HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
e
singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche
alle quali si attribuì la pestilenza
che devastò Milano l'anno 1630
[e-text a cura di Claudio Paganelli. Tratto dall’edizione 1994
Newton Compton editori Srl collana Tascabili Economici Newton, ISBN
88-7983-539-4. Prima edizione 1804]
INDICE
II. Idea della pestilenza che devastò Milano nel
1630
III. Come sia nato il processo contro Guglielmo Piazza
commissario della sanità
V. Delle opinioni e metodi della procedura criminale in
quella occasione
VI. Della insidiosa cavillazione che si usò nel
processo verso di alcuni infelici
VII. Come terminasse il processo delle unzioni pestifere
VIII. Se la tortura sia un tormento atroce
IX. Se la tortura sia un mezzo per conoscere la
verità
X. Se le leggi e la pratica criminale risguardino la
tortura come un mezzo per avere la verità
XI. Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la
verità
XII. Uso delle antiche nazioni sfilla tortura
XIII. Come siasi introdotto l'uso di torturare ne'
processi criminali
XIV. Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la
tortura, ed usi odierni di alcuni stati
XV. Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l'uso
della tortura
Fra i molti uomini d'ingegno e di cuore, i quali
hanno scritto contro la pratica criminale della tortura e contro l'insidioso
raggiro de' processi che secretamente si fanno nel carcere, non ve n'è
alcuno il quale abbia fatto colpo sull'animo dei giudici; e quindi poco o
nessuno effetto hanno essi prodotto. Partono essi per lo più da sublimi
principj di legislazione riserbati alla cognizione di alcuni pochi pensatori
profondi, e ragionando sorpassano la comune capacità; quindi le menti
degli uomini altro non ne concepiscono se non un mormorìo confuso, e se
ne sdegnano e rimproverano il genio di novità, la ignoranza della
pratica, la vanità di voler fare il bello spirito, onde rifugiandosi
alla sempre venerata tradizione de' secoli, anche più fortemente si
attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità
s'insinua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo
lettore parte dalle idee comuni, e gradatamente e senza scossa lo fa camminare
e innalzarsi a lei, anzi che dall'alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali
sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nello
stato di prima.
Sono già più anni, dacché il
ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali mi portò a volere
esaminate la materia ne' suoi autori, la crudeltà e assurdità de'
quali sempre più mi confermò nella opinione di riguardare come
una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere. Allora feci molte
annotazioni sul proposito, le quali rimasero oziose. Parimenti già da
più anni riflettendo io al fatto, che fece diroccare la casa di un cittadino
e piantarvi per pubblico decreto la colonna infame, dubitai da principio
se fosse possibile il delitto, per cui vennero condannati molti infelici, indi
decisamente fui persuaso essere impossibile e in fisica e in morale che si
diano unzioni artefatte maneggevoli impunemente dall'autore, le quali al solo
tatto esterno, dopo essere state all'aria aperta sulle pareti delle strade,
cagionino la pestilenza, e che possano più uomini collegarsi affine di
dare la morte indistintamente a tutta la loro città. Mi venne a caso fra
le mani il voluminoso processo manoscritto che riguardava quel fatto, e
dall'attenta lettura mi trovo convinto sempre più nella mia opinione.
Questo libro è nato dalle osservazioni fatte e sugli autori criminalisti
e sul fatto delle unzioni venefiche.
Cerco che il lettore imparziale giudichi se le
mie opinioni sieno vere o no. Io mi asterrò dal declamare, almeno me lo
propongo; e se la natura mi farà sentir la sua voce talvolta, e la
riflessione mia non accorrerà sempre a soffocarla, ne spero perdono:
procurerò di reprimerla il più che potrò, giacché non
cerco di sedurre né me stesso né il lettore, cerco di camminare placidamente
alla verità. Non aspetto gloria alcuna da quest'opera. Ella verte sopra
di un fatto ignoto al resto dell'Italia; vi dovrò riferire de' pezzi di
processo, e saranno le parole di poveri sgraziati e incolti che non sapevano
parlare che il lombardo plebeo; non vi sarà eloquenza o studio di
scrivere: cerco unicamente di schiarire un argomento che è importante.
Se la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima
e crudele l'adoperar le torture, il premio che otterrò mi sarà
ben più caro che la gloria di aver fatto un libro, avrò difesa la
parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli; se non
mostrerò chiaramente la barbarie della tortura, quale la sento io, il
mio libro sarà da collocarsi fra i moltissimi superflui. In ogni evento,
sebbene anche ottenga il mio fine, e che illuminatasi la opinione pubblica venga
stabilito un metodo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i
delitti, allora accaderà del mio libro come dei ponti di legno che si
atterrano, innalzata che sia la fabbrica, e come avvenne al sig. marchese
Maffei, che distruggendo la scienza cavalleresca e annientandone gli scrittori,
annientò pure il suo libro, che ora nessuno più legge perché non
esiste l'oggetto per cui era scritto.
La maggior parte de' giudici gradatamente si
è incallita agli spasimi delle torture per un principio rispettabile,
cioè sacrificando l'orrore dei mali di un uomo solo sospetto reo, in
vista del ben generale della intiera società. Coloro che difendono la
pratica criminale, lo fanno credendola necessaria alla sicurezza pubblica, e
persuasi che qualora si abolisse la severità della tortura sarebbero
impuniti i delitti e tolta la strada al giudice di rintracciarli. Io non
condanno di vizio chi ragiona così, ma credo che sieno in un errore
evidente, e in un errore di cui le conseguenze sono crudeli. Anche i giudici
che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo passato, credevano di
purgare la terra da' più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime
al fanatismo e alla pazzia. Furono alcuni benemeriti uomini i quali
illuminarono i loro simili, e, scoperta la fallacia che era invalsa ne' secoli
precedenti, si astennero da quelle atrocità e un più umano e
ragionevole sistema vi fu sostituito. Bramo che con tal esempio nasca almeno la
pazienza di esaminar meco se la tortura sia utile e giusta: forse potrò
dimostrare che è questa una opinione non più fondata di quello lo
fosse la stregheria, sebbene al par di quella abbia per sé la pratica de'
tribunali e la veneranda tradizione dell'antichità.
Comincierò dal fatto della colonna infame,
poscia passerò a trattare in massima la materia; ma prima conviene dare
un'idea della pestilenza che rovinò Milano nel 1630.
Il Ripamonti, cattivo ragionatore, buon
latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de' suoi tempi, ha
scritta la storia della pestilenza accaduta al tempo appunto in cui viveva, e
fa una vivissima compassione la sola idea dell'esterminio, a cui soggiacque la
nostra patria in quel tempo. Si tratta niente meno che della distruzione di due
terze parti de' cittadini. La crudelissima pestilenza fu delle più
spietate che rammemori la storia. Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti
i più terribili disastri morali. Ogni legame sociale si stracciò;
niente era più in salvo, né le sostanze, né la vita, né l'onestà
delle mogli; tutto era esposto alla inumanità, e alla rapina di alcuni
pessimi uomini, i quali tanto ferocemente operavano nel seno della misera lor
patria spirante, come appena un popolo selvaggio farebbe nel paese nemico. I Monati,
classe di uomini trascelta per assistere gli ammalati. invadevano le case;
trasportavano le robe che vi trovavano; violavano le figlie e le consorti
impunemente sotto gli occhi dell'agonizzante padre o marito; obbligavano a
redimersi colla somma di danaro che lor piaceva i parenti, colla minaccia di
trasportare i figli o le spose, benché sani, al lazzaretto. I giudici tremanti
per la propria vita ricusavano ogni ufficio. Varj ladroni, fingendosi Monati,
invadevano e saccheggiavano ogni cosa: tale è lo spettacolo che ci viene
descritto dal Ripamonti, che pianse siccome egli attesta, più e
più volte in vista di sì orrende calamità. Tali erano i
costumi, tale era lo spirito che agitò i nostri antenati in quel tempo,
che forse troppo incautamente taluni vorrebbero far ritornare coi loro voti.
La storia di questa sciagura conviene cominciarla
da un dispaccio, che dalla corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora
governatore. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV. Rara cosa assai era in
que' tempi la venuta di un dispaccio, ed era questo un avvenimento che occupava
tutta la città, poiché non si partiva dalla corte un reale rescritto se
non per gravissime cagioni. Il dispaccio avvisava il governatore essere stati
osservati in Madrid quattro uomini, che avevan portati degli unguenti per
recare la pestilenza in quella reale città, essere costoro fuggiti, non
sapersi in qual parte si fossero essi rivolti per recarvi le malefiche unzioni;
quindi se ne avvisava il governatore, acciocché attentamente vegliasse in
difesa anche del Milanese. Hae litterae, dice il Ripamonti, quia
majestatis ipsius chirographo subsignatae fuerunt, grande sane momentum
inclinandis ad pessima quaeque credenda animis facere potuerunt. [Queste
lettere, essendo firmate di propria mano dal re, furono di gran peso sugli
animi de' cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando
delitto]. In que' tempi l'ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno
avrà pensato allora: è egli possibile il formare una materia che
toccandosi dia la pestilenza? Se anche sia possibile, potrà un uomo
portarla seco senza caderne vittima? Quattro uomini collegansi per un tale
viaggio, e girano il mondo colla pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A
qual fine? Per quale utilità? Ma i pochi che avranno così
pensato, non avranno avuto ardire di palesarlo; l'autorità di un
dispaccio, l'opinione popolare erano terribili contrasti che esponevano a
troppo grave pericolo l'uomo che avesse annunziata questa verità. Si
sparse adunque l'opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche
unzioni.
Sappiamo dalla storia come fossero allora
governati i popoli sotto Filippo IV. La pestilenza della Germania per la
Valtellina liberamente entrò nel Milanese, portatavi dalle truppe
imperiali che transitarono per innoltrarsi a Mantova, poco dopo la
vociferazione del dispaccio. Ma l'opinione comune del popolo volle
ostinatamente piuttosto credere essere la vociferata pestilenza un'artificiosa
invenzione de' medici per acquistar lucro, anzi che esaminare e chiarire il
fatto. Era forse una tal diffidenza l'effetto della lunga serie d'inganni
sofferti dalla classe superiore. Inutilmente i medici più istruiti
divulgavano le prove degli ammalati che avevano veduti morire di pestilenza,
che la plebe sempre li risguardava come autori di una malignamente immaginata
diceria. Celebre è il fatto accaduto al venerabile nostro Ludovico
Settala, uomo sommo per que' tempi, non tanto per l'erudizione, la coltura, la
scienza medica e le cognizioni di storia naturale di cui il nostro museo ebbe
fra i contemporanei d'Europa il primato, quanto per la nobiltà e
virtù del suo animo, che disinteressatamente e instancabilmente
usò dei talenti a beneficio del popolo. Questi mentre cavalcava, siccome
allora era costume de' medici, venne attorniato tumultuosamente da una folla di
uomini, donnicciuole, fanciulli, ed ogni classe di plebaglia, indi
villanissimamente insultato quale principale autore della opinione che nella
città vi fosse la pestilenza, che le turbe esclamavano essere unicamente
ne' peli della di lui barba: Ita gravissimus optimusque senex, et antistes
sapientiae Septalius, qui innumeris pene mortalibus vitam excellentia artis,
quique multis etiam liberalitate sua subsidia vitae dederat, ob petulantiam,
stoliditatemque multitudinis periculum adiit [In tal guisa l'ottimo
vecchio. che aveva salvata la vita ad un gran numero di persone colla perizia
dell'arte e col largire il proprio denaro, corse un grave pericolo per la
stolidaggine e la petulanza del volgo]. Così il Ripamonti.
Convenne finalmente col crescere della peste e il
moltiplicarsi giornalmente il numero de' morti disingannare il popolo, e
persuaderlo che il malore purtroppo era nella città, e laddove i
discorsi nessun effetto producevano, si dovettero far manifesti sopra gran
carri gli ammassi de' cadaveri nudi aventi i bubboni venefici, e così
per le strade dell'affollata città girando questo spettacolo
portò infine la convinzione negli animi, e forse propagò
più estesamente la pestilenza. Allora fu che il popolo furiosamente si
rivolse ad ogni eccesso di demenza. Nei disastri pubblici l'umana debolezza
inclina sempre a sospettarne cagioni stravaganti anzi che crederli effetti del
corso naturale delle leggi fisiche. Veggiamo i contadini attribuir la gragnuola
non già alle leggi delle meteore, ma piuttosto alle streghe. Veggiamo i
saggi Romani istessi al tempo, in cui erano rozzi, cioè l'anno di Roma
423 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza, che gli
afflisse a' veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di matrone romane:
come Livio lib. VIII, cap. XII, Dec. I: Proditum falso esse venenis
absumptos, quorum mors infamem annum pestilentia fecerit [Falsamente si
disse che erano morti avvelenati coloro la cui morte invece fu provocata, in
quel terribile anno, dalla pestilenza]. Veggiamo in Napoli, pure nel secolo
scorso, cioè nel 1656, attribuita la pestilenza agli Spagnuoli o allo
stesso viceré per rovinare il popolo con polveri pestifere, e si credette “che
per la città andavano girando persone con polveri velenose e che
bisognava andar di loro in traccia per isterminarle; così in varie
truppe uniti andavan cercando questi sognati avvelenatori, ed avendo incontrati
due soldati del torrione del Carmine, affin di attaccar brighe che poi
finissero in tumulti, avventaronsi sopra di essi, imputandoli di aver loro
trovato addosso la sognata polvere. Al rumore essendo accorsa molta gente, per
buona sorte vi capitò ancora un uomo dabbene, il quale con soavi parole
e moderati consiglj li persuase che dassero nelle mani della giustizia uomini
cotanto scellerati, affine, oltre del supplizio che di lor si sarebbe preso, si
potesse da essi sapere l'antidoto al veleno, e con tale industria gli
riuscì di salvarli; ma appena saputosi che quei due soldati uno era di
nazione Francese e l'altro Portoghese, ed uscita anche voce che cinquanta
persone con abiti mentiti andavan spargendo le polveri velenose, si videro
maggiori disordini; poiché tutti coloro che andavan vestiti con abiti
forastieri, e con scarpe o cappelli o altra cosa differente dal comune uso de'
cittadini, correvan rischio della vita. Per acchetar dunque la plebe
bisognò far morire sopra la ruota Vittorio Angelucci reo per altro di
altri delitti, tenuto costantemente dal volgo per disseminatore di polveri, ma
nell'istesso tempo fu presa rigorosa vendetta degl'inventori di questa favola,
molti di essi essendosene stati in oscure carceri condotti, cinque di loro in
mezzo al mercato sulle forche perderono ignominiosamente la vita, e in cotal
guisa furono i rumori quietati”: così Giannoneal lib. XXXVII, cap. VII.
Non è dunque da meravigliarsi se anche in Milano, in mezzo a tanta e
sì crudele sciagura, sotto un così maligno flagello, se ne
sospettasse volgarmente la cagione nella rnalignità degli uomini, e si
credesse verificato il danno predetto del reale dispaccio e prodotto lo
sterminio dalle malefiche unzioni. Simili opinioni, quanto sono più
stravaganti, tanto più trovano credenza; perché appunto di uno
stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode
nel trovarne l'origine nella malizia dell'uomo, che si può contenere,
anzi che nella implacabile fisica che si sottrae alle umane istituzioni. In
quel secolo poi sappiamo quale fosse la coltura degli studj, unicamente rivolti
alle parole ed ai delirj della immaginazione. L'opinione quindi delle unzioni
malefiche divenne generalmente la trionfante: ogni macchia che apparisse sulle
pareti era un corpo di delitto: ogni uomo che inavvedutamente stendesse la mano
a toccarle era a furore di popolo strascinato alle carceri, quando non fosse
massacrato dalla stessa ferocia volgare. Il Ripamonti riferisce due fatti, dei
quali è stato testimonio oculare. Uno, di tre Francesi viaggiatori i
quali esaminando la facciata del duomo toccarono il marmo, e furono percossi
malamente e strascinati in carcere assai mal conci; l'altro d’un povero vecchio
ottuagenario di civile condizione, il quale prima di appoggiarsi alla panca
nella chiesa di S. Antonio levò, col passarvi il mantello, la polvere:
quell'atto, credutosi una unzione, inferocì il popolo nella casa del Dio
di mansuetudine, e presolo pe' pochi capegli e per la barba a pugni, calci ed
ogni genere di percosse, non l'abbandonò se non poiché lo rese cadavere.
Tale era lo spirito di que' tempi.
La pestilenza andava sempre più mietendo
vittime umane, e si andava disputando sulla origine di quella anziché
accorrervi al riparo. Gli uni la facevano discendere da una cometa che fu in
quell'anno osservata nel mese di giugno truci u1tra solitum etiam facie
[d'aspetto più spaventevole ancora dell'usato], come scrive il
Ripamonti. Altri ne davano l'origine agli spiriti infernali, e v'era chi
attestava d'avere distintamente veduto giungere sulla piazza del duomo un
signore strascinato da sei cavalli bianchi in un superbo cocchio, e attorniato
da numeroso corteggio. Si osservò che il signore aveva una fisonomia
fosca ed infuocata; occhi fiammeggianti, irsute chiome e il labbro superiore
minaccioso. Entrato questi nella casa, ivi furono osservati tesori, larve,
demonj e seduzioni d'ogni sorta, per adescare gli uomini a prendere il partito
diabolico: di tali opinioni se ne può vedere più a lungo la
storia nel citato Ripamonti. Fra tai delirj si perdevano i cittadini anche
più distinti e gli stessi magistrati; e in vece di tenere con esatti
ordini segregati i cittadini gli uni dagli alti, in vece d'intimare a ciascuno
di restarsene in casa, destinando uomini probi in quartieri diversi per
somministrare quanto occorreva a ciascuna famiglia, rimedio il solo che possa
impedire la comunicazione del malore, e rimedio che adoperato da principio
avrebbe forse con meno di cento uomini placata la pestilenza; in vece, dico, di
tutto ciò. si è comandata con una mal'intesa pietà una
processione solenne, nella quale si radunarono tutti i ceti de' cittadini, e
trasportando il corpo di S. Carlo per tutte le strade frequentate della
città, ed esponendolo sull'altar maggiore del duomo per più
giorni alle preghiere dell'affollato popolo, prodigiosamente si comunicò
la pestilenza alla città tutta, ove da quel momento si cominciarono a
contare sino novecento morti ogni giorno. In una parola, tutta là
città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai
più assurdi e atroci delirj, malissimo pensati furono i regolamenti,
stranissime le opinioni regnanti, ogni legame sociale venne miseramente
disciolto dal furore della superstiziosa credulità; una distruttrice
anarchia desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai
più i miseri nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella
luttuosissima epoca; si ricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla
inquisizione, alle torture, tutto diventò preda della pestilenza, della
superstizione, del fanatismo e della rapina; cosicché 1a proscritta
verità in nessun luogo poté palesarsi. Cento quaranta mila cittadini
Milanesi perirono scannati dalla ignoranza.
