più minimo ardisca ne
presuma in questa città borghi et jurisdictione soa tenire in casa sua
ne fora de casa femine o sia concubina a soa posta per qualuncha modo se sia,
imo cadauno l'havesse o tenesse fra tri dì proximi li debbia avere
cazate da se, et esse femine et concubine debiano levarsi et aut spazare la
città, aut redurse in loco honesto et tale se intenda che facciano bona
et correcta vita, sotto pena irremissibile de fiorini venticinque a cadun uomo
quale sera trovato contrafare, tante volte da essere pagati, quante volte
contrafarà, et a cadauna femina contrafaciente da essere scovata
pubblicamente per tutta la città, e poi reducta al publico loco, o
cazata fora de
[671] Le cose dei Milanesi
cominciarono ad andare al peggio. Perciocché privi di duci, discordi essendo
tra di loro i cittadini, giornalmente ripullulavano consigli peggiori dei
primi. Non potevano le pubbliche gravezze dal popolo convenevolmente
governarsi; non potevano i ricchi sostenere i pesi; non poteva alcuno eseguire
i comandi: ma come una flotta dispersa dalla procella, qua e là la plebe
era portata dalle onde accavallate. Se alcun raggio di speranza splendeva
tuttora nei soldati che rimanevano, turbato era dall'ambizione di Carlo
Gonzaga, il quale al dominio del popolo ingiustamente aspirando, tutte le
cose con lungo sospettare intralciava. Per la qual cosa tutto era squallido per
il timore e per
[672] Macchiavelli, sulla prima Deca di Tit. Liv., libr. I, cap. XVII, p. 87.
[673] Nel fabbricar la casa
de' signori Delfinoni vicino alla colonna di porta Nuova scavossi nel 1774 un
sasso, su cui leggesi: Franciscus Sfortia Vicecomes, dux, et animo invictus
et corpore, anno MCCCCL ad IIII Calend. Martias hora XX dominio urbis Mediolani
potitus.
Francesco Sforza Visconti, duca, invitto d'animo e di corpo, l'anno MCCCCL il giorno IV avanti la calende di marzo all'ora vigesima s'impadronì del dominio di Milano.
[674] Questo è il giorno che il Signore ci ha dato; esultiamo e rallegriamoci in esso.
[675] All'archivio pubblico può esaminarsene da chi lo voglia, l'originale.
[676] Osservando come tutti i
solenni ingressi e dei duchi e dei governatori e degli arcivescovi si fecero
sempre dalla porta Ticinese, mi sembra probabile che quest'usanza discenda sino
dai tempi de' Longobardi, quando Pavia fu la capitale e la città regia;
e forse l'arcivescovo, dopo d'essere stato riconosciuto dal sovrano o suo
luogotenente in Pavia, di là spiccavasi per la pubblica cerimonia.
Quando s'assoggettò la chiesa milanese a Roma, e l'elezione e
consacrazione si trasferirono in Roma, tutto cambiossi, fuori che questa
avvertenza non s'ebbe di farlo entrare per
[677] In quei contorni trovasi una via che oggidì pure conserva il nome de' Piatti.
[678] I due soli però imminenti alla città furono perfezionati.
[679] Histoire de François I, roi de France, dit le grand roi et le père des lettres. Par M. Gaillard de l'Accadémie des Inscriptions et Belles Lettres. - A Paris, chez Saillant et Nyon, tome I, page 105.
[680] Alloggiarono nel palazzo altre volte del conte Carmagnola, ora detto il Broletto in cui si radunano i corpi municipali.
[681] Rivolto essendosi quindi all'ornato pubblico della città, e con arena e mattoni riparate avendo le strade, volle con somma magnificenza che dai fondamenti si erigesse il castello della porta di Giove, atterrato da prima per popolare tumulto. La corte altresì dei primi duchi, già cadente per vecchiezza, non solo ristabilì, ma ampliò ed arricchì di ornamenti. Comandò ancora che, scavandosi il terreno, dall'Adda si derivasse per venti miglia un acquedotto, per mezzo del quale i campi vicini fossero irrigati, e al popolo non mancassero le derrate necessarie. Decembrius, Vita Franc. Sfortiae, cap. XL, Rer. Ital., tom. XX, col. 1046.
[682] Dalla provincia della Martesana, per cui passa, detta forse anco dal Dio Marte.
[683] Veggasi il Benaglio, Relazione istorica del magistrato, che riferisce il decreto del duca Francesco, che è il seguente: - (a) Franciscus Sfortia Vicecomes, dux Mediolani etc. Papiae Angleriaeque comes ac Cremonae dominus. Cum pro beneplacitis nostris et subditorum nostrorum comoditate fieri debere ordinaverimus Navigium discensarum ex Abdua ad hanc inclitam Civitatem nostram Mediolani, deputaverimusque nobilem virum Ruffinum de Prioris, aulicum nostrum praeclarissimum Commissarium, qui cum avisamentis ac partecipatione Bertolae de Novate, dilecti nostri Mediolani, habeat omnia expedire ed expediri facere quod ad dicti Navigii perfectionem attineat, eligendum duximus. Indi destina un tesoriere separato per quest'opera, a cui dalla ducal Camera debbasi sborsare illimitatamente qualunque somma, (b) Dat. Mediolani, die primo juli 1457. Veggasi pure il Settala, Relazione sul navilio della Martesana, ediz. del 1603, p. 59.
(a) Francesco Sforza Visconti, duca di Milano. ecc. conte di Pavia e di Angera, e signore di Cremona. Siccome per il nostro buon piacere e per il comodo dei nostri sudditi avevamo ordinato che si dovesse fare un naviglio che discendesse dall'Adda fino a quest'inclita città nostra di Milano, ed avevamo deputato il nobile Ruffino dei Priori, nostro illustrissimo commissario di corte, che, col consiglio e colla partecipazione di Bertola di Novate, diletto nostro cittadino milanese, debba spedire e fare spedire tutto quello che appartiene alla perfezione del detto naviglio, abbiamo giudicato di dover eleggere ecc.
(b) Dato in Milano, il dì primo di luglio 1457.
[684] Così Paolo Frisi,
nel secondo tomo delle sue opere stampato in Milano dal Galeazzi 1783, p.
(Nota di A. F. Frisi).
[685] Tutto ciò più esattamente può leggersi nell'opera del citato Frisi, libro terzo, capo terzo de' canali navigabili.
[686] Nei registri civici delle lettere ducali del secolo XV, foglio 223, leggesi la concessione fatta dal ducal magistrato il 10 decembre 1471 di una bocca d'acqua del naviglio della Martesana da estraersi vicino al Redefosso, in beneficio dell'Ospedal grande e dei consorti Ghiringhelli, Bossi e Rebecchi, essendo commissario del naviglio l'ingegnere Pietro da Faino del Malpaga. Altre concessioni poi si trovano nei libri dell'ufficio Panigarola, Registro F., foglio 265. Vedesi accordata di più l'acqua al convento de' frati di Santa Maria degli Angioli, l'anno 1468, per ducal concessione. Il che mostra come sin d'allora entrasse l'acqua del Naviglio in Milano. Nell'ufficio degli statuti Panigarola trovasi pure il decreto di Bianca Maria, vedova duchessa e tutrice del duca Gio. Galeazzo, fatto li 11 settembre 1467, che invita ad acquistare dalla ducal camera l'acqua del naviglio della Martesana.
[687] Simonetta, nella vita di
Francesco Sforza, lib. XXXI. Rer. Ital. tom. XXI, col. 778 così
dice: Ea autem utebatur ingenii acrimonia, ac gravitate, prudentia,
atque consilio, ut nihil neque in bellicis neque in urbanis rebus iniret umquam
quod minus fuisset diligentissime antea metitus, omnemque prospexisset eventum,
et quod decreverat innata quadam animi magnitudine et incredibili celeritate
conficiebat. Mirum dictu est quam abstineret illecebris, humanisque
voluptatibus, atque cupiditatibus: et quod rarissimum in aliis invenies, cum
neque in rebus adversis, si qua iniquitate fortunae acciderant, deprimebatur
animo, ita ne in secundis quidem efferebatur. Quin potius, sicuti in adversis
non frangebatur, ita etiam in prospera fortuna modestissimus semper fuit; et
alios ab omni contumelia injuriaque continebat. Et ne id quidem mirum, cum omnibus de se praestaret
exemplum, qui cum maxime vinceret, ultione non utebatur.
Era poi dotato di tale penetrazione d'ingegno, di tale gravità, prudenza e avvedutezza, che nulla intraprendeva giammai nelle cose tanto militari, quanto civili, che diligentissimamente, benché fosse piccola cosa, non avesse da prima considerato, e tutto ne avesse pronosticato l'evento; quelle cose poi che determinato erasi di fare, compieva con una certa innata grandezza d'animo e con incredibile celerità. Mirabile è a dirsi, quanto lontano si tenesse dalle seduzioni e dalle umane voluttà e cupidigie, e quello che rarissimo troverassi in altri, siccome nelle avversità, se mai alcuna per iniquità di sorte ne incontrava, non perdevasi di spirito, così né pure nelle prospere punto non insuperbivasi. Che anzi, siccome nelle cose avverse non si avviliva, così ancora nella prospera fortuna fu sempre modestissimo, e gli altri tratteneva da qualunque ingiuria o contumelia. Né questo invero è strano, mentre a tutti egli stesso porgeva l'esempio, e avendo questo grandissima forza, d'uopo non era che facesse uso di gastighi.
[688] Ma oserei certamente affermare che, dopo Giulio Cesare nissun uomo troverassi avere avuto l'Italia, che a buon diritto si potesse col solo Francesco Sforza paragonare. Il quale per verità, vinto avendo sempre, né mai essendo stato vinto, finì i suoi giorni in modo che a tutti non meno lasciò un vivo desiderio, che un retaggio di lagrime. Rer, Italic. Script., tom. XXI, col. 779.
[689] Corio.
[690] Nella mia raccolta ho alcune monete di Milano che portano il nome d'entrambi.
[691] Francisci Cicerei Epistolar., vol. II, p. 174, Mediol. 1782, stampa dell'Imp. Monast. di Sant'Ambrogio.
[692] All'anno 1469.
[693] All'anno 1473.
[694] Gli scrittori oltramontani conservano una memoria favorevole del re Mattia I. È da essi risguardato come un principe generoso, guerriero, politico, religioso, amico delle belle arti, uomo colto; ed a lui si attribuisce la biblioteca di Buda, corredata de' migliori libri greci e latini. Il Corio però narra avvenimenti accaduti ai suoi tempi e pubblici.
[695] Di questo Cola Montano si trova nell'archivio pubblico un contratto ch'ei fece l'anno 1473 il 6 d'agosto, rogato dal notaro Antonio Zunico. Il contratto è con uno stampatore tedesco di Ratisbona chiamato Cristoforo, ed ha per oggetto una società per istampare. Si vede che Cola Montano era figlio di Giacomo, ed abitava sotto la parrocchia di San Rafaello; ma non si dice che fosse Bolognese.
[696]
[697] Eterna vivrà la fama di sì gloriosa impresa.
[698] L'anno seguente si ribellarono di nuovo; poi un'altra volta nel 1488 si assoggettarono.
[699] "Mentre bramo salvar la patria e il duce,
Da scaltri traditor son tratto a morte.
Ma celebrar lui debbe immensa lode,
Che, per serbar la fè, sprezzò la vita."
[700] Rogato dai notai Francesco Bolla e Candido Porro.
[701] Cfr. Apostolo Zeno, Dissertazioni Vossiane, vol. II, art. Bernardino Corio. (Nota di A. F. Frisi).
[702] Queste nozze erano già state concertate undici anni prima, cioè nel 1480, mentre la sposa, figlia d'Ercole d'Este, aveva sei anni.
[703] Risplendenti di toghe purpuree e di scarlatto.
[704] Coi petti ritagliati al disotto delle mammelle, e col pallio alla maniera gabina, scendendo dall'omero destro al lato sinistro.
[705] Con moderazione e venustà.
[706] Il Corio dice: Lodovico Sforza, già inducto da Hercule Estense e da la mugliere, in tutto cominciò aspirare alo intero governo dil Stato; all'anno 1489. Rispetto poi alle rivalità dice, all'anno 1491, Quivi tra Isabella mogliere dil duca e Beatrice, per volere ciascuna de loro prevalere ad altra tanto di loco et ornamento quanto in altra cosa una tanta emulazione e sdegno cominciò tra ambe due, che finalmente, come sarà demostrato nella parte seguente, sono state causa de la totale eversione dil suo imperio.
[707] Il Corio lo attesta all'anno 1493; il che conferma quanto antecedentemente accennai sulla venuta di Galeazzo Maria dalla Francia a Milano, cioè che vi fossero stazioni regolate pel cambiamento de' cavalli.
[708] Antonio Grumello, nella cronaca MS, che ritrovasi presso il signor principe Alberigo di Belgioioso d'Este al foglio II, disse: Ritrovandosi il gallico re in la città de Pavia el intexo Jo. Galeaz Sfortia, ducha di Milano, esser gravemente infermo di una febbre tossichata, vuolse sua maestà vederlo: el prelibato ducha humanamente salutando sua maestà, et re gallico confortandolo a la salute, et che sua maestà mai hera per mancharli. Vedendo Jo. Gz. Sfortia esser al fine di sua vita, ricomandato el suo unigenito figliuolo Francesco Sfortia, conte di Pavia, al gallico re, pregando sua maestà lo voglia aceptare per suo figliolo et con humanissime parole fu acceptato da esso re gallico, et non dubitasse che mai hera per mancarli e mantenerlo in stato felicissimo.
[709] Il prefato Giovanni Galeazzo riconobbe dal popolo milanese il ducato stesso e la contea, il che tornò in grandissimo pregiudizio dell'Impero, e perché è di consuetudine del Sacro Romano Impero di non mai investire alcuno di qualche Stato da esso dipendente, se questo egli usurpò col fatto, e da altri lo abbia riconosciuto. Il Corio gli dà per extensum all'anno 1494.
[710] Cambiata, l'anno 1783 per servire al monte di Santa Teresa, recentemente collocatovi. E qui vuolsi notare che gli scudi in bianco marmo rappresentanti i duchi di Milano, che servivano di ornato alla facciata di questa casa, furono preservati dal nostro storico, e collocati in ordine nel primo cortile della sua casa paterna, ivi dicontro. (Il Continuatore).
[711] La chiesa della madonna di San Celso è veramente il primo monumento e il più antico di esatta architettura. La facciata dell'arcivescovado e il palazzo dell'arcivescovo si formarono dall'arcivescovo Guido Guido Antonio Arcimboldi. Il claustro di Sant'Ambrogio si fabricò dal cardinale Ascanio Sforza. Veggasi il Lattuada, Descrizione di Milano, tom. IV, p. 308. Due altre chiese si fabbricarono in que' tempi, cioè la Rosa e la Passione, meritevoli di essere osservate. Anche la cupola delle Grazie è di quei tempi, e si assomiglia alla prima maniera della casa Marliani.
[712] Raccolta Milanese stampata presso Antonio Anelli 1756, 2 vol. in 4° Nel primo volume, dal foglio 2 fino al 22, trovansi parecchi sonetti di messer Gaspare Visconti, con alcune notizie intorno all'autore. (Nota di A. F. Frisi).
[713] Di questi broccati pesantissimi se ne veggono tuttora in un vecchio paramento che conservasi presso i Domenicani delle Grazie. La statua di Beatrice d'Este, che è nella Certosa di Pavia, ci mostra la ricchezza e il peso di quei vestiti di allora. L'immagine di Beatrice vedesi pure in un quadro della scuola di Lionardo a Sant'Ambrogio ad Nemus. Ella vi è in ginocchio coi due suoi figli Massimiliano e Francesco, e collo sposo Lodovico il Moro.
[714] Queste poesie furono da me copiate da un antico codice manoscritto originale dell'autore medesimo, il quale si custodisce fra molti altri manoscritti nella pregevolissima collezione del signor principe Alberico di Belgioioso d'Este. In esso leggonsi più centinaia di sonetti ad imitazione del Petrarca. Leggesi pure una commedia in ottava rima dello stesso Visconti; poesie, a dir vero, di poco valore.
[715] L'autore Gaspare Visconti mori all'età d'anni 38, il giorno 8 di marzo l'anno 1499. Vedi Argelati Biblioth. Scriptor. Mediolan., tom. II, parte prima, col. 1604.
[716] «Sparsi i campi al veder d'armi e d'armati,
Scossa, tremò tua pace, o Lodovico;
Sorgi, a me disse, tutt'intorno suona
Il ferro ostil, e me cacciata in bando:
L'armi dispon chi mi ripose in seggio.
Pei santissimi dritti ora te invoco
Del veneto senato, e me del sommo,
Se il puoi, periglio a liberar t'appresta.
Risposi allor: No, non temere, o Diva,
Lodovico t'adora, e del tuo Nume,
Più ancor di quel di Giove, egli gioisce.
Né già guerre temer, che ne son queste
Sol le sembianze e i simulati giuochi:
Né qui armeggiar, se non a pompa, lece.
Or dunque vanne, e abbandonando il cielo,
Orna la terra, o almen, poiché tue veci
Compier questi sol può, se in l'alte sedi
Ami recarti, in terra e in mar difendi
Gli Sforza fidi, in guerra e in pace egregi».
[717] Tomo II, delle Opere, Milano, presso Galeazzi 1783, p. 468.
[718] Tutte queste notizie sono tratte dal vol. I, num. 17 della collezione illustre del signor principe Belgioioso d'Este. Quell'antico MS. contemporaneo dice di quest'ultimo segretario camerale: se faceva per esso secretario uno quaterneto de tutti li salariati, quale se faceva sottoscrivere da l'excelentia del duca, insieme con un rotulo, che se domandava la lista grande de li salariati, in la quale per via de summario, era descripto tutta la spesa del Stato, la quale se mandava inclusa in una lettera ducale expedita per el dicto secretario alli magistri de le entrate ordinarie et thesaurero, commettendoli che facesseno fare la expeditione de li pagamenti secundo era annotato in esso quaterneto et lista alli tempi debiti et secundo l'ordine de la corte; e così si faceva.
[719] 2 Il Prato asserisce che
le entrate ducali ascendessero nel
[720] Vol. I, Miscellanea, num. 14.
[721] Oltre il Corio, veggasi Gaillard, Histoire de François Premier. - Edizione seconda di Parigi, presso Saillant et Nyon 1769, tom. I, p. 137.
[722] Il Tesoriere era allora il presidente della camera, e cotesto Landriano che adulò il duca, fu il medesimo che nel Consiglio ducale lo fece acclamare, ad esclusione del legittimo successore.
[723] Veggasi la Cronaca di Antonio Grumello pavese. MS. del signor principe di Belgioioso d'Este, foglio 19, tergo, e foglio 20.
[724] MS. di Antonio Grumello, pavese, presso il signor principe di Belgioioso, foglio 22 tergo.
[725] Dove oggidì stanno i Teatini.
[726] Quaranta damiselle milanesi non già dell'inferiore: così il Prato.
[727] Giovanni Andrea da Prato è l'autore che io scelgo per guida, or che il Corio cessa di raccontare. Da esso Prato, che conservo manoscritto, ho tratti i minuti avvenimenti che ho creduto di non omettere, poiché mostrano il carattere di quel buon principe.
[728] Perpetuo
edicto et inviolabili decreto... statuimus, ordinamus, et lege perpetuo
valitura stabilimus.
(Con perpetuo editto e decreto inviolabile... stabiliamo, ordiniamo e vogliamo, con legge che debba valere in perpetuo)
[729] Damus et
concedimus per praesentes potestatem seu auctoritatem decreta nostra ducalia
confirmandi, et infirmandi, dandi omnes quascumque dispensationes, Statutorum
et ordinatorum confirmationes etc. E rispetto alle concessioni del Re
medesimo dice: nisi prius fuerint in dicto senatu nostro praesentatae,
interinatae, et verificatae, nullius firmitatis, effectus vel momenti esse
poterunt; easque, tam concessas quam concedendas, decerminus per praesentes et irritas
inanes.
(Diamo e concediamo, colle presenti, podestà o sia autorità di confermare e di annullare i nostri decreti ducali, di concedere ogni qualunque dispensa, di confermare gli statuti e le ordinazioni ecc... Se da prima non saranno nel detto senato nostro presentate, interinate e verificate, non potranno essere di alcuna forza, effetto e conseguenza; e colle presenti dichiariamo irrite e nulle, tanto le già concedute, come quelle che potessero concedersi).
[730] Proruppe in ira così grande, che sembrava avere perduta tutta la prudenza.... E tardi conobbe che, tumultuando il popolo, più vantaggiosa riesce l'umanità e la mansuetudine, che l'arroganza.
[731] Tres vultus Trivultio.
(Tre volti ha il Trivulzio).
[732] Egli era al servigio degli Aragonesi in Napoli, mentre essi minacciavano Lodovico Sforza: quando poi Carlo VIII conquistò quel regno, il Trivulzio si pose allo stipendio della Francia, e molta parte ebbe nell'aprire il varco al re nei passi di Fornuovo alla Val di Taro.
[733] Corio, all'anno 1499.
[734] Del Corte così scrive il Guicciardini al lib. IV, raccontando il prezzo ch'egli ottenne; ma con tanta infamia, e con tanto odio, eziandio appresso ai Francesi, che, rifiutato da ognuno come di fiera pestifera, e abbominevole il suo commercio, e schernito per tutto dove arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla vergogna e dalla coscienza, potentissimo e certissimo flagello di chi fa male, passò non molto poi per dolore all'altra vita.
