HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli            

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Mussolini

 

di

Paolo Valera

 

 


 

INDICE

 

ENTRATURA. 2

I - IL GIORNALISTA SOVVERSIVO. 3

II - IL SOCIALISTA RIVOLUZIONARIO. 8

III - IL CONVEGNO DI BOLOGNA. 9

IV - I TUMULTI DI PENNA E DI GOLA. 12

V - L'EMINENTE RIVOLUZIONARIO DEL FRONTONE GIORNALISTICO MUSSOLINIANO. 16

VI - POLEMICA AUTOBIOGRAFICA. 18

VII - FILIPPO CORRIDONI TRIBUNO DEL PROLETARIATO. 21

VIII - L'HOMME QUI CHERCHE DE «LA FOLLA». 22

IX - IL COMMEMORATORE DE «LA COMUNE». 27

X - IL ROVESCIATORE DI MONARCHIA. 29

XI - IL «PUTTANO». 32

XII - IL PRIMO DEPUTATO SOCIALISTA ASSASSINATO DAL FASCISMO SANGUINARIO. 33

XIII - L'ASSALTO ALL'«AVANTI!». 35

XIV - IL PRIMO MASSACRO CREMONESE. 36

XV - LA "RIVOLUZIONE" DELLE CAMICIE NERE. 38

XVI - LA PRESA DEL POTERE. 39

XVII - L'UMILIAZIONE DEI DEPUTATI DI CARLO MARX. 41

XVIII - IL MINISTRO FASCISTA. 43

XIX - INTORNO ALL'UOMO DI STATO. 45

XX - IL MONARCHISMO MUSSOLINIANO. 47

XXI - IL PRINCIPE DI MONTENEVOSO. 49

XXII - L'ESUMAZIONE DI FRANCESCO CRISPI 52

XXIV - MASSIMO ROCCA AL VICERÉ SPAGNOLESCO DI CREMONA. 56

XXV - LA SOLLEVAZIONE DEL PAESE PER IL TRAFUGAMENTO DELL'ONOREVOLE MATTEOTTI 61

XXVI - L'ORAZIONE DI FILIPPO TURATI 67

XXVII - GLI STRILLONI DEL RE. 68

XXVIII - LA VIOLENZA PUBBLICA. 72

XXIX - LE LEGGI ECCEZIONALI NON SONO PIÙ DEL NOSTRO TEMPO. 75

XXXI - IL DIAVOLO CHE SI FA FRATE. 80

XXXII - NEL MONDO DEI RABAGAS. 81

XXXIII - IL NAUFRAGIO DELLE LIBERTÀ. 84

XXXV - CHI ERA FRANCESCO CRISPI 88

XXXVI - LA « IMMONDA CURÉE ». 90

FINALE. 92

 


 

ENTRATURA

 

Ricordo Benito Mussolini con quel suo paltoncino proletario, dal bavero rialzato. Il freddo milanese lo sentiva molto. Compariva tutto freddoloso nel mio studio di via Fontana 18, con una certa timidezza. Protendeva la testa con quei suoi occhioni di fuoco. Sovente, entrando, domandava: "Sei solo?". Non sedeva quasi mai. Passeggiava concitato e sviluppava i suoi pensieri rivoluzionari. Demoliva il regime del quale oggi è ricostruttore: monarchia, militarismo, parlamentarismo, capitalismo. Tutta roba che allora mandava all'égout.

Come era superbo Mussolini, coi suoi occhi luminosi che traducevano i bagliori della demolizione di tutto ciò che era borghese e legislativo! Non era per il parlamento: il luogo dei ciarloni nazionali. Il senato, puah!: istituzione da museo, ricettacolo di vecchiardi che non giovavano più a nessuno. Lo sciopero era il suo ideale di rivolta. Era dell'elevazione per il proletariato. Per vincere la "vil borghesia" non c'era che l'incrociamento delle braccia. Con le masse in sciopero, lo stantuffo della nazione rimaneva paralizzato.

Una mattina brumosa, Benito Mussolini venne da me trafelato a domandarmi come doveva salvarsi dal taglio delle canne del gaz. Era alla direzione dell'Avanti! da pochi mesi. L'amministrazione del giornale gli faceva subire delle umiliazioni. Mussolini aveva una famiglia da mantenere e le cinquecento lire di stipendio erano un'insufficienza. Era duro il pane socialista! Donna Rachele, me la ricordo fugacemente con la sua piccola Edda. Bionda. Buona donna di casa. Affezionata alla sua penuria.

Benito Mussolini aveva delle stravaganze. Un giorno che fu in vena di compere artistiche venne da me con un busto di Dante di gesso. Mi disse: "Tienlo che verrò a riprenderlo". È ancora in casa mia come il sovrano della lingua. Il suo ex proprietario avrebbe pietà di rivederlo.

Sovente lo accompagnavo al giornale. La sua conversazione mi interessava molto. Fattiva. Rivoluzionaria. Barricadiera. Produceva dei capolavori blanquisti. Una mattina Benito Mussolini salì in casa mia con la sua rivoluzione dicendomi: "Aiutami a trovare un titolo per il «mio giornale»". Passammo un'ora nella ricerca. Mi ha sbattuto via tutti i titoli scarlatti. Finalmente spuntò Il Popolo d'Italia.

Dopo qualche giorno mi chiese un romanzo per la sua appendice. Gli risposi: "Scegli".

"Dammi la Folla. Quanto vuoi?"

"Fai, tu."

Mi diede un biglietto da cinquecento.

La sera in cui divenne proprietario del Popolo d'Italia — quotidiano socialista — pranzammo insieme al Casanova coll'onorevole prof. Luigi Maria Bossi, l'illustre ginecologo genovese ucciso nel febbraio del '19, nel suo gabinetto di lavoro, dal furore pazzesco di un tunisino. Mussolini era nervosissimo. Non mangiò. Dico male, mangiò delle foglie di lattuga romana, inzuppate nel sale. Sembrava un selvaggio. Prendemmo il caffè al Biffi. Io e la mia compagna lo accompagnammo alla redazione del suo quotidiano, un piccolo studio disadorno e pieno del suo cervello. Lo salutammo con la penna in mano pronto a scrivere il suo articolo di fondo. Non ci siamo più riveduti.

Dopo quasi dieci anni, a una radunata al Cova, l'ho rivisto Presidente del Consiglio dei ministri, circondato da una folla di giornalisti dell'Associazione Lombarda.

"Ciao, follaiuolo, come stai?" mi disse Mussolini stendendomi la mano.

"Bene, e tu?"

"Che cosa stai scrivendo?"

Incominciai a biografarlo così come l'ho conosciuto e lo metto in circolazione.

 

I - IL GIORNALISTA SOVVERSIVO

 

Si rivelò dappertutto geniale. Trovò ospitalità dove ha voluto sostare. La sua fama di giornalista è andata crescendo cogli anni. Io l'ho trovato a Trento, redattore capo del giornale Il Popolo di Battisti. Non era un grande giornale. Faceva più della cronaca che della politica. La politica, nei possedimenti austriaci, dava molte noie a coloro che ne scrivevano. Si veniva chiamati nei gabinetti delle teste poliziesche, redarguiti, censurati, espulsi. Benito Mussolini subì tutte queste cose. In quel tempo il futuro duce del fascismo soffriva. Aveva una forte flussione alle gengive. Malgrado i dolori egli migliorava il suo tedesco e metteva assieme un martire della religione, una specie di Savonarola che gli hanno pubblicato Podrecca e Galantara, della ditta dell'Asino. In Svizzera, senza smettere di fare il giornalista, frequentava come uditore le università. Guadagnava poco. Era obbligato qualche volta a impegnare il pastrano o il superfluo. Durante l'esodo dei novantottisti italiani contrasse amicizia con M. Serrati. Le università gli hanno dato modo di salire nella coltura tedesca e francese. Le soste erano i suoi supplizi. Doveva pur troppo ritornare a quel qualunque lavoro che gli capitava, di facchino, di garzone, di imbianchino come il Costa. Il suo sovversivismo lo obbligò ad andarsene da due cantoni e quindi a ritornare nella propria Romagna.

In tanti trambusti difficilmente si resta giornalisti. Benito Mussolini a Forlì se ne è fatta una propria officina. Ha iniziato la Lotta di Classe. Ha radunato intorno a sé tutti i lettori proletari. Giunto nel 1911 si è rovesciato sul ministero Giolitti. Non voleva guerre di conquiste. Incitava a voltare le spalle agli ordini che chiamavano la gioventù in caserma per andare in Libia a schiacciare l'indigeno. Egli, come tanti altri che erano stati all'estero, aveva imparato che cosa volesse dire la colonizzazione. I boeri erano stati trattati bene dall'impero britannico! La colonizzazione fu tutto un volume di massacri. Mussolini è stato messo in prigione. La così detta "passeggiata militare" era avvenuta. Le stragi sono state compiute. Le impiccagioni in Piazza del Pane sono state registrate, e i corrispondenti esteri sono scappati dalla Libia, dove si ammazzava in massa come a Sciara-Sciat. Io tentai di penetrarvi da Siracusa, come penna dell'Avanti! Venni agguantato da un ordine di Giovanni Giolitti. Corsi a Roma e andai difilato a casa di Bissolati e lo incaricai di domandare spiegazioni. Giolitti gli ha risposto che se mi avesse lasciato sbarcare, sarei stato schiaffeggiato da tutta l'ufficialità in piazza di Tripoli. Leonida Bissolati è stato come stordito. Gli ha risposto poco dopo: "Alla faccia di Valera avrebbe pensato lui stesso".

I conquistatori non hanno senso di giustizia. Prevengono, impediscono, accusano o svillaneggiano. La solidarietà giornalistica d'allora è stata messa alla porta. I corrispondenti di guerra dell'Inghilterra e degli Stati Uniti sono andati a protestare dal governatore. I nostri rappresentanti della stampa, con alla testa Luigi Barzini, sono stati tutti per l'approvazione dei decimatori degli indigeni in blocco — compreso il deputato catanese De Felice.

Benito Mussolini è venuto via da Reggio Emilia direttore dell'Avanti! Aveva moglie e una figlia. I ghigliottinati del suo '93 lo avevano circondato di fama truce. Lo si diceva violento. Lo si paragonava ai terroristi. Si vedeva in lui una rivoluzione ambulante. Dalla sua piattaforma scendevano razzi, tizzoni incandescenti. Incendiava dappertutto. I vecchi del partito vedevano in lui un sovvertitore maratista. In poco tempo avrebbe rovinato il partito. Una provocazione poliziesca avrebbe trascinati tutti in una colluttazione sanguinosa. Era un tipo che suscitava gli orrori degli enragés di una volta.

Benito Mussolini stava per mettere piede in uno degli ambienti più ingrati e più pitocchi della penisola. L'Avanti! era il peggiore padrone d'Italia. Pagava da cane. I suoi amministratori erano avari, taccagni, rapaci, venali, capaci di affamare tutti coloro che cadevano nella loro rete. Con la scusa che il socialismo era povero o in lotta con la borghesia e con i proprietari, davano salari e stipendi che facevano accapponare la pelle. Si può dire che la gente che dirigeva l'azienda socialista esigesse su per giù quasi tutto per niente. Manoscritti gratis, traduzioni per poco o niente. Lavorare per l'Avanti! era una specie di onore. Benito Mussolini non aveva quasi da mangiare. Tutta la sua fortuna si riduceva a cinquecento lire al mese, quando il direttore del giornale borghese sfiorava le dodici o le quindici o le venti o le venticinque e più mila lire l'anno. Con le esigenze che ha la vita di un direttore di giornale, Mussolini si trovava sovente in bolletta. Come direttore gli mancavano il frak, lo smoking — due abiti indispensabili al mestiere. Una volta ha avuto l'impudenza di farsi pulire i denti. Cinquanta lire! Dio degli dei! non ne aveva in tasca che venticinque. Ha dovuto correre alla ricerca del resto. Il dentista fu inesorabile. Poi aveva la triste abitudine di soffermarsi alle vetrine dei librai e di leggere in tre o quattro lingue. Era un disastro. Rincasava o ritornava alla redazione con una perdita di venti o trenta lire. Erano i momenti dei suoi silenzi. Si raccoglieva sui volumi. Faceva di tutto per stare in piedi. Scriveva pure nella Folla articoli che scuoiavano, molto interessanti, ma pagati maledettamente male. Un giorno ho dovuto correre ad avvertire un amico comune che Benito gridava sommessamente aiuto. La cassa di partito suonava di fesso...

Egli dirigeva l'Avanti! con poche mani, con gente mediocre. Con collaborazione fiacca. Non poteva correre al megafono a propalare i bisogni del giornale quotidiano. Tentava di migliorare gli strumenti umani con un assiduo scambio di corrispondenza redazionale.

La ragione delle deficienze era la questione finanziaria. Il direttore osava, tirava via, aggiustava, rappezzava, mondava. Procurava di non essere deficiente nel notiziario. Gli è sempre mancato un cronista alla Leone Fortis. Prosa pastosa e nutrita di fatti. Avrebbe voluto che il quotidiano non sfigurasse davanti ai grandi avvenimenti. Le superbe tirature erano sempre del Secolo e del Corriere della Sera. Malgrado questa specie di umiliazione il quotidiano di Benito Mussolini fu sempre di una tiratura che ballonzolava intorno alle centomila copie. La politica estera era un po' trascurata. L'Alessandri a Parigi aveva un incarico troppo vasto: l'Impero Britannico, gli Stati Uniti, la Francia, le questioni coloniali e via.

Ci volevano dei milioni. Benito Mussolini non li aveva. La penuria non lo disgustava. Sperava nei giorni dell'abbondanza. La guerra era incominciata. Noi eravamo chiusi in una neutralità che opprimeva. Si diceva che l'Italia non sarebbe intervenuta. Ma dovunque si lavorava ad allestire la guerra. Era proibito annunciare che la preparazione si faceva sentire dappertutto. Il gruppo socialista si radunava a Bologna. Il Mussolini aveva già dei tentennamenti. La neutralità era scossa.

Non so quando avesse scritto che se l'Austria, imprevedutamente un giorno, turbasse casa nostra, allora, per la libertà, avremmo saputo bene agire di conseguenza. In redazione non era autoritario, ma faceva capire a tutti che era lui che comandava. "Stimo opportuno avvertirvi che non intendo di assistere continuamente a incidenti e a scenate. Del giornale sono io il solo, unico responsabile, di fronte ai socialisti e al pubblico, e sono io che senza preferenze o antipatie distribuisco il lavoro ai redattori, a seconda delle esigenze del giornale". Scrivendo a Libero Tancredi che dava molta importanza ai fischi politici, diceva: "Tutti gli uomini politici, me compreso, sono stati, almeno una volta in vita loro, fischiati. Nel caso di Labriola approvo la fischiata. Deploro l'aggressione. Purché, a furia di amplificazione, quell'aggressione che fu soprattutto «verbale» — non diventi fra poco — aiutando la fertile fantasia partenopea — un mancato omicidio o qualche cosa di simile. Approvo la fischiata, non tanto in odio alle opinioni tripoline del Labriola, quanto per gli atteggiamenti suoi, contraddittori e opportunistici.

"Cito la Massoneria e il Blocco. Lascio andare, come vedi, il triplicismo e i monopoli e il ministerialismo, ma per iddio, quando si scrive ciò che il Labriola ha scritto contro il massonismo socialista, non si viene poi, a breve distanza di tempo, ad esaltare la massoneria in quelle colonne del Lavoro diretto da quel Canepa che ha fatto ieri l'altro il reggicoda ai comizi Savoia. Altrettanto dicasi per il blocco: nel 1910 antibloccardo, tre mesi dopo sino all'alleanza con monarchici.

"Oh, insomma, qui non si tratta più di evoluzione di idee, ma di funambulismo che dice e disdice, rinnega oggi ciò che fu celebrato ieri, con una volubilità uterina.

"E allora: diritto di applaudire ed uguale diritto di fischiare. Ciò mi sembra, dopo tutto, squisitamente anarchico. Purché la fischiata non sia sistematica, perché allora diventerebbe la persecuzione e contro la quale insorgerei in nome della libertà.

"Alle polemiche sul giornale preferisco queste spiegazioni... epistolari".

Negli intervalli che gli concedeva l'Avanti! faceva delle conferenze che lo aiutavano a tirare innanzi e a fare conoscenze di compagni. Il partito era male provveduto di oratori intellettuali. Non aveva conferenzieri sbrigliati, nutriti, cresciuti uditori di università come Mussolini. Mandava in giro teste bislacche. Gente che veniva applaudita per cortesia o per ignoranza. Benito Mussolini aveva una preparazione maturata in Francia quando c'era l'affaire (Dreyfus) e quando si pubblicavano libri terribili come La fine del Mondo, Il mio vecchio Parigi, La mia ultima battaglia e la Francia ebraica di quello scrittore più terribile che si chiamava Edoardo Drumont. I grandi avvenimenti rossi erano suoi. Il '93, popolato dalle figure che ebbero le teste mostrate al popolo dal Sanson, era suo: un lettore assorbente una documentazione che non poteva essere di tutti. "Sta bene", rispondeva Mussolini ai cercatori di conferenze, "vi porterò Marat, l'amico del popolo, denigrato da una moltitudine di scribivendoli che avevano veduto in lui un tagliateste o un bevitore di sangue girondino."

Continuo a frugare nell'epistolario di Mussolini... Qui c'è della tenerezza.

 

"Caro, Bombacci, ho saputo che sei andato a costituirti per scontare quattro mesi di carcere. Hai fatto benissimo. Ciò ti darà pure il tempo di dedicarti allo studio. Coraggio e avanti!

"Io pure sento la nostalgia del carcere e quasi quasi ti invidio... Se hai bisogno di qualche cosa scrivimi pure. Saluti affettuosamente."

Mussolini

 

"P.S. — Caro Bombacci, molto bene, tutto quello che mi dici. Non bisogna chiedere grazie e nemmeno accettarle. Quanto ai libri io credo che tu possa farti mandare la nuova edizione delle opere di Marx, Engels, Lassalle (pagamento a rate) e ne avrai abbastanza per quattro mesi."

 

Considerava il suo posto direzionale il ponte del comando. Dava ordini e ramanzine. La prima strigliata è toccata a Francesco Ciccotti, il quale aveva dimenticato dalla telefonata parlamentare il grido fatidico dell'on. Caroti contro il governo. La seconda a uno che si firmava tre stelle e che si era permesso di fare il reporter a suo agio. Orazio Raimondo era divenuto un oratore parlamentare sommo in pochi giorni. Malgrado questo fatto era trascurato dai socialisti perché era passato un po' troppo sollecitamente al ministerialismo.

"Ti pare", gli domandava Mussolini, "che dopo otto o dieci giorni da che il Raimondo ha pronunciato il suo discorso si possa ritornarci sopra così diffusamente? Il commento andava fatto o telefonato la sera stessa e allora aveva la sua importanza; adesso è buono per l'archivio.

"Siccome i compagni di tutta Italia si interessano assai delle vicende socialiste del collegio di S. Remo, così ti prego di tenerli informati con brevità, soprattutto con sollecitudine."

 

"Carissimo Lazzari, permettimi di manifestarti — sia pure in linea confidenziale — tutta la mia meraviglia per la proclamata candidatura dell'avv. Marvasi in uno dei mandamenti di Roma.

"Non ho animosità alcuna verso di lui, ma ci tengo a ricordarti che egli è stato uno dei più smaccati esaltatori dell'impresa tripolina di cui sostiene ancora la necessità, ch'egli è un sindacalista e antiparlamentarista. A chiacchiere, si capisce.

"Inoltre è un reclamista di sé medesimo. Non so nemmeno se e da quando sia iscritto al partito. Anche il suo telegramma di sfida al Tittoni svela l'uomo che approfitta dell'occasione per fare la réclame ai suoi libri. Quella della candidatura Marvasi è stata una «trovata» più o meno felice, ma sempre una «trovata». Ti domando se la politica in genere e quella socialista in ispecie debba essere a base di trovate. Pare che questo sia il Sistema da Roma in giù. Ma la serietà e la coerenza del partito vanno a farsi friggere.

"Scusami lo sfogo e credimi il tuo amico e compagno."

6 giugno 1914                Mussolini

 

"Caro Marvasi, sono lieto, veramente lieto di leggere su Scintilla la tua strenua e commossa difesa del Socialismo e dell'Internazionalismo socialista, che, a sentire alcuni poveri di spirito, sarebbe «fallito». Nulla di più stupidamente falso. Si pretende — ed è ridicolo! — si pretende e si finge di credere che il Socialismo abbia realizzato, in 50 anni appena, quell'affratellamento dei popoli che il Cristianesimo non è riuscito a cementare dopo venti secoli dal giorno in cui il vagabondo di Nazareth lanciò agli uomini il suo grido immortale! È grottesco.

"L'Internazionale socialista non si è mai impegnata ad «impedire» la guerra, si è limitata a dichiarare che si sarebbe opposta. E tale opposizione — formidabile — c'è stata in tutte le nazioni. Ti segnalo nell'Avanti! di ieri, 12, in terza pagina, un elenco dei comizi tenuti in tutta la Germania dal partito socialista.

"Bisogna pensare che la crisi è scoppiata al 26 di luglio e che appena 6 giorni dopo il Kaiser dichiarava la guerra. Non è impossibile che tale precipitata decisione sia stata presa anche in vista della campagna anti-guerresca dei socialisti, campagna che avrebbe potuto assumere proporzioni ben maggiori.

"Questa guerra ci rimbarbarisce: credo che ci riporterà ai clans e alle tribù.

"L'Internazionale è nelle cose, è nella ineluttabilità degli eventi. Forse questa guerra, darà col sangue alla ruota il movimento!

"Ti saluto con amicizia."

12 agosto 1914   Tuo Mussolini

 

Mussolini prima di arrivare alla scissura presentiva lo sfasciamento del socialismo italiano. Non vedeva coesione. Non c'erano che uomini flosci. Brontoloni. Il Lazzari ne era forse il caporione. Egli brontolava anche in prigione, contro l'assenza delle cartoline vaglia. Il Lazzari, deputato, valeva poco. C'erano dei ruderi. C'erano dei cultori di collegi elettorali. Non pochi senza istruzione di politica estera. Molti litigi. Molti dissensi. La maggiore intelligenza era quella di Filippo Turati. Ma il suo ingegno andava tutto alla Critica Sociale. Se in lui ci fosse stata energia avrebbe potuto essere ministro con Giolitti e un probabile Presidente del Consiglio. Ha preferito il quieto vivere. Piuttosto che accettare il portafoglio e arrivare alla proclamazione del potere socialista, si sarebbe fatto ammazzare. Non era Benito Mussolini! Non c'era in lui che un grande ragionatore ed ipercritico parlamentare che sovente chiamava i ministri con parole che uccidevano. Giovanni Giolitti, ad esempio: Tiburzi, scaltro camaleonte, tutto intrighi e tranelli, ministro espediente. In quei giorni c'era in giro troppo prampolinismo: troppa quietudine. Si catechizzava. Il '98 e le beghe interne avevano rotto e infiacchito il partito. La guerra era incominciata. In Italia imperava la neutralità. Era un neutralismo che incombeva su noi come una cappa di piombo. Non si escludeva la guerra. Era un pertugio aperto al socialismo. Non si capiva come si potesse essere nella Triplice e vivere in neutralismo. O il regnante era un fedifrago o il popolo non era più con lui. Ecco il perché c'era da noi Bulow ed ecco perché Giolitti passava per un giullare. Il partito socialista, trincerandosi nella neutralità, aveva servito il governo che fingeva di astenersi da ogni movimento belligero, mentre lavorava a tutt'uomo per entrare in guerra.

Oggi parlando con alcuni ex deputati socialisti della passata legislatura ho avuta la stessa impressione. Se Turati avesse accettato il portafoglio quando gli è stato offerto, non si sarebbe veduto il partito socialista nel disastro come lo abbiamo veduto. Lo avrebbe tirato su. Sarebbe stato rispettato. Non avrebbe dato modo ai nemici di sconfiggere tanta gente. Turati sa orare, sa affascinare con la sua prosa, ma ohimè! non sa agitare, rivoluzionare, condurre le masse dove arde la passione per incendiare un movimento.

 

II - IL SOCIALISTA RIVOLUZIONARIO

 

Cerco una parola adatta ad accomodare lo spirito di Benito Mussolini in un tutto assieme senza sfigurarlo o spostarlo o guastarlo. Egli è quello che è. Come l'ho conosciuto. Come l'ho visto. Come l'ho trovato. Fu socialista, eminentemente socialista, Direttore del Socialismo. Le masse accorrevano a udirlo. Gola eloquente, metallica, fascinosa. I suoi denigratori lavoravano di soppiatto. Per vivere Mussolini doveva ammansare il suo rivoluzionarismo. Qualche volta spegnerlo. Egli aveva capito che circolava in mezzo ai fabiani della nostra razza. Moltitudini modeste, umili, prudenti che dovevano andare via adagio adagio. Bisognava pensarci. C'erano i tracolli, i disastri, i conflitti. Si predicava la cautela. Il '98 li aveva fatti rinsavire, anche senza volerlo. C'era sempre tempo di precipitarsi nei tumulti o nelle tragedie. Il parlamento non dava più che sdegni orali. Era l'impotenza. Bisognava bruciarlo come casa di lazzaroni. I deputati avevano abbassato il tono, bevevano alla coppa dell'umiliazione. Il giuramento che nessuno si sarebbe lasciato associare ai ministeri borghesi era della vita finita. Con loro alla Camera non c'era che il posto per le interruzioni asinesche e comiche dei Beltrami e dei Barberis. Il tempo di rovesciare le urne era passato. Filippo Turati era rimasto fedele alla formula di non imbrattarsi di borghesia. Ha rifiutato il portafogli. Benito Mussolini non appena gli fosse capitato sottomano lo avrebbe conteso coi pugni. C'era una volta all'Avanti! Leonida Bissolati, tempra di ferro, intransigente, giacobino, riassuntore di una edizione di Carlo Marx, capace di fare una rivoluzione. Un giorno venne circondato da un sottovoce. Si sussurrava ch'egli si fosse lasciato monarchizzare. Lo misi alla prova. Gli mandai un articolo antimonarchico. Non mi ricordo esattamente le parole. So che sciorinavo i Savoia come sanguisughe nazionali. La differenza fra noi e questi opulenti personaggi di reggia, era evidente. Aggiungevo che la testa della monarchia era una piovra. Quattordici milioni e duecentocinquantamila lire l'anno in oro purissimo, producevano una carestia spaventevole in tutta la penisola. Intorno a lei non vivevano che membri appannaggiati. Il parlamento aveva votato un milione alla regina Margherita. L'articolo mi venne restituito.

Secondo Bissolati "Gli articoli di Valera non si dovevano cestinare". Mi ha tappata la bocca. Non ho avuto più parole. Leonida Bissolati era finito cortigiano di monarchia. Consigliava Sua Maestà. Egli andava alla reggia in cappello molle e guanti paglierini o scuri. Alla chetichella Cabrini gli aveva tenuto dietro. Era un altro adulatore, piaggiatore di sovrani. È venuto al Congresso di Reggio Emilia carico di cortigianeria. Era anche lui un servo. Vi fu una strage monarchica. Benito Mussolini si era messo in manica di camicia e li aveva spinti tutti al muro, calcandoli l'uno sull'altro. Propose ai congressisti la loro espulsione dal partito. Egli volle e fece sopprimere l'autonomia al deputato che se ne serviva per fare il "vil cortigiano". È necessario, diceva, che il deputato esca da questi equivoci. I deputati, aggiungeva, devono ubbidire alla Direzione... Citò lo scandaloso discorso di Cabrini sul Calendario degli emigranti, il voto del prof. Graziadei, unico in tutta l'estrema sinistra, favorevole al mantenimento del giuramento politico. Rammentò la famosa seduta in cui la Camera ratificava il regio decreto d'annessione della Libia, mentre il gruppo non aveva poi avuto il coraggio di sabotare la manifestazione nazionalista. È stata una requisitoria. Ha biasimato le assenze del gruppo socialista che lasciavano passare le sedute più importanti, come quella sui sessanta milioni per le spese militari, pur sapendo che il proletariato detestava la guerra... I deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini, Podrecca li ha citati come scandali vivi.

Mussolini: "Il 14 marzo 1912 un muratore romano spara una revolverata contro Vittorio Savoia. C'era un precedente che indicava la linea di condotta dei socialisti. Si era già criticato aspramente lo spettacolo indescrivibile offerto dall'Italia sovversiva dopo l'attentato di Bresci a Monza. C'è un libro, che potete accettare con beneficio di inventario, del Labriola, la Storia di 10 anni, che vi dice come le classi alte dell'Austria Ungheria seppero accogliere la notizia della tragica fine di Elisabetta. Si sperava che, dopo dodici anni, non si ripetesse il veramente indescrivibile spettacolo di Camere del Lavoro che espongono bandiere abbrunate, di municipi socialisti che mandano telegrammi di condoglianze o di congratulazione, di tutta un'Italia democratica e sovversiva che a un dato momento si prosterna al trono. Difficile scindere la questione politica dalla questione d'umanità. Arduo separare l'uomo dal re. Ad evitare equivoci perniciosi uno solo era il dovere dei socialisti dopo l'attentato del 14 marzo: tacere. Considerare cioè il fatto come un infortunio del mestiere del re. (Bravo! Applausi.) Perché", continuava Mussolini, "commuoversi e piangere per il re, solo per il re? Perché questa sensibilità isterica, eccessiva, quando si tratta di teste coronate? Chi è il re? È il cittadino inutile per definizione. Ci sono dei popoli che hanno mandato a spasso i loro re, quando non hanno voluto premunirsi meglio inviandoli alla ghigliottina e questi popoli sono all'avanguardia del progresso civile. Pei socialisti un attentato è un fatto di cronaca o di storia, secondo i casi. I socialisti non possono associarsi al lutto o alla deprecazione o alla festività monarchica. Quando Giolitti dà l'annuncio dello scampato pericolo reale, tutti gli onorevoli scoppiarono in un applauso giubilante. Si propone un corteo dimostrativo al Quirinale e alcuni deputati socialisti s'imbrancano senz'altro nel gregge clerico-nazionalista-monarchico. (Bene.) E si va al Quirinale. Non so se sia vero quel dialogo che le cronache hanno riferito. Non c'ero, ma non è stato neppure smentito. Si dice che quella frase, oltremodo banale, non sia stata pronunciata. Non importa. So che vi è un telegramma «Pregovi di presentare a Sua Maestà il mio commosso e riverente saluto». E questo è il Bissolati, il quale, dodici anni fa, gridava: «A morte il re»". (Applausi a sinistra. Rumori sugli altri banchi.)

BISSOLATI: "No, no! Abbasso il re. La destituzione".

MUSSOLINI: "Non c'è grande differenza tra morte e destituzione. La destituzione è comunque la morte civile."

"E la banalità dei complimenti?"

"Bissolati elogia il coraggio del re che aveva la carrozza chiusa. Cabrini si sdilinquisce dinanzi la regina e ne riceve una lezione".

La donna non voleva neppure la supposizione che fosse timida o vigliacca.

 

III - IL CONVEGNO DI BOLOGNA

 

La rottura è avvenuta all'ultimo convegno di Bologna. Non si poteva continuare lo spettacolo della neutralità. I nostri alleati erano in guerra. O con loro o con i traditori. I Serrati, i Bacci, i Lazzari credevano di fare tutti assieme un Lenin. Nossignori! Benito Mussolini ha preso la ferrovia. Il giornale che gli dava cinquecento lire al mese non fu più suo. Giunto in S. Damiano corse di sopra, affagottò il materiale accumulatosi lungo la sua direzione e con una vettura filò al proprio domicilio. Giovanni Bacci non credette di averlo perduto. Egli sapeva che i suoi colleghi avevano dovuto disgustare il nuovo direttore. Agli altri, come a Claudio Treves, davano settecento lire. A Mussolini, con la scusa della povertà, avevano ridotto il mese di duecento lire. Lo raggiunse in famiglia. Gli gettò le braccia al collo e gli offerse un biglietto da mille con la promessa di un aumento. Fu tutto inutile. Il quotidiano era già nella testa dell'eresiarca. Trovò i locali in via Paolo da Cannobio. Si mise subito al lavoro di preparazione. Denari doveva averne trovati. Era la sorte di tutti i quotidiani moderni. Con gli sforzi individuali non si riesce a nulla. Essi esigono somme ingenti. Azioni, prestiti, contribuzioni, elargizioni, manate di biglietti da mille. Si sussurravano parecchi nomi. Il più insistente era quello del Naldi del Resto del Carlino di Bologna. Gli altri erano nella zona delle simpatie. Si è fatto un'inchiesta. Mussolini si è messo subito allo sbaraglio. Non ha esitato. Per tappare la bocca al quotidiano che usciva di tanto in tanto con l'interrogazione di Chi paga?, Benito Mussolini si è sottoposto alla Commissione investigatrice di tre insospettabili persone: del dott. Forlanini, dell'avv. Sarfatti e dell'avv. Poggio. Tutti i quotidiani moderni sono su per giù delle società anonime. Senza i versamenti dei banchieri e degli industriali e degli aderenti alle idee del giornale non potrebbero vivere.

A Mussolini non si è dato tregua. Lo si è circondato di sottovoci. Le tre figure che tenevano imbrigliato l'Avanti! come tre mazzieri, lavoravano dietro le quinte e facevano di tutto per fare entrare Benito Mussolini nella zona dei bluffisti. Egli doveva essersi venduto ai negozianti di Stato francesi o italiani! Della opportunità di abbattere il monarca austriaco che aveva imbestialito l'Italia tante volte e impiccato più cittadini che tutti i sovrani assieme, non si faceva parola. Pareva non esistesse. Dimenticavano l'interventismo che aveva tumultuato Roma per spingerla alla conquista dei confini patriottici e magari alla demolizione della dinastia attuale. In una parola gli Habsburgo non hanno fatto parte del problema di continuare la tradizione garibaldina per l'indipendenza dei fratelli aggiogati al carro dell'imperatore. Cioè di liberare gli italiani di Trento, di Trieste, di Gorizia, dell'Istria, e della Dalmazia.

Doveva venire l'attacco pubblico. Mussolini aveva cessata la polemica coi guanti. La prima testa abbaruffata dalle sue mani fu quella di Giovanni Bacci, considerato da lui uno zuccone. Gli è andato sopra coi piedi. Egli era venuto a cinquantatré anni senza avere letta una pagina di Carlo Marx. Con la penna in mano era un orrore. Lo ha pennelleggiato come un asino e un affarista. Scriveva e attraversava le sgrammaticature e la sintassi in disordine. Aveva sciupato molti anni a Mantova come un commerciante del ghetto. A poco a poco si era conquistato gratis la Provincia di Mantova che poi aveva venduto ai socialisti per sessantamila lire in contanti. Era andato in Romagna e coi denari aveva fatto molti altri denari. Era un rivoluzionario da operetta. Il suo nome era sempre stato sinonimo di denaro. Breve: ce lo ha presentato come il Gobseck del partito.

Tutte queste stroncature personali avevano urtato una massa abituata a ubbidire ai dirigenti e a credersi un proletariato superiore. Mussolini non veniva studiato, veniva riassunto. O era un traditore o un voltafaccia o un Rabagas. Chi paga? gli domandava il sottovoce. È venuta l'assemblea dell'esecuzione capitale. Era un'assemblea tumultuosa, riottosa, urlante per la testa di Benito Mussolini. Si è durato fatica a trovare un presidente. Si è tentato di sedarla, di dar modo all'accusato di difendersi, di spiegare il suo atteggiamento. Non è stato possibile. L'assemblea si arruffava, indemoniava, sgolava tutti gli improperi. Dai furori tumultuari pareva lo si volesse accoppare. È salito Serrati a implorare che lo si lasciasse parlare in un silenzio religioso. Utopia! Non appena Mussolini ha aperto bocca tutti volevano udirlo: forte! La voce dell'oratore si confondeva col baccano. "Voi siete più implacabili dei giudici borghesi. Se siete decisi che io sia indegno..." Vi fu una valanga di sì che rotolavano insieme sulla testa dei tumultuanti. Egli era pronto a sottomettere la questione morale e disciplinaria a una commissione indagatrice. "Voi credete di perdermi. Vi ingannate. Voi oggi mi odiate perché mi amate ancora. I dodici anni della mia fede socialista dovrebbero essere una sufficiente garanzia. Il socialismo è qualche cosa che si radica nel sangue. Quello che mi divide ora da voi non è una piccola questione, è una grande questione che divide il socialismo tutto."

Egli ha citato Amilcare Cipriani sul cui nome i socialisti di Milano avevano fatto una mirabile campagna. Ma Cipriani ha dichiarato che se non avesse avuto sulle spalle settantacinque anni sarebbe stato in trincea a combattere contro la reazione militarista europea che soffoca la rivoluzione. Il tempo dirà chi ha avuto ragione e chi torto in questa terribile conflagrazione che ha qualche cosa dell'epopea napoleonica. Waterloo fu del 1814. Chi sa che non ce ne sia un altro nel 1914. Chi sa a chi toccherà andare in frantumi.

È certo che Mussolini ha lievitato il proletariato. Lo si è visto con lui nelle assemblee e in piazza, sempre ai primi posti. Una volta camminavamo insieme. Veniva verso di noi a sprombattuto uno squadrone di cavalleggeri con la sciabola sguainata. Egli mi strinse sotto braccio. Non avere paura. Un fendente ci farà in due. Fummo separati da un colpo. Ci siamo trovati più tardi.

"Ma vi dico", riprese Mussolini, "fino da questo momento che non avrò remissione, non avrò pietà alcuna per tutti coloro che in questo momento tragico non dicono la loro parola, sia per paura dei fischi o per le grida di abbasso. Non avrò remissione nè pietà per i reticenti, per gli ipocriti, per i vili! E voi mi vedrete ancora al vostro fianco. Non dovrete credere che la borghesia sia entusiasta del nostro interventismo. Essa ringhia, ci accusa di temerarietà e paventa che il proletariato, munito della baionetta, possa servirsene per gli scopi suoi."

Viene in scena Costantino Lazzari, l'eterno brontolone. Non si voleva udirlo. Si era come stanchi. La sentenza non poteva essere che sommaria. Mussolini avrebbe voluto un atto di accusa. Da otto giorni non faceva che accusarsi. In questa sua opera vi erano gli estremi della indegnità politica e morale. Eccitava il pubblico contro i socialisti. Si precipitava con violenza su Bacci, Lazzari, Serrati. Voleva dare il fucile al soldato in nome del re. Il suo giornale portava sulla testata il motto Chi ha del ferro ha del pane, BLANQUI. E dall'altra parte La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette, NAPOLEONE.