Mentre la pestilenza inferiva più che mai,
dopo la processione già detta, la mattina del giorno 21 giugno 1630 una
vedova per nome Caterina Troccazzani Rosa, che alloggiava nel corritore
che attraversa la Vedra de' cittadini, vide dalla finestra Guglielmo
Piazza che dal Carrobio entrò nella contrada, e accostato al muro dalla
parte dritta entrando, passò sotto il corritore, indi giunto alla casa
di S. Simone, ossia al termine della casa Crivelli che allora aveva una pianta
grande di lauro, ritornò indietro. Lo stesso fu osservato da altra donna
per nome Ottavia Persici Boni. La prima di queste donne disse nell'esame, che
il Piazza “a luogo a luogo tirava con le mani dietro al muro”: l'altra dice,
che alla muraglia del giardino Crivelli “aveva una carta in mano, sopra la qual
mise la mano dritta, che mi pareva che volesse scrivere, e poi vidi che levata
la mano dalla carta la fregò sopra la muraglia”.
Attestano che ciò accadde alle ore otto,
che era giorno fatto, che pioveva. Le due donne sparsero nel vicinato
immediatamente il sussurro di aver veduto chi faceva le unzioni malefiche, le
quali in processo poi la Troccazzani Rosa disse “aveva veduto colui a fare
certi atti attorno alle muraglie, che non mi piacciono niente”. La
vociferazione immediatamente si divulgò da una bocca all’altra, come
risulta dal processo; si ricercò se le muraglie fossero sporche, e si
osservò che dall'altezza di un braccio e mezzo da terra vi era del
grasso giallo, e ciò singolarmente sotto la porta del Tradati, e vicino
all’uscio del barbiere Mora. Si abbruciò paglia al luogo delle unzioni,
si scrostò la muraglia, fu tutto il quartiere in iscompiglio.
Prescindasi dalla impossibilità del
delitto. Niente è più naturale che il passeggiare vicino al muro
allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al coperto
della pioggia. Un delitto così atroce non si commette di chiaro giorno,
nel mente che i vicini dalle finestre possono osservare; niente è
più facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte.
Su di questa vociferazione il giorno seguente si portò il capitano di
giustizia sul luogo, esaminò le due nominate donne, e quantunque né esse
dicessero di avere osservato che il muro sia rimasto sporco dove il Piazza pose
le mani, né i siti ne' quali si era osservato l'unto giallo corrispondessero ai
luoghi toccati, si decretò la prigionia del commissario della
sanità Guglielmo Piazza.
Se lo sgraziato Guglielmo Piazza avesse commesso
un delitto di tanta atrocità, era ben naturale che attento all'effetto
che ne poteva nascere e istrutto del rumore di tutto il vicinato del giorno
precedente, non meno che della solenne visita che il giorno 22 vi fece ai
luoghi pubblici sulla strada il capitano di giustizia, si sarebbe dato a una
immediata fuga. Gli sgherri lo trovarono alla porta del presidente della
sanità, da cui dipendeva, e lo fecero prigione. Visitossi immediatamente
la casa del commissario Piazza, e dal processo risulta che non vi si trovarono
né ampolle, né vasi, né unti, né danaro, né cosa alcuna che desse sospetto
contro di lui
Appena condotto in carcere Guglielmo Piazza fu
immediatamente interrogato dal giudice, e dopo le prime interrogazioni venne a
chiedergli se conosceva i deputati della parrocchia, al che rispose che non li
conosceva. Interrogato se sapesse che siano stato unte le muraglie, disse che
non lo sapeva. Queste due risposte si giudicarono “bugie e inverosimiglianze”.
Su queste bugie e inverosimiglianze fu posto ai tormenti. L'infelice protestava
di aver detta la verità, invocava Dio, invocava S. Carlo, esclamava,
urlava dallo spasimo, chiedeva un sorso di acqua per ristoro; finalmente per
far cessare lo strazio disse: “Mi facci lasciar giù che dirò
quello che so”. Fu posto a terra, e allora nuovamente interrogato rispose: “Io
non so niente: V. S. mi facci dare un poco d'acqua”; su di che nuovamente fu
alzato e tormentato, e dopo una lunghissima tortura nella quale si voleva che
nominasse i deputati, egli esclamava sempre: “Ah Signore, ah S. Carlo! se lo
sapessi lo direi”; poi disperato dal martirio gridava: “Ammazzatemi,
ammazzatemi”; e insistendo il giudice a chiedergli “che si risolva ormai di
dire la verità per qual causa neghi di conoscere i deputati della
parrocchia, e di sapere che siano state unte le muraglie”, rispose
quell'infelice: “La verità l'ho detta, io non so niente, se l'avessi
saputo l'avria detto; se mi vogliono ammazzare che mi ammazzino”: e gemendo e
urlando da uomo posto all’agonia persisté sempre nello stesso detto, sinché submissa
voce ripeteva di aver detta la verità, e perdute le forze
cessò d'esclamare, onde fu calato e riposto in carcere.
Qual'inverosimiglianza vi era mai nelle risposte
del disgraziato Guglielmo Piazza? Egli abitava nella contrada di S Bernardino,
e non alla Vedra, poteva benissimo ignorare un fatto notorio a quel vicinato.
Che obbligo aveva quel povero uomo da saper chi fossero i deputati della
parrocchia? Che pericolo correva mai egli, se gli avesse conosciuti, nel dirlo?
Che pericolo correva mai se diceva pure di aver saputo che fossero state unte
le muraglie alla Vedra?
Venne riferito al senato l'esame fatto e il
risultato dei tormenti dati a quell'infelice: decretò il senato che il
presidente della sanità e il capitano di giustizia, assistendovi anche
il fiscale Tornielli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura
cum ligatura canubis, et interpollatis vicibus, arbitrio etc. [con aspra
tortura, con legami di canapa e viti intercalate, ad arbitrio]; ed è da
notarsi che vi si aggiunge, abraso prius disto Gulielmo et vestibus curiae
induto, propinata etiam, si ita videbitur praefatis praesidi ct capitaneo,
potione expurgante [dopo aver provveduto a rasare il capo al sunnominato
Guglielmo, a vestirlo con abiti curiali e, se sembrava opportuno al presidente
e al capitano predetti, a somministrargli una pozione purgativa]: e ciò
perché in quei tempi credevasi che o ne' capelli e peli, ovvero nel vestito, o
persino negli intestini tranguggiandolo, potesse avere un amuleto o patto col
demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato. Nel
1630 quasi tutta l'Europa era involta in queste tenebre superstiziose.
Fa commovere tutta l'umanità la scena
della seconda tortura col canape, che dislocando le mani le faceva ripiegare
sul braccio, mentre l'osso dell'omero si dislocava dalla sua cavità.
Guglielmo Piazza esclamava, mentre si apparecchiava il nuovo supplizio: “Mi
ammazzino che l'avrò a caro, perché la verità l'ho detta”; poi,
mentre si cominciava il crudelissimo slogamento delle giunture, diceva: “Che mi
ammazzino, che son qui”. Poi aumentandosi lo strazio gridava: “Oh Dio mi, sono
assassinato, non so niente, e se sapessi qualche cosa non sarei stato sin adesso
a dirlo”. Continuava e cresceva per gradi il martirio, sempre s'instava e dal
presidente della sanità e dal capitano di giustizia, perché rispondesse
sui deputati della parrocchia e sulla scienza d'essere state unte le muraglie.
Gridava lo sfortunato Guglielmo: “Non so niente! fatemi tagliar la mano,
ammazzatemi pure: oh Dio mi, oh Dio mi!”. Sempre instavano i giudici, sempre
più incrudelivano, ed egli rispondeva esclamando e gridando: “Ah
Signore, sono assassinato! Ah Dio mi, son morto!”. Fa ribrezzo il seguire
questa atroce scena! A replicate istanze replicava sempre lo stesso,
protestando di aver detto la verità, e i giudici nuovamente volevano che
dicesse la verità; egli rispose: “Che volete che dica?”. Se gli avessero
suggerito un'immaginaria accusa, egli si sarebbe accusato; ma non poteva avere
nemmeno la risorsa d'inventare i nomi di persone che non conosceva. Esclamava;
“Oh che assassinamento!”. E finalmente dopo una tortura, durante la quale si
scrissero sei facciate di processo, persistendo egli anche con voce debole e
sommessa a dire: “Non so niente, la verità l'ho detta, ah! che non so
niente”, dopo un lunghissimo e crudelissimo martirio fu ricondotto in carcere.
Il Ripamonti riferisce una crudelissima
circostanza, ed è, che terminata la tortura del Piazza, i giudici ordinassero
di ricondurlo in carcere colle ossa slogate, quale era, senza rimetterle a
luogo, e che l'orrore di continuare nello spasimo abbia allora cavato di bocca
l'accusa a se stesso del Piazza; ma nel processo, che ho nelle mani, di
ciò non vedo alcun vestigio. Appare da questo, che fosse promessa al
Piazza l'impunità qualora palesasse il delitto e i complici. È
assai verosimile che nel carcere istesso si sia persuaso a quest'infelice, che
persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo spasimo; che
il delitto si credeva certo, e altro spediente non esservi per lui fuorché
l'accusarsene e nominare i complici, così avrebbe salvata la vita e si
sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno. Il Piazza
dunque chiese ed ebbe l'impunità, a condizione però che esponesse
sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli comparve, e
accusandosi senza veruna tortura o minaccia d'avere unto le muraglie, pieno di
attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire che l'unguento
gli era stato dato dal barbiere che abitava sull'angolo della Vedra (ove
attualmente sta la colonna infame) che questo unguento era giallo, e gliene
diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia,
rispose: “È amico, signor sì, buon dì, buon anno, è
amico, signor sì”. Quasi che le confidenze di un misfatto così
enorme si facessero a persone appena conoscenti, “amico di buon dì, buon
anno”. Come poi seguì così orribile concerto? Eccone le precise
parole. I1 barbiere di primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la
bottega “Vi ho poi da dare non so che; io gli dissi, che cosa era? ed egli
rispose: è un non so che unto; ed io dissi: verrò poi a torlo; e
così da lì a tre dì me lo diede poi”. Questo è il
principio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza, che allora che gli fece tal
proposizione vi erano “tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi
fossero, però m'informerò da uno che era in mia compagnia
chiamato Matteo che fa il fruttarolo e che vende gambari in Carrobio, quale io
manderò a dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che
erano con detto barbiere”. Chi mai crederà, che in tal guisa alla
presenza di quattro testimonj si formino così atroci congiure! Eppure
allora si credette:
I. Che
la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni
fabbricati in Milano
II. Che
si possano fabbricar veleni, che dopo essere stati all'aria aperta, al solo
contatto diano la morte.
III. Che
se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli.
IV. Che
si possa nel cuore umano formare il desiderio di uccidere gli uomini
così a caso.
V. Che
un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la
vociferazione di due giorni, e si lascerebbe far prigione.
VI. Che
il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sé le muraglie,
cercasse superfluamente de' complici.
VII. Che
per trascegliere un complice di tale abbominazione, gettasse l'occhio sopra un
uomo appena conosciuto.
VIII. Che
questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj, e il Piazza ne
assumesse l'incarico senza conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un
regalo promessogli da un povero barbiere!
Tutte queste otto proposizioni si pongano da una
parte della bilancia. Dall’altra parte si ponga un timore vivissimo dello
strazio e de' spasmi sofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la
ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più
inverosimiglianza. Anche nella Francia in que' tempi fu bruciata 1a marescialla
d'Ancre, come strega, per sentenza del parlamento di Parigi: tutta l'Europa era
assai più nelle tenebre, di quello che ora vi sia. È da osservare
che anche in quest'orribile disordine vi si immischiò il sortilegio, la
fattucchieria; e l'infelice Piazza, per trovare la scusa perché non avesse
fatto questo racconto, o come diceva allora il giudice, “detta la
verità”, in prima rispose di attribuirlo a un'acqua che gli diede da
bere il barbiere, la qual'acqua perché poi non operasse nel terzo esame, siccome
aveva fatto ne' due primi, nessuno lo ricercò.
Su questi fondamenti si passò a far
prigione il barbiere Gian-Giacomo Mora; e quello che pure meritava osservazione
fu, che lo colsero in sua casa fra la moglie e i figli (in quella casa poi che
venne distrutta per piantarvi la colonna infame). Dal primo esame del
Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell'unto fatto nel
quartiere il giorno di venerdì 21 giugno; che parimenti eragli nota la
prigionia del commissario Piazza, seguita il giorno 22 che fu sabato: e al
mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato cogliere in sua casa se fosse
stato reo? Tutto ciò che avvenne all'atto dell'arresto conferma
l'innocenza, non meno che la sorpresa di quest’infelice. Egli aveva preparato
pel commissario un unguento che fabbricava per preservarsi dal mal contagioso,
ugnendosi le tempia e le ascelle; unguento, di cui descrisse poi la ricetta,
che in que' tempi si conosceva sotto il nome di “unguento dell'impiccato”. Il
commissario diede l'ordine al barbiere di prepararglielo, e fu fatto prigione
prima che glielo consegnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver
egli fabbricato l'unguento che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di
esser legato per un simile motivo: “Se per sorte”, (dice egli mentre è
arrestato in casa, prima di condurlo prigione) “sono venuti in casa, perché io
abbia fatto quell'elettuario e non l'abbia potuto fare, non so che farci, l'ho
fatto a fine di bene e per salute de' poveri”; poi allo sbirro diceva: “Non
stringete la legatura alla mano, perché non ho fallato”; indi sospirando e
battendo un piede, esclamò: “Sia lodato Iddio!”.
Nella minutissirna visita fatta alla casa in
presenza del Mora egli rese conto de' barattoli d'unguenti, d'elettuarj e
d'altre polveri e pillole che gli si ritrovarono in bottega. Poi nel cortile
della sua piccola casetta vi si osservò “un fornello con dentro murata
una caldaja di rame, nella quale si è trovato dentro dell'acqua torbida,
in fondo della quale si è trovato una materia viscosa, gialla e bianca,
la quale gettata al muro, fattane la prova, si attaccava” Chi mai crederebbe
che un potentissimo veleno, che al toccarlo conduce alla morte, si tenesse in
un aperto cortile, in una caldaja visibile a tutti, in una casa dove v'erano
più uomini, perché i Mora aveva figlj e moglie, come consta anche dal
processo? Le tenere fanciulle e la figlia per la quale risulta che aveva fatto
un unguento per i vermi, potevano elleno essere partecipi del secreto? Potevasi
lasciare in libertà di ragazzi un veleno che uccide col tatto,
riponendolo in una caldaja fissata nel muro del cortile? Dopo che era tanto
solenne il processo da sei giorni, era poi egli possibile che il fabbricatore e
distributore dell'unto conservasse placidamente quel corpo di delitto alla
vista, riposto nel cortile? Nessuno di tai pensieri venne in capo al giudice.
Interrogato il Mora cosa contenesse quella caldaja, rispose nell'atto della
visita: “L'è smoglio”, cioè ranno. Nuovamente poi interrogato nel
primo esame, rispose: “Signore, io non so niente, l'hanno fatto far le donne:
che ne dimandino conto da loro che lo diranno; e sapeva tanto io che quel
smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'esser oggi condotto prigione: e
quello è mestiero che fanno le donne, del quale io non mi impedisco”. Su
di questo proposito interrogata la moglie dello sventurato Mora per nome Chiara
Brivia, risponde d'aver fatto il bucato quindici giorni prima, e d'aver
lasciato del ranno “nella caldara, quale è là nel cortino”.
Questo ranno doveva essere il corpo del delitto.
Si esaminarono alcune lavandaje. Margarita Arpizzanelli prima di visitare il
ranno propala la sua teoria dicendo al giudice: “Sa V. S. che con il smoglio
guasto si fanno degli eccellenti veleni che si posson fare?”. Si vede che il
fanatismo era al colmo, e che le persone che si esaminavano, a costo
d'inventare nuove e sconosciute proprietà, volevano sacrificare una
vittima, e credevano di servir Dio e la patria inventando un delitto. Si visita
il ranno da questa Arpizzanelli lavandaja, e questa giudica: “Questo smoglio
non è puro, ma vi è dentro delle furfanterie, perché il smoglio
puro non ha tanto fondo, né di questo colore, perché lo fa bianco, bianco, e
non è tacchente come questo, il quale ha brutto colore, ed è
tacchente, e sta a fondo, e pare cosa grassa; ma quello del vero smoglio, in
movendosi il vaso in che si trova, si move tutto il detto fondo”. Presso poco
diè lo stesso giudizio l'altra lavandaja Giacomina Endrioni, che disse:
“Mi pare che vi sia qualche alterazione, ed il smoglio si vede che quanto
più se gli ruga dentro diventa più negro e più infame. Con
lo smoglio marzo, cattivo, si fanno di gran porcherie e tossichi”. Non credo
che verun chimico saprebbe fare un veleno coll'acqua del bucato. In una bottega
poi di un barbiere, dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle piaghe e
da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimento
viscido, grasso, giallo dopo varj giorni d'estate?
Né fu meno funesto il giudizio de' fisici. Il
fisico collegiato Achille Carcano concluse con quella opinione: “Io non ho
osservato troppo bene che cosa facci lo smoglio, ma dico bene che per rispetto
alla ontuosità, che si vede in quest'acqua può essere causata da
qualche panno ontuoso lavato in essa, come sarebbe mantili, tovaglie e cose
simili; ma perché in fondo di quell'acqua vi ho vista ed osservata la
qualità della residenza che vi è, e la quantità in
rispetto alla poca acqua, dico e concludo non potere in alcun modo a mio
giudizio essere smoglio”. Le due lavandaje lo giudicano smoglio “con delle
furfanterie” e con qualche “alterazione”; il medico dice che in alcun modo “non
è smoglio”, e lo asserisce perché a proporzione del sedimento vi
è poca acqua, quasi che dopo quindici giorni che stava a cielo scoperto
nel mese di giugno non potesse l'acqua essere svaporata per la maggior parte!
Fa ribrezzo il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli
esaminatori e dagli esaminati, e quanto offuscato fosse ogni barlume di
umanità e di ragione in quelle feroci circostanze. Due altri,
cioè il fisico Giambattista Vertua e Vittore Bescapé decisero presso
poco come il fisico Carcano, e conclusero di non saper conoscere che composto
fosse quello della caldaja.
Su questo giudizio e sulla deposizione del
commissario Piazza, che anche al confronto col barbiere Mora sostenne l'accusa
datagli, esclamando sempre il Mora e dicendo: “Ah Dio misericordia! non si
troverà mai questo”, andò progredendo il processo.
Terminato il confronto si pose al secondo esame
il Mora. Il Piazza aveva detto di essere stato a casa del Mora, aveva citati
Baldassare Litta e Stefano Buzzi come testimonj del fatto. Esaminato il Litta
il giorno 29 giugno, “se mai ha visto il Piazza in casa o bottega del Mora”,
rispose: “Signor no”. Esaminato il Buzzi nel giorno istesso, “se sa che tra il
Piazza e il barbiere passi alcuna amicizia”, rispose: “Può essere che
siano amici e che si salutassero, ma questo non lo saprei mai dire a V. S.”.
Interrogato, “se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del
detto barbiere”, rispose: “Non lo saprei mai dire a V. S.”. Tali funno le
deposizioni de' due testimonj, che il Piazza citò per provare di essere
stato a casa del barbiere. Il barbiere negava che fosse mai stato il Piazza a
casa di lui. Su questa negativa il barbiere fu posto a crudelissima tortura col
canape. Ciò si eseguì il giorno 30 di giugno. Il povero padre di
famiglia Gian-Giacomo Mora, uomo corpulento e pingue, a quanto viene descritto
nel processo, prima di prestare il giuramento si pose ginocchioni avanti il
Crocifisso ed orò, indi baciata la terra si alzò e giurò.