[735] Tom. II, p. 117.
[736] Quod ad
Rempublicam attinet, jam licet omnibus intueri quod in magno omnia ancipiti,
seu potius praecipiti pendent. Sfortianos constat sexdecim milium peditum
delectum ex Elvetiis fecisse, mille cataphractos ex Germania Burgundiaque
contraxisse, tormenta aenea, machinas, pilas, pulveresque coemisse, atque
comunis opinio est quod medio januario superatis Alpibus Gallos invadent, atque
eos pellere aut profligare conabuntur. E contra comes Lignyaci, cujus in re bellica auctoritas suprema est (licet proregis nomen Jo. Jacobo
Trivultio datum sit) omnes cataphractos apud Comun cogit.... E
continua a spiegate le disposizioni per la difesa, che facevansi dai Francesi; cujus
exitum utinam Mediolanenses (quae foret insolita eorum prudentia)
expectarent! At plurimi sunt, maxime ex Gibellina factione, qui, more
impatientes, jamjam civitatem scindere, amicos, affinesque unire, armaque
capere non dubitant, quod dicant memoratum Trivultium statuisse capita ipsius
Gibellinae factionis perdere, alios obsides in Galliam mittendo, alios
proscribendo, alios in custodiis habendo; dicentes propterea se, armatos, vim
vi repellere velle, hujusmodique armis non in regis perniciem aut damnum, sed
tuitionem et salutem, si expediat, se usuros jactantes. Huic quasi seditioni
fomentum non exiguum praestant memoratus Lignyaci comes et Lucionensis
episcopus, Senatus Cancellarius et justitiae, ut ajunt, caput; qui ambo, ut
sunt Trivultii aemuli, aegre ferunt quod apud eum remaneat illud nudum proregis
nomen; sperantque hac ratione Regem coactum iri ut Trivultium deponat, cum
intelliget, eo etiam solam sceptri imaginem retinente, seditionem extingui
minime posse: iique ambo, quasi fatentes eam esse pravam et subdolam Trivultii
mentem in Gibellinos, quam ipsi verentur, nec affirmantes longè alienam
esse regis voluntatem, qui nullo discrimine omnes Gibellinos Guelfosque habet,
non reprehendunt, sed quadam taciturnitate probant, Gibellinosque armari ac
stipari, seditionem in dies magis et magis augeri; quum et Trivultius et omnes
fere Guelfi partes ejus secuti, non minus quam Gibellini, se muniant clientibus
et armis, et vim nedum repellere, sed etiam inferre parent. Prosiegue
antivedendo i mali, che ne nacquero in fatti, e conclude la lettera
così: tunc, inquam, cognosceremus quanto subjectis populis salubrius
sit contendentibus de imperio principibus, spectatores, quam auxiliatores esse.
(Per quello che spetta alla repubblica, si può ora da tutti riconoscere, che tutte le cose pendono in uno stato dubbioso o piuttosto precipitoso. Egli è certo che gli Sforzeschi hanno arruolato sedicimila fanti tra gli Svizzeri raccolti; mille cavalli di grave armatura dalla Germania e dalla Borgogna, comperati cannoni di bronzo, macchine, palle e polvere, e la comune opinione è che alla metà di gennaio, superate avendo le Alpi, assaliranno i Francesi, e si studieranno di cacciarli o di sconfiggerli. All'opposto il conte di Ligny, che ha il supremo comando nelle cose militari (benché il nome di vice-re sia dato a Giovan Giacomo Trivulzio) tutti i suoi cavalli di pesante armatura riunisce presso Como... Il di cui esito volesse il cielo che i Milanesi (il che sarebbe una prudenza in essi insolita), aspettassero! Ma moltissimi sono, massime della fazione ghibellina, che, impazienti di ritardo, non dubitano già a quest'ora di dividere la città, di riunire i loro amici e congiunti, e di pigliare le armi, perché dicono che il memorato Trivulzio abbia stabilito di rovinare i capi della stessa fazione ghibellina, mandandone altri ostaggi in Francia, altri proscrivendo, altri ritenendo nelle prigioni; soggiungendo per questo che essi, armati, respignere vogliono la forza colla forza, e vantandosi che di queste armi si serviranno non già a discapito o danno del re, ma qualora occorra alla loro difesa e salvezza. A questa specie di sedizione prestano non piccolo fomento il già nominato conte di Ligny ed il vescovo di Luçon, cancelliere del senato, e capo, come dicono, della giustizia, i quali, essendo l'uno e l'altro emuli del Trivulzio, mal soffrono che presso di esso rimanga quel nome nudo di vicerè, e sperano che per questa ragione il re sarebbe forzato a deporre il Trivulzio, qualora venisse a sapere che, ritenendo la sola immagine dello scettro, la sedizione non potrebbe estinguersi, ed essi, quasi confessando ambidue essere quella intenzione trista e subdola del Trivulzio contra i Ghibellini, la cosa che essi temono, né asserendo molto lontana da quello la volontà del re, che tutti i Ghibellini e i Guelfi riguarda senza alcuna differenza; non riprendono, ma anzi con un certo silenzio quelle mosse approvano, e che i Ghibellini si armino e si rafforzino, e che la sedizione giornalmente a maggior grado si accresca; mentre anche il Trivulzio e tutti quasi i Guelfi seguaci del di lui partito, non meno che i Ghibellini, si muniscono di partigiani e di armi, e non solo si preparano a respignere la forza, ma anche ad adoperarla… Allora dissi, conosceremmo quanto più salutare sia ai popoli suggetti l'essere spettatori che non ausiliari dei principi che dell'Imperio contendono).
[737] Vinto certamente
dall'efficacia dell'argomento, prestò la mano; tuttavia, mentre mi
congedò, conobbi che egli era quasi sdegnato; giacché come tu sai, i
principi quello che essi vogliono, sogliono volerlo di troppo, e ben sovente
pongono mente piuttosto a quello che giova, che non a quello che conviene.
Così nella lettera 28 febbraio
[738] Fra questi deve esser pure compreso l'illustre Guicciardini, lib. IV.
[739] Veggasi lettera 30
aprile
[740] Se stesso non cessava di rimproverare, e di accusare la propria pusillanimità, né ben sapeva a quale consiglio si appigliasse.
[741] L'infelice Lodovico, che non aveva potuto cangiare i lineamenti del viso né l'aspetto della maestà, che sempre ebbe nel volto, né la sua figura principesca, benché le vesti mutate avesse, conosciuto fu e preso.
[742] Fatta all'istante un'irruzione.
[743] Gli presentò sei vestiti, due di stoffa d'oro, due d'argento, due di seta con altretanti giubboni, e paia sei calze di scarlatto, e dodici camisce di renso, con scarpe e berrette similmente d'oro. Queste minuzie, riferite dal Prato, danno idea del vestire di quei tempi, e fors'anco della cura maggiore che si aveva per l'apparenza, che per la mondezza, non frequentemente allora cambiandosi le vesti che immediatamente ci toccano.
[744] Espugnata avendo Alessandria, distrutto l'esercito, caccia il duca Lodovico Sforza, e tornato presso Novara, lo sconfigge e lo fa prigioniero.
Avendo io fatte molte ricerche, anni sono, sulle regalie alienate dai sovrani di questo Stato, o donate ai sudditi, ho osservato che al tempo del duca Filippo Maria si cominciò a staccarle, ed ho trovate cinque vendite e quattordici donazioni. Quel principe, non avendo eredi, cominciò a largheggiare. Poi, sotto Francesco I, fu il più gran colpo di distacco, contandosi sedici vendite, e ben quarantaquattro donazioni di regalie. Anche sotto Francesco Sforza s'introdusse il patto di abdicare in alcune vendite di regalie, la ragione fiscale di ricuperarle al prezzo medesimo. Le donazioni non furono mai tante poi, quanto sotto Francesco, che doveva rendere accetta la signoria, che mancava in lui di legitima ragione; ma sotto Lodovico il Moro in vece grandiose furono le vendite, delle quali ne ho contate settantaquattro. Tutto il secolo XVI fu più moderato. Non è da maravigliarsi che il duca Filippo Maria, ultimo di sua casa, donasse largamente le regalie annesse alla sovranità e destinate a sostenerla. Oltre quelle che, pel terminare delle famiglie, nel corso di tre secoli saranno rientrate nel ducale patrimonio, ne rimanevano tuttora in mano di privati quattordici, dieci anni sono. Né vi è pure da maravigliarsi, se dieci anni fa rimanessero ben quarantaquattro donazioni di regalie fatte da Francesco Sforza, che voleva appoggiare la sua donazione alla benevolenza ed al consenso de' popoli.
[745] In Porta Romana nella contrada della Ruga Bella.
[746] Questo palazzo era dove ora trovasi la casa del marchese Litta in Porta Vercellina.
[747] Nella cinta del muro
intorno alla chiesa di San Dionigi vi si pose una lapida con queste parole: Lodovicus,
Galliarum rex et Mediolani dux, parta de Venetis victoria, hic equum
ascendit, ut in urbe triumpharet.
Lodovico, re di Francia e duca di Milano, ottenuta avendo la vittoria su i Veneti, qui montò a cavallo onde nella città trionfasse.
[748] Muratori, Annali d'Italia, (1509) - Du-Mont Corp. Diplomatique.
[749] Lib. IX.
[750] Guicciard., lib. X.
[751] Lib. X.
[752] Lib. X.
[753] Leggasi l'Apologia che
ne ha fatta l'abate
[754] Lettera del Cavaliere Bayard a Lorenzo Aleman, suo zio, stampata in fine della tragedia del signor Belloy citata.
SIMVLACRO DI GASTONE DI FOIX
CONDOTTIERO DEGLI ESERCITI FRANCESI
CADVTO NELLA BATTAGLIA DI RAVENNA NELL'ANNO
MDXII
ESSENDO NELLA RESTAVRAZ. DELLA CHIESA DI S. MARTA
DISTRVTTA
LE VERGINI DI QVESTO MONASTERO
ALLA IMMORTALITA' DI SI' GRANDE CAPITANO,
IN QVESTO LVOGO LO FECERO COLLOCARE
NELL'ANNO MDLXXIV
[756] Mathieu Skeiner, cardinal de Sion, le
boute-feu de
[757] Et vous assure que de cent ans le royaume de France ne recouvrera la perte qu'il a faite.
[758] Veggasi Guicciardini, lib. 4. - Muratori, Annali, all'anno 1512. - Istoria del dominio temporale della Chiesa sopra Parma e Piacenza, ediz. roman., p. 122. - Du Mont, Code Diplomat., T. IV, P. I., pp. 137 e 173. - Angeli, Ist. di Parma, lib. V. - Alberti, Descriz. d'Ital., p. 369.
[759] Siccome può vedersi nel tomo II, cap. XIII.
[760] Lib. XI.
[761] Gaillard, Vie de François Premier, roi de France, tomo I, p. 140.
[762] Guicciard., lib. XI.
[763] Prato.
[764] Misero il paese il cui re è un fanciullo!
[765] Beatissimo Padre. -
Manifesta ed abbastanza nota è presso
[766] Ibidem, vol. I, n. 3.
[767] Il contratto di questa vendita, fatta il giorno 11 luglio 1515, trovasi nell'Archivio Civico, e si scorge che il reddito del Naviglio grande si considerò di non più che annue lire 1200.
[768] Vedi Prato.
[769] Ibid.
[770] Miscellan., vol. I, n. 12.
[771] MS. Miscellanea, tom. I, n. 12.
[772] Lib. XI.
[773] Prato.
[774] Idem.
[775] Havuto nova Maximiliano Sforza ducha di Milano, et il cardinale elveticho del preparato exercito gallico et del preparato exercito veneto (dopo morto Lodovico XII) per la imprexa de lo imperio Mediolanense; facto suo consulto de resistere a tanto impeto unito contra esso imperio, il cardinale, per levar ogni suspecto qual haveva a lo epischopo laudense Sforzescho, qual gubernava lo imperio Mediolanense, fece prendere esso epischopo et condurlo prigione nel castello di Porta Giobia, dove subito posto alla tortura li fu dato squassi quattordici di corda, et altro non poteno havere da esso epischopo, MS. Belgioioso, fogl. 79, tergo, e 80.
[776] Gaillard, Vie de François Premier, tom. I, p. 214.
[777] Ibidem, p. 224.
[778] Prato.
[779] Prato.
[780] Guicciard., lib. XII.
[781] Guicciard., lib. XII.
[782] Lib. XII.
[783] Veggasi Gaillard, tom. I, alle pp. 270, 274.
[784] Lib. I, f.
[785] Hyeronimo Morono
dette zanze al gallico re d'andar in la citate de Brixio senatore,
secondo la mente dil re, et stato alquanti giorni in
[786] Giovio, lib. VI, Storia. - Gaillard, Storia di Francesco I re di Francia, tom. I, cap. III. - Prato.
[787] Il re cristianissimo, volgendo nell'animo la fedeltà e la integrità che i cittadini milanesi mostrarono verso Sua Maestà, e i danni intollerabili che essi sopportarono, liberamente dona e concede alla predetta città la somma di diecimila ducati di rendita annua e perpetua, esigibili per mano del ricevitore della città dai gabellieri delle mercatanzie, la quale somma sia convertita soltanto ad utilità della città predetta, e non altrimenti.
[788] Così nel libro di Carlo Pagano, stampato in Milano da Agostino Vimercato l'anno 1520, p. 6.
[789] Pagano, suddetto.
[790] Osservando e non osservando il diritto comune.
[791] Essendo quell'uffizio cagione a tutti di terrore.
[792] Arte del buono e del retto, e scienza del giusto e dell'ingiusto.
[793] Questo accadde per disposizione data il giorno primo di luglio del 1518, come scorgesi alla p. 30 della relazione MS. che l'erudito ed esatto abate Lualdi, prefetto dell'Archivio della città, ha presentata l'anno 1784 al Consiglio Generale.
[794] Prato. - Burigozzo, lib. I, fogl. 9 e 10.
[795] Une très-belle et honeste dame que le roy aimoit, et faisoit son mary cocu, di lei dice Brantome nel discorso sopra il maresciallo di Lautrec.
[796] Gaillard, tom. I, p. 352.
[797] Gaillard, tom. I, p. 360.
[798] Gaillard, tom. I, p. 361.
[799] CHI
[800] Tom. II, p. 202.
[801] È da vedersi Apostolo Zeno nelle sue Dissertazioni Vossiane, tomo II, sul merito della storia del Corio da molti a torto disprezzata. Così pure Justi Vicecomitis pro Bernardino Corio Dissertatio. Giusto Visconte è il finto nome del P. Mazzucchelli C. R. Somasco, il cui elogio trovasi nel Giornale de' Letterati d'Italia.
[802] Gaill., tom. II, p. 217.
[803] Lib. XIV.
[804] Cronaca di Antonio Grumello, cittadino pavese. MS. Belgioioso.
[805] Nec parvi momenti apud Leonem Carolumque ea ratio fuit, quod Sfortiarum nomen in magna gratia esse apud omnes fere populares Mediolanensis ditionis constabat, quorum studium ad bellum conficiendum magno usui fore non dubitabatur. Quibus rebus proponendis et commemorandis Hieronymus Moronus civis Mediolanensis, vir magni consilii et auctoritatis, per litteras et nuncios principes italicos ad bellum pro Francisco Sfortia, cujus erat valde studiosus, suscipiendum e Tridento cohortabatur: Mediolanenses vero ut a rege Gallorum, cui Moronus erat infensus, deficerent, cunctis rationibus sollicitabat. - Johannis Genesii Sepulvedae Cordubensis Opera cum edita tum inedita, accurante Regia Historiae Academia - Matriti, ex Typographia Regia, anno 1780. - Vol. I, pp. 124 et 125.
(Né di poco vigore fu presso Leone e Carlo quella ragione, che il nome degli Sforza si sapeva essere in gran favore presso tutto quasi il popolo della giurisdizione milanese, del quale non dubitavasi che l'attaccamento sarebbe il grande aiuto per la guerra che fare dovevasi. E a proporre e rammemorare queste cose contribuiva Girolamo Morone, cittadino milanese, uomo di alto consiglio e di grande autorità, il quale con lettere e con avvisi da Trento esortava i principi italiani ad intraprendere la guerra per Francesco Sforza, al quale era molto attaccato. I Milanesi poi con tutti gli argomenti esortava il Morone a staccarsi dal re dei Francesi, al quale egli era avverso. - Opere di Giovanni Genesio Sepulveda, di Cordova, tanto edite, quanto inedite, pubblicate per cura della Regia Accademia di Storia. - Madrid, dalla Regia Tipografia, 1780.)
[806] Gaillard, tomo II, p. 209.
[807] Così dice il Gaillard, tomo II, p. 209. Il Guicciardini dice più di centocinquanta fanti, lib. XIV. Mi attengo al Francese, perché l'esatta relazione sarà stata data anzi al re, che al governatore di Reggio.
[808] Lib. XIV.
[809] Guicciard., Lib. XIV.
[810] Cronaca di Antonio Grumello. MS. Belgioioso, fogl. 102, tergo.
[811] Descrizione di Milano, tomo IV, p. 444.
[812] Guicciard., lib. XIV.
[813] Guicciard. - Gaillard. - Sepulveda. - Cronaca Grumello, fogl. 106, tergo.
[814] Guicciard., lib. XIV.
[815] Gaill, tomo II, p. 234.
[816] Cronaca Grumello, fogl. 103.
[817] Grumello, fogl. 104.
[818] Tomo 2, p. 217.
[819] Anche Francesco Sforza, che seguitato era da seimila Tedeschi, giunse a Milano con singolare rallegramento della città, (e ne adduce il motivo) perché era uomo della cui cortesia, temperanza e giustizia, grande era l'opinione nel popolo.
[820] Guicciard., lib. XIV.
[821] Grumello, Cod. MS. Belgioioso, fogl. 112.
[822] Gaillard, tomo II.
[823] Avendo adunque comandato lo Sforza a tutto il popolo di pigliare le armi, menò fuori seimila armati e così pure quattro cento cavalli, e con questi fermossi alla Bicocca sulla strada che conduce a Monza. Sepulveda, p. 131.
[824] Grumello. Cr. MS. Belgioioso, fogl. 115.
[825] Guicciard., lib. XIV.
[826] Gaillard.
[827] Le date le attesta Burigozzo.
[828] Lib. XII. - Gaillard lo nomina Andrea de Ferrara, tomo II, p. 286.
[829] Veggasi il MS. del senatore Visconti nella Collezione Belgioioso d'Este, pp. 181 e 195. Nella Collezione medesima, MS. Miscellanea, tom. I, num. 21, si legge il contratto per la somministrazione del sale fatto fra il duca e Domenico Saulo, genovese. Ogni anno s'introducevano circa staia 330 mila sale, metà rosso e metà bianco, di Tortosa a soldi 20 lo staio posto alle gabelle. Col ducato a lir. 5 potrà il Saulo estrarre 6000 some metà frumento e metà riso fatto, e ciò gratis. Pagherà il Saulo al duca per onoranza annue lire 25 mila; le tratte però non siano libere, se non sinché il frumento non passi nel prezzo lire 5, 10. Se il Saulo da Venezia farà consegnare st. 150 mila sale Cipro, sarà tenuto in computo di quello di Genova, e similmente pagato.
[830] E far possa tutto ciò che sarà d'equità e di giustizia.
[831] Brantôme, Vie de Francois Premier, dice che Saint-Blançay en paya la menestre par après, car il fut pendu à Montfaucon.
[832] Brantôme, Hommes illustres.
[833] Essendo i custodi in parte consunti da malattia, in parte sfiniti per tedio della lunghezza e per inopia dei cibi.
[834] P. 139.
[835] Vie de l'amiral Bonnivet.
[836] Guicciard., lib. XIV. - Burigozzo. - Sepulveda. - Gaillard, tomo III.
[837] Guicciard., lib. XV. - Gaill., tom. III.
[838] Lib. XV.
[839] Gaillard, tom. III, p. 102.
[840] Burigozzo.
[841] Guicciard., lib. XV.
[842] Gaillard, tom., III, p. 113.
[843] Sebbene Gaillard, tom. III, p. 117, dica seguìta la morte di Prospero Colonna il 30 dicembre, io credo al Burigozzo, che vivea allora in Milano, e la dice seguìta il 28.
[844] Guicciard., lib. XV.
[845] Gaillard, tom. III, p. 136. - Guicciard., lib. XV.
[846] In questa ritirata morì in un fatto d'armi fra Gattinara e Romagnano il cavaliere Bayard, illustre per la magnanimità, per la fede e per il valor suo. Di esso molto parlano le storie di que' tempi.
[847] Burigozzo.
[848] MS. Belgioioso, fogl. 129.
[849] Sfortia ipse cum Mediolanensium non contemnenda manu. Expugnatoque ponte quo Ticinus ad Abbiagrassum committitur (nam et hic gallico praesidio tenebatur), oppidum ipsum magno impetu oppugnare aggreditur, captumque, deleto praesidio, militibus diripiendum permisit, atque ea victoria laetus, Mediolanum cum praeda magna quidem, sed Mediolanensibus perniciosa revertitur; pestis enim, quae Abbiagrassum afflixerat, Mediolanum ex contagione tam vehementer invasit, ut supra quinquaginta hominum millia ex hac urbe, grassante morbo, absumerentur - Sepul., p. 149.