Mussolini è uscito dalla assemblea con la faccia pallidissima, tremante di collera, mettendosi l'indice in bocca. Pareva dicesse: ci vedremo!

Egli è corso in stamperia, in via Paolo da Cannobio, e con la testa incendiata si è messo senza indugio a scrivere il suo commento. "Espulso? Se io volessi fare una questione di procedura, avrei diritto di mettere in dubbio la legittimità del voto, chiedere anzi se un voto, vero e proprio, ci sia stato, dato il modo col quale la discussione è proceduta dal principio alla fine, diretta in un modo sfacciatamente parziale, dall'assessore Schiavi. Ma io accetto il fatto compiuto. Mi ritengo espulso. La storia del socialismo italiano non ha nelle sue pagine, più o meno gloriose, una esecuzione più sommaria, più inquisitoriale, più bestiale di quella che mi ha colpito. De Marinis, Bissolati e gli altri subirono la pena capitale nel grande dibattito di congresso e fu concesso loro amplissimo il diritto di difesa e l'accusa fu portata alla tribuna, documentata, esauriente.

"Per me, no. Si è fatto il processo per direttissima. Un buttafuori qualunque ha presentato l'ordine del giorno più radicale — senza nemmeno sostenerlo; mi si è concesso — dopo molti stenti — il diritto di esporre il mio pensiero; poi Lazzari invece di recare un atto di accusa, ha ripetuto la solita insinuazione vigliacca. Non si è affrontata la questione politica, non si è prospettata la questione morale. Nulla. Se la Giustizia socialista è questa, in verità, c'è da preferire quella del magistrato Allara. Ma la geldra, che domina il Partito, voleva vincere ed ha vinto. Io sono espulso, ma non domo. Se essi mi ritengono «morto» avranno la terribile sorpresa di trovarmi vivo, implacabile, ostinato a combatterli con tutte le mie forze. Gli è per questo che mi sono foggiato l'arma colla quale illuminare il proletariato e sottrarlo alla mala influenza di cotesti falsi pastori. Ed io spero che nel proletariato dall'anima semplice e diritta si farà presto la luce. Non contro il proletariato, non contro le aspirazioni sacre del proletariato io muovo a battaglia: i proletari sanno bene che quando si trattava di assumere responsabilità nei moti di piazza, nei processi d'Assise, nelle campagne del Partito, io mi sono prodigato per un bisogno incoercibile d'azione, senza curarmi del pericolo, senza misurare la mia fatica. Ma voi, signori, che formate la élite dirigente del Partito, voi che parlate quando dovreste tacere, o tacete quando dovreste parlare; voi medagliettati, voi che sedete sugli scanni di Palazzo Marino, voi che avete preferito nascondere il vostro voto nell'amorfa e tumultuante levata di mano, voi che pur dovete qualche cosa al «Barbarossa» del giugno, voi passerete sotto le forche caudine. Comprendo l'odio, l'esasperazione dei proletari, ma il vostro silenzio reticente è il documento di una vigliaccheria che disonora sino all'estremo il socialismo italiano. Ma io sono proprio qui a guastarvi la festa. Il caso Mussolini non è finito, come voi pensate. Incomincia. Si complica. Assume proporzioni più vaste. Io innalzo apertamente la bandiera dello scisma. Non mi acqueto, ma grido; non mi piego, ma insorgo. Tutti i socialisti che rivendicano a se stessi il diritto di vivere e di pensare, tutti i proletari che non intendono piegarsi ai voleri di una congrega che pretende stoltamente di fermare il corso della storia e di dettare una legge eterna ed universale, tutti devono raccogliersi attorno a questo foglio — libera palestra di liberi spiriti — bandiera pura che l'insinuazione infame di gente «avariata» non riuscirà mai a macchiare. Un partito che «esecuziona» in questo modo è un partito nel quale gli uomini degni di questo nome non possono entrare o — tesserati — non possono, non debbono rimanere più oltre. Io li invito ad uscire e a cercarsi più libertà, più aria, più luce, più umanità, più socialismo!

"Ed ora — ricacciati nel fondo dell'animo mio ogni tristezza e ogni rimpianto — io affilo le armi, «tutte» le mie armi. Per il socialismo e contro i nemici palesi ed occulti del socialismo."

25 novembre 1914        Mussolini

 

 

IV - I TUMULTI DI PENNA E DI GOLA

 

Non ci fu più pace. Non fu più possibile la pace. Il volo di Mussolini fu un colpo mortale all'Avanti! Egli non volle più voltarsi indietro. La sua organizzazione era impiantata. Mussolini chiamava nuovi collaboratori intorno a sé tutti i giorni. Spronava il grosso contro gli "avariati". Il suo quotidiano andava su lentamente, ma saliva. Invadeva le province. Seminava dappertutto. L'Avanti! poltriva. Non aveva uomini geniali. Molti se ne staccavano. Di tanto in tanto Mussolini annunciava i trecento e più socialisti andati a lui come una fuga in blocco. L'Avanti! continuava a brontolare. Mai un impeto. Faceva solo circolare il sottovoce del mercato mussoliniano. Non lo si diceva venduto, ma lo si fiutava nella prosa del vecchio giornale di via S. Damiano. Mussolini non aveva paura. Si era presentato come Jaurès quando fu aggredito da tutte le penne e da tutte le voci.

Je vien me mettre à nu devant le prolétariat. Così Mussolini. Volle romperla con la maldicenza, coi maldicenti. Mi svesto. Fustigatemi con le vostre accuse. Lazzari lasciava supporre di essere pieno di segreti. Andò da lui con l'aria del bonaccione. Ti voglio salvare. Assunse il tono del gesuita. Ti voglio salvare. Tu stai per rovinarti. Domani o dopo cominceremo una terribile campagna contro di te. Bada a quello che fai. Mussolini non ne fu impressionato affatto. Si alzò con la faccia diffusa di sorriso. Egli era tranquillo. Fate, gli disse. Non accetto né l'avvertimento, né l'ultimatum minatorio. Neanche i mortai da 42 potrebbero farmi retrocedere. A mortificazione di tutti — "io sono pronto a pubblicare la convenzione in base alla quale il giornale è sorto". I socialisti dell'Avanti! venivano chiamatii i nostri boches. Il loro neutralismo era in frantumi. Non temettero fino a quando il governo non ruppe la quiete per entrare in guerra. Non erano combattenti politici. Non erano dei coraggiosi. Erano dei ruminanti impauriti in una baracca giornalistica. Avevano assunto un atteggiamento da oppressi o da sopraffatti. La loro giornata sarebbe venuta. Eh sì! Il popolo si sarebbe rifiutato. Sarebbe stato con loro. Invece la gioventù veniva portata via. Piegava. Si lasciava accalappiare. Il Paese era nella Triplice. Doveva portare la sua catena fino alla fine. Non gli si sarebbe permesso di divenire spergiuro. Il lavoro dei congiurati della terza internazionale non poteva smuovere una pietra. Era un gioco da fanciulli. Non si è saputo più niente. Si aspettava la scomparsa della neutralità senza speranza di urti. Serrati, Lazzari, Bacci, Bertini si sarebbero involati.

La direzione di Benito Mussolini era stata considerata prodigiosa per l'Avanti! In due anni aveva fatto salire la tiratura del giornale a quasi centomila copie. Mentre la direzione di Claudio Treves non era riuscita alle trentaquattromila. E a lui i Bacci davano settecento lire al mese; a Mussolini cinquecento.

Il sottovoce della maldicenza aggiungeva però che il romagnolo spopolava il partito di tutta la gente in considerazione. Pareva non tollerasse il personaggio. Aveva fatto espellere i Bissolati, i Cabrini, i Podrecca e i Bonomi per un gusto personale. Era andato a Roma a istigare Orazio Raimondo, il più grande oratore parlamentare del partito. I framassoni esistevano da secoli. Persone che non facevano che del bene. Frenavano indirettamente i malvagi. Coercizzavano i cattivi a diventare buoni. Contribuivano con delle quote a migliorare il partito. E lui, nossignore! si era incaponito per la loro espulsione. E così è avvenuto. Orazio Raimondo, malgrado la sua eloquenza, è caduto. Lui e tutti i suoi framassoni sono stati messi alla porta. Le dicerie malefiche non scoraggiavano Mussolini. Egli si era proclamato un maestro di energia. Diffondeva il rivoluzionarismo. Buttava giù gli idoli passati. Enrico Bertini, sfuggito alla critica, era stato còlto dalla mano mussoliniana. Avaro, spilorcio, negriero. Pagava tutti come un padronaccio. Favoriva la parentela. Le dava i posti a mano a mano che si facevano disponibili. L'uomo che voleva le economie fino all'osso, impediva l'entrata all'uomo geniale nell'azienda ma accettava personalmente il licenziamento con un grazie di quarantamila lire. Che razza di altruista! Quando penso ai Bacci, ai Lazzari, ai Bertini, padroni dell'Avanti! e del partito socialista trasalisco. Con loro tutto precipitava nell'idiozia e nella disfatta. L'elevazione degli asini a deputati è del loro tempo.

Ma il fattaccio più grave è stato la restituzione delle fabbriche. Gli operai socialisti le avevano conquistate con tanta fatica consenziente, pare, Giovanni Giolitti e poi il trionfo della gestione è divenuto una terribile disfatta.

Il 1919 resterà memorabile. Una striscia nera per la storia del proletariato italiano. I suoi capi, i suoi dirigenti, i suoi organizzatori non sono mai stati né coraggiosi, né audaci, né intraprendenti. Dietro loro ci fu sempre l'insufficienza. Con loro non si è mai avuto un moto rivoluzionario. Il '98 fu anch'esso un disastro di fuggiaschi o di spettatori con le mani in saccoccia. Ai tribunali militari non ci furono eroi. Filippo Turati si è rimpicciolito. Il Lazzari sapeva nulla di nulla. Era stato arrestato quando era in funzione del suo mestiere di viaggiatore commerciale.

Benito Mussolini cercava un uomo, il suo uomo che avesse accumulato un serbatoio d'odio per lui che lo aveva sloggiato dalla direzione dell'Avanti! Non occupiamoci della differenza di duecento lire di stipendio. È una somma che non può interessare né l'uno né l'altro. L'odio non può uscire che dagli attacchi nascosti o velati. Il giorno che Mussolini ha chiamato Palancagreca l'on. Treves, dalla sua bocca uscivano fiamme. Egli lo ha rincorso e gli ha rovesciato addosso una caldaia ardente di prosa liquefatta. Tutte le ingiurie sono state messe in movimento. Prima gli ha ricordato le settecento lire succhiate all'Avanti! dopo di avere tentato di assassinarlo col Tempo. Ma l'articolo che condusse al duello fu ancor più violento. Si direbbe che fosse stato scritto da un infuriato. Leggendolo ci si ricorda dei più fatali scontri personali provocati dalla prosa incandescente. Cavallotti e Macola. La prosa che sto per riportare è un saggio della efferatezza di Mussolini nei momenti della sua esasperazione ed è paragonabile a quella di Edoardo Drumont. Fu questi lo scrittore di prosa più impetuosa e inclemente degli scrittori del suo periodo. Gli israeliti del suo tempo parevano affondati in un inferno di vipere. Le vittime non sfuggivano ai loro vittimizzatori. Uno dei due duelli avvenuto fra Drumont, l'autore della Francia ebraica (l'opera più perfetta in fatto di documentazione umana), e Arturo Meyer, direttore del Gaulois fu un duello epico. Al tempo stesso eroico. Meyer, per paura o per stanchezza, prese con la mano sinistra la spada di Drumont e con la sua traversò la coscia dell'avversario. Fu una scena spaventosa, presente Daudet padre. Ci furono delle imprecazioni. Drumont era appena sfuggito all'emorragia. Ritorniamo all'articolo provocatore di Benito Mussolini. È della turbolenza e della ferocia o della convulsione spasmodica. La illustrazione sul Popolo d'Italia pure: un enorme cappellone piantato sugli omeri di un tronco umano, ventruto e medagliettato, da cui pendono — al piano dei testicoli — le sembianze di Treves.

"È un'altra fama usurpata che cade. È un altro nome che sotto la maschera livida del politicante professionale, denuncia la sua vera ribalda natura. Claudio Treves non è più... lui. È un altro. Il pubblico socialista e non socialista si era abituato all'immagine di un Treves che non andava mai in collera, che passava sorridendo o smorfiando cinicamente, attraverso le polemiche più ardenti e le battaglie del giornalismo e della politica. Si diceva di lui che non prendesse mai nulla sul serio, nemmeno il Socialismo, nemmeno S. M. il Proletariato e ridesse scetticamente, in cuor suo, di tutto e di tutti. Si elogiava — fin troppo! — la sua politesse stilistica, la sua virtuosità dialettica, il suo tono gentilomesco. Si riteneva che fosse impossibile «smontarlo» e farlo andare in bestia. Questo cliché del Treves circolava da molto tempo fra la gente tesserata e no. Il cliché è oggi da spezzare. Io sono riuscito — pungendolo e mordendolo nella viva carne — a mostrare il Treves intimo, il Treves ignoto, il Treves perfido, malvagio, volgare, schifoso — schifoso più dell'insetto che egli cita, forse perché ricorda di averlo portato o di portarlo sulla pelle — il Treves che non potendo rispondere con fatti ed argomenti ai miei fatti ed ai miei argomenti, scende al rigagnolo, diguazza nel fango, ruba il linguaggio agli straccioni del «ghetto» (o Palancagreca) e crede di potermi in qualche modo offendere, e crede di potersi in qualche modo salvare dalla gogna morale in cui l'ho solidamente inchiodato. Ci resterai, Palancagreca, alla gogna! Ci resterai fino a quando mi piacerà di assistere alle tue furibonde e grottesche contorsioni di «moglio»... fortunato prima della guerra, sfortunato dopo. Né ti giova saltare i fossi. Sei troppo astuto per non capire che quando ho detto che «la polemica col moglio Treves non poteva essere cavalleresca», intendevo dire che la polemica sarebbe stata — come è stata e sarà — senza guanti e non intendevo escludere qualsiasi altra soluzione, nemmeno quella contemplata nel Codice Gelli. Ciò è chiaro — per chiunque — dal contesto del mio discorso. Claudio, il Coniglio, sapeva e sa dove sto di casa. Paolo da Cannobio, 35 o Castelmorrone, 19.

"Gli stipendi. Io accuso Treves di essersi fatto pagare settecento lire anche quando l'Avanti! era in condizioni disastrosissime e dopo la direzione del «guitto» Bissolati, che ne prendeva soltanto trecento. Invidia, gelosia? Ma no. Io non temevo e non temo i confronti e le memorie con un giornalicida qualificato come Claudio Tremens. Memorie ci sono — purtroppo! — e sono quelle dei tradimenti proletari perpetrati da Claudio Tremens, ci sono le memorie di una megalomania amministrativa che consule Treves aveva ridotto all'estremo lumicino l'organone del Partito: ecco le «memorie» che devono angustiare, umiliare l'anima sinistra di Treves, non la mia.

"Confronti? Eccoli a edificazione di tutti. Il giornalicida Treves dopo avere accoppato il Tempo e spogliatone il cadavere, aveva ridotto all'agonia l'Avanti!, sperperando il milione e duecentomila franchi della Società Editrice. Durante la direzione Treves la tiratura dell'Avanti! oscillò sulle trentamila copie. Ho ricevuto l'Avanti! a ventottomila e duecento copie. Senza la collaborazione di Treves, l'ho portato sino alle novantaquattromila copie, cifra mai raggiunta da quando l'Avanti! esiste. Quando si vogliano stabilire dei confronti, chi deve arrossire è Palancagreca, non io: chi può menare qualche vanto sono io, non lui. Quando me ne sono andato dall'Avanti! la Direzione del Partito mi tributava con un ordine del giorno votato all'unanimità i suoi sentimenti di solidarietà, di affetto, di ammirazione per la mia opera valorosa ed efficace...

"Avrei — secondo Palancagreca — voltato faccia, per salire più rapidamente. Spudorato! Salire dove? Ma non ero già abbastanza in alto? Non avevo già toccato, a ventotto anni appena, il culmine delle ambizioni che possono lusingare un uomo? Non ho io fatto gettito di tutto — stipendi, posizione, collegio — per affrontare la più violenta tempesta dell'impopolarità? Io posso profondamente disprezzare uomini come te — lercio Palancagreca —, coscienze — come te — venderecce, mistificatori — come te — che sai fare a volta a volta il riformista e il rivoluzionario, il libico e l'antilibico, il neutrale e l'interventista, il ministeriale — ributtante — a Montecitorio e il demagogo — ancor più ributtante — in piazza.

"Ecce Homo!

"Ecco Treves, — faccia verde da sputi e da schiaffi — coi suoi quattro numeri negativi: politicante, rosso, gobbo, e — soprattutto — «moglio!» Una palanca greca di pietà per questo «moglio» diventato improvvisamente idrofobo, da quando io lo esposi al pubblico ludibrio. Ma il trucco è per sempre finito.

"Egli era una specie di serratura all'inglese. Aveva il suo «segreto». Per scoprirlo ed aprirlo e... imbestialirlo è bastato combinare un certo numero di lettere in modo che ne uscisse questa parola stregata: Palancagreca... Palancagreca."

28 marzo 1915   Benito Mussolini

 

 

V - L'EMINENTE RIVOLUZIONARIO DEL FRONTONE GIORNALISTICO MUSSOLINIANO

 

Augusto Blanqui, da noi, è rimasto uno sconosciuto. Se è citato da qualche burlone del socialismo italiano è per soffocarlo fra i quarantottisti, fra coloro che vivono e sognano e muoiono correndo dietro alla barricata. In verità Blanqui non ha un match nel socialismo europeo. Egli è solo. È un titano. È un gigante. È un faro di luce, di scienza, di progresso. Fu un miliardario di idee. Ne ha seminato un po' dappertutto. Non ha mai lavorato per sé. Non ha lavorato che per gli altri. Egli è stato uno dei massimi perturbatori di coscienze del suo secolo. Forse più di Proudhon. Circondato dalla calunnia, inseguito dalle persecuzioni, egli ha imparato a soffrire. Fu una vita alta, la sua. Vita pura, piena di sacrifici. Io non sono andato a Parigi senza correre al Père Lachaise a rivederlo disteso sul pietrone dove è stato deposto dal grande scultore Dalou. Nel marmo è infusa l'anima del grande rivoluzionario. Sulla sua faccia sono i suoi cinquantaquattro anni di lotta, di patimenti. Il suo corpo avvolto nel lenzuolo non impedisce al visitatore di raccogliere in un'occhiata il mezzo secolo delle sue tribolazioni. Egli è il martire principe del proletariato del suo tempo. Augusto Blanqui non ha quasi mai veduta la Francia. A 22 anni era rivoluzionario. A 72 ne aveva scontati trenta in prigione e venti in esilio.

Era nato a Nizza nel 1805. Nel '27 aveva già ricevuto una palla al collo sulla barricata di Saint-Denis di Parigi. Nella rivoluzione del '30 l'eminente sobillatore ha partecipato alla sollevazione per far cadere Carlo X, senza per questo divenire un filippista. Eloquente. Al processo egli ha evocato i morti di luglio, ha descritto la miseria proletaria, ha fatto passare sotto gli occhi dei giurati la curée (cuccagna) borghese e ha dato un la eroico ai caduti per spegnere la rapacità degli arrivisti d'allora. Predisse le rivolte e con la mano puntata fece vedere gli uragani provocati dal paese legale. I giurati affascinati dalla sua prosa tutta fiamme e tutto pensiero lo assolsero e i giudici lo condannarono per delitto d'udienza a un anno di carcere.

Con la prima condanna era incominciata la sua carriera. Nell'anno di prigionia il suo socialismo era divenuto adulto. In una sua pagina dice: "La ricchezza non ha che due sorgenti: l'intelligenza e il lavoro, l'anima e la vita dell'umanità. Se sospendete una di queste due forze, l'umanità muore". Il duello tra i lavoratori e i parassiti gli fece annunciare la decadenza della proprietà. Egli fu un ristauratore della uguaglianza sociale. Tra una sentenza e l'altra lo si rivide in circolazione nel 1839, quand'egli con Barbier — l'autore dei Giambi — ed altri si impadronirono dell'Hôtel de Ville, la fortezza municipale parigina.

La condanna per il tentativo insurrezionale è stata grave. Blanqui era divenuto un ergastolano. Non è stato liberato che dalla rivoluzione del febbraio 1848. Non ha respirato all'aria libera che pochi minuti. Egli ha ripreso subito il lavoro del rivoluzionario socialista. "La repubblica sarebbe una menzogna se dovesse essere la sostituzione di una forma di governo a un'altra. Non basta cambiare le parole, bisogna cambiare le cose. La repubblica è l'emancipazione degli operai, è la fine del regime dello sfruttamento, è l'avvenimento di un ordine nuovo che libererà il lavoro dalla tirannia del capitale. Libertà, uguaglianza, fraternità, questo motto che brilla sui frontoni dei nostri edifici non deve essere una vana decorazione teatrale. Non più illusioni! Non vi è libertà quando si muore di fame. Non vi è uguaglianza quando l'opulenza fa scandalo a fianco della miseria. Non vi è fraternità quando l'operaio coi suoi figli affamati si trascina alle porte dei palazzi. Del lavoro e del pane! L'esistenza del popolo non può rimanere alla mercé dei terrori e dei rancori del capitale."

I redattori della Rivista retrospettiva hanno tentato il suo assassinio morale chiamando il Blanqui del Club del Conservatorio un venduto. Egli è scoppiato. "E sono io, triste avanzo che trascina per le vie un corpo ammaccato sotto abiti rattoppati? Sono io che si fulmina col nome di venduto, mentre i valletti di Luigi Filippo, metamorfosati in farfalle repubblicane, volteggiano sui tappeti dell'Hôtel de Ville a diffamare dall'alto della loro virtù, nutrita da quattro portate, il povero Giobbe sfuggito dalle prigioni dei loro padroni? Redattori, siete dei vigliacchi!"

I blanquisti erano divenuti una forza. All'Assemblea Nazionale Blanqui con una eleganza fredda come una lama di Toledo denunciò i massacri di Rouen, dicendo che la Repubblica, pena la morte, doveva sollevare le sofferenze dei proletari e preparare l'avvento a uno Stato sociale più giusto. La reazione lo mise di nuovo in prigione. Ma anche sotto chiave Blanqui venne dichiarato l'autore della sommossa del 17 marzo e il più grande insurrezionale dell'epoca.

La figura fisica di Blanqui fu questa. Piccolo, esile, con la testa rasata come quella di un monaco, degna del pennello di Holbein. Occhi perduti nelle occhiaie fonde dardeggianti lampi fulvi. Viso ammantato di un pallore malaticcio. Corpo piegato sotto il triplice peso delle sofferenze fisiche, delle torture morali e della costituzione rachitica. Nulla era in Blanqui che rivelasse il cospiratore tenace e l'oratore indomabile dei clubs rossi. La rivoluzione in lui era un culto. Egli non attirava, dominava. La sua voce non affascinava. Era stridente, acuta, sibilante, metallica. Comunicava tuttavia la febbre. Sentiva di lui, del suo carattere, aspro, selvaggio, enarmonico. Voce che segava sovente i nervi. La sua caratteristica era la violenza fattistica. Vale a dire nutrita di fatti. Faceva discorsi energici, presentava mozioni virulente. Era sempre e dovunque freneticamente applaudito. Aveva un'immaginazione furiosa, uno spirito turbolento.

Della Comune non ha veduto che l'inizio. Thiers lo ha fatto agguantare come una vita preziosa e chiudere come ostaggio in una prigione di provincia. I comunardi hanno offerto al governo di Versailles tutti i loro ostaggi per riavere Blanqui. Thiers ha preferito la morte dell'arcivescovo di Parigi e degli altri in prigione fino all'80.

Sono stati gli elettori di Bordeaux che lo hanno restituito alla circolazione. Era il tempo dell'agitazione per l'amnistia dei comunardi nella Nuova Caledonia. Blanqui era il simbolo dell'agitazione. Il suo nome commoveva. I suoi scritti gli diedero un nome di grande intellettualista. Si ripubblicavano gli articoli dei suoi giornali La Patrie en danger e Ni Dieu ni Maître. La sua rientrata nella vita sociale fu una apoteosi fino alla morte. Non c'è stata città industriale della Francia che non lo abbia invitato a presiedere un comizio. È morto due anni dopo la scarcerazione, cioè nel gennaio del 1882. È stato accompagnato al Père Lachaise da una fiumana di lavoratori. Coloro che vi hanno assistito hanno dichiarato che nemmeno Victor Hugo e che neanche Victor Noir hanno avuto tanta folla come l'illustre rivoluzionario compianto da tutta la Francia rossa. Blanqui per i vigliacconi è stato un illusionista. Per coloro che aspirano alla ricostruzione sociale è stato un rivoluzionario di bronzo. Veneriamolo.

 

 

VI - POLEMICA AUTOBIOGRAFICA

 

"Voi, o signori del Carlino, che non avete avuto ragione di rifiutare a Libero Tancredi la pubblicazione della lettera ch'egli mi ha diretta, avete ancor meno ragione — io ritengo — di respingere questa mia risposta, anche se non sarà necessariamente molto breve.

"Comincio col dichiarare — e ciò non sembri cinismo paradossale — che non mi dolgo affatto dell'appellativo che il Tancredi mi affibbia. Dinanzi gli avvenimenti tempestosi dell'Europa odierna, gli uomini che non «fanno» la storia, ma devono limitarsi ad osservarla, sono un po' tutti uomini di paglia, anche se si chiamano Tancredi. D'altra parte se «uomo di paglia» è colui che si contraddice talvolta nella sua qualità di uomo pubblico e privato o si contraddice fra il suo ieri e il suo oggi, io potrei presentare una magnifica collezione di «uomini» di paglia. Dovrei, naturalmente, fare delle indiscrezioni, sollevare dei veli, recare nel tumulto della moltitudine ciò che fu detto e pensato nelle ore e negli abbandoni confidenti dell'amicizia... quando — conversando — ci si mette da più opposti punti di vista. Non lo faccio. Ma non mi dispiace che Tancredi — nel suo disperato e pazzesco tentativo di conciliare l'anarchia collo Stato e col militarismo borghese — porti nella circolazione i brandelli — scelti ad arte — delle nostre interminabili discussioni e cerchi invano trascinarmi dall'altra parte della barricata fra gli apologeti del grande macello.

"Carte in tavola e parole chiarissime. Di che mi accusa il Tancredi coll'avallo compiacente del Carlino? Di non aver saputo dare al giornale che dirigo una direttiva sicura, ecc. Si può pensare accusa più balorda? Si può avanzare pretesa più assurda? Che cosa si intende di dire? Per dare una direttiva «sicura» a un giornale, mentre tutta l'Europa frana, mentre tutto si capovolge e si sovverte, mentre si compie colla guerra una delle più grandi liquidazioni della storia, e il ieri non è più, e il domani non ancora si delinea, per dare a un giornale una direttiva sicura durante questa colossale umwälzung di valori materiali e morali, bisogna o avere il cervello di un genio che vede e prevede tutto, o il cervello di un idiota che accetta il destino senza indagarlo.

"Ma se non sono un genio, non sono nemmeno un idiota. E non mi vergogno di confessare che nel corso di questi due mesi tragici, il mio pensiero ha avuto oscillazioni, incertezze, trepidazioni. E chi dunque fra gli uomini intelligenti d'Italia e di fuori non ha subìto — più o meno profondamente — il duro travaglio di questa crisi interiore? E dov'è in Italia il giornale che dall'inizio della guerra ad oggi abbia seguito una direttiva sicura? Chi me lo sa indicare? Forse l'Idea Nazionale, triplicista agli inizi e antitriplicista oggi? Forse il Resto del Carlino? Ma se lo stesso Popolo Romano, funerario e quindi... proclive all'immobilità, è stato dapprima triplicista e poi, dopo l'intervento inglese, si è convertito alla causa della neutralità... E forse che queste mie incertezze sono rimaste custodite come un segreto o non si sono invece fatalmente e necessariamente riverberate sul giornale? E allora lo «sdoppiamento» di cui favoleggia Tancredi dov'è? Chiunque abbia seguito l'Avanti! avrà notato il corso del mio pensiero.

"Sono stato francofilo — nel senso politico e sentimentale della parola — sino al giorno del Patto di Londra; poi gli avvenimenti e una più chiara conoscenza della situazione hanno attenuata la mia francofilia. Quando poi ho saputo che nelle carceri della repubblica ci sono centinaia di detenuti politici del carnet B, quando ho letto gli articoli di certi giornali francesi autorevoli non sequestrati e nei quali si propugnava la «spartizione» della Germania sconfitta, quando sono venuto in possesso di altri elementi dei quali parlerò quando lo crederò opportuno, i miei entusiasmi francofili hanno subito un altro più marcato raffreddamento: allora mi son detto e l'ho stampato in uno di quei tali articoli che scrivo più frequentemente di quello che il Tancredi grafomane non pensi, che la vittoria della Triplice Intesa rappresentava per l'Italia e per la causa del socialismo il «minor male».

"Oggi io sono ancora francofilo e non mi son «rimangiato» nulla, egregio contraddittore, ma mi rifiuto di esaltare superficialmente la guerra della Triplice come una guerra rivoluzionaria democratica o socialista — secondo la volgare corrente opinione dei circoli massonici o riformisti. Quanto all'intervento dell'Italia, è questione da esaminare ormai da un punto di vista puramente e semplicemente «nazionale». Reazione e rivoluzione non c'entran più o assai indirettamente.

"Orbene, tutti coloro che hanno letto durante questi due mesi l'Avanti!, avranno notato questa grafica del mio pensiero. L'antitesi fra il mio «me» pubblico ed il mio «me» privato non esiste: quello che turbava la mia coscienza di uomo si rifletteva per necessità di cose nella mia opera di pubblicista, ed è stato notato, infatti. Questa dello sdoppiamento è una stupidissima fola.

"E le prove della mia «duplicità» spirituale e politica, della mia doppiezza, come rincara il Carlino? Eccole, secondo le misteriose rivelazioni di Libero Tancredi. «Io so pure — scrive Tancredi — che tu hai parlato a me delle classi che l'Italia dovrebbe mobilitare per intervenire e mi hai fatto l'elogio del fucile 1891 e hai dichiarato che alla guerra contro l'Austria tu avresti partecipato con entusiasmo.» Ebbene che cosa c'è di eccezionale in tutto ciò? Di compromettente? Di doppio? Ma non l'ho scritto pochi giorni fa polemizzando con Hervé, che se l'Italia vuol andare a Trento e a Trieste deve mobilitare due milioni di soldati? E fare l'elogio di un fucile per le sue qualità tecniche o dire che gli alpini sono degli eccellenti soldati, significa forse affermare la necessità urgente di una guerra all'Austria? E nel caso di guerra dell'Italia all'Austria non ho sempre detto e stampato — anche ieri — che l'atteggiamento dei socialisti italiani, o di gran parte di essi, sarà «praticamente» diverso? Non ostile, ma in certo senso simpatico? Dov'è dunque l'antitesi «perfetta» di cui va cianciando l'allegro Tancredi? Dell'impreparazione militare non ho parlato solo «privatamente» col Tancredi, ma anche pubblicamente sul giornale. Tale impreparazione esiste tuttora, Non spetta a voi occuparvene, dichiara il Tancredi. Ah dunque: noi dobbiamo predicare la guerra e non curarci nemmeno di sapere se questa guerra sia possibile, dal momento che per farla non bastano gli articoli e le conferenze di Tancredi? Sarebbe il colmo dell'incoscienza. Ignora, dunque, il Tancredi che — ai primi di ottobre — l'Italia non potrebbe mobilitare che le sole otto classi dell'esercito permanente, secondo dichiarava uno scrittore nell'ultimo numero della Preparazione, organo militare?

"I miei giudizi sulla neutralità (governativa) li mantengo ma tra quelli pubblici e privati non v'è differenza di sorta. Ho detto e ripetuto — pubblicamente e privatamente — sul giornale e in una assemblea di partito a Milano — alla quale, se non m'inganno, era presente lo stesso Tancredi — che l'Italia ufficiale è «imbottigliata», inchiodata nella sua neutralità. Colpa di chi? Non certo dei socialisti. Ho detto, ho scritto e ripeto che l'Italia poteva fare la politica della «grande potenza» ai primi d'agosto, stracciare il trattato della Triplice Alleanza, unirsi alla Triplice Intesa e con questo gruppo tentare la buona e la cattiva fortuna. Se non l'ha potuto, o non l'ha voluto fare, la colpa non è dei socialisti. È giudicando le cose da un punto di vista nazionale o di obiettività critica, che io ho avuto momenti di ripulsione contro questa neutralità governativa, che è bassa, mercantile, non illuminata da qualche speranza; una neutralità di ripiego, degna di gente che vive alla giornata. Ma questa situazione non siamo noi che l'abbiamo creata. Non siamo noi che dobbiamo espiare le conseguenze di tutto un indirizzo di politica estera, antinazionale dal 1860 ad oggi. Le classi dirigenti italiane sono nel cul di sacco delle loro contraddizioni, insufficienze, colpe: ci restino! Questo ho detto qualche volta al Tancredi, il quale — pur ricordando tanti particolari insignificanti — dimentica il nodo centrale delle nostre discussioni. Il quesito che io gli ponevo e gli pongo, il quesito unico e chiaro e formidabile è questo: può il partito socialista assumersi la iniziativa e la responsabilità di una guerra? Tancredi rispondeva: No. E Lorand mi dichiarava, in altra occasione: «Non vi chiediamo tanto!» E Filippo Naldi del Carlino, in altra circostanza, conveniva che «non si poteva pretendere che il partito socialista assumesse l'iniziativa della guerra».

"Non l'iniziativa, dice Tancredi, ma nemmeno l'«opposizione». Orbene tutti sanno che la nostra opposizione ha avuto un carattere particolarissimo nei riguardi di una guerra contro all'Austria-Ungheria. Sin dai primi di agosto il governo sapeva che la nostra ostilità alla guerra avrebbe cambiato tono e forma a seconda delle circostanze: violenta, insurrezionale, nel caso di guerra contro la Francia, ideale e «legale» nel caso di guerra contro all'Austria-Ungheria.

"No, non ci siamo giovati dell'ignoranza delle masse per incitare il Governo a tradire il Paese. No. Il Governo non può crearsi un alibi qualsiasi attraverso il nostro atteggiamento. Se lo tentasse, sarebbe un governo suicida. La nostra opposizione alla guerra è stato un movimento di propaganda socialista di diffusione di principi e nulla più. Quando noi infatti, accettavamo la chiamata delle classi senza fissarne il limite per difendere la neutralità, venivamo ad accettare in massima la mobilitazione stessa. Una campagna — di fatto — contro la guerra avrebbe dovuto cominciare coll'opporsi al richiamo delle classi. Il carattere della nostra opposizione alla guerra è dunque precisato: né il manifesto famoso viene ad alterarlo. Vi si parla, è vero, di opposizione alla guerra ma non si accenna nemmeno allo sciopero generale che alla vigilia di una guerra io ritengo appunto — e potrei anche ingannarmi — un disastro e una follia.

"Che cosa rimane ora dell'acre ritorsione tancrediana? Nulla o ben poco. Il Tancredi è un anarchico-fenomeno: un anarchico che esalta la guerra e vorrebbe spingere l'Italia alla guerra. Ora, se v'è qualche cosa che comincia ad essere un po' repugnante, è appunto questo anarchismo che maschera le sue inversioni intellettuali e politiche sotto il pretesto comodo e... simpatico dell'eresia. Se v'è qualche cosa di «scorretto» è appunto questo giovarsi della qualità di «anarchico» per accreditare in un certo qual senso la propria merce intellettuale e rendere dei servigi alla classe borghese.

"Se v'è qualche cosa che dovrebbe finire è Libero Tancredi, o... Massimo Rocca. A scelta. Qual è fra i due «l'uomo di paglia», che io mi riservo di presentare domani? Massimo Rocca o Libero Tancredi?

"A l'uno e all'altro io dico — concludendo — che non conosco «adattamenti» per amor di stipendio. Sono troppo «irregolare» nella mia vita per nutrire di queste preoccupazioni. Sappia Tancredi che l'anno scorso mi dimisi da direttore dell'Avanti! per un dissidio assai lieve coi miei compagni della Direzione del Partito. Lezioni di dignità non ne accetto da nessuno, ma meno che meno poi, da Massimo Rocca. Il cui caso è infinitamente pietoso! Ecco un uomo che — sentendo crescere ogni giorno il grottesco e l'immoralità della sua posizione intellettuale e politica — si afferra a tutto pur di avere dei compagni e dei complici nella sua rovina. È tanto basso che non si accorge di mentire, narrando episodi insussistenti, come quello del prof. Pirro, mentre non sente l'elementare pudore di avvertire che io non ho mai accettato il suo punto di vista...

"Non è certo da siffatto campione che io posso accogliere — caso mai — l'imposizione di risolvere i «miei casi» di coscienza. Il consiglio deve partire da altre bocche e quanto all'ora, la scelgo io!"

Milano, 8 ottobre 1914  Benito Mussolini

 

 

VII - FILIPPO CORRIDONI TRIBUNO DEL PROLETARIATO

 

Tipo che mi piaceva. Egli fu il materazzo degli agenti di questura. Una volta nelle loro mani gliene davano quante potevano. Si ha un bel nasconderlo sotto il silenzio o sotto le frasi di Salandra che lo ha chiamato il tribuno del proletariato. Egli è rimasto fino agli ultimi giorni del neutralismo un oratore atteso a botte. Una volta era riuscito a sottrarsi con la fuga in fondo alle latrine di piazza del Duomo. Lo hanno raggiunto e gliene hanno date fino a farlo diventare paonazzo. È entrato in S. Fedele come un brigante. Urtato, sbattuto, vituperato. Ansante, con la faccia tutta sottosopra. Con le mani agitate, nervoso fino alla esasperazione. Questa fama di cliente che doveva essere domato a pugni era uscita dalle sentine di Milano. Come agitatore era stato paragonato a John Burns, un riottoso di tutti i riottosi delle officine e dei selciati londinesi.

Lo trovai una domenica a Parma, oltre torrente. Non lo hanno lasciato finire di mangiare. Doveva essere subito portato a Milano. Lo si desiderava al Cellulare. Così addio discorso. Non so se lo abbiano battuto prima di sostare in carcere. So che è stato caricato nel treno verso sera. Non so perché non c'è mai stato un ministro che abbia fatto punire severamente gli agenti prepotenti che vilipendevano e scarnificavano il detenuto. Vi fu un momento che tra lui e Mussolini era nata un'abbietta calunnia. Non si sapeva dove il Corridoni l'avesse potuta raccattare. O documentare o sottomettersi. Fu affare finito. Non c'era più ragione di revolver. Si sono trovati sulla stessa piattaforma degli interventisti.