Quando cominciarono i tormenti esclamò: “Gesù Maria sia sempre in
mia compagnia, son morto”. Il tormento cresceva, ed egli esclamava, protestava
la sua innocenza e diceva: “Vedete quello che volete che dica che lo
dirò”. Fa troppo senso all'umanità il seguitare questa scena, che
non pare rappresentata da uomini, ma da que' spiriti malefici che c'insegnano
essere occupati nel tormentare gli uomini. Per sottrarsi l'infelice Mora
promise che avrebbe detta la verità se cessavano i tormenti; si
sospesero. Calato al suolo disse: “La verità è che il commissario
non ha pratica alcuna meco”. Il giudice gli rispose che “questa non è la
verità che ha promesso di dire, perciò si risolva a dirla,
altrimenti si ritornerà a far levare e stringere”. Replicò lo
sgraziato Mora: “Faccia V. S. quello che vuole”. Si rinnovarono gli strazj, e
il Mora urlava “Vergine santissima sia quella che m'ajuta”. Sempre se gli
cercava la verità dal giudice, egli ripeteva: “Veda quello che vuole che
dica, lo dirò”. L’eccesso dello spasimo attuale era quello che
l'occupava, e finalmente disse il Mora: “Gli ho dato un vasetto pieno di
brutto, cioè di sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al
commissario”. Con tal espediente fu cessato il tormento, quindi per non essere
nuovamente ridotto alle angoscie viene a dire: “Era sterco umano, smojazzo,
perché me lo dimandò lui, cioè il commissario per imbrattar le
case, e di quella materia che esce dalla bocca dei morti”. Vedesi la produzione
forzata dalla mente di un miserabile oppresso dallo spasimo. Lo sterco e il
ranno non bastavano a dar la morte: egli inventa la saliva degli appestati; poi
proseguendo le interrogazioni e le risposte, dice il Mora che ebbe dal
commissario Piazza per il peso di una libbra di quella materia della bocca
degli appestati e la versò nella caldaja, e che gliela diede per fare
quella composizione onde si ammalassero molte pelsone, e avrebbe lavorato il
commissario, e col suo elettuario avrebbe guadagnato molto il barbiere. Conclude
col dire che questo concerto fu fatto, “trattandosi così tra noi ne
discorressimo”.
Il Piazza che aveva levata l'impunità non
diceva niente di tutto ciò. Anzi diceva di essere stato invitato dal
Mora. Come mai raccogliere clandestinamente tanta bava per una libbra? Come
raccoglierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaja, onde la
moglie, i teneri incauti figli si appestassero? Come conservarla dopo le
solenni procedure, e lasciarsi un simil corpo di delitto? Come sperar guadagno
vendendo l'elettuario: mancavano forse ammalati in quel tempo? Non si
può concepire un romanzo più tristo e più assurdo. Pure
tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle funeste passioni de que'
tempi infelici. Il giorno vegnente, cioè il primo di luglio fu chiamato
il Mora all'esame per intendere “se ha cosa alcuna da aggiungere all'esame e
confessione sua che fece jeri. dopo che fu omesso da tormentare”, ed ei
rispose: “Signor no, che non ho cosa da aggiungervi, ed ho più presto
cosa da sminuire”. Che cosa poi avesse da sminuire lo rispose
all'interrogazione: “Quell'unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello
che ho detto, l'ho detto per i tormenti” A tale proposizione fugli minacciato,
che se si ritrattava dalla verità detta il giorno avanti. “per averla si
verrà contro di lui a tormenti”: a ciò rispose il Mora: “Replico
che quello che dissi jeri non è vero niente, e lo dissi per i tormenti”.
Postea dixit: “V. S. mi lasci un poco dire un' Ave Maria, e poi
farò quello che il Signore mi inspirerà”: postea genibus
flexis se posuit ante imaginem Crucifixi depictam, et oravit per spatium unius
miserere deinde surrexit, mox rediit ad examen. Et iterato juramento,
interrogatus [indi si pose in ginocchio dinanzi all'immagine de Crocefisso
e disse un miserere: si alzò e ritornò all'esame. Ripetuto il
giuramento, alla domanda]: “che si risolva ormai a dire se l'esame che fece
jeri, e il contenuto di esso è vero”, respondit “In coscienza
mia, non è vero niente”. Tunc jussum fuit duci al locum tormentorum
[Allora si comandò che fosse condotto al luogo del supplizio], con quel
che segue, ed ivi poi legato, mentre si ricominciava la crudele carnificina,
esclamò che lo lasciassero, che non gli dessero più “tormenti,
che la verità che ho deposto la voglio mantenere”; allora lo slegarono e
il ricondussero alla stanza dell'esame, dove nuovamente interpellato, “se
è vero come sopra ha detto, che l'esame che fece jeri sia la
verità nel modo che in esso si contiene”, rispose: “Non è vero
niente”. Tunc jussum fuit iterum duci ad locum tormentorum etc.: e
così con questa alternativa dovette alfine soccombere, e preferire ogni
altra cosa alla disperata istanza de’ tormenti. Ratificò il passato
esame e si trovò nel caso nuovamente di proseguire il funesto romanzo.
Ecco quanto inverosimile sia il racconto. Dice egli adunque che quel Piazza che
appena egli conosceva di figura, e col quale anche dal processo risulta che non
aveva famigliarità, quel Piazza adunque “la prima volta che trattassimo
insieme mi diede il vaso di quella materia, e mi disse così:
accomodatemi un vaso con questa materia, con la quale ungendo i catenacci e le
muraglie si ammalerà della gente assai, e tutti due guadagneremo”. Che
verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza in un vaso, perché consegnarla
al barbiere acciocché “gli accomodasse un vaso?”. Mancavano forse ammalati in
quel tempo, mentre morivano 800 cittadini al giorno? Che bisogno di far
ammalare la gente? Perché non ungere immediatamente? Non vi è il senso
comune. Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento? Eccolo. “Si
pigliava”, prosegue l'infelice Mora, “di tre cose, tanto per una; cioè
un terzo della materia che mi dava il commissario, dello sterco umano un altro
terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben
bene, né vi entrava altro ingrediente, né bollitura”. Lo sterco e l'acqua del
bucato non potevano che indebolire l'attività della bava degli
appestati.
Tessuto così questo secondo romanzo
contradittorio del primo, si richiama all'esame il Piazza, che aveva
l'impunità a condizione che avrebbe detta la verità intiera, e
interrogato se sapesse di qual materia fosse composto o in qual modo fabbricato
l'unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo. Replicò il
giudice, se almeno sapesse che alcuno avesse data al barbiere materia per
fabbricare quell'unguento, e rispose il Piazza: “Signor no, che non lo so”. Se
il Piazza avesse data la bava degli appestati, poiché aveva l'impunità
dicendo esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non dicendolo
esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale nel tempo in
cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co' tormenti l'avrebbe
scoperta? Se dunque non si verifica che il Piazza abbia somministrato la bava,
si vede inventata la forzata istoria del Mora. Questo ragionamento poteva pur
farlo il giudice; ma sgraziatamente la ragione non ebbe parte veruna in tutta
quella sciagura. Il giudice allora disse al Piazza, che dal processo risultava
che egli avesse somministrato la bava de' morti al barbiere, e su di ciò
nuovamente il giudice l'interrogò così: “Che dica per qual causa
nel suo esame e confessione, qual fece per godere l'impunità, non depose
questa particolarità, sostanza del delitto, siccome era tenuto di
fare?”. E a ciò rispose il Piazza: “Della sporchizia cavata dalla bocca
dei morti appestati io non l'ho avuta, né portata al barbiere, e del resto che
ho confessato, adesso che sono stato interrogato, non me ne sono ricordato, e
per questo non l'ho detto”. Allora gli venne intimato, che per non aver egli
mantenuta la fede di palesare la verità, e per aver “diminuita la sua
confessione” non poteva più godere della impunità, a norma ancora
della protesta fattagliene da principio. A questa minaccia il Piazza si rivolse
subito ad accordare di aver somministrato la bava e di averne data al barbiere,
non già una libbra, come disse il povero Gian-Giacomo Mora, ma
“così un piattellino in un piatto di terra”. Obbligato poi
dall'interrogazione a dire come seguisse tutto ciò, eccone la risposta,
di cui l'assurdità abbastanza da sé sola si manifesta. Così
dunque rispose lo sgraziato Piazza: “Io mi mossi instato e ricercato dal detto
barbiere, il quale mi ricercò a così fare con promessa di darmi
una quantità di danari, sebbene non la specificò, dicendomi che
aveva una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di
danaro per far tal cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa
persona grande, non me lo volle dire, ma solamente mi disse di attendere a
lavorare ed untare le muraglie e porte, che mi avrebbe dato una quantità
di danari”. Conviene ricordarsi che il barbiere era un povero uomo, e basta
vedere lo spazio che occupava la sua povera casetta. Egli poi era un padre di
famiglia con moglie e figli, e non un ozioso e vagabondo, del quale si potesse
far scelta per un simile orrore. Sin qui a forza di tormenti e di minacce si
è trovato modo di far coincidere i due romanzi, e costringere il
contraddicente a confermare la favola di chi aveva parlato prima. Vengono ora
in campo da questa risposta due cose affatto nuove. Una si è che il
barbiere promettesse “una quantità di danari”; l'altra si è che
in questo affare vi entrasse “una persona grande”: né l'una né l'altra era
stata detta dal Mora. Si pose dunque nuovamente all'esame il Mora. Interrogato
se egli avesse promesso una quantità di danari al Piazza, rispose il
Mora nel quinto esame del giorno 2 luglio 1630: “Signor no; e dove vuole V. S.
che piglimi questa quantità di danari?”. Allora gli venne detto dal
giudice quanto risultava in processo e sui danari e sulla persona grande, e si
redarguì perché dicesse la verità. Rispose il Mora queste parole:
“V. S. non vuol già se non la verità, e la verità io l'ho
già detta quando sono stato tormentato, e ho detto anche d'avvantaggio”;
dal quale fine si vede come l'infelice avrebbe pure ritrattata tutta la funesta
favola pronunziata, se non avesse temuto nuovi tormenti: “e ho detto anche
d'avvantaggio”! Questo “anche” più chiaramente lo disse allorché ai due
di luglio furongli dati i reati, e stabilito il breve termine di due soli
giorni per fare le sue difese; sul qual proposito si legge in processo che il
protettore de' carcerati disse al notajo così: “Per obbedienza sono
stato dal signor presidente, e gli ho parlato; sono anco stato dal Mora, il
quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, e che quello l'ha detto per i
tormenti; e perché io gli ho detto liberamente, che non voleva, né poteva
sostenere questo carico di difenderlo, mi ha detto che almeno il sig.
presidente sia servito di provvederlo di un difensore, e che non voglia
permettere che abbia da morire indifeso”: da che si vedono più cose,
cioè che il Mora teneva per certo di dover morire, e tutta la ferocia
del fanatismo che lo circondava doveva averlo bastantemente persuaso; che,
sebbene tenesse per certa la morte, liberamente diceva di avere mentito per i
tormenti; e che finalmente il furore era giunto al segno, che si credeva
un'azione cattiva e disonorante il difendere questa disgraziata vittima, posto
che il protettore diceva di non volere, né potere assumersene l'incarico. Il
termine poi per le difese venne prorogato.
Acciocché poi si possa concepire un'idea precisa
e originale del modo di pensare in quel tempo, credo opportuno di trascrivere
un esame, che sta nel corpo di quest'orribile processo; veramente serve egli di
episodio alla tragedia del Piazza e del Mora; ma siccome originalmente vi si
vedono la feroce pazzia, la Superstizione, il delirio, io lo riferirò
esattamente, ponendo in margine distintamente le osservazioni che mi si
presentano. Ecco l'esame:
Die suprascripto, octavo Julii.
Vocatus ego notarius Gallaratus, dum
discedere vellem a loco suprascripto appellato la
Cassinazza, juvenis quidam mihi formalia dixit [Il giorno suindicato, 8
luglio: Mentre io, notaio Ga1larati, stavo allontanandomi dal luogo
soprascritto, chiamato la Cassinazza, un giovane mi rivolse queste testuali
parole] “Io voglio che V. S. mi accetti nella sua squadra, ed io dirò
quello che so”.
Tunc ei delato
juramento etc. [Allora, fattogli prestare
giuramento].
Interrogatus de ejus nomine,
cognomine, patria [Interrogato del suo nome, cognome, luogo di nascita]
Respondit: “lo mi
chiamo Giacinto Maganza, e sono figliuolo di un frate, che si chiama frate
Rocco, che di presente si trova in S. Giovanni la Conca, e sono Milanese, e
molto conosciuto in porta Ticinese”.
Int.: “Che cosa è quello
che vuol dire di quello che sa”.
Resp. titubando: “Io
dirò la verità, è un cameriere, che dà quattro
dobble al giorno”. - Deinde obmutuit stringendo dentes [Indi tacque,
stringendo i denti].
Et institus denuo [Sollecitato
nuovamente] a dir l'animo suo, e finire quanto ha cominciato a dire.
Resp. “È il
Baruello padrone dell'osteria di S. Paolo in compito”., mox dixit
[subito rispose], “è anche parente dell'oste del Gambaro”.
Int.: “Che dica
come si chiama detto Baruello”.
Resp.: “Si chiama
Gian-Stefano”.
Int.: “Che dica
cosa ha fatto detto Baruello”.
Resp.: “Ha
confessato già, che si è trovato delle biscie e de' veleni nella
sua canepa”.
Int.: “Dica come
sa lui esaminato queste cose”.
Resp.: “Il suo
cognato mi ha cercato a voler andar a cercare delle biscie con lui”.
Int.: “Che dica
precisamente che cosa gli disse detto cognato, e dove fu”.
Resp.: “Me lo ha
detto con occasione che in porta Ticinese mi addimandano "il Romano",
così per sopra nome, e mi disse andiamo fuori di porta Ticinese,
lì dietro alla Rosa d'oro ad un giardino che ha fatto fare lui, a
cercare delle biscie, dei zatti e dei ghezzi ed altri animali, quali li fanno
poi mangiare una creatura morta, e come detti animali hanno mangiato quella
creatura, hanno le olle sotto terra e fanno gli unguenti e li danno poi a
quelli che ungono le porte; perché quell'unguento tira più che non fa la
calamita”.
Int.: “Dica se
lui esaminato ha visto tal unto”.
Resp.: “Signor si,
che l'ho visto”.
Int.: “Dica dove
ed a chi ha visto l'unto”.
Tunc obmutuit, labia et dentes
stringendo [Allora tacque, stringendo le labbra e i denti], et institus
[e sollecitato] a rispondere allegramente alla interrogazione fattagli:
Resp.: “Io l'ho
visto nella osteria della Rosa d'oro”.
Int.: “Dica chi
aveva tal unto, e in che vaso era”.
Resp.: “L'aveva il
Baruello”.
Int.: “Dica
quando fu che aveva tal unto il Baruello”.
Resp.: “Saranno
quindici giorni, ed era un mercoledì, se non fallo, e l'aveva il detto
Baruello in un'olla grande, e l'aveva sotterrato in mezzo dell'orto nella detta
osteria della Rosa d'oro con sopra dell'erba”.
Int.: “Dica se
lui esaminato ha mai dispensato di quest'unto”. |
Resp.: “Se io ne
ho dispensato due scattolini mi possa essere tagliato il collo”.
Int.: “Dica dove
ha dispensato tal unto”.
Resp.: “lo l'ho
dispensato sopra il Monzasco”.
Int.: “Dica in
che luogo preciso del Monzasco ha dispensato tal unto”.
Resp.: “lo l'ho
dispensato sopra le sbarre delle chiese, perché questi villani subito che hanno
sentito messa si buttano giù e si appoggiano alle sbarre, e per questo
le ungeva”.
Int.: “Dica
precisamente dove sono le sbarre da lui esaminato unte, come ha detto”.
Resp.: “lo ho unto
in Barlassina, a Meda ed a Birago, né mi ricordo esser stato in altro luogo”.
Int.: “Dica chi
ha dato a lui esaminato l'unto”.
Resp.: “Me l'ha
dato il detto Baruello, e Gerolamo Foresaro in un palpero [papiro, cioè
carta] sopra la ripa del fosso di porta Ticinese vicino la casa del detto
Foresaro, qual sta vicino al ponte de' Fabbri”.
Int.: “Dica che
cosa detti Foresè e Baruello dissero a lui esaminato quando gli diedero
tal unto”.
Resp.: “Quando mi
diedero tal unto fu quando io fui se non venuto dal Piemonte, e mi trovarono
dietro il fosso di porta Ticinese; il Baruello mi disse: o Romano, che fai?
Andiamo a bevere il vin bianco, mi rallegro che ti vedo con buona ciera: e
così andai all'osteria (mox dixit [subito si corresse]),
all'offelleria delle Sei-dita in porta Ticinese, e pagò il vin bianco e
un non so che biscottini, e poi mi disse, vien qua Romano, io voglio che
facciamo una burla a uno, e perciò piglia quest'unto, quale mi diede in
un palpero, e va all'osteria del Gambaro, e va là di sopra dove è
una camerata di gentiluomini; e se dicessero cosa tu vuoi, di' niente, ma che sei
andato là per servirli, e poi che gli ungessi con quell'unto e cosi io
andai, e gli unsi nella detta osteria del Gambaro, qual erano là, io era
dissopra della lobbia a mano sinistra; e m'introdussi 1à a dargli da
bevere mostrando di frizzare un poco, cioè per mangiare qualche boccone;
e così gli unsi le spalle con quell'unguento, e con mettergli il
ferrajuolo gli unsi anco il collaro e il collo con le mani mie, dove credo sono
poi morti di tal unto”.
Int.: “Dica se sa
precisamente che alcuno di quelli che furono unti da lui esaminato, come sopra,
siano poi morti, o no”.
Resp.: “Credo che
saranno morti senz'altro, perché morono solamente a toccargli i panni con detto
unto: non so poi a toccargli le carni come ho fatto io”.
Int.: “Dica come
ha fatto lui esaminato a non morire, toccando questo unto tanto potente, come
dice”.
Resp.: “El sta
alle volte alla buona complessione delle persone”.
Quo facto cum hora esset tarda fuit
dimissum examen [Ciò fatto, essendo tardi, fu sospeso l'inteuogatorio].
Da questo esame solo ne ricaverà chi legge
l'idea precisa della maniera di pensare e procedere in quei disgraziatissirni
tempi. Ho creduto bene di riferire fedelmente un esame, acciocché si vedano le
cose nella sorgente, e non resti dubbio che mai l'amore del paradosso, il
piacere di spargere nuova dottrina, o la vanità di atterrare una
opinione comune, mi facciano aggravare le cose oltre l'esatto limite della
verità. Il metodo, col quale si procedette allora, fu questo. Si suppose
di certo che l'uomo in carcere fosse reo. Si torturò sintanto che fu
forzato a dire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare
altri rei; questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si posero alla
tortura. Sostenevano l'innocenza loro; ma si leggeva ad essi quanto risultava
dal precedente esame dell'accusatore, e si persisteva a tormentarli sinché
convenissero d'accordo.