(Lo Sforza medesimo con un numero non ispregievole di Milanesi. Ed espugnato il ponte che trovasi sul Ticino presso Abbiategrasso, (perciocché anche questo tenuto era da presidio francese), quel borgo stesso con grande impeto si accigne ad assalire, e preso avendelo e distrutto il presidio, ai soldati ne concedette il saccheggio; e lieto di quella vittoria, torna a Milano con grande preda bensì, ma ai Milanesi perniciosa; perciocché la peste, che Abbiategrasso aveva afflitto, invase Milano con un contagio di tale veemenza, che più di cinquantamila uomini di questa città, imperversando quel morbo, perirono.
[850] Che più di cinquantamila uomini nella città perirono, oltre innumerabili altri che mancarono nei villaggi. Lib. IV, p. 175.
[851]Milan n'étoit plus cette ville florissante, qui
suffisoit autrefois à sa defense, et dont les bourgeois étoient autant
de soldats. Les ravages qui avoient été faits par la peste l'avoient changée en
un vaste désert. Gaill., tom. III, p. 184.
[852] Ce fut luy seul qui conseilla au roy de passer les monts,
et suivre monsieur de Bourbon, ayant laissé Marseille, non tant pour le bien et
service de son maître, que pour aller revoir une grande dame de Milan, et des
plus belles, qu'il avoit faite pour maitresse quelques années devant, et en
avoit tiré plaisir, et en vouloit retaster. J'ay ouy dire ce conte à une
grande dame de ce temps-la, et mesme qu'il avoit fait cors au roy de cette
dame, (qu'on dit que s'appelloit
[853] Veggasi l'opera di Francesco Tegio, fisico e cavaliere, stampata in Pavia per Giovanni Andrea Magri, 1655, intitolata: Pavia assediata da Francesco I Valois, re di Francia.
[854] Le date sono del Burigozzo; del rimanente vedi Gaillard, tom. III, p. 184.
[855] Vix dum erant Caesariani Mediolano per portam quae Romana dicitur, ordine servato, ne profectio similis fugae videretur, digressi, cum per Ticinensem et Vercellensem Galli succedebant; nec tamen rex ipse Mediolanum est ingressus, sed, imposito praesidio, quod arcem simul obsideret, paucis diebus ante novembris kalendas exercitum, oppugnandi gratia, Papiam inducit. Sepulveda, pp. 153 e 154.
(Appena
erano usciti i Cesariani da Milano per la porta che si nomina Romana,
mantenendo buon ordine, affinché l'andata loro simile non sembrasse ad una
fuga, che per
[856] Tegio.
[857] p. 153.
[858] La Cronaca di Martino Verri dice che nello stesso giorno in cui il re passò il Tesino dalla parte d'Abbiategrasso, gl'Imperiali lo passarono alla Stella sul Pavese.
[859] Lib. XV.
[860] Secondo Gaillard il duca
di Ferrara somministrò polvere pel valore di ventimila fiorini d'oro, e
cinquantamila ne somministrò effettivi. La Cronaca del Grumello dice che
vennero sotto la scorta del Bonneval trasportate cento some di polvere da
Ferrara al campo del re. Il Sepulveda dice: Alfonsus Æstensis,
Ferrariae dux, ad Papiae commodiorem expugnationem petenti regi amicitiae
gratia ex maxima scilicet copia submittebat. Alfonsus enim tormentis fabricandis oblectabatur,
atque ejus artificii scientissimus erat.
Alfonso d'Este duca di Ferrara, affine di espugnare più comodamente Pavia, al re, che ne lo richiedeva in virtù dell'amicizia, in grandissima quantità (polvere da cannone) somministrava. Perciocché Alfonso dilettavasi di fabbricare cannoni, e in quel genere di artifizi era sapientissimo.
[861] Tegio.
[862] Tegio; e il Sepulveda dice: ter milites irrumpere jussi, conatique, ter a Caesarianis, magno accepto detrimento, repulsi.
(Tre volte i soldati ricevettero l'ordine di assalire, e fecero i loro sforzi; tre volte dai Cesariani furono con grande perdita respinti.)
[863] Tegio.
[864] Hoc oppidum Antonius Leiva costudiendum susceperat, ibidem Germanorum qui agmen nostrum subsequebantur ad quinque millibus, Hispanisque circiter quingentis et quadringentis equitibus retentis. Ita cum huc quoque Caesariani pleraque tormenta et plurimum bellici apparatus contulissent, recepta Papia, bellum confectum fore rex sibi persuadebat. Sepulveda.
(Questa città aveva preso a difendere Antonio Leiva, ritenuti avendo colà circa cinquemila dei Tedeschi, che l'esercito nostro seguivano, e circa cinquecento Spagnoli e quattrocento cavalli. Così avendo anche colà i Cesariani trascinati molti cannoni e grandissimo apparato di guerra, il re persuadevasi che, ottenendo egli Pavia, la guerra sarebbe finita.)
[865] Gaillard, tom. III, p. 204.
[866] Germanos qui erant in Papiae praesidio, quamvis obsidionis initio oppidanorum sumtibus alerentur, stipendium tamen efflagitare, urbem, nisi sibi satisfiat, hostibus sese tradituros minitantes. Sepulveda, p. 156.
(I Tedeschi che erano nel presidio di Pavia, sebbene al cominciare dell'assedio fossero nutriti a spese dei cittadini, lo stipendio tuttavia con istanza chiedevano, minacciando di cedere la città ai nemici, se non accordavasi la loro domanda.)
[867] Accepta
excusatione, parvaque pecunia, aequo animo ad bellum confectum stipendii
solutionem expectarunt, praesertim post ipsorum praefecti mortem, qui per eos
dies ardentissima febri correptus, nec sine veneni suspicione interiit: Sic
enim increbuit Antonium hac ratione voluisse sine tumultu ancipiti malo mederi,
eo scilicet sublato de medio, qui seditionis auctor fuisse putabatur. Sepulveda,
p. 158. Il Bugatti nella Storia Universale, libro VI, con indifferenza
uguale, dice: havendogli rimediato la subita morte del loro colonnello,
tolto di mezzo destramente, per essere il primo in sospetto di tradigione.
(Ammessa avendo la scusa e ricevuto un poco di danaro, di buon animo accordansi ad attendere il pagamento dello stipendio alla fine della guerra, massime dopo la morte del loro prefetto, il quale in que' giorni, assalito da ardentissima febbre, morì non senza sospetto di veleno; perciocché così la voce si sparse, che Antonio avesse voluto in quel modo rimediare a un doppio male senza tumulto, cioè togliendo di mezzo quello che autore della sedizione riputavasi.)
[868] Perciò mi maraviglio grandemente che il chiarissimo conte Pietro Verri nella sua recentissima Storia Milanese, abbia insegnato, non essere quei monumenti di alcun giovamento a tessere la istoria di quelle età: il che veramente tanto strano mi sembra, che costretto sono a confessare di non sapere quello che il chiarissimo autore intenda sotto il nome di Istoria.
[869] Lettere di messer Bernardo Tasso. Venezia, presso Lorenzini da Turino, 1561, p. 4.
[870] Lib. XV.
[871] Lib. XV.
[872] Per vessarli da prima col timore e coll'agitazione; quindi, dopo che essi si sarebbero colla consuetudine spogliati di quel vano timore, offenderli con maggiore sicurezza, allorché fosse sembrato opportuno assalire i nemici con vera battaglia. Sepulveda, p. 166.
[873] In Pavia mancava
[874] Brantôme, Hommes illustres, art. Bonnivet.
[875] Stor. Univ., lib. VI, p. 778.
[876] Brantôme, Hommes illustres, art. La Palice.
[877] Sepulveda, p. 168.
[878] Tegio, p. 64.
[879] Stor. Univ., lib. VI, p. 779.
[880] Bugati (lib. VI, p.
cit.) dice che il d'Alençon, giunto di lungo in Francia, convinto di
malvagio animo contro il suo re, gli fu poi tagliata
[881] Brantôme e Sepulveda.
[882] Tegio.
[883] Fogl. 143, tergo.
[884] All'anno 1525.
[885] Lib. VI, p. 779.
[886] Non soffrì che gli si facesse pubblicamente, secondo il costume, alcuna congratulazione, né egli si abbandonò all'allegrezza, ma la gioia moderatamente sostenne colla sua gravità. Sepulveda, p. 171.
[887] Grumello, fogl. 142 e 143.
[888] Ann. d'Ital., tom. XIV, p. 212.
[889] Grumello, fogl. 143, tergo.
[890] Pp. 174 e 210.
[891] Per cagione dell'ingiuria della figlia negletta, la quale essendo stata promessa a Carlo non ancora giunta a legittima e matura età, egli realmente non trascurò, ma per giuste cagioni pospose ad Isabella, figliuola di Emanuele re di Portogallo.
[892] Che non ricusi di dare alcuna fede, alcun giuramento, alcun numero di ostaggi, purché in libertà possa ricuperarsi; perciocché facilmente potrà impetrare l'assoluzione del giuramento del pontefice massimo, capo della congiura, il quale ultroneamente egli stesso quell'assoluzione concederà.
[893] Sepulveda, p. 175.
[894] Guicciard., lib. XVI, fogl. 473, tergo.
[895] P. 177. Sibi
esse in animo, si qua ratione iniri possit, Italiam a crudeli dominatu
et intolerabili avaritia Barbarorum in libertatem asserere; de quorum in Italos
animo, fideique eorum in se opinione, si non aliunde Marchio didicisset, tamen
domestico, suoque exemplo potuisse nuper edoceri, cum de transvehendo in
Hispaniam Gallorum Rege tam diligenter fuisset a Carolo Caesare celatus,
propter suspectam ipsius, ut caeterorum Italorum, fidem. Qua Barbarorum
suspcione Itali, si qua ratio dignitatis haberetur, satis sui officii admoneri
possent; nam cui dubium esse suspicionem illam ex timore barbarorum ortam, ne
Itali resipiscant aliquando, et vires suas orbi reliquo, adsit modo concordia,
non tolerandas agnoscont, et memores veteris majorum gloriae, unanimes ad arma concurrant, et Italiam, ab
ipsis Barbaris servitute oppressam, vindicent in libertatem?
(Avere in animo, se in qualche modo far si potesse, di liberar l'Italia dalla crudele dominazione ed intollerabile avarizia de' Barbari; del cui animo contro gl'Italiani e della opinione che quelli avevano della loro fede, se il marchese non ne fosse altronde ammaestrato, avrebbe potuto con domestico ed anzi suo proprio esempio recentemente istruirsi, quando fu così diligentemente tenuto al buio da Carlo Cesare intorno al trasportare in Ispagna il re di Francia, a motivo della sospettata fede di lui e degli altri Italiani. Dalla qual sospezione de' Barbari gl'Italiani, se alcun riguardo di dignità si avesse, sarebbero abbastanza avvertiti del dover loro: imperocché a chi poteva esser dubbio, nascere quella sospezione dal timore concepito dai Barbari, che gl'Italiani non faccian senno una volta e conoscano essere le proprie forze, purché siavi fra loro concordia, irresistibili al resto del mondo, e memori dell'antica gloria dei maggiori, corrano unanimi all'armi, e rivendichino in libertà l'Italia, oppressa dal servaggio degli stessi Barbari?)
[896] Praemium suae virtutis, consensu Italiae, regnum Neapolitanum accepturus: (Che ricevuto avrebbe, col consentimento dell'Italia, in premio del suo valore il regno napoletano): Sepulveda, p. 178. Notisi che il Pescara era Italiano bensì, ma la casa d'Avalos, originaria di Catalogna, era spagnuola, stabilita in Napoli dagli avi suoi sotto Alfonso I, avanti la metà del secolo XV.
[897] Lib. XVI, p. 447.
[898] Gaillard, Vie de François I, tom III, p. 317.
[899] Il pontefice, con alcuni argomenti fallaci, ma dedotti da una specie di diritto, si sforza di persuadere al marchese che piamente e santamente poteva da esso commettersi quella sceleratezza. Sepulveda, p. 181.
[900] Guicciardini, lib. XVI, p. 476, tergo.
[901] Grumello.
[902] La risposta di Cesare a
Catilina, che lo invita ad associarsi a lui, è nobilissima: Je ne
peux te trahir, n'exige rien de plus. Catilina, de M. de Voltaire, acte II, sc. 3.
[903] Sepulveda, p. 181.
[904] Intentatis tormentis, conjuratorum consilia plenius et apertius indicata. (Adoperati i tormenti, conosciuti più ampiamente e chiaramente i disegni de' congiurati) Sepulveda, p. 1182.
[905] Guicciardini, lib. XVI, p. 473. - Gaillard, tom II, p. 299.
[906] Il duca Francesco II in
un suo editto si doleva nel seguente modo delle proprie sciagure: Franciscus
Secundus Sfortia Vicecomes, Dux Mediolani, etc. Posteaquam Divina Clementia, et
sacratissimi Caroli Caesaris auxilium ad avitum paternumque Mediolanense
restituti fuimus Imperium, tanta nos temporum calamitas et bellorum vis undique
afflixit, ut difficile hactenus dijudicare possimus plus ne felicitatis in
adipiscendo Statu, an eo jam adepto miseriae simus assecuti. Nam post Status
recuperationem singulis annis renovato ab hostibus nostris bello, et quidem
semper graviori atque acerbiori, perturbati adeo et vexati sumus, ut de nostra
ac subditorum salute saepe numero fuerit pene desperatum; et ne ullum nobis
respirandi tempus reliqueretur, accessit pestis post hominum memoriam
saevissima etc. Passa indi a dire che, dovendo egli sborsare all'imperatore
Carlo V la tassa per l'investitura del ducato, quindi impone che ogni
feudatario o possidente fondi donati dal sovrano paghi il frutto di sei mesi
del suo feudo o podere (MS. Belgioioso, Miscellanea, vol. I, num. 4).
Dalla carta poi num. 6 dello stesso codice vedesi che impose anche un testone,
ossia uno zecchino per focolare, et le subventione quale intendemo ne
facciano tutte le persone ecclesiastiche del dominio nostro, eccettuati li
reverendissimi cardinali.
(Francesco II Sforza Visconti, duca di Milano, ec. Poiché per divina clemenza e per l'aiuto del sacratissimo Carlo Cesare fummo ristabiliti nell'avito e paterno milanese dominio, tanto ci afflisse da tutte le parti la calamità dei tempi e l'impeto delle guerre, che difficilmente finora possiamo giudicare, se maggiore felicità conseguita abbiamo nell'acquistare lo Stato, o maggiore miseria dopo l'acquisto ottenuto. Perciocché, dopo di aver recuperato lo Stato, rinnovata essendo ogni anno dai nemici nostri la guerra, e sempre ancora più grave e più acerba, per tal modo fummo turbati e molestati, che più volte si perdette quasi la speranza della salute nostra e di quella dei sudditi; ed affinché alcun momento di respiro non ci fosse conceduto, si aggiunse una peste la più crudele che mai a memoria di uomini si provasse, ec.)
[907] Sepulveda, p. 183.
[908] Grumello e Burigozzo.
[909] Annali, l'anno 1525, p. 213.
[910] Annali al 1526, p. 215.
[911] Du Mont. Code diplomatique.
[912] Sepulveda, p. 191.
[913] Grumello e Burigozzo.
[914] Lib. VI.
[915] P. 86.
[916] Nella qual cosa, affinché, forse trattenuto dalla religione, troppo timidamente non si conducesse, egli da quel giuramento, se alcuno per avventura dato ne aveva a Carlo per assicurare la sua fede, coll'autorità apostolica lo scioglieva; e quindi non altrimente che se la cosa fosse intatta, non dato alcun giuramento né alcuna fede, con fermezza stabilisse intorno agli affari suoi. Molte cose aggiunse inoltre in questa sentenza, non meno al diritto delle genti che al divino contraria, co' suoi mandati per lettere, tutti raccogliendo gli argomenti coi quali sembrava potersi indurre a trascurare il diritto delle genti ed a mancare di fede.
[917] Che neppure il re francese ottenesse alcun dominio su gli Italiani, ma contento fosse degli annui tributi di cinquantamila ducati d'oro che pagati ad esso sarebbono dal duca di Milano, e di altri settanta che pagati sarebbono dal re napoletano, da eleggersi coi suffragi degli Italiani. Sepulveda, p. 188.
[918] E mandò altra lettera più equitativa e più moderata, che in pochissime parole racchiudeva un eguale sentimento, ma tolte di mezzo in parte le calunnie.
[919] P. 193.
[920] Guicciardini, lib. XVII, p. 18.
[921] Dopo la vittoria di Pavia il Borbone erasi recato a Madrid. L'imperatore voleva alloggiarlo con distinzione, e chiese al marchese di Villena il suo palazzo per l'alloggio di quel principe. Il marchese rispose: Non posso ricusar cosa veruna alla Maestà Vostra: unicamente la supplico di concedermi, che sloggiato ch'egli ne sia io, l'abbruci, come luogo infetto di perfidia e indegno d'essere abitato da uomini d'onore. Gli Spagnuoli generalmente così giudicavano del contestabile duca di Borbone.
[922] Guicciardini, lib. XVII, pp. 18, 19 e 20.
[923] Guicciardini, loc. cit.
[924] Sepulveda, p. 201.
[925] Sepulveda, p. 215.
[926] Borbonius, posteaquam nec a militibus ut ab incepto itinere ac proposito desisterent impetrare, nec eos, ut erat, stipendio non suppetente, praecarius imperator, coercere posset, non putavit nec ad suum officium et dignitatem, nec ad Caroli Caesaris rationes interesse ut ipse quoque ab exercitu discederet, ne si tanta multitudo sine imperio ferretur, obvia quaequae devastans atque diripiens, in omnem injuriam et maleficium intolerantius irrueret, et pontificiae ditionis populis, contra inducias factas et Caroli Caesaris voluntatem, longe gravius noceretur. Sepulveda, p. 215.
Ritrovandosi il Borbone di pessimo animo per non haver da dar paga allo exercito di Cexare, como più et più fiate li avea promisso, hebe deliberato di levar suo exercito de la Romandiola et pigliar il camino di la città di Florencia, pensando di aver danari da essa Repubblica. Grumello, fogl. 163.
[Il
Borbone, poiché non poté impetrare dai soldati che dall'intrapreso viaggio e
dal disegno proposto desistessero, né credette di poterli costringere, essendo
egli precario comandante, mentre non correano le paghe, né giudicando che fosse
convenevole al suo ufficio e alla sua dignità, anzi importante per i
diritti
[927] Continuatore della Stor. Eccl. del Fleury, tom. XIX, lib. 131. § 10, p. 211.
[928] Memorie storiche di Monza e sua corte, del canonico Antonio Francesco Frisi, tom. I, cap. XVII, p. 198, e tomo II, docum. 254, p. 230.
[929] Vedendo il duca di Borbono non essere alchuno rimedio di aver danari da essa città, per dar paga allo exercito cexareo, affamato et quasi perso, hebbe facta deliberatione di pigliar il cammino di Roma. Così Grumello, al luogo citato.
[930] Fogl. 163 tergo.
[931] Cronaca MS. di Martino Verri.
[932] P. 263 e sgg. - Sono esse le seguenti: «Franciscus Rex Gallorum Carolo Romanorum imperatori designato Hispaniorumque regi, salutem.
Renuntiatum mihi est a legatis quos ad te de pace misi, te, conditiones aequissimas aspernantem, excusationem attulisse, quod ego istinc violata fide profugerim; quamobrem ut meae famae consulam, quae falsis a te obtrectationibus et calumniis graviter impetitur hanc ad te provocandi causa epistolam mittere constitui. Nam licet nemo cui sint custodes impositi, data fide teneatur, qua ratione id meum factum vel sola purgari posset; tamen meae famae consultum esse cupiens, cuius magnam semper habui habeboque dum vita supererit rationem, ut hominum de me opinioni satisfaciam, sie tecum agere decrevi. Si me fidem datam violasse jactasti, vel jactas, aut contempta fama quidquam fecisse quod virum nobilem, bonae famae studiosum non deceat, te turpiter mentiri dico, et quoties dixeris mentiturum. Quoniam igitur falso meam famam laedere conatus es, nihil ampius mihi scribas, sed locum certamini idoneum, tutumque deligito; ego arma utrique deferam. Ac ne quid posthac femere in meam contumeliam voce vel scripto jactes, Deum hominesque testor per me non state quominus inter nos controversia singulari certamine dirimatur. Vale. Lutetiae, quinto kal. aprilis, Anno MDXXVIII».
«Carolus Romanorum imperator designatus, Germaniae Hispaniarumque Rex, Francisco Gallorum Regi S. D.