Io lo incontravo prima della guerra sovente nelle vie strette e isolate, con qualche libro francese in mano. A quel tempo leggeva Musset. In prigione il cappellano gli dava tutti i libri che poteva. Gli si voleva un mondo di bene. Sindacalista, scriveva articoli tracotanti. Qualche volta, come nei paraggi di porta Garibaldi, orava dall'alto dei trams. Malgrado le sue molte malattie, era un atleta. Studiava girando da un quartiere all'altro; prendeva i treni, correva sui piazzali dove era aspettato e aveva finali che facevano tramortire le polizie locali. La rivoluzione, venisse dall'Oriente o dall'Occidente, non aveva mai ritardi in lui. Era sempre a sua disposizione. Parlava di Giacobini, di Girondini, di regnanti che avevano abbandonato il trono con la fuga. A poco a poco era riuscito dotto. Conosceva si può dire ogni movimento. Nelle conversazioni sapeva subito intervenire con l'erudizione. Conosceva il tradunionismo. Sapeva in quali paesi erano cadute le teste malvage dei regnanti e dove erano state sostituite dalle repubbliche. Si può dire senza dubbio che egli fu uno spoltritore di masse. Orazioni di uomo che si abbandonava alla fantasia. È partito vestito da soldato. Aveva l'aria di essere allegro. Si voltava indietro commosso a salutare e a stringere le molte mani che lo salutavano.

I medici mi hanno spaventato. Aveva molte seccature fisiche. Era tubercolotico. Aveva le vene varicose e portava le calze di gomma. Come noia aveva anche una fistola all'ano. Gli venne operato un fiemmone al fronte, qualche giorno prima di morire. Non parliamo del suo sangue. Come tutti quelli che hanno fatto la vita attraverso i bassifondi, glielo avevano infettato. Un altro con tanti malanni si sarebbe preoccupato di se stesso e avrebbe tentato di ricuperare la salute. Lui invece si gettò a capofitto nel movimento dell'indipendenza d'Italia e andò fino alla morte senza voltarsi indietro.

Io che avevo fatto il garibaldino nel '66 e non potevo più avere gli anni utili dovevo arrossire.

Tutti sanno come sia caduto. Fu una morte trionfale. Uscito all'assalto dalla trincea delle Frasche, incoraggiava i compagni cantando la canzone di Oberdan. Prima di giungere alla trincea nemica era caduto bocconi. Non ci fu di mezzo che qualche minuto. Una granata austriaca completò la tragedia. Non lo si trovò più. Era stato polverizzato o distrutto. Nessuno ha saputo più rintracciarlo. In un attimo era passato alla storia. Nessuno poteva dimenticarlo. I compagni che gli avevano voluto tanto bene, ne udivano ancora la voce che diffondeva la grandezza di morire per la patria. Ha avuto l'aria di un dominatore di folle. In piazza del Duomo fu ricordato per un pezzo, dove ogni sera faceva il suo discorso sui gradini della cattedrale. Fu geniale. Con tanta vita vissuta avrebbe lasciato un volume dei suoi ricordi. Non ha avuto tempo di scriverli. Povero Corridoni!

 

 

VIII - L'HOMME QUI CHERCHE DE «LA FOLLA»

 

Sono articoli ambientati, scritti da Benito Mussolini nei stratagli del suo tempo. Magnifici, densi, istruttivi, cesellati, vittoriosi.

 

Giovanni Giolitti, il latitante

 

"Giovanni Giolitti è stato «assente» dalla Camera lunedì scorso quando fu portato alla tribuna il martirologio ventennale del proletariato italiano. Le assenze ingiustificate diventano latitanze. Il latitante è un colpevole. Giovanni Giolitti non ha avuto il coraggio di andare in piena Camera a difendere la sua politica di sanguinose sopraffazioni. È rimasto nell'ombra. Ha mandato innanzi il suo aiutante di campo, l'on. Falcioni. Gli stessi giornali conservatori non trovano parole per giustificare la latitanza del Presidente del Consiglio. L'uomo che nel 1900 iniziò il nuovo periodo della sua carica parlamentare magnificando la resurrezione delle plebi agricole, oggi le lascia massacrare senza sentire il bisogno di pronunciare una parola elevata — al disopra dei partiti, al disopra delle versioni — che esprima il rammarico per tante vite così tragicamente spezzate. Giolitti è rimasto colla psicologia e colla mentalità immutate del vecchio questore. Per lui non ci sono le cause profonde, lontane, irresistibili dell'eccidio. No. C'è la folla dei rivoltosi, dei sovversivi, anche quando si tratta di fanciulli e di donne che vanno incontro ai fucili, sventolando una bandiera tricolore e c'è la polizia che spara, per mantenere l'ordine. Nel cervello di Giolitti, l'«ordine» perfetto è quello che nel 1863 regnò in Varsavia dopo la terribile repressione dell'infame Morawieff. In Italia i cittadini monturati sono dei privilegiati. Per loro non esiste il codice. Uccidono e nessuno li trascina alle Assisi. Circolano in mezzo a noi, colla divisa insanguinata. Diventano istituzioni intangibili. Giungono ai supremi onori della gerarchia. Sono encomiati, medagliettati, commendatizzati, cordonizzati. Sul loro petto c'è tutta una bacheca di chincaglierie. Sono le colonne della società. In un altro paese che non fosse l'Italia, l'agente assassino sarebbe subito processato e in caso di assoluzione, allontanato e ricacciato tra la folla anonima. In Italia, no. Diventa un eroe. L'opera del Governo è nefasta per due ragioni: primo, perché lascia immutate le condizioni speciali che rendono da noi così frequente l'eccidio; secondo, perché schiaffeggia il sentimento popolare che invoca e non ottiene giustizia. Quella del Governo è una seminagione di odio di classe, è una scuola di violenza. Non ce ne addoloriamo. Constatiamo. L'eco delle proteste socialiste, non è giunta attenuata o moribonda, alla Camera. Tutto un pomeriggio è stato dedicato ai massacri di Rocca Gorga. Il fatto è stato sviscerato, analizzato, tonalizzato. Non c'è stata seduta tempestosa, perché la maggioranza giolittiana non ha osato interrompere o ghignare la freddura forcaiola, l'interruzione idiota, come altre volte. Il ventre della Camera si sentiva a disagio. Ha taciuto. Il resoconto non dà che poche interruzioni dell'on. Sonnino e dell'on. Padulli. Quest'ultimo è un illustre ignoto. Dev'essere uno dei tanti crapauds du marais. Gli oratori sono stati all'altezza del loro compito. Genuzio Bentini è stato possente. Ha commosso, trascinato. Egli ci ha presentato la tragedia nella sua luce sanguigna, nei suoi elementi di umanità e di miseria. L'on. Campanozzi si è imposto alla Camera. Quest'uomo riesce a farsi ascoltare. È riuscito malgrado la marcatissima antipatia che l'on. Giolitti nutre verso di lui. Campanozzi ha ricostruito il fatto. Lo ha ambientato nel luogo e nello spazio. L'on. Eugenio Chiesa è stato, come al solito, documentale, preciso, categorico. Ha schiacciato l'on. Falcioni. Anche gli altri oratori dell'Estrema Sinistra sono stati efficaci. L'on. Falcioni ha parlato come un deficiente.

"Tutti i giornali sono unanimi nel stroncargli il discorso. Si è limitato a riferire le risultanze della tendenziosa inchiesta ministeriale. Nient'altro. Non si è elevato dalla prosa del rapporto poliziesco. Nessuna analisi dell'episodio, nessuna considerazione d'indole sociale, nessun sintomo di ravvedimento per l'avvenire, ma la giustificazione recisa dell'uso delle armi. L'on. Falcioni ha compiuto l'apologia del massacro di Rocca Gorga. Ecco tutto. Non siamo così imbecilli da meravigliarcene. E adesso? Se il Governo crede di aver posta la pietra sepolcrale sulla discussione, s'inganna. I morti di Rocca Gorga torneranno alla Camera. L'on. Bentini ha convertito l'interpellanza in mozione. Benissimo! E la mozione dev'essere firmata e sostenuta da tutto il Gruppo Socialista. Intanto il proletariato deve prepararsi a rispondere collo sciopero generale alla politica di reazione e di sangue di Giolitti. Pur troppo dieci anni di scissione nel Partito Socialista e nel proletariato, hanno creato in tutta Italia una situazione difficile. Il sentimento rivoluzionario si è illanguidito. Plaghe che parevano ribelli, rivelano sintomi di inaspettata debolezza. Dopo gli eccidi del 6 gennaio, solo nel ferrarese c'è stato un movimento di protesta di una certa ampiezza.

"Uno sciopero generale — facilitato dalla disoccupazione cronica — della durata di ventiquattro ore e dopo otto giorni. Il parmense che aveva un morto in casa — il quarto eccidio nel volgere di pochi mesi — non si è mosso. Si è tenuto un comizio di protesta dopo ben quindici giorni e non c'era la grande folla. I giornali sovversivi sono un vituperio. Le loro corrispondenze sono l'ignobile sfogatina di tutta la perversità e la spudorataggine del sovversivismo provincializzato. Piccole beghe, piccoli uomini! Una caterva di idioti che si atteggiano a superuomini. In fondo, anche pusillanimi. Magnifici cianciatori. Posano a cerebrali e hanno il cranio smobiliato: senza inquilini e cioè senza idee. Sono gli eterni critici, ipercritici, insoddisfatti. Quando odiano non hanno che un bersaglio: il Partito Socialista. E la zavorra del sovversivismo. Questa gente iperbolizza se stessa e la propria missione. Taluni che dirigono una Camera del Lavoro di mille soci, si credono capaci di dirigere i destini del mondo. Sono riconoscibili dalla grimace laida dei geni incompresi. È questa la più fastidiosa categoria di mortali. Preferisco i curatori di fallimento. Finché il proletariato non si libererà dalla tutela di questi spostati nell'intelligenza e nella vita, egli non sarà mai libero. Una volta l'esodo dei borghesi dalla loro classe, significava carcere, esilio, sacrifici. Oggi non più. Il liceale bocciato, l'universitario mancato, il filisteo parassita che abborre il lavoro manuale, non corre che un solo pericolo: quello di non ricevere puntualmente lo stipendio. I permanents formano già la nuova burocrazia del proletariato. Sono ronds de cuir dell'avvenire. Nella vita privata sono dei gaudenti. Sono già estranei alla tragedia proletaria. Assistono, non vi partecipano. Sono già i «patroni». Questi, che visti da lontano, paiono degli apostoli e degli asceti, visti da vicino si rivelano quali sono: degli epicurei nel volgare senso della parola.

Quanti Padri Zappata nel sovversivismo italiano! Se il proletariato italiano non si libera di quelli che speculano — materialmente — su di lui, egli non diventerà mai maggiorenne ma resterà eternamente pupillo. Basta una sola giornata di rivoluzione per veder operarsi colla rapidità del fulmine la selezione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli e i mestieranti, fra i coraggiosi e i vili, fra quelli che fuggono a 60 chilometri all'ora quando suona la diana del più grande pericolo e quelli che rimangono al loro posto, tranquillamente, senza voltar le terga al nemico."

 

I sinistri alla riscossa

 

"Anche il Partito Socialista Italiano ospita nelle sue mura un cavallo di Ulisse, pericoloso come quello che determinò la caduta di Troia. È pieno di «sinistri». Sino a ieri, tacquero, aspettando. Oggi che gli avvenimenti incalzano, i sinistri che di Ulisse greco hanno la furberia e non il coraggio, escono dai ripari e con molta sofistica prudenza si accingono a combattere. Noi siamo pronti a rintuzzarne gli attacchi qui e altrove. I duci li conosciamo.

"A Genova, c'è il rubicondo onorevole Canepa, quello che si intenerisce per la sorte dei borsisti. Il Lavoro da lui diretto è una continua deplorazione dei metodi inaugurati dall'Avanti! e dalla Direzione del Partito. Gli sta sullo stomaco il binomio Lazzari-Mussolini. A sentire l'on. Canepa — autonomo che partecipa al congresso dei «destri» — (pochi uomini rimarrebbero nella posizione politicamente superanguillesca del Canepa) il Partito Socialista è sull'orlo dell'abisso. L'on. Canepa può andare al diavolo, quando vuole. Il Partito Socialista Italiano sta rifiorendo malgrado le insidie dei destri, l'ostruzionismo di molti sinistri e l'apatia di qualche rivoluzionario che riduce il rivoluzionarismo a una questione di semplice intransigenza elettorale. Adesso scendono in campo i generalissimi dei «sinistri». Ci sono nell'ultimo numero della Critica Sociale due articoli... sensazionali. Sono le grosse batterie d'assedio che entrano in funzione, contro l'Adrianopoli rivoluzionaria. Non preoccupatevi. Sono, per il momento, tiri di prove, a salve. Ci troviamo dinanzi ai due luminari del riformismo italiano: Turati e Treves. Il primo è guardingo. È inutile seguirlo nel suo esame delle cause che condussero al trionfo dei rivoluzionari a Reggio Emilia. Fu, egli dice, una «raffica» scatenatasi dagli abissi dell'imprevedibile. Questa è una frase iperbolica. Per noi fu un atto naturale. Il Partito volle liberarsi dall'aberrazione monarchica rappresentata da Leonida Bissolati, come nel 1892 e nel 1906 si era liberato dall'aberrazione anarchica e sindacalista. Le accuse di intolleranza, di inquisizione colle quali i diversi Podrecca volevano cattivarsi le simpatie proletarie, sono cadute. I destri non recitano più — neppure Cabrini, il cuore dolce della compagnia — la commedia piagnucolosa in cui si atteggiavano a vittime innocenti.

"Bissolati lo ha dichiarato superbamente, altezzosamente al 1° Congresso dei destri: «Noi siamo stati cacciati perché lo abbiamo voluto!» Ed ora Turati ammette che quella di Reggio fu in un certo senso «vera e giusta condanna». Dopo aver dichiarato che permane il «comune bisogno e desiderio dell'unità del partito» Filippo Turati manifesta ancora una volta la sua acuta inveterata fobia dello sciopero generale. Costantino Lazzari ha esplicitamente proposto di dichiarare lo sciopero generale all'indomani del primo eccidio ed ecco Turati a definire «fantasma fosco» lo sciopero generale di protesta, dietro al quale non bisogna vaneggiare. La ragione addotta dal Turati, è un sofisma. Un sofisma sottile. Mettiamo in soldoni l'aut-aut turatiano.

"Perché non si deve fare lo sciopero generale? Perché il suo successo presuppone una grande maturità di coscienza e di forza nel proletariato. Tante grazie! Ma quando tale forza e tale maturità esistono, lo sciopero generale, afferma Turati, è inutile ed assurdo. E chi lo ha detto? Al contrario. Quando il proletariato sarà forte e maturo, lo dimostrerà, immobilizzando, sia pure per uno sciopero di protesta contro gli eccidi, tutta l'attività del mondo borghese. L'avversione dei riformisti italiani per lo sciopero generale non è di origine teorica, ma volgarmente elettorale. È il ricordo delle elezioni del 1904. Uno sciopero generale alienerebbe ai candidati socialisti le simpatie di quella massa amorfa che costituisce i ceti piccoli borghesi. I socialisti del Belgio e dell'Ungheria non hanno queste preoccupazioni squisitamente filistee. I socialisti ungheresi sono alla vigilia di uno sciopero generale di protesta contro un progetto di legge reazionario. Se l'on. Turati si trovasse a Budapest egli terrebbe ai magiari questo strabiliante discorso: «Non effettuate lo sciopero generale o rimandatene l'esecuzione al giorno in cui sarà... inutile. Non fatelo adesso perché siete sicuri dell'insuccesso, non domani, perché sarebbe inutile. Conclusione: grattatevi l'ombellico».

"Mentre la Critica Sociale circola in tutta Italia, a Napoli è scoppiato lo sciopero generale. È il commento alle sibilline disquisizioni della C. S. Insomma, quando un popolo che non sia di venduti e di smidollati vuole protestare sia per gli eccidi, sia per il pane, contro la politica pazza del governo; questo popolo abbandona le officine, i campi, gli uffici, le botteghe, le scuole, si rovescia nelle strade, invade le piazze, tumultua sotto gli edifici pubblici, fa lo sciopero generale, lo sciopero generale, lo sciopero generale.

"Questi non sono i latinucci del socialismo; è il socialismo in azione. O è dunque vero che il riformismo italiano è fisiologicamente incapace di concepire quella che Carlo Marx chiamava con frase divinatrice (suffragata dalle recenti scoperte del De Vries e dalla ormai universalmente accettata teoria delle «mutazioni rapide») la «evoluzione rivoluzionaria»? O è dunque vero che il socialismo italiano dev'essere sempre inferiore agli avvenimenti? assente nelle grandi crisi della storia? Sarebbe una verità terribile. Noi la respingiamo.

"Segue l'on. Treves, il littérateur del riformismo sinistro. Dopo Bissolati, anch'egli dà al discorso pronunciato dal Mussolini alla Camera del Lavoro di Milano una interpretazione bislacca. Quando si vuol combattere con facilità la tesi opposta, si comincia col rovesciarla e col renderla irriconoscibile. Vecchio spediente. Per il Treves «ci sono dei riformisti che tornano a sognare improvvise miracolose conquiste del potere politico, mediante l'imprigionamento dei quattro rappresentanti dell'autorità in ciascuno degli ottomila comuni d'Italia: nel quale imprigionamento consisterebbe tutta la rivoluzione». L'on. Treves dice sul serio o scherza o fa della caricatura? Perché «quattro» rappresentanti e non cinque? Quattro possono bastare a Gorgonzola, non basterebbero a Napoli. Quella di Treves è una boutade. Nessun rivoluzionario ha della rivoluzione un concetto così puerile da ridurla a un semplice episodio che in determinati casi può tuttavia imporsi come una necessità.

"I contadini a Vincennes «legarono» infatti il più alto rappresentante dell'autorità regia: Luigi XVI (sarebbe stupido sintetizzare in quell'episodio tutta la rivoluzione francese, ma sarebbe ancor più stupido non riconoscerne la grande significativa decisiva importanza). Spieghiamoci. Cominciamo col dichiarare che noi crediamo fermamente nella rivoluzione, come «fatto». Quelli che l'hanno relegata fra le impossibilità sociali, non sono dei socialisti. Giovanni Jaurès aveva negato la possibilità di guerre continentali. Si è ingannato. La storia lo ha irrefutabilmente smentito. Per la stessa ragione si era negata la possibilità delle rivoluzioni. E in quest'ultimo quinquennio ne sono scoppiate tre: in Turchia, in Portogallo, in Cina. Un giorno o l'altro saremo svegliati da una nuova rivoluzione in Spagna. Si era detto: guerre e rivoluzioni sono impossibili perché fra le nazioni e fra le classi c'è solidarietà d'interessi. Il tessuto sociale è estremamente complicato. Ogni lacerazione è un disastro sia per chi la provoca sia per chi la subisce. Ciò malgrado assistiamo alle guerre che sono immani lacerazioni, come domani assisteremo o parteciperemo a una di quelle «mutazioni rapide» per cui le società umane fanno d'improvviso un formidabile balzo innanzi. Perché la rivoluzione, una rivoluzione trionfi, è necessario che essa sia simultanea e decentrata. Occorre che vi partecipino non solo i grandi centri, ma tutti gli ottomila comuni d'Italia.

"Lo smontaggio dell'enorme macchina governamentale deve essere rapido tanto ai centri come alla periferia. Una rivoluzione slegata, una rivoluzione fatta dalle città, senza la partecipazione delle campagne, finirebbe in una catastrofe... Quindi quella che noi vagheggiamo è proprio una rivoluzione di classe, cioè, di tutta la massa proletaria, in tutti i luoghi: dalle città alle borgate, da queste ai villaggi. La rivoluzione francese non è solo l'opera di Parigi. Così la rivoluzione sociale non può essere l'opera di una sola parte del proletariato... Ciò posto, la distinzione tra forza e violenza è bizantina. Non sempre la violenza è manifestazione di forza, ma spesso la forza si esprime colla violenza. Ecco perché Marx ha definito la violenza «la levatrice della storia». (Bisognerebbe proporre l'espulsione di Marx dal Partito, per questi tre motivi: 1° perché fu processato — e assolto — alle Assisi di Colonia per incitamento alla rivolta armata; 2° perché apologizzò la Comune di Parigi anche in quelli che furono i suoi «eccessi»; 3° perché in quasi tutti i suoi scritti ricorre ostinatamente il concetto di rivoluzione e di violenza... La proposta d'espulsione deve partire dall'on. Canepa.) Secondo l'on. Treves «il determinismo classico marxista oppone la classe che è la forza, ai gruppi che sono la resistenza perché essa è una dottrina di rivoluzione e non di rivolta», e l'on. Treves ne deduce la seguente pericolosa illazione, quantunque sotto veste anodina. «Ogni abuso di iniziative violente per opera di gruppi idealisticamente privilegiati è una usurpazione manifesta sui diritti rivoluzionari della classe, i quali maturano nell'organizzazione sindacale.»

"Fermiamoci un po'. Contestiamo che il determinismo classico marxista abbia creato questa opposizione fra classi e gruppi. Che cos'è l'Internazionale fondata da Marx, se non una Federazione di gruppi per l'imminente Rivoluzione? E nel concetto riformistico non è forse il Partito cioè un gruppo idealisticamente privilegiato che si impadronisce anche colla violenza del potere politico in nome e per gli interessi della classe? Per mettere a disposizione di questa, come dice l'on. Treves, i mezzi e gli strumenti di produzione? E non siamo dinanzi a una potente usurpazione dei diritti rivoluzionari della classe?

"L'on. Treves non contesta l'uso, sibbene l'abuso di iniziative violente da parte dei gruppi idealisticamente privilegiati (come i Partiti; aggiungiamo noi). E allora precisiamo: l'usurpazione manifesta sui diritti rivoluzionari della classe (diritti che la classe può e «non» può far valere) è condannabile solo nell'abuso o anche nell'uso? Ecco un dilemma elegante. Ai partiti è riservato l'uso delle iniziative pacifiche.

"L'on. Treves sogna un partito di eunuchi. Siamo assai vicini al «ramo secco» bissolatiano. Mentre per noi il Partito è arbitro e responsabile delle sue iniziative. Come ha risvegliato la classe dal suo millenario silenzio, così può precederla o sostituirla nelle iniziative rivoluzionarie.

"Per l'on. Treves concepire la lotta di classe come una guerra guerreggiata è «funestissimo» e non socialista. La lotta di classe dovrebbe essere per l'on. Treves una pacifica, continua contrattazione fra datori di lavoro e proletari. Non si va al socialismo attraverso a una strada irta di triboli, ma vi si scivola per un cammino di rose. Niente guerra guerreggiata! Noi siamo pacifisti!... Per l'on. Treves, che ha già oggi nella società borghese quello che forse non potrebbe avere nella società socialista, la lotta di classe concepita tragicamente, come voleva Carlo Marx, costituisce un assurdo antisocialista.

"Ma il proletariato delle officine, delle miniere, dei campi ha ormai ben chiara la nozione di trovarsi in stato di guerra guerreggiata contro la società borghese...

`'E ci sono i guerrieri che soffrono e combattono, come ci sono i Trevisti che sghignazzano. Volete dunque in odio alla «eroicità», ridurre il socialismo a una partita computistica? Volete dunque, in odio a Nietzsche, farci tornare a Bastiat o a Lamennais?"

 

L'homme qui cherche

 

 

IX - IL COMMEMORATORE DE «LA COMUNE»

 

Era stato preceduto da Arturo Labriola, oratore vertiginoso che andava con bracciate di episodi in mezzo alla Comune. Benito Mussolini era più sobrio. Faceva capire che per occuparsi della Comune bisognava amare il Terrore, correre dietro agli avvenimenti insurrezionali, divinizzare il patibolo, celebrare i Danton, agitare il 14 Luglio, le date più rosse della storia dei nostri avi. Benito Mussolini con un listone di nomi arrotolato sul dito, andava sulla piattaforma dell'ex Camera del Lavoro di via Crocifisso e agguantava per prima testa quella del refrattario Jules Vallès, presentandola come il campanello presidenziale che stormiva per l'ultima volta nell'ultima seduta della Comune. Je puis mourir, ha detto il grande Jacques Vingtras, nell'ora delle sue recriminazioni. Egli non sapeva più dove rifugiarsi nella grande Parigi. I versagliesi erano rientrati, le fucilazioni continuavano. La Comune non era durata che sessantasei giorni, ma la decimazione si avvicinava alle trentamila teste.

Mussolini continuava dalla piattaforma, senza scalmanarsi, andando avanti e indietro, a documentare. I rientrati peggioravano il grande ambiente. Uccidevano senza pietà. Blanqui aveva fatta tanta prigione da stancare i carcerieri di vederlo. Dopo 28 anni ne erano stufi. La Patrie en Danger fu il suo organo rivoluzionario. Uomo d'azione, era stato condannato a morte. Non poteva vivere senza cospirare. Durante la Comune doveva servire di scambio. L'arcivescovo di Parigi sarebbe stato messo al largo, se i versagliesi avessero liberato Blanqui. Si è indugiato troppo. Le autorità di Versailles tendevano al doppio gioco. Thiers si vendicava. Lo storico borghese aveva avuto in fiamme la casa e la superba biblioteca. Cose atroci che non si capiscono che in momenti rivoluzionari.

Mussolini proseguendo la ricerca delle figure che avevano torreggiato durante la Comune prendeva Jourde — un tipo magnifico di proletario — che si era adattato a maneggiare i milioni della Banca di Francia, senza uscire dalla miseria e lasciando la moglie al fosso a lavare biancheria. La povera donna non si era staccata dalla propria clientela. Il suo marito, delegato alle finanze, non aveva dato ai soldati della rivoluzione che sei sous, buoni per morire di fame. In fondo era un taccagno. I giudici per questa sua taccagneria non sono stati teneri. Lo hanno mandato lo stesso alla Caledonia.

Benito Mussolini aveva una vera attitudine per l'oratoria comunista. Saliva ai culmini. Entrato nei supplizi e negli uragani arroventava l'atmosfera e incendiava il suo uditorio. Si è messo a lavorare Felice Pyat, uno dei collaboratori del '93 di Hubert. Il Pyat era il più conosciuto dei comunardi. Non aveva che sessantun anni. Letterato e scrittore formidabile. Aveva seminato un po' dappertutto i suoi romanzi tragici, affollati di materiale scarlatto. Caligola ucciso da Tasca fu uno dei suoi spettacolosi successi. Era un vecchio che faceva ancora invidia. Ritto, con una bella capigliatura folta, avviata all'ingrigiatura. Aveva l'aria di essere un giornalista passato sul corpo di Victor Hugo. Incominciava il suo giuoco di penna alle cinque. Si riassumeva bene, ma non mai come il maestro. Le cose vedute di Victor Hugo non sono tutte della Parigi comunarda. "La mia fede è democratica; il mio titolo franchezza; la mia esistenza, l'esilio; il mio compito, la vita."

Fu lui che scrisse l'avviso elettorale per la muraglia parigina della Comune.

"Oggi il voto! domani il fucile!

"Non astensioni!

"Contro questa gioventù dorata del '71, figli dei sansculottes del '92, io vi dirò come Desmoulins:

"Elettori, alle vostre urne!

"O come Henriot:

"Cannonieri, ai vostri pezzi!"

La commemorazione mussoliniana è stata frastornata da un applauso fragoroso.

Mussolini riprendeva a celebrare il giornalismo barricadiero.

Il Père Duchêne era un gaillard della strada che aveva con lui molti altri gaillards, pronti a morire. Il suo direttore Raul Rigault era il procuratore generale della Comune. Laureato. Aveva fatto gli studi al collegio di Versailles. Barba nera. Sguardo acuto. Pince-nez. Frequentava il caffè d'Harcourt. Alla mattina prima egli aveva dato l'ordine di sopprimere l'esistenza di Jecker, il banchiere messicano che la Comune aveva messo sotto chiave a Sainte Pelagie per punirlo di avere dato molto denaro al duca di Marny per la costruzione sanguinosa del Due Dicembre. Il suo giustiziere, giovane riottoso, era pedinato dai versagliesi in Parigi. È stato trovato che discendeva, nella via Gay Lussac, da una amante che aveva riveduta per un ultimo bacio.

"Chi siete?"

Rispose aspramente. Indossava un costume di comandante federale con i risvolti rossi. Pochi minuti dopo era in terra, nei guazzi del proprio sangue. Aveva il cranio spaccato in due. Gli misero della paglia nella fessura, per renderlo meno orribile. Per rigenerare rivoluzionariamente la Francia aveva idee di un imperatore romano.

Delescluze fu il delegato della guerra. Figura bassa e melanconica. Vestiva sempre in borghese. Tuba, soprabito grigio, con sciarpa rossa sotto la redingote. Grigio: barba e capelli. Egli era convinto che non ci fosse più nulla da fare. Si è avviato, non si sa dove, a fare un bagno, a mutarsi la biancheria e a indossare i migliori abiti del suo armadio con le scarpe di vernice. Non si sa come sia stato colpito. Si sa solo ch'egli è salito sulla barricata del boulevard Voltaire. È stato trovato cadavere. Aveva indosso un lapis, con manico d'avorio, un orologio d'argento, un bastone dal pomo d'oro. I sepoltori della Comune avrebbero voluto dargli un posto eminente. "Non facciamo un altro Baudin!" disse il generale incaricato della funzione funebre. — Ci sarebbe stata un'altra processione di visitatori.

La chiusa della commemorazione è stata un uragano. Mussolini è uscito nella strada in mezzo ai battimani degli uditori che inneggiavano alla rivoluzione sociale.

 

 

X - IL ROVESCIATORE DI MONARCHIA

 

Bastava un'aspirazione nell'aria. La si sentiva. Forse era con noi. La si fiutava. La si odorava nelle parole dei discorsi. Si parlava di regime. Bisognava stornirlo. Avrei voluto una pioggia torrenziale di esecrazioni che mi impedisse di ascoltare. Si sussurrava di insurrezioni. Sembravamo in una specie di febbraio in Francia, ai tempi di Luigi Filippo. Dove si andava? Con tanta calma la repressione non sarebbe avvenuta in questi giorni. La si sarebbe fatta finire con lo Stato che si serviva ancora del sistema di nascondere alla nazione quello che avveniva. Era ora di finirla con questi Stati trappola. Erano passati otto mesi senza che si sapesse dove diavolo si andava. La sollevazione non era apparsa, ma non poteva essere lontana. Domani poteva essere sulle piazze ad agitare e commuovere. Vedevo i questurini, gli agenti e i soldati sparsi un po' dappertutto. Non vi si sentiva l'ammutinamento dei soliti ambienti rivoluzionari. Non c'erano ancora parole fiere, decisive. C'erano frotte di giovani pronti a prendere il fucile. Mancava una voce. Chi sa? Non se ne vedeva il colore. Non se ne indovinava il motivo. A che tendevano? Forse a salvare il trono, il re, il Presidente dei ministri: tutta roba gloriosa e antirivoluzionaria che ci avrebbe lasciati tranquilli. È quasi sera e sono ancora in piedi le bandiere dell'ordine. Che cosa si "lavora"? Badate che non avvenga il contrario. È avvenuto così anche nel 1830. Truppe e guardie regionali finiranno sempre per scindersi. I loro interessi sono diversi. Per spazzar via Giovanni Giolitti sarebbe stato necessario di adottare il sistema della baionetta in canna. Abbasso Giolitti! Tutti ne parlano male. Gabriele D'Annunzio gli ha rovesciato addosso quintali di sudicerie. Mussolini ha il suo giornale pieno di melma per Giolitti. Altri, altra pestilenza letteraria. La borghesia pareva e non pareva. Non la si capiva. Corridoni era già un altro individuo. Non aveva più paura delle guardie di S. Fedele. C'erano altri ordini. Allora? Avevano dovuto incominciare le ostilità. Mussolini lavorava ancora la "corona". Gli pareva che la dinastia costasse troppo per quello che dava. Era una dinastia parassitaria. Bisognava licenziarla. A poco a poco era necessario insegnare ai cittadini la via d'uscita. Fino a quando saremmo stati sottoposti a un personaggio coronato, noi ci saremmo sempre trovati a tu per tu con una guerra civile. È la storia incominciata con il primo uomo. Lo spirito della resistenza era dovunque. Le minacce incominciarono a triplicare. Io seguo quello che scriveva il direttore del Popolo d'Italia nel 1915. Colpi di mitraglia, colpi di proiettili. Era una devastazione che poteva essere minacciata, preparata, scatenata.

"La neutralità è — senza dubbio — il regime perfetto per abbrutire i popoli. Eppure, malgrado il pessimismo che ci soffoca, noi ci rifiutiamo ostinatamente di credere che il «sacro egoismo» debba inchiodare per sempre l'Italia alla gogna della neutralità." Diceva Mussolini, terminando il periodo. "Ma intanto chi sa nulla? Il re, e bisogna metterlo seriamente in discussione, non ha saputo — in otto mesi — che mandare uno dei soliti telegrammi al sindaco di Roma, per l'anniversario del XX Settembre. E niente altro. Molti monarchici cominciano a chiedersi se valga la pena di pagare con sedici milioni in oro un re che non sa assumere — nemmeno nei momenti tragici della storia — un atteggiamento che non sia casalingo e filisteo. Se è necessario di avere semplicemente un Capo dello Stato allora si può scegliere meglio e spendere meno. A un re borghese, io preferisco un Motta qualunque (presidente) di una qualunque Svizzera.

"Questa incapacità organica dei Savoia a vibrare coll'anima della nazione, questa loro deficienza dinanzi allo svolgersi degli avvenimenti, è documentata, pagina per pagina, in tutta la storia del nostro Risorgimento. Quando Vittorio Emanuele II — il meno peggio di tutti, perchè aveva almeno delle capacità «fisiche» di soldato — entrò in Roma, uscì in questa famosa e banale esclamazione in dialetto piemontese: Finalmente i suma. Il «Ci siamo e ci resteremo!» è un'invenzione successiva dei cronisti monarchici. Il nipote del «padre della patria» che cosa pensa, che cosa vuole? Pensa e vuole qualche cosa e pensa e vuole soltanto attraverso il cervello di Giovanni Giolitti? Non chiediamo che Sua Maestà ci accordi un'intervista per farci conoscere il suo punto di vista, ma noi troviamo, e con noi moltissimi cittadini, che questo suo ossequio al costituzionalismo è troppo frigido ed eccessivo. È quindi molto naturale e legittimo che i cittadini comincino a discutere anche la persona del re, dal momento che a lui tocca di dichiarare la guerra. Ma Vittorio Emanuele III fa il re costituzionale e tace.

"Questo monito solenne parte da Milano e ciò accresce la sua significazione. Milano non è mai stata monarchica o lealista. L'anima profonda di Milano è repubblicana. Per sentire che la Monarchia dei Savoia, è «straniera» in Italia, non bisogna vivere a Torino — dinastica, giolittiana, cooperativistica, e quindi, per tutte e tre le cose insieme, sconciamente neutrale — e nemmeno a Roma, dove esiste un «lealismo» degli impiegati che trova le sue ragioni supreme nel fatidico ventisette del mese: bisogna vivere e conoscere Milano. La Monarchia ha «diffidato» sempre di Milano, di questo grande Comune che non ha mai rinunciato definitivamente alle sue velleità antidinastiche. È Milano che nel 1896 spezza il sogno imperialistico di Umberto I. La Monarchia si vendica due anni dopo, colla strage preordinata di Bava Beccaris. Ma non passano due anni e il re che aveva conferito al generale e di motu proprio il gran cordone dell'Annunziata cade alle porte di Milano. Questa successione di eventi, farebbe credere che una intelligenza superiore e misteriosa presiede alle vicende umane. Arturo Labriola, in alcune pagine molto interessanti della sua Storia di dieci anni, ha esaminato e lumeggiato questo aspro dissidio fra la Monarchia e Milano, dissidio che trova la sua espressione sanguinosa nel maggio del 1898. Dal '900 ad oggi, il dissidio non si è forse acutizzato ma permane. L'ordine del giorno della Lega Nazionale lo rivela e lo consacra in un'affermazione antidinastica e decisamente repubblicana, tanto più notevole, in quanto pochissimi dei votanti militano nelle file ufficiali del partito repubblicano.

"Ho già detto altra volta e precisamente sulla nota di commento alla grande manifestazione interventista del Teatro Lirico, che il regime perdurante della neutralità «scopre» sempre più le istituzioni e la Corona. La neutralità dirada le file già scarse dei fedeli della Monarchia. Ci sono ancora i «liberali nazionali» che gridano: viva il re! ma la voce è fessa e si perde nel gelido deserto dell'indifferenza universale. Questo lealismo dei liberali nazionali è in fondo assai... commovente, ma deve essere — speriamo — condizionato alla certezza che la monarchia farà la guerra, altrimenti anche Giovanni Borelli — il leader — diventerà repubblicano. All'infuori di questo nucleo di rispettabili persone, la cui influenza sulla vita nazionale è limitata, non c'è più un cane che gratifichi di qualche rispetto le istituzioni politiche dominanti.

"Ho sul tavolo pacchi di articoli di monarchici che la neutralità sabauda ha convertiti al berretto frigio. Sondate il grosso pubblico e vedrete che le azioni del «bene inseparabile» sono ormai al disotto di zero. È la regina Elena che riscuote ancora qualche simpatia perché è prolifica ed è una montenegrina, figlia cioè di un popolo e di un re che combattono e come! ma quanto al Numismatico nessuno verserebbe una più o meno furtiva lacrima qualora gli piacesse di abdicare — come si vocifera da qualche tempo — o di andarsene in qualche fazenda dell'America del Sud.

"Il disgusto dei monarchici è perfettamente comprensibile. Un re ha un senso, una funzione, una storia, se sa essere — quando gli eventi lo richiedano — un re guerriero. Pensate agli entusiasmi che suscita re Alberto anche fra i repubblicani e all'indifferenza che avvolge anche fra i monarchici re Vittorio di Savoia. Confronto... odioso, ma eloquente. Il «re neutrale», in una grande nazione è una superfluità, un non senso, un motivo di ridicolo permanente e di mortificazione. Il Paese finisce per «riscattare» la sua dignità provocando uno «di quei profondi sconvolgimenti politici» cui allude la Lega Nazionale.