Altra prova di pazzia di que' tempi è
l'esame lunghissimo fatto il 12 settembre a Gian-Stefano Baruello, il quale
ebbe la sentenza di morte dal Senato il giorno 27 agosto (morte, che dopo le
tenaglie, il taglio della mano, la rottura delle ossa e l'esposizione vivo
sulla ruota per sei ore, terminava coll'essere finalmente scannato), e fu
sospesa proponendogli l'impunità se avesse palesato complici e esposto
il fatto preciso. Questi dunque tessé una storia lunghissima e sommamente
inverosimile, per cui il figlio del castellano di Milano compariva autore di
quest'atrocità, affine di vendicarsi di un insulto stato fatto in porta
Ticinese, e si voleva che il signor D. Giovanni Padilla figlio del castellano
avesse lega col Foresè, Mora, Piazza, Carlo Scrimitore, Michele
Tamburino, Giambattista Bonetti, Trentino, Fontana ecc. e varj simili uomini
della feccia del popolo. Redarguito poi, come avendo egli il mandato per la
uccisione di porta Ticinese, ne facesse spargere in altre porte, e convinto
d'inverosimiglianza somma nel suo racconto, ecco cosa si vede che rispondesse
esso Gian-Stefano Baruello nel suo esame 12 settembre 1630.
Et cum haec dixisset, et ei
replicaretur haec non esse verisimilio, et propterea hortaretur ad dicendam
veritatem [Avendo ciò detto ed essendogli stato replicato che le
cose da lui dette non erano verosimili, fu esortato a dire la verità]
Resp.: “Uh! uh! uh! Se non la posso dire”, extendens
collum et toto corpore contremiscens, et dicens [tendendo il collo e
scuotendo tutto il corpo]: “V. S. m'ajuti, V. S. m'ajuti”.
Ei dicto [Essendogli
stato detto]: “Che se io sapessi quello vuol dire potrei anco ajutarlo, che però
accenni, che se s'intenderà in che cosa voglia essere ajutato, si
ajuterà potendo”.
Tunc denuo incepit se torquere, labia
aperire, dentes perstringendo, tandem dixit [Allora nuovamente
cominciò a torcersi, ad aprire le labbra, a stringere i denti e finalmente
disse]: “V. S. mi ajuti; signore, ah Dio mio! ah Dio mio!”.
Tunc ei dicto: “Avete
forse qualche patto col Diavolo? Non vi dubitate e rinunziate ai patti, e
consegnate l'anima vostra a Dio che vi ajuterà”.
Tunc genuflexus dixit [Allora
inginocchiatosi disse]: “Dite come devo dire, signore”.
Et ei dicto: “Che debba
dire: io rinunzio ad ogni patto che io abbia fatto col Diavolo, e consegno
l'anima mia nelle mani di Dio e della B. Vergine, col pregarli a volermi
liberare dallo stato nel quale mi trovo, ed accettarmi per sua creatura”.
Quae cum dixisset, et devote et satis
ex corde, ut videri potuit, surrexit, et cum loqui vellet, denuo prorupit in
notas confusas porrigendo collum, dentibus stringendo volens loqui, nec valens,
et tandem dixit [Dette queste cose, devotamente e abbastanza sinceramente, come
si poté vedere, si alzò e, volendo parlare, emise dei suoni confusi,
sporgendo il collo, stringendo i denti, volendo parlare e non riuscendovi,
tuttavia disse]: “Quel prete Francese”.
Et cum haec dixisset statim se
projecit in terram, et curavit se abscondere in angulo secus bancum, dicens [E,
pronunziate queste parole, si gettò immediatamente a terra, tentando di
nascondersi in un angolo sotto il banco, e disse]: “Ah Dio mi! ah Dio mi!
ajutatemi, non mi abbandonate”.
Et ei dicto: “Di che
temeva?”.
Resp.: “È
1à, è là quel prete Francese con la spada in mano, che mi
minaccia, vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra”.
Et ei dicto: “Che
facesse buon animo, che non vi era alcuno, e che si segnasse e si raccomandasse
a Dio, e che di nuovo rinunziasse ai patti che aveva col Diavolo, e si donasse
a Dio ed alla Beata Vergine”.
Cum haec verba dixissem, dixit iterum
[Avendo
io detto queste parole, esclamò nuovamente]: “A signore, ei viene, ei
viene colla spada nuda in mano”: quae omnia quinquies replicavit, et actus
fecit quos facere solent obsessi a Daemone, et spumam ex ore sanguinemque e
naribus emittebat, semper fremendo et clamando [e ripeté queste parole
cinque volte, e fece quegli atti che sono soliti fare gli ossessi dal demonio,
emettendo bava dalla bocca e sangue dal naso, sempre tremando ed esclamando]:
“Non mi abbandonate, ajuto, ajuto, non mi abbandonate”.
Tunc jussum fuit afferri aquam
benedictam, et vocari aliquem sacerdotem, quae cum allata fuisset, ea fuit
aspersus: cum postea supervenisset sacerdos, eique dicta fuissent omnia
suprascripta, sacerdos, benedicto loco et in specie dicta fenestra ubi dicebat
dictus Baruellus extare illum praesbiterum cum ense nudo prae rnanibus et
minantem, variis exorcismis tamen usus fuit, et auctoritate sibi uti sacerdoti
a Deo tributa, omnia pacta cum Daemone innita, irrita et nulla declarasset,
immo ea irritasseti et annullasset, interim vero dictus Baruellus stridens
dixit [Allora venne ordinato di portare dell'acqua benedetta e di
chiamare qualche sacerdote; come arrivò l'acqua, ne fu asperso.
Sopraggiunse un sacerdote al quale vennero riferite le cose suddette e il
sacerdote, dopo aver benedetto il luogo e in special modo la finestra dove il
Baruello diceva essere il prete con la spada in mano e minaccioso, fece vari
esorcismi e, con l’autorità concessagli da Dio quale sacerdote,
dichiarò annullato ogni patto col Diavolo, anzi lo annullò e lo rese
vano; frattanto il detto Baruello urlando disse]: “Scongiurate quello Gola
Gibla”, contorquendo corpus more obsessorum, et tandem finitis exorcismis
sacerdos recessit [contorcendo il corpo al modo degli ossessi e infine,
terminati gli esorcismi, il sacerdote se ne andò].
Excitatus pluries ad dicendum, tamen
in haec verba prorupit [Più volte invitato a parlare, disse
infine con foga]: “Signore, quel prete era un Francese, il quale mi prese per
una mano, e levando una bacchettina nera, lunga circa un palmo che teneva sotto
la veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano a un libro lungo in foglio,
come di carta piccola da scrivere, ma era grossa tre dita, e l'aperse, ed io
vidi sopra i fogli dei circoli e lettere attorno, e mi disse che era la Clavicola
di Salomone, e disse che dovessi dire, come disse queste parole: "Gola
Gibla"; e poi disse altre parole ebraiche, aggiungendo che non dovessi
uscir fuori del cerchio perché mi sarebbe succeduto male, e in quel punto
comparve nello stesso circolo uno vestito da Pantalone, allora detto prete,
ecc.”. Cade la penna dalle mani, e non si può continuare a trascrivere
un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que' tempi. Il risultato
di un lunghissimo cicalìo di questo disgraziato, che sperava la vita e
l'impunità con un romanzo di accuse, fu di far credere autore il
cavaliere D. Giovanni di Padilla delle unzioni venefiche, sparse coll'opera di
certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccarìa, Licchiò, Saracco, Fusaro,
un barbirolo di porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno Bonetti, Baruello,
Girolamo Foresaro, Trentino, Vedano e simili infelici della più bassa
plebe.
Quanto poi alle vociferazioni pubbliche, alcune
attribuivano queste unzioni ai Tedeschi, altre ai Francesi che tentavano di
distruggere l'Italia, altre agli Eretici e particolarmente Ginevrini, altre al
duca di Savoja, altre, non si sa poi ben come, ad alcuni gentiluomini Milanesi,
fatti prigionieri dal papa e rnandati in Milano; altre finalmente al conte
Carlo Rasini, a D. Carlo Bossi, più che ad ogni altro si attribuirono al
cavaliere di Padilla. Si diceva che per ogni quartiere della città vi
fossero due barbieri destinati a fabbricare gli unti, e che più di cento
cinquanta persone fossero adoperate a spargere l'unzione. Che varj banchieri
pagassero largamente questi emissarj, e fra questi Giambattista Sanguinetti,
Gerolamo Turcone e Benedetto Lucino, e che questi sborsassero qualunque somma,
senza ritirarne quitanza, a qualunque uomo si presentasse loro in nome del
cavaliere Padilla. Sopra simili assurdità, sebbene esaminati minutamente
i libri de' negozianti suddetti non si trovasse veruna annotazione nemmeno
equivoca, si passò a crudeli torture contro di essi. Il cavaliere
Padilla si trovò che nel tempo, in cui si diceva che in Milano avesse formato
e diretto questo attentato, egli era a Mortara e altre terre del Piemonte, ove
combatteva alla testa della sua compagnia in difesa di questo stato. Merita di
essere trascritta la risposta ch'ei fece in processo quando fu costituito reo
di queste unzioni. Così egli dice: “Io mi maraviglio molto che il senato
sia venuto a risoluzione così grande, vedendosi e trovandosi che questa
è una mera impostura e falsità fatta non solo a me, ma alla
giustizia istessa”. Ed aveva ben ragione di dirlo, perché dalla narrativa
istessa del reato appariva la grossolana impostura. “Come”, proseguì
esso cavaliere, “un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in
servizio di S. M., in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto lo
stesso, avevo io da fare, né pensare cosa che a loro e a me portasse tanta nota
di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la più
grande impostura che ad uomo sia mai stata fatta.” Questa risposta, detta nel
calore di un sentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in
tutto l'infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un
tal linguaggio, e il cavalier Padilla era sicuramente assai al dissopra del
livello de' suoi giudici e del suo tempo.
La serie del delitto contestato al cavaliere di
Padilla Si ricava dalla narrazione medesima del reato, e vi si scorge il sugo
de’ romanzi forzatamente creati colla tortura: io ne compilerò
l'estratto semplicemente, giacché troppo riuscirebbe di tedio l'intiera
narrazione, e porrò in margine le osservazioni opportune. Risultò
adunque la diceria seguente:
Circa al principio del mese di maggio il
cavaliere di Padilla vicino alla chiesa di S. Lorenzo parlò al barbiere
Giacomo Mora, ordinandogli che facesse un unto da applicare ai muri e porte
onde risultasse la morte delle persone, assicurandolo che danari non ne
sarebbero mancati, e non temesse, perché “avrebbe trovato molti compagni”. Indi
altra volta, pochi giorni dopo, gli diede delle dobble perché ungesse, e vi era
presente un gentiluomo, Crivelli; e il trattato fu fatto da certo D. Pietro di
Saragozza; indi il barbiere allora fu avvisato che i banchieri Giulio
Sanguinetti e Gerolamo Turcone avevano ordine di somministrare tutto il danaro
occorrente a chiunque andava da essi in nome di D. Giovanni di Padilla. Carlo Vedano
poi maestro di scherma fu il mezzano per indurre Gian-Stefano Baruello a fare
di queste unzioni, e condusse il Baruello sulla piazza del castello, ove
ritrovavansi Pietro Francesco Fontana, Michele Tamburino, un prete e due altri
vestiti alla francese, ove dal cavaliere furongli dati dei danari, perché il
Baruello ungesse e facesse parimenti ungere le forbici delle donne da Gerolamo
Foresaro, e gli consegnò un vaso di vetro quadrato dicendogli: “Questo
è un vaso d'unguento di quello che si fabbrica in Milano, ed ho a
centinaia de' gentiluomini che mi fanno questi servizj, e questo vaso non
è perfetto”; quindi gli ordinò di prendere de' rospi, delle
lucertole ecc., e farle bollire nel vino bianco e mischiare tutto insieme. Poi
temendo il Baruello di proprio danno col toccarlo, gli fece vedere il cavaliere
a toccarlo senza timore. Poi viene il circolo fatto dal prete e il Pantalone,
del quale ho già data notizia. Indi si vuole che il cavaliere dicesse al
Baruello di non dubitare, che se la cosa andava a dovere, esso cavaliere
sarebbe stato “padrone dl Milano, e voi vi voglio fare dei primi”; soggiungendo
di nuovo “che se per sorte fosse pervenuto nelle mani della giustizia, non
avrebbe in alcun tempo confessato cosa alcuna”. Tale è la serie del fatto
deposto contro il figlio del castellano, la quale sebbene smentita da tutte le
altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello che
alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità, servì d
base a un vergognosissimo reato.
Soffoco violentemente la natura, e superato il
ribrezzo che producono tante atrocità, io trascriverò per intiero
l'esame fatto al povero maestro di scherma Carlo Vedano. La scena è
crudelissima, la mia mano la strascrive a stento; ma se il raccapriccio che io
ne provo gioverà a risparmiare anche una sola vittima, se una sola
tortura di meno si darà in grazia dell'orrore che pongo sotto gli occhi,
sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di
ottenerlo mi ricompensa. Ecco l'esame.
1630 die 18
septembris etc.
Eductus e carceribus Carolus Vedanus [18
settembre 1630, ecc. Tradotto dalle carceri Carlo Vedano].
Int.: “Che dica
se si è risolto a dir meglio la verità di quello ha sin qui fatto
circa le cose che è stato interrogato, e che gli sono state mantenute in
faccia da Gio Stefano Baruello”.
Resp.:
“Illustrissimo signore, non so niente”.
Ei dicto: “Che dica
la causa perché interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco, che fa
l'osteria là a S. Sisto di compagnia del Baruello, non contento di dire
una volta di no, rispose: "Signor no, signor no, signor no"”.
Resp.: “Perché
non è la verità”.
Ei dicto: “Che per
negare una cosa basta dire una volta di no, e che quel replicare signor no,
signor no, signor no, mostra il calore con che lo nega, e che per maggior causa
lo neghi che perché non sia vero”.
Resp.: “Perché non
vi sono stato”.
Ei dicto: “Che
occasione aveva di scaldarsi cosi?”.
Resp.: “Perché non
vi sono stato, illustrissimo signore”.
Ei denuo dicto: “Perché
interrogato, se aveva mai mangiato col detto Baruello all'osteria sopra la
piazza del castello, rispose: "Signor no, mai, mai, mai"”
Risp. “Ma,
signore, vi ho mangiato una volta, ma non solo, ma in compagnia di Francesco
barbiere figliuolo d'Alfonso, e quando ho risposto: "Signor no, mai, mai,
mai' mi sono inteso d'avervi mangiato col Baruello solamente”.
Ei dicto: “Prima, che
esso non era interrogato se avesse mangiato là col Baruello solo o in
compagnia d'altri, ma semplicemente se aveva mangiato con lui alle dette
osterie, e però se gli dice che in questo si mostra bugiardo, poiché
allora ha negato e adesso confessa; di più se gli dice che si ricerca di
saper da lui, perché causa con tanta esagerazione negò di avervi
mangiato; né gli bastò di dire di no, che anco vi aggiunse quelle parole
"mai, mai, mai"”.
Resp.: “Ma,
signore, perché io non vi ho mai mangiato, altro che quella volta, ed intesi
l'interrogazione di V. S. se aveva mangiato con lui solo; e quanto al secondo,
dico che mi sfogava così perché non vi ho mai mangiato”.
Ei denuo dicto: “Perché,
interrogato se mai ha trattato col Baruello di far servizio al signor D.
Giovanni, rispose di no, ed essendogli replicato che ciò gli sarebbe
stato mantenuto in faccia, aveva risposto che questo non si sarebbe trovato
mai, ed essendogli di nuovo replicato che di già si era trovato, rispose
con parole interrotte: "Sarà, uh! uh! uh!"”.
Resp.: “Perché
non ho mai parlato con lui”
Int.: “Chi
è questo lui?”.
Resp.: “È
il figliuolo del signor castellano”.
Ei dicto: “Perché
questa mattina, interrogato se si è risoluto a dire la verità
meglio di quel che fece jeri sera, ha prorotto in queste parole: "Perché
io ne sono innocente di quella cosa che mi imputano", le quali parole,
oltreché sono fuori di proposito, non essendo mai stato interrogato sopra
imputazione che gli sia stata data, mostrano ancora che esso sappia d'essere
imputato di qualche cosa; e pure interrogato che imputazione sia questa, ha
detto di non saperlo: onde se gli dice, che oltreché si vuol sapere da lui
perché ha detto quella risposta fuori di proposito, si vuol anche sapere che
imputazione è quella, che gli vien data”.
Resp.: “Io ho
detto così perché non ho fallato”.
Ei dicto denuo: “Perché,
interrogato se quando passò sopra la piazza del castello col detto
Baruello videro alcuno, ha risposto prima di no, poi ha soggiunto: "Ma,
signore, vi erano della gente, che andavano innanzi e indietro"; e
dettogli perché dunque aveva detto "signor no", ha risposto: "Io
m'era inteso se aveva veduto dei nostri compagni": soggiungendo: "No,
signore, siano per la Vergine santissima, che non ho fallato"; le quali
parole ultime, come sono state fuori di proposito, non essendo egli finora
stato interrogato di alcun delitto specificatamente, così mettono in
necessità il giudice di voler sapere perché le ha dette, e però
s'interroga ora perché dica, perché ha detto quelle parole fuori di proposito
con tanta esagerazione”.
Resp.: “Perché
non ho fallato”.
Ei dicto: “Che sopra
tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più
opportuna risposta, altrimenti si verrà ai tormenti per averla”.
Resp.: “Torno a
dire che non ho fallato, ed ho tanta fede nella Vergine santissima che mi
ajuterà, perché non ho fallato, non ho fallato”
Tunc jussum fuit duci ad locum
Eculei, et ibi torturae sujici, adhibita etiam ligatura canubis ad effectum ut
opportune respondeat interrogationibus sibi factis, ut supra, et non aliter
etc., et semper sine praejudicio confessi et convicti ac aliorum jurium etc.;
prout fuit ductus, et ei reiterato juramento veritatis dicendae, prout juravit
etc. fuit denuo [Allora fu comandato di condurlo al luogo del cavalletto ed ivi
sottoporlo a tortura, usando anche la legatura con la canape affinché
rispondesse in modo opportuno alle interrogazioni fattegli, come sopra e non
altrimenti, ecc. e sempre senza pregiudizio del diritto del reo confesso e
convinto degli altri diritti, ecc.; fu pertanto ivi condotto e, ripetutogli il
giuramento di dire la verità, egli giurò ecc. e fu quindi]:
Int.: “A
risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni già fattegli,
come sopra, altrimenti si farà legare e tormentare”.
Resp.: “Perché non
ho fallato, illustrissimo signore”.
Tunc semper sine praejudicio; ut
supra, ad effectum tantum, ut supra, et eo prius vestibus Curiae induto jussum
fuit ligari, prout fuit per brachium sinistrum ad funem applicatus, et cum
etiam ei fuisset aptata ligatura canubis ad brachium dexferum fuit denuo [Allora,
sempre senza pregiudizio, come sopra, agli effetti di quanto sopra, e dopo
avergli fatto indossare abiti talari, si comandò che fosse legato,
quindi venne sospeso ad una fune per il braccio sinistro, dopo che anche al
braccio destro fu adattata una legatura di canape. Indi fu nuovamente]:
Int.: “A
risolversi di rispondere a proposito alle interrogazioni dategli, come sopra,
che altrimenti si farà stringere”.
Resp.: “Non ho
fallato, sono cristiano, faccia V. S. illustrissima quello che vuole”.
Tunc semper sine praejudicio, ut
supra, jussum fuit stringi, et cum stringeretur, fuit denuo [Allora
sempre senza pregiudizio, come sopra, fu ordinato che si stringesse e, quando
fu stretto, fu nuovamente]:
Int.: “Di
risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni dategli”.