Epistolam tuam, cui dies erat adscriptus ad quintum kal. aprilis, mihi reddidit Gienna, caduceator tuus, sexto, idus junii, longo scilicet intervallo, ad quam eadem fere quae eidem caduceatori dixeram, rescribam. Quod legatis et caduceatoribus quos ad me de pace misisti, quaedam ad tuam contumeliam pertinentia me tibi, purgandi causa, jactasse scribis, ego nec caduceatorem tuum quemquam vidi praeter eum, qui Burgos ad me venit ut tuis verbis bellum nobis indiceret, nec erat cur me tibi, quem nunquam per injuriam offenderam, purgarem; te autem si nihil aliud, tua certe ipsius culpa accusat et condemnat. Quod autem fidem quam mihi dederas me requirere dicis, est, ut ais: requiro enim illam quam mihi Madritii foedere dedisti, te in meam potestatem, ut meum captivum, justo bello captum, rediturum nisi, liberatus, pacta conditionesque foedere acceptas perfecisses, ut scriptura publica tuaque manus testimonio est. Me vero jactasse te contra fidem datam ex custodia profugisse commentitium est; non ego in hoc tuam perfidiam esse dico, sed in eo quod foedus non servas, et jusjurandum fallis, in quo nulla est necessitatis excusatio: quam enim quisque fidem hosti dederit, temporibus adductus, hanc ut praestet jus gentium esse constat, et proborum hominum consuetudinem, qua sublata, tollitur ratio bella semel conflata sine summa hominum pernicie dissolvendi. Quod vero si te dico aut dixero fidem datam violasse aut contemta fama quidquam fecisse quod virum nobilem et bonae famae studiosum non deceat, me turpiter mentiri, et quoties dixero mentiturum, ego, quam sis coeteris in rebus quae ad me non pertinent boni nominis studiosus et officii cultor, non laboro; illud citra mendacium affirmo, quod fidem quam mihi Madritii tum publice, palamque, tum privatim separatimque dedisti, fallas, quod pacta foederaque et jusjurandum violes, te nec boni viri, nec generosi munere fungi; hoc si tu verum esse negabis, scriptura publica tuaque manu redarguente, non ego tuam illiberalem, vixque gregario milite dignam orationem imitatus, te turpiter mentiri dicam, quamquam hoc, me tacente, res ipsa loquitur, tuumque tibi factum, plurimum ab oratione discrepans, aperte dicit: profiteor autem me, ut caeterorum Christianorum sanguini parcatur, tecum de veritate armis viritim disceptaturum et controversias diremturum, ad quod dumtaxat te, qui cum meus captivus sis, pugnare cum altero praeter meam voluntatem communibus legibus prohiberis, idoneum reddo. Quod me amplius ad te scribere vetas, sed aequum tutumque pugnae locum praebere, teque dicis arma utrique deportaturum; patiaris oportet haec ad te scribi, tuaque malefacta, dum res postulat, memorari. De loro certaminis conditionem accipio, daboque operam, quantum erit in me, ut loco injuria omnesque absint insidiae. Erit autem idoneus locus, ut jam nunc nobis condicatur, in confinio regnorum nostrorum ad parvum sinum qui est inter Fonterabiam et Andajam, qua parte, et qua ratione inter nos convenerit, et ad parem conditionem tutamque ab insidiis rationem pertinere visum fuerit; quem locum nihil est quod recuses, cum ibidem et tu dimissus fueris, et filios foederis obsides tradideri; quo ex utraque parte viros nobiles et rei militaris peritos mittere licebit, quorum judicio omnia quae ad parem pugnandi conditionem pertinebunt, et utrius sit arma utrique deligendi, quod ego potius meum esse dico quam tuum, et dies pugnae et caetera quae ad negotium conficiendum faciant, constituantur. Tuum igitur erit ad haec primo quoque tempore respondere; quod si ultra quadragesimum quam tibi haec epistola reddita fuerit distuleris, jam omnes intelligent per te stare quominus singulari praelio decernatur. Vale Ex Montisone, pridie nonarum julii, Ann. Christi nati MDXXVIII».
Il Re Francesco non volle accettare la lettera, dichiarando che nessuna risposta avrebbe ricevuta, se non conteneva le uniche parole del luogo e del tempo pel duello.
Francesco, re de' Francesi, a Carlo destinato imperatore dei Romani e re di Spagna, salute.
Dai legati che a te ho spedito intorno alla pace, mi è stato riferito che tu, sprezzando le più eque condizioni, hai addotto la scusa che io di costà, violando la fede, sia fuggito; per la qual cosa, geloso di provvedere alla mia fama, gravemente da te attaccata con falsi rimproveri e calunnie, ho stabilito di mandarti questa lettera provocatoria. Perciocché, sebbene alcuno al quale sono date guardie per custodirlo, non sia tenuto alla data fede, per la quale ragione, anche sola, quello che da me fu fatto potrebbe purgarsi da qualunque taccia, tuttavia, bramando di meglio provvedere alla mia fama, della quale ebbi sempre ed avrò, finché vita mi rimanga, grandissima cura, ho stabilito di agire teco in questo modo, affinché all'opinione pubblica intorno alla mia persona soddisfaccia. Se tu ti vantasti, oppure ti vanti ch'io violata abbia la fede data, o che, sprezzatore della fama, alcuna cosa io abbia fatto che non degna sia di uomo nobile e della buona fama curante, dico che turpemente tu menti, e mentirai qualunque volta tu lo dicessi. Poiché adunque falsamente la mia fama ti sei sforzato di offendere, più non iscrivermi alcuna cosa, ma scegli un luogo al certame idoneo e sicuro: io porterò le armi per ambidue. E affine che più in avvenire di alcuna cosa non ti vanti temerariamente a mia contumelia, in voce né in iscritto, chiamo in testimonio Dio e gli uomini, che da me non dipende che la controversia tra noi diffinita non venga con singolare certame. Sta sano. Parigi, il quinto giorno delle calende di aprile dell'anno MDXXVIII.
Carlo, imperatore dei Romani designato, re della Germania e Spagne, a Francesco, re de' Francesi, salute.
La
lettera tua, colla data del quinto giorno delle calende di aprile, recommi
Gienna, araldo tuo, il dì sesto degl'Idi di giugno, dopo cioè un
lungo intervallo, alla quale le stesse cose a un dipresso risponderò che
già dette aveva alla stesso araldo. Quanto a quello che tu ora scrivi,
che cogli ambasciatori e cogli araldi che a me mandasti intorno alla pace, io
mi sia vantato di alcune cose che tornavano a tua contumelia affine di
scusarmi, io né mai vidi alcun tuo araldo, fuorché quello che venne da me in
Burgos, affinché colle parole a noi la guerra intimasse, né ragione vi aveva
che io mi scusassi con te, che mai ingiustamente offeso non aveva: quanto a te,
se pure niun'altra cosa, certamente la tua stessa colpa ti accusa e ti condanna.
Quanto poi alla fede che data mi avevi, e che tu dici che io ora reclamo, la
cosa è come tu dici; perciocché reclamo quella fede che a me con un
trattato desti in Madrid, che tu esistente in mio potere, come mio prigione,
pigliato in giusta guerra, saresti tornato, qualora, fatto libero, non avessi
adempiuto i patti e le condizioni in quel trattato accettate, come lo attestano
la scrittura pubblica e la soscrizione fatta di tua mano. Che io poi mi sia
vantato che tu fossi dal carcere fuggito contra la data fede, ella è una
pretta impostura: non dico io già che in questa consista la tua
perfidia, ma bensì in quello soltanto che il trattato non mantieni, ed
il giuramento hai violato; nel che addurre non si può alcuna scusa pet
titolo di necessità: conciossiaché quella fede che chiunque data avesse
ad un nemico dalla necessità de' tempi indotto, questa certamente egli
dee prestare per diritto delle genti e per la consuetudine degli uomini probi,
tolta la quale si toglie ancora la ragione di troncare le guerre una volta
insorte, senza grandissima strage degli uomini. In quanto poi a quello che tu
dici, che io villanamente mentisca, qualora io dica o pure dirò che tu
hai violata la fede data, o che, sprezzando la fama, hai fatta cosa indegna di
uomo nobile e della buona fama sollecito, che tante volte mentirò,
quante volte il dirò; io non mi curo punto che tu sii in tutte le altre
cose che a me non appartengono, studioso del buon nome e adempitore dei dovere;
quello bensì senza alcuna menzogna affermo, che tu manchi alla fede che
mi desti in Madrid, tanto in pubblico ed in palese, quanto privatamente ed in
separato colloquio; che tu violi i patti e i trattati e il giuramento, ed in
questo non ti mostri né uomo onesto né generoso: se tu negherai che questo sia
vero, la scrittura pubblica e la tua mano deponendo contra di te, non
imiterò già io la tua maniera di parlare illiberale e degna
appena di un fantaccino, dicendo che tu menti turpemente, sebbene questo, anche
in mezzo al mio silenzio, viene annunziato dalla cosa medesima, ed il tuo
fatto, troppo dissonante dal tuo parlare, apertamente lo dichiara; professo
tuttavia la massima che io, affinché si risparmi il sangue degli altri
cristiani, teco verrò su la verità delle cose a discutere colle
armi, e a definire le controversie; al che solamente, essendo tu mio
prigioniero, e quindi dalle leggi comuni impedito dal pugnare con alcuno senza
mio volere, ti rendo e ti dichiaro idoneo. Siccome poi mi vieti di scriverti
piú oltre, ma m'inviti ad assegnare un luogo convenevole e sicuro alla pugna, e
dici che tu le armi per l'uno e per l'altro porterai, è d'uopo che tu
soffra che queste cose ti si scrivano e si rammemorino, mentre la cosa stessa
il richiede, le tue azioni sconvenevoli. Io accetto la condizione relativa al
luogo del duello, che, per quanto da me potrà dipendere procurerò
che riparato sia da qualunque offesa, e che lontane sieno tutte le insidie.
Sarà poi idoneo il luogo, a ciò che da noi venga fin d'ora
stabilito, sul confine dei regni nostri, in quel piccolo seno che è
situato tra Fontarabia e Andaia, da quella parte e in quel modo che tra noi si
converrà e che sembrerà appartenere all'eguaglianza delle
condizioni e alla sicurezza delle insidie. Il qual luogo tu non puoi in alcun
conto ricusare, giacchè colà tu fosti lasciato libero e i
figliuoli dèsti in ostaggi del trattato: in quel luogo dall'una e
dall'altra parte sarà lecito il mandare uomini nobili e periti delle
cose militari, al di cui giudizio si rimetteranno tutte le cose appartenenti
alla parità delle condizioni nella pugna, e da essi saranno scelte le
armi per ciascuno, il che a me piuttosto che a te si apparterrebbe, e stabiliti
saranno il giorno della pugna e le altre cose tutte che servire possono alla
conclusione di questo affare. A te dunque tocca il rispondere quanto prima a
queste domande; che si ritarderai oltre il quarantesimo giorno dopo che questa
lettera ti sarà rimessa, intenderanno tutti da te solo dipendere che in
singolare certame non si definisca
[933] Sepulveda, p. 281.
[934] Lib. XVIII, pp. 70 e 71, e Cronaca MS. del Burigozzo.
[935] Grumello, fogl. 181.
[936] Guicciardini, lib. XIX, p. 85, e sg.
[937] Guicciardini, lib. XIX, p. 97.
[938] Fogl.159 all'anno, 1526.
[939] P. 286.
[940] Per dare un'idea del merito di Girolamo Morone trascriverò alcuni squarci delle lettere di lui, che tuttora si conservano manoscritte. Nel 1507 il Morone vegliava su quanto facevasi in Costanza, acciocché gli Svizzeri non ascoltassero le proposizioni dell'Imperatore Massimiliano, ma perseverassero nella fede col re di Francia, duca di Milano. Su di ciò scrisse al gran maestro, Carlo d'Amboise, luogotenente e governatore: «Fuit conventus Constantiensis acriter perturbatus ambigua subdolaque Helvetiorum responsione, nullamque eorum rationem habendam censuit: dissimulandum tamen judicavit, ne eo magis Regi jungantur, quo se ab Imperio neglectos perspiciant. Sed jam dissimulatio ipsa dissimulari amplius non potest, innotuitque omnibus Helvetiis nullam Caesarem in eis fidem reponere, nec stipendia eis daturum, et quando Caesaris legati capitaneos, vexilliferos, preditesque Helvetiorum conscribunt, risum jam omnibus parant. Nec tacent pueri, illos descriptos quidem esse, stipendiatos minime. Igitur quod Helvetios attinet, res in tuto est; habebimus eos, si voluerimus, supra spem numerosiores et fideliores. At inter principes legatosque Germaniae eo usque deventum est, ut promiserint Caesari subministrare stipendia semestria octo millium equitum et viginti quinque millium peditum in Italicam expeditionem traducendorum, quam in mensem februarii differendam censuerunt, ut interea pecuniae, arma et caetera ad bellum necessaria parari possint. A principibus illis quos noris, certior factus sum opera sua dilationem interpositam fuisse, quod eam putent rebus regiis valde profuturam; pollicitique sunt se curaturos, quod milites nec eodem tempore convenient, nec de bello gerendo concordabunt, sed alius alium longo intervallo sequetur, contrariisque sententiis inter se dissidebunt, et potius ad servandam formam, quam ad bellum Regi inferendum progredientur; laudantque ut in claustris Italis praesidia ponantur, cum non dubitent Caesaris exercitum, si aliquantisper in montanis oris arceatur, brevi dilapsurum. Haec illi; sed isthaec ex eorum parte incerta sum, ex nostra autem sine Venetis haud fieri possunt. Quare repeto quod Rex Venetos adsciscat oportet. Vale. Turregi, IV Idus augusti MDVII».(*)
Il Moroni era affezionato al re Lodovico XII, dal quale senza ch'ei vi pensasse era stato collocato nella importante carica di avvocato fiscale. Era stato discepolo di Giorgio Merula. Descrivendo egli in una sua lettera a Giacomo Antiquario, del l° novembre 1499, la sua sorpresa nel vedersi fatto avvocato fiscale, prosiegue così: «Quare si quid huius muneris assumptione peccatum est, vides non consulte, nec mea voluntate, nisi coacta, factum, et potius fatorum necessitati, quam ambitioni, aut culpae tribuendum est. At quaeso videamus quid sit hac in re non probabile: an illud ipsum quod Gallis inserviam? Quasi non oporteat ut omnes illis serviamus, aut quasi caeteri cives, etiam primates, munia etiam majora ab eisdem non ambiverint, et Sfortianam memoriam non abjecerint etiam ii de quibus Sfortiani meritissimi sunt, et qui summis magistatibus et honoribus, auspiciis eorum, functi sunt. An vero forte ipsa officii vis, et fiscalia jura tuendi necessitas, suapte natura odiosa, te commovit? Sed age; nosti mores meos ad obsequendum pronos; nosti illam quam in me admirari soles vim, maledicta de me refellendi, consilia et gesta mea justificandi. Dabo operam ut plurimum prosim, nemini obsim, et si cui nocendi necessitas fuerit, minus laedam, quam alius quilibet fecisset, hacque ratione efficiam, ut ille, quasi modeste et necessario damnificatus, beneficium abs me propterea accepisse putet. Quod si vereris ne a forensi exercitatione repente nimis discesserim, scito magnam esse hujus muneris cum illo similitudinem, majoremque exposci ab advocato Fisci quam ad aliis proptitudinem et rerum copiam, quod plerumque de subitis et insuetis casibus extempore sibi disserendum est, et quo magis excelso ipse loco eminet, auditoresque sunt illustriores, eo magis ornate facundoque colloquio declamare orareque eum oportet; ob id, vel invitus, cogor longe majorem operam rhetoricae studiis navare, quam si in foro cum Bartolis et Baldis permansissem. At non videris rebus Gallicis diuturnitatem polliceri, durumque mihi fore auguraris, cum magistratus fastum gustavero, privatam vitam agere, et quasi ad forensem formulam redire. Ædepol! Non licet mihi pronosticari, neque Italica libertas quando vindicari possit divinare; verumtamen Venetorum, Helvetiorumque foedera, quae Regis arbitrio pendere accepi, multum mihi ad longinquitatem facere videntur; nec, si vera loqui fas est, conjectura in praesentiarum assequi licet, quibus Galli viribus aut quando Italia pelli possint. Sed sit breve, quantum lubet illorum imperium; talem me ostendam in magistratu virum, tantum in communi prodero, tantamque Gallis ipsis dominis fidem praestabo, quod successor, quicumque fuerit, et bene de me concipiet, et obsequia mea non aspernabitur. Ubi vero aut temporum qualitas, aut dominantis mores me a republica amoveant, non erit mihi grave, praestantissimorum virorum imitatione, quibus idem contigit, ad honestum me otium convertere, et ad prima studia redire; domesticoque tuo et parentis mei exemplo utar, qui cum ritus et instituta Sfortianorum, in quibus educati estis, jamque obduruistis, exuere et commutate nequeatis, laudatissimam tamen et jucundissimam vitam in otio ducitis, tantasque praecedentis dignitatis retiquias retinetis, ut pauci sint qui praesenti gloriae vestrae non aemulentur etc.».(**)
In
una lettera che il Morone scrisse il 27 dicembre del
(*) Fu il concilio di Costanza gravemente turbato dalla risposta ambigua e maliziosa degli Svizzeri, e fu d'avviso che non se ne dovesse tenere alcun conto: giudicò tuttavia che fosse d'uopo di simulare, affinché al re tanto più non si unissero, quanto più si vedessero dall'Imperio negletti. Ma già non è più possibile il dissimulare la stessa dissimulazione; e a tutti gli Svizzeri noto si rendette, che niuna fede Cesare in essi ripone, né è disposto ad accordare ad essi stipendi; ed allorché i legati di Cesare scrivono i nomi dei capitani, de' vessilliferi e dei fanti elvetici, muovono a tutti il riso. Né tacciono i fanciulli medesimi, che quelli sono bensì coscritti, ma non stipendiati. Per quello adunque che appartiene agli Elvezi, la cosa è al sicuro; gli avremo se pure li vorremo, oltre ogni speranza, numerosi e fedeli. Ma tra i principi e legati della Germania si è venuto fino a questo punto, che a Cesare promisero di fornire i semestrali stipendi di ottomila cavalli e venticinquemila fanti che passare potessero nella spedizione italica, la quale furono d'avviso di differire sino al mese di febbraio, affinché intanto preparare si potessero i danari, le armi e tutte le altre cose necessarie alla guerra. Da quei principi che tu conosci, sono stato informato che per opera loro è stata interposta la dilazione, perché la reputano agl'interessi del re assai vantaggiosa, ed hanno promesso altresi di procurare che i soldati né allo stesso tempo si riuniranno, né andranno d'accordo sul modo di fare la guerra, ma gli uni seguiranno gli altri con lungo intervallo, e con opposti pareri verranno tra di loro a discordia, e si avanzeranno piuttosto per una certa formalità che per muovere la guerra al re. Lodano pure e approvano che nelle gole dell'Italia si pongano presidii, non dubitando essi che l'esercito di Cesare, qualora respinto venga, anche debolmente, nelle gole de' monti, in breve si scioglierà. Queste cose dicono essi, ma queste dalla parte loro sono incerte, e dalla nostra poi non possono farsi senza i Veneti. Laonde ripeto che il re dee far di tutto per attaccarsi i Veneti. Sii sano. Zurigo, il quarto giorno delle idi di agosto, MDVII.
(**) Per la qual cosa, se l'assumere questa carica si è in alcun modo peccato, tu ben vedi che non è a bella posta né per mia volontà, se non forzata, che questo si è fatto, e piuttosto attribuire dovrebbesi ad una fatale necessità che ad ambizione o a colpa manifesta. Ma vediamo di grazia qualcosa v'abbia in questo che approvare non si debba: forse quello stesso titolo che io servo ai Francesi? Come se necessario non fosse che tutti ad essi servissimo, e come se tutti gli altri cittadini, anche primari, maggiori cariche ancora da essi non avessero ambite, e la memoria degli Sforza postergata non avessero anche coloro dei quali gli Sforza sono sommamente benemeriti, e che sotto i loro auspici hanno esercitate altissime magistrature e goduti sommi onori! Forse che la stessa gravità dell'ufficio e la necessità di difendere i fiscali diritti, odiosa di sua natura, ti commuove? Ma via: tu conosci i miei costumi inclinati all'ossequio; tu conosci quella forza che in me stesso suoli ammirare, di respignere le censure che contra di me si lanciano, di giustificare i miei consigli, le mie azioni. Io mi studierò di fare che molto giovamento io possa arrecare, non nuocere ad alcuno; e se pure sarò costretto a nuocere, meno il farò di quello che qualunque altro fatto avrebbe, ed in questo modo operando, farò si che quello, siccome danneggiato con moderazione e per la sola necessità, credasi di avere da me ricevuto beneficio. Che se tu temi che troppo repentinamente io mi sia allontanato dall'esercizio forense, sappi che con quello la nuova mia carica ha grandissima simiglianza, e che maggiore prontezza ed erudizione si richiede dall'avvocato del Fisco, che non dagli altri, parché ben sovente trattare egli dee estemporaneamente di casi subinanei ed impensati, e quanto più eccelso è il luogo in cui egli splende, quanto più illustri sono gli uditori, tanto più è d'uopo che egli declami e perori con facondo ed ornato sermone; per questo, anche a mio malgrado, forzato sono ad attendere maggiormente agli studii della rettorica, che se nel fòro rimasto io mi fossi coi Bartoli e coi Baldi. Ma tu non sembri promettere una lunga durata al regime dei Galli, e mi predichi che grave mi riuscirà, dopo di avere gustato il fasto della magistratura, menare una vita privata, e quasi tornare alle formule forensi. Per verità a me non è lecito il pronosticare né l'indovinare quando mai possa rivendicarsi la libertà italica: tuttavia i trattati coi Veneti e cogli Svizzeri, che ho udito pendere interamente dall'arbitrio del re, mi sembrano molto contribuire alla diuturnità; né, se è lecito dire il vero, si può al presente conoscere per congettura, da quali forze i Francesi, o in qual tempo dall'Italia possano essere cacciati. Ma sia quanto si vuole breve il loro dominio, tale io mi dimostrerò nella magistratura, tanto in generale io gioverò, tanta fedeltà serberò agli stessi padroni francesi, che il successore, qualunque egli fosse, buona idea di me concepirà, né sprezzerà i miei ossequi. Qualora poi, o la qualità dei tempi, o i costumi del dominante, me dalla gestione della cosa pubblica allontanassero, grave non mi riuscirà, ad esempio de' chiarissimi uomini ai quali toccò una sorte eguale, il passare ad un onesto ozio, il tornare ai primi miei studi; e mi gioverò del familiare tuo esempio e di quello del padre mio, i quali lasciare non potendo nè cangiare i riti e le istituzioni degli Sforza, nei quali siete stati educati e già indurati, tuttavia una vita onorevolissima e giocondissima nell'ozio conducete, e si grandi reliquie ritenete della precedente dignità, che pochi sono i quali non portino invidia alla vostra gloria presente, ec.