"La situazione — insomma — è questa. Se la monarchia è capace di fare la guerra, la grande guerra contro gli Imperi Centrali, tutto il Paese — dimenticando le divisioni — si stringerà attorno al Governo, perché solo a tal prezzo è conseguibile la vittoria. Si verificherà anche in Italia il fenomeno dell'«Unione sacra» di Francia. Temporanea, si capisce! Noi chiederemo — senza tanti gesti o frasi — un posto alle trincee ed un fucile. Obbediremo. Moriremo senza esitazioni e senza rimpianti. Incamminandosi audacemente su questa strada, i Ministri responsabili salvaguarderanno, almeno per un certo tempo, le sorti della Monarchia. Tutte le altre strade, tutte le altre soluzioni, condurranno, Paese e Monarchia, di fronte, in un'antitesi irriducibile che avrà un epilogo fatalmente insurrezionale con obbiettivi repubblicani.

"Se la monarchia resterà neutrale accontentandosi dei modesti lucri territoriali che le forniranno coi loro insidiosi mercati i suoi diplomatici o, se la monarchia farà una guerra obliqua, antiaustriaca, ma non antigermanica, è facile ed onesto prevedere che il «disagio morale» dovunque diffuso — e dovunque sempre più acutamente avvertito — condurrà elementi disparati a una risoluzione unica e decisiva.

"La Nazione insorgerà contro il tradimento e la Monarchia avrà — nelle more della neutralità — tessuto il suo lenzuolo funebre.

"«Eravamo dodici repubblicani a Parigi nel 1789!» — esclamava Camillo Desmoulins. — E dopo tre anni la venerabile dinastia dei Capetingi cadeva sotto la ghigliottina. I repubblicani in Italia sono pochi, quantunque siano più di «dodici», ma se la monarchia sarà ancora una volta inferiore al suo compito, un bel giorno l'Italia intera, griderà, da Milano a Palermo, una sola irresistibile parola: Repubblica!"

Mussolini

 

 

XI - IL «PUTTANO»

 

La grande maggioranza degli uomini politici è costituita da tipi che si smontano e montano meccanicamente. In giornalismo ne abbiamo delle frotte. Nel terreno giornalistico ci si affonda. Si discende come dei palombari nel fango alla ricerca dei maîtres chanteurs. Vi si trovano delle figure che di anno in anno modificano, capovolgono e inghiottono se stesse. È forse l'atmosfera giornalistica che invita a diventare paltonieri. Gli esempi fanno scuola.

Tomaso Monicelli è di questi signori invertiti. Ha avuto momenti chiassosi. Al teatro è parso un rinnovatore. È capitombolato. Nel libro si è tramutato in editore. Ha scorticato molta gente. Ha scritto articoli spaventosi. Più di una volta ha dovuto assentarsi dall'opinione pubblica. In grammatica lo si è creduto un maestro. Ha fatto arrossire molti scrittori. Conosce il valore della composizione. I suoi scuoiati non gli hanno mai perdonato perché il suo inchiostro fu sempre implacabile. Non è che Mussolini che forse gli ha perdonato le sue furiose strigliate dal Resto del Carlino. Dico forse perché anche l'opinione di Mussolini è mutabile. Domani è capace di riprendersi il suo perdono.

Prima della guerra Mussolini e Monicelli erano in conflitto. Quest'ultimo aveva rovesciato sul primo una gerla di stramaglia letteraria. Mussolini non ha lasciato passare l'avvenimento. Gli è andato addosso come un terribile frantumatore d'uomini. Provatevi a leggere questa prosa mussoliniana.

"Il « puttano » — d'ora innanzi tutte le volte che mi occuperò del signor Monicelli lo bollerò con tale infamante nomignolo — mi dà del «pirotecnico» e mi invita a scegliere fra il suo «compatimento» o il suo «disprezzo».

"È una trovata come un'altra per troncare una polemica dalla quale il signor Tomaso finirebbe per uscirne colle ossa acciaccate.

"Ma io non lo lascio. Eh no. Quest'uomo mi fa schifo, ma prima che la nausea mi vinca, voglio scudisciarlo a sangue. " Conoscete il suo trucco.

"Quando qualcuno gli rinfaccia le sue sconcie inversioni e perversioni politiche, l'ex Monicelli si fa avanti e vi dice lacrimoso: «Ah se sapeste quali crisi spirituali ho attraversato! Se conosceste i giorni e quanti giorni della mia miseria!»

"C'è della gente che si commuove. Poverino! Chissà quali tempeste in quel cranio! Chissà quali angoscie in quel cuore! Così Monicelli diventa un piccolo eroe di una qualche misteriosa tragedia spirituale svoltasi nella quiete filistea di un borgo ignoto.

"Come chi dicesse un Nietzsche in formato tascabile, molto ridotto... Oh sì, molto ridotto... ad uso e consumo degli agrari del bolognese.

"La miseria!

"E chi non è stato povero...

"Io ho vissuto per mesi e per anni la più dolce, la più romantica delle bohème. (Ricordi, Serrati, le nostre frequentissime gite al Monte di Pietà?...) Ma dopo un decennio ho l'orgoglio di essere ancora politicamente onesto. Di essere ancora lo stesso. E non potrei aver avuto anch'io la mia piccola crisi?

"Pirotecnico ...

"In Italia non v'è fabbricatore e venditore di fuochi artificiali che possa competere con Monicelli. Tutto artificiale in lui: il socialismo prima maniera troppo estetizzante per essere sincero, il socialismo seconda maniera, il religiosismo del cenacolo sangiorgiano, la letteratura delle novelle pubblicate sino a ieri sui fogli della democrazia, il teatro... L'ultima produzione monicelliana era — anche nel titolo! — un miserrimo fuoco... Alludo a quell'Intorno al lume irreparabilmente caduto quest'anno sotto la fredda commiserazione delle platee. Questo lavoro ci venne appunto presentato come il prodotto della lunga crisi spirituale, il parto difficile di una travagliata gestazione. Era un aborto meschino.

"Fallito, liquidato come drammaturgo, l'ex ritenta la fortuna come giornalista. Rifà — inversamente — lo stesso cammino: egli era andato infatti dal giornalismo alle scene, dove la sua gloriola durò lo spazio di un mattino, cioè, di una sera...

"Oggi questa penna venduta mi commisera o mi disprezza.

"Fuori i titoli!

"Per «compatire» bisogna essere più forti, per «disprezzare», più onesti.

"O bisogna, in ogni modo, essere meno spudorati, meno turpemente spudorati di Tomaso Monicelli!"

Benito Mussolini

 

 

XII - IL PRIMO DEPUTATO SOCIALISTA ASSASSINATO DAL FASCISMO SANGUINARIO

 

Io mi ricordo dei primi anni di lettura. Il '52 aveva sollevato intorno a Napoleone III diverse tempeste. Era stato amante di donne come la Cora Pearl. I morti del Due Dicembre lo avevano portato in piazza con il suo passato di ex mantenuto, di ex policeman, di ex spiantato. La penna di Victor Hugo aveva contribuito a dargli una fama infame per tutta la vita. La cosa più vituperevole che faceva circolare il sire come un ribaldo, erano i deputati puniti nelle vie dai soldati del colpo di Stato. Erano comandati dai loro generali e dai loro cani poliziotti come il De Maupas. Victor Hugo li ha celebrati canagliescamente tutti. La pubblica opinione si è conservata per la magna charta. Ha portato il suo lutto per i caduti. Ha fatto trionfare il diritto parlamentare. De Maupas li aveva chiamati rivoluzionari di mestiere, frutti secchi delle grandi città, demagoghi che tentano di provare le loro forze. Il massacro dei deputati fu il cri cri di Parigi.

Il partito socialista italiano ha lasciato passare quasi in silenzio il primo onorevole stato vilmente massacrato dai "ricostruttori". Non si capisce perché non ha fatto lo scalpore dei grossi delitti. Si chiamava Giuseppe Di Vagno. Era avvocato, deputato socialista. Un omone. Un atleta. Aveva 34 anni. È stato sorpreso in una piazza di Mola di Bari, in una domenica soleggiata. Aveva parlato a un comizio. Pareva aspettasse i suoi comizianti. Gli organizzatori del delitto erano tutti giovani tra i diciotto e i vent'anni. Un testimonio oculare ha fatto questa dichiarazione. Ero amico del Di Vagno. I fascisti giunsero a Mola trafelati per impedirgli di parlare. Saputo dove si trovava in quel momento gli tesero l'agguato e compirono la terribile missione. Dico missione, aggiungeva, perché non era possibile supporre odii in persone così giovani. Non è stato assicurato il numero degli assassini. Forse erano diciotto. Erano tutti o quasi tutti studenti di Conversano e fascisti di quel paese. A Mola vi erano andati con due vetture. L'on. Di Vagno non aveva più via di fuga. Era circondato dalla morte. Le canaglie lo avevano mafiosamente raggiunto. Venne aggredito alla schiena. Non ebbe che pochi minuti. Dodici assassini gli furono sopra con la violenza dei revolvers. L'Avanti! ha scritto: "I sicari vili e feroci che hanno assassinato la fiorente giovinezza di Giuseppe Di Vagno non hanno e non meritano attenuanti".

I 30 arrestati di Conversano, focolare del fascismo sanguinario, sono tutti studenti di buona famiglia. Gli ultimi tre sono stati agguantati a Brindisi, in fuga. Vale la pena di citare i nomi di alcuni. È della documentazione. Cassano Tommaso, di Paolo, di anni 19, di Gioia del Colle, studente, appartenente a cospicua famiglia. Lorusso Luigi, di Arcangelo, studente, di 16 anni, e Lorenzo Luigi, di Giuseppe, maestro di scuola primaria, di anni 37. Costui era il più anziano. Per il povero Di Vagno non ci fu che il funerale. Folla di devoti grandiosa fino a Conversano, dove fu tumulato.

Questa carneficina venne consumata sotto la dominazione di Ivanoe Bonomi, il presidente del Consiglio d'allora. Il grande uomo si era fatto rappresentare dal prefetto di Bari, un altro fascista che teneva bordone ai loro delitti. Egli avrebbe dovuto sfollare l'ambiente e proteggere il deputato. Ma anche lui era un odiatore del Di Vagno. Gli agenti governativi erano della sua risma. In un'altra giornata un delegato o un commissario aveva schiaffeggiato e malmenato un altro deputato. In quei giorni in Barletta imperava un certo Mumeo, capo-squadra della malavita locale, un gaglioffo stato in galera più di venti volte per furti, grassazioni, rapine, ferimenti, omicidi e misfatti della peggiore specie.

Ivanoe Bonomi meritava di essere almeno fischiato. Sapeva che in una notte nella stessa Barletta, si erano radunati i camorristi, i mafiosi, i malandrini, i mazzieri dei dintorni con scariche di fucili e incendi e getti di bombe e non ha fatto niente. Non ha salvato nulla. La Camera del Lavoro è stata preda delle fiamme. Pareva una città irlandese di quest'ultime stragi compiute dalla Grande Bretagna. Una città di 50.000 abitanti abbandonata al saccheggio e al fuoco senza che le autorità bonomiane si siano allarmate o difese! Su per giù lo stesso era avvenuto a Milano. A queste Assise si è svolto un dramma con la stessa assoluzione. Tre delinquenti avevano invaso in una domenica un circolo socialista di Foro Bonaparte. Uccisero un povero vecchio, certo Inversetti. C'era Volpi, ora a Regina Coeli. Oltre l'omicidio si erano distribuite molte legnate ai rossi che non avevano che la colpa di essere tesserati. La magistratura non ne ha processati che due. Il terzo è rimasto latitante. Ai due si spalancarono le porte come innocenti. Al terzo si diedero 14 anni e mesi. Il terzo si chiamava Volpi. È ora uno dei sicari del Matteotti. In appello è stato poi assolto anche lui. In quei giorni non si andava in prigione per degli omicidi.

Il funerale del povero Di Vagno è riuscito grandioso. Intorno alla sua bara c'era tutto il sovversivismo barese. Mentre il convoglio funebre passava per Conversano, avviato al cimitero, in via S. Benedetto, si è sentito il fragore di una rivoltellata. È nato lo scompiglio. Ci furono pochi minuti di panico e di sbandamento. La pallottola è stata raccolta. Era uscita dalla casa del fascista Ferrari. Avvenne un'invasione tumultuaria. Lo sparatore era fuggito. Non si trovarono che armi e munizioni.

 

 

XIII - L'ASSALTO ALL'«AVANTI!»

 

G.M. Serrati aveva pisolato qualche ora nella propria abitazione, stracco morto del lavoro fatto. Poi, saputo del turbine fascista, si cacciò in una automobile pubblica con il Passigli, redattore capo, e si avviò alla casa dell'Avanti! invasa dai rivoluzionari à rebours. Mi trovavo nei dintorni dei tumulti. I fascisti che vegliavano al va e vieni di quei momenti trepidi fermarono l'automobile, imponendo ai passeggeri, con le rivoltelle in pugno, di retrocedere. Di lì non si passava. Non si doveva passare. L'ingiunzione era imperiosa. Se fossero stati riconosciuti sarebbero stati invasi dai proiettili della spedizione punitiva.

Intanto le "camicie nere" erano divenute il terrore. Erano figure macabre. Se si poteva guardarle al lavoro di distruzione si rabbrividiva e si correva col pensiero al loro terribile Robespierre, avvolto nella fama di implacabile. Gli "arrabbiati" di Benito Mussolini avevano per zagaglia un randello di legno massiccio col quale pare dovessero compiere stragi. L'avevano tutti. Era come il simbolo dei nuovi patrioti. Il loro furore bestiale di teppaglia lo si è veduto nell'edificio dell'Avanti! I lavoratori dei despoti in camicia nera hanno fracassato tutto. Una occhiata agli orrori interni ha fatto esclamare, a un cristiano accorso: "Oh dio mio, il tuo popolo fedele perisce!" Non si poteva essere stati più spietati o iniqui. Non ci fu mai nulla di simile nelle guerre civili. Neanche ai tempi di Cromwell. Gli insensati contadini della Vandea non sono mai scesi nei disastri del terrore tanto bassi. I versagliesi che assalivano i comunardi non si sono mai rivelati più vandalici e tanto infami. Tutto hanno fracassato. I periti della distruzione hanno riassunto la loro cifra in due milioni di danni. Le sollevazioni barbariche non avevano mai lasciato esempi così malvagi, così efferati. Mazzate su tutto. Aspersioni di liquidi infiammabili in ogni stanza. Rovine dappertutto. Davanti ai lavori della libertà intellettuale proletaria per la conquista dei diritti degli uomini, gli arnesi fascisti procombettero con impeti disperati. Le latte erano state vuotate sui volumi con furia pazza. Le fiamme divamparono. Tutto era precipitato sul pavimento. Le pareti pareva fossero state in incipiente liquefazione. I soffitti scrostati dai calori incandescenti. Le scrivanie capovolte e frantumate a colpi di mazza. Dell'amministrazione non esisteva più nulla. L'anima del giornale era stata incendiata. Niente paura! avanti! Troppi uomini ci hanno preceduti in questi disastri per scolorire o aver paura d'una disfatta rivoluzionaria. Nell'assalto all'Avanti! non ci furono idee. Neanche quelle brutali e vendicative di Benito Mussolini, direttore del Popolo d'Italia. Non vi trovai che il gusto malvagio della distruzione. Il resto fu tutta una mascherata oscena di zulù, negli abiti europei. Fu tutta una perversione umana. Non ci furono corpi a corpi come per contendersi un ideale, come fra girondini e giacobini. Non si videro che incendiari, invasori, violenti spaccatori di mobili, capaci di accanirsi sulle macchine da scrivere o sull'accumulazione del materiale storico del quotidiano, un giorno nutrito e un giorno ordinato dallo stesso Mussolini. Le turbe che si sono conquistate in Italia il privilegio di distruggere, hanno il tempo misurato. Si prepara anche per loro un finale. Fra gli uomini del '93 e gli ultimi difensori dell'insensato feudalismo non ci fu tregua. Sarà così tra noi. Non ci sarà tregua. Il duello si svolgerà con colpi rudi. L'antico regime non può stravincere. I bersaglieri che vigilavano l'Avanti! con l'ordine inesorabile di non tirare furono un non senso. Lo avranno notato tutti. I fascisti sono entrati all'Avanti! alla presenza delle autorità militari. Nella zona del teatro della distruzione vi circolavano le autoblindate. Non un colpo! La polizia ha assistito come a uno spettacolo. Ci furono degli abbracci fra coloro che tiravano e coloro che vigilavano. Gli aggressori hanno potuto farsi vedere in assetto di guerra con le latte del liquido incendiario rubato al Municipio, con la ingiunzione ai pompieri di non muoversi per dar tempo ai neroni del nostro tempo in camicia nera di lasciare che le fiamme e le bombe incendiarie esercitassero la loro funzione di distruggere.

La scena della connivenza tra i bersaglieri che avrebbero dovuto difendere l'Avanti! e i suoi invasori che hanno potuto distruggere senza essere neppure redarguiti, rimarrà nella sollevazione come un pezzo di storia senza cuore, anche se i giornali della borghesia hanno evitato di vederla e di mostrarla ai lettori. L'unico bersagliere che ha tirato in aria fu disarmato e passato probabilmente agli arresti per trasgressione d'ordini. I fatti rimangono. Una ventina e più di automobili e di autocarri zeppi di fascisti hanno potuto compiere un'azione di guerra, in pieno giorno, alla presenza degli ufficiali dell'esercito regolare, in una parte popolosa della metropoli milanese, senz'essere molestati. I socialisti hanno potuto essere sloggiati con la burbanza fascista, senza che una voce militare si sia alzata in loro favore. È rimasto freddato uno dei più vecchi spedizionieri, padre di diversi figli. I socialisti non hanno forse voluto combattere. Male! Dovevano prepararsi. Con duecento uomini armati come i fascisti le frotte dell'ancien régime non sarebbero ritornate alle loro sedi.

Una capatina nell'interno dell'edificio ci fa subito vedere la libertà e la sicurezza con cui hanno lavorato gli aggressori. Non ci fu stanza illesa dalle loro mazze e dalle loro operazioni, perché tutto andasse alla malora. Armadi rovesciati e sfondati, sedie frantumate, casellari in pezzi, macchine da scrivere sventrate, contorte e buttate fra i rottami. Dalla via Benedetto Marcello hanno potuto pregare i bersaglieri esterni di spostarsi per dar loro modo di sfondare, sotto i loro occhi, la muraglia ed entrare dalla breccia...

I sanculotti in camicia nera di Mussolini hanno completato i servizi passando per l'edificio ovunque come furie distruttive. I pompieri hanno compiuto il resto. La verità per tutti. Hanno inaffiato, inzuppato, inondato, dato all'interno l'aspetto di una inondazione. Il problema dei pompieri dell'avvenire sarà di sapere se negli incendi sarà meglio abbandonare tutto al fuoco o all'acqua. Squadre che in nome delle fiamme schiantano a colpi di scure ogni ostacolo, e a getti d'acqua inondano l'ambiente o gli ambienti e rendono tutto inservibile, devono dare da pensare.

Ritorno indietro per convincermi della connivenza governativa col fascismo. In piazza della Scala si è svolta la documentazione in meno di un quarto d'ora. Le guardie regie lasciarono liberi i passaggi al Comune, proprio quando giungevano gli squadristi dell'invasione. Non occorre altro. I deputati socialisti alla Camera avrebbero dovuto urlare a Facta. Invece hanno ascoltato religiosamente il suo discorso "né con gli uni né con gli altri!" Inutile. O si combatte o ci si prostra.

 

 

XIV - IL PRIMO MASSACRO CREMONESE

 

Oramai la rivoluzione è, per noi, un sogno andato al diavolo. Non si pensa più a tramutare un regime. È dei tempi passati. La contesa dei nostri giorni è stata rimpicciolita e ridotta a una bega di gruppi che lottano per delle quisquilie o per delle ragioni personali. Il fascismo che oggi contiene tutto ciò che c'è di spurio, ha preso il sopravvento. È superiore a tutto e a tutti. Terrorizza. Si impone. Ha il coraggio che manca agli altri partiti. I socialisti, i comunisti, gli operai, i contadini continuano a lasciarsi molestare, maltrattare, rompere la testa, mandare all'ospedale a crepare sullo sdraio pubblico senza trovare modo di farla fare finita. È cosa quotidiana. A guardarci con occhi esteri si direbbe che siamo un popolo uscito dai magnanimi lombi delle colonie penali. Non c'è da noi che l'omicidio. Si ammazza oggi e si ammazza domani. I nostri giovani di sedici anni sanno lavorare di coltello come Lemaire e Troppmann senza sollevare il disgusto. Ho già ricordata l'aggressione del deputato Di Vagno. Mola di Bari è parsa la culla dei forzati di Finalborgo o di Portolongone. Fu tutta una truppa di giovani abituati al sangue. Ciascuno di loro ha gareggiato nel dramma orribile di distruggere la persona che doveva cessare di vivere per ordine di chi non si è saputo ancora. Il cinismo di assumere la responsabilità di spaccare la testa agli avversari e di non voltare il dorso alle vittime che quando sono in agonia non è che di ieri. L'ambiente nuovo è Cremona, dove avevano imperato politicamente gli onorevoli Sacchi e Bissolati per tanti anni. Pareva un collegio elettorale di bonaccioni e di patriottoni. Andavano all'urna come a una festa. Nessuno si aspettava di vedere una nuova generazione di bastonatori e di delinquenti indurati al mestiere criminoso. Fu uno stupore. Ci siamo svegliati in una ripetizione di dramma. Lo stesso assassinio di Mola di Bari. Le stesse canaglie. Lo stesso cinismo. Su per giù della stessa età. Nessuna provocazione. I fascisti hanno scorto a una certa distanza l'automobile della deputazione provinciale socialista. Discesi dal loro camion, seguito dal camion delle guardie regie, si sono affrettati a rincorrerla. I socialisti se ne accorsero; affrettarono la corsa verso una cascina e giunti si raccomandarono ai contadini, i quali li nascosero in una stalla. Non fecero in tempo. Il gruppo dei fascisti fu su loro. Nessuna discussione. Nessun scambio di invettive. I fascisti sapevano il loro compito. Essi si misero subito a percuoterli con le mazze piombate. Il Petroneschi ricevette il primo colpo al braccio e cadde come morto. Ecco la ragione della sua salvezza. Lo si credette spirato. Il secondo era una persona conosciuta in tutta la provincia e fuori. Attilio Boldori, vicepresidente della deputazione provinciale e presidente della Cooperativa del Comune. Divenne il loro materazzo. I fascisti gli furono sopra. Dopo una mazzolata, un'altra. Coi loro rompicapi lo piegarono in due. In ginocchio la vittima impallidiva e rantolava. Ricevette i colpi di grazia. Rotolò sul pavimento. Gli aggressori furono implacabili. Non se la diedero a gambe che quando lo videro in lotta con gli spasimi della morte e dopo che qualcuno di loro gli aveva schiacciato la testa con colpi di tacco... Il massimo dei suoi uccisori si è confessato con baldanza. "Sono io, Giorgio Passani, studente, di 16 anni." Non si poteva essere più criminale. Più belva. Il suo maestro in fascismo deve essere stato una iena. Un tocco di carne di collo che doveva spaventare.

Il deputato Farinacci è divenuto l'idolo di questa stramaglia umana. Dal giornale e dalla piazza il Farinacci ha ammonito più volte gli antifascisti a tirar dritto. Ha parlato e parla come un capobanda. Non si capisce come un simile buffone possa essere tollerato. L'ex capo stazione è stato fatto deputato. Poi avvocato. Poi difensore di Dumini, poi accusatore di Cesare Rossi, poi adesso sta per diventare segretario di Stato. È già stato preconizzato. Malvoluto da tanti, non ha mai capito di esserlo. Il cadavere del Boldori non lo ha spaventato. Anche dopo la deplorazione del delitto fatta alla Camera dal Mussolini, egli non ha smentito se stesso. Ne ha assunta la responsabilità. Ha anzi approvato il fattaccio. L'Avanti! ha riassunto la dichiarazione del Farinacci così: "L'onorevole Farinacci ha dichiarato di accettare, per il fascismo, la responsabilità dell'uccisione del povero nostro Boldori. Ha aggiunto e ripetuto ancora una volta che si opporrà con i suoi bravi al corteo di accompagnamento della salma".

 

 

XV - LA "RIVOLUZIONE" DELLE CAMICIE NERE

 

Poteva essere un sottovoce. Udito che Benito Mussolini era avviato alla rivoluzione con i suoi contingenti in camicia nera, ho avuto delle apprensioni. Non sapevo se si faceva della dinastia o della repubblica fascista. Il pericolo era solo nel Facta — un presidente dei ministri che stava per impazzire come il Di Rudinì di una volta. Si diceva: egli sta per sguinzagliare il solito arnese di tirannia: lo stato d'assedio per uccidere degli uomini o per essere ucciso. Questi piaceri dei turpi generali alla Bava Beccaris sono stati soppressi. Il re pare non abbia voluto firmare l'oltraggio umano. Si può avere orrore per la guerra, ma non si può piegare alla minaccia del massacro della folla. Mussolini ha vinto. Facta era inseguito. Egli era troppo abbietto. Fuggiva. Meritava una stroncata di collo.

Pochi sapevano che il duce aveva organizzato un poderoso esercito di camicie nere in viaggio, condotto dal suo quadrumvirato. Sognavo. Mi aspettavo le cannonate. Invece non ci furono che delle fucilate con pochi morti e qualche ferito. Forse eravamo in piena agonia monarchica. Mi ritornava alla mente quella del 10 agosto 1792. I Savoia andavano all'epilogo. Erano momenti lugubri. Mussolini aveva già ghigliottinato i suoi ex colleghi per realismo nevrotico. Poteva cadere nelle febbri repubblicane. Erano i suoi tormenti di ieri. Le corone dinastiche non rimangono sempre sulle stesse teste. Chateaubriand aveva detto che i Savoia salvavano le loro corone abdicando. Poteva darsi che Vittorio Emanuele III uscito dai fianchi della rivoluzione del suo avo, avesse aperta la reggia alla rivoluzione. Bene! C'era sempre lo stesso esordio. Luigi XVI non aveva voluto combattere. Non aveva conteso la corona. Si era abbandonato con la sua famiglia fino all'ultimo boccone di pane mendicato a Chaumette, un sanculotto eminente di quei giorni messo alla sua custodia.

Mussolini è giunto a Roma in camicia nera. Sceso in un albergo non ha esitato a cavarsela. Non voleva assumere l'aria di un dittatore fascista. Il cardinale Vannutelli aveva brindato al suo trionfo, la Chiesa si era prostrata, il clero aveva benedetta la vittoria delle trecentomila camicie nere sparse nel nord di Roma. Tuttavia l'avvenimento deviava. La monarchia non appariva più in crisi. L'alba lasciava supporre una specie di pace. Ohimè! Si saprà più tardi il perché fu scissa o spezzata la rivoluzione. Andiamo, avanti! Si diceva che il re non aveva voluto firmare lo stato d'assedio. E con questa dichiarazione si era saputo che la monarchia in Italia poteva dormire i suoi sonni tranquilli. La rivoluzione fascista non avrebbe sparso, a villa Ada, sangue. Non voleva fare della strage come era avvenuto in Russia. Mussolini si era acconciato alla bontà di Kerensky. La maestà, alla mattina, si era recata da villa Ada alla reggia. Entrata, fece sapere per mezzo dell'Agenzia Stefani che la proclamazione dello stato d'assedio non aveva più corso. L'Italia è stata tre giorni senza governo: dal 28 al 30 ottobre. Dopo questo periodo i sansculottes del fascismo, senza spargere una goccia di sangue, entrarono. Mussolini aveva già stretta la mano a sua maestà al Quirinale. Era una rivoluzione che si era svolta con l'aiuto del cappellano di Corte e qualche altro prete. La famiglia reale era salva. Con Mussolini facevano parte le sommità della marina e dell'esercito. L'ammiraglio Thaon di Revel e Diaz erano divenuti anche loro rivoluzionari. Facevano parte del ministero. Molti uomini conosciuti in ambienti meno ufficiali erano al loro posto di ministro. In poche ore Mussolini aveva messo insieme il suo ministero. Dove era lui, c'erano molti senatori e deputati e alti personaggi fascisti. Preparata la collezione degli uomini che dovevano collaborare al ministero, il "duce" è andato alla reggia, accompagnato dagli on. Finzi e Acerbo, tutti e tre uniti dall'amor di patria. Il sovrano cominciava a tranquillizzarsi. L'idea che fra le camicie nere ci fossero dei regicidi o dei terroristi era andata in fumo. L'uomo che aveva seminato in parecchi anni la sommossa si limitava nella Monarchia. Come Danton, in un giorno di rivoluzione, si genufletteva al prete e poi si prostrava al crocifisso. Danton aveva commesso molti peccati. Si era diminuito davanti alla storia. Castighiamo il fellone. Era la sorte di Mussolini. Credeva nel Signore. Invece di sradicare il Quirinale, la reggia, e togliere ai Savoia la corona si metteva a disposizione della Monarchia per continuarne il regime. Peggio che Danton!

Molti dei suoi compagni, udita l'entrata di Mussolini alla reggia, disperarono di vedere la rivoluzione. La repubblica sociale era tramontata. Solo egli diceva che non si sarebbe più servito della ferrovia nelle sue corse. Aveva forse viaggiato male. Lo avevano forse seccato gli applauditori. Sì, egli era stato applaudito a tutte le stazioni. Aggiungeva che non era un demagogo. Che non lo era mai stato.

In rivoluzione si accolgono tutte le dichiarazioni.

 

 

XVI - LA PRESA DEL POTERE

 

Egli è unico. Dal pavé Benito Mussolini è passato alla massima presidenza del potere nazionale. Il suo pensiero intimo non è mio. Non so se egli abbia gioito del suo trionfo. Qualche volta se ne soffre. John Burns non ha udito tante acclamazioni. Le folle che lo avevano pensionato coi loro sei pence, non l'hanno più voluto vedere che per manifestargli la loro tiepidezza. Capisco, si trattava d'un altro caso. Mussolini si è scatenato dalle masse mettendosi in bocca l'indice, segno della sua collera. Si è vendicato. Ha dato se stesso ad altre moltitudini. È divenuto possente. Ha sottomesso gli ex compagni con la persecuzione, con le legnate, con i trangugiamenti di violente pozioni di olio di ricino, con le pugnalate, le revolverate per interposta persona o per sostituite persone. Durante le sue spedizioni punitive i governi non avevano influenza su di lui e le sue genti. Parevamo ai tempi delle "gride" manzoniane. Nessuno osava arrestare i bravi del nostro tempo. L'avvocato al quale si ricorreva, respingeva i polli. Era l'uomo che non voleva noie. La circolazione dei deputati veniva interrotta. Si facevano discendere dai treni, subivano ingiunzioni e cambiamenti di territori, si strappavano dalle loro case private. Sputacchiati e schiaffeggiati dappertutto. L'on. Di Vagno fu ucciso di domenica in piena luce, con revolverate alla schiena. Ci sono stati delegati di questura che hanno strappata la potenza legislativa dal panciotto degli onorevoli che volevano farsi proteggere dalla medaglietta.

Chi se ne frega?, rispondevano loro, nell'impeto di rabbia, i commissari di questura.

Chi farà la storia del fascismo e la metterà in circolazione finirà per andare alla ricchezza. Sono episodi irreperibili in tutti i movimenti insurrezionali. Senza questi ordigni di dominazione umana intorno a Robespierre noi saremmo ancora alla ricerca delle virtù giacobine dei Roux, apostoli della strada, accusato poi di furto e indignato al punto di togliersi la vita con un grido. Benito Mussolini ha superato tutto e tutti. Non c'è rivoluzione che lo abbia preceduto o uguagliato. I suoi uomini — tutti giovani — tutti proni ai suoi ordini hanno fatto ardere case, negozi, magazzeni. Hanno bruciato un numero infinito di Camere del Lavoro, come Robespierre ai suoi tempi. Robespierre era antisocialista. Con il fuoco hanno portato lo spavento nelle campagne. Hanno fatto distruggere le messi. Hanno distrutto la vendita delle pubblicazioni rivoluzionarie e socialiste. Hanno affamato migliaia di persone con i bandi. Sono avvenute delle proscrizioni come ai tempi di Silla. La Cremona dei Sacchi, dei Leonida Bissolati e dei Miglioli ha avuto dei Farinacci, atroci Deibler del fascismo. In tempi di civiltà riconquistata i loro nomi saranno sinonimi di orrore sulle muraglie di tutti i comuni. Per dire della potenza dei leaders dell'organizzazione fascista dirò che alcuni giorni prima dell'andata al potere del capo del governo, il futuro sottosegretario di Stato Finzi ha potuto scrivere una lettera contro l'On. D'Aragona, invitante i colleghi in fascismo a strappargli venti peli della sua lunga barba senza sollevare vespai. Nessuno ha fiatato. Mussolini stesso, più cauto di tutti, alla vigilia della chiamata alla reggia, ha emanato un decreto rivoluzionario per ingiungere a tre quotidiani — alla Giustizia, all'Avanti! e al Corriere della Sera — il bavaglio. Forse le rivoluzioni non si fanno che con queste violenze. Tutti credevano che non si trattasse che di una burletta e confidavano nella strafottenza della stampa milanese. Nossignori! L'organo massimo del socialismo ha tenuto chiusa la bocca. Lo stesso Corriere si è sottomesso al bavaglio. Cose incredibili! Il quotidiano più potente della nazione non ha avuto l'orgoglio della rivolta: si è piegato. Sbavagliato, non ha avuto che delle recriminazioni. Non ha avuto ribellioni cerebrali o professionali. Non ha voluto che si versasse sangue per il suo diritto! L'uscita dell'Avanti! è costata una spedizione punitiva di quattro milioni circa. Dieci linotypes nuove sono state ridotte a macchine inservibili. La massa "rivoluzionaria" aveva sconquassato tutto. I caratteri di tipografia erano tutti in terra. Sono state portate via macchine da scrivere, asportati trentasei motori, frantumati tutti i mobili dello stabilimento, buttati dalle finestre il bello e il buono. Le guardie regie al primo assalto serale hanno risposto al fuoco. Ma al mattino alle quattro hanno di sorpresa occupato l'Avanti! Mussolini poche ore dopo era signore e arbitro della situazione. Egli non aveva voluto muoversi senza che un telegramma di sua maestà lo chiamasse a Roma. "On. Mussolini, sua maestà il re la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle l'incarico di formare il ministero. Ossequi, Generale Cittadini." Fu un subbuglio. Il sottovoce è corso in un baleno per tutto lo Stivale. Se lo scopo del fascismo era di andare al potere, Mussolini aveva vinto. All'indomani fu un'esplosione. I giornali avevano sentito l’"uomo forte". Lui, ancora caldo della violenza compiuta sui giornali, aveva avuto l'offerta del potere e vi si era insediato come in casa propria. Il fatto personale e rivoluzionario non ha influito sulla composizione del ministero mussoliniano. Il sottosegretario di Stato Finzi, poche ore prima, aveva capeggiato l'occupazione della caserma del 12° bersaglieri.

La storia non ha uguali. Nel 1914 Mussolini era su per giù in bolletta come il sottoscritto. Farneticava intorno a un quotidiano. La guerra ci teneva tutti agitati. Egli era l'autore della coercizione socialista. Non si doveva andare in guerra. Non si sa come, ha cambiato. Il 15 novembre dello stesso anno il Popolo d'Italia era in piazza. Il primo numero era come quello di tutti i nuovi quotidiani: abborracciato. Nato giornalista, carico di episodi di vita nazionale e internazionale, il quotidiano migliorava tutti i giorni. La sua testata era un programma. A sinistra c'era questo motto: Chi ha del ferro ha del pane. Lo aveva pescato in Blanqui. Una figura dei tempi di Napoleone III che aveva consumato molti anni nelle galere e che nella Comune si era popolarizzato per quella sua mano eternamente inguantata. A destra: La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette. Il giornale era sempre socialista. Il socialismo stava per compiere la sua caduta.

 

 

XVII - L'UMILIAZIONE DEI DEPUTATI DI CARLO MARX

 

Si è sempre creduto che i deputati fossero eletti per delle virtù personali o della vigoria cerebrale. Le sedute inaugurate da Benito Mussolini come Presidente del Consiglio ci hanno disilluso. Il Presidente Mussolini ha potuto parlare come ha voluto. Ha dato fuori. Ha potuto prorompere e superare i principi delle escandescenze. O'Connell, il vituperatore del duca di Wellington, è stato superato. Francesco Crispi, il più oltraggioso oratore di Montecitorio, è caduto dal trono dell'improperio e del pugno sul tavolo ministeriale. Il duce lo ha rovesciato dai suoi trent'anni di oratoria parlamentare in una seduta. Non si supponeva che tutta quella gente che assisteva alla propria demolizione non scattasse, non si sollevasse irritata, non trovasse un impeto di collera per difendere se stessa e il partito che rappresentava. Non uno ha dato lo sprone per l'uscita da un luogo dove non c'era per loro che il vituperio. Il silenzio dei socialisti è stato obbrobrioso. Lo si doveva biasimare. È rimasto immune di censura. È stato rimunerato con una rielezione. Tutto il partito si è accontentato di due scialbe grida di Viva il Parlamento! di Modigliani. Non si poteva essere più pitocchi.

Quando si compie felicemente una rivoluzione, ha scritto Carlo Marx, è lecito impiccare i propri avversari, ma non condannarli. Si possono schiacciare come vinti, ma non giudicarli come delinquenti. Più volte, in Inghilterra, Carlo I fu vincitore, ma infine salì il patibolo. Gli hanno mozzato il capo.

Più che una rivoluzione, fu un turbamento dinastico. Il re deve essere stato molto in forse a chiamare al potere Benito Mussolini seguito, si diceva, da trecentomila camicie nere. Si è servito contro i deputati socialisti di parole troppo grosse. Pareva li avesse voluti fare accoppare. Sembravamo in pieno Terrore. Mussolini si è subito creduto in piena dittatura. La gente ne seguiva il movimento. Non metteva in dubbio che si trattasse di una rivoluzione. Supponeva la caduta del sovrano. Era ora. Mussolini era l'uomo. Lo si era già messo coi grandi tribuni. Lo si paragonava a Robespierre. Lo si aspettava nella apoteosi teatrale. Tutti i poteri erano nelle sue mani. Le sue camicie nere erano i giacobini del Terrore. Terminava la seduta, ed egli era assoluto temuto padrone di un popolo che aveva paura della dittatura.

 

La inaudita violenza parlamentare del presidente Mussolini

 

"Signori (segni di vivissima attenzione), quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.

"Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale.

"Ora è accaduto per la seconda volta, nel breve volgere di un decennio, che il popolo italiano — nella sua parte migliore — ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento.

"Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922.

"Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perchè ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere» inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione. (Vivi applausi a destra.)

"Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. (Approvazione a destra.)

"Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli..." (Vivi applausi a destra. Rumori. Commenti.)

MODIGLIANI: "Viva il Parlamento! Viva il Parlamento!" (Rumori e apostrofi da destra. Applausi all'estrema sinistra.)

MUSSOLINI: "Presidente del Consiglio dei ministri, potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.

"Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto la libera circolazione, del che approfittano già per risputare veleno e tendere agguati come a Carate, a Bergamo, a Udine, a Muggia.

"Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno (applausi all'estrema destra), ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al disopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare.

"Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari, ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di questa ora; e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attività o passiva solidarietà.

"Credo anche di interpretare il pensiero di gran parte di questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova, impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria. (Grida di: VIVA IL RE! I ministri e moltissimi deputati sorgono in piedi e applaudono vivamente e lungamente).

"Prima di giungere a questo posto da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono, ahimè, i programmi che difettano in Italia, sibbene gli uomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati risolti sulla carta, ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà".

 

 

XVIII - IL MINISTRO FASCISTA

 

È un uomo nuovo. Egli ha conquistato il potere direi quasi senza opposizione. È bastata la sua volontà ferrea. Il suo grido di partenza per Roma aveva sollevate molte speranze e grande spavento. Egli partiva e il fatto era compiuto. Il ministero Facta non aveva più via d'uscita. Si era lasciato andare con l'acqua alla gola. Lo stato d'assedio ch'egli aveva fatto proclamare in tutte le prefetture, in tutte le caserme e in tutti i comandi militari era andato all'inferno. Era stato smentito dallo stesso sovrano. Vittorio Emanuele III si era convinto della lealtà monarchica di Benito Mussolini. "È risaputo", dice una rivista di Firenze, "che il sovrano era stato ragguagliato, nella maniera più formale, che la monarchia non avrebbe avuto nulla da temere dalla rivoluzione fascista, ma un particolare, a pochissimi noto, è questo: allorché, come al solito, la mattina verso le 8 S. M. Vittorio Emanuele III da villa Savoia in automobile si recò a Palazzo Reale non poté subito entrarvi, perché ai portoni del Quirinale erano stati collocati dei cavalli di frisia! Il conduttore della macchina fece un breve giro e le difese escogitate da chi sa quale stratega furono tolte. Il sovrano poco dopo entrò nella reggia e l'agenzia ufficiale, verso le 9,30 del 28 ottobre 1922 candidamente pubblicava questo comunicato: «L'Agenzia Stefani è autorizzata ad annunziare che il provvedimento della proclamazione dello stato d'assedio non ha più corso»."

Così gli italiani non hanno saputo che per tre giorni, dal 28 al 30 ottobre, ossia fino alla formazione del ministero Mussolini la nazione rimase senza governo, in balia, se non d'una vera anarchia, certo d'una baraonda generale.

 

Riproduco il

 

PROCLAMA DEL QUADRUMVIRATO

 

29 ottobre 1922

"Fascisti! Italiani!

"L'ora della battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, di questi giorni, l'Esercito nazionale scatenò la suprema offensiva che lo condusse alla vittoria; oggi l'esercito delle Camicie Nere, riafferma la Vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio.

"Da oggi Principi e Triari sono mobilitati. La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore.

"Dietro ordine del Duce, i poteri militari, politici e amministrativi della Direzione del Partito, vengono riassunti da un Quadrumvirato Segreto d'Azione con mandato dittatoriale.

"L'Esercito, riserva e salvaguardia suprema della Nazione, non deve partecipare alla lotta. Il Fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all'Esercito di Vittorio Veneto. Né contro gli agenti della forza pubblica marcia il Fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che in quattro lunghi anni non ha saputo dare un governo alla Nazione.

"Le classi che compongono la borghesia produttiva sappiano che il Fascismo vuole imporre una disciplina sola alla Nazione e aiutare tutte le forze che ne aumentino l'espansione economica e il benessere. Le genti del lavoro, quelle dei campi e delle officine e quelle dei trasporti e dell'impiego, nulla hanno da temere dal Potere fascista. I loro giusti diritti saranno lealmente tutelati. Saremo generosi con gli avversari inermi. Inesorabili con gli altri.

"Il Fascismo snuda la sua spada per tagliare i troppi nodi di Gordio che irretiscono e intristiscono la vita italiana.

"Chiamiamo Iddio Sommo e lo spirito dei nostri 500 mila Morti a testimoni che un solo impulso ci spinge, una sola volontà ci raccoglie, una passione sola ci infiamma: contribuire alla salvezza e alla grandezza della Patria.

"Fascisti di tutta Italia!

"Tendete romanamente gli spiriti e le forze. Bisogna vincere. Vinceremo.

"Viva l'Italia! Viva il Fascismo!"

Il Quadrumvirato

 

Il proclama era Stato preceduto da un articolo uscito dalla penna di Benito Mussolini.

"La situazione è questa: gran parte dell'Italia Settentrionale è in pieno potere dei fascisti. Tutta l'Italia Centrale: Toscana, Umbria, Marche, Alto Lazio — è tutta occupata dalle Camicie Nere.

"Dove non sono state prese d'assalto le questure e le prefetture, i fascisti hanno occupato stazioni e poste, cioè i grandi centri nervosi della vita della Nazione. L'Autorità politica — un poco sorpresa e molto sgomentata — non è stata capace di fronteggiare il movimento, perché un movimento di questo genere non si contiene e meno ancora si schiaccia. La vittoria si delinea già vastissima, tra il consenso quasi unanime della Nazione. Ma la vittoria non può essere mutilata da combinazioni dell'ultima ora. Per arrivare a una transazione Salandra, non valeva la pena di mobilitare. Il Governo dev'essere nettamente fascista.

"Il Fascismo non abuserà della sua vittoria, ma intende che non venga diminuita. Ciò sia ben chiaro a tutti. Niente deve turbare la bellezza e la foga del nostro gesto. I fascisti sono stati e sono meravigliosi. Il loro sacrificio è grande e dev'essere coronato da una pura vittoria. Ogni altra soluzione è da respingersi. Comprendano gli uomini di Roma che è ora di finirla coi vieti formalismi mille volte, e in occasioni meno gravi, calpestati. Comprendano che sino a questo momento la soluzione della crisi può ottenersi rimanendo ancora nell'ambito della più ortodossa costituzionalità, ma che domani sarà forse troppo tardi. L'incoscienza di certi politici di Roma oscilla tra il grottesco e la fatalità. Si decidano. Il Fascismo vuole il potere e lo avrà!"

Mussolini ha avuto indubbiamente coraggio ad indossare la camicia nera del duce e ad avviare l'esercito delle camicie dello stesso colore alla conquista del potere, ma non si è mai dato nella storia d'Italia un Parlamento così floscio, con alla testa uomini di una meschinità intellettuale così povera. Fu un'ora tremenda. Da questo punto di vista Benito Mussolini ha trionfato su tutto. La vecchia società è andata in frantumi. Il proletariato che aveva raggiunte le fabbriche e che possedeva quasi tutti i comuni e una bella zona parlamentare non ha saputo più riaversi. I rivoluzionari hanno avuto momenti tragici, momenti piangevoli, ma la vittoria è come se li avesse abbandonati. Le loro organizzazioni, i loro leaders furono inferiori al momento. Se mai riparleranno di rivoluzione dovranno ricominciare la preparazione da capo.

Benito Mussolini aveva un grande disprezzo per la vita parlamentare. L'Italia non conosceva che voltafaccia, paltonieri. Tipi finiti nella corruzione. Qualche volta egli aveva gridato nei giornali: bruciamo la Camera! buttiamo giù il Senato! defenestriamo i deputati a quindicimila lire l'anno! Era un paese il nostro che legislativamente avrebbe dovuto essere distrutto. Ha avuto per teste direttive dei Giolitti, dei Pelloux, dei Salandra, dei Bonomi, dei Facta. Fu turpe il nostro Parlamento. La storia parlamentare è affollata di eccidi. I ladri maggiori sono le nostre sommità delle zone elettorali. Abbiamo avuto figure scandalose come Crispi che ha finto di sposare la Montmasson, che ha svaligiato lo Stato, che è stato sulla piattaforma con Felice Cavallotti come un brigante del denaro statale, che ha figurato come uno svenatore di operai e di contadini siciliani, che ha fatto massacrare i nostri soldati in Africa da Menelik e da quel vigliaccone di Baratieri, maestro ai Caneva di caconeria. Nicotera è stato un altro ladro, un altro farabutto. Di Rudinì, un altro sanguinario. Pelloux un altro cane che imbrogliava la Nazione e chiamava Umberto alla Camera "il mio re". Un birbante peggiore di Bava Beccaris, andato al diavolo l'altro giorno. Zanardelli un fintone, un fautore della democrazia cristiana che si è lasciato costruire e ammobiliare una villa dagli amici appaltatori di Stato. Nasi, predone, filibustiere, ministro e ladro sfrontato, Roberto Macaire ministeriale. Giolitti, che tutti li riassume, un gaglioffo fognoso. Nella casa statale lasciava le impronte digitali del delinquente politico. Si è servito di tutti gli alti ladri della finanza italiana. Ha elogiato parlamentarmente tutti i Centanni. Ha corrotto la vita nazionale e centuplicati i malfattori alla Camera.

Molte canaglie, molti scriteriati, molti prezzolati, molti venduti, molte fedine criminali sporche. Mussolini davanti a tutta questa geldra si sentiva orgoglioso. L'orizzonte politico gli sorrideva. La gente sua lo riteneva superiore. Lloyd George aveva ambito l'onore di cenare a Cannes con lui. Vittorio Emanuele III lo aveva chiamato. Egli era in viaggio. Giungeva a Roma in camicia nera. Loro due si conoscevano. Si erano veduti in guerra, in una infermeria. Il sovrano simpatizzava per lui, per la sua energia, per il suo tono marziale, per la sua volontà di riuscire.

È salito fino dove nessuno credeva di vederlo. Vittorio Emanuele III gli ha affidato la vita ed il benessere di quaranta milioni di individui. Io ne sono ancora qui intontito.

 

 

XIX - INTORNO ALL'UOMO DI STATO

 

Benito Mussolini è fortunato. La stampa sua pare uscita da un ambiente di livragazione. È divenuta acefala. È mussoliniana. È docile, mansueta, ubbidiente. Nessuno osa infrangere l'imposizione. Non si discute che con il cervello presidenziale. Si è creduto per due minuti che il Corriere della Sera avesse conservata la sua indipendenza di borghese liberale pur restando nella zona dei facitori di fascismo. Illusione! Il più possente quotidiano della Penisola non ha potuto giungere a Bologna carico di dissensi con il governo senz'essere acciuffato e bruciato. Peggio! Non ha potuto neppure ribadire le sue critiche, senza correre il pericolo di essere arso come l'Avanti! Mussolini non vuole che gli si scompiglino i piani e i pensieri. Parla e scrive per tutti. Se qualcuno osa, è subito redarguito dal giornale dello stesso Mussolini. Il duce non scherza. O la maggioranza degli italiani dà il consenso alla sua politica o il consenso egli se lo prende con la forza. Per un anno è lui il padrone assoluto. La Camera gli ha concesso quello che ha voluto. O due giorni o due anni. Scegliete. La vita parlamentare è vostra per la completa legislatura se votate quello che vi chiedo. O chiudo bottega. O vi metto tutti alla porta. È stato provato un'altra volta che gli idioti alla Camera non hanno forza di resistenza. Nessuno ha fiatato. Hanno preferito il consenso di due anni. Non parliamo del linguaggio. Benito Mussolini ha fatto fischiare la sua veemenza fraseologica alle orecchie degli "Onorevoli" senza che uno di loro trasalisse o prendesse la via dell'uscita senza ritorno. La stampa di tutti i colori del novembre 1922 ha taciuto come gli "Onorevoli". Non ha fiatato. Ha portato in giro Benito Mussolini nelle narrazioni oggettivate — metodo furbesco che permette di rimanere invertebrato e di lasciare il personaggio della dittatura nella autorità e nella grandezza personale.

Perciò è ferma la concezione catastrofica. Coloro che pronosticano o annunciano o prevedono la caduta fascista sono gli imbecilloidi della politica. Non ne conoscono la organizzazione. Napoleone che ha ammazzata la Repubblica per le strade è stato su diciotto anni. E sarebbe stato su di più se non avesse avuto per avversario la penna di Victor Hugo. L'Italia non ha che scemenze di critici. Pennaiuoli che sono o smascolinati o obbligati a tener conto degli interessi dei loro quotidiani. Aggiungete che Benito Mussolini è andato al potere con un bagaglio di vita vissuta come nessuno dei soliti va al potere. Le masse hanno assistito all'avvenimento sbalordite! Molti proletari, forse, se ne sono compiaciuti. La marcia su Roma è stato uno spettacolo grandioso. Tutti avevano gli occhi sulla capitale. Si pensava a Cesare. Si disseppellivano gli episodi più celebri. Il Corriere della Sera dell'altro giorno ha suscitato delle speranze nei campi dei malcontenti che aspettano delle insurrezioni, delle congiure, come ai tempi di Blanqui e di Rochefort. È bastato un falò di giornali perché il pensiero del senatore si obliterasse. I rivoluzionari, in tempi fascisti non esistono. E se esistono scompaiono alla chetichella. O sono assorbiti dal nuovo ambiente o rimangono nell'ombra a insaputa gli uni degli altri.

Il Corriere della Sera continua a sciorinare le sue "scemenze", mettendosi tra i primi e più sinceri collaboratori dell'on. Mussolini, quando lo esorta a non inebriarsi della vittoria, a non superare più di quanto ha superato i limiti legali e a ricondurre gradatamente il governo entro questi limiti ed a restituire alla nazione quella coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri smarrita in un ventennio e più di degenerazione parlamentare. Inutile! Benito Mussolini non crede al senatore Albertini. Egli vede in lui un disfattista o un preparatore della sua catastrofe. Vengano i rivoltosi! Il Popolo d'Italia — che come sapete è l'organo massimo della stampa mussoliniana — avverte che per le zucche che si rialzassero, ci sarebbero cinquecentomila manganelli, della buona mitraglia e delle bombe a mano.

Passiamo. È ormai stabilito che gli italiani concedano volentieri quello che Mussolini vuole, o Mussolini se lo farà concedere con la forza, la nazione scelga.

Benito Mussolini ha poi un'altra fortuna. Non c'è mai stato Presidente che abbia potuto occupare la massima vetrina del quotidiano come lui. Egli è stato ed è acclamato tutti i giorni. È cittadino onorario di quasi tutte le città e di quasi tutti i villaggi d'Italia. È Duca di Roma. È dottore dell'Ateneo bolognese. È il primo oratore di tutti i comizi. Lo si mette alla testa di tutti i movimenti. Segue le prime rappresentazioni della Scala con l'ansia di un uomo che non può aspettare il giudizio di domani. Riceve doni da tutte le parti. Leoni e cavalli arabi. Dalla sua ascensione la sua figura non manca mai. Egli vi occupa due o tre colonne quotidiane. Non c'è giorno che non abbia un suo discorso nuovo. Sa di tutto. Insegna ogni cosa. Mette in conflitto i gruppi, i partiti. Troneggia su ogni argomento.

Le idee del Presidente del Consiglio sono un pochino quelle di Emilio Ollivier, Presidente del Consiglio di Napoleone III.

Ollivier non ha però avuto tanto lusso, tanta pubblicità, tanto subbuglio intorno a lui, pur essendo stato in mezzo a bande di giornalisti che lo insultavano e lo invelenivano ogni ora. Non c'è giorno senza parecchi decreti. Il re perde importanza. Si può dire tutti i giorni. Assume sempre più la sua funzione decorativa. Il duce ha sempre frasi spettacolose o scultorie. "Il denaro del popolo è sacro." Se qualcuna di queste frasi irrita, è accomodata dai suoi ministri o da qualche agenzia telegrafica incaricata di correggere. Non parlo della Camera. Mi è parsa domata o virtualmente morta. È il Corriere della Sera che lo ha detto.

Di tanto in tanto, in mezzo a tutti questi guazzabugli orali e scritti, capita il ricordo della Occupazione delle fabbriche. È sempre accompagnato dalla virulenza borghese. Lo meritano. Non ci voleva che l'imbecillità socialista per abbandonarle. È stata l'idea più sciagurata che potesse mettere in scena un partito. O si ha la coscienza di svolgerla fino in fondo o non la si mette in atto. Stupidi! Non avete mai meritato la rivoluzione. Benito Mussolini ha capito che eravate dei deboli. Leticoni! Sempre buoni a leticare. Cito l'ultima malefatta tra direttore e redattore capo dell'organo di partito. Per il loro interesse si sono accapigliati in faccia al pubblico. L'uno voleva scacciare l'altro.

L'ultima novità fascista è, invece, che finalmente l'organo mussoliniano ha biasimato i gaglioffi in camicia nera che si erano dati il compito di punire gli avversari, colpevoli o incolpevoli, perché con questi sistemi truculenti e barbari non si poteva andare avanti. Il direttore del Popolo d'Italia se n'è esasperato pubblicamente. "Da vario tempo, dopo un periodo di sosta che sembrava precedere il periodo agognato della tranquilla convivenza civile, sono tornati di moda gli sfregi, le bastonature ed i bandi." Ma è difficile trattenere le canaglie dal far male.

"I tre episodi riprovevoli sono stati questi.

"Nella provincia di Alessandria ad una maestra socialista vengono tagliati i capelli e pitturata la faccia di verde. Nella provincia di Ravenna si dà olio di ricino ed il bando a Benito Ceccarelli (una celebrità locale) e ad altri repubblicani.

"A Livorno, nell'aula di un tribunale si bastona e si strappa la barba all'on. Modigliani (deputato di tre o quattro legislature)."

Non si erano mai udite sentenze contro questi torturatori di socialisti. Stamane abbiamo letto nei giornali che tre fascisti sono stati condannati a due anni e mezzo di carcere per aver fatto trangugiare a un avversario un bicchiere da tavola colmo di olio di ricino. Ma quanti ne rimangono impuniti? Basterebbe citare il Farinacci di Cremona. La sua ferocia fa paura anche al "Duce".

 

 

XX - IL MONARCHISMO MUSSOLINIANO

 

In politica non è un avvenimento nuovo. Abbiamo veduto Emilio Ollivier in Francia. Repubblicano e giornalista eminente, ha creduto di sedare le agitazioni antimperiali con un ministero così detto liberale, con il rispetto alle leggi. Gliene sono capitate di tutte le razze. Ha finito a Sedan con l'imperatore. Il caso Mussolini è diverso. Con la sua organizzazione fascista è andato al Quirinale e ha pronunciato la parola "maestà" come un borghese qualunque. Chi sia stato più coraggioso non so. Il sovrano o il giornalista? Certo in quel momento il sire era impopolare. La dinastia era in decadenza. Nella nazione esisteva solo come nome. La guerra era stata fatta quasi senza di lui. L'aveva attraversata come un automa. Gli austriaci avevano potuto penetrare nella sua residenza e impadronirsi di alcune cianfrusaglie di reggia. Così è nella storia del generale Viganò. Forse la colpa non era tutta del regnante. L'avevano tirato su come un maestro di scuola. I suoi precettori eran stati rigidi sulla disciplina e sulla grammatica. Gli era mancato il suo Bismarck che lo preparasse per il trono. Tanto è vero che all'esordio della carriera di regnante ha mandato in pubblico un manifesto all'esercito e alla marina senza la firma del ministro. In tanti anni non è riuscito che un numismatico. Egli era un rivale di Romussi del Secolo. Si contendevano le monete antiche. Non ha mai fatto nulla per uscire dagli ambienti degli avi. Li ha seguiti con la borsa nei diluvi, nelle epidemie, negli straripamenti, nelle catastrofi. Cose adatte agli ultimi uomini. Mussolini crede che il re non sia che un nome come un altro. Lamartine invece supponeva in lui due persone, l'uomo e il regnante. Quest'ultimo per il poeta era rimasto sacro. A ogni modo Vittorio come sovrano non è una gran cosa. Non ha lasciato solchi nel suo regno. Ha sposato una montenegrina, dopo le baldorie con le napoletane avariate, ha dato la figlia a un conte capitano, di nessuna importanza militare. Come Mussolini si sia sbarazzato delle vecchie concezioni è materia di studio. Per me è ancora un interrogativo. Ha buttati in mare i colleghi che la pensavano come lui.

Spigolo dal Popolo d'Italia.

"Io non sono qui a rivendicare «autenticità» di sorta; ma non permetto nemmeno che siano alterati i connotati di quel Fascismo che io ho fondato, fino a renderli irriconoscibili, fino a farli diventare monarchici, anzi dinastici, da tendenzialmente repubblicani che erano o dovevano essere. Quella che si svolge alla riapertura della Camera è una cerimonia squisitamente dinastica che dà luogo a inevitabili manifestazioni di lealismo dinastico. Si grida: «Viva il Re». I fasci gridano: «Viva l'Italia». Il nostro simbolo non è lo scudo dei Savoia, è il Fascio Littorio, romano e anche, se non vi dispiace, repubblicano. Nessuno deve confessare i Fasci come monarchici o dinastici." Altrove egli avverte i suoi fascisti che il gruppo parlamentare "non deve ufficialmente partecipare alla seduta reale di riapertura della Camera e deve disinteressarsi dell'avvenimento. Qualche fascista si è mostrato «curiosamente» sorpreso di queste affermazioni che io mantengo e spiego.

"O le parole hanno un senso o non ne hanno alcuno, ma se la frase «tendenzialmente repubblicano» significa qualche cosa, significa che — per lo meno — non si può decentemente aderire a manifestare idee d'ordine dinastico. Altrimenti dove va a nascondersi la nostra tendenzialità repubblicana?"

Tra le riforme, Mussolini vuole abolire un organismo feudale. "Il Senato deve essere abolito." "Chiediamo il suffragio universale per uomini e donne; lo scrutinio di lista a base regionale; la rappresentanza proporzionale. Le elezioni dovranno decidere sulla forma di governo dello Stato italiano: cioè se repubblica o monarchia. Diciamo fino da questo momento: Repubblica."

"La Monarchia ha pure compiuto la sua funzione cercando, ed in parte riuscendo, ad unificare l'Italia. Ora dovrebbe essere compito della Repubblica di unirla e decentrarla regionalmente e socialmente, di garantire la grandezza che noi vogliamo di tutto il popolo italiano."

Continuo a spigolare per convincere che Mussolini non è mai stato che un rivoltoso della dinastia: "Se il grido evocatore della Repubblica significa fedeltà ad un nome e ad un'idea tradizionale che ha sempre infiammata la nostra fede per mio conto l'accetto, anche perché io particolarmente non ho mai creduto né alle virtù né alle glorie di casa Savoia!".

Non è permesso, egli aggiunge, di predicare in un modo e praticare in un altro. "Se per avventura queste mie idee non incontrassero l'approvazione del Fascismo, non me ne importerebbe affatto. Io sono un capo che precede, non un capo che segue. Io vado — anche e soprattutto — contro corrente e non mi abbandona mai e vigilo sempre quando il vento mutevole gonfia le vele della mia fortuna."

"La Monarchia ci deve molto, perché senza la nostra battaglia antibolscevica, chissà quale corso avrebbero avuto gli eventi. Nei tempi in cui ci si batteva nelle strade, quasi tutti i savoiardi attuali si nascondevano nelle più recondite cantine e molti di loro erano già rassegnati alla «repubblica», diciamo «repubblica dei Soviety». Adesso che cosa si vuole da noi? Che si cancelli con un colpo di spugna... elettorale tutto il nostro passato? Bestialità e follia. Il Fascismo non si getta ai piedi del re, perché il re non s'identifica con l'idea di Patria."

Con queste parole la monarchia è finita. Il re si presta sovente a fare delle cerimonie, ma si vede che è stracco, che non ha più voglia di essere sballottato da gente che gli fa da padrone o gli ingiunge dei comandi con la fraseologia eufemistica. Mussolini non avrebbe che da dare l'ordine perché il signore della reggia se ne andasse. Non è più il tempo dei re. Napoleone I ha dato l'esempio di abdicare due volte. Carlo X lo ha imitato. Luigi Filippo è scappato. Gli imperatori di questa guerra sono precipitati, tre in una volta. La famiglia imperiale di Russia è scomparsa. L'imperatore di Germania è caduto esecrato. Si è salvato prendendo moglie. L'imperatore d'Austria è andato all'inferno. Il re italiano potrebbe ritirarsi a completare i suoi studi di numismatica. Avanti, si faccia in fretta. Cominciamo ad alleggerire il regno e a dare alla nazione un bilancio libero dai pesi dei coronati e degli appannaggiati.

 

 

XXI - IL PRINCIPE DI MONTENEVOSO

 

Forse il torto è nostro di supporre che i poeti siano dei vivacchiatori di idealismi o superuomini diversi. Sono uomini come noi. Si danno a tutti i nostri spassi e a tutte le nostre aspirazioni. La poesia del resto è finita. La poesia del nostro tempo è vendereccia, come la prosa dei tempi pescecaneschi. Si vende tutto. Giosuè Carducci fu un eminente bevitore di vino di vasello e di bottiglia, come Stecchetti fu un ottimo bevitore di birra e di barbera.

L'Enotrio Romano scomparve. Fece bene. Non poteva sopravvivere alle sue maledizioni antimonarchiche. Un giorno fu tanto ingenuo da consigliare il sovrano a buttare la corona oltre il Po. Fu l'ultima sosta di Enotrio Romano. Egli voleva farsi il tribuno armato della rivoluzione italiana e sciogliere il voto nazionale a Roma. Tempi dei rompicolli. L'autore delle "odi barbare" aveva capito che egli passando all'altra riva sarebbe stato possente. Il divinizzatore di Robespierre si è gettato in piazza completamente monarchico. L'ode alla regina non era sua. Gliel'avevano ispirata, suggerita. Tutti così questi poeti.

Tuttavia egli non ha voluto acconciarsi alla demolizione. Si credeva troppo alto perché i suoi ex inalzatori potessero gridargli abbasso! Eppure non fu più repubblicano. Neanche coi suoi dodici sonetti del Ça ira. È diventato, s'intende, più ricco. Vi fu un momento in cui egli ha riabilitato Francesco Crispi, quando circolava come il peggior ribaldo che abbia governato l'Italia. Il parlamento gli ha dato una pensione, la regina ha comperato i libri della sua biblioteca privata, le sue pubblicazioni andarono a ruba e a prezzi proibiti e durante le stagioni non ha fatto fatica a risalire a Madesimo a bere il vino delle vecchie cantine e l'aria fresca. Da cittadino era divenuto suddito. Cantava la patria. Indossava la redingote. Non era più l'uomo che doveva mandare a Sommaruga la prosa e la poesia per la Bizantina. Scriveva una ode barbara per un personaggio dei Savoia o per la figlia di Crispi o per Crispi e la sua edizione regia correva sui binari dei professori dotti ed eloquenti come nessun'altra.

Gabriele D'Annunzio non ha avuto ipocrisie. Per lui la sua penna è stata la sua bottega. Non lasciava mai il manoscritto ad Angelo Sommaruga senza il suo compenso. Non volle essere né cittadino, né suddito, né girondino, né giacobino. Ha fatto della poesia venduta al migliore offerente. Ha incominciato coll'essere una meraviglia della strada e del salotto. La gente lo guardava. Oscar Wilde attirava l'attenzione pubblica in America con un abito color bottiglia. Who is he? Si domandavano i passanti. Gabriele D'Annunzio con un superbo levriero, signorilmente macchiato, per le vie di Roma era l'attraction. Egli era in giro come un ragazzo di genio. La gente sapeva i suoi intermezzi di rime a memoria. Canzoni rudi, canzoni libere, canzoni di gran lietezza, di vita nuova. La prima gesta fu libidinosa. Coloro che prima lo avevano sparso come un portento, chiamavano in seguito la legge a sopprimere le sue impudicizie. Non vedevano nelle sue poesie che fango. Dalla sua letteratura passavano prostitute, si vedevano bordelli, vi scorrevano parole sconce e puttanesche. Egli era un tronco di corruzione. Cantava i lunghi languori che lo snervavano, i bei seni dalle erte punte, le reni feline e le bocche sanguigne per cui gli era dolce sfiorire. Lo si faceva diventare una mente pervertita, un immondezzaio politico, un padrone di sgualdrine.

E mentre mucchi di letterati e di giornalisti sono andati alla ricerca della verecondia, Gabriele D'Annunzio, circondato dal frastuono pubblico, si avviava da Roma a Firenze con una duchessina che si era gettata nelle sue braccia. Li ha trattenuti il prefetto per completare il can-can. Ebbe un finale come nei drammi. Il padre curvò la testa. È avvenuto il matrimonio. Dalla lussuria sarebbe passato alla grandezza dell'unione legale.

Sono usciti dei volumi, dei romanzi, delle rotture di matrimoni, dei drammi di nuovi amori, dei drammi teatrali, delle Città morte, fino alla catastrofe col suo Shylock. È andato in esilio. Pareva ch'egli uscendo dai confini di questa società dell'orgia carnale avesse detto: Italia, non avrà più le mie ossa! La Francia gli ha tradotto tutti i suoi libri. Molti in inglese. Molti in tedesco. Ha scritto dei libretti d'opera per delle sommità musicali. Ha fatto denari. Ha sempre vissuto principescamente. Il suo editore Treves lo ha tenuto in Paese. Ha continuato a pubblicare i suoi volumi che sono andati a successive edizioni. Il massimo fu quello delle Laudi. È un libro in casa di tutti i ricchi. Egli è pure al cinematografo con la Cabiria e la Nave — visioni storiche.

Avvicinatasi la guerra nessuno pensava di vedere il ritorno di D'Annunzio. Lo si credeva stroncato dalla critica. Ferri lo aveva chiamato alla Camera un Bell'Ami. Vi era stato un momento in cui lo si era veduto inseguito come un gabbamondo. Egli era accusato di plagio come lo fu a suo tempo Sardou. D'Annunzio non se ne dette per inteso. Lasciò che i cani latrassero. Tirò via per la sua strada. Circolava la documentazione dei brani ai fianchi dei brani. Egli era un plagiario perfetto. Documenterei. Non ho spazio. Dal plagio alla pornografia non fu che un passo. Tutta la sua letteratura portava le stigmate del pornografo. Lo si faceva circolare per i fogli illustrati e le riviste come un corrotto, uno che abusava delle femmine. G. Chiarini che lo aveva lanciato come un superuomo col Canto Novo andò poi sulla piattaforma a chiamare i questori perché lo agguantassero come un personaggio osceno. La sua "forte e barbara giovinezza" in braccio delle femmine gli aveva permesso di mettere sul mercato i lunghi languori. I lubrici fantasmi della perversione erotica lo facevano cadere negli immondezzai pubblici, ma gli facevano guadagnare mucchi d'oro. Nessuno guadagnava come lui. Egli poteva andare dal Treves con un rotolo di manoscritti e uscirne con trenta e più mila lire in saccoccia. Egli ha fatto romanzi, studi, drammi o tragedie passando sempre dalle somme ingenti alla bolletta. Abbattuto, portato in pubblico come un essere vergognoso, le sue pubblicazioni non cessavano di avere una clientela avida della sua letteratura afrodisiaca. La sua bolletta era dovuta ai suoi modi di spendere. Scialacquava, superava i nabab della poesia e della prosa e coltivava la vita intellettuale. Inutile! Il denaro non gli bastava mai. Viaggiava come un miliardario. Non riusciva che ai debiti. Il senatore Albertini che gli voleva bene e gli pubblicava sul Corriere articoli a peso d'oro, credeva al suo disordine amministrativo e prendeva in mano per qualche tempo il guazzabuglio dei suoi guadagni. Inutile! D'Annunzio non guadagnava mai abbastanza. Lavorava a periodi come nessuno. Ma il risultato non era mai diverso. Spendeva e aveva bisogno di spendere. Pareva il Walter del giornalismo.

È stato in esilio per degli anni senza sbronciare i creditori. Ha moltiplicato le sue produzioni, ha avuto tutti i suoi romanzi tradotti a pronti contanti, ha garibaldinizzato il suo tempo, ha cantato i Mille, si è ingraziato un pubblico che lo odiava ed è ritornato in Italia quando la gente lo credeva dimenticato. Che cosa ci entrava lui nella guerra? I suoi versi non erano eroici. Non buttavano i soldati sui nemici. È venuto in Italia come un eroe. La Canzone di Garibaldi è andata direi quasi a ruba. Il prezzo fu popolarizzato. Non si è più parlato dei suoi episodi, delle sue Capponcine, delle sue Duse, delle sue Di Rudinì che lo avevano accompagnato con i cavalli delle loro scuderie a metter in scena le sue Città Morte, le sue Figlie di Jorio, le sue tragedie moderne come Più che l'amore ecc. Il primo passo del suo ritorno fu per la Grande Italia. Diffuse orazioni e messaggi. È andato in giro a sollevare il popolo aristocratico con parole che diceva per la prima volta ai genovesi, intitolate la Sagra dei Mille. C'era al suo dorso Salandra. Fu il suo protettore. Lo spronava. D'Annunzio non appena a Roma si avventò al collo di Giovanni Giolitti. Aveva tutta la stampa con lui. L'ex Presidente del Consiglio non fu più che della lordura. Lo si è fatto rincorrere come della zavorra politica con degli escrementi letterari. D'Annunzio era salito. Ha suonato le campane in Campidoglio. È andato a Villa Ada, "al domicillo della maestà del re d'Italia". I ricordi dei "Mille" gli hanno fatto dire che la luce era fatta. Pareva il Cavour, il Vittorio Emanuele II. "Qui si fa l'Italia o si muore." "Qui si rinasce e si fa un'Italia più grande." Ha fatto scappare Bülow, l'ambasciatore tedesco, con insulti plateali, come ha fatto scappare Giolitti, trivializzandolo come un becero. Ha dato del vile a tutti. "Meglio che prendere la parola io vorrei riprendere il fucile, o compagni", aveva detto Garibaldi. Chi non s'arma è un vile o un traditore, diceva D'Annunzio. Ha dato il nome ai veicoli dell'aria chiamandoli velivoli. È stato elevato a comandante. Ha perduto un occhio in una precipitazione. Non è stato tranquillo. Ha pubblicato quarantamila copie di Notturno a venti lire la copia. Libro personale. Libro di esuberanza personale. Non ha parlato che di sé. Ha riprodotto tutti i movimenti e i ricordi passati e presenti della sua persona. Non ha dimenticato neppure le proprie stramberie. Come questa: "Ho sull'occhio il fanciullo etrusco di bronzo". Poche righe tragiche. Veramente tragiche. Si raccontava che gli alpini con le gambe congelate subirono duecentocinquanta mozzature di piedi e sul Carso i fanti stavano con le gambe nell'acqua motosa fino alle ginocchia. Le loro scarpe erano di qualità pessima, scarpe di cartone, fornite dai frodatori che godevano di tutte le indulgenze invece di essere fucilati in massa o forzati a rimanere tre giorni nella morta gora delle trincee con quelle loro stesse scarpe ai piedi. Tre giorni sarebbero bastati a finire un uomo anche ladro. Ora egli è a Gardone, proprietario di una casa di un tedesco. Vi è insediato come principe di Montenevoso, forse a scrivere degli altri "Romanzi del giglio" o degli altri Innocenti o degli altri Trionfi della Morte.

Il poeta è stato denunciato un giorno come un oltraggiatore al pudore e un eccitatore alla corruzione. Mussolini lo ha messo in alto e l'ha protetto per un pezzo dalla fama d'istrione.

 

 

XXII - L'ESUMAZIONE DI FRANCESCO CRISPI

 

Forse neanche Lenin, quando torreggiava su tutti gli uomini di fama, avrebbe veduto i siciliani così festanti come li ha veduti Benito Mussolini. Non ci furono ritegni. Classi e masse, ricchi e poveri, furono tutti sulla sua strada con le ovazioni strepitose. Io non avrei creduto. Conoscevo le rivolte siciliane. Conoscevo le inquietudini dell'isola. Mi ricordavo dei diluvi furiosi per non udire clamorosi dissensi. Guai poi se avessi preveduto la pomposa esaltazione di Francesco Crispi, morto strapazzato da tutte le lingue e da quasi tutte le penne. Pareva non ci fosse stato più nulla. Con una alzata di mano il tribuno Mussolini avviò i cervelli all'ossequio. Tutti rimasero tranquilli e rispettosi. Le generazioni che applaudivano Benito Mussolini parevano in adorazione di colui che era entrato nella storia quasi come l'organizzatore e il condottiero dei Mille. Non altero la storia. Lo lascio adagiato nella megalomania. Lo aiuto a bistrattare i piagnoni e gli assertori di povertà. Ma dove andiamo a finire se permettiamo agli oratori di esumare con il cappello in mano il fucilitore dei suoi concittadini che erano malcontenti di morire nella ignoranza e nella fame, in mezzo ai baroni e ai grandi proprietari dell'isola liberata dai Borboni? Le stragi dei contadini dei diversi Caltavuturo non si possono dimenticare. Sono morti eroi i De Felice (stu Cagliostro), i Bosco e gli altri "malfattori", accoppati o galeottizzati da Morra di Lavriano?

Francesco Crispi aveva avuto delle bellissime pagine. Il denaro lo ha rovinato dappertutto. Non c'era ancora l'indennità parlamentare. Forse può avere influito la moglie spendacciona, sensuale, ambiziosa, con una tavola sempre imbandita per i five o'clock e per gli amici dei pranzi sontuosi. La Riforma fu il suo quotidiano personale, la sua proprietà privata, il suo lusso di primo ministro. Egli ci teneva a fare l'altezzoso ministro degli esteri. Ci teneva a fare il Richelieu. Si diffondeva da sé. C'era dovunque. Fu il giornale ufficiale di tutti gli ambienti municipali e governativi. Fu un giornale che ha vissuto un po' di questua patriottica. Che aveva la presunzione di portare in giro le grandi idee del Pitt italiano. Crispi è passato attraverso uragani morali, finanziari, militari. La prima caduta fu dovuta a una donna respinta, dopo averla arruolata fra i Mille e averla condotta a Corte e alla mensa di Umberto I. L'Italia era rimasta smagata dal tranello vile teso alla giovane ch'egli aveva finto di sposare a Malta. Per un po' di tempo è passato per un depravato. Egli era facile a ricorrere ai chèques bancari e ai prestiti che sono rimasti più di una volta sospesi. La gaffe maggiore fu quella della Banca Romana. Tutta la sua famiglia — compresi gli alti domestici — si riforniva da Tanlongo. Fu questa la ragione per cui taceva dello scrocco di ottantotto milioni rubati dal governatore. Pare che in questo grosso furto siano compresi i prestiti fatti al sovrano d'allora. Questa sarebbe la ragione per cui il ladrone è poi stato elevato al posto di senatore.