Resp.: “Ah Vergine
santissima, acclamando [gridando], non so niente”.
lterum institus ad dicendam
veritatem, ut supra [Di nuovo sollecitato a dire la verità, come sopra].
Resp. acclamando [rispose
gridando]: “Ah Vergine santissima di S. Celso, non so niente”.
Ei dicto: “Che dica
la verità, se no si farà stringere più forte: cioè
risponda a proposito”.
Resp.: “Ah,
signore, non ho fatto niente”.
Tunc jussum fuit fortuis stringi, et
dum stringeretur, fuit pariter [Fu ordinato allora di stringere
più forte, e mentre lo si stringeva, gli fu chiesto ancora]:
Int.: “A
risolversi a dir la verità a proposito”.
Resp. acclamando: “Ah,
signore illustrissimo, non so niente:”.
Institus ad opportune respondendum,
ut supra [Invitato a rispondere a tono, come sopra].
Resp.: “Son qui a
torto, non ho fallato, misericordia, Vergine santissima”.
Inter.: Iterum ad opportune
respondendum, ut supra [Di nuovo invitato a rispondere a tono, come
sopra] “che altrimenti si farà stringere più forte”.
Resp. acclamando: “Non lo so,
illustrissimo signore, non lo so, illustrissimo signore”
Tunc jussum fuit fortius stringi, et
dum stringeretur fuit denuo [Fu allora ordinato di stringere più
forte, e mentre lo si stringeva gli fu di nuovo].
Int. ad opportune respondendum, ut
supra [Intimato di rispondere a tono].
Resp. acclamando: “Ah Vergine
santissima, non so niente”;
Tunc postergatis manibus et ligatus,
fuit in Eculeo elevatus, deinde [Allora, postegli le mani dietro il
dorso, fu sollevato sul cavalletto].
Int.:“A risolversi
a rispondere opportunamente alle interrogazioni già dategli”.
Resp. acclamando: “Ah,
illustrissimo signore, non so niente”.
Int. ad opportune respondendam, ut
supra
Resp.: “Non so
niente, non so niente. Che martirj sono questi che si danno ad un cristiano!
Non so niente”
Et iterum institus, ut supra.
Resp.: “Non ho
fallato”.
Tunc ad omnem bonum finem jussum fuit
deponi et abradi, prout fuit depositus; et dum abraderetur fuit iterum [Allora, ad
ogni buon fine, fu ordinato che fosse messo a terra e che gli fosse rasato il
capo; fu quindi deposto e, mentre lo si radeva, fu di nuovo]:
Int. ad opportune respondendam, ut
supra
Resp.: “Non so
niente, non so niente”.
Et cum esset abrasus, fuit denuo in
Eculeo elevatus, deinde [E come fu rasato, lo fecero nuovamente salire
sul cavalletto, indi]:
Int.: “A
risolversi ormai a rispondere a proposito”.
Resp. acclamando:
“Lasciatemi giù, che dico la verità”.
Et dicto: “Che
cominci a dirla, che poi si farà lasciar giù”.
Resp. acclamando:
“Lasciatemi giù che la dico”.
Qua promissione attenta fuit in plano
depositus, deinde [Ottenuta la promessa, fu deposto a terra indi]:
Int.: “A dir questa verità
che ha promesso di dire”.
Resp.:
“Illustrissimo signore, fatemi slegare un pochettino, che dico la
verità”.
Ei dicto: “Che
cominci a dirla”.
Resp.: “Fu il
Baruello che mi venne a trovare in porta Ticinese, e mi domandò che
andassi con lui per certo formento che era stato rubato, e disse che avressimo
chiappato un villano, che aveva lui una cosa da dargli per farlo dormire, ma
non vi andassimo”. Postea dixit [indi disse]: “No signore, V S. mi
faccia slegare un poco, che dico che V S. avrà gusto”
Ei dicto: “Che
cominci a dire, che poi si farà slegare”.
Resp.: “Ah signore
fatemi slegare che sicuramente vi darò gusto, vi darò gusto”.
Qua promissione attenta jussum fuit
dissolvi, et dissolutus, fuit postea:
Int.: “A dire la verità
che ha promesso di dire”.
Resp.:
“Illustrissimo signore, non so che dire, non so che dire; non si troverà
mai che Carlo Vedano abbia fatta veruna infamità”
Institus: “A dire la
verità che ha promesso di dire, che altrimenti si farà di nuovo
legare e tormentare, senza remissione alcuna”.
Resp.: “Se io non
ho fatto niente...”.
Iterum institus,
ut supra.
Resp.: “Signor
senatore, vi sono stato a casa di messer Gerolamo a mangiare col Baruello, ma
non mi ricordo della sera precisa”.
Et cum ulterius vellet progredi
jussum fuit denuo ligari per brachium sinistrum ad funem, et per brachium
dextrum canubi et cum ita esset ligatus, antequam stringeretur [E, poiché
non voleva dire altro, fu comandato di legarlo per il braccio sinistro alla
fune e per il braccio destro al canape e, così legato, prima che si
stringesse].
Int.: “Ad opportune respondendum, ut
supra”.
Resp.: “Fermatevi;
V. S. aspetti, signor senatore, che voglio dire ogni cosa”.
Ei dicto: “Che dunque
dica”.
Resp.: “Se non so
che dire”.
Tunc jussum fuit stringi, et dum
stringeretur acclamavit: “Aspettate che la voglio dire la verità”.
Resp.: “Che
cominci a dirla”.
Resp.: “Ah
signore! se sapessi che cosa dire, direi”: et acclamavit: “ah, signor
senatore!”.
Ei dicto: “Che si
vuole che dica la verità”.
Resp.: “Ah,
signore, se sapessi che cosa dire la direi”.
Et etiam
institus ad dicendam veritatem, ut supra
Resp. acclamando: “Ah
signore, signore, non so niente”.
Et jussum fuit
fortius stringi, et dum stringeretur, fuit denuo:
Institus: “A
risolversi a dire la verità promessa, e di rispondere a proposito”.
Resp. acclamando: “Non so
niente, signore, signore, non so niente”.
Et cum per satis temporis spatium
stetisset in tormentis, multunque pati videretur, nec aliud ab eo sperari
posset, jussum fuit dissolvi et reconsignari, prout ita factum est [E, poiché
era stato alla tortura per un tempo sufficiente ed era evidente che soffriva
molto e che d'altra parte non vi era altro da sperare da lui, fu comandato di
scioglierlo e di ricondurlo in prigione; ciò che fu fatto]
Se volessi porre esattamente sott'occhio al
lettore la scena degli orrori metodicamente praticati in quella occasione,
dovrei trascrivere tutto il processo, dovrei inserire le torture fatte soffrire
ai banchieri, ai loro scritturali ed altre civili persone; torture
crudelissime, date per obbligarli a confessare, che dal loro banco si dava
qualunque somma di danaro a chiunque anche sconosciuto, purché nominasse D.
Giovanni di Padilla; e danaro, che si sborsava senza averne alcuna quitanza e
senza scriversi partita ne' loro libri: e tutte queste assurde proposizioni
emanate dal forzato romanzo, che la insistenza degli spasimi fece concertare
fra i miseri Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che di
sopra ne ho dato, e troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi
oggetti. Dalla scena orribile che ho descritta si vede l'atroce fanatismo del
giudice di circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri
criminali, e portarlo alle estreme angosce, d'onde l'infelice si sarebbe
sottratto con mille accuse contro se medesimo, se per disgrazia gli si fosse
presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si
prodigò la tortura a molti innocenti: in somma tutto fu una scena
d'orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il
barbiere Gian-Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la colonna
infame), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo, che si chiamava
il Foresè, Francesco Manzone, Caterina Rozzana e moltissimi altri;
questi condotti su di un carro, tenagliati in piú parti, ebbero, strada
facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe,
s'intralciarono vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei
ore, al termine delle quali furono perfine dal carnefice scannati, indi
bruciati e le ceneri gettate nel fiume. L'iscrizione posta al luogo della casa
distrutta del Mora, così dice:
HIC . UBI . HAEC . AREA . PATENS . EST
SURGEBAT . OLIM . TONSTRINA
JO . JACOBI .
MORAE
QUI . FACTA . CUM . GULIELMO. PLATEA
PUB . SANIT . COMMISSARIO
ET . CUM . ALIIS . CONJURATIONE
DUM . PESTIS . ATROX . SAEVIRET
LAETIFERIS . UNGUENTIS . HUC . ET . lLLUC .
ASPERSIS
PLURES . AD . DIRAM . MORTEM . COMPULIT
HOS . IGITUR . AMBOS . HOSTES . PATRIAE .
JUDICATOS
EXCELSO . IN . PLAUSTRO
CANDENTI . PRIUS . VELLIICATOS .
FORCIPE
ET . DEXTERA . MULCTATOS . MANU
ROTA . INFRINGI
ROTAQUE . INTEXTOS . POST . HORAS . SEX . JUGULARI
COMBURI . DEINDE
AC . NE . QUID . TAM . SCELESTORUM .
HOMINUM
RELIQUI . SIT
PUBLICATIS . BONIS
CINERES . IN . FLUMEN . PROJICI
SENATUS. JUSSIT
CUJUS . REI . MEMORIA . AETERNA . UT . SIT
HANC . DOMUM . SCELERIS . OFFICINAM
SOLO . AEQUARI
AC . NUNQUAM . IMPOSTERUM . REFICI
ET . ERIGI . COLUMNAM
QUAE . VOCETUR . INFAMIS
PROCUL . HINC . PROCUL . ERGO
BONI CIVES
NE . VOS . INFELIX . INFAME .
SOLUM
COMACULET
MDCXXX . KAL . AUGUSTI
[Qui dov'è questa piazza / sorgeva un
tempo la Barbieria / di Gian Giacomo Mora / il quale congiurato con Guglielmo
Piazza / pubblico commissario di sanità e con altri / mentre la peste
infieriva più atroce / sparsi qua e là mortiferi unguenti / molti
trasse a cruda morte / questi due adunque giudicati / nemici della patria / il
senato comandò / che sovra alto carro / martoriati prima con rovente
tanaglia / e tronca la mano destra / si frangessero colla ruota / e alla ruota
intrecciati / dopo sei ore scannati / poscia abbruciati / e perché nulla resti
d'uomini così scellerati / confiscati gli averi / si gettassero le
ceneri nel fiume / a memoria perpetua di tale reato / questa casa officina del
delitto / il senato medesimo ordinò spianare / e giammai rialzarsi in
futuro / ed erigere una colonna / che si appelli infame / lungi adunque lungi
da qui / buoni cittadini / che voi l'infelice infame suolo / non contamini / il
primo d'agosto MDCXXX.]
Come poi subissero la pena, il canonico Giuseppe
Ripamonti, che era vivo in que' tempi, ce lo dice: Confessique isti
flagitium, et tormentis omnibus excruciati perseveravere confitentes donec in
patibulum agerentur. Hi demum juxta laqueum inter carnificis manus de sua
innocentia ad populum ita dixere: mori se libenter ob scelera alia, quae
admisissent; caeterum unguendi artem se factitavisse nunquam, nulla sibi
veneficia aut incantamenta nota fuisse. Ea sive insania mortalium, sive perversitas, et livor astusque daemonis
erat. Sic indicia rerum, et judicum animi magis magisque confundebantur. (Dopo di
avere ne' tormenti confessato ogni delitto, di cui erano ricercati,
protestavano all'atto di subire la morte di morir rassegnati per espiare i loro
peccati avanti Dio, ma di non aver mai saputo l'arte di ungere, né fabbricar
veleni, né sortilegi.) Così dice il Ripamonti, che pure sostiene
l'opinione comune, cioè che fossero colpevoli.
Le crudeltà usate da più di un
giudice in quel disgraziato tempo giunsero a segno, che più di uno fu
tormentato tant'oltre da morire fra le torture: il Ripamonti lo dice, e invece
d'incolpare la ferocia de' giudici, va al suo solito a trovame la meno
ragionevole cagione, cioè che il Demonio li strangolasse. Constitit
flagitii reos in tormentis a Daemone fuisse strangulatos [Constatava che
alcuni reii del misfatto, sottoposti alla tortura, furono strozzati dal
demonio].
Il cardinale Federico Borromeo, nostro illustre
arcivescovo in que' tempi, dubitava della verità del delitto, e in una
di lui scrittura inserita nel Ripamonti cosi disse: Non potuisse privatis sumptibus
haec potenta patrari. Regum, principumque nullus opes authoritatemque
comodavit. Ne caput quidem, authorve quispiam unctorum istorum, furiarumque
reperitur; et haud parva conjectura vanitatis est, quod sua sponte evanuit
scelus, duraturum haud dubio usque in extrema, si vi aliqua consilioque certo
niteretur. Media inter haec sententia, mediumque inter ambages dubiae historiae
iter. (Non si sarebbe co' danari d’un semplice privato potuto fare una
così portentosa cospirazione. Nessun re o principe ne somministrò
i mezzi, o vi diè protezione. Non apparve nemmeno chi fosse l'autore o
il capo di tali unzioni e furiosi disegni; e non è piccola congettura
che fosse un sogno il vedere una tale cospirazione svanita da sé, mentre avrebbe
dovuto durare sino al totale esterminio, se eravi una forza, un disegno, un
progetto, che dirigessero una tale sciagura. Fra tali dubbietà e
incertezze deve la storia farsi la strada.) Né quel solo illuminato cardinale
vi fu allora che ne dubitasse, che anzi convien dire che la dubitazione fosse
di varj, poiché tanto il Ripamonti che il Somaglia e altri scrittori di que'
tempi si estendono a provare la reità dei condannati; cosa che non
avrebbero certamente fatta, se non fosse stato bisogno di combattere
un'opinione contraria. Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito scrisse la
storia di quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione
sostenne l'opinione degli unti malefici, dolendosi egli del difficile passo in
cui si trova di opinare se oltre gl'innocenti, i quali furono di tal delitto
incolpati, realmente vi fossero veri spargitori dell’appestata unzione, mostri
di natura, obbrobrj della umanità e nemici pubblici; né tanto gli sembra
scabroso il passo per la dubbiezza del fatto, quanto perché non trovavasi posto
in quella libertà in cui uno scrittore possa spiegare i sentimenti
dell'animo suo, “poiché se io dirò (così il Ripamonti) che
unzioni malefiche non vi furono, tosto si griderà ch'io sia un empio e
manchi di rispetto ai tribunali. L'orgoglio de' nobili e la credulità
della plebe hanno già adottata questa opinione, e la difendono come
inviolabile, onde cosa inutile e ingrata sarebbe se io volessi oppormivi”.
Eccone le parole: Caeterum his ita expositis anceps atque difficilis mihi
locus oritur exponendi, praeter innoxio istos unctores, et capita honesta quae
nihil cogitavere mali et periculum adiere ingens, putemne veros etiam fuisse
unctores, monstra naturae, propudia generis humani, vitae communis inimicos,
quales etiam isti (cioè alcuno de' quali ha raccontato i casi)
nimium injuriosa suspicione destinabantur. Neque eo tantum difficilis ancepsve
locus est, quia res etiam ipsa dubia adhuc et incerta, sed quia ne illud quidem
liberum solutumque mihi relinquitur quod a scriptore maxime exigitur, ut animi
sui sensum de unaquaque re depromat atque explicet. Nam si dicere ego velim
unctores fuisse nullos frustra caelestes iras et consilia divina trahi ad
fraudes artesque hominum, exclamabunt illico multi historiam esse impiam, meque
ipsum impietatis teneri, judiciorumque violatorem. Adeo sedet contraria opinio
animis; pariterque et credula suo more plebs, et superba nobilitas cursu in eam
vadunt amplexi rumoris hanc auram, quomodo qui aras et focos et sacra tueretur.
Adversus hosce capessere pugnam ingratum mihi nunc, inutileque est [Ora mi
si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se oltre questi
innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di male, e colsero
nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri untori, mostri
di natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune, siccome con
troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento
arduo perché di dubbioso in se stesso; ma altresì perché non mi è
conceduta la libertà sì necessaria allo storico di emettere e
sviluppare la propria opinione sopra ciascun fatto. Ov'io volessi dire che non
vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle arti degli
uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti gastighi, molt griderebbero
tosto empia la mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi.
L'opposta opinione è ora invalsa negli animi: la plebe credula,
com'è suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente,
sono tenaci in dar fede a questo vago rumore come se avessero a difendere la
religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il combattere
siffatta credenza]. Da ciò conoscesi qual fosse la opinione del troppo
timido Ripamonti, il quale dice: Quaestio multiplici torsit ambage
dubitantes fuerintne venena haec, et aliqua ungendi ars, an vanus absque re
ulla timor, qualia saepe in extremis malis deliramenta animos occupare
consueverunt [Gli animi ondeggiavano in molte dubbiezze circa la questione
se vi furono realmente unti ed un'arte di spargerli, ovvero se fu uno di quei
vani timori senza fondamento che spesso fan delirare gli uomini caduti
nell'estremo de' mali]; perloché evidentemente si conosce, che malgrado
l'infelicità de' tempi vi era nella città nostra un ceto d'uomini
che non si lasciarono strascinare dal furore del volgo, e sentirono
l'assurdità del supposto delitto e la falsità dell'opinione.
Riepilogando tutto lo sgraziato amrnasso delle
cose sin qui riferite, ogni uomo ragionevole conoscerà, che fu immenso
il disastro che rovinò in quell'epoca infelicissima i nosti maggiori, e
che quest'ammasso crudele di miserie nacque tutto dall’ignoranza e dalla
sicurezza ne' loro errori, che formò il carattere de' nostri avi. Somma
spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza;
somma stolidità nel ricusare la credenza ai fatti, nel ricusare l'esame
di un avvenimento cosi interessante; somma superstizione nell'esigere dal cielo
un miracolo, acciocché non si accrescesse il male contagioso coll'affollare
unitamente il popolo; somma crudeltà e ignoranza nel distruggere
gl'innocenti cittadini, lacerarli e tormentarli con infernali dolori per
espiare un delitto sognato. Insomma la proscritta verità in nessun conto
poté manifestarsi; i latrati della superstizione e l'insolente ignoranza la
costrinsero a rimanersene celata. Per tutto il passato secolo si risentì
in questo infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le
campagne mancarono di agricoltori; le arti e i mestieri si annientarono; e
fors'anche al giorno d'oggi abbiamo de' terreni incolti, che prima di
quell'esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del popolo
nella desolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche ricchezze, e non si
citerà una casa fabbricata per cinquant'anni dopo la pestilenza, che non
sia meschina. I nobili s'inselvatichirono; ciascuno vivendo in una
società molto angusta di parenti, si risguardò come isolato nella
sua patria; e non si rípigliarono i costumi sociali, che erano tanto splendidi
e giocondi prima di tale sciagura, se non appena al principio del secolo
presente. Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!
Non può mettersi in dubbio, che nell'epoca
delle supposte unzioni pestilenziali la tortura non sia stata veramente
atrocissima Ma si potrebbe anche dire che i tempi sono mutati, e che fu allora
un eccesso cagionato dalla estremità de' mali pubblici da non servire di
esempio. Io però credo che al giorno d'oggi la pratica criminale sia
diretta da quei medesimi libri che si consultavano nel 1630, e appoggiato su
questi parmi facile cosa il conoscere, che veramente la tortura è un
infernale supplizio.