(***)
Io veramente pigliai in buona parte quello che a me scrivesti, affinché guidato
io non sia da tanta fidanza delle cose francesi, che gli Sforzeschi disprezzi,
dei quali tu dici sperarsi più felici eventi; né certamente per la
benevolenza colla quale mi riguardi, alcuna cosa tu potresti persuadermi che
non reputassi alla mia situazione convenevole, né per la tua prudenza fede presteresti
a vani rumori o a finzioni. Io ancora dal mio fratello Tommaso alcune cose
udite aveva intorno al movimenti di Lodovico Sforza, e dell'uno e dell'altro
dei cardinali, e che ben presto erano per riunire un nuovo e grande esercito,
per arruolare cavalli di pesante armatura, Tedeschi e Borgogni, e per formare
uno stuolo di fanti svizzeri nella città di Coira, e già
prepararono le macchine e le altre cose tutte che fanno d'uopo per una
grandissima guerra; e quello che mi accresce il sospetto è che lo stesso
fratello mio, senza congedarsi da me ed anche all'insaputa mia, parti da
Milano, e, come mi si dice, da essi se ne va onde rimanere loro compagno in
qualunque fortuna; la quale stravaganza egli non avrebbe commesso certamente,
se udite non avesse alcuno cose che a migliore speranza sollevato lo avessero.
Ora però ti prego che colla tua sapienza e colla tua pratica delle cose
vogli più diligentemente rivolgere nella mente, e considerare quale
esito sia per avere quel movimento degli Sforzeschi del quale abbiamo parlato,
e che a mio avviso debb'essere tumultuario. L'erario di Lodovico e di Ascanio
debb'essere poverissimo, qualora tu riguardi la cosa in sé stessa, e tutta
quella gente di cui abbisognano: più ancora osserva che la provincia
è ardua, ed espugnare si debbono luoghi per la loro situazione e per le
opere dell'arte munitissimi, dai quali l'avversario loro, re de' Francesi,
potente e feroce, non facilmente né in breve tempo potrà essere
cacciato, e l'esercito dei Tedeschi, mancando forse gli stipendi, appena
potrà mantenersi. La speranza poi che sembra aversi di ottenere soccorsi
dai cittadini e dai popoli, mi è paruta sempre vana e pericolosa; perché
più sovente i privati comodi si antepongono ai pubblici, e al nome di
tributo siamo accostumati a indurire i cuori nostri. Cesare non può
recare loro molto aiuto, né questo al presente potrebbe né pure prestare, per
la tregua che conchiuse coi Francesi, e che durare dee fino alla calende di
giugno. Gli Svizzeri di recente si sono legati in alleanza coi Francesi, la
quale alleanza io non crederei che essi fossero per violare si repentinamente,
e tutti quelli tra essi che arruolati si fossero dagli Sforza, essere non
potrebbono se non soldati collettizi e disertori. Fuori di questi, altri
fautori non hanno gli Sforzeschi, ma hanno bensi moltissimi avversari e nemici;
prima di tutti i Veneti, tanto più formidabili, quanto più sono
vicini, e che pronti sono i loro aiuti; inoltre Alessandro,
[941] Coronatorum noningenta millia intra decennium. Sepulveda, p. 291.
[942] Guicciardini, lib. XIX.
[943] Paolo Giovio, nella Vita Alphonsi ducis Ferrariae.
[944] Lib. III, fogl. 70, tergo.
[945] Lib. VI.
[946] Lib. IV, fogl. 73 e 74.
[947] Bened. Giovio, Hist. Patr.,
lib.
[948] Burigozzo, lib. IV, fogl. 78 e 79.
[949] Muratori, all'anno 1533, p. 280.
[950] Cfr. cap. II. È ovvio il comprendere che ivi si parla del cavalliere Alessandro Verri, fratello dell'autore.
(Il Continuatore.)
[951] In Milano trovasi anche al presente una contrada che porta il nome di questo casato, come lo sono altre, dette dei Visconti, degli Stampi, dei Moroni, Porroni, Resta, Piatti, Medici, Bigli, ec.
[952] Trattano di questo fatto Montaigne, Essais, lib. I, cap. 9 des Menteurs. - Il du Bellay, Mémoires, lib. IV. - Arnold. Ferron., lib. VIII. - Valois e Beaucaire, lib. XX, num. 50, e Gaillard, Vie de François I, tom. IV, p. 246, da cui viene citata la lettera scritta su tal proposito da Francesco I al suo ambasciatore d'Inghilterra, del 16 luglio 1533.
[953] Annali, al 1534, p. 285. - Vedi Tatti, Annali di Como, decade III. - Giulini, Annali d'Alessandria. - Cicereio, Epistolae, tom. II, p. 123, e un MS. presso il signor don Carlo Trivulzi, intitolato: Memorie fossane.
[954] Lib. IV., fogl. 82-83.
[955] Ercole Gonzaga.
[956] Guicciardini, lib. XX. - Muratori, Annali, 1534, p. 287.
[957] La morte del duca Francesco II Sforza viene fissata dai Maurini (Art de vérifier les Dates, p. 840) al giorno 24 di ottobre del 1535; dal Bugati, p. 827, nel fine di ottobre; dal Morigia (Storia di Milano, p. 105), all'ultimo di ottobre, e finalmente da altri, il 2 novembre. Sebbene io non creda di tanta importanza per il progresso delle umane cognizioni il dilucidare simili oggetti, quanto per avventura lo crede il signor canonico Lupi di Bergamo, che in un volume in foglio stragrande ha fatto conoscere d'aver consunta la sua vita, e adoperata la sua inesausta pazienza per indovinare simili punti, realmente indifferentissimi per conoscere bene la storia, nondimeno, per trovare la verità con minor tempo e pena possibile, ho fatta ricerca nell'archivio arcivescovile, ed ivi nel diario A del 1534 al 1580, al fogl. 36, tergo, ho trovata l'annotazione che il duca Francesco II morì il giorno 1° di novembre 1535. Se il signor canonico avesse ben intesa la p. 57 ch'ei cita del mio primo volume, e se egli distinguesse la cronologia della storia, non si sarebbe fatte le meraviglie ch'egli, innocentissimamente, si è fatte alla colonna 1040 del suo immenso tomo. Il Muratori, padre e maestro della erudizione d'Italia, pubblicò nella sua opera Rerum Italicarum Scriptores i materiali per la storia italiana, e non sono della specie di quelli che vorrebbe il chiarissimo signor canonico ch'io trovassi buoni a tal uso. Se mai alcuno leggerà l'opera del signor Lupi, sappia che altra storia di Milano, ch'ei mi pone in confronto, è stata da me donata alla biblioteca Ambrosiana, dove ciascuno che il voglia potrà profittarne.
[958] Cap. XV.
[959] Lib. IV, fogl. 89 e 90.
[960] Lattuada, Descrizione di Milano, tom. IV, p. 7.
[961] Lattuada, tom. III, p. 98.
[962] Burigozzo, all'anno 1535, lib. IV, fogl. 86.
[963] Morigia, nella di lei Vita.
[964] Morigia, Storia di Milano, p. 105.
[965] Lib. V.
[966] Tom. IV, p. 273 e sg.
[967] Burigozzo, lib. IV, fogl. 92 e 93.
[968] Su di ciò
veggansi Beaucaire, lib. XXI, num. 22 e sg. - Sleidan, Commentar., lib. X. - Mèmoires de Langey,
lib. V. - Gaillard, tom. IV,
p. 305 e sg.
[969] Burigozzo, lib. IV, fogl. 92.
[970] Lib. V.
[971] In mezzo a intollerabili dolori di un morbo miserando, con tutte le membra contratte e totalmente assiderate.
[972] Veggansi le Mèmoires de Bellay,
lib. VIII. - Sleidan, Comment., lib. X. - Mèmoires de
Langey, lib. VII. - Beaucaire, lib. XXI, num. 52. Gaillard, Vie de Franc. I, tom. IV, p. 449 e sg.
[973] Du Mont, Corps Diplomat.
[974] Burigozzo, lib. IV, fogl. 102.
[975] Bugati, lib. VII, p. 866.
[976] Du Mont, tom. IV, part. II, p. 290. - Appartiene a
quest'anno la seguente memoria che leggesi scolpita in marmo in Vermezzo, terra
del Milanese: MDXL., Annus hic bisextilis fuit, et luminare majus fere totum
eclipsavit. A septimo idus novembris ad septimum usque aprilis idus nec nix nec
acqua visa de coelo cadere: attamen praeter mortalium opinionem, Dei clementia,
et messis et vindemia multa. L'ecclissi seguì il 7 aprile e fu
centrale, come può vedersi a suo luogo nella grand'opera intitolata: L'art
de vèrifier les Dates; ma il totale ecclisse fu visibile soltanto
verso il polo artico. Una simile siccità avvenne dall'ottobre del 1733
fino al maggio del
MDXL Quest'anno fu bisestile e il luminare maggiore quasi tutto si ecclissò: dal settimo giorno delle idi di novembre fino al settimo delle idi di aprile, né neve, né acqua si è veduta cadere dal cielo. Tuttavia contra l'opinione de' mortali, per clemenza di Dio, e la messe e la vendemmia furono abbondanti.
[977] Burigozzo.
[978] Robertson, Storia di Carlo V, tom. II, p. 293.
[979] Bellati, Serie de' governatori di Milano, p. 2, nota 3.
[980] Somaglia, Alleggiamento dello Stato di Milano, articolo Mensuale, p. 160.
[981] Somaglia, Alleggiamento, ecc.; Relazione del Censimento del 1750, capp II e IV.
[982] Veggasi la di lui Vita, scritta dal suo segretario Goselini.
[983] Ripamonti, p. 118. -
Casati, Annotationes ad Epistolas Francisci Cicerei, tom. II, p. 25.
[984] Lunig, Codex Italiae diplomat., tom. I, sect. III, class. I, cap, I, nn. 51 e 52. - Gaillard, Vie de François I, tom. V, p. 399.
[985] Storia Univ., libro VII, p. 960.
[986] Vedi il tom. I, cap. I, p. 74.
[987] Bugati, Storia Universale, lib. VII, p. 970 e 971. Lattuada, tom. IV, p. 452.
[988] Bugati, Stor. Univ., lib. VII, p. 994.
[989] Quest'insigne deposito è disegno dell'immortale Michel Angelo Buonarroti, eseguito da Leone Aretino, milanese, e da esso terminato nel 1564 al prezzo di settemila ed ottocento scudi d'oro, oltre le sei colonne donate da Pio IV. Ciò rilevasi dall'istrumento di convenzione per questa grand'opera, seguìta il 12 settembre 1560, tra il cardinale Moroni e Gabrio Serbellone a nome di Pio IV, e Leone Aretino, figlio di Giovanni Battista, milanese, della parrocchia di San Martino in Nosigia. Così nell'archivio di casa Medici, cartella segn. C. I., num. 8. - (Nota dell'abate Frisi).
[990] Dumont, Corps diplomatique.
[991] Camillo Sitoni in Chronic. Coll. Judic., citato dal Lattuada, tom. IV, p. 10.
[992] Saxius, De studiis mediolanensibus, cap. XI, col. 48.
[993] Lattuada, tom. V, p. 441.
[994] Bugati, Storia Universale, lib. VII, p. 965.
[995] De mutatione nominis,
oratio ec. coram senatu habita; Mediolani, 1541 e
[996] Lattuada, Descrizione di Milano, tom. V, p. 170.
[997] De vita et rebus gestis Caroli S. R. E. cardinalis tit. S. Praxedis, archiep. Mediol., libri VII. Carolo a Basilica Petri, praeposito gen. Congr. Cler. Reg. S. Pauli, auctore. Ingolstadii, ex officina Davidis Sartorii, 1592, lib. I, pp. 25 e 26.
[998] Pei quali, mentre li possedeva, insigne, e dopo averli rinunziati più ancora insigne egli fu.
[999] Lattuada, tom. III, p. 197.
[1000] Bescapé, Vita, cit., p. 27.
[1001] Idem, loc. cit.
[1002] Oltrocchi, nelle note
alla versione latina della Vita del cardinale Borromeo, scritta da Gio.
Pietro Giussani; Milano, 1751, lib. I, col. 51, nota (b), e col. 52, nota
(d). Ecco letteralmente il testo: (*) Eadem qua Carolus tegebatur umbella
Gubernator ad Antistitis laevam impari gressu equitans, ut medius ex umbella
postrema equus extaret. Ita
scribit Carolus ad Cardinalem Novocomensem... Et fusius ad Altempsium
Cardinalem triduo post in hanc sententiam scripsit: '"... Me praecipue
Gubernatoris religio et pietas sibi devinxit, quem mei et Pontificis
observantissimum nactus summopere recreor". Indi conchiude l'annotatore: (**) Tanta
itaque fuit omnium Ordinum in eo excipiendo pompa, ut Hieronimus Vida,
invidiosa ferme sententia, testatum fecerit biduo post in epistola, "tanta
Borromeum celebritate exceptum, ut vix a regali pompa differret".
(*) Sotto il baldacchino medesimo dal quale Carlo era coperto, il governatore, a sinistra del prelato, cavalcava con minor passo acciò la metà del cavallo rimanesse fuori per di dietro dal baldacchino. Così scrive Carlo al cardinale di Como... E più copiosamente scrisse tre giorni dopo al cardinale Altemps in questi termini: «...Sopratutto la religione e la pietà del governatore a lui mi strinse, il quale sommamente rallegromi aver trovato di me e del pontefice devotissimo».
(**) Tanta fu dunque la pompa di tutti gli ordini nell'accoglierlo, che Gerolamo Vida, certo con invidiosi termini, attestò in una lettera data due giorni dopo, con tanta celebrità essere stato accolto il Borromeo, che appena si distingueva da una regia pompa
[1003] Storia di varii
conclavi, cominciando da quello del
[1004] Lattuada, tom. IV, p 7, e tom. V, pp. 261 e 433. - Giussani, Vita di san Carlo, lib. III, cap. I.
[1005] Bescapé, opera citata, p. 56, e gli altri storici contemporanei.
[1006] Oltrocchi, nelle Note alla Vita latina di San Carlo, lib. II, cap. XIV, col. 144, nota (d).
[1007] Praesidiis ante paratis, si quis forte promulgationi vellet resistere: Bescapé, p. 55.
Predisposti i mezzi pel caso che alcuno volesse per avventura resistere al bando.
[1008] Res longe gravissima iis (Praepositis) videbatur ex eo statu quem sibi proposuerant cum ei se Ordini addixerunt, ademptis beneficiis quae consueta coeterorum via obtinuerant, tantis detractis commodis et facultatibus, ad eam vitam compelli, in qua et tenue esset quo quis uteretur, et idipsum non esset proprium, quaeque severis aliis contineretur institutis. Nihil enim minus sive ipsi, sive parentes iis dignitatibus quaerendis fortasse spectaverant, quamvis spectare debuissent, quam monasticam coenobiticam disciplinam. Sed quemadmodum vulgo de aliis fieri solet sacerdotiis quae legibus eiusmodi coenobiticis libera sunt, id sibi suisque comparare plerumque studuerant, quod vitae commoditati nobilitatique sustentandae deserviret. Cognati quoque ipsi, qui Praepositorum opes ad familiae suae splendorem pertinere videbant, easque ad juniores eiusdem familiae deinceps transferendas sperabant, sancitas leges, quantum poterant, dissolvere conabantur. Bescapé, p. 56. - Vedansi anche il Rossi, Vita latina di san Carlo, lib. II, cap. XIV, col. 145-146, e Bugati, Storia Universale, lib. VIII, p. 1079.
Sembrava loro (a' Proposti) cosa eccessivamente gravosa che, da quella condizione la quale si erano proposta quando abbracciarono quell'ordine, tolti loro i benefizi, che avevano per la consueta via di tutti gli altri ottenuti, e levati loro tanti commodi e facoltà, fossero ridotti a quella vita in cui e tenue era ciò che da ciascuno doveva usarsi, e quest'esso non proprio, e la quale veniva raffrenata da altre severe istituzioni. Imperocché a nulla avevano, sia essi che i loro parenti, mirato meno nel ricercare queste dignità (benché avessero dovuto mirarvi) che alla monastica cenobitica disciplina. Bensì come suole comunemente avvenire rispetto agli altri sacerdozi, che da siffatte cenobitiche leggi sono liberi, aveano per lo più posto la mira a procacciarsi tal cosa che giovasse a sostentamento dei comodi della vita e della nobiltà. I congiunti altresì, che le ricchezze dei proposti vedevano rivolte allo splendore delle loro famiglie, e speravano quelle trasferire in appresso ad altri più giovani delle stesse famiglie, sforzavansi di mandare a vuoto, per quanto potevano, le stabilite leggi.
[1009] Bescapé, p. 40.
[1010] Bescapé, pp. 42 e 49.
[1011] Id., pp. 65, 66 e 68.
[1012] Tiraboschi, Vetera Humiliatorum Monumenta, tom. I, dissert. VIII. De Humiliatorum extinctione, p. 416.
[1013] MS. esistente nella cospicua collezione del signor principe Belgioioso d'Este, che ha per titolo: Processo per la coniura fatta dai frati Umiliati, ecc.
[1014] Il vescovo di Lodi, delegato pontificio per il processo dell'archibugiata, fu Antonio Scarampi; e parte dell'esame fatto dal cardinale Borromeo venne pubblicata dal P. Branda nella Confutazione de' Ragionamenti apologetici del dottore Baldassare Oltrocchi. Pavia, 1755 alla p. 245.
[1015] Manoscritto citato.
[1016] At fuere etiam, qui dum cauti atque intelligentes svideri perverse vellent, in maximam inciderent temeritatem, Caroli id fuisse artificium ut sibi opinionem quaereret sanctitatis. Bescapé, p. 77.
Ma furonvi anche di quelli i quali, nel voler apparire perversamente acuti ed intelligenti, caddero nella massima temerità di pensare, questo essere stato un artificio di Carlo per acquistare riputazione di santo.
[1017] La Bolla d'abolizione è nel Bollar. Roman., tom. II, fogl. 328. - Vedansi Bescapé, p. 87. - Latuada, tom. V, p. 260. - Tiraboschi, tom. I, dissert. VIII, p. 427.
[1018] Bescapé, luogo citato.
[1019] Oltrocchi, nota b
alla Vita latina di san Carlo, lib. II, cap. 28, p. 210. - Latuada, tom. I, p. 190 e sgg.
[1020] Art de vérifier les Dates, art. Philippe II.
[1021] Bescapé, pp. 102 e 103 - Lettera del cardinale di Como all'arcivescovo Borromeo, che leggesi nella Confutazione de' Ragionamenti apologetici pubblicali dal dottor Baldassare Oltrocchi, p. 436.
[1022] Cronaca del marchese
Lorenzo Isimbardi, di varii successi dal
[1023] Bescapé, p. 224.
[1024] Vedi Gaspare Bugati, Fatti di Milano al contrasto della peste. - Giacomo Filippo Resta, Vera narrazione del successo della Peste. - Cicerei, Epist., tom. II, p. 248.
[1025] Bugati, Aggiunta alla sua Storia Universale, Milano, 1571, p. 167.
[1026] Pp. 145, 146, 147 e 173.
[1027] Bescapé, p. 145. - Lattuada, tom. III, p. 122.
[1028] Vedi gli storici della sua Vita, e specialmente il Bescapè pp. 193, 194, 195, 290, e 363; e inoltre il Latuada, tom. IV pp. 47, 68, 212, 318, e tom. V, pp. 111, 262, 407; e il Bugati, Aggiunta, ecc., p. 143.
[1029] Lettera 4 luglio 1579, tra le Lettere del glorioso arcivescovo di Milano san Carlo Borromeo, cardinale di Santa Prassede. Lugano, per l'Agnelli, 1762.
[1030] Cronaca citata, all'anno 1580.
[1031] Sotto il contestabile di Castiglia fu stampato, nel 1597, il libro: Quaderno de varias escrituras en las deferencias de Jurisdiciones ecclesiastica y real del estado de Milan.
[1032] Atti della visita del cardinale Federico Borromeo del 1608.
[1033] Bianconi, Guida di Milano, pp. 122 e 157.
[1034] Lattuada e Manconi, p. 79.
[1035] Lattuada, tom. V, p. 284.
[1036] Fr. Cicereji, Opera, tom. II, p. 183.