Confido che Benito Mussolini non abbia avuto tempo di penetrare nella documentazione. C'erano momenti in cui Crispi indossava la livrea del sovrano e assumeva un tono di indipendenza antimonarchica. "Noi siamo con lui", diceva, "finché egli sarà con noi." Viceversa fu sempre un buon servitore di monarchia. Respingeva le onorificenze cavalleresche per poi sfoggiarle al petto. Prepotente. I suoi pugni sono nei resoconti parlamentari. Ha saputo coltivare intorno a sé molti cortigiani, stati poi trovati fra coloro che scontavano cambiali alle banche statali senza curarsi delle scadenze. Fu considerato una figura gigantesca per le sue imperiosità, le sue burbanze. Era piuttosto un terrorista parlamentare. C'è voluto Menelik a farlo impallidire, a buttarlo giù dal trono con tutta la sua alterigia. Salto via l'accusa dell'affare Herz. Cinquantamila lire per una decorazione avrebbero potuto giovargli. La documentazione cavallottiana esiste. Crispi aveva allora 72 anni. Concediamogli l'indulgenza. Egli ha da scontare l'uragano della disfatta del 10 marzo 1896. Annunciato con tutte le delicatezze verbali il disastro d'Adua, corse, per tutta la Penisola, un'urlata d'improperi e di abbasso Crispi! Non fu una sconfitta, fu una disfatta. Nel telegramma di Baratieri si diceva, come nei telegrammi di Cadorna, nell'ultima grande guerra, che l'esercito non aveva voluto combattere. L'Italia non aveva piegato affatto sotto l'onta. Gli abissini avevano vinto. Il Paese fu superiore al primo ministro. Invitato a dare sessanta milioni per raccattare la bandiera italiana insanguinata dai nemici abissini il pubblico si gettò sulle liste di sottoscrizione firmandovi venti volte i milioni cercati.

Non sono di quelli che gridano raça al generale dell'insuccesso. Di tanto in tanto Wellington non mi dispiace. In una battaglia coloniale le sorti sono due. In Abissinia la presa di Magdala poteva dare la vittoria a Teodoro. La sfortuna gli ha dato la disfatta. Ha vinto sir Robert Napier. Crispi è stato terribilmente punito dal re degli abissini. All'epilogo del disastro la borghesia si è vuotata la borsa, ma nessuno si è domandato se Umberto I aveva il diritto di tentare di conquistarsi la corona di imperatore senza domandare il consenso nazionale. Le guerre non dovrebbero essere più permesse senza il referendum di tutte le classi e di tutte le masse di chi paga e di chi combatte. Chamberlain ha distrutto la repubblica di Kruger ma per farlo ha dovuto conquistarsene il diritto dalla piattaforma elettorale inglese: se no, no. Se no si rimane con gli "strilloni del re", che esumano: Luigi XVI, consegnato al boia del 1793. Si esuma la putredine.

Il maltrattamento direi quasi nazionale stato fatto al Crispi non fu una iniquità sociale. Il nome dell'ex dittatore al potere fu sinonimo, per un pezzo, di corruzione. Come si diceva di Depretis, si diceva di Crispi: non era possibile avere con loro un governo morale; con l'applicazione degli stati d'assedio non si poteva conciliare lo Stato con l'opinione pubblica. È venuto un momento in cui Crispi era diventato intollerabile. Era in giro come un truffatore. È più che noto il plico di Giovanni Giolitti che ha costernato la Camera. Il Presidente del Consiglio non veniva più discusso. Lo si attaccava con prosa vituperevole. Le ingiurie venivano propalate e servivano di modello a coloro che prendevano parte ai dibattiti che lo esecravano e maledivano. Crispi era il peggiore ribaldo che avesse governato l'Italia. Non so più chi lo abbia detto. Il suo ministero fu il più scellerato che avesse vissuto. Fu un dittatore bestiale e sanguinario. Giosuè Carducci che doveva al Crispi molta benevolenza e la sua elevazione, ne fu addoloratissimo. Gli pareva impossibile che si fosse venuti alla maledizione di un uomo stato adorato da più generazioni. Tanta ingratitudine gli aveva fatto gruppo alla gola. E io lascio passare il rigurgito affettuoso carducciano.

"Caro grande amico, nulla oggimai vi manca di ciò che per lo più è toccato ai sommi cittadini nella storia dei popoli; né dopo salva la patria, l'ingratitudine di quelli che vi invocavano; né, dopo il colpo dell'assassino, l'aggressione di quelli che voi amaste e beneficaste. La procella selvaggia né anche risparmiò il giovine capo della figlia presso le nozze. Serena e calma, in mezzo e sopra questo osceno infuriare di malvagità faziose e ambiziose, la vostra forza. Salute e rispetto. G. C."

Tutto ciò si capisce. Carducci parlava del Crispi che aveva voltato casacca pur essendo stato amico intimo di Mazzini. Non pensava più al malfattore della sua politica e della sua vita privata e tirava giù questi versi per la figlia che andava sposa a un uomo dal quale si è poi presto separata:

...innalza, o bella figlia,

Innalza al padre in faccia

Gli occhi sereni e le stellanti ciglia.

Ei nel dolce monile

De le tue braccia al bianco capo intorno

Scordi il momento vile

E de la patria il tenebroso giorno.

Ne l'amoroso e pio folgoreggiare

De gli occhi in lui levati

L'ampio riso rivegga ei del suo mare

Ne' dì pieni di fati;

Quando novello Procida,

E più vero e migliore, innanzi e indietro

Arava ei l'onda sicula:

Silenzio intorno, a lui su '1 capo il tetro

De le borbonie scuri

Balenar nei crepuscoli fiammanti;

In cuore i dì futuri,

Garibaldi e l'Italia: avanti, avanti!

XXIII

 

LE SFURIATE FASCISTE

 

Si vede subito che il fascismo è una organizzazione di ubbidienza. Io credo che lo stesso re sia sottoposto alle volontà presidenziali. Da che è salito Mussolini è un sovrano che lavora, agitato, movimentato. Non è più il placido numismatico. Direi di più. Tutta la famiglia reale lavora. La regina va di qui e di là a inaugurar scuole, istituzioni, edifici patriottici. La Monarchia, ai tempi di Umberto, secondo lo storico dei Dieci anni, era in grande decadenza. Diceva: fra il 1896 e il 1898 la Monarchia era molto decaduta nell'opinione del Paese. Molti scrittori, anche di parte moderata, ammettevano che le classi borghesi si allontanavano dal Principato. Il deputato conservatore Siliprandi, sulla fine del 1898, così definiva lo stato d'animo delle classi borghesi della Lombardia:

"Una parte notevolissima della borghesia lombarda è repubblicana e, mi affretto a dirlo, e con piacere lo affermo, trattandosi dei nostri immediati avversari politici, essa è tanto moralmente rispettabile, intellettualmente colta e socialmente elevata quanto la borghesia monarchica. Essa vanta tradizioni patriottiche indiscutibili, tenacia di opinioni, attività costante di propaganda, abilità grandissima di procedimenti. La utopia mazziniana è quasi spenta nelle nostre provincie, ma il positivo pensiero di Carlo Cattaneo vive robusto e spontaneo... Tradizione monarchica nazionale in queste provincie non vi fu mai".

Umberto, in quei giorni si ingolfava come Crispi nei debiti, nei prestiti e nelle banche più che poteva. Il re dei nostri giorni per non occuparsi troppo di politica e mettersi in disaccordo con la nazione, si è dato allo studio di numismatica. Mi dicono che abbia fatta una notevolissima pubblicazione. Certo non è a prezzi vendibili.

Per Mussolini l'ubbidienza è dunque indispensabile. Nessuno deve compiere atti senza la sua autorizzazione e la sua approvazione. Certo sono avvenuti molti conflitti a sua insaputa e molti episodi sanguinosi ch'egli non avrà potuto prevedere. Cremona fu una delle province più volte sottosopra. L'on. Farinacci vi ha sciorinata molta strafottenza. In un paese civile egli sarebbe stato arrestato più volte. Miglioli può essere la più grande canaglia italiana. C'è chi ai tempi del grano lasciato marcire nei magazzini del cooperativismo migliolino lo ha voluto paragonare all'affamatore Foulon, l'esecrato intendente giustiziato dalla "Grande Rivoluzione". Io non lo conosco che come deputato clericale. Ma non poteva essere né sloggiato dal suo domicilio né bandito dalla sua provincia da un avversario. Diversamente si cadrebbe nei disordini delle province messicane o nelle violenze degli strilloni del re. D'accordo. Io sono ancora un utopista. Non so adattarmi alle ingiunzioni che vorrebbero essere statali e non sono che sopraffazioni o vendette personali come quelle compiute da Cesare Rossi, la terribile sciagura capitata a Mussolini.

Mussolini, con il suo giornale, ha infuturato idee rivoluzionarie. Ha trovato un terreno favorevolissimo. Tutti deboli, tutta gente che lasciava fare con la speranza che facessero niente anche gli avversari. Non c'è mai stato un quotidiano che si sia lasciato demolire e ardere e frantumare come l'Avanti!, quando stava di casa in San Damiano, senza neanche un articolo che incitasse alla vendetta, alla rappresaglia, alla restituzione del danno e delle aggressioni. Nella stessa sera io mi trovai con la mia compagna in casa del direttore per assumere con la penna e con l'azione la mia parte. Non c'era niente da fare. I dirigenti dell'azienda ordinarono il rifacimento dell'edificio, il ripristinamento delle stanze di redazione e di stamperia, come se si fosse trattato di un disastro senza importanza o inevitabile. Non ci sono stati vocaboli incitatori. Non si sono ammucchiati che sfasciumi. Io venivo considerato come uno scapestrato o una testa calda. Avrei rovinato tutto. Condotto il partito alla rovina. Così è avvenuto dopo il san michele in via S. Gregorio. Un altro assalto, o meglio un'altra invasione, e gli uomini prudenti si sono ritirati, si sono dispersi, hanno lasciato libero il campo alla devastazione. Si è bruciato un'altra volta, si sono rovesciate delle altre pareti, martellati degli altri soffitti, frantumate e messe sottosopra delle altre macchine, disperse delle altre cassette di caratteri, arsi degli altri volumi senza irritarsi, senza protestare, senza correre a casa del rivale a rendere pan per focaccia. Il municipio fu vuotato di tutto il socialismo con un semplice ordine di non tornare più indietro, di non farsi più vedere. Neanche il sindaco ha saputo immolarvisi. I fascisti hanno preso il loro posto senza versarvi una stilla di sangue. Che sangue! Non c'è stata neppure della censura con le mani in aria. Il coraggio era sparito o non era mai esistito. La verità anche per noi. Il direttore dell'Avanti! era in viaggio alla volta della Russia. L'azienda milanese è andata quasi tutta all'inferno.

Passiamo alla bega turbolenta di Massimo Rocca, il produttore della più bella prosa rivoluzionaria di questi giorni. Ben legata, più forte di quella degli altri. Mussolini doveva aspettarsela. Il Rocca è un anarchico altero e violento per natura. Egli ha defenestrato molta gente. È un'individualità. Fu sempre nemico dei socialisti. La sua teoria era di prendere pane dove ce n'era e di non pagare i debiti agli esercenti. A Parigi gustava il sovversivismo tempestoso. Ha giudicato molti uomini francesi ed italiani che avevano fatto storia. Crispi non fu certamente fra i suoi idoli. Egli — se non avesse fatto altro — avrebbe sfrattata dall'Italia la gioventù calda di idee nuove, credendo di liberarla dai cervelli balzani. Fu una reazione tremenda quella di Crispi. Crispi ne ha mandati in galera fin che ha potuto farli agguantare, ne ha lasciati passare alla frontiera quando non ha potuto gettar loro al collo il guinzaglio e li ha calcati nei domicili coatti fin che ha potuto.

Il Rocca aveva un triplice aspetto di militante, studioso e di operaio. In verità non c'è più nulla in lui di quelle tre concezioni. È asceso troppo in alto. Non ha più tempo di occuparsi di tendenze come quando si chiamava Libero Tancredi. Adesso ce lo descrivono come un furioso e un iconoclasta, un ipercritico, o un' altezzoso. Guadagna quello che guadagna. Il suo nemico dello stesso partito gli attribuisce un totale di duecentomila lire all'anno. Libero Tancredi, come si chiamava una volta, in questi giorni, ha avuto uno scoppio di bile. Ha buttato tutto dalla finestra. Il 15 maggio ha rassegnato il benessere al Presidente del Consiglio: le dimissioni da vicepresidente dell'Istituto di Assicurazioni, da consigliere di due società collegate con l'Istituto e da amministratore della Raffineria Petrolifera di Fiume. Così, aggiunse egli, "adempio a due doveri: uno di salvaguardare la mia dignità; l'altro, che si matura in me da molto tempo, di evitare ogni corresponsabilità, sia pure involontaria, con le invadenze di una egemonia finanziaria che estende ormai il suo monopolio anche nel campo assicurativo.

"E prima di lasciare la penna ricordo che l'anno scorso i rappresentanti della Standard Oil vennero da me a propormi un affare analogo a quello della Sinclair, avvisandomi che si sarebbero guadagnati milioni e che io sarei stato con loro. Li ho messi alla porta, prima che Farinacci accaparrasse tutta l'onestà per conto suo".

Non mi occupo del suo duello. Avvenga o non avvenga. Mi occupo del suo mandato legislativo. Se non gli è stato concesso come una sinecura, mi aspetto che disubbidisca. Perché se è stato eletto dagli elettori, egli non può sottomettersi all'ingiunzione di dimettersi, come se fosse un lacchè parlamentare.

 

 

XXIV - MASSIMO ROCCA AL VICERÉ SPAGNOLESCO DI CREMONA

 

All'on. Roberto Farinacci, despota e censore.

 

Sentimi bene, Farinacci, poiché questa volta non voglio risparmiarti nulla. Io ho riaperto la polemica revisionista in questi giorni, con la volontà precisa di giungere ad un risultato pratico di epurazione e di chiarificazione del mio partito, nelle idee, nei metodi e negli uomini. Ho parlato di te, solo per accidente, e con parole cortesi, in piena armonia con ripetute dichiarazioni private di stima e di simpatia per te, delle quali Filippelli e Bazzi e Federici ed altri possono testimoniare. Perché, vedi, a me piacciono gli uomini che hanno una linea ed un carattere, e tu sei uno di questi: lo riconosco, anche se dissento. E lo rispetterei se tu non avessi voluto sciupare la tua riacquistata riputazione nei due ignobili articoli che hai scritto contro di me sul tuo giornale. Pure, questa volta non voglio lasciarmi trascinare dallo sdegno ironico, come nel settembre scorso, allorché tu ed altri parlaste di me quale appartenente ad una banda speculatrice in non so più quale direttissima. Ti parlo sul serio, questa volta: e parlo non tanto a te come individuo e fascista, quanto al viceré spagnolesco di Cremona, amico di alcuni signorotti locali e settentrionali del partito, che da sei o sette mesi diffamano e m'infangano le scarpe, nella pia illusione di umiliarmi. La disciplina non annulla il diritto alla legittima difesa, specie quando non viene mai applicata a chi attacca ed insulta me e gli amici miei.

 

* * *

 

Tu, Farinacci, nominando soltanto me nei tuoi articoli, parli di onestà, come se fosse un monopolio tuo e di De Stefani, e aggiungi considerazioni offensive circa i posti retribuiti ch'io occupo, al contrario di te, direttore di Cremona, e presidente della Mutualità agraria: orbene, grazie per l'occasione che mi dai di scrivere quanto segue.

Io ho cominciato la mia vita politica esattamente a diciassette anni, nel 1901: ventitré anni or sono. Ho sempre lavorato del mio lavoro, tipografo fino all'11 settembre 1913. Ho fatto dei debiti per potermi arruolare volontario nelle Argonne, nel 1914, assieme a Bazzi — dove egli scrisse una meravigliosa pagina d'azione quale nessuno dei suoi denigratori seppe mai scrivere — e li ho pagati sempre col mio lavoro. Ho sostenuto, dall'America come emigrante, e dall'Italia come operaio, la famiglia a cui appartenevo, quando mio padre era vivo e ammalato all'ospedale. Oggi, e da tempo, sostengo sette persone a mio carico, compresa mia madre e mia suocera, e non me ne lagno: ho commesso forse degli errori intimi nella mia vita, ma le conseguenze le ho sempre sopportate io. Ho rinunziato, nel 1919, a mille lire al mese come redattore della Perseveranza, quando fu comperata dal rag. Pressi per conto di Nitti, e mi sono ridotto a ottocento lire alla rivista Risorgimento, diretta dal conte Arrivabene, pur di essere libero nell'esprimere le mie idee. Fui propagandista del partito per qualche mese, e poiché mi si pagavano i viaggi in prima classe come a tutti gli altri, io viaggiavo di notte in terza per inviare la differenza a mia madre lontana: so che Marinelli, quando fui espulso, tentò imbastirvi sopra una questione morale. Ho contribuito a salvare l'industria zolfiera in Sicilia insistendo perché le fosse accordato il prestito semi-governativo di cento milioni: l'avv. Cozzolino ti dirà che non ho voluto — bada bene: non ho voluto — avere un centesimo di compenso. L'anno scorso, ammalato a letto, ho salvato con la mia difesa polemica, contro chi voleva demolirlo, l'Istituto nazionale delle Assicurazioni, che ha ottocento milioni di riserve: l'ingegnere Toia ti può dire che non ho chiesto né avuto un soldo. Oggi, ho una carica retribuita che mi occupa, in ufficio, da mane a sera.

Il risultato di questa mia vita ventennale è ch'io posseggo diecimila lire carta in un libretto presso la Banca Commerciale: ma esse non bastano a pagare il mio debito, per il mio appartamento di Roma, presso il mobiliere De Capitani. Non mi sono ancor acquistato nè ville nè automobili, non conosco indirizzi di bische; non frequento ritrovi notturni. E nota bene, Farinacci, non ho mai chiesto a nessuno di pagarmi spese politiche; nemmeno al conte Lusignani.

 

* * *

 

Se l'umiliazione di spiattellare tutto questo per difendermi dalla tua volgarità non ti basta, io sono pronto a sottoporre tutta la mia vita pubblica e privata al censore più severo, purché non di professione come te. Privata e pubblica: perché io mi vanto di essere sempre stato di minoranza, ribelle disinteressato, geloso della mia integrità morale, della mia disciplina interiore. A diciassette anni, in un processo che poteva fruttarmi tre giorni di carcere, ho affrontato quattro mesi per la coerenza di rifiutare la difesa. Anarchico, fra gli anarchici, ho lottato per un anarchismo concepito come rivolta ideale e religiosa contro coloro che impastavano l'anarchia di utopie e di delinquenza. Sovversivo ed emigrante, ho cominciato ad essere fascista nel 1915, difendendo la realtà sentimentale della patria fra i sovversivi italiani. La guerra libica, la cui necessità io sostenni, mi procurò la scomunica definitiva. Nel settembre 1914, primissimo fra gli interventisti, in una sala di Bologna, tentai invano di tenere una conferenza, ché fui aggredito da duecento energumeni; ma ferito, grondante sangue, ho vinto io. Poi, mi sono arruolato volontario con Bazzi in Francia, e poi di nuovo in Italia, al fronte sul serio, e infine a Fiume con D'Annunzio, mentre tu coltivavi più agevolmente l'eroismo nelle stazioni ferroviarie. Nel 1918, tornato a casa, mi trovai di nuovo in minoranza e in avanguardia, sostenendo accanitamente, solo con Memmoli, Missiroli e il conte Arrivabene, i diritti italiani sulla Dalmazia, mentre tutti i partiti ed i giornali, compresa l'Idea Nazionale, ne allentavano la difesa illudendosi col Patto di Roma.

Bada bene, Farinacci: quanto ti dico di me stesso, è documentato in libri miei ed altrui, e può venir testimoniato da uomini dei partiti più diversi: da Corradini a Cabrini, a Labriola, a Orario, a Panunzio, a Ciattini, a Memmoli, a Bellonci; tutta gente che per animo e mente ti supera di molto, e che mi stima. Né mi sarei acconciato a dirtelo, se non preferissi la sfacciataggine di scrivere la mia biografia alla commedia di farmela scrivere dagli altri; perché non mi piacciono le pose, i soffietti, e la pubblicità della propria fotografia.

 

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Così vuotandomi per difendermi, acquisto il diritto di esprimere la mia opinione su te e su altri, e persino sul mio partito, al quale ho dato molto di me stesso, e con gioia, ma del quale non mi rassegno a fungere da testa di turco o da sputacchiera. Per esempio, il vituperare come facesti il ministro Carnazza, perché aveva concesso una parte di ferrovie ai privati, era violazione del programma fascista, indisciplina verso il partito e il Governo, e disonestà politica, in quanto tu combattevi per i tuoi interessi elettorali. È disonestà politica quella del ministro convinto da molto tempo che è meglio cedere ai privati le ferrovie, che preferisce tacere per amicizia tua o calcolo politico interno di partito che vi s'impernia: quell'amicizia e quel calcolo costano molti milioni allo Stato... È nuova disonestà politica, e più grave, ciò, che tu scrivesti ieri l'altro in Cremona Nuova, che cioè la massa ferroviaria non rimarrebbe tranquilla se le ferrovie non fossero di Stato. Ciò vale a sottoporre le ferrovie alla tua demagogia elettorale ad uso dei ferrovieri che ti votarono; è bolscevismo della specie peggiore. È disonestà politica, infine, parlare di corruzione contro chiunque non la pensi come te sulle ferrovie od altro; il minacciare larvate secessioni mentre pretendi insegnare la disciplina agli altri.

Sai quale differenza corre fra noi, come fascisti e uomini politici? Eccola: tu sostieni il Duce e il Governo solo in quanto ti permetton d'imperare nel vicereame di Cremona e feudi annessi; io li sostengo perché il solo pensiero ch'Egli cadesse, e di ciò che accadrebbe poi in Italia, ove un suo pari non esiste, mi pervade di spavento. Salvo che tu t'illuda di poterlo sostituire!

 

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Ma io ho ancora altre colpe appo di te. Anzitutto sono amico di Bazzi. Che vuoi? Egli mi ha sostenuto in settembre, da amico sincero e commilitone in battaglia, quando certi tuoi amici filistei della onestà solo quando conviene (che valgono cento volte meno di lui) non osavano dire la stima che nutrivano per me. In secondo luogo, sono il sopportato deputato della Lombardia, scornato con pochi voti di preferenza. È vero: io, per disciplina verso il Duce, ho accettato di abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono andato, infischiandomi dei voti, come del resto avevo già avvisato il Duce che non mi sarei offeso affatto d'una mia esclusione dal listone. Pure, vi è un uomo che ha girato l'Italia intera, nel 1919, '20 e '21, per propaganda fascista, senza mai pensare a crearsi un feudo elettorale; un uomo che capitò due volte a Cremona da te chiamato e che ringraziasti pel suo contributo di critica e di lotta contro il lodo Bianchi. Quell'uomo sono io: la mia cultura e la mia intelligenza valevano allora qualche cosa!

Oggi, secondo te, io ho anche il torto di occuparmi di filosofia, di Lutero, di Kant, e simili cose che ti urtano. Ma io non le scrivo per te, e nessuno ti obbliga a leggerle: tu non hai colpa alcuna se non le capisci, come io non ho commesso un reato a studiarle. Tu dici ironicamente che sei un cafone, mentre io mi guarderei bene dal chiamarti così; ma i cafoni sono simpatici quando rimangono al loro posto, non quando posano a despoti, a censori, o ad avvocati se vuoi. E la prova che non conosci la logica della tua parte, è nel rimproverarmi prima di rimanere nelle nuvole delle teorie, poi di scandalizzarti perché io tratto con rude franchezza la politica pratica, pur senza scendere a questioni personali; e infine di sfidarmi a citar nomi, salvo farmi espellere dopo per beghe personali appunto. Come debbo dunque contenermi, o terribile Farinacci? Tacere sempre, perché tu e il partito mi tollerate "generosamente" nelle vostre file? O mentire in pubblico per vostro conto, per la prima volta dopo venti anni? O ritirarmi dalla vita pubblica?

 

* * *

 

So bene che questo è il tuo sogno: e può anche darsi che si avveri: ma prima ch'io mi decidessi, troppe cose dovrei dirti ancora. Ad esempio, che quando io tento riabilitare il cattolicismo, non è per uno sportismo filosofico; ma perché tu e la tua generazione, di giovani fascisti e non fascisti, moralmente sconvolta anche in coloro che sono onesti come te, sta avviando se stessa ad una rovina irreparabile per la mancanza d'una profonda sensibilità morale; e condurrà alla rovina anche l'Italia, se gli adolescenti già oggi pieni di nuova spiritualità, non aiuteranno a raddrizzarle l'anima o a schiacciarla, noi, uomini maturi che un'anima si son foggiata sul serio in uno sforzo ventennale. Che se io rimango nel partito, anche dopo che gli pseudo-rivoluzionari come te non vollero, dopo la Marcia su Roma, attuare alcun programma massimo di sindacalismo integrale, è per trovarvi il mezzo di realizzare almeno un programma minimo di legalità ferrea e di disciplina spirituale. Il problema in Italia non è di fabbricare leggi a getto continuo, ma di far rispettare quelle che ci sono, anche e specialmente contro i riottosi come te. E puoi essere certo che se il Duce domani ti mettesse in galera per otto giorni come un cittadino qualunque, a costo di riempire di autoblindate, trascorrenti fra pubblici applausi, la tua Cremona, il nono giorno tu usciresti di carcere mutato e migliore, più consapevole di te stesso, convinto che la frusta, tua od altrui, non è il simbolo dei signori, ma dei servi e dei prepotenti, non importa se s'illudono d'essere signori.

In altri termini, tu devi persuaderti che non tutta Italia è Cremona e che io non sono quel Miglioli che tu chiami ora a difenderti dopo averlo bandito: io sono il grande e povero signore, moralmente signore sul serio che si degna una volta tanto difendersi da te, plebeo.

Bada bene, Farinacci, questo non lo dico solo per te, e forse meno per te che per altri, amici tuoi: perché io non mi adatterò ad assistere in eterno agli sforzi contro ogni programma. Puta caso, a non saper se sian stati puniti come gli scherani di certa nobiltà terriera di Pisa, quegli esercenti "fascisti" che in Brianza devastarono le cooperative fasciste — (nota: fasciste, lo so dall'amico Postiglione) — perché facevano loro concorrenza. Puta caso, a scorgere il fascismo ufficiale di Genova letteralmente venduto agli armatori che lo disprezzano pagandolo, secondo riconosce chi li paga, e ch'io tratterei da bugiardo se mi smentisse. Puta caso, a vedere la mia città natale governata, per dispetto a Mario Gioda, dall'organizzatore del massacro del dicembre 1922, che Mussolini definì, in un impeto di sacra ira, indegno della razza umana. Puta caso, infine, a disperare che quella oligarchia di pochi uomini, benemeriti ma insufficienti, la quale governa il partito da tre anni, lo diriga di fatto e in eterno, malgrado gli sforzi dei rinnovati Direttorii, mercé la rete di amici provinciali che t'incensa; che escono dalla porta di una carica e rientrano dalla finestra d'un'altra, e rimangono sempre al potere, direttamente, o per interposta persona, maltrattando le persone di cuore e di ingegno, impedendo ogni vera rinnovazione ideale e morale. Vuoi difendere simile gente, Farinacci? Accomodati, ma non parlare di onestà! Non sei in carattere, questa volta.

 

* * *

 

Ti scandalizzi, Farinacci? Hai torto, perché vi è di peggio. Perché il giorno in cui io perdessi ogni speranza, in cui mi convincessi che il fascismo — invece di essere il movimento grandioso di ricostruzione che fu in parte e ch'io sogno continui — degenera nella volgare brutalità del cazzotto e del randello o nella viltà imposta dalla paura, io invierei al Duce la mia tessera, la medaglietta e la croce di commendatore; spezzerei la penna piuttosto che scrivere col tuo permesso; ridiventerei anarchico per disperazione piuttosto che accettare il tuo dominio; mi dimetterei persino da italiano, e tornerei emigrante e tipografo all'estero, in cerca d'un paese civile che mi garantisse l'incolumità fisica e morale. Perché io son disposto a cederti tutto, anche la mia pelle se credi, purché tu la sappia prendere a me che ho fatto la guerra sul serio e saprei difenderla, ma non la mia dignità di uomo; perché nessun tesoro al mondo mi persuaderebbe a cambiare il mio cervello, la mia anima e il mio passato con i tuoi; perché la distanza fra me e te, dall'alto in basso, io saprei mantenerla anche malgrado la tua pena di morte, e un minuto prima di morire sghignazzerei, sputerei, ancora sulla tua forca e sulla tua mannaia.

E credo, con ciò di averti risposto come ti meriti. In conclusione come squadrista della prima ora, ti stimo; come uomo di carattere, ti voglio anche bene; ma come eroe che parla di morte senza averla mai affrontata mi disgusti, come censore mi fai ridere, come tiranno mi fai pena.

Ed ora, chiedi la mia espulsione, Farinacci, secondo usi ingenerosamente contro un uomo isolato che non ha dietro di sé alcun vicereame da opporre al tuo. Fammi espellere; può darsi che tu vi riesca. Ed io raccatterò la bolla di espulsione e me l'appenderò al petto come la medaglia commemorativa di una vittoria, come la consacrazione definitiva del mio coraggio e della mia fede.

15 maggio 1924           Massimo Rocca

 

 

 

XXV - LA SOLLEVAZIONE DEL PAESE PER IL TRAFUGAMENTO DELL'ONOREVOLE MATTEOTTI

 

Gli assassini dell'on. Matteotti sono il risultato di un ambiente losco e feroce. Al loro dorso si sono consumati innumerevoli delitti politici. La sollevazione pubblica è avvenuta dopo tanto strazio e dopo tante glorificazioni di omicidi! È una riproduzione dell'ambiente francese del 1868. Parigi s'era trovata in un attimo in un braciere. Pietro Napoleone Bonaparte aveva ripreso la continuazione degli assassinii politici, uccidendo in casa propria Victor Noir, un giovane andato con il secondo padrino a portargli un cartello di sfida. Sono stati i primi. Il principe abitava al 59 della rue d'Auteuil. Noir guadagnava la esistenza con dei lavori manuali. Il pubblico non si è fermato su questo fatto. Non ha veduto che l'assassinato. Uno dei due rappresentanti di Paschal Grousset, Victor Noir, è riuscito a rotolare e guadagnare il marciapiede con in gola i rantoli della morte. La diffusione del delitto ha sollevato una tempesta. La capitale francese era tutta sottosopra. Rochefort era in mezzo alle moltitudini. Nell'aria c'erano i rintocchi dell'impero. Il Due Dicembre stava per andare in frantumi. Il funerale aveva tutte le folle della Parigi e dei dintorni. Sono state sommate a ottocentomila persone. L'imperatore si credeva vicino alla catastrofe. L'affare era più grave di quello del cadavere Baudin — il deputato fatto stramazzare dai soldati del Due Dicembre. Erano diciotto anni che la Francia stava nelle mani di quei coupe-jarrets, i quali, non contenti di mitragliare i repubblicani nelle vie li attiravano nei loro tranelli immondi per sgozzarli a domicilio. "Popolo francese, si domandavano tutti, forse che non ne hai abbastanza?" La famiglia Bonaparte non poteva avere il privilegio del revolver. I funerali avevano messo sulla piattaforma oratori che tacciavano la famiglia imperiale di vigliacchi, di miserabili, di canaglie, di assassini, di ladri, di rettili. Avevano fissata l'ora di rovesciare l'impero. Andare ai funerali di Victor Noir era considerato del civismo repubblicano. Il governo per protrarre la caduta ha lasciato tutta la libertà al morto. Nessun soldato. Proibizione ai poliziotti di farsi vivi. Gli ammutinati e gli esasperati potevano circolare, urlare, manifestare, orando quello che volevano. Le moltitudini dovevano solo mantenersi nel programma: andare col morto al cimitero di Neuilly e non al cimitero del Père Lachaise. Allora il governo si sarebbe servito della cavalleria e delle batterie di artiglieria. È certo che le sonerie delle campane a stormo s'erano sparse anche nelle provincie. Dopo diciotto anni che la Francia era stata prigioniera dei Bonaparte c'era dovunque un'ansia di emanciparsi. I francesi non volevano più essere revolverizzati dai decembristi. Il principe aveva dovuto lasciarsi chiudere in una prigione comune per la propria salvezza e il funerale era stato concesso con tutte le libertà, senza la presenza della polizia, purché le folle avessero seguito l'itinerario di incamminarsi verso il cimitero di Neuilly. Le grida erano alternate dalle arie funebri. A Parigi! si gridava. Vendetta! Abbasso i Bonaparte! Queste scene parigine degli ultimi tempi del basso impero meriterebbero una larga descrizione in un paese come il nostro in continuo contrasto con la popolazione. Nessuna legalità. Violenze giorno e notte. Omicidi, strazi, soppressioni di libertà. I fattacci in Francia sono stati preceduti da un colpo di Stato. I congiurati del colpo di Stato hanno trovato denari, sicari, voltafaccia. Hanno massacrato cittadini, deputati, ufficiali che non volevano piegare come quelli che non si rifiutano mai di compiere stragi a pagamento. Più tardi gli episodi sanguinari sono stati infiniti. Si commettevano i delitti più mostruosi. Fra i giornalisti che si sono conquistati un nome ricordo Enrico Rochefort — una specie di Mussolini del nostro tempo. Salvo la parte stilistica, Rochefort sciorinava più sarcasmo nel suo stile mordace. Egli era acre. Aveva delle figure atroci per colpire gli usurpatori del trono francese. Un giorno, in mezzo ai deputati imperialisti, si è veduto messo in ridicolo. Non ha voluto altro. "Non sarò mai (ridicolo), come l'individuo che passeggiava sulla piazza di Boulogne con un'aquila sulla... spalla e un pezzo di lardo sul cappello!" Egli alludeva all'imperatore Napoleone Bonaparte. La frase fece stupore. Gambetta, che aveva capito il pepe di Cayenne nella frase, impedì a Rochefort di sciuparne l'effetto. Le caratteristiche di Rochefort sono in gran parte in Mussolini. Giornalista l'uno, giornalista l'altro. Deputato l'uno, deputato l'altro. Entrambi articolisti di quotidiani violenti, aggressivi, repubblicani. Duellisti. Molti scontri personali. Pugilisti parlamentari. Forse più letterato Rochefort per la sua aspirazione al teatro, per la sua vena al romanzo, e per le sue avventure dentro e fuori di prigione. La Lanterne fu la sua spinta all'esaltazione giornalistica. Andava in giro con una corda per gettarla al collo imperiale. La caduta della Comune lo fece mandare in Caledonia. La fuga dalla Caledonia gli sparse il nome per il mondo come un eroe. Dopo le interviste in America, lo si è visto in un tiro a due con una bella signora per le vie di Londra.

Benito Mussolini allora era un ragazzotto. Incominciava a farsi vivo come giornalista. È stato processato. Spese qualche anno al servizio del quotidiano di Battisti a Trento. Si è fortificato intellettualmente in Francia. In Italia ha turbato i seguaci di Carlo Marx. È andato alla direzione del massimo quotidiano socialista. È giunto a una conflagrazione di partito. Inalberò i colori della scissione con un giornale che ha veduto superbe tirature. Prese parte alla grande guerra, senza cessare la professione, affidando la direzione del Popolo d'Italia a un redattore capo. Gli è scoppiata una bomba in mano mentre faceva istruzione al suo plotone. Gli si riempì il corpo di schegge. Della guerra scrisse il diario, magnifico diario, snello, fresco, qua e là spettacoloso. Ritornato al giornale, è apparso una specie di Kossuth, una celebrità politica. Ha organizzato un corpo incaricato della demolizione socialista. Divenuto capo del fascismo fece scalpore il suo arresto. Pare si trattasse di un nascondiglio d'armi. Il fascismo è venuto al mondo dopo Vittorio Veneto. Composto di molti partiti. Tutti giovani. Il dopo guerra è pieno di scontri sanguinosi. L'ambiente non è ancora sedato. La disunione dei socialisti rese più forte il fascismo. Gli scioperi e i rialzi di salari contribuirono a spingere la borghesia industriale nell'orbita fascista. Siamo all'occupazione di Fiume compiuta da Gabriele D'Annunzio. Otto giorni dopo, con Nitti al potere, si sono fatti i primi arresti: Mussolini, Marinetti, Vecchi con non pochi arditi. Non faccio la storia degli ultimi avvenimenti.

Mi limito a ricordare che alle ore 10.42 del 30 ottobre 1922 Benito Mussolini, duce del fascismo, entrava in Roma circondato da novantamila camicie nere e salutato da una pioggia di fiori e dagli evviva di una moltitudine elettrizzata dall'entusiasmo. Vi entrava "monarchizzato", chiamato dal re ad assumere la Presidenza del Consiglio parlamentare.

"Maestà, vi chiedo perdono di presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia fortunatamente incruenta. Porto a Vostra Maestà l'Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalle nuove vittorie; e sono, di Vostra Maestà, il servitore fedele."

La tragedia del povero Giacomo Matteotti, deputato unitario, ha messo sottosopra il fascismo e ha rinnovato, direi quasi, il ministero. Non c'è mai stata tanta emozione. Ci sono cimiteri di gente uccisa in questi due o tre anni, ma nessun omicidio ha mandato allo zenith l'ambascia pubblica come questo delitto selvaggio. Ci sono stati deputati bastonati, defenestrati, caricati d'olio di ricino, aggrediti con le forbici alle barbe, sfregiati, assassinati. Cito a memoria. Il deputato Giuseppe Di Vagno, revolverato in piena piazza soleggiata, a Mola di Bari, in una domenica, da diciotto o venti congiurati. È caduto. È stato un orrore per il partito socialista che non è accorso in massa sul luogo del delitto. I giurati hanno assolto i malviventi. Il tipografo Piccinini, di Reggio Emilia. Era un candidato al parlamento. Non ci sono di mezzo che alcuni mesi. Lo hanno fatto discendere da casa con un falso pretesto. L'hanno trascinato in piena campagna e ammazzato come un cane idrofobo. L'on. Francesco Buffoni, ha dovuto salvarsi da Gallarate con la famiglia, scappando. Il suo studio di avvocato è stato sconquassato, defenestrato. Nessuna autorità lo difese. I deputati Bussi, Vella, Modigliani, Maffi, Marangoni, Graziadei, Bombacci, Pagella, Miglioli, Mazzolani; l'ex Presidente on. Nitti, l'ex ministro Amendola hanno conosciuto il manganello o lo sfollagente o la violenza delittuosa dell'aggressione fascista. La stessa sorte è toccata al deputato Misuri e a Cesare Forni. Stesserati dal partito, furono con la testa fracassata dal randello. Non erano stinchi di santo. I loro nomi sono apparsi più di una volta come terrorizzatori: manganellavano e facevano manganellare. A ogni modo noi li lasciamo passare da vittimizzatori a vittime.