Col nome di tortura non intendo una pena data a
un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co'
tormenti. Quaestio est veritatis indagatio per tormentum, seu per torturam;
et potest tortura appellari quaestio a quaerendo, quod judex per tormenta
inquirit veritatem [L'interrogatorio è l'indagine della
verità per mezzo dei tormenti, ovvero della tortura; e la tortura si
può chiamare interrogatorio, essendo questo un'inchiesta, poiché il
giudice inquisisce la verità per mezzo dei tormenti].
I fautori della tortura cercano calmare il
ribrezzo, che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento.
Poco è il male, dicono essi, che ne soffre il torturato; si tratta di un
dolore passaggiero, per cui non accade mai l'opera di medico o cerusico; sono
esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primo argomento, col
quale si cerca di soffocare il raccapriccio, che alla umanità sveglia la
idea della tortura. Pure dai fatti accaduti nel 1630 viene delineato a
caratteri di sangue l'orrore di questi tormenti; le leggi, le pratiche sotto le
quali viviamo sono le stesse, siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere
le stesse crudeltà, se non che ritornassero de' giudici simili a quelli
d'allora. Si adopera attualmente per tortura la lussazione dell'osso
dell'omero; si adopera talvolta il fuoco a' piedi, crudeli operazioni per se
stesse, ma nessuna legge limita la crudeltà a questi due modi; i dottori
che sono i maestri di questi spasimi, i dottori che si consultano per regola e
norma de' giudizj criminali, non prescrivono certamente molta moderazione. Il
Bossi Milanese, che tratta della pratica criminale di Milano, al tit. De
Torturis, n. 2 dice: “Non chiamerò tortura ogni dolore di corpo: la
tortura debb'essere più grave, che se si tagliassero ambe le mani; e
soffrir la tortura, egli è patire le estreme angosce dello spasimo... E
basta osservare i preparativi e i modi di tormentare per conoscerlo: niente
è mite, anzi tutto è crudelissimo; e perciò spesse volte
si dà la tortura col fuoco, e quel che dice l'uomo tormentato col fuoco
si reputa la verità istessa”. (Nec quodlibet tormentum cum dolore corporis
dicitur quaestio: hinc est quod gravior est tortura, quam utriusque manus
abscissio; et pati torturam est supremas angustias sustinere, ut vidimus et
audivimus, et de his tormentis loquitur totus titulas de quaestionibus;
sic etiam loquuntur doctores quod maxime patet dum congerunt instrumenta et
modos torquendi; quia nihil horum est leve, immo crudelissimun, et ideo etiam
igne saepe rei torquentur: igne defatigati, quae dicunt ipsa videtur esse
veritas.) Dopo ciò non saprei mai come possa dirsi, che la tortura
per sé sia un male da poco. Non nego che un giudice umano potrà
temperare la ferocia di questa pratica, ma la legge non è certamente
mite, né i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual crudeltà il
Zigler descrive questa inumanissima pratica “Oltre lo stiramento, con candele
accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo; ovvero
alle estremità delle dita si conficcano sotto l'unghie de' pezzetti di
legno resinoso, indi si appiccica il fuoco a que' pezzetti; ovvero si pongono a
cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro cui si gettano carboni
ardenti, e coll'infuocarsi del metallo acerbamente e con incredibili dolori si
cruciano.” Tali sono i precetti che dà questo dottore, di cui ecco le
parole originali: Praeter expansionem, carnifices cutem inquisiti cadentibus
luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt; vel partes digitorum
extimas immissis infra ungues piceis cuniculis, iisque postmodum accensis per
adustionem inquisitos excruciant; aut etiam tauro vel asino ex metallis
formato, ut incalescenti paullatim per ignes injectos, tandemque per auctum
calorem nimium doloribus incredibilibus insidentes urgeant, delinquentes
imponunt. Farinaccio istesso parlando de’ suoi tempi asserisce che i
giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove
specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem,
quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species. Tale
è la natura dell'uomo che superato il ribrezzo de' mali altrui e
soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce e giubila della
propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui; di
che ne serve d'esempio anche il furore de' Romani per i gladiatori. Veggasi lo
stesso Farinaccio, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi ed
astenersi dal tormentare il reo colle sue proprie mani; e cita chi vide un
pretore, che prendeva il carcerato pe' capelli e gli orecchi, e fortemente lo
faceva cozzare contro di una colonna, dicendogli: “ribaldo, confessa”; cosi
egli: abstineat etiam judex se ab eo quod aliqui judices facere solent,
videlicet a torquendo reos cum propriis manibus... Refert Paris de Puteo se
vidisse quemdam potestatem, qui capiebat reum per capillos, vel per aures,
dando caput ipsius fortiter ad columnam, dicendo: confitearis et dicas
veritatem, ribalde [si astenga il giudice da ciò che alcuni giudici
sogliono fare, dal torturare cioè gli imputati con le proprie mani...
Paride del Pozzo riferisce d'aver egli stesso visto un giudice che afferrava il
reo per i capelli, per le orecchie e, battendogli la testa contro una colonna,
diceva: confessa, ribaldo, di’ la verità]. Il celebre Bartolo di se
stesso ci significa, come gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo
colla tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un
simile accidente. Hoc incidit mihi, quia dum viderem juvenem robustum, torsi
illum et statim fere mortuus est; e con tale indifferenza racconta il fatto
atroce quel freddissimo dottore. Dopo ciò convien pure accordare, e
sull'esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de' maestri della
tortura, ch'ella è crudele e crudelissima e che se a1 giorno d'oggi la
sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per
se medesima atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità
e questi orrori legalmente autorizzati può qualunque uomo nuovamente
soffrirli, sintanto che o non sia moderata con nuove leggi la pratica, ovvero
non sia abolita. Né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello
spasimo che si fa patire, spasimo che talvolta ha condotto a morire nel
tormento più d'un reo; ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle
circostanze di amministrarla. Il citato Bossi asserisce, che se un reo confessa
invitato dal giudice con promessa che confessandosi reo non gli accaderà
male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene. Il
Tabor dice che anche a una donna che allatti si può benissimo dar la
tortura, purché non accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiam mulieri
lactanti torturam aliquando fuisse indictam, cum ea moderatione ne infanti in
alimentis aliquid decedat, quam declarationem facile admitto. Per dare poi
la tortura a un testimonio, basta che egli sia di estrazione vile perché sia
autorizzato il tormento: Vilitas personae est justa causa torquendi testem,
e il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizj contro un uomo, e si
può metterlo alla tortura; e in materia di tortura e di indizj, non
potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del
giudice: Sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc, ut torqueri
possit... In hoc autem quae dicantur indicia ad torturam sufficientia scire
debes, quod in materia judiciorum et torturae propter varietatem negotiorum et
personarum, non potest dari certa doctrina, sed remittitur arbitrio judicis.
La sola fama basta perché, se il giudice lo vuole, sia un uomo posto alla
tortura. Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre
Claro Milanese, che è il sommo maestro di questa pratica. “Un giudice
può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire
nella sua stanza secretamente, ivi baciarla. accarezzarla, fingere di amarla,
prometterle la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e con
tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi di un omicidio, e
la condusse a perdere la testa” Acciocché non si sospetti che quest'orrore
contro la religione, la virtú e tutti i più sacri principj dell'uomo sia
esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit, quod judex potest mulierem
ad se adduci facere secreto in camera, et eidem dicere quod vult eam habere in
suam, et fingere velle illam deosculari et ei pollicere liberationem; et quod
ita factum fuit a quodam regente qui quamdam mulierem blanditiis illis induxit
ad consfitendum homicidium, quae postea decapitata fuit.
Non credo di essere acceso da molto entusiasmo,
se dico essere la tortura per se medesima una crudelissima cosa, essere
orribile la facilità, colla quale può farsi soffrire ad arbitrio
di un solo giudice nella solitudine del carcere, ed essere veramente degna
della ferocia de' tempi delle passate tenebre la insidiosa morale, alla quale
si ammaestrano i giudici da taluno de' più classici autori. Si tratta
adunque di una questione seriissima e degna di tutta l'attenzione, e non regge
quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo o l'importanza.
Se la inquisizione della verità fra i
tormenti è per se medesima feroce, se ella naturalmente funesta la
immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non pervertito spontaneamente
inclinerebbe a proscriverla e detestarla; nondimeno un illuminato cittadino
preme e soffoca questo isolato raccapriccio e contrapponendo ai mali, dai quali
viene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne risulta dalla scoperta
della verità nei delitti, trova bilanciato a larga mano il male di uno
colla tranquillità di mille. Questo debb'essere il sentimento di ciascuno,
che, nel distribuire i sensi di umanità, non faccia l'ingiusto riparto
di darla tutta per compassionare i cittadini sospetti, e niente per il maggior
numero de' cittadini innocenti. Questa è la seconda ragione, alla quale
si cerca di appoggiare la tortura da chi ne sostiene al giorno d'oggi l'usanza
come benefica ed opportuna, anzi necessaria alla salvezza dello stato.
Ma i sostenitori della tortura con questo
ragionamento peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti
sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo stato
della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di
avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato;
ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti
proposizioni:
I. Che
i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità.
II. Che
la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo
di scoprire la verità.
III. Che
quand'anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della
verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.
Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo
per iscoprire la verità, comincierò dal fatto. Ogni criminalista,
per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà
che non di raro accade, che de' rei robusti e determinati soffrono i tormenti
senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare se
medesimi. In questi casi, che non sono né rari né immaginati, il tormento
è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato
si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori, che ho di sopra fatti
conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero da più
d'un secolo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si dichiararono
rei di un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente il tormento
strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità?
Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo
accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti. Veggasi lo
stesso Claro, il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si
confessarono rei dell'omicidio d'un nobile e furono condannati a morte, sebbene
poi alcuni anni dopo sia comparso il supposto ucciso, che attestò non
essere mai stato insultato da' condannati. Veggasi il Muratori ne' suoi Annali
d’Italia, ove parlando della morte del Delfino così dice: “Ne fu
imputato il conte Sebastiano Montecuccoli suo coppiere, onorato gentiluomo di
Modena, a cui di complessione dilicatissima... colla forza d'incredibili
tormenti fu estorta la falsa confessione della morte procurata a quel principe
ad istigazione di Antonio de Leva e dell'imperatore stesso, perloché venne poi
condannato l'innocente cavaliere ad una orribile morte”. Il fatto dunque ci
convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità,
perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna.
Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione.
Quale è il sentimento che nasce nell'uomo allorquando soffre un dolore?
Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più
sarà violento lo strazio, tanto più sarà violento il
desiderio e l'impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale
un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo?
Coll'asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la
verità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità
è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia,
forse il torturato è innocente: e il torturato innocente è spinto
egualrnente come il reo ad accusare se stesso del delitto. Dunque i tormenti
non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma bensì un mezzo che
spinge l'uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia egli, ovvero non lo
abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi per
essere una perfetta dimostrazione.
Sulla faccia di un uomo abbandonato allo stato
suo natura delle sensazioni si può facilmente conoscere la
serenità della innocenza, ovvero il turbamento del rimorso. La placida
sicurezza, la voce tranquilla, la facilità di sciogliere le obbiezioni
nell'esame possono far ravvisare talvolta l'uomo innocente; e così il
cupo turbamento, il tono alterato della voce, la stravaganza, l'inviluppo delle
risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi sieno posti, un
reo e un innocente fra gli spasimi, fra le estreme convulsioni della tortura;
queste dilicate differenze si eclissano; la smania, la disperazione, l'orrore
si dipingono egualmente su di ambi i volti, gemono egualmente, e in vece di
distinguere la verità, se ne confondono crudelmente tutte le apparenze.
Un assassino di strada avvezzo a una vita dura e
selvaggia, robusto di corpo e incallito agli orrori resta sospeso alla torura,
e con animo deciso sempre rivolge in mente l'estremo supplizio che si procura
cedendo al dolore attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli
procurerà la vita, e che cedendo all'impazienza va ad un patibolo;
dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la tortura. Un povero cittadino
avvezzo a una vita più molle, che non si è addomesticato agli
orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibra sensibile tutta si
scuote, un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio: si eviti il
male imminente, questo pesa insopportabilmente, e si protragga il male a
distanza maggiore; questo è quello che gli suggerisce l'angoscia estrema
in cui si trova avvolto, e si accusa di un non commesso delitto. Tali sono e
debbono essere gli effetti dello spasimo sopra i due diversi uomini. Pare con
ciò concludentemente dimostrato, che la tortura non è un mezzo
per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo
egualmente il reo che l'innocente; onde è un mezzo per confondere la
verità, non mai per iscoprirla.
Ho stabilito di provare in secondo luogo che le
leggi e la pratica istessa de' criminalisti non considerano la tortura come un
mezzo per distinguere la verità. Ciò si conosce facilmente
osservando, che non trovasi prescritto alcun metodo o regolamento nel Codice
Teodosiano, e nessuno parimenti nel Codice Giustinianeo per applicare ai
tormenti i sospetti rei. In que' sterminati ammassi di leggi e prescrizioni,
ove si sminuzzano le minime differenze de' casi e civili e criminali, niente si
prescrive per la tortura. Se la legge adunque avesse risguardati questi
tormenti come un mezzo per iscoprire la verità, non se ne sarebbe fatta
una omissione in ambo i Codici del modo, de’ casi, e delle riserve, colle quali
si dovesse adoperare. Concludo adunque dal silenzio stesso del corpo delle
leggi, che la legge non considera la tortura come un mezzo per rintracciare la
verità. Se poi il solo argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrar
questa verità, veggasi la legge I § 25 ff. de quaestionibus, ove
ben lontano lo spirito delle leggi romane dal riguardare la tortura come un
mezzo da rinvenire la verità, anzi vi si legge: “La tortura è un
mezzo assai incerto e pericoloso per ricercare la verità, poiché molti
colla robustezza e la pazienza superano il torrnento e in nessun modo parlano;
altri insofferenti mentiscono mille volte, anzi che resistere al dolore”. Quaestio res est fragilis et periculosa, et quae ventatem
fallat. Nam plerique patientia, sive duritia tormentorum illa tormenta
contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit; alii tanta sunt
impatientia, ut quodvis mentiri, quam pati tormento velint. Così
si esprime positivamente il Digesto, e tale era l'opinione de' Romani nostri
legislatori e maestri, i quali conoscevano l'uso della tortura sopra gli
schiavi, siccome vedremo poi. Dunque la legge non risguarda la tortura come un
mezzo per la scoperta della verità
Io però ho asserito di più che non
solamente la legge, ma nemmeno la pratica criminale considera la tortura per un
mezzo d'avere la verità. Pare questo un paradosso, eppure io credo di
poterlo evidentemente dimostrare.
Primieramente, se i dottori risguardassero la
tortura con un mezzo per iscoprire la verità nei delitti, non
escluderebbe se medesimi dall'essere torturati, poiché è tale
l'interesse dell’umana società che i delitti si scoprano, che nessuno
può essere sottratto dai mezzi di scoprirli; in quella guisa che nessuno
sottratto de' dottori dalla pena di morte, esiglio ecc., ogni qualvolta co'
suoi delitti l'abbia meritata. Io perdonerò se ciascun cerchi di
rialzare il proprio mestiero, e non mi farà maraviglia che il
Wesembeccio dica che i dottori sono per dignità eguali ai nobili e
decurioni, e per meriti eguali ai militari: Doctores nobilibus et
decurionibus dignitate, militibus autem meritis aequiparantur; ma non
sarebbe perdonabile alcuno, che osasse dare alla propria facoltà una
impunità nei delitti. Se adunque i nobili e i dottori sono privilegiati
per la tortura, segno è che non viene essa dai criminalisti considerata
come un mezzo per avere 1a verità.
Secondariamente, se i dottori considerassero la
tortura come un mezzo per avere la verità, prescriverebbero di
attenervisi e considerare per certo quello che un tormentato dice fra i
tormenti. La pratica però ordina che ciò non sia attendibile, se
l'uomo qualche tempo dopo e in luogo lontano da ogni apparecchio di tortura non
ratifica l'accusa fatta a se medesimo, acciocché non rimanga sospetto che la
violenza dello spasimo abbia indotto il torturato ad accusarsi indebitamente.
Dunque la pratica stessa criminale non risguarda lo strazio della tortura come
un mezzo per avere la verità. Questa pratica si è veduta eseguita
anche sugli infelicissimi Piazza e Mora, ed è poi una contraddizione
veramente barbara quella di rinnovare la tortura all'uomo che revochi l'accusa
fattasi nei tormenti. Alcuni dottori trovano giusta una tale alternativa
indefinitivamente, per quante volte il torturato disdice l'accusa datasi; cosicchè
o deve alla fine morire di spasimo ripetuto, ovvero perseverare anche fuori del
tormento ad accusare se stesso. Altri dottori limitano questa altemativa a tre
torture, come il Claro. Se dunque la stessa pratica criminale insegna di non
credere a quanto un torturato dice in propria accusa fra i tormenti della
tortura, ma esige che l'accusa la ratifichi con tranquillità e libero
dallo spasimo, forza è concludere ad evidenza, che la stessa pratica
criminale non considera la tortura come un mezzo da conoscere la verità.
Mi rimane finalmente da provare, che quand'anche
la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe
un mezzo intrinsecamente ingiusto. Credo assai facile il dimostrarlo.
Comincierò col dire che le parole di “sospetti, indizj, semi-prove,
semi-plene, quasi-prove ecc.”, e simili barbare distinzioni e sottigliezze, non
possono giammai mutare la natura delle cose. Possono elleno bensì
spargere delle tenebre ed offuscare le menti incaute; ma debbesi sempre ridurne
la questione a questo punto, il delitto è certo, ovvero solamente
probabile. Se è certo il delitto, i tormenti sono inutili,
e la tortura è superfluamente data, quando anche fosse un mezzo per
rintracciare la verità, giacché presso di noi un reo si condanna, benché
negativo. La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta, perché non
è giusta cosa il fare un male, e un male gravissimo ad un uomo
superfluamente. Se il delitto poi è solamente probabile, qualunque
sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di probabilità
difficile assai a misuararsi, egli è evidente che sarà possibile
che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma
ingiustizia l'esporre un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo,
che forse è innocente; e il porre un uomo innocente fra que' strazj e
miserie tanto è più ingiusto quanto che fassi colla forza
pubblica istessa confidata ai giudici per difendere l'innocente dagli oltraggi.
La forza di quest'antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della
tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono
a un sofisma, poiché fra l'essere e il non essere non vi è punto di
mezzo, e laddove il delitto cessa di essere certo, ivi precisamente comincia la
possibilità della innocenza. Adunque l'uso della tortura è
intrinsecamente ingiusto, e non potrebbe adoprarsi, quand'anche fosse egli un
mezzo per rinvenire Ia verità.
Che si è detto mai delle leggi della
Inquisizione, le quali permettevano che il padre potesse servire di accusatore
contro il figlio, il marito contro la moglie! L'umanità fremeva a tali
oggetti, la natura riclamava i suoi sacri diritti; persone tanto vicine per i
più augusti vincoli, distruggersi vicendevolmente! La legge civile
abborrisce siffatti accusatori, e gli esclude. Mi sia ora lecito il chiedere se
un uomo sia meno strettamente legato con se medesimo, di quello che lo è
col padre e colla moglie. Se è cosa ingiusta che un fratello accusi criminalmente
l'altro, a più forte ragione sarà cosa ingiusta e contraria alla
voce della natura che un uomo diventi accusatore di se stesso, e le due persone
dell'accusatore e dell'accusato si confondano. La natura ha inserito nel cuore
di ciascuno la legge primitiva della difesa di sé medesimo: e l'offendere se
stesso, e l'accusare se stesso criminalmente egli è un eroismo, se
è fatto spontanearnente in alcuni casi, ovvero una tirannia
ingiustissima se per forza di spasimi si voglia costringervi un uomo.