[1037] Il seguente avviso fu dal vicario di Provvisione distribuito agli eletti per l'entrata della regina: «Volendo questa città di Milano ricevere con tutti quei segni di riverenza e d'onore che si devono la serenissima principessa, moglie del principe nostro signore, la cui venuta in breve s'aspetta, ha stabilito, fra le altre cose, che si eleggano ducento e più cavalieri nobili, di età di quattordici anni in su, che vadino ad incontrarla, vestiti a spese loro, tutti di seta bianca et oro come meglio a ciascuno parerà, purché habbino calze abborsate con tagli, et calzette di seta bianca, berretta di velluto nero solio con piume bianche, spade, pugnali et azze dorate in spalla, ogni cosa guernita di velluto solio bianco, et scarpe di corame bianco. E perché fra queste si trova eletta la persona di V. S., d'ordine anche di sua eccellenza, l'avvisiamo di tale elezione, assicurandoci che per servire al proprio signore e principe naturale e alla patria insieme, per i quali è tenuta ogni persona a spendere non solo le facoltà, ma il sangue e la vita ancora, ella accetterà volontieri questo carico e onore, col provvedersi dei vestimenti et ogni altra cosa necessaria, nel modo che di sopra s'è detto di qua alli 25 di novembre presente, al più tardi, acciocché quando giungerà sua altezza, la quale si ha nuova certa che di già è partita, si trovi V. S. pronta insieme con gli altri a fare il suddetto compimento. Avvisandola che sua eccellenza ha dichiarato il signor marchese di Caravaggio capo di questi nobili, e avvertendola che contra gli inobbedienti ha ordinato che si proceda alla pena di cinquecento scudi, e maggior pena ancora all'arbitrio suo, alla quale saranno tenuti i padri per i figliuoli. Né si admetterà alcuna escusazione, perché S. E. così comanda, Anzi ha ordinato che quelli che sono uomini di arme, entrino in questo numero, esentandoli da quel carico per adesso. E per rispetto delle azze potrà V. S. far ricapito dal spadaro al segno del Leon d'oro nella contrada dei Spadari.
Et inoltre sarà V. S. contenta di ritrovarsi in casa del suddetto signor marchese martedì prossimo, che sarà alli 3 del presente mese, dopo il desinare, per intendere quanto se le vorrà dire in questo particolare».
In Milano, alli 2 di novembre 1598.
Sott. Il vicario e dodici di Provvisione eletti dai
signori sessanta, ec.
«Gio. Jacomo Chiesa».
[1038] Le grazie d'Amore, di
Cesare de' Negri, milanese, detto il Trombone: Milano, presso Ponzio e
Piccaglia,
[1039] Libro citato, p. 35.
[1040] Opera citata, p. 13.
[1041] P. 25.
[1042] Trattato di Scientia d'arme, con un dialogo di filosofia, di Camillo Agrippa, milanese: Roma, presso Antonio Blado, stampatore apostolico, in 4°.
[1043] Negri, opera citata, p. 14.
[1044] P. 287
[1045] Siècle de Louis XIV, cap. XXV.
[1046] Stato della repubblica Milanese l'anno 1610, MS. del citato senatore, esistente nell'archivio dell'illustre casa Belgioioso d'Este; Cap. dei Governatori, fog. 331, tergo. - Di quest'opera dà conto l'Argellati nella Biblioteca degli scrittori milanesi.
[1047] Ut aditus et reditus a justitia ad clementiam facillimi certissimique paterent, viam hanc e Regia ad Praetorium aperuit.
[1048] Philippo III, Hispaniarum Rege potentissimo, imperante, D. Petrus Enriquez Azevedius, Fontium Comes, externi belli victor domestici extinctor invictus, dextera amabilis, sinistra formidabilis... carcerum fores regiae curiae objecit, ut principis advigilantis oculus fidissima est justitiae custodia.
[1049] Latuada, tom. V, p. 26 e sg.
[1050] M. del senator Visconti, fogl. 279.
[1051] Visconti, MS. citato, fogl. 337.
[1052] Philippo III, Hispaniarum et Indiarum Rege, Mediolani Duce, Regnante, D. D. Petrus de Enriquez Azevedius, Provinciae Mediol. Gubernator et Fontium Comes, opere hoc praeclaro Verbani et Larii huc deductas aquas irriguo navigabilique Ticino ac Pado immiscuit, ubertatem et jucunditatem agrorum, artificum studia, publicas ac privatas opes accessu et commercio facili amplificando.
[1053] MS. suddetto, fogl. 284, tergo.
[1054] MS. citato.
[1055] Quanto quis servitio promptior, opibus et honoribus
extollebatur.
(Quanto più pronto era taluno alla servilità, più era innalzato di ricchezze e d'onori).
[1056] Visconti, nel citato MS. fogl. 349.
[1057] MS. suddetto, fogl. 350.
[1058] Caterina Medici, che viene chiamata «impurissima femmina, strega e fattucchiera funestissima, avvelenatrice inumanissima; che da quattordici anni, abbiurata la religione cristiana, e obbligatasi al principe delle Tenebre, ha frequentato i luoghi infernali e i conciliaboli de' demonii, li ha nefandamente adorati, e danzato, mangiato e giaciuta con essi; e con arti diaboliche e veneficii ha tratto o procurato di trarre molti uomini ad amarla, ed ha affascinati ed uccisi molti bambini col sottrarre dai loro corpicelli il vital sangue; e finalmente tali e tanti delitti ha commesso, che il senato, nell'udire il racconto, inorridì. Perciò statuitole un termine alla difesa, e fatta difendere d'ufficio (poiché nessuno si presentò per farlo), questa sacrilega e detestabil donna fu condannata, previa la tortura ad arbitrio della curia per la manifestazione d'altri delitti e dei complici, ad essere, con mitra in capo, avente l'iscrizione del reato, e cinta di figure diaboliche, condotta al luogo del pubblico patibolo sopra un carro, percorrendo le vie principali della città, tormentata, durante il cammino, con tenaglie roventi, e per ultimo bruciata. E avendo la detta strega confessato molte cose pertinenti all'ufficio della Santa Inquisizione, il senato ordinò che fusse prima consegnata al rev. padre inquisitore, il quale, compite le cose da compirsi, l'abbia a riconsegnare all'egregio capitano di giustizia». Così nella sentenza, di cui ecco il tenore: Retulit in Excellentissimo Mediolani senatu egregius capitaneus justitiae longam atque integram seriem et processum causae instructae adversus impurissimam foeminam, Catharinam Mediceam, Papiensem, strigem lamiamque teterrimam, et veneficam immanissimam, quae ex pluribus et perspicuis inditiis ac testimoniis atque ex propria confessione, cognita est jam supra annos quatuordecim cristianam fidem ejurasse, seque principi Tenebrarum devinxisse, tartarea loca, daemonum conciliabula una cum alijs strigis et lamiis frequentasse, eos nefarie adorasse, et cum eis saltasse et comessatam fuisse ac concubuisse; multosque homines diabolicis artibus et veneficiis in sui amorem traxisse, vel certè trahere studuisse; multos item infantes, subtracto e corpusculis vitali sanguine, fascinasse atque necavisse... Demum tot ac tanta scelera patrasse, ut senatus ipsa audiendo cohorruerit. Retulit pariter idem capitaneus statum fuisse praedictae mulieri aliquod spacium ad se defendendum, quo in tempore cum nihil egerit, curiam de ea in suffragium ivisse, sententiamque suam protulisse, quam ibidem recitavit, judicioque eiusdem excellentissimi ordinis submisit. Qui misertus ac pertaesus harum calamitatum artiumque infernarum, quae passim jam per Urbem hanc et Provinciam universam grassantur, statuit ad exemplum etad terrorem huiusmodi monstrorum maxime pertinere ut huic sacrilegae et detestandae mulieri digna malefactis suis supplicia erogentur. Omnibus igitur et singulis rebus suprascriptis diligenter ac maturae perpensis, censuit praedictam Catarinam Mediceam, denunciata morte, super aliis criminibus et criminum sociis torquendam arbitrio Curiae, habitaque pro repetita et composita seu confrontata... plaustro imponendam, mitratamque ad infamiam, cum inscriptione criminis, ac figuris diabolicis redimitam, ad locum pubblici patibuli trahendam esse per regiones Urbis insigniores, atque interim pluries forcipe candenti... vellicandam donec eo pervenerit, ibique demum flammis concremetur... Verum quia praedicta Lamia multa fassa est quae ad cognitionem Sanctae Inquisitionis Offici pertinent, censet idem Senatus eam prius tradi debere rev. P. inquisitori, ut prefectis perficiendis ipsam egregio capitaneo justitiae restituat. - Signat. Io. Baptista Saccus. Questa sentenza fu eseguita il 4 marzo 1617, e avendo essa la data del 4 di febbraio, è da credere che il mese che trascorse prima dell'esecuzione siasi consumato presso il Santo Officio. Il fatto è il seguente:
Nell'autunno del 1616 il senatore Melzi si ammalò con dolore allo stomaco; non aveva febbre, ma inappetenza, poi dimagrò e perdette il sonno. Il medico che lo assistiva, era il fisico collegiato Giacomo Angelo Clerici, ma vennero consultati anche i due fisici di collegio Lodovico Settala e Giambattista Selvatico. Erano passati due mesi da che languiva per quest'incomodo il senatore, quando venne, verso la metà di dicembre, a visitarlo il capitano Vacallo, il quale, vedendo che il senatore aveva per cameriera Catterina Medici, da lui altre volte conosciuta, avvertì il senatore essere quella una famosissima strega, e la peggiore che si potesse trovare, poiché aveva maleficiato lui mentre stava in sua casa. Due figlie del senatore, monache in San Bernardino, informate di questo, si fecero mandare i cuscini del di lui letto, e vi trovarono dei nodi di piume e filo con carboni e pezzetti di legno, i quali portati al curato di San Giovanni Laterano, ch'era esorcista, furono tosto giudicati opera diabolica di stregheria. Si venne in formalità ad abbruciarli nella stanza del senatore cogli esorcismi, e mentre si bruciavano, crebbero i dolori allo stomaco dell'ammalato. Allora il dottor collegiato Lodovico Melzi, figlio del senatore, imprigionò in una stanza di casa Catterina Medici, e le disse che si sapeva già ch'ella aveva maleficiato il senatore, e che o lo disfaccia; se no, per giustizia si sarebbe fatta abbruciare. Ed a principio negò essa Catterina... Il processo non dice con quai terrori venne poi costretta quell'infelice ad accusare sé medesima, ma si vede che si accusò prima che fosse posta prigione. Si pretendeva che fosse marcata diabolicamente sulla schiena, ed ella asserì che potevano essere state le coppette tagliate. Il curato di San Giovanni Laterano venne a due ore di notte, e, dopo di averla esorcizzata, la obbligò a stendersi per terra, ed ei, calpestandola, le pose un piede sul collo, e, in quella positura l'obbligò a rinunciare alle supposte promesse fatte al diavolo.
Il
motivo per cui il capitano Vacallo si credeva maleficiato fu perché, avendo in
sua casa questa Catterina Medici, n'era innamoratissimo, onde si
consigliò col P. Scipione Carrera, col P. Albertino e col signor
Girolamo Omati, e mi levarono di casa
Mentre la Medici stava rinchiusa in una stanza
nella casa del Melzi, e assediata da una moltitudine di domestici e famigliari,
venne forzata a insegnare il modo per guarire il senatore, ed ella disse: che
bisognava tor una fascia nuova et con essa misurare il signor senatore per
larghezza et per lunghezza, et farli porre tre volte le braccia in croce
prostrato prima in letto con la pancia in giù; et che lei lo aurebbe
levato dal letto facendogli dire in quell'istante tre Pater et tre Ave Maria da
duoi figliuoli vergini a onore della Santissima Trinità, et che lei
nell'atto che havesse levato il signor senator dal letto con la fascia
sotto la pancia avrebbe detto: - Chi leva Senic et chi la sanità: -
et che in tal modo il maleficio restava disfatto, et il signor senatore sarebbe
guarito.
Il medico Lodovico Settala, esaminato il giorno 28 dicembre 1616, avendo egli circa sessantaquattr'anni, espone così: «Io più d'una volta ho sentito dal signor senatore che pativa dolori di stomaco stravaganti, che all'improvviso sopragiungevano et all'improvviso si partivano, restando libero come se non avesse avuto male, e che pure non vi dava alcuna occasione: per la qual cosa domandò aiuto e a me e al signor medico Clerici, perché s'andava ogni giorno smagrendo e consumandosi. Facessimo colleggio dieci o dodici giorni fa, nel quale, sebbene attentissimo alla cura come a male naturale, restassimo però con qualche maraviglia della maniera dei dolori; poiché, sendo così stravaganti, ci pareva esservi dentro cosa che ben bene non si poteva ridurre a soli principii naturali; sendo ancora che lui non haveva mai avuto febbre. Ma da pochissimi giorni in qua mi fu detto che si era scoperto quella malattia havere origine da causa sopranaturale, sendosi scoperta in casa sua una donna sospetta di strega. Per il che subito me ne andai dal detto signor senatore per intendere i particolari e certificarmi della verità di questo, confermandomi nel mio dubbio primiero delle stravaganze de' passati accidenti, potendoli ridurre a questa causa soprannaturale delle malìe, tanto più havendone visto molti altri esempi in questa città, ne' quali essendoci noi affaticati in vano con rimedii naturali, scoperti poi esser causati da malìe, si rendevano curabili con esorcismi soli, e intesi come questa donna aveva confessato la verità di aver fatto i maleficii a questo signore. Anzi di più, sendosi trovato presente alla mia visita un religioso esorcista di molto valore, mi disse havere scoperto questa donna essere strega famosa e professa, anzi essere delle segnate e marcate del demonio, e però non mi maraviglio che il male del detto signor senatore non cedesse». Lo stesso medico Settala, in altro esame, così disse: «Considerando io la qualità de' dolori che ha il detto signor senatore, la continuità loro, la parte offesa che è tutto il ventricolo, parte principalissima che comunica col cuore, ch'è destinata dalla natura ad uso necessariissimo, cioè alla preparazione e digestione de' cibi, dico tale infermità esser tale, che senza dubbio alcuno era per apportar la morte per la veemenza de' dolori, per l'impedimento delle azioni e per l'impedimento del dormire; che già si vedeva per il principio della magrezza e della consumazione della carne. Anzi credo io certo questi maleficii non esser fatti ad amorem, come spesse volte si fanno, ma ad mortem, come sogliono le maghe promettere al diavolo tanto l'anno; perché, per la lunga esperienza che ho avuto in varii casi occorsimi, i maleficii ad amorem portano accensione di spiriti, commozione di sangue, passione di cuore, alienazione qualche volta di mente, con desiderii carnali, et in particolare con rabbiosi affetti verso alcuno; non dolori di stomaco, non simili accidenti, in tutto contrari, se non qualche volta per errore fatto da qualche maga non esperta, come non è verisimile esser costei; havendo inteso dall'esorcista che con lei a lungo ha trattato, costei essere strega pratica et professa et marcata, che vuol dire esser dottorata in simil arte. E perciò concludo tali maleficii più tosto esser stati ad mortem, come sogliono, come ho detto, fare e promettere in grazia del demonio. E questo è quanto posso dire, côlto dall'esperienza e pratica che ho avuto in simili casi, e per quello che ho letto ne' gravi scrittori che di questa materia trattano».
Questa infelice doveva avere circa quarantaquattro anni quando fu giuridicamente assassinata. Ella era nata in Brono da Giovanni de' Medici, maestro di scuola. Da principio negli esami si dichiarava innocente, poi venne tormentata, e il decreto del senato fu: (*) 1617 die decima januarii. Senatus mandavit ad relationem Egregii Capitanei Justitiae dictam Catharinam Torturae subjici debere, adhibita ligatura canubis ac etiam taxillo, arbitrio curiae, pro habenda ulteriori veritate, ac etiam super aliis; e nel giorno stesso 10 gennaio esaminata, (**) negat scire quid sit ludum vulgo Barilotto, negat etiam scire formam liberandi D. Senatorem a praedicto maleficio. Negat che il demonio fosse assistente ec. Redarguta, perseverat in negativa... Tunc fuit et comminata tortura ad formam ec. ubi non dicat veritatem... Respondit non ho fatto altro... et cum propterea fuerit ei funis brachio dextero applicata, et iam stringeretur, dicit: dirò la verità, fatemi desligare; et sic soluta ec... e allora recitò una lunghissima fila di Barilotti e maleficii i più pazzi e strani.
(*)
1617, il dì 10 gennaio. Il Senato, per relazione dell'egregio capitano
di Giustizia, comandò doversi sottoporre alla tortura
(**)
Nega sapere che cosa sia il gioco volgarmente detto Barilotto; nega pure
di sapere il modo di liberare il signor Senatore dal predetto malefizio. Nega che
il Demonio fosse assistente, ec. Redarguita, persiste nella negativa...
Allora le fu minacciata la tortura nella forma ec., quando non dica
[1059] Bianconi, Nuova Guida di Milano, p. 258.
[1060] Bosca, De origine et statu Bibl. Ambr., lib. II, p. 561. - Saxius, De studiis literariis Mediol., cap. XII, col. 54. - Lattuada, Descrizione di Milano, tom. IV, p. 94.
[1061] Sopra un volumetto che contiene gli atti dell'indicata controversia, prezioso MS. esistente nella biblioteca Ambrosiana, trovasi scritto di mano propria del cardinale Federigo: Questo libro costa centomila scudi; con che è venuto egli a dichiarare le spese fatte per venire a capo della concordia. - (Nota del canonico Antonio Francesco Frisi).
[1062] La consulta
è del 9 agosto 1618, ed ha questo principio: (*) Cum ecclesiastici
paulatim, unus post alium, adversus impositionem onerum pro parte colonica
bonorum Ecclesiae insurgerent, comminando et promulgando censuras contra
deputatos, comules et syndicos Communitatum...; et cum parochi
ecclesiarum recusarent Sanctissima Sacramenta Deputatis ministrare, Episcopi
verò absolutionem a Censuris denegarent nisi refectis damnis..., et nisi
praestita cautione quod in futurum ab ea abstinuissent; senatus, omnibus denuo
attente consideratis, pro eo quod pertinet ad Justitiam, licet non desint qui
Ecclesiae partes tueantur, cognovit tamen veriorem et magis receptam sententiam
hanc esse, ut possit princeps Collectam exigere a colonis Ecclesiae pro valore
fructuum ad eos spectantium, et ita servari in aliis provinciis: immo vero ita
jamdiu servatum fuisse in multis huius Dominii partibus, et in omnibus a multis
annis citra. Sed vidit etiam episcopos et ipsum summum pontificem ita
persistere in censuris, ut neque per nos ab eis removeri possint ullis
rationibus, neque nobis remedia ulla supersint, quibus defendere ab illis
valeamus laicos in exactione onerum perseverantes, necque nostram quasi
possessionem in qua sumus, satis tueri ec... e termina quindi
concludendo: (**) Reliquum est ut Majestas Vestra, re tota
intellecta, quid nobis inter has angustias agendum sit praescribere dignetur.
Essendoché gli ecclesiastichi a poco a poco, un dopo l'altro, contro la imposizione degli aggravii per la parte colonica dei beni della Chiesa insorgevano, minacciando e promulgando censure contra i deputati, consoli e sindaci delle comunità... ed essendoché i parrochi delle chiese ricusavano di amministrare i Santissimi Sacramenti ai deputati, e i vescovi poi negavano l'assoluzione dalle censure, se pria non erano risarciti i danni, e se non si prestava sicurtà che in futuro da quella si sarebbono astenuti: il Senato, ogni cosa di nuovo attentamente considerata, per quello che appartiene alla giustizia, benché non manchino di quelli che difendono le parti della Chiesa, riconobbe tuttavia essere più vera e più assentata questa sentenza che possa il principe esigere la colletta dai coloni della Chiesa pel valore dei frutti loro spettanti; e così essere l'osservanza in altre province, che anzi così essere stata già da lunga pezza la pratica in molte parti di questo Dominio, ed in tutte molti anni addietro. Ma vide altresì che i vescovi ed il sommo pontefice stesso così persistono nelle censure che né si possono per noi rimuovere da esse con veruna ragione, né a noi rimedio alcuno sopravanza col quale possiamo difender da quelle i laici perseveranti nell'esazione degli aggravii, né difendere abbastanza il nostro quasi possesso in cui siamo ec.
(**)
Rimane che
[1063] Ripamonti, De Peste, ec., p. 20
[1064] Ibid. p. 41, e
annotazioni MS. a un Vecchio Diutile presso
[1065] Rivolta, Vita di Federico Borromeo, lib. V, cap. XXI, p. 168.
[1066] Ripamonti, p. 50 e seg. Nel citato Diutile, scritto da un medico-chirurgo, essendovi notate le visite di Santa Corona, leggesi MS. quest'annotazione: «1629, 7 novembre. Nel bettolino di San Francesco sul corso di Porta Comasina, passato il Carmine, morì improvvisamente uno venuto da luogo infetto. Non si conobbe ch'ei fosse morto di peste. Fra alcuni giorni l'oste e garzoni s'ammalarono e morirono».
[1067] Si fecero giuochi, tornei, allegrezze grandi. Si cantò il Te deum a Santa Maria presso San Celso. Sulla piazza del Duomo si diede un fuoco artificiale stupendo, che rappresentava il monte Etna. Il ragguaglio ed il disegno della macchina sono stampati. Il gesuita Emanuele Tesauro, celebre maestro d'eloquenza in que' tempi, recitò la orazione; e per dare un'idea del solo modo di scrivere, ne riporterò alcuni tratti. Fra le altre cose disse: Ma che in questi anni, meglio che in altri, sia la fortuna appassionata per questa casa reale, facciane fede, non altri, l'abbattuta eresia della Germania, sopra cui, passando la ruota dell'austriaca fortuna, hormai le ha frante le armi e tolto il fiato. O giustissimi sdegni e trionfali vendette della zelante fortuna! Tempo fu che, ritardato il valor della doglia, assai più attese la fortuna dello Impero a medicar le ferite de' suoi con la prudenza, che a ferire i rubelli con la spada: a guisa di perita nocchiera, che non potendo correre un vento intiero, corre una quarta. Ma ora al prospero soffio dell'austro gonfia tutta la vela, scorrendo liberamente, non pure il Reno e 'l Danubio e l'Albi, ma il gelato mare di Dania; anzi ne' monti ongarici et boemi per un mar di sangue rubello felicemente veleggia (p. 12). Egli, lodando il conte d'Olivares, dice che trasse il nome dagli olivi, perché ne' consigli di guerra et di pace dell'una et dell'altra Pallade merta l'oliva. Finalmente del nato bambino ci narra ch'è figlio delle Grazie, candidato dei paterni regni, gemma incomparabile della maggior corona del mondo, fondamento delle speranze, speranza et voto dei popoli, humano angioletto et mortal Dio. Il panegirico è pieno di passi d'Orazio, di testi di Platone di allusioni alle favole, di esagerazioni e adulazioni, e, sebbene recitato in San Celso, non vi è tratto veruno né del candore evangelico, né perfino di religione.