I seicentomila fascisti intorno al duce hanno lavorato le teste degli avversari come non sarebbe stato possibile in un altro paese civile. Le Cooperative sono state distrutte e poi sostituite. Le Camere del Lavoro — le più belle, le più formidabili — sono state incendiate, demolite, frantumate. Quella di Torino è divenuta un mucchio di ruine. Tutto è stato capovolto. La bacheca intellettuale dei libri e dei giornali degli avversari in tutte le provincie è stata soppressa, arsa, schiantata. È così che si è vinto il nemico. Non lo si è lasciato rivivere. Tutte le concessioni ai fascisti; nessuna agli oppositori, ai socialisti e ai comunisti. Dove c'erano rimasugli di avversari si incominciarono le proscrizioni, si liberarono gli ambienti dai vecchi abitanti che non avevano conosciuta l'ora della rivolta.

La soppressione di Giacomo Matteotti ha rivelata la esistenza di una "Mano Nera", di una Ceka politica nelle aggressioni, nelle persecuzioni, nelle punizioni. Si è veduto Filippelli, direttore dell'ex Corriere Italiano. Egli ha potuto mandare il proprio chauffeur al garage Tomassini a prendere sotto la sua responsabilità una Lancia che doveva servire per il trafugamento e la strage del povero Matteotti. La descrizione dell'ammazzamento dell'antifascista è stata fatta dal sicario Albino Volpi. È una descrizione terribile. Mette sottosopra il sangue e precipita nei deliri degli orrendi sogni. È il riassunto del suo maggiore autore. "Sono deciso a non farmi prendere. Non mi prenderanno. Comunque sono deciso a sparare sui miei catturatori e poi su me stesso. Vivo non mi avranno. Ed è anche meglio per loro...

"Il contegno del Matteotti è stato assolutamente spavaldo. Mentre lo pugnalavamo egli è stato, direi, eroico. Ha continuato fino alla fine a gridarci in faccia: «Assassini! barbari! vigliacchi!» Mai ebbe un momento di debolezza per invocare pietà. E mentre noi continuavamo nella nostra azione egli ci ripeteva: «Uccidete me, ma l'idea che è in me non la ucciderete mai». Probabilmente, se si fosse umiliato un momento e ci avesse chiesto di salvarlo e avesse riconosciuto l'errore della sua idea avremmo forse non compiuta fino alla fine la nostra operazione. Ma no. Fino alla fine, fin che ha avuto un filo di voce ha gridato: «La mia idea non muore! I miei bambini si glorieranno del loro padre. I lavoratori benediranno il mio cadavere». È morto gridando: «Viva il socialismo»." Tale sarebbe stato il contegno del martire che assurse in una aureola di gloria!

La disgraziata vittima non poteva essere sublimata con parole più elevate. Più la barbarie dei pugnalatori inferociva e più il pugnalato si rincuorava nell'avvenire, nelle masse del suo partito, nei suoi figli e nel socialismo.

Il Filippelli doveva essere inseguito, imprigionato, portato velocemente a Regina Coeli. Invece lo si è lasciato scappare fino al mare, in un motoscafo, con una valigetta arrotolata internamente di biglietti da mille. Pare che ci fossero degli indugi ufficiali. Dimissionato il De Bono da capo della polizia, cadde subito nelle mani dei sequestratori d'uomini. Si è rivelato una specie di sciacallo, una ventosa di denari, un cavaliere d'industria che non ha saputo sopprimere bene la propria pista.

Il sottovoce non si è fermato. Anche il Finzi, sottosegretario agli Interni, ha dovuto essere dimissionario. Intimo di Mussolini gli si preparano gli abissi. Si è matrimoniato principescamente non è molto. Vi aveva partecipato un porporato della chiesa. Mussolini durante la bufera delle accuse e dei sospetti lo ha ricevuto in casa: difenditi! Pare che il Finzi abbia fatto molti affari sotto il regime fascista. Ricco. A diciotto anni possedeva due automobili.

Gli accusati crescono di numero.

Il più annerito dall'inchiostro giornalistico è Amerigo Dumini, il falso "comm. Gino Bianchi, fratello del quadrunviro Michele Bianchi". Fondatore del fascismo toscano; condottiero di numerose e famose "spedizioni punitive". Accumula su di sé un gruppo di cadaveri strangolati o sconquassati dalle sue mani. L'attività di questa iena è stata rivelata dal comm. Giurin, l'ex vice-presidente della deputazione provinciale di Milano. Egli lo ha riassunto con queste parole.

"Ho visto Dumini a Roma parecchie volte. Lo avvertii: «Bada bene a quello che fai, perché un giorno o l'altro finirai male».

"Il Dumini per tutta risposta mi disse: «So di avere sulla coscienza undici o dodici omicidi per mandato, ma sono vincolato e in pieno potere di coloro per i quali ho agito. Ora non mi rimane che di proseguire per questa china. Se mi rifiutassi, non avrei altra alternativa; o di essere soppresso, o affamato, o di andar in galera»."

Egli fu un esponente. Lo si è visto in quasi tutte le aggressioni e le uccisioni. C'è nell'aggressione Amendola, nell'aggressione Forni, nell'aggressione Misuri. Fu nella tragica spedizione di Foiano della Chiana. Fu arrestato per i fatti di Sarzana, dove vi aveva condotto un camion di moschetti e di mitragliatrici. Quando non aveva tempo incaricava gli amici. Nel 1921 ha incaricato due giovani di incendiare la Casa del Popolo di Rifredi (Firenze).

Il Dumini ha avuto un giornale che pubblicava, sospendeva e ripubblicava. Si chiamava la Sassaiola Fiorentina. Umberto Pasella fu uno dei suoi implacabili nemici. Lo ostruzionava dove e quando poteva. Nel partito lo si credeva fatale.

Un'ora prima di andare ad impadronirsi di Matteotti, il Dumini ha incontrato un amico in piazza Colonna. "Sai", gli disse, "si va a fare una grossa spedizione punitiva di polizia e io la devo dirigere!" La notizia è stata comunicata dal colonnello Sacco, ufficiale di ordinanza del generale De Bono.

Amerigo Dumini godeva dell'amicizia dei gros-bonnets del fascismo, non escluso il De Bono, capo della polizia e generalissimo della Milizia Nazionale. Pranzava con Cesare Rossi alla trattoria Brecche. Circolava nelle sale dell'Ufficio stampa del Ministero, nei corridoi della Camera e nelle tribune dei Ministeri come in casa propria. Era famigliare a tutti i capi del regime. Prima del rapimento del Matteotti è stato veduto a tavola col Rossi a fare esperimenti con un pugnale ch'egli immergeva in una pagnottella di pane. Una volta in prigione è stata portata in pubblico la sua confessione di dodici omicidi compiuti per conto di mandanti. Certo, nella valigetta che gli venne sequestrata, aperta, è stata più di una confessione. Conteneva un pigiama che puzzava di sangue. Vi si è trovato un fagottello di rimasugli insanguinati. Pezzi di panno ancora bagnati di sangue, pezzi della tappezzeria dell'automobile con la quale avevano trafugato l'onorevole e delle carte da visita intestate al proprio nome con queste parole da una parte: Ufficio stampa — Ministero degli Interni". Il giudice istruttore ha registrato i pezzi di stoffa bagnati di sangue, strappati dagli abiti dell'on. Matteotti. Nella stessa valigetta si sono pure trovati un coltello e una rivoltella. Peccato che non ci sia la pena di morte! Beccaria fu un sentimentale.

Non si sa se Albino Volpi sia una canaglia feroce e sanguinaria come il Dumini, se pure un gruppo di assassini coalizzati in un delitto possa contenere un affiliato al disopra della belva. Ad ogni modo egli ha finito per dichiarare che il povero Matteotti è stato scaraventato nel lago di Vico. Il Volpi sarà condannato in vita, come il più efferato sicario, ma molti attenueranno questo giudizio dicendo che è stato il più sincero nella spaventosa descrizione. Il delitto non può essere discusso. È politico, eminentemente politico.

Il Corriere Italiano lo ribadisce. Questo giornale chi lo leggeva? Poca gente. Si è solo saputo che ha divorato in dieci mesi dodici milioni di lire. Il suo direttore è stato messo sotto chiave. Entrando nell'ambiente dei gaglioffi egli si è sentito crollare l'edificio sulla testa. "Sono perduto!" Indubbiamente. Non c'è più via di salvezza. La valigetta colma di biglietti da mille è una rivelazione che al dorso della geldra imprigionata sono miliardari pronti a prezzolare i più vili delitti. Sono i nomi dei mandanti che bisogna mettere in pubblico. Li avremo. I sicari parleranno. È allora che potremo gettare gli sguardi negli abissi delle più sciagurate figure dei questo periodo. Gente probabilmente incapace di soccorrere un gruppo di famiglie povere, spreca milioni per il compimento di massacri umani spaventosi a favore di una setta. È probabile che i nomi di questi delinquenti arciricchi ci vengano consegnati dai bassi partecipanti alla consumazione del criminoso assassinio.

La Ceka del Viminale sembra una società di criminali di Rocambole, di panamisti, di maîtres chanteurs, di assassini determinati alla soppressione dei Jaurès, dei Gambetta e degli altri uomini di genio per le pagine dell'immaginazione. Gli autori della strage dell'on. Matteotti sembrano feroci come i Fenayrou delle assise di Parigi. Il capo della Ceka fu scelto non si sa da chi, come capo della polizia segreta. Si è detto che fosse il comm. Cesare Rossi, capo dell'Ufficio Stampa del Ministero. La Ceka era una associazione tenebrosa. Gli agenti segreti di questa organizzazione erano tutte persone famose nei crimini. In apparenza non dovevano che pedinare certi uomini politici, come è stato pedinato il senatore Albertini del Corriere della Sera. Hanno aggredito Cesare Forni, alla stazione di Milano. Il Forni non è stato accoppato per miracolo. Un tempo fu lui alla testa di queste aggressioni. Diceva agli aggrediti: "Sapete chi sono? Io sono il capitano Forni". Era la Ceka che distruggeva il dissidentismo con la violenza. Il Dumini, nella Ceka, non era una volgare creatura. Occupava posti eminenti. Egli era tra gli arditi un ispettore principale e ufficiale di collegamento. Di questa setta si aspetta sempre un documento.

L'avv. Filippelli ha buttato via la fortuna che gli aveva conquistato il suo cervello lurido. Aveva un quotidiano tenuto in piedi a milioni, con quattro o cinque automobili, delle ville qua e là e dei terreni. Ha dato la preferenza alla carriera del malfattore. Gli sono state sequestrate circa centomila lire e gli è stato soppresso il giornale, che nessuno del resto avrebbe continuato a leggere, se non per tener dietro alle narrazioni personali sul Matteotti. Non si possono capire tanti delinquenti accaniti contro un uomo. Naldi, Filippelli, Dumini, Volpi, Rossi, capo della stampa ministeriale, Marinelli, segretario amministrativo dei fascisti che pagava, sovveniva e via via. Tutti i giorni i criminali aumentano. Dopo tanto parlare su Cesare Rossi e sulle sue fughe egli si è presentato a Regina Coeli innocente. Vedremo. Le loro relazioni diventano sempre più intime. Il concetto di tutta questa gente altolocata è sempre quello. Impedire all'opinione pubblica che si associ agli avversari. Impedire agli avversari di ritornare, di riprendere, di divenire. Giacomo Matteotti nella mente degli assassini è stato considerato un altro Lobbia. Spaventava. Se andava alla Camera lo si sospettava con il plico. Doveva rivelare, denunciare. Lo si credeva un armadio di segreti, di documenti, di note diarizzate per i discorsi d'opposizione. Nessuno credeva, salvo certi fascisti, si fosse come ai tempi del Lobbia in una Camera di venduti e di corrotti.

I tipi loschi affondati nel sangue continuano a fare inorridire. Sono complici uomini eminenti dei Ministeri. Non sono dei Sherlock Holmes. La Ceka, se esiste, non è per moltiplicare i lettori, per circondarsi di gente. È una organizzazione di criminali politici, di squadre di banditi, di gente messasi insieme come della haute pègre moderna. È una associazione che fa rabbrividire.

Dumini che confessa lui stesso di avere avuto dodici mandati d'assassini prima si era detto commendatore. È un titolo che pare, adesso, sinonimo di ladro e di assassino. Bisogna dire che sapevano camuffarsi bene. Vivevano sontuosamente. Vestivano da signori. Se la passavano da persone che non incassano che col cheque-book. Rocambole è divenuto, davanti a questi tipi, una marionetta, un terrorista di fantasia, un giocattolo da burattinaio. In confronto, i Gasparoni dei giorni andati, erano meno spaventevoli. L'atrocità di questi sedicenti "ricostruttori" verrà forse fuori al processo, se la autorità giudiziaria riuscirà a metterlo assieme. Non è facile giungere a dei rigori politici. È un partito che non lo si può più far rinsavire. Il duce ha un bel dire: ragazzi state quieti! Rispettate la legge! A Torino quattro o dieci barabba si precipitano nel palazzo del senatore Frassati e glielo devastano a colpi di sfollagente. L'appartamento è stato in parte rovinato. Perché? La Stampa è un vecchio giornale subalpino, rispettato in tutto il Piemonte, con diramazioni in tutta Italia, e i barabba, armati dei terribili arnesi hanno cercato di impadronirsi del senatore e compiere su di lui sevizie. Questa proprio è una vergognosa ricaduta del popolo negli istinti più brutali e più bestiali dei tempi in cui le moltitudini andavano coi piedi nel sangue delle guerre civili.

Hanno arrestato anche il Giuseppe Viola, altro degli esecutori materiali dell'assassinio Matteotti. L'hanno sorpreso in una osteria di via Luigi Canonica. Il suo nome faceva rabbrividire anche quelli della questura. I poliziotti gli si sono precipitati addosso, prendendolo come in una morsa, con le rivoltelle tese. Lo si è ammanettato e portato via in una vettura per la questura. Sarebbe il quinto sicario. Cinque per assassinare un deputato di opposizione. La storia delittuosa è vicina al suo epilogo.

La Ceka deve avere ramificazioni un po' dappertutto. Dovunque ci sono moti iniziati, provocati il più delle volte da combriccole locali. Il delitto Matteotti è una specie di fioritura. A ogni sventramento rimane in luce qualche cosa che si ignorava. Oggi è la volta della rivelazione sul sacerdote Giovanni Gatti, parroco di Caspoggio (Sondrio), ex cappellano di guerra, noto per le sue benemerenze patriottiche, stato offeso, bastonato, carcerato e sfrattato. Con le rivoltelle puntate gli fecero trangugiare una boccetta di olio di ricino. Un altro prete, don Locantore di Palmira (Potenza) che fu anche lui valoroso soldato e fondatore di un orfanotrofio di guerra, si è veduta invasa la canonica dai fascisti. Ha dovuto salvarsi con la fuga dalla finestra. Il governo pare stia facendolo rientrare nel suo appartamento.

 

 

XXVI - L'ORAZIONE DI FILIPPO TURATI

 

Si soffriva. Era un ambiente di trambasciati. Si aveva bisogno di un sollievo, di udire la parola di un uomo che schiudesse nuove speranze. Giacomo Matteotti era scomparso troppo giovine perché venisse diffuso come figura parlamentare. Il suo discorso alla Camera era stato documentale. Aveva irritato gli avversari. Aveva sollevato il fascismo che si dibatteva come un mucchio di lucertole. Filippo Turati non poteva essere in vena di aggredire. Era troppo intenerito dall'argomento. "Vorrei", disse, "che a questa riunione non si desse il nome logoro o consunto — specialmente qui dentro — di commemorazione. Noi non commemoriamo. Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare, perché il suo nome è nei vostri cuori, perché il suo nome è evocato in questo momento da tutti gli uomini di cuore, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui, presente e pugnante. Egli è un accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa; il vindice della Nazione che fu depressa e soppressa; il vindice di tutte le cose grandi che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere. E il dovere di vivere è anche, soprattutto, dovere di morire quando l'ora lo comanda.

"Di morire per rivivere; di morire perché tutto un popolo morto riviva; di morire perché il nostro sangue purifichi le zolle, le sacre zolle della Patria, che alla Patria — se le fecondi sudore di servi — procacciano messi avvelenate.

"E questo vivo, che è qui accanto a me, alla mia destra, ritto nella sua svelta figura di giovine arciere, di cui voi vedete il sorriso, di cui voi scorgete il cipiglio — perché non è un'allucinazione, perché lo vedete, perché non vi inganno, — questo vivo, questo superstite, questo ormai immortale e invulnerabile, fatto tale dai nemici nostri e d'Italia; questo vivo, nell'odierno rito, è trasfigurato. È Lui ed è tutti. È uno ed è l'universale. È un individuo ed è una gente.

"Invano gli avranno tagliuzzato le membra, invano (come si narra) lo avranno assoggettato allo scempio più atroce, invano il suo viso, dolce e severo, sarà stato sfigurato. Le membra si sono ricomposte. Il miracolo di Galilea si è rinnovato. A che le vane ricerche, o farisei d'ogni stirpe? A che gli idrovolanti sul lago, a che il perlustrare la macchia, il frugare nei forni?

"L'avello ci ha reso la salma. Il morto si leva.

...

"Quello, che era cosa nostra, è divenuto anche la cosa vostra, l'uomo di tutti, l'uomo della storia. E, ingrandito così, quasi è tolto a noi come alla famiglia dolorante — perché è divenuto un simbolo.

"Il simbolo di un oltraggio che riassume ed eterna cento e centomila altri oltraggi, tutti gli oltraggi fatti ad un popolo; la figura che compendia tutti gli altri trucidati e percossi per lo stesso fine, da Di Vagno a Piccinini, agli infiniti altri oscuri; il simbolo di una stirpe che si riscuote; il simbolo di un passato che si redime, di un presente che si ridesta, di un avvenire che si annunzia; della immortale democrazia, della indefettibile giustizia sociale, che si rimettono in cammino; dell'Italia che, dopo una parentesi di spaventoso Medio Evo, risale nella luce dell'età moderna, rientra fra le genti civili.

"Il simbolo è la Nemesi: la Nemesi augusta, o signori, che è della storia. Cerchi il Magistrato le colpe e le ferocie secondarie e minori; incalzi gli esecutori codardi e i mandanti immediati: compito anche questo altamente rispettabile e necessario. Frughi e tenti di sventare la congiura degli intrighi, di snodare il groviglio dei silenzi comprati o ricattati, le mendicate omertà, e il tagliaborse che si annida nell'assassino. Tutta questa è la cronaca.

"La Nemesi vola più alto.

"Essa addita il grande mandato; il mandato che erompe da più anni di violenze volute, di violenze inanellate alla frode, di consenso cercato ed irriso; dal sarcasmo di una pacificazione, proclamata a parole e impedita e violentata nei fatti; dall'incitamento perenne alla soppressione del pensiero libero e di chiunque lo incarni, la quale è soppressione della vita, della Patria, della civiltà. Addita il mandato che scese dall'istrionismo bifronte, che adesca insieme e minaccia, che offre il ramo d'olivo ed affila nell'ombra i pugnali. Addita il mandato che salì dalle viltà incommensurabili, dalle fughe abbiette, dagli obliqui fiancheggiamenti, dai silenzi complici, dalla corruzione demagogica esercitata su anime semplici, talvolta generose ed eroiche, persino di combattenti insigni ed oscuri, i quali in buona fede hanno creduto che un regime di minaccia e di prepotenza potesse essere ricostruttore, che la più immonda curée potesse germogliare la rigenerazione del Paese, che gli errori e le colpe fugaci di una massa illusa (e non cerchiamo illusa da chi; e non domandiamoci se veramente esistono le colpe di un popolo) dovessero espiarsi, non col richiamo severo alla ragione, ma con la catena dei delitti, con la tregenda delle sopraffazioni esercitate su quel popolo; col dileggio di ogni umana dignità; con la tragedia del terrore, accoppiata alla coreografia di vetusti trionfi mai redivivi."

 

Il grido angoscioso di Filippo Turati è corso dovunque come uno schianto d'animo. Si singhiozzava o si sentiva il singhiozzo nella gola.

 

 

XXVII - GLI STRILLONI DEL RE

 

È un'organizzazione politica francese. Conoscerne le intimità è utile. All'esordio, ne era capo il generale Boulanger, morto sulla tomba della propria amante come un mantenuto d'alcova. Generale orgiastico. In esilio orgiava con il denaro realista e scarrozzava nel tiro a due della sua femmina da letto arciricca. All'estero era generale da soirées e da banchetti politici. Il camelot du roi dei tempi suoi era prezzolato, nel senso che doveva vivere. Serviva ottimamente i padroni durante le lotte elettorali. Era un camelot che aggrediva e spaventava gli avversari, cantando:

 

On peut braver tout danger

Quand on a pour chef Boulanger.

 

Un partito di intriganti, di bevitori di assenzio, di compagnons della gozzoviglia, di arrivisti e di affaristi insaziabili, di rifiuti del suffragio universale e di plebaglia giunta alla decadenza sociale.

Rochefort, la figura epica, era divenuto un servitore dei farabutti che ordivano colpi di Stato. Un uomo di paglia. La gente dei tempi di Dreyfus aveva perduta la testa. Successivamente Carlo Maurras, il pioniere degli strilloni del re, il frugatore degli armadi colmi di calunnie storiche, l'incoraggiatore di tutti i parassiti sulla piattaforma come grandi eredi delle case monarchiche perite nei nubifragi rivoluzionari, arava nei sotterranei della Parigi sottosopra per l'affare Dreyfus. Maurras incominciò a esumare. Fece credere ai suoi uditori che il compito della borghesia del suo tempo doveva essere quello di ripristinare le vecchie canaglie del '93, fra le quali era Luigi XVI. Nei suoi discorsi di sottosuolo esaltava il troiaio di quei giorni che aveva dovuto scontare i delitti sociali sotto la mannaia di Sanson. Dalle lezioni della "sventura", come diceva lui, faceva circolare i superstiti, i conti di Chambord, i conti di Parigi, i duca d'Orleans e gli altri devoti al trono dell'antica Francia dei realisti. I repubblicani ridevano di queste concioni che si svolgevano nelle cantine del badinage politico. Credevano fosse della pastura per gli squilibrati di un'epoca morta. Là là! Si è veduto come il lento lavorio delle formiche dei camelots du roi riuscisse a circondare i ripristinatori dello Stato di moltitudini sul lastrico dei fannulloni, irritati contro la Repubblica e i repubblicani. Fra le conquiste fatte da Maurras, con il suo bagou storico, va messo in prima linea Leone Daudet, figlio di quel pezzente della penna che si era lasciato pensionare dalla baracca sudicia di Napoleone III. Fu una conquista di grande giovamento. Medico, letterato di valore, polemista atroce e formidabile, superiore a Cassagnac, si rovesciò sulle cose e sugli uomini distruggendo rinomanze, mandando in galera e alla fucilazione, imperando dovunque durante la guerra, fino al giorno in cui divenne direttore dell'Action Française e deputato alla Camera, dalla quale ha sloggiato figure eminenti, come Malvy e Caillaux — due esiliati delle sue furiose denunce, amnistiati in questi giorni.

Carlo Maurras non faceva molto chiasso, ma passava per il maestro, per il dotto del partito. Giunto a Parigi, spiantato come Giobbe, non conosceva nessuno. Ma i suoi articoli alla Gazzetta di Francia e le sue conferenze di politica "realista" gli avevano attirato la jeunesse. La democrazia francese era per lui un male e un male che avviava al disfacimento. Sulle pedate di Zola aveva parodiato una storia naturale e sociale d'una famiglia di protestanti stranieri nella Francia contemporanea, piena di roba spiacevole per gli autori che avevano lavorato per la conservazione delle idee repubblicane. Egli spingeva la Francia alla coalizione dei gueux. I pitocchi dovevano servire di strato alla dittatura delle aspirazioni nazionaliste. Fra i collaboratori che gli si associarono con vigore e con entusiasmo fu Leone Daudet. Secondo lui la cosa pubblica nella patria di Jaurès era nelle mani dei più mediocri. Zola pontificava sul letamaio delle sue porcaggini. La Débâcle era il prodotto della sua vigliaccheria naturale. Nessuno aveva ammucchiato tanta immondizia. Come la Débâcle era stata scritta per inzaccherare la patria, così la Terre era un blocco di sterco fetente per appuzzare di più la campagna. Proruppe su Victor Hugo, che gli aveva dato in isposa la figlia, stroncandolo in tutti i sensi: come poeta, romanziere, politico. Non so se dell'uomo che aveva dato alla reggia imperiale un nemico implacabile, abbia lasciato in piedi il grande scrittore che ha intellettualizzato le moltitudini del suo secolo. Ricco di vocaboli di tutti i colori e di tutti i fiammeggiamenti, artefice sovrano del verbo, l'autore della Leggenda di un secolo non fu per Daudet che un confusionario o il bardo del suffragio universale. Le cose vedute sono pagine che nessun Daudet ha mai scritto e che la posterità intelligente continua a cercare. Venuta la conflagrazione dei popoli i due soci si circondarono di nemici. L'Action Française fu per loro una doppietta da banditi. Iniziarono il movimento di penna con gli omicidi civili. La Francia, secondo loro, nata in monarchia, non poteva vivere in repubblica. Cresciuta cattolica doveva rimanere difensora della chiesa. Dreyfus fu una creazione dei loro odi. Entrambi avevano bevuto largamente alla fonte di Drumont. Gli ebrei erano per loro saltimbanchi che battevano alle entrate dei baracconi la gran cassa con i bicipiti di cotone e dei pierrots che stormivano l'aria coi sonagli del pulcinella.

Drumont fu una fiaccola antisemita. Spingeva quelli della sua tendenza ad abbominare la borghesia fanatica per la soppressione della Francia ebraica. Il Dreyfusismo fu l'avvenimento più clamoroso e più tragico di quei giorni. Di Alfredo Dreyfus hanno fatto fuori un traditore, uno spione, un venditore di segreti di Stato al nemico e una lurida creatura di ghetto.

Daudet e Maurras divennero di giorno in giorno più formidabili e terribili. I repubblicani ridevano di queste scempiaggini dei leghisti per la patria monarchica. Ma l'Action Française continuava a circondarsi di una gioventù bonne à tout faire. Vi accorreva, vi si dava, si prestava, compiva atti ignobili. Pubo ne era il suo leader. Daudet e i Maurras scrivevano, rinfocolavano, spingevano i tremanti monarchici, ma senza l'organizzazione degli strilloni non avrebbero potuto propalare il veleno e scatenare i livori per un rovesciamento di repubblica. Tutti i ratés del giornalismo, tutti i rinnegati della politica, tutti i versipelli delle organizzazioni repubblicane, tutti i ventraiuoli dell'arrivismo sociale accorrevano intorno ai Daudet e ai Maurras che diguazzavano nelle menzogne, nelle calunnie e nelle invettive. Hanno denunciato, denigrato, vilipeso, scuoiato. Coloro che capitavano sotto la loro penna erano trafficatori di patria, comunicatori di informazioni ai boches, venditori di segreti, assassini in agguato dell'avvenimento per i tumulti, per le perturbazioni, per i rovesci sociali. Alla vigilia della dichiarazione di guerra è caduto il più grande socialista del mondo. Jaurès era stato lo storiografo più possente delle guerre e delle turbolenze proletarie del secolo scorso. Il suo stile era smagliante. Sulla piattaforma orale non aveva uguali. Fu il primo direttore della Humanité. La sua sorte era stata preveduta da lui stesso alla Camera. I giornali dei camelots du roi lo chiamavano miserabile, tartufo, boche, traditore, amico dei tedeschi. Tredici giorni dopo le invettive di Maurras nell'Action Française sbucava l'assassino. Il 31 luglio 1914, verso le nove e quaranta, l'on. Jaurès cadeva tra gli amici di redazione al caffè del Croissant, dove convenivano a rifocillarsi, come tutte le sere. Egli sedeva con il dorso verso la strada, dove Raoul Villain lo aspettava. Era armato di due rivoltelle. Gliene è bastata una. Gli piantò una palla nel cranio e non mendicò scuse. Lo aveva ammazzato per la sua opposizione alla legge dei tre anni. L'assoluzione di Raoul Villain è il documento dell'atmosfera di quei giorni in cui imperversavano i camelots du roi. Per loro "Jaurès aveva tradito il suo paese!"

L'incitamento all'assassinio dei personaggi che avevano fatto storia dalla repubblica di Gambetta ai giorni della seconda invasione germanica, era stato continuo. Giuseppe Caillaux, ex ministro delle finanze, si era fatto odiare dalla borghesia opulenta con delle tasse onerose sulle classi fortunate. Egli aveva colpito i pescicani d'allora, che si erano impadroniti dei più grandi quotidiani del paese. Il monopolio dei giornali d'informazione era nelle loro mani. Si arricchivano e veicolavano il denaro pubblico ai loro forzieri. La dégringolade di Caillaux è incominciata con la morte di Calmette, direttore del Figaro, fatto stramazzare in redazione a revolverate dalla moglie dello stesso Caillaux. Egli aveva avuto la disgrazia di occuparsi di alcune intimità dei coniugi. L'opinione pubblica fu arcifredda per l'ex ministro delle finanze, anche dopo l'assoluzione della moglie. Cadde vittima dei camelots du roi. I leaders dell'Action Française lo sbranarono. Incriminarono il suo patriottismo. Lo misero tra i sospetti di coloro che trafficavano coi boches. Lo fecero vedere alla tavola di Bolo, avventuriero, agente internazionale del Kaiser, impiegatore di milioni nel Journal di Charles Humbert e di altri quotidiani, fucilato, come finale del dramma del tripotage di guerra, in Parigi, in un momento in cui tutti s'aspettavano grandi rivoluzioni.

Caillaux non fu perduto di vista. All'Action Française c'era Leon Daudet, una specie di Père Duchêne del trono e dell'altare. Violento e atrabiliare, diffonditore di veleni, demolitore d'uomini e aggressore di gente a colpi di menzogne. Egli non dimenticava l'ospite della tavola di Bolo, in quell'attimo di vita pubblica, creduto il più vituperevole affarista in relazione con la Germania. Con Daudet c'era il narratore Maurras che pedinava i cosiddetti disfattisti e suscitava la guerra civile. Tutti e due furono al lavoro delle insinuazioni. Dopo Bolo lo accomunarono con il direttore del Bonnet Rouge, per alcuni biglietti di nessuna importanza. Gli accusatori erano entrati nell'atmosfera del terrore. Caillaux era pure accusato di essere corso a Roma per indurre l'Italia a una pace separata col nemico. L'Action Française era considerata la bocca della verità. Era la bocca del leone. Guai a chi cadeva sotto le sue delazioni. Il governo di Clemenceau non ebbe parole di protezione per Caillaux. Finì in prigione. La mattina del 14 gennaio 1918 venne agguantato in casa e condotto alla Santé. La cosa si era aggravata. Si era venuto a sapere che Caillaux aveva un forziere a Firenze, dove si erano trovati dei documenti politici, dei telegrammi, due milioni in titoli e cinquecentomila franchi di bijoux. Si è dunque concluso che aveva rapporti e stava trafficando col nemico.

Il lavoro dell'Action Française merita un posto eminente. È stata fondata a Parigi il 21 marzo 1908. Fra i massimi collaboratori dei camelots du roi va ricordato Andrea Gaucher, entrato il giorno della sua fondazione. Gaucher, ricco di campagne politiche, non ha evitato di assumere le responsabilità del quotidiano di partito, pieno d'avventatezze e di aggressioni e di ardite manifestazioni di una gioventù turbolenta. Gioventù che invadeva le scuole, fischiava i maestri repubblicani o democratici, terrorizzava i teatri con gli schiamazzamenti contro i lavori degli antimonarchici, disapprovava con lo strepito i magistrati che sedevano nei loro seggi a condannare gli esumatori di monarchie e infuriava contro i ministri bloccati nei loro gabinetti, come ha fatto con Briand.

I restauratori della Francia alla Luigi XIV apoteosavano i tipi alla Gregori che avevano portato l'azione diretta sulla pubblica piazza. Gaucher, gerente dei camelots, ha tramutato il periodo in agitazioni bollenti. Non stava dietro le quinte. Andava in prigione tutte le volte che era necessario. L'Action Française per tutti gli strilloni del re era le drapeau. La guardia repubblicana non aveva tregua. Dovunque si iniziava la bagarre dei camelots irrompeva e legava. La prima condanna, toccata al gerente dei camelots du roi, fu di due anni per ingiuria al Tribunale correzionale. Questo capo di camelots era violento. Diceva ai giornalisti che loro volevano un re, esigevano di essere lasciati in pace. Comitati di azione francesi si diffusero in provincia. Le adesioni alla lega si moltiplicarono. Le sottoscrizioni divennero un fiotto continuo. Gli abbonamenti diedero un lavoro amministrativo agli uffici della Chaussée d'Antin da obbligare l'azienda a triplicare gli impiegati.

Andrea Gaucher fu il tipo dei camelots du roi più virulenti. Ha schiaffeggiato per la strada un prefetto del "banditismo repubblicano". Ha chiamato falsari i giudici di diverse Corti e di diversi Tribunali. Ha svillaneggiato un presidente di Tribunale. Ha detto insolenze al processo Gregori — colui che aveva tirato su Dreyfus. Si è battuto più volte con gli antimonarchici. Ha scritto Sua Eccellenza il Sig. Merlou parodiando un romanzo di Zola. Ha cavato la pelle al ministro delle finanze del gabinetto Rouvier ed ha lavorato con le frotte dei suoi camelots per la risurrezione del re.

Il camelottismo francese ha avuto molti sovventori: Jules Lemaitre, il senatore Le Breton. Fra le donne la marchesa di Mac Mahon. Fra le birbe di penna: Cassagnac.

I camelots du roi andarono dentro e fuori dalle prigioni. La maggioranza della jeunesse aveva ed ha per grido: "A noi, giovani!" "Per salvare la Francia facciamo il Re. Come? Con tutti i mezzi, con la forza. La monarchia è pronta. Il Re è là."

L'Action Française, con questi tumulti ha fatto del ventre ed ha perduto le forze muscolari. Un suo segretario è stato accoppato giorni sono da una anarchica che lo ha scambiato per Daudet. Daudet è ora il centro dell'odio, direi quasi, francese. È stato punito con il suicidio del figlio diciottenne, suicida per non vivere col padre. Politicamente è in frantumi. Non è più deputato. L'Action Française sta naufragando. Il disastro è in vista.

Mi sono voltato indietro. Negli strilloni del re dei Boulanger, dei Maurras e dei Daudet vi si trovano impronte che poi ho rivedute nelle camicie nere di Mussolini. L'eco dell'a noi, giovani! rivive. Dunque, i fascisti sono passati sul corpo dei camelots, si o no?

 

 

XXVIII - LA VIOLENZA PUBBLICA

 

È un sogno. Forse neanche. Forse è una sciocchezza. Siamo in un ambiente nazionale troppo sottosopra per supporlo tollerabile con simile disastro. La burrasca dei calamai di redazione non è estinguibile. Fino all'estinzione della prosa viva, la violenza è e sarà indispensabile. La violenza in chi scrive è un temperamento. Non è nervoso chi vuole, si intende. Per gli scotimenti cerebrali bisogna avere delle idee, delle passioni, delle aspirazioni. Il bonaccione della penna può essere utile, può essere un tipo di utilità pubblica. Egli è un rond de cuir. L'uomo di tavolino sente. Freme. Una tragedia gli rimescola il sangue. Una carneficina gli strappa un urlo. Un avvenimento estero lo indiavolava. Egli partecipa idealmente della esistenza collettiva. Vi si immerge nelle sue gioie e nei suoi dolori. Nell'avvenimento che annuncia c'è la sua voce, la sua truculenza. Non è mai imperturbabile. Anche Torelli Viollier che fece del giornalismo senza increspature per non perdere lettori, ha dovuto più di una volta sguinzagliare i suoi istinti. Tutto ciò che si vede nel contatto associativo giornalistico è una minore tendenza alla polemica. I Bizzoni e i Cavallotti hanno perduto terreno negli ultimi anni. Non si circola nel vento infuocato tutti i giorni. Non ci sono più le colonne atrabiliari. Gli articoli che portano via la riputazione e la prosa sanguinosa che va addosso a dell'altra prosa esasperata con grida omicidiarie sono diminuiti. Ma la furia è rimasta. Non è cessata. Anzi! il maestro di veemenza torreggia. La prepotenza signorile e grandiosa la troviamo nella bella prosa giornalistica di Giosuè Carducci. Gabriele D'Annunzio ha compiuto degli omicidi in prosa come contro Nitti e Giolitti. Spesso ha terrorizzato il suo pubblico. I suoi periodi funzionavano da strangolatori. La violenza è anche nelle penne di Turati e di Treves. Hanno prodotte frasi scultorie. Non parliamo di Benito Mussolini. Ingelosiva. La sua prosa nell'Avanti! fu sempre altezzosa, autoritaria. Frustava. Quella sua di adesso è aggressiva, scuoiatrice, sempre villana per gli avversari. E così dappertutto. È come un bottino di punte acuminate. Rovina. Svillaneggia. Non si finisce di essere uomini di fegato davanti alle ingiunzioni. Giusti o ingiusti, si procombe sulle figure porche e si massacrano.