L'evidenza di queste ragioni anche più si
conoscerà riflettendo, che iniquissima e obbrobriosissima sarebbe la
legge, che ordinasse agli avvocati criminali di tradire i loro clienti. Nessun
tiranno, che io ne sappia, ne pubblicò mai una simile; una tal legge
romperebbe con vera infamia tutti i più sacri vincoli di natura.
Ciò posto chiederemo noi se l'avvocato sia piú intimamente unito al
cliente, di quello che lo è il cliente con se medesimo? Ora la tortura
tende co' spasimi a ridurre l'uomo a tradirsi, a rinunziare alla difesa
propria, ad offendere, a perdere se stesso. Questo solo basta per far sentire,
senza altre riflessioni, che la tortura è intrinsecamente un mezzo
ingiusto per cercare la verità, e che non sarebbe lecito usarlo
quand'anche per lui si trovasse la verità. .
Ma come mai una pratica tanto atroce e crudele,
tanto inutile, tanto ingiusta, ha mai potuto prevalere anche fra popoli colti e
mantenersi sino al giorno d'oggi? Brevemente accennerò quali sieno stati
gli usi anticamente, come siasi introdotta, su quai principj fondata, da quai
leggi diretta; poi qualche cosa dirò delle opinioni di varj autori e
degli usi attuali di alcune nazioni d'Europa con che crederò di aver
posto fine a queste Osservazioni con un esame generale dei diversi punti di
vista, sotto i quali può ragionevolmente riguardarsi un così
tristo e così interessante oggetto.
L'invenzione della tortura, se crediamo a Remus e
a Gian-Lodovico Vives, dovrebbe attribuirsi all'ultimo re di Roma Tarquinio il
Superbo, a Masenzio ed a Falaride; convien lodare il criminalista Remus, poiché
almeno giudiziosamente ha trascelti tre notissimi tiranni per far cadere sopra
tre tiranni l'obbrobrio di così inumana invenzione. Sappiamo però
che al tempo de' tiranni Falaride, Nearco e Gerolamo furono posti alla tortura
i più rispettabili filosofi de' loro tempi, Zenone Eleate e Teodoro; e
il filosofo Anassarco fu crudelmente torturato per ordine del tiranno
Nicocreonte.
L’origine di una così feroce invenzione
oltrepassa i confini della erudizione, e verosimilmente potrà essere
tanto antica la tortura, quanto è antico il sentimento nell'uomo di signoreggiare
dispoticamente un altro uomo, quanto è antico il caso che la potenza non
sia sempre accompagnata dai lumi e dalla virtù, e quanto è antico
l'istinto nell'uomo armato di forza prepotente di stendere le sue azioni a
misura piuttosto della facoltà che della ragione. Io prescindo dal
risguardare la legislazione dei libri sacri, come la legge dettata dall'autore
stesso della natura a una nazione di cuor duro; e considerando unicamente quel
monumento come il più antico testimonio che sia a nostra notizia de'
costumi de' secoli remoti, osservo che nel sacro testo nessuna menzione vi si
fa della tortura; che anzi nel prescrivere le pratiche da usarsi co' rei si
vuole la strada della convinzione co' testimonj, né si esige la confessione del
reo. Veggasi il Deuteronomio al Cap. XIX num. 10. “Non si sparga il
sangue innocente su questa terra, che Dio ti darà da abitare, acciocché
tu non sia reo di sangue”. Ed al num. 16 viene ordinato il modo onde provare i
delitti, cioè coi testimonj, e si prescrive che “un solo testimonio non
valga, qualunque sia il delitto, di cui si tratti, ma che due o tre testimonj
facciano la prova completa”. E un calunniatore “dovrà comparire
coll’accusato in faccia a Dio e de’ sacerdoti e giudici, i quali
diligentissimamente scandaglieranno entrambi, e trovata la calunnia la
puniranno della stessa pena che era dovuta al delitto falsamente imputato”.
Tale fu la legislazione criminale del popolo ebreo, dove il delitto si
provò co' testimonj, e la contraddizione fra l'accusatore e il reo con
una diligentissima ricerca dei giudici, non mai cogli spasimi della tortura.
Che mai potranno dire i fautori della tortura, che la credono necessaria al
buon governo del popolo? Il sommo legislatore avrebbe egli tralasciato un
oggetto di buon governo per il suo popolo eletto? Saranno gli uomini sotto la
legge di grazia da trattarsi più duramente che sotto la legge scritta?
Sono forse i popoli di questi secoli più induriti e bisognosi di giogo
di quello che lo erano gli Ebrei? Troviamo noi Cristiani nel Vangelo qualche
seme, onde incrudelire co' nostri fratelli? Il solo giudizio che Cristo
pronunciò durante il corso della sua vita fu per assolvere la donna che
si voleva lapidare; e i Cristiani che sono imitatori, o debbon esserlo, della
vita paziente, benefica, umana, compassionevole del Redentore, scrivono i
trattati per tormentare colle più atroci e raffinate invenzioni i loro
fratelli? La contraddizione è troppo evidente. Ritorniamo
all'antichità.
Presso de' Greci egualmente che presso de' Romani
fu sconosciuto l'uso della tortura per gli uomini. Non parlo degli schiavi, i
quali nel loro sistema non si consideravano come persone, ma
superficialmente come cose: in guisa che si vendevano, si uccidevano, si
mutilavano colla padronanza e libertà medesima, colla quale si fa di un
giumento, senza che le leggi limitassero la padronanza sopra di essi. La
tortura si dava ai servi, ossia schiavi, ma non ai cittadini e agli uomini. Se
fosse male o ben fatto il degradare una porzione dell'umanità al segno
de' giumenti, io non ardirei di deciderlo. Quelle due nazioni sono state le
nostre maestre, la loro grandezza tutt'ora ci fa maraviglia, noi non siamo
giunti a pareggiare la loro coltura; e da un canto solo d'inconveniente mal si
giudicherebbe del tutto insieme e della connessione necessaria che un disordine
parziale talvolta tiene colla perfezione generale del sistema. So che quando in
uno stato si voglia tenere una classe d'uomini annientata sotto l'arbitrario
potere della nazione, ogni cosa che avvilisca e degradi quella classe
sarà conforme al fine politico. Mi trovo al punto medesimo, sul quale fu
l'immortale presidente di Montesquieu, e non saprei dir meglio che servendomi
delle di lui parole: Tant d'habiles gens, et tant de beaux génies ont écrit
contre l'usage de la torture, que je n'ose parler après eux. J'allais dire qu'elle pourrait convenir dans le
gouvernements despotiques, où tout ce qui inspire la crainte entre dans
les ressorts du gouvernement; j'allais dire que les esclaves chez les Grecs et
chez les Romains... mais j'entend la voix de la nature qui crie contre moi [Tante persone illustri, e tanti nobili ingegni hanno
scritto contro l'uso della tortura che, dopo di loro io non oso parlare. Stavo per
dire che essa potrebbe convenire ne governi dispotici, presso i quali tutto
ciò che ispira la paura entra nel meccanismo governativo; stavo per dire
che gli schiavi presso i Greci e presso i Romani... ma sento la voce stessa
della natura che grida contro di me]. Che i Greci non usassero tormenti contro
i cittadini si scorge in Lisia Orat. in Argorat., e Curio Forturato
Retore Schol. lib. 2, e per i cittadini Romani dalla stessa legge 3 e 4 ad
Legem Juliam majestatis. Dopo che la libertà di Roma fu soggiogata e
piantata la tirannia, veggonsi esentate dalla tortura le persone di nascita,
dignità o servigi militari. Durante però la repubblica,
unicamente i servi erano sottoposti a questo strazio, non mai gli uomini figli
della patria e aventi una personale esistenza; quindi la L. 27 alla L. Jul.
de adult. § 5 dice che liber homo tortus, non ut liber, sed ut servus
existimatur [L'uomo libero torturato è considerato non libero ma
schiavo]. Veggasi Sallustio in Catilin., che pure attesta che le leggi
Romane proibivano il dare la tortura agli uomini liberi. Quindi Cicerone, nella
sua orazione Pro Silla, esclama contro l'insolita tirannia minacciata: Quaestiones
nobis servorum, et tormenta minitantur [Ci minacciano gli interrogatori e
le torture dei servi].
La corruzione del sistema di Roma produsse l'uso
della tortura. Concentrate nella sola persona degli imperatori le principali
dignità di console, tribuno della plebe e pontefice massimo, si
annientò la repubblica e si formò il governo dispotico,
collocandosi nell'uomo medesimo il supremo comando dell'armata, la presidenza
al senato, il diritto di rappresentare la plebe e quello di presiedere alle
cose sacre, agli augurj ed a quanto moveva le opinioni del popolo. Se in
Venezia lo stesso uomo fosse comandante delle armi, doge, avogador, inquisitore
di stato e patriarca sarebbe abolita la repubblica al momento senza alcun
cambiamento di sistema: così accadde a Roma. Da principio Cesare, poi
Augusto rispettarono la memoria della libertà, che era recente
nell'animo de' Romani; poiché gradatamente s'indebolì quella, si spanse
con minor ritegno il natural desiderio ne' despoti di avere una illimitata
potenza su tutto. Quindi si procurò di rendersi ben affetta la plebe co'
donativi, cogli spettacoli, coll'abbondanza dell'annona e coll'avvilire le
cospicue famiglie consolari.. E così consolando la plebe colla
umiliazione de' nobili, l'orgoglio de' quali le era di peso, ebbero la politica
di formarsi il più numeroso partito in favore; e facendo causa comune il
principe colla plebe contro i nobili, rapironsi le sostanze degli opulenti
impunemente, onde bastare al lusso capriccioso del principe ed alla scioperata
indolenza della plebe Romana, si annientò quel numero di famiglie le
quali sole potevano servire di argine alla tirannia col loro credito e colle
ricchezze, e rimase un governo in cui uno era tutto: e il restante, posto a
bassissimo livello, di nessun inciampo poté essere alle voglie illimitate del
despota. Tale è il principio che fondò l'impero romano. È
dunque conforme a tal principio che si degradassero i nobili e i cittadini e si
pareggiassero ai servi, e quindi la tortura usata per questi ultimi soli
durante i tempi felici di Roma, fosse dilatata anche ai liberi, a misura che la
tirannia si rassodava. Quindi Emilio Fervetti assicura che non invenies ante
Diocletianum et Maximianum imperatores quaestionem unquam habitam fuisse de
homine ingenuo [non troverai prima degli imperatori Diocleziano e
Massimiano la tortura usata per gli uomini liberi]. Vi è chi asserisce
che al tempo di Carlo Magno venisse nuovamente stabilito che gli uomini liberi
ne fossero esenti. Certa cosa ella è che nessuno scrittore si trova, a
quanto so, il quale abbia trattato con un metodico esame del modo di tormentare
i rei prima del secolo XIV, il che fa conoscere, che non si risguardava la
tortura come essenziale ai giudizj criminali. Dopo quel tempo vennero gli
scrittori criminalisti, i quali se avessero scritto in una lingua meno barbara,
farebbero ribrezzo a chiunque si pregia di avere una porzione d'umanità
nel cuore. Allora fu che usciti gli uomini dalla ignoranza si occuparono
faticosissimamente nell'addestrarsi fra un inviluppo di opinioni e di parole, e
che sui rottami delle opinioni greche, arabe ed ebree si eressero le
università, nelle quali gravemente colle opinioni platoniche,
peripatetiche e cabalistiche, unite ai dettami di Avicenna e di Averroè,
s'imparò a delirare metodicamente in metafisica, in fisica, in medicina,
in giurisprudenza e in tutte le altre facoltà. Vennero poi il Claro, il
Girlando, il Tabor, il Giovannini, il Zangherio, I'Oldekop, il Carpzovio, il
Gandino, il Farinaccio, il Gornez, il Menocchio, il Bruno, il Brunoro, il
Carerio, il Boerio, il Cumano, il Cepolla, il Bossio, il Bocerio, il Casonio,
il Cirillo, il Bonacossi, il Brusato, il Follario, l'Iodocio, il Damoderio e
l'altra folla di oscurissimi scrittori celebri presso i criminalisti, i quali
se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de'
raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e
la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli, non
potevano essere riguardati se non colI'occhio medesimo col quale si rimira il
carnefice, cioè con orrore e ignominia.
Forse la metodica introduzione de' tormenti
accaduta dopo il secolo Xl trae la sua origine dallo stesso principio, che fece
instituire i “Giudizj di Dio”; quando cioè si volle interporre con una
spensierata temerità il giudizio dell'eterno motore dell'universo nelle
più frivole umane questioni; quando col portare un ferro arroventato in
mano, ovvero con immergere il braccio nell'acqua bollente, e talvolta
coll’attraversare le cataste di legna ardenti, si decideva o l'innocenza o la
colpa dell'accusato. In quella barbarie dei tempi si credette che l'Essere
eterno non avrebbe sofferto che l'innocenza restasse oppressa, e che anzi
l'avrebbe sottratta al dolore e ad ogni danno; quasi che per le piccole nostre
questioni dovesse Dio sconvolgere le leggi fisiche da lui medesimo create, ad
ogni nostra richiesta. Scemata poi col tempo la grossolana ignoranza, sentirono
i popoli la irragionevolezza di tai forme di giudizio: e quelle del ferro,
dell'acqua bollente e del fuoco ferendo gli sguardi della moltitudine, perché fatte
con solennità in pubblico e precedute dalle più auguste
cerimonie, dovettero cedere e annientarsi a misura che progredì la
ragione; laddove esercitandosi le torture nel nascondiglio del carcere
senz'altri testimonj che il giudice, gli sgherri e l'infelice, non trovarono
ostacolo al perpetuarsi, essendo per lo più incallita la naturale
compassione in chi per mestiero presiede a quelle metodiche atrocità,
deboli i lamenti di quei che ne hanno sopportato l'orrore, e rari gli uomini, i
quali riunendo le cognizioni all'amore dell'umanità, abbiano avuto la
costanza di esaminare un sì lugubre oggetto colla lettura de' più
rozzi e duri scrittori di tal materia, e la forza di resistere al ribrezzo che
porterebbe a lasciar cadere più volte la penna dalle mani.
Comunque siasi della vera origine da cui emani la
nostra pratica criminale, egli è certo che niente sta scritto nelle
leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle
occasioni, nelle quali possano applicarvisi, né sul modo da tormentare, se col
fuoco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo
spasimo, né sul numero di volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra
gli uomini coll'autorità del giudice, unicamente appoggiato alle
dottrine dei criminalisti citati. Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci, i
quali senza esaminare d'onde emani il diritto di punire i delitti, qual sia il
fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza dei
delitti, qual debba essere la proporzione fra i delitti e le pene, se un uomo
possa mai costringersi a rinunziare alla difesa propria e simili principj, dai
quali intimamente conosciuti possono unicamente dedursi le natulali conseguenze
più conformi alla ragione ed al bene della società; uomini, dico,
oscuri e privati con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente
pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella
tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare ai
mali de corpo umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e
si fece un serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie
legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con industrioso
spasimo le membra degli uomini vivi e a raffinarlo colla lentezza e colla aggiunta
di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l'angoscia e
l'esterminio. Tai libri, che avrebbero dovuto con ragione ricoprire i loro
autori di una eterna ignominia, e che se fossero in lingua volgare e
comunemente letti più che non sono, o farebbero orrore alla nazione,
ovvero spegnendo in essa i germi di ogni umana virtù, la compassione e
la generosità dell'animo, la precipiterebbero nuovamente verso il secolo
di barbarie e di ferro; tai libri, dico, presero fra la oscurità
credito, e venerazione acquistarono presso gl'istessi tribunali; e sebbene
mancanti dell'impronta della facoltà legislativa e meri pensamenti
d'uomini privati, acquistarono forza di legge, legge illegittima in origine, e
servono tuttavia per esterminio de' sospetti rei, anche nel seno della bella,
colta e gentile Italia, madre e maestra delle belle arti, anche nella piena
luce del secolo XVIII: tanto difficil cosa è il persuadere che possano
essere stati barbari i nostri antenati, e rimovere un'antica pratica per assurda
che ella possa essere!
Né mancarono di tempo in tempo uomini illuminati,
che apertamente mostrarono la disapprovazione loro all'uso della tortura.