[1068] In una patente del tribunale di Sanità, sottoscritta dal presidente Giovanni Sfondrati e dal cancelliere Giacomo Antonio Tagliabò, del 20 maggio 1632, che conservavasi presso de' padri Cappuccini di quel convento, si legge che il padre Felice Casato, guardiano, comandò nel Lazzaretto per commissione del tribunale di Sanità, e cominciò alli 30 marzo con carico di reggente e governatore di detto Lazzaretto, con ampla autorità concessagli da questo tribunale di comandare, ordinare, provvedere e fare tutto quello che dalla singolare sua prudenza fosse stimato necessario;... havendo avuto sotto il suo governo et comando tal'hora più di sedicimila anime, et governato nel detto spatio di tempo centomila persone e più ec.».
[1069] Così il conte Verri verso la fine del § II dell'opera intitolata: Osservazioni sulla tortura, e singolarmente su gli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche, alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630. Questo scritto, ch'era rimasto inedito per riguardi di famiglia onorevoli all'autore, fu per la prima volta pubblicato come un'Appendice alle Opere Economiche del conte Pietro Verri, nella Raccolta degli Scrittori Classici Italiani di Economia politica, Parte Moderna, tom. XVII.
[1070] Memorie delle cose
notabili successe in Milano intorno al male contagioso l'anno 1630, ec.,
raccolte da D. Pio La Croce, p. 54. Un fanatismo simile a questo si vide in
Mosca, allorquando, l'anno 1771, la pestilenza recatavi dalla guerra co' Turchi
desolava quella città. Il popolo si pose in mente che un'imagine
miracolosa dovesse liberarlo, e la folla del concorso comunicò la
pestilenza ai sani, e accrebbe
[1071] Pestilentia vim, et nomen, et regnum vere suum obtinuit, lib. VI, p. 67.
[1072] Ragguaglio dell'origine e giornali successi della peste di Milano, dal 1629 al 1632, di Alessandro Tadino ec., lib. II, cap. 15 e 30, pp. 57 e 100.
[1073] Ripamonti, p. 112.
[1074] L'editto, pubblicato dal Lattuada (Descrizione di Milano, tom. III, p. 322), è il seguente: «Avendo alcuni temerari o scelerati avuto ardire di andare ungendo molte porte delle case, diversi catenacci di esse e gran parte dei muri di quasi tutte le case di questa città con unzioni, parte bianche e parte gialle, il che ha causato negli animi di questo popolo di Milano grandissimo terrore e spavento, dubitandosi che tali unzioni siano state fatte per aumentare la peste che va serpendo in tante parti di questo Stato; dal che potendone seguire molti mali effetti et inconvenienti pregiudiziali alla pubblica salute: a' quali dovendo li signori presidente e conservatori della Sanità dello stato di Milano per debito del loro carico provedere, hanno risoluto, per beneficio pubblico e per quiete e consolazione degli abitanti di questa città, oltre tante diligenze sin qui d'ordine loro usate per mettere in chiaro i delinquenti, far pubblicare la presente grida, con la quale promettono a ciascuna persona di qualsivoglia grado, stato e condizione si sia, che nel termine di giorni 30 prossimi a venire dopo la pubblicazione della presente metterà in chiaro la persona o le persone che hanno commesso, favorito, aiutato, o dato il mandato, o recettato, o avuto parte o scienza, ancorché minima, in cotal delitto, scudi ducento de' denari delle condanne di questo tribunale; e se il notificante sarà uno de' complici, purché non sia il principale, se gli promette l'impunità, e parimente guadagnerà il suddetto premio. Et a questo effetto si deputano per giudici il signor capitano di giustizia, il signor podestà di questa città et il signor auditore di questo tribunale, a' quali o ad uno di essi averanno da ricorrere i propalatori di tal delitto, quali, volendo, saranno anche tenuti secreti. Dat. in Milano 19 maggio 1630.
Firm. M. Antonius
Montius Praeses.
Sott. Jacobus Tagliabos, Cancellar.»
[1075] Veggasi la citata opera del conte Verri: Osservazioni sulla tortura, ec.
[1076] Ripamonti, p. 64.
[1077] Darò qui la
studiata e non inelegante iscrizione latina che leggevasi scolpita in una gran
tavola di marmo, e il faccio ancor più volentieri perché nella prima
edizione della citata Opera sulla tortura, contro la manifesta
intenzione dei tre superiori magistrati che sancirono quel legale assassinio,
è mancante de' loro nomi, e così mutila fu poscia ristampata.
HIC VBI HÆC AREA PATENS EST
SVRGEBAT OLIM TONSTRINA
JO. JACOBI MORÆ
QVI FACTA CVM GVLIELMO PLATEA PVB. SANIT.
COMMISSARIO
ET CVM ALIIS CONSPIRATIONE
DVM PESTIS ATROX SÆVIRET
LÆTHIFERIS VNGVENTIS HVC ET ILLVC
ASPERSIS
PLVRES AD DIRAM MORTEM COMPVLIT
HOS IGITVR AMBOS HOSTES PATRIÆ
IVDICATOS
EXCELSO IN PLAVSTRO
CANDENTI PRIVS VELLICATOS FORCIPE
ET DEXTRA MULCTATOS MANV
ROTA INFRINGI
ROTÆQVE INTEXTOS POST HORAS SEX
JVGVLARI
COMBVRI DEINDE
AC NE QVID TAM SCELESTORVM HOMINVM RELIQVI
SIT
PVBLICATIS BONIS
CINERES IN FLUMEN PROJICI
SENATVS JUSSIT
CUIUS REI MEMORIA ÆTERNA VT SIT
HANC DOMVM SCELERIS OFFICINAM
SOLO ÆQVARI
AC NVMQVAM IN POSTERUM REFICI
ET ERIGI COLVMNAM
QVÆ VOCETVR INFAMIS
IDEM ORDO MANDAVIT.
PROCUL HINC PROCVL ERGO
BONI CIVES
NE VOS INFELIX INFAME SOLVM
COMMACVLET
M DC. XXX. KAL AVGVSTI.
R. iustitice capitaneo |
Præside senatus ampliss. |
Præside pubblico sanitatis |
JO. BATT. VICECOMITE |
JO. BABT. TROTTO |
MARCO AN. MONTIO |
Nel luogo di questo spazio
Sorgeva altre volte la barbieria
Di Giovan Giacomo Mora
Il quale con Guglielmo Piazza pubblico Commissario di Sanità
E con altri avendo conspirato
Mentre imperversava atroce pestilenza
Con venefici unguenti qua e là applicati
Molti a cruda morte spinse
Entrambi pertanto nemici della Patria giudicati
Comandò il Senato
Che sopra di un elevato carro
Abbrostiti da prima con tanaglia rovente
E mutilati della mano destra
Colla ruota fossero infranti
E nella ruota intrecciati dopo sei ore scannati fossero
E quindi abbruciati.
Ed affinché nulla rimanesse di uomini tanto scelerati
Confiscati i beni
Volle che le ceneri gettate fossero nel fiume.
Della qual cosa onde eterna sia la memoria
Questa casa, officina di sceleratezza
Lo stesso Ordine decretò
Che adeguata fosse al suolo
Né mai potesse in avvenire rifabbricarsi
E si ergesse una colonna
Che detta fosse infame
Lungi adunque lungi di qua
O buoni cittadini
Affinché l'infelice infame suolo
Non vi contamini.
M. DC. XXX.
Alle calende di agosto
Essendo
R.
capitano di giustizia |
Presid.
amplis. del senato |
Pubbl.
presid. della sanità |
GIO.
BATT. VISCONTI |
GIO.
BATT. TROTTI |
MARCO
ANT. MONTI |
[1078] Memorie, ec., di D. Pio La Croce, di sopra citate, p. 51.
[1079] Coniectura tamen aestimatioque communis fuit, centum quadraginta millia capitum fuisse quae perierunt, reperique ita prescriptum in tabulis rationibusque iisdem, unde haec mihi petita sunt omnia quae retuli. Ripamonti, lib. IV, p. 228.
Fu tuttavia congettura ed opinione comune, che centoquarantamila anime fossero perite, e così trovai registrato nelle tavole e conti medesimi dai quali trassi tuttoche ho riferito.
[1080] Descrizione di Milano, tom. II, p. 66 e sgg.
[1081] Si conosce il costume de' tempi e singolarmente l'orgogliosa opinione de' nobili, i quali si consideravano di natura diversa degli uomini della plebe, dal viglietto seguente, che il signor don Pietro attorno una scrittura data da ti Paolo Besozzi in confidenza ad Fossani ha ritrovato in sua casa come originale di un simile che un di lui antenato scrisse a certo Paolo Besozzi: «Intendo andare alcuni pochi, alla quale non posso adequatamente rispondere per non essere arrivata alle mie mani. Pure, con quei dogmni che sono necessari alla gente vilissima e poco pratica delle corti e del trattare civile, ti dico che è solito de' buffoni e solo lor proprio privilegio farsi pari e superiori a' lor maggiori, lasciando di dargli i dovuti titoli, e presumendo di arrogarli alle loro vilissime persone, ma, innaveduti, si scordano di quel che veggono tutto dì praticarsi, che, stanchi i maggiori delle loro buffonerie e arroganze, non per vendetta, ma con animo tranquillissimo li fanno ricordare; altre volte danno di mano ad un bastone per pigliarsi spasso delle loro carni. Il simile farò con te io infrascritto non conoscendoti l'essere e il procedere tuo al merito, e nella qualità ed essere mio altra obbligazione. - 6 luglio 1649 - Antonio Francesco Fossani affermo ec.» - (Nota del Verri)
[1082] Vedi
[1083] Storia d'Italia, lib. XVII, p. 583.
[1084] Brusoni, Storia d'Italia, p, 588.
[1085] Frisi, Tomo Terzo, ossia
Continuazione della Storia di Milano, MS. Presso
[1086] Ha per titolo: Il
governo del duca d'Ossuna dello stato di Milano: in Colonia, appresso Battista
della Croce, 1678, di p.
[1087] Scudo d'Argento. Vedi Carli, Neri ed altri.
[1088] Allorché fu qui soppressa l'Inquisizione, si trovò nell'archivio di essa la comissione data all'arcivescovo di Valenza, inquisitore generale in tutti i regni e dominii di Sua Maestà Cattolica, all'inquisitore generale di Milano di ricevere il giuramento di questo governatore, come bargello maggiore (Alguazil mayor) del Santo Officio, e il processo verbale dell'esecuzione. Questo secondo documento, che può bastare ad un'erudita curiosità, è come segue: «Nella città di Milano, nel giorno 5 del mese di marzo dell'anno 1697, il rev. P. Maestro frà Prospero Leoni, inquisitor generale dello stato e dominio di Milano, in virtù della commissione dell'eccellentissimo signor don frà Giovanni Tommaso de Rocaberti, arcivescovo di Valenza, inquisitore generale, ricevette il giuramento nelle dovute forme di giustizia da S. E. il signor Diego Filippo di Gusman, duca di S. Lucar la Maggiore, affinché bene, fedelmente e diligentemente sii per usare e per esercitare l'uffizio di Barigello Maggiore del Santo Ufficio dell'Inquisizione della città di Siviglia, nella quale è stato nominato dal detto eccellentissimo signor inquisitore generale, e che osserverà il secreto di tutto ciò che S. E. saprà, vedrà, intenderà e gli sarà conferito riguardo al Sant'Ufficio dell'Inquisizione, che esattamente si deve conservare, e che aiuterà e favorirà i suoi ministri; e promise di ciò fare e adempire, e fu avvisato delle pene e censure poste nelle lettere pubblicate dal Sant'Ufficio contro quelli che non osservano il secreto: e S. E. lo firmò, essendo testimonii don Giuseppe de Zambrana, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, don Giovanni di Villamor e don Giovanni Saller, tutti tre abitanti in questa città.
Firm. Il duca di San Lucar, marchese di Leganes. |
= Frà Prospero Leoni inq. gen. di Milano, suo stato e dominio. |
Sott. Frà Angelo Battiani, vicario generale del Sant'Officio di Milano, in luogo di segretario del medesimo Santo Tribunale».
[1089] Il titolo è: Milano sempre grande ec., Nella stamperia della R. ducal corte, in 4°.
[1090] Lattuada, Descrizione di Milano, tom. IV, p. 20.
[1091] Vita del presidente
Arese. Colonia,
[1092] Latuada, tom. III, p. 251.
[1093] Argellati, Biblioth., Script Mediol., ec., tom. II pars. I, col. 1322-1324.
[1094] Tom. II, col. 1230 e sgg.
[1095] Verri, Osservazioni sulla Tortura ec., § 2.
[1096] Elogio del
Cavalieri, dell'abate Paolo Frisi, Milano,
[1097] Argellati, Biblioth., ec., tom. II, pars. I, col. 1328 e sgg. - Bosca, De origine et statu bibliothecae Ambrosianae, lib. V.
[1098] Brusoni, Storia d'Italia, Torino, 1680, lib. XXIX, p. 724 e sgg. - Bayle, Argellati, Mazzucchelli, Tiraboschi, ec.
[1099] Ottieri, Istoria
delle guerre avvenute in Europa, ec., dal 1696 al 1725, tom.
I. - Storia della Lombardia Austriaca, MS. del conte reggente
[1100] Denina, Rivoluzioni d'Italia, lib. XXIV, cap. I - Voltaire, Siècle de Louis XIV, cap, XVIII.
[1101] Elogio
dell'imperatrice Maria Teresa. Pisa,
[1102] Muratori, Annali d'Italia, tom. XVI, all'anno 1735.
[1103] Il re di
Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, ec ec.
«Illustre Giunta di governo: L'esecuzione degli articoli preliminari firmati in Vienna fra S. M. imperiale e S. M. cristianissima, il dì 3 di ottobre dell'anno scaduto, a cui abbiamo voluto dal canto nostro contribuire, portando ora l'evacuazione di cotesto ducato delle armi alleate, eccettuatine il Novarese e Tortonese, che da' medesimi ci sono stati destinati pria che questa sortisca intieramente il suo effetto, onde abbia a sciogliersi questo consesso, che essendo stato da noi con singolare studio prescelto fin dal cominciamento per l'onorevole non meno che importante incarico del governo che gli avevamo confidato, ha così lodevolmente corrisposto alla nostra aspettativa: vogliamo, per soddisfare a que' sentimenti di stima che nelle diverse occasioni ci ha dato un giusto motivo di concessione, assicurarlo de' medesimi, e del pieno nostro aggradimento per la servitù che ci ha resa.
«Il zelo per una ben nota amministrazione di giustizia, ed il particolare interessamento che tutti e cadauno di voi ha fatto conoscere, non meno pel sollievo di cotesti popoli, che nel sostenimento de' loro giusti diritti e prerogative, avendo secondato le nostre mire, siccome eccitò in noi que' sentimenti, così ci lascia una grata rimembranza di quelle pubbliche cure e sollecitudini, che ad un tale oggetto avete impiegate. Di tanto noi stessi abbiamo voluto accertarvi, pregando di più il Signore che vi conservi e vi ricolmi delle sue benedizioni.
«Torino, l° settembre 1736.
Segnat. C. EMANUELE
Sott. ORMEA».
[1104] Lattuada, Descrizione di Milano, tom. V, pp. 350 e 379. - Bianconi, p. 74.
[1105] Muratori, Annali d'Italia, tom. XVI all'anno 1743.
[1106] Coxe, Storia della casa d'Austria, tom. VI, cap. CVI all'anno 1745.
[1107] Istoria politica, ecclesiastica e militare del secolo XVIII, dell'abate Francesco Beccatini. Milano, 1796, vol. II, lib. II, p. 167. - Bonamici, De bello Italico.
[1108] Muratori, Annali d'Italia, tom. XVI, all'anno 1747.
[1109] Sì questo che gli altri caratteri de' governatori, dati in questo capitolo, sono presi dalle Memorie del conte Verri.
[1110] Questo trattato leggesi non solo nelle Raccolte diplomatiche, ma anche nella citata Storia del secolo XVIII dell'abate Beccatini; vol. II, pp. 164 e 165.
[1111] Storia della casa d'Austria, di Guglielmo Coxe, tom. VI, cap. CIX.
[1112] Regia prammatica, 30 dicembre 1762; e reali dispacci, 3 agosto 1767 e 17 luglio 1769.
[1113] Real dispaccio, 30 novembre 1765.
[1114] Altro real dispaccio, 3 agosto 1767.
[1115] Altro del 30 settembre 1767.
[1116] Reali dispacci, 31 marzo e 23 giugno 1768.
[1117] Coxe, Storia della casa d'Austria, tom. VI, cap. CXVIII in fine.
[1118] Bossi, Storia d'Italia, tom. XIX., p. 364.
[1119] Gride 20 aprile e 17 settembre 1769, 24 febbraio, 28 settembre e 29 ottobre 1770.
[1120] Grida 17 febbraio 1768.
[1121] Gride 26 gennaio 1768, 28 gennaio 1769 e 16 febbraio 1771.
[1122] R. dispaccio, 28 dicembre 1770.
[1123] Esposizione dell'Operato degli esecutori testamentari del principe, Trivulzi, 31 marzo 1791; in fol.- Sulla porta del pio albergo leggesi la seguente iscrizione:
ALENDIS IN CONTVBERNIO PAVPERIBVS
VIRIBVS SENIOQVE FRACTIS
ANT. PTOLOM. TRIVVLTIVS
S. R. I. ET. VALLIS MESVLCINAE PRINCEPS
AEDES HAS SVAS
VNA CVM CENSV ET PRAEDIIS
REGIAE CLIENTELAE OBNOXIIS
M. THERESIA AUG. ANNVENTE
SVPREMA VOLVNTATE LEGAVIT
IV VIRI EIDEM EXEQVENDAE DELECTI
PIIS VSIBVS APTAVERVNT
CICDCCLXXI
A nutrire in convitto i Poveri
Grami per età e di forze
ANT. TOLOMEO TRIVULZI
Del S. R. I. e della Valle Mesolcina Principe
Queste sue case
Insieme con capitali e poderi
Soggetti a regio feudo
Con assenso dell'AUG. M. TERESA
Legò per testamento
I quattro esecutori della sua ultima volontà
Ai voluti pii usi le adattarono
nel M.DCC.LXXI
[1124] Cinque gride, tutte nella stessa data del 25 ottobre 1778, altre del 5 e 20 novembre e 13 dicembre dello stesso anno; 21 febbraio, 22 marzo, 23 aprile, 6, 8 e 22 giugno 1779.
[1125] Real dispaccio e relativo piano, 4 novembre 1773; altra grida 14 febbraio 1774.
[1126] Real dispaccio, 1° novembre 1768.
[1127] R. dispaccio, 3 dicembre 1770.
[1128] RR: dispacci, 22 maggio 1769 e 12 settembre 1771. - Grida, 1° ottobre 1775.
[1129] R. dispaccio, 2 dicembre 1776.
[1130] 1776.
[1131] Vita dell'architetto
Luigi Vanvitelli. Napoli,
[1132] Bossi, Guide de l'Étranger à Milan, ec. in più luoghi.
[1133] Paolo Frisi, Coxe, Bossi, Coppi, ec.
[1134] Martens, Recueil diplomatique, tom. III, p. 732. - Coppi, Annali d'Italia, tom. I, p. 152.
[1135] Coppi. loc. cit., p. 155. - Editto 20 febbraio 1785.
[1136] Grida 17 febbraio 1767.
[1137] Grida 5 agosto 1771.
[1138] Grida 22 aprile 1772.
[1139] Coppi, Annali, tom. I, p. 158.
[1140] Disposizione di
S.M.I.A. l'imperatore Giuseppe II ai capi de' dipartimenti, sul modo di
trattare gli affari pubblici; data in dicembre 1783, prima della
sua partenza per l'Italia.
Sono già tre anni dacché ho assunto il governo della monarchia, e in questi con non poca fatica, sollecitudine e pazienza ho esposto i miei principii e le mie intenzioni; né mi sono accontentato di ordinare agli altri, ma ho lavorato io stesso per scoprire e bandire i pregiudizi derivati da inveterate consuetudini. Quindi ho cercato d'insinuare a tutti l'amore che nutro per il bene generale dello Stato.
Ho dato a tutti i capi dei dipartimenti la mia confidenza, e tutta l'autorità sopra i loro subalterni, come pure la scelta dei medesimi. Ho però sempre ricevute le rappresentanze e sentita la verità, che mi è sempre cara, non solo dai presidenti, ma anche dagli altri; e a quest'oggetto sono sempre stato pronto a sentire i loro rapporti e dilucidare i loro dubbi.