La Francia ha in questo stesso momento Leon Daudet, l'uomo che durante la guerra ha mandato parecchie teste alla fucilazione, facendo da carnefice in prosa. Aveva assunto il linguaggio statale. Come giornalista ha compiuto vendette atroci. Non ci sono state né deposizioni, né requisitorie, né difese contro la sua prosa indemoniata di patriottismo. Malvy ha dovuto andare in esilio. Giuseppe Caillaux, che fu Presidente dei ministri, ha dovuto espiare in esilio. Daudet, figlio del padre che viveva vergognosamente di una sinecura imperiale, ha fatto trionfare il potere della minaccia e della calunnia in un modo spaventoso. Dietro lui era Clemenceau. La penna di Daudet fu una lama. Recideva. Parecchie teste sono cadute alla presenza del pubblico. Il suo quotidiano cioè il quotidiano degli associati a tirar fuori dalla tomba della monarchia Luigi XVI ascendeva. Lui stesso è andato al palazzo Borbone, deputato. I giornalisti irlandesi di De Valera hanno lavorato il nemico con pensieri di una audacia incendiaria. I loro articoli se non sentivano di sangue puzzavano di cadaveri. L'ambiente fa il giornale. Un ambiente di pezzenti vi darà una prosa molle, modesta, umile, nauseosa. Via! Noi stessi non ci sapremmo adagiare in una atmosfera di mendichi o di sottomessi. Preferiamo spoltrire i cervelli in un quotidiano consapevole della sua forza. Dopo una conflagrazione mondiale supporre il giornalismo avviato alla quiete è supporre l'assurdo. Sono le scaglie del mestiere che andranno al mondezzaio, non la prosa che ha ancora dell'energia da vendere. C'è ancora in noi tanto per degli scontri cerebrali. Siamo preparati a boxare. Il prof. Sbarbaro non fu nostro. I suoi amori fraseologici con Margherita ci hanno stomacato. Fu un cortigiano malvestito. Ma la robustezza della sua prosa facemmo nostra. Non possiamo acconciarci alla caduta della violenza della prosa. Sarebbe come pensare alla caduta del cervello umano. Le sfuriate intellettuali hanno del tempo da vivere. I loro rigurgiti sono le nostre gioie supreme. Una futura tempesta a colpi di penna ci darebbe lo spettacolo di un ritorno ai più violenti conflitti di boxeurs cerebrali. La quiete professionale non ci interessa. La respingiamo. Potrà essere dei secoli venturi, quando la liquidazione sociale sarà avvenuta. Per ora non ne vogliamo sapere. Inchiuderebbe la nostra morte. Nel mondo in cui si vive prorompono sempre uragani strepitosi di conflitti personali. Si viva o si muoia, il conflitto esiste. Il conflitto chiassoso, strepitoso. I turbini di Jaurès riproducevano l'insurrezione coi fulmini. Il suo la era irraggiungibile. Mentre scrivo muore Caneva, l'impiccatore di piazza del Pane. Ecco che lo si rimette in circolazione. Ci sono quotidiani che in nome del decoro professionale lo porterebbero alla tomba come un eroe. E ci sono giornali che in nome della verità storica farebbero un'esposizione di arabi immolati dalla sua nequizia di omicidiario. Così Bava Beccaris, altro salariato dell'omicidio civile. È morto col petto carico di onori monarchici. Una sfuriata d'inchiostro è la nostra consolazione.

L'avvenimento di eliminare la violenza dal giornalismo è stato della quindicina di settembre del 1923, all'Associazione Lombarda dei Giornalisti. Si trattava di scegliere dei rappresentanti da mandare a un Congresso nazionale. Vi dominava il concetto dell'amicizia. Alcuni non erano di mio gusto. Perché parecchi di loro, in tempi di convulsioni politiche, avevano denunciato ai malviventi militari i difensori delle masse strafottenti. Essi avevano dato una mano a imbavagliare la stampa rossa. Erano "miei colleghi" in un senso professionale. Non di più. Costoro non potevano avere che idee da servitori. Erano tipi della mia indifferenza. Io non ho taciuto. Ci furono dissensi e accapigliamenti. Ettore Janni ha manifestato i suoi gusti per il giornalismo educato, dignitoso e autorevole. Tutta roba secca, finita. Egli si è forse fatto così in parlamento. Vi ha lasciato tutti i vizi dello scrittore riottoso. Adesso è dotto. Conoscitore della letteratura moderna. Stilista, sovente prezioso. Sa le ghignate degli scarnificatori dei deboli. Del giornale in cui vive ha le ambizioni. Gli scompigli dei virulenti non gli sono mai piaciuti. È uno scrittore posato. L'attacco non fa parte del suo bagaglio. Le rivelazioni lo indispongono. I morti sono per lui tutti assolti. Si chiamino Crispi, Livraghi, Bava Beccaris, Pelloux. Le rivelazioni per lui sono sinonimi di disordini. I rivelatori sono dei gazzettinanti. Roba di seconda mano. Cervelli plebei. Così in questa società della menzogna si preferisce crogiolare nel silenzio.

Graziani, il generale, passi col suo delitto soldatesco. Tanto non ci si rimedia. Chi è morto è morto. Egli ha dato prova di essere un esecutore "disciplinato". Luigi Cadorna, il generalissimo, illustrato militarmente da Barzini e gonfiato da Papini, sta diventando un venerabile del patriottismo. Pallanza gli prepara una villa per la vecchiaia. Bene! La merita. Non solo ha calunniato i combattenti, ma ha incitato alla fucilazione senza procedimenti.

 

 

COMANDO SUPREMO               26.V.916

 

A S. E. il Tenente Generale Lequio comm. Clemente

Comando Truppe — Altipiano Asiago

 

"Mentre pel resto della fronte le truppe si comportano dovunque valorosamente, in questi giorni, per parte di alcune unità del settore di Asiago, sono accaduti invece dei fatti oltremodo vergognosi, indegni di un esercito che abbia il culto dell'onore militare.

"Posizioni di capitale importanza e di facile difesa sono state cedute a pochi nemici senza alcuna resistenza.

"La E. V. prenda le più energiche ed estreme misure, faccia fucilare, se occorre, immediatamente, senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano.

"Faccia appello altresì ai sentimenti di patriottismo e di onor militare delle truppe e dica loro che sull'altipiano di Asiago si salva l'Italia e l'onore dell'esercito. L'altipiano di Asiago, forte per buonissime posizioni già organizzate a difesa, sia mantenuto a qualunque costo. Si deve resistere o morire sul posto."

 

Il Capo di S. M. dell'Esercito: Cadorna

 

Ma andiamo avanti. Non voltiamoci più indietro. Non turbiamo l'apoteosi nazionale. I contemporanei se ne fregano. Documenti, giù dalle finestre. Al fosso! Tanto non c'è più stampa libera. Benito Mussolini vi ha rinunciato. Non si è capito perché se l'è lasciata accorciare. La stampa con lui non doveva uscire che completamente emancipata. Non doveva avere più signori che i proprietari della penna.

 

 

XXIX - LE LEGGI ECCEZIONALI NON SONO PIÙ DEL NOSTRO TEMPO

 

DITE AL DUCE

CHE FRA ME E LUI

C'È DI MEZZO LO STATUTO

 

Neanche Bismarck, ai tempi delle leggi eccezionali, è stato accanitamente in lotta con il giornalismo del suo paese come Benito Mussolini. Avverrà quel che avverrà. Certo avverrà qualche cosa di grave. Tutte le associazioni sono sottosopra. Ogni socio si crede diminuito. È un'autorità che preme sui cervelli degli associati. Il ministro degli Interni ha messo la libertà di stampa sotto i piedi. Addio agli antenati che hanno lottato per l'emancipazione. Addio ai Fortis, ai Giarelli, ai Viollier, ai Dario Papa. Si deve ricominciare.

Un membro della stampa è andato alla direzione del Governo. Molti gli hanno battuto le mani. Alzate di testa orgogliose un po' dappertutto. Più tardi le associazioni non si aspettavano certo delle gentilezze, ma neanche delle sgarbatezze. Si cadde dalle nubi. L'affare del povero Matteotti è divenuto una terribile sorpresa. Gli avversari di Mussolini erano tutti allibiti. Era stato commesso un oltraggio senza nome. Mi passavano per la mente i Gouffè, i Tropmann, i Pommarais, i vampiri più iniqui delle galere mondiali. Chi aveva potuto occuparsi della soppressione di un legislatore? Non si sapeva dove dare della testa. I delinquenti del Viminale sono divenuti a poco a poco una rivelazione raccapricciante. Il pubblico si era raggruppato a una catastrofe spaventosa. A uno a uno sono andati a Regina Coeli. Le supposizioni sono state parecchie. L'uomo era stato trafugato come un sacco di cenci. Tutti erano silenziosi. La fatalità dell'avvenimento infittiva. Gli avventurieri non si facevano vivi. Nessuno di coloro che detenevano il potere nei supremi uffici del Governo veniva sospettato. Si potevano odiare ma non inchiuderli fra i delinquenti famigerati. Pure l'indagine spingeva continuamente verso il Viminale. Fra loro si trovava una morbosa simpatia. Le supposizioni non conducevano che agli orrori. A supporlo cremato, sepolto, annegato. Siccome non si è trovato mai nulla i nemici dello scomparso hanno trovato un'accusa terribile. Hanno messo in circolazione la voce esecranda della speculazione. Si speculava sull'assassinio. Si trafficava sul morto per ammazzare il vivo. Se si fosse potuto trovare degli avvallamenti cutanei nei deputati di opposizione non si sarebbe esitato. La stolta leggenda non durò gran tempo. La popolazione a furia di leggere notizie si è trovata verso il delitto sommario. Avrebbe linciato certi tipi. Dalla sua concezione era solo salvo Mussolini. Nessun sospetto verso di lui. Più si discendeva negli strati sociali e più veniva elevato. Per lui era una disgrazia sociale. Era la guigne o la iettatura di Mussolini. Povero Cristo. Mi pareva di averlo udito scoppiare in un'effusione di dolore:

"Oh, mio dio, quale scandalo!"

Certo il giornalismo aveva diritto alle sue escandescenze, alle sue collere, ai suoi prorompimenti. Non c'era ragione di infuriare. Il Governo ha fatto male a smentire se stesso e a trasportare il giornalismo in piena Stor Chamber dei tempi puritaneschi. La persecuzione non poteva essere più dei nostri tempi, come non è più del nostro tempo il fanatismo politico. È naturale! Non si sopprime un legislatore senza indemoniare un popolo. La persecuzione l'abbiamo veduta in Francia. Neanche Emilio Ollivier è stato capace di ammassare la stampa afflitta dalle lesioni sociali. È precipitato lui e il suo signore.

I più frenati giornalisti del nostro tempo hanno tirato sulla piattaforma professionale il conte di Cavour. Figura vecchia di uomo di Stato. Scrittore arido. Non ha avuto grandi ideali per la stampa. Il Chiala ha rinunciato a raccoglierlo come giornalista. I suoi biografi non ci hanno rivelato nulla che ci facesse spalancare gli occhi. A noi basterebbe fare un confronto. Paragonare Gladstone a Cavour dello stesso tempo, ministro di Vittorio Emanuele II. Non ci fu uguaglianza né come scrittore, né come statista, né come oratore. Nessuna volontà stilistica in Cavour. A quei tempi imperavano Gioberti e Mazzini. Torreggiavano come scrittori, come oratori, come politici. Erano l'ammirazione del popolo che leggeva. Cavour fu, se fu qualche cosa, un sequestratore di giornali, con tendenza a servirsi dei decreti-legge, in lotta con i partiti avanzati, in urto con gli Albertini del tempo. Cavour avrà fatto nulla di scandaloso ma ha applicato molto stato d'assedio. Non abbiamo dunque bisogno di tirarlo in scena. Stia nella sua atmosfera. Nessuno lo sgretola. Intanto con lui non ci sono stati fatti orribili come con noi. Egli ha fatto caricare le folle nelle piazze e non le ha indennizzate. Questo sì. Lasciamo dunque in pace Cavour e lasciamo gli stati d'assedio. Massimo Rocca è fascista o non è fascista. Gli è contrario Farinacci. Ha dichiarato il decreto sulla stampa "il decreto per la guerra civile". Frase che non deve essere piaciuta al ras cremonese. Secondo Rocca che ha messo in giro delle idee sul fascismo, "il fascismo ha la capacità di rendere giustizia". Sarebbe troppo riottoso.

Lo stesso Mussolini non può essere in pace con tutti i deputati. Alfredo Misuri, fu in rivolta, in opposizione. "Non mancai di compiere un ultimo gesto di devozione e di lealtà", aggiunse il prof. Misuri. "Per mezzo di Finzi scrissi e poi per mezzo di Buttafuochi, feci avvertire Mussolini che avrei tenuto alla Camera un discorso di opposizione fascista che forse non gli sarebbe stato inutile per prendere motivo ad una rettifica di rotta.

"Buttafuochi venne a riferirmi l'ordine presidenziale di non parlare.

"Risposi che avrei parlato ugualmente perché la imminente espulsione mi aveva liberato da ogni vincolo di disciplina.

"Buttafuochi riferì e tornò a me per dirmi con un certo sgomento: «Ha detto il Presidente che se tu parlerai contro il suo ordine ti farà arrestare».

"Risposi in tono reciso: «Quand'è così ti prego di rispondere al Presidente, che tra me e lui, c'è lo Statuto»."

L'on. Misuri ha rivelato che anche in fascismo non c'è libertà parlamentare. Se non avesse pubblicato la sua Rivista Morale non avrei creduto. Il Duce lo ha fatto minacciare di arresto se lui, deputato, avesse osato parlare alla Camera. E siccome il deputato umbro ha fatto rispondere al Duce che fra lui e Mussolini c'era di mezzo lo Statuto, si è veduto, finito di parlare, atteso in un agguato. Forse l'on. Misuri non si è meravigliato. Anche lui fu un bastonatore fra i caporali di Mussolini. Egli era diretto alle 22 per il vicolo dello Sdrucciolo, tra Palazzo Chigi e il Credito Italiano, alla volta della Posta della Camera. Era in funzione all'orinatoio. Lo si raggiunse con un colpo di mazza alla regione parietale destra. Mezzo tramortito dal colpo vide confusamente tre ombre che gli menavano altri colpi di bastone al capo ed in altre parti del corpo, oltre a gratificarlo di un morso all'avambraccio e di una scalfittura di pugnale alla mano sinistra. Benito Mussolini lo aveva fatto avvertire. O tace o lo faccio arrestare. Fra coloro che si sono alzati a congratularsi col dissidente Misuri si è veduto il sottosegretario di Stato Ottavio Corgini, dell'agricoltura, e il deputato fascista Chiostri ed altri quattro o cinque. Gente che non voleva essere vittima delle cabale di palazzo e che per disciplina intendevano di essere tranquilli sulle sacre guarentigie parlamentari. Cesare Rossi finse di essere esasperato contro i bastonatori. Era la solita commedia. Come si è fatto per il Forni e per Amendola. Il Forni fu anche lui un bastonatore prima di essere bastonato. Il rispetto alla persona non c'era. Chi non ubbidiva ciecamente andava a rischio di andare al cimitero o all'ospedale.

"Ma giacché il mio cranio di cemento armato mi ha permesso di sopravvivere a questa prova di collaudo, che, in proporzione di un settimo, uccise il povero parroco di Argenta, valga quanto ho detto ad esemplificare per giungere alla conclusione necessaria. Guardi bene il Capo del Governo attorno a sé: la base della piramide gerarchica da Lui creata è eterogenea, ma è fondamentalmente sana, lungo il tronco cominciano le tare: quanto all'apice occorre smantellarlo e ricostruirlo quasi tutto."

 

 

XXX - IL PRINCIPE DEGLI ISTRIONI POLITICI

 

Enrico Ferri è sempre stato un buffone. I suoi avvenimenti personali non hanno mai dato che pagliacciate. Quando il socialismo era avviato alla conquista della borghesia, il Ferri si è scaraventato fino in fondo ai segreti della Marina ed è venuto alla superficie con un sacco di limaccio. Iniziava la campagna contro l'ammiraglio Bettolo e lasciava supporre a tutti che l'uomo di mare fosse nelle sue mani. Traversava Montecitorio seguito dai sottovoci che vedevano in lui l'affondatore dei "succhioni". All'Avanti! aveva assunto un'aria minacciosa. I quotidiani della borghesia lo seguivano pavidi, aspettando ogni mattina uno dei suoi siluri. Venne la querela dei trentacinque ufficiali di marina. Fu il primo pallore dell'istrione. Il Ferri era sulla tolda sbuffante, con la sua zazzera al vento. Aveva dato ordine all'Orano — che non era ancora un bagasciere della stampa politica — di allargare la zona degli scandali borghesi con la scarnificazione degli "onorevoli" avariati. Mare in tempesta. Ferri tuonava dal giornale e dalla piattaforma orale. Si aspettavano rivelazioni di succhionismo. Mucchi di mangerie. Il risultato? Una catastrofe. Il mare flagellava l'istrione. Si è poi saputo che ha dovuto mendicare la pietà di Bettolo. È venuta in scena la dote della moglie. Accusava il socialismo di averlo spinto alla volatizzazione delle centomila lire famigliari. Ci è voluto l'America del Sud. Il Walter Mocchi era diventato un grosso impresario teatrale dell'Argentina. Lo ha fatto scritturare per un giro di conferenze. Ferri ha preso il piroscafo ed è arrivato al nuovo mondo con i suoi forti polmoni e con la sua bella voce squillante di oratore da palcoscenico. Fece denari a cappellate. I suoi grossi volumi di Antropologia e di Socialismo apparvero in tutte le vetrine. Coloro che lo avevano fatto circolare come uno stitico cerebrale rimasero smagati.

L'America ce lo ha restituito carico di oro e di borghesia. Il buffone si è smascherato. Incominciò il suo sogno di tradurre la vigoria dei suoi polmoni davanti al re. Ha portato in giro per la Penisola il suo cliché conferenziale di nazionalista rifatto. Altri trionfi finanziari. Ha fatto il librettista di films patriottiche associato a Pietro Mascagni, reduce anche lui dalle tournées argentine che gli avevano gonfiato la borsa.

Ferri era venuto a noi cortigiano perfetto. Si è avvicinato alla reggia. Ha trovato un'atmosfera fredda. Scoppiata la guerra europea si è ributtato nelle braccia del socialismo e ha cercato il collaborazionismo giolittiano. Sognava un portafoglio ministeriale. Quello della Giustizia. Mussolini fu il suo guastamestieri. Lo conosceva per un ciarlatano di fiera. Lo ha subito additato per un istrione di tutti gli ambienti e lo ha fatto rincorrere dagli "interventisti" come un ambizioso, un esibizionista e un avviso sesquipedale di vigliaccheria neutralista. Giolitti è stato fatto stramazzare e con lui il Ferri che gli teneva dietro come un pezzente.

Finita la guerra è rimasto un fanfarone. Indeciso se accomodarsi un'altra volta con la "bestia trionfante" o se aspettare l'avvenimento reale della chiamata al Quirinale. Anche il Facta lo ha lasciato postulante. La Marcia su Roma gli ha ravvivato i desideri. Lo ha fatto di nuovo un aspirante al portafoglio. Mascheratosi da "girondino" credeva che la sua testa lombrosiana fosse una necessità per i ricostruttori del Codice. Invece Mussolini aveva ministri da buttar via. Lo ha lasciato agli ozi di Rocca di Papa. Non lo ha voluto nemmeno nel listone di tutta la baraonda. A vederlo, adesso, si sente un po' di emozione anche per l'istrione. Dopo tante legislature, Ferri — che agognava la feluca — non è più nemmeno deputato. Mussolini, dategli un posto al gerontocomio! È un uomo finito.


 

ENRICO FERRI

BIOGRAFATO DAL «POPOLO D'ITALIA»

 

"Rabagas ondeggiante fra la piazza e l'anticamera regia, arrivista che non arriverà mai, uomo fallito in tutti i campi, rivenditore di scientismo all'ingrosso e al minuto, trafficante e imbroglione, intrigante e istrione: ecco l'uomo.

"L'ultimo atto di questo arlecchino lo si è avuto recentemente alla Camera ove, facendo la spola fra il genero di Giolitti e la banda socialista-ufficiale, si dava l'aria di direttore della manovra antiministeriale. Poi all'ultimo momento il pagliaccio si è squagliato, dando testimonianza pubblica del suo animo conigliesco.

"Miserie e vergogne.

"Quelli che temperarono la propria anima alla pura fiamma dell'ideale nel periodo d'oro del socialismo italiano, ricorderanno con qual fine arte istrionica Enrico Ferri si fece largo fra le moltitudini.

"Con la chioma imponente, la barbetta mefistofelica, la cravatta svolazzante al vuoto, egli compariva sui palcoscenici, nei comizi, nei tribunali, nei congressi.

"Era il tribuno del popolo. Novello Gracco, egli dichiarava di voler dedicare tutta la sua vita al bene della plebe oppressa.

"Nelle fotografie che questo agitator di popolo faceva smerciare d'ufficio, appariva la scritta: Enrico Ferri, fustigatore della camorra.

"Egli era il santone della scienza, il gran marabutto dell'antropologia. Naturalmente rivendeva roba altrui. Era il manipolatore, il mercante di teorie che altri avevano meditato ed elaborato prima di lui.

"Il suo amore per il popolo era falso come era falsa la sua fama di scienziato. Egli ricercava il favor delle folle per crearsi un nome. Il popolo doveva prestargli il dorso per salire. Egli non aveva né un carattere, né una fede. Era il Rabagas. Dalla piazza tendeva verso la reggia.

"Poi, a volta a volta, scoprì la sua viltà, rivelò le turpitudini innominabili della sua anima e si tradì irreparabilmente, da se stesso.

"Il processo Bettolo fu la prima rivelazione di Ferri. L'istrione aveva attaccato con virulenza l'ammiraglio. Si era scagliato contro i succhioni della marina, aveva sollevato con impeto di sdegno il fascio di verghe sui parassiti che ingrassavano beatamente col sangue di Pantalone.

"Ma il processo andò male e Ferri ebbe una grave condanna. Allora il fustigatore della camorra voltò casacca. Tutta la campagna che egli aveva voluta, organizzata e diretta, egli la ripudiò, come non sua. Pur essendo intimamente persuaso di aver condotta una giusta battaglia, egli abiurò con spudorata menzogna alle sue idee. Terminò col tessere l'apologia di Bettolo! Questa la prima miserevole rivelazione dell'uomo versipelle.

"In quel tempo, e a causa delle sue escandescenze, il venditore di scienza non riusciva ad ottenere dal Governo la cattedra universitaria. Ferri non celava la sua aspirazione che era più che legittimata dallo stipendio annesso alla cattedra. Ed allora l'uomo politico ebbe nuovi ondeggiamenti, dalla folla accostandosi al Governo. Da tribuno irruente e tempestoso divenire a poco a poco uomo quasi ministeriale.

"Nello stesso tempo egli preparava una gran tournée di conferenze argentine. Il falso scienziato dava un altro esempio di intelligente trasformismo, e valicava l'oceano per presentarsi nei teatri del Sud-America, scritturato a un tanto per sera, come un numero di music-hall.

"Se ne ritornò, — lo sdegnoso tribuno, —— col portafoglio rigonfio di banconote transatlantiche. Allora, assicurata la pancia, egli iniziò una nuova trasformazione per aprirsi la via verso il banco del Governo.

"E alla sua rentrée parlamentare, egli si presentò con un nuovo abito, apertamente nazionalista.

"Ma il camaleonte politico altri miserevoli aspetti doveva rivelare. Poiché il re aveva chiamato a palazzo Bissolati, Ferri era sulle spine.

Se il re mi facesse l'onore di consultarmi... » Furono sue parole. Ma l'invito non venne.

"E non venne nemmeno il portafoglio ministeriale. Il saltimbanco non si dava pace, e in un discorso giunse ad affermare coram populo: «Io voglio diventare ministro!» Incredibile, meraviglioso, storico.

"Ma gli anni passavano e il caleidoscopico Ferri vedeva succedersi l'un dopo l'altro i ministeri... La chiamata non veniva!

"Il pagliaccio allora abbandonò ogni ritegno e si fece ascaro di Giolitti.

"Mentre l'Italia nuova combatteva la santa battaglia per l'intervento, l'istrione vide nella congiura di Bülow e Giolitti il mezzo per afferrare alfine uno scanno nel Governo.

"E salì nelle anticamere della reggia, si abboccò col generale Brusati, fece la spola fra i diversi congiurati.

"La rivoluzione antigiolittiana spazzò via anche lui.

"E vano è riuscito l'ultimo suo tentativo alla Camera.

"L'uomo politico è liquidato.

"L'apostolo, il tribuno, lo scienziato, pur essi sono in liquidazione. La bancarotta è completa.

 

 

XXXI - IL DIAVOLO CHE SI FA FRATE

 

Carlo Bazzi, direttore del Nuovo Paese è una penna arciconosciuta. È passato più volte attraverso gli uragani pubblici. È stato sovente in Francia. Fu lui che ha fatto la storia dei garibaldini alle Argonne. Molte rivelazioni rumorose. Ora si è messo a rimestare il fascismo. Vi rotola nel materiale di rivelazione il Duce. Lo rivela nelle debolezze attribuitegli dal suo sottovoce di partito. Ci descrive un Mussolini "che è del parere dell'ultimo che gli parla, specialmente se quest'ultimo grida o minaccia". Un Mussolini "che assiste impassibile alle risse e agli errori dei suoi caporali". Un Mussolini "che non avrà mai dei fedeli perché lui non è fedele a nulla e a nessuno". Un Mussolini "che è tratto a mangiarsi e rimangiarsi la sua parola cento volte al giorno".

Invero Benito Mussolini dal giorno della sua ascesa ci ha abituati a tutte le sorprese. Con lui siamo ogni giorno in pieno dramma. Non c'è più giornalista che non esca all'indomani con un Mussolini confezionato secondo le sue ultime manifestazioni o metamorfosi.

Mi duole che sia morta la Eusapia Paladino. Essa sapeva consultare l'anima dei tavolini per condurci agli scioglimenti dei misteri eleusini. Senza di lei o della sua sostitutrice ci agitiamo nei dubbi. Benito Mussolini non si era mai rivelato un credente in Dio. Anzi, egli passava per un eretico. Un frantumatore di dogmi. Aveva celebrato l'eresia di Giovanni Huss. Alla dichiarazione di guerra, il sovrano aveva lanciato un suo proclama ai soldati di terra e di mare, senza "incomodare il padreterno" come invece aveva fatto il suo cugino Guglielmone. Benito Mussolini ha trovato il documento importante e ha gridato "benissimo!" Il creatore "andava lasciato alle sue oneste occupazioni, evitandogli l'umiliazione di mischiarsi nelle faccende nostre". La causa italiana era assistita dal "Diritto". Questo doveva bastare. Mussolini, concludeva il commento al proclama reale con un "vinceremo senza dio". La nostra sorpresa è stata grande quando Benito Mussolini lo abbiamo veduto prostrato all'"altare della Patria" con gli occhi al cielo a commemorare il "Dio della Vittoria", davanti l'avello del Milite Ignoto. Misteri della sua anima!

Adesso le scene tra lui e il cardinale Vannutelli non ci fanno più né caldo né freddo. Ci siamo abituati. Il matrimonio dell'on. Finzi con la signorina Clementi ci ha fatto assistere al rappattumamento dell'"anticristo" col personaggio più maiuscolo dei chiesaiuoli.

Incomincio a credere che quel mattacchione di Formiggini abbia ragione di averla su con Giovanni Gentile, il filosofo dell'attualismo. Gli ha dedicato una stroncatura di trecentocinquanta pagine mordaci. Gli ha appioppato un nomignolo risevole: "Ficozza filosofica del Fascismo". Benito Mussolini deve essere un "convertito" all'idealismo attualista. Ha voluto il Gentile al ministero dell'istruzione. Glielo aveva suggerito il Lanzillo, un altro razionalista iconoclasta passato coi Rocca, cogli Orario e coi Papini alla valorizzazione del nuovissimo vangelo spiritualista. Alla Minerva, il ministro Gentile è stato un "bubbone" per la scuola italiana. Ha appestato l'aria con la sua putredine filosofica. Ha sollevato contro la sua balorda legislazione scolastica un nugolo di proteste, un vespaio di recriminazioni. Benito Mussolini ha finito per riconoscere che il gentilesimo era una gaffe, ed ha mandato l'"elefante attualista" al diavolo.

 

 

XXXII - NEL MONDO DEI RABAGAS

 

Si risale all'Homme qui cherche della Folla. Allora Mussolini chiedeva gerlate di pietre per fracassare e infossare i Rabagas della politica.

"Da qualche tempo io cammino fra dei rottami di uomini. L'Italia è ormai un'ampia giostra per gli invertiti di tutte le fedi, di tutte le idee, di tutti i partiti. Non passa giorno senza che qualcuno abbandoni le file del sovversivismo per schierarsi in quelle della conservazione. Non passa giorno senza che qualcuno senta il bisogno di prosternarsi, di riconciliarsi, di recitare il mea culpa davanti alla borghesia guerrafondaia e borsistica. Si vive nell'atmosfera della diserzione. I traditori — mascherati sino a ieri — gettano oggi la truccatura rossa col gesto di superuomini insoddisfatti e la plebe imbestiata da undici mesi di guerra non sa gridare il conspuez! dell'esecuzione. Io mi vergogno di vivere in questa Italia di funamboli e di passivi, di giocolieri di ogni politica e di gente che li sopporta con una rassegnazione evangelicamente idiota. Comincia, anzi è già cominciato il regno di Rabagas! Raccolgo nei giornali, i documenti.

"Io non ho mai creduto nel sindacalismo frondeur, estemporaneo, aristocratico, di Paolo Orano. Ho sempre detto che Paolo Orano era l'Enrico Ferri del sindacalismo italiano. Non l'ho mai preso sul serio. Sono lieto di constatare che le mie legittime prevenzioni non mi ingannarono. Paolo Orano era uno dei tanti commedianti che passano sul palcoscenico della nostra vita politica. È un Cagliostro in abito professorale. Quando l'ho visto aderire al sindacalismo rivoluzionario ho pensato: questo è l'ultimo tour de force del saltimbanco. È giunto al limite. Ora retrocederà. Tornerà nazionalista. Poi militarista. Quindi guerrafondaio smaccato. Facile profezia.

"L'Orano herveista si è riabilitato. Sta recitando il suo atto di contrizione e lo affida alle pagine del Corriere della Sera che fu nel '98 lo strumento più valido delle delazioni al servizio del generale assassino. Il direttore d'allora era l'avv. Oliva del Giornale d'Italia, d'oggi. Paolo Orano trova «bella, buona, risolutiva, quasi sacra la guerra italo-turca». Paolo Orano sente il bisogno di accodarsi al tartarinesco nazionalismo italiano per «lodare questa Italia guerresca, questo esercito che nella vertigine del più che la vita e più che la morte fa raggiare la fronte augusta di Roma, per ammirare questo esercito più bello e grande che non gli eserciti improvvisati per riforme rivoluzionarie».

"Paolo Orano ringoia con una grimace disinvolta da esperimentato farceur tutto ciò che ha detto e scritto contro il militarismo nei quindici anni della sua attività sovversiva e scioglie l'inno alla gloria della sciabola micidiale.

"Non ne sono schifato. Me l'aspettavo. Paolo Orano non è ancora entrato nella circolazione della coltura ufficiale. Non so perché. Forse per i suoi precedenti politici. La sua produzione libresca scivola nel mercato senza provocare emozioni. Lo seguo da dieci anni. Leggevo nel Socialismo di Ferri i suoi Patriarchi del Socialismo. Lo sfoggio dell'erudizione mi soffocava. Ho comprato i Moderni pubblicati dal Treves. So che il suo Cristo e Quirino non è stato preso in considerazione dai cristologi di vaglia.

"Il suo stile è cattedratico, involuto, asfittico. Ha dei periodi così lunghi che vi danno l'asma. Il suo cervello è una immensa bottega da rigattiere. Non c'è nulla di sistemato. Nulla di completo e di profondo. La Lupa, lanciata, colla spettacolosa e poignante réclame del Quattrini, è morta quando l'involuzione patriottarda del suo direttore era già arrivata alla maturazione. Negli ultimi mesi viveva di ritagli del vecchio Avanti!

"I vociani — cui va indubbiamente il merito di aver rinnovate le correnti della coltura nazionale — hanno fatto una parodia feroce degli scrittori delle Cronache Letterarie. Le potete avere con dieci centesimi. Chiedete La Voce di Firenze, il numero delle Croniche Letterate. Troverete articoli di Pourceaugnac, invece di Rastignac; Orin, invece di Orano; Donna Pagola, invece di Donna Paola — quella che incretinisce i bambini nella terza pagina del giornale democratico di Lardopoli. La prosa di Paolo Orano è stata parodiata alla perfezione. Le Cronache Letterarie non hanno risposto... Paolo Orano è stanco di vivacchiare nei licei di Provincia. Vuol giungere all'Università.

"Ma il mondo accademico italiano è ringhioso. È una casta chiusa. Guglielmo Ferrero non è dell'Università di Roma perché ha al suo passivo un volume di conferenze antimilitariste. Per arrivare in alto bisogna inchinarsi e strisciare. Bisogna rinnegare la vecchia fede. Bisogna meritarsi il perdono dei nemici. Il Carducci poeta repubblicano non esce dalla mediocrità nel concetto delle classi dirigenti. Ma l'ode alla Regina Margherita lo balza al Parnaso.

"Fra poco anche Paolo Orano sarà un grande filosofo librettato e riconosciuto dai poteri della Monarchia. Io lo lascio nel cimitero degli uomini senza spina dorsale."

"Non ho finito. Adesso acciuffo e porto sulla bascule della mia ghigliottina, un altro miserabile giullare del nazionalismo, un altro impudentissimo transfuga: Tomaso Monicelli. L'ho conosciuto nel '904. Scriveva sull'Avanguardia del Labriola e del Mocchi. Faceva l'impiegatuccio privato a Milano. Il suo pseudonimo era l'Homme qui rit. Ricordo i suoi Medaglioni riformisti. Una prosa stentata, greve. Non prometteva il Monicelli del Viandante. È stato lo sciopero generale del settembre che lo ha rivelato. La cronaca di quelle memorabili giornate di dittatura proletaria — fatta dal Monicelli — rimarrà nella storia della prosa sovversiva. Era scritta con l'anima. C'era finalmente uno stile, e non la pedissequa, quasi plagiaria imitazione carducciana. Dopo il salutare tirocinio dell'Avanguardia, Monicelli passò all'Avanti! Poi tentò le scene. La sua Sorella Minore parve una magnifica promessa. Non l'ha mantenuta. Le produzioni che la seguirono ci allontanano sempre più dal capolavoro sperato. Il tentativo di serrare nelle brevi scene di un dramma recitato, il vasto dramma sociale, gli è fallito. Il teatro monicelliano si è chiuso coll'insuccesso. E allora venne il Viandante, giornale. Di notevole, nella vita di questo giornale, un referendum che fu l'indice segnalatore del grado di degenerazione politica cui era pervenuto il socialismo italiano.

"Il Viandante non giunse alla meta. Morì lungo la strada. Nessuno lo pianse. Non lasciò alcun vuoto nel mondo del pensiero. D'allora, Monicelli s'è ritirato a Ostiglia. Adesso si dedica alla letteratura degli asili infantili. Ha, naturalmente, anche lui il suo paio di conferenze che va ripetendo a richiesta. Permettetemi di detestare gli insopportabili oratori-grammofono. Di tempo in tempo, Tomaso Monicelli dà segno di vita nei giornali democratici. È tripolino. Quando scrive si dà le arie leziose dell'oracolo. Sembra un pedagogo in cattedra. L'altro giorno l'ho sorpreso in un giornale di Bologna. Con un articolo che comincia: Vorrei consigliare ai socialisti italiani di leggere il libro di Podrecca sulla Libia. E continua con uno sfogo astioso e bestiale — da cui trapela la bile dell'uomo svalorizzato. Non è una recensione del libro. E l'apologia dell'autore. Di quel Podrecca che ha stomacato i socialisti italiani. L'articolo è comparso nel giornale diretto da un pennivendolo passato dal socialismo agli stipendi della slavata democrazia massonico-popolarista Anche Monicelli è un guerrafondaio. Anch'egli è diventato un benpensante. Fra poco sarà proclamato da uno dei tanti Janni del Corriere, il principe dei novellieri. Dove è andato il Monicelli rivoluzionario herveista? In frantumi. Le schiene di cartilagine non resistono agli urti delle crisi sociali.

"C'è un libro che il Monicelli socialista dovrebbe consigliare a leggere: Espansionismo e colonie di Enrico Leone. Che cosa valgono le divagazioni più o meno letterarie dei Podrecca e dei Rossi-Doria di fronte al formidabile libro del teorico del sindacalismo italiano? Qui non c'è l'Arcadia beota di cui favoleggia Tomaso, ma la scienza, la storia e il diritto e la condanna aperta e recisa dell'impresa africana. Sarebbe tempo di distinguere fra espansionismo economico e conquista militare. Ma i letterati si ubriacano di frasi. E l'Italia è il paese dei letterati. L'impresa tripolina è stata l'aubaine dei letterati a spasso. Tomaso — anima filistea di borghigiano — chiese di perire sotto le lame proletarie. Ma no. I conigli non finiscono sulle lanterne. Andrea Chénier è di un altro tempo. Tomaso ha la prudenza furbesca del santo di cui porta il nome. Non è andato a Ravenna per la paura di una fischiata. Gli hanno buttato in faccia la sua prosa antimilitarista di pochi anni fa e l'eroe è rimasto al sicuro nel suo borgo natio. Pagliaccio, va!

"Ho scelto due casi, ma potrei elencarne una fiche chilometrica. Basta. Mi riassumo. Ogni nazione ha avuto guerre coloniali, ma lo spettacolo dell'Italia ufficiale e sovversiva non ha precedenti. In alto il fanfaronismo ufficioso e giornalistico che riabilitava Tartarin, in basso il sovversivismo disorientato e impotente. La Monarchia ha già vinto la sua guerra e l'ha vinta in Italia. L'ha vinta qui aggiogando al suo carro i puledri della rivoluzione. Le dedizioni non si contano più. Le prode del Rubicone formicolano di uomini che vogliono vendersi. Alzatelo dunque il cartello che richiami i compratori alla fiera delle coscienze! Ce ne sono di tutte le qualità, di tutte le età, di tutte le origini. Trombettieri soffiate nei vostri ottoni! È la liquidazione di fine stagione. Coscienze e stoffe. I due articoli non sono dissimili, come potreste credere. Jonathan Swift nei suoi Libelli ha definito «la coscienza» un paio di brache che si calano quando fa bisogno.

"Ma voi follaioli di tutte le terre, follaioli che non volete adattarvi, né rendervi, né conciliarvi con questa vituperosa società di ladri e di derubati, voi portatemi delle pietre, portatemi sempre delle pietre, portatemi delle gerle ricolme di pietre perché io possa in un'ora di frenetica lapidazione maciullare e seppellire tutti i Rabagas della terza Italia."

 

L'homme qui cherche

 

 

XXXIII - IL NAUFRAGIO DELLE LIBERTÀ

 

La figura di Benito Mussolini non è mai completa. È entrato in Roma come nessun altro ministro. Per il suo passato fuori di Roma lo si supponeva un demolitore di Monarchia. Al contrario. Si è rivelato subito un devoto alla dinastia. La voce pubblica è stata più di una volta alle prese con lui. La stampa gli si è rivoltata. Nessun Presidente ha lasciato violentare, ha fatto imbavagliare e sequestrare tanti giornali. Non c'è uomo che abbia citato tante volte la rivoluzione come lui. È lui che ha voluto far penetrare