Veggasi Cicerone nella citata orazione Pro Silla; egli chiaramente dice:
Illa tormenta moderatur dolor, gubernat natura cujsque tum animi, tum
corporis, regit quaesitor,flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in
tot rerum angustiis nihil veritati locus relinquatur. (La tortura è
dominata dallo spasimo, governata dal temperamento di ciascuno, sì
d'animo che di membra; la ordina il giudice, la piega il livore, la corrompe la
speranza, la indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce nessun luogo rimane
alla verità.) Così Cicerone parlava della tortura, sebbene co'
soli servi venisse allora costumata. Veggasi S. Agostino dove tratta
dell'errore degli umani giudizj quando la verità è nascosta, de
errore humanorum judiciorum dum veritas latet, ove chiaramente disapprova
l'uso della tortura: “Mentre si esamina se un uomo sia innocente si tormenta, e
per un delitto incerto dassi un certissimo spasimo; non perché si sappia che
sia reo il paziente, ma perché non si sa se sia reo, quindi l'ignoranza del
giudice ricade nell'esterminio dell'innocente”. (Dum quaeritur utrum sit
innocens cruciatur, et innocens luit pro incerto scelere certissimas poenas,
non quia illud commisisse detegitur, sed quia commisisse nescitur, ac per hoc
ignorantia judicis plerumque est calamitas innocentis.) Quintiliano pure
accenna la disputa che eravi fra quei che sostenevano che la tortura è
un mezzo di scoprire la verità, e quei che insegnavano esser questa la
cagione di esporre il falso, poiché i pazienti tacendo mentiscono, e i deboli sforzatamente
mentiscono parlando: Sicut in tormentis, qui est locus frequentissimus cum
pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera saepe etiam
causam falsa dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat, aliis
infirmitas necessarium. Su tal proposito Seneca dice: Etiam innocentes
cogit mentiri: Il dolore sforza anche gl'innocenti a mentire. Valerio
Massimo tratta pure della tortura disapprovandola. Principalmente poi il Vives,
nel Commentario al citato passo di S. Agostino, detesta la pratica della
tortura ampiamente: io però ne riferirò soltanto parte. “Io mi
maraviglio”, dice quest'autore, “che noi Cristiani riteniamo tuttavia delle
usanze gentilesche, e ostinatamente le difendiamo: usanze non solamente opposte
alla carità Cristiana, ma alla stessa umanità”. (Miror
Christianos homines tam multa gentilia et ea non modo charitati et mansuetudini
christianae contraria, sed omni etiam humanitate, mordicus retinere.) Indi
soggiunge: “Qual'è mai questa pretesa necessità di tormentare gli
uomini, necessità deplorabile, e che se fosse fattibile dovrebbe con un
rivo di lacrime cancellarsi, se la tortura non è utile, anzi se se ne
può far senza, né perciò ne verrebbe danno alcuno alla sicurezza
pubblica? E come vivono adunque sì gran numero di nazioni anche barbare,
come le chiamano i Greci ed i Latini, le qual nazioni credono feroce e orrenda
cosa torturare un uomo, della di cui reità si dubita?... Non vediamo noi
ben sovente degl'infelici che incontrano la morte, anzi che poter sopportare lo
spasimo e si accusano di un delitto non commesso, certi del supplizio, per
evitare la tortura? In vero debbe aver l'animo da carnefice chi può
reggere alle lacrime, ai gemiti, alle estreme angosce espresse dallo spasimo di
un uomo che non sappiamo se sia reo. E una così acerba, così
iniqua pratica lasciamo noi che domini sul capo di ciascuno di noi?”. (Quae
est enim ista necessitas tam intollerabilis et tam plangenda, etiam si fieri
potest fontibus lacrymarum irriganda, si nec utilis est, et sine damno rerum
publicarum tolli potest? Quomodo vivunt
multae gentes et quidem barbarae, ut Graeci et Latini putant, quae ferum et
immane arbitrantur torqueri hominem, de cujus facinore dubitatur... An non
frequentes quotidie videmus, qui mortem perpeti malint quam tormenta, et
fateantur fictum crimen de supplicio certi, ne torqueantur? Profecto carnifices
animos habemus, qui sustinere possumus gemitus et lacrymas, tanto cum dolore
expressas, hominis quem nescimus sit ne nocens. Quidquod
acerbam et per quam iniquam legem sinimus in capita nostra dominari?) Né fra i
criminalisti medesimi mancò mai un numero di uomini più
ragionevoli e colti, che detestarono l'uso de' tormenti: così lo
Scalerio, il Nicolai, Ramirez de Prado, Segla, Rupert, il Weissenbac, il
Wesembeccio e simili; l'ultimo chiama la tortura una invenzione diabolíca
portata dall'inferno per torrnentare gli uomini: inventum diabolicum ad
excruciandos homines de tormentis infernalibus allatum. E il Mattei nel suo
trattato De criminibus ha scritto contro l'uso de tormenti; e il
Tommassi dice, che onestamente confessa che la tortura è cosa iniqua e
indegna di un popolo cristiano: iniquam esse torturam et Christianas
respublicas non decentem cordate assero. Finalmente un trattato completo
scrisse su tal argomento Giovanni Grevio col titolo: Tribunal reformatum, in
quo sanioris et tutioris justitiae via judici Christiano in processu criminali
commonstratur, rejecta et fugata tortura, cujus iniquitatem et multiplicem
fallaciam, atque illicitum inter Christianos usum libera et necessaria
dissertatione aperuit Joannes Grevius ecc. [la Riforma del tribunale,
in cui si indica al giudice cristiano la via di una più sana e
più sicura giustizia da seguire nei processi, viene negata e messa al
bando la tortura; la cui iniquità e frequente fallacia e l'ingiusto uso
che se ne fa dai cristiani, Giovanni Grevio ha acclarato in una libera e
indispensabile discussione].
Da questa serie d'autorità sembra
bastantemente chiaro il torto di coloro, che asseriscono che sia un nuovo
ritrovato de' moderni filosofi l'orrore per la tortura; essi non possono
aspirare a questa gloria di aver i primi sentita la voce della ragione e
dell'umanità su di tale proposito; ma tanto è antica la
contraddizione a questa barbara costumanza, quanto è antico il ragionare
e l'abborrire le inutili crudeltà. Io non citerò adunque alcuno
de' moderni filosofi, contento di aver allegate le autorità di Cicerone,
di S. Agostino, di Quintiliano, di Valerio Massimo e degli altri.
Resta finalmente da conoscere, se quello che poté
praticarsi presso la repubblica degli Ebrei, presso la Grecia e presso Roma,
sia eseguibile ancora ai tempi nostri. Io su tal proposito citerò uno
squarcio di quello che il re di Prussia ha scritto nella dissertazione, Dei
motivi di stabilire o d'abrogare le leggi. “Mi si perdoni”, dice il reale
autore, “se alzo la voce contro la tortura; ardisco assumere le parti
dell’umanità contro di una usanza indegna de' Cristiani, indegna di ogni
nazione incivilita, e tanto inutile quanto crudele. Quintiliano, il più
saggio e il più eloquente retore, riguarda la tortura come una prova di
temperamento; uno scellerato robusto nega il fatto, un innocente gracile se ne
accusa. È accusato un uomo; vi sono degli indizj, il giudice vuol
chiarirsene, si pone lo sgraziato uomo alla tortura. Se egli è
innocente, qual barbarie è ella mai l'avergli fatto soffrire il
martirio? Se la violenza del tormento lo sforza ad accusare se stesso
indebitamente, quale detestabile inumanità è ella mai quella di
opprimere cogli spasimi i più violenti, e condannare poi al supplizio un
cittadino virtuoso? Sarebbe men male lasciar impuniti venti colpevoli, di
quello che lo è il sacrificare un innocente. Se le leggi vengono
stabilite per il bene de' popoli, come è mai possibile che si tollerino
di tali che prescrivono ai giudici di commettere metodicamente delle azioni
tanto atroci, e che ributtano la stessa umanità? Sono già otto
anni (allora che il re scriveva, ora saranno trenta) dacché la tortura è
abolita in Prussia; siamo sicuri di non confondere il reo coll'innocente, e la
giustizia non perciò ha ella perduto punto del suo vigore”. (Qu'on me pardonne si je me recrie contre la question.
J'ose prendre le parti de l'humanité contre un usage honteux à des
Chrétiens et à des peuples policés, et, j'ose ajouter, contre un usage
aussi cruel qu'inutile. Quintilien, le plus sage et le plus éloquent des
rhéteurs, dit en traitant de la question, que c'est une affaire de tempérament:
un scélérat vigoureux nie le fait, un innocent d'une complexion faible l'avoue.
Un homme est accusé, il y a des indices, le juge est dans l'incertitude, il
veut s’éclaircir: ce malheureux est mis à la question. S'il est
innocent, quelle barbarie de lui faire souffrir le martire? Si la force des
tourmens l'oblige à déposer contre lui-meme, quelle inhumanité
èpouvantable que d'exposer aux plus violentes douleurs, et de condamner
à la mort un citoyen vertueux, contre lequel il n'y a que des soupçons?
Il vaudrait mieux pardonner à vingts soupables, que de sacrifier un
innocent. Si les loix se doivent établir pour le bien des peuples, faut-il
qu’on en tolère de pareilles qui mettent les juges dans le cas de
commettre méthodiquement des actions criantes, qui révoltent l'humanité? Il y a
huit ans que la question est abolie en Prusse: on est súr de ne point confondre
l'innocent et le coupable, et la justice ne s'en fait pas moins.) Così
parla, così attesta uno de' più grandi uomini che sta sul trono.
In Prussia, nel Brandeburghese, nella Slesia e in ogni parte della dominazione
prussiana non si dà più tortura di veruna sorta, e la giustizia
punisce i rei, e la società vi è sicura.
Nell'Inghilterra già da molto tempo non si
tollera più la tortura: la legge condanna a un genere di morte il reo
che ricusa di rispondere al giudice, questa si chiama la peine forte et dure,
ma a torto chiamerebbesi tortura, poiché finisce colla morte e non è veritatis
indagatio per tormentum. Veggasi sul proposito dell'Inghilterra il barone
di Bielfeld. Dacché l'esperienza fa vedere che nell'Inghilterra e nella Prussia
i delitti si discoprono e si puniscono, che la giustizia si esercita e la
società non ne soffre, ella è cosa quasi barbara il non abolire
l'uso della tortura. Chiunque ha viscere, ed
abbia una volta veduto commettere una tal violenza alla natura umana, non
può, cred'io, essere di un parere diverso; così egli: Depuis
qu'on voit en Angleterre et en Prusse que tous les crimes se découvrent, qu'ils
sont punis, que la justice est rendue, que la société n'en souffre point, il
est presque barbare de ne pas abolir l'usage de la question. Quiconque a des
entrailles, et a vu une fois faire cette violence à la nature humaine,
ne saurait s'empêcher, je pense, d'etre de mon sentiment. Che
nell'Inghilterra sia affatto abolita la tortura, lo attesta anche il presidente
di Montesquieu. Anche nel regno della Svezia non si usano torture, se crediamo
a Ottone Tabor. Nei regni d'Ungheria, di Boemia, nell'Austria, nel Tirolo ecc.,
per una ordinazione degna del regno di Maria Teresa, nell'anno 1776
restò abolito l'uso della tortura; e sulla fine dell'anno medesimo un
così umano regolamento promulgossi nella Polonia con una legge che
comincia così: “La costante esperienza dimostra quanto sia vizioso il
mezzo impiegato in varj processi criminali per venire in cognizione della
verità mediante la tortura, e nello stesso tempo quanto sia cosa crudele
il farne uso per provare l'innocenza”; quindi se ne abolisce la pratica, e si
prescrive che si debbano adoperare i soli mezzi di convinzlone.
Vi sono stati e vi sono tuttavia alcuni, i quali
per ultimo rifugio ricorrono alle locali circostanze del Milanese, ed
asseriscono non potersi far senza della tortura presso della nostra nazione.
Incautamente al certo, e per soverchia venerazione agli usi trapassati in tal
guisa calunniano la nostra patria; quasi che i cittadini nostri, d'indole oltre
modo feroce e maligna, con altro miglior mezzo non si potessero contenere se
non trattandoli con atrocità e degradandoli all'essere di schiavi; quasi
che i principj di virtù e d sensibilità fossero talmente spenti
nel nostro popolo, che quei mezzi che bastano presso le altre nazioni fossero
insufficienti per noi! Io ben so che chi fa tale eccezione non riflette alle
conseguenze, che pure immediatamente ne emanano. Chiunque conosce la nostra patria,
per i nostri concittadini ne ha un'idea ben diversa; risovvengasi ciascuno
dell'epoca non molto remota, quando la nostra benefica ed immortale sovrana
Maria Teresa essendo in pericolo di soccombere al vajuolo, stavano aperte le
chiese alle pubbliche preghiere; allora fu che ogni ceto di persone, artigiani,
contadini, nobili, plebei, tutti, posposti gli ufficj loro, a piè degli
altari singhiozzando offrivano voti all'Onnipotente per conservare i preziosi
giorni di una sovrana, alla quale la virtù, la beneficenza e il dovere
hanno guadagnato i cuori sensibili. I teneri e spontanei movimenti della
moltitudine, che non poteva essere mossa da verun fine politico, bastano a
provare il sentimento di bontà e di rettitudine che è comunemente
piantato ne' cuori. No, non si dica che i Milanesi sieno una eccezione odiosa
della regola.
Ma come costringeremo noi a rispondere un uomo,
che interrogato dal giudice si ostina al silenzio, se non abbiasi il mezzo di
costringerlo coi tormenti? Gl'Inglesi medesimi, che si citano per abolire la
tortura, in tal caso la costumano. Ma a ciò si risponde, che è
vero che gl’Inglesi nel solo caso in cui si ricusi di rispondere al giudice,
usano “la pena forte e dura” siccome essi la chiamano, la quale termina colla
morte, lasciando cadere un pesantissimo sasso a schiacciare intieramente il
contumace; ma questa non può chiamarsi tortura, ma bensì
supplizio, al quale talvolta preferirono alcuni di soccombere, anzi che essere
giudicati rei di un delitto che portasse la confisca de' beni, oltre la morte;
essendo che le leggi del regno non permettono che il fisco si approprj i beni
di chi morì colla “pena forte e dura”, e in tal guisa l'amore de'
congiunti indusse alcuni a preferire il silenzio e questa pena. Si dice di
più, che forse gl'Inglesi hanno conservato una porzione dell'antica
barbarie col non abolire anche la “pena forte e dura”, poiché se nelle liti
civili le leggi condannano il contumace reo a seconda delle ricerche
dell'attore, bastava portare alle procedure criminali quello stesso metodo, e
riguardando il contumace a rispondere come reo confesso condannarlo a norma
delle leggi; cosi sarà tolta ogni necessità di tormentare o chi
non risponde, ovvero chi non risponde a proposito. Se il prigioniero
sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio
avrà luogo di confessione de' delitti per i quali viene processato, non
vi sarà dubbio che si trovi chi ostinatamente cerchi di perdere se
medesimo.
A questo passo replicano i sostenitori della
pratica attuale: noi non abbiamo la legge che ci autorizzi a condannare come
convinto l'uomo, che si ostina al silenzio o alla inconcludente risposta. Su di
che essi hanno ragione di sostenere, che una sola legge che abrogasse la tortura
sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora contemporaneamente non
venisse promulgata l'altra che dichiarasse convinto il contumace.
La nostra pratica criminale è veramente un
labirinto di una strana metafisica. Si prende prigione un uomo, che si sospetta
reo di un delitto. Quest'uomo cessa in quel momento di avere una esistenza
personale. Egli è un essere ideale posto nelle mani del fisco, il quale
lo interroga, lo inviluppa, lo spreme, lo tormenta sinché o colle
contraddizioni o colle incoerenze, ovvero colla confessione del delitto smunta
col tedio del carcere, colla miseria e colle torture, possa il fisco aver
tratto da lui medesimo abbastanza per citarlo in giudizio. Fatte tutte queste
lunghe e crudeli procedure, nel qua1 tempo non è permesso al reo di
essere assistito o difeso, ecco il fisco che lo cita e lo costituisce avanti il
giudice reo del tal delitto. Nei paesi più illuminati, invece, si prende
una strada più breve e naturale. Appena posto in carcere il sospetto
uomo, nel primo esame si considera cominciare il giudizio. Gli si pone in
faccia il motivo per cui si sospetta reo; gli accusatori gli si pongono
davanti, se ve ne sono. Se gli cerca ragione o discolpa: e così
facilmente, e per una via più chiara, placida e regolare si termina ogni
processo. Così si fa ne' processi militari, e così si pratica nei
due reggimenti milanesi composti certamente di soldati, i quali non sono scelti
né fra i più virtuosi né fra i più semplici del popolo; e i
delitti celeremente sono puniti, e vi è una fondata idea della
rettitudine de' giudizj ne' consiglj militari.
Come mai, dicono gli apologisti della tortura,
come mai indurremo un reo a palesare i complici senza il mezzo della tortura?
Tutte queste obbiezioni sono in fatti una perenne supposizione di quello che
è il soggetto appunto della questione. Si suppone che la tortura sia un
mezzo per rintracciare la verità. Ma anche prescindendo da questo si
risponde, che un uomo che accusa se medesimo non avrà difficoltà
di nominare ordinariamente i complici; che un uomo che nega il delitto, non li
può nominare senza accusare se stesso; che finalmente per volere saper
tutto e scrivere tutta la serie della vita di un uomo e de' delitti che ha
commessi o veduti commettere, ordinariamente si riempiono le prigioni di tanti
disgraziati, e si vanno protraendo a somma lentezza i processi. È men
male l'ignorare un complice e il punire sollocitamente un reo, di quello che
sia, dopo averlo lasciato languire nello squallore del carcere per mesi ed
anni, punire più uomini di un delitto, di cui nessuno ha più
memoria: cosicché altro non vede il popolo, che la isolata atrocità che
eseguisce solennernente il carnefice.
Supponiamo che l'imperator Giustiniano fosse
stato obbedito dai posteri. Egli radunò le leggi sparse, le opinioni de'
più accreditati giureconsulti romani, le decisioni del senato, quelle
del popolo, e ristringendo tutto quello che credette utile e buono dalla
sterminata mole de' libri, ne fece compilare il Codice e le Pandette, nelle
quali tutto il corpo della legislazione si conteneva, proibendo decisamente che
alcuno più non osasse farvi commenti a scrivere per interpretarle. Se
ciò fosse stato eseguito, come mai faremmo noi i giudizj criminali?
Nessuna legge vi è per ammortizzare civilmente il prigioniero, per torturarlo,
per farlo poi rivivere dopo scritto il processo. Se non vi fossero stati il
Claro, il Bossi, il Farinaccio e gli altri che di sopra ho nominati, non si
prenderebbe prigione alcun cittadino se non vi fossero gravi sospetti della di
lui reità. Questi o nascono da' testimonj che lo accusano d'un delitto,
ovvero dalla vita sfaccendata e sospetta che mena, ovvero dalle spese che fa
senza che se ne veda il come, ovvero da inimicizia violenta e minacce contro un
uomo che fu offeso, e simili. Poi si condurrebbe il prigioniero avanti non ad
un solo, ma a molti destinati a giudicarlo; verrebbe allo stesso francamente
posto in faccia il sospetto e i motivi; s'interrogherebbe, se si tratta di un
omicidio o furto, a giustificare dove egli abbia passato le ore nelle quali fu
commesso il delitto; se di un furto, come egli abbia il danaro che se gli
è trovato, e così a ciascun caso; e in poche ore si conoscerebbe
se veramente il prigioniero fosse reo, ovvero innocente. Questo è il
metodo che verrebbe usato, se nella giustizia criminale si osservassero le sole
leggi, e non una pratica fondata illegittimamente sulle private opinioni di
alcuni oscuri e barbari scrìttori. Tale è il metodo de' processi
nella Gran Bretagna, ove altresì l'uomo accusato ha due sommi vantaggi:
uno cioè di essere giudicato da persone scelte fra i suoi pari e non
incallite ai giudizj criminali; I'altro di poter ricusare un dato numero degli
eletti per giudicarlo, qualora abbia motivo di diffidenza. Tale parimenti
è il metodo che si usa nel militare anche in Milano pei reggimenti
italiani, e la giustizia fa rapidamente il suo corso senza che si lagni alcuno
di tirannia, e senza che si condannino come rei gl'innocenti: caso che non
tanto di raro avviene, quanto forse si crede.
Io ben so che le opinioni consacrate dalla
pratica de' tribunali, e tramandateci colla veneranda autorità de'
magistrati, sono le più difficili e spinose a togliersi, né posso
lusingarmi che ai nostri sia per riformarsi
di slancio tutto l'ammasso delle opinioni che reggono la giurisprudenza
criminale. Credono tutti quei che vi hanno parte, che sia indispensabile alla
sicurezza pubblica di mantenere la pratica vigente: la loro opinione, vera o
falsa che sia, non pregiudica alla purità del fine che li move.
Però conviene che gli sostenitori della tortura riflettano, che i
processi contro le streghe e i maghi erano egualmente come la tortura
appoggiati all'autorità d'infiniti autori, che hanno stampato sulla
scienza diabolica; che la tradizione de’ più venerati uomini e tribunali
insegnava di condannare al fuoco le streghe e i maghi, i quali ora si
consegnano ai pazzarelli, dacché è stato dimostrato che non si danno né
maghi né streghe. Tutto quello che si può dire in favore della tortura,
si poteva cinquant'anni sono dire della magia. Mi pare impossibile, che
l'usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità
possa reggere per lungo tempo ancora, dopoché si dimostra che molti e molti
innocenti si sono condannati al supplizio per la tortura: che ella è uno
strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera: che
dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l'inferocire come
vuole: che questo non è un mezzo per avere la verità, né per tale
lo considerano le leggi, né i dottori medesimi: che è intrinsecamente
ingiusta: che le nazioni conosciute dell'antichità non la praticarono:
che i più venerabili scrittori sempre la detestarono: che si è
introdotta illegalmente ne' secoli della passata barbarie: e che finalrnente
oggigiorno varie nazioni l'hanno abolita e la vanno abolendo senza
inconvenionte alcuno.