Ma oltre di ciò trovo di mio dovere, per quel vero zelo che in tutte le operazioni ho consacrato al bene dello Stato, di seriamente promuovere l'adempimento di quelle massime e di quegli ordini che non senza mio dolore veggo ancora tanto negletti; dal che ne derivò la necessità di emanare tanti replicati comandi: perché i capi de' dipartimenti eseguiscono così meccanicamente e servilmente le loro incombenze, che ben lontani di aver di mira il bene dello Stato e di farlo intendere a chi conviene, altro non fanno che quel puro necessario, che appena basta per non essere processati e deposti dai loro impieghi.
Perciò, chiunque brama continuare nel mio servigio nei dicasteri aulici ed in provincia, come presidente, vice-presidente, cancelliere, consigliere, capitano circolare, intendente, ec., tanto nell'economico, come nel civile o militare, dovrà esattamente uniformarsi ai seguenti miei ordini:
1° Ciascuno d'ora innanzi, giusta il confidatogli dipartimento, dovrà rilevare nei registri tutte le sovrane Normali e Risoluzioni, raccoglierle e leggerle con quello studio e con quella attenzione che basti per impossessarsi del vero e legittimo loro senso e degli oggetti a cui tendono.
2° L'esperienza ha già pur troppo provato che non pochi, in vece di cercare nelle sovrane Risoluzioni il sostanziale e di penetrarne il vero senso, spiegarlo secondo le massime generali d'equità e sollecitarne l'eseguimento, le prendono in senso opposto, senza domandarne le opportune spiegazioni, e renderne intese le persone che vi potrebbero contribuire; anzi per lo contrario a queste si rilasciano istruzioni senza principio, oscure ed ineseguibili, non considerando che il sovrano co' suoi ordini palesa semplicemente le sue massime e i suoi sentimenti, e che i dicasteri aulici e provinciali sono espressamente costituiti per meglio spiegare i di lui voleri, e mettere in pratica tutti quei mezzi che tendono al loro più sollecito ed accurato adempimento. Se a questa indolenza non si ponesse riparo, sarebbe non solamente inutile, ma anche assai dannoso alla economia dello Stato il mantenere tanti dicasteri aulici e provinciali, e tanti subalterni a sì gravi spese, non per altro che per produrre maggiori confusioni, ed arrestare piuttosto che promuovere l'amministrazione degli affari. Se dunque i tribunali si tengono alla sola esecuzione materiale, se non agiscono e non accudiscono meglio alle loro funzioni, sarebbe spediente di congedarli, e così risparmiare dei milioni per diminuire le contribuzioni dei sudditi, nel qual caso senza tant'impiegati le relazioni potrebbero essere direttamente rimesse alla corte dei governatori e capitani circolari; quindi stampati gli ordini sovrani, decidere degl'interessi de' particolari con maggior vantaggio del sistema presente; in forza del quale, dopo una lunga circuizione, ben sovente comparisce un'insipida ed insignificante relazione di un capitano circolare, e questa tal qual viene, dall'aulico dipartimento si rassegna alla corte, senza alcun dettaglio e senza istruzione o spiegazione. Del medesimo se ne spediscono in provincia le Risoluzioni, cosicché tutto questo giro ad altro non serve che a perder tempo, e a salariare una truppa di persone per minutare, rivedere, copiare e finalmente soscrivere le carte. Ma se, come spero e seriamente voglio, in avvenire tutti questi individui salariati dalla corte si applicheranno con tutte le loro forze allo studio del loro ufficio, all'eseguimento degli ordini ed allo schiarimento delle loro commissioni, allora il loro numero e il loro soldo sarà opera della sovrana paterna cura, dalla quale ogni individuo della monarchia ne ritrarrà il suo utile e vantaggio.
3° Da ciò ne segue che ciascun impiegato deve avere un tale interessamento e premura negli affari del suo uffizio, che non deve misurare il suo lavoro a ore, giornate e pagine, ma deve impiegare tutte le sue forze nell'eseguire le sue incombenze come si deve, e come esige il suo giuramento. E quando non avrà incombenze pressanti, allora prenderà quel respiro che le circostanze permetteranno, ma che qualunque sia, gli sarà tanto più dolce qualora sia certo d'aver fatto il suo dovere. Chi non avrà premura per il servizio della patria e de' suoi concittadini, chi non ne procurerà il bene con particolar zelo, questi non è fatto per gl'impieghi pubblici, e non è degno di portare que' titoli onorifici, né di percepire assegnamenti.
4° L'interesse proprio è la rovina degli affari ed il delitto più imperdonabile in chi serve lo Stato. Oltre all'avidità del denaro, vi sono anche degli altri riflessi che inducono gl'impiegati a tacere o palliare la verità, a negligentare i proprii doveri, a procrastinare gli affari e ritardare il vero bene. Chiunque è reo di tale delitto, è un soggetto pericoloso nel servizio dello Stato; siccome lo è pure quegli che vede il disordine e non lo palesa, e va col reo di concerto per motivi d'interesse e di connivenza. Un presidente che tollera tali mancamenti in un subalterno, è un perfido che non merita alcun riguardo o misericordia; un subalterno che non denunzia un suo superiore mancante in officio, tradisce il sovrano e la patria.
5° Chi serve allo Stato non deve occuparsi in oggetti estranei alla sua carica, in affari personali, in divertimenti che lo distolgano dal suo officio principale: quindi non deve puntigliarsi in contese d'autorità, in etichette di cerimoniali o preminenza di rango. Chi opera meglio per ottenere il fine primario, chi è il più zelante, chi sa conservare il miglior ordine tra i suoi subalterni, quegli è il più distinto ed il più rispettabile. Deve ad ogni uomo saggio importar poco se un altro impiegato tratti con lui degli affari piuttosto con l'una o con l'altra delle diverse formalità che si usano nelle cancellerie, se si presenti in abito di cerimonia o di confidenza. Deve anzi procurare di guadagnarsi la piena confidenza de' subalterni, essere paziente e indulgente coi deboli e cagionevoli; e siccome non ha da sorpassare come bagatelle le cose sostanziali, così non deve far caso di tutte le minuzie, ma aver di mira l'essenziale in tutti gli affari. Allora insomma sarà degno di presiedere ad un dipartimento, quando saprà presiedere a tutti i subalterni che ne formano i diversi rami.
6° Siccome è dovere d'ognuno di dare sicure relazioni, e giudicare di tutti i fatti giusta le massime fondamentali, con dire francamente il suo parere, così è pur dovere di un ministro dello Stato ch'egli pensi ad abolire gli abusi che impediscono il vero adempimento degli ordini, a scoprire i trasgressori e finalmente a tutto quella ch'è di maggior vantaggio dei suoi concittadini, al servizio dei quali noi siamo tutti destinati. Esige il buon ordine che il subalterno possa produrre il suo parere al suo superiore, il quale deve convenirlo e correggerlo da padre, se s'inganna; ma se trova che il parere del subalterno sia bene appoggiato, deve approfittarne. Ogni presidente sarebbe degno di punizione se si portasse altrimenti, e rigettasse per amor proprio o per capriccio le utili riflessioni de' suoi subalterni, senza far loro giustizia.
7° Il dovere d'ogni presidente è ch'egli noti tutto l'inutile e superfluo e ne proponga l'abolizione, siccome pure è dovere del subalterno di proporre al suo capo le cose che imbarazzano gli affari, gli allontanano dallo scopo primario, e cagionano scritture inutili con perdita di tempo; affinché si levino tali impedimenti, e non siano inutilmente impiegate le mani di quelli che hanno bisogno del tempo per pensare ad oggetti di maggior importanza.
8° Siccome il bene non può essere che un solo, cioè quello che forma la felicità generale; siccome tutte le province della monarchia formano un solo tutto e collimano ad un sol fine, così debbono cessare fra le province, le nazioni e i dipartimenti tutte le gelosie e tutti i pregiudizii, che hanno cagionato tante inutili scritture. Deve essere una massima fissa, che il corpo civile è come il naturale, in cui ogni parte deve contribuire alla salute del tutto e il tutto a quella delle parti: non si deve perciò avere riguardo a nazione o a religione, e come tutti fratelli, in una monarchia uno deve aiutar l'altro.
9° Falsamente si conoscono, e spesso vengono confuse fra di loro le diverse parti dell'amministrazione, e i doveri che ne risultano. Pricipiando dal sovrano, si crede che basti per essere più moderato, ch'egli non riguardi la proprietà dello Stato e dei sudditi come sua propria, e non s'immagini che la Provvidenza abbia creati per lui tanti milioni d'uomini: ma deve altresì pensare che appunto egli stesso per servire questi milioni è stato dalla Provvidenza elevato all'eminente suo posto. Tra' ministri poi quello vien creduto di coscienza più delicata, il quale per rendersi grato al suo sovrano non medita che di aumentare il di lui tesoro. Entrambi credono adempire bastevolmente il loro dovere, se considerano l'entrate dello Stato come un interesse che a loro riviene a giusto titolo dallo Stato medesimo, e perciò si danno tutte le pene possibili affinché l'interesse del suo capitale sia portato al maggior grado. Così lo stato civile considera in tempo di pace il militare, destinato per le conquiste e per allontanare i nemici, come una vera sanguisuga dello stato contribuente; e all'incontro il soldato si crede in diritto di conseguire dal paese il maggior vantaggio. Il doganiere non pensa se non ad aumentare l'entrate delle confidategli finanze, e quello che per conto regio presiede alle miniere, cerca solamente di aumentare il liquefatto metallo e di cavarlo colla minor spesa possibile. Finalmente il giudice si applica solamente a mantenere l'autorità delle leggi e le formalità della giustizia.
Questi sono i principali soggetti che regolano l'amministrazione di uno Stato; ed appunto perché non pensano che a sé stessi in particolare, e mai al bene in generale, perciò giudicano con massime falsissime del maneggio degli affari.
Lo stato militare è composto di più migliaia di persone formate e mantenute per il bene dello Stato. Il poco di salario che hanno, lo consumano nel paese; il poco che il paese loro somministra in natura, cioè nutrimento, vestiario, ad eccezione di pochi capi, si produce, si manifattura e si fabbrica in paese: anzi il congedo dei soldati procura alle arti e all'agricoltura un maggior numero di mani e le facilitazioni dei matrimoni. Le Finanze non vengono da me considerate sotto lo stesso aspetto che vengono prese dal maggior numero; io considero che, siccome le imposizioni e l'uso delle pubbliche entrate dipende dall'arbitrio del sovrano e del dipartimento delle sue finanze, così ogni individuo che ha delle possessioni ed ha mezzi di procurarsi la sussistenza nel paese, non dee confidare con cieca fiducia il suo patrimonio lasciatogli dai parenti o acquistato col suo sudore e industria nelle mani del sovrano; ma al contrario deve soltanto contribuire ciò che è assolutamente necessario per mantenere l'autorità, la sicurezza, l'amministrazione della giustizia, l'interno buon ordine e l'avanzamento di tutto il corpo, del quale ognuno forma una parte. Io credo adunque che, eccettuati i surriferiti oggetti, il monarca non debba prodigare nulla, ma che debba levare le contribuzioni nel modo meno gravoso, e badare al bene dello Stato in tutte le sue parti; ch'egli sia obbligato di render conto a tutti e a ciascuno individuo dell'uso delle finanze, e debba rinunziare per fino alla predilezione verso certe persone, anzi verso gli stessi bisognosi, sebbene sia questa una delle principali virtù di chi è benestante, perché il sovrano non è che un puro amministratore delle rendite dello Stato; e nel resto, non gli è lecito di soccorrete i bisognosi che col suo proprio patrimonio, in qualità di particolare.
Che se, dopo d'aver provveduto all'esigenza della monarchia in tutte le parti, potesse il principe fare delle riguardevoli diminuzioni nelle imposte, egli è obbligato di farlo, mentre ciascun cittadino non è obbligato di contribuire che per il puro necessario e non per il superfluo dello Stato.
Così un presidente delle dogane deve considerare i dazi come un puro mezzo di regolare il commercio e l'industria nazionale, e deve riflettere che la diminuzione eventuale della finanza daziale viene sicuramente e doppiamente ricompensata, allorché avrà accresciuti i mezzi dell'interna industria de' sudditi, e promossi i loro vantaggi con giusta distribuzione.
Quindi la mira del presidente di finanze deve solamente tendere a proibire i contrabandi, e diminuire l'introduzione delle merci forastiere, siccome dannosa al mantenimento dei sudditi. Così il direttore delle miniere deve considerare la produzione de' metalli come una fabbrica nella quale ciascun lavoratore o possessore delle miniere ha il diritto di ritrarne il suo maggiore profitto, senza essere sforzato di rinunziare alla sua propria convenienza per fornire una maggior quantità di metallo o di sale.
Così
finalmente il giudice non deve aver di mira tanto la forma, quanto
l'esercizio della giustizia; e siccome
10° Negli affari dei servizi dello Stato non deve avervi alcuna influenza né l'inclinazione né l'avversione personale: e, in quella guisa che i diversi caratteri e le diverse maniere di pensare nella umana società non impediscono che gli uni contraggano amicizia con gli altri, così negli affari deve regnarvi l'armonia, e ognuno deve avere per oggetto la loro esatta e fedele esecuzione.
Questo è il dovere de' superiori verso i loro subalterni. Quelli che sono poi in egual rango e carattere fra di loro, devono avere la stessa attività e assiduità negli affari, e lavorare insieme d'accordo, senza puntigli di preminenze o d'etichette. Devono trattare frequentemente e convenire fra di loro, e uno instruire l'altro, senza lamentarsi l'uno dell'altro; anzi dimenticarsi di tutto per far avanzare l'affare di cui si tratta. Essi devono scambievolmente perdonarsi le loro debolezze, compatirsi a vicenda, trattarsi da amici e da fratelli, e tutti tendere di conserva al medesimo scopo.
11° L'amor proprio non deve accecare nissuna persona addetta al servizio dello Stato, in guisa che uno abbia vergogna d'imparare qualche cosa dall'altro, sia suo pari o suo inferiore. La buona riuscita che farà taluno nelle sue operazioni deve far tanto piacere agli altri compagni e confratelli, quanto a lui per aver contribuito alla meta principale, cioè al miglior servizio dello Stato.
12° La spedizione degli ordini, le domande, ed i rapporti che occorreranno da farsi fra i rispettivi uffici, e le risposte non devono essere riservate materialmente, come sin'ora, per i soli giorni di consiglio, tanto più se si tratta di casi d'importanza; ma quello stimolo che spinge ognuno a fare il suo dovere, deve animarlo ogni giorno senza perdita di tempo.
13° Essendo un punto essenzialissimo che gli ordini vengano bene intesi e bene eseguiti, e che gl'individui vengano ben conosciuti, giudicati, e impiegati secondo la loro maggiore o minore capacità, perciò ogni anno, od ogni volta che vi sia sospetto non esservi in qualche provincia il buon ordine, o che vi si operi lentamente o contra il fine proposto, è indispensabile che il signor presidente stesso o un commissario, mandato sul luogo provinciale o al generale comando, esamini le circostanza, provi gli ufficiali impiegati, ascolti ognuno, tolga i disordini, ammonisca tutti, e mi annunzi le risultanti difficoltà d'importanza, e si dimettano dall'impiego que' soggetti che saranno ritrovati incapaci. Nella stessa guisa i governi provinciali dovranno procedere verso i comitati o capitanati circolari, o andando i governatori nel luogo in persona, o mandando un fido commissario ad osservare negli uffici subalterni tutto quello che i dicasteri aulici osservano verso di loro; prendendo massimamente di mira che siano ben tenuti i protocolli e ben osservati gli ordini prescritti.
In occasione di tali ricerche specialmente debbono rettificarsi le liste de' buoni diporti degli ufficiali, con rilevare la stima che godono presso il pubblico i diversi impiegati. Nella stessa conformità i comiti e vice-comiti e i capitani circolari debbono invigilare sopra i commissari circolari e giudici loro sottoposti, e fare la visita ogni anno sul luogo, formando dappertutto la lista de' buoni e perfetti uffiziali, massimamente sopra i due seguenti punti, cioè se hanno eseguito accuratamente i comandi, e se siano uomini ragionevoli e giusti; giacché que' signori che non possono amministrare personalmente i loro beni, e perciò debbono affidarsi ai loro prefetti e fattori, facendosi mallevadori delle loro azioni, saranno, dalla corte obbligati di congedarsi, qualora si trovino in essi dei disordini.
14° Ogni buon ufficiale dello Stato ed onesto uomo, in tutti i suoi piani di rettificazione e di miglioramenti, che conducono al ben generale in materia d'imposizione e contribuzioni, deve riflettere ai mezzi più utili, più semplici e economici di promovere l'azienda; non deve pensare al suo personale interesse e beneficio, proponendo quello che gli è di comodo e rigettando quello che gli è gravoso; ma deve sempre misurarsi giusta il gran principio ch'egli sia un semplice individuo del corpo intiero, che il vantaggio del maggior numero dei sudditi vale più del suo e di ogni particolare, anzi più di quello dello stesso sovrano considerato come persona particolare; deve finalmente riflettere che procurando il comun bene procura anche il suo proprio, e quand'anche non partecipasse dell'utile comune sul principio, ne sarà poi partecipe in seguito.
Queste
sono in breve le mie intenzioni, all'eseguimento delle quali mi obbliga il
dovere e
Quegli però che non aspira se non all'utilità e onorifico annesso al suo impiego, e che considera il servizio dello Stato come una cosa accessoria, farà meglio disimpiegarsi a tempo e rinunciare ad una carica per la quale egli non è fatto e della quale non è degno, essendo necessario per il bene dello Stato di avere un'anima fervorosa, e rinunciare totalmente a sé stesso e ai suoi comodi.
Questo è tutto ciò che trovo opportuno di far sapere a tutti, acciò il tanto essenziale governo dello Stato venga da ognuno che sarà destinato a promoverlo, portato alla sua perfezione.
Sign. GIUSEPPE.
[1141] Regio dispaccio 9 aprile 1781.
[1142] Regio dispaccio degli 8, e grida del 25 maggio 1781.
[1143] Grida del 17 ottobre 1781.
[1144] Grida 8 ottobre 1781. Legge e costituzione sui matrimoni 17 settembre 1784, e dilucidazioni 22 giugno 1785.
[1145] Regio dispaccio 9 maggio 1782, e grida 6 gennaio 1783.
[1146] Regio dispaccio 30 maggio 1782, e grida 20 febbraio 1783.
[1147] Piano 19 novembre 1784, regolamento 27 giugno 1786.
[1148] Regolam. 25 aprile e 27 dicembre 1785; 3 aprile e 11 giugno 1787.
[1149] Grida 18 aprile 1786.
[1150] Editto 26 settembre 1786.
[1151] Editto 24 dicembre 1786.
[1152] Piano 11 febbraio e grida 13 marzo 1786.
[1153] Codice dei Delitti e delle Pene; Vienna e Roveredo, 1787, Parte I, §§ 20 e 53.
[1154] Ivi, §§ 25 al 27.
[1155] Ivi, § 16.
[1156] Ivi, § § 42 e 46.
[1157] Ivi, §§ 24 e 39.
[1158] Ivi, §§ 30 e 32.
[1159] Codice citato, parte II, § 61.
[1160] Ivi, §§ 63, 72, 74, 76 e 80.
[1161] Ordini 24 gennaio 1786.
[1162] Risoluzione di S.M. 4 ottobre, ed editto 31 ottobre 1787; editti 30 luglio e 2 agosto 1788.
[1163] Grida 31 ottobre 1787.
[1164] Ordini 11 ottobre 1768, 30 dicembre 1778, 15 settembre 1779.
[1165] Gride 31 marzo e 24 aprile, 8 luglio 1788.
[1166] Gride 25 maggio e 25 settembre 1786.
[1167] Gride 26 gennaio 1768, 28 gennaio 1769, 15 febbraio e 30 dicembre 1771, 11 maggio 1775, 15 novembre 1781, 19 febbraio 1784 e 24 ottobre 1785.
[1168] Editto 9 dicembre 1786, regolamento e tariffe ec. in fogl.
[1169] Ordini 2 e 22 dicembre 1786, 29 gennaio, 30 marzo, 6 agosto e 19 ottobre 1787; 4 e 15 febbraio e 18 marzo 1788, 31 ottobre 1789.
[1170] Grida 4 aprile 1786.
[1171] Piano di regolamento
per le farmacie della Lombardia austriaca: Milano,
[1172] Codice di S. M. l'imperatore Giuseppe II, tradotto dal tedesco da Bartolommeo Borroni; Milano, presso Galeazzo, 1787 e sg., vol. X, in 8°.
[1173] Coxe, Storia della casa d'Austria, tom. VI, cap. CXXIV.
[1174] Idem, Storia citata, cap. CXXVIII e CXXIX.
[1175] R. dispaccio 6 maggio 1790.
[1176] R. dispaccio 30 gennaio 1791, portante le sovrane Risoluzioni sulle dimande de' pubblici ecc.
[1177] Citato real dispaccio 30 gennaio 1791; editti 20 gennaio e 25 luglio dello stesso anno.
[1178] Editto 20 marzo 1791; Piano del magistrato politico camerale ec. in fol.
[1179] Grida 23 agosto 1785; decreto 24 gennaio 1791.
[1180] Veggansi la sua lettera circolare agli altri sovrani dell'Europa, in data di Padova 6 luglio 1791, e la sua dichiarazione fatta unitamente al re di Prussia, data in Pilnitz, il 27 agosto dello stesso anno. Coxe, Storia ec., tom. VI, capitolo CXXXIII.
[1181] Coxe, luogo citato. - Bossi, Storia d'Italia, tom. XIX, p. 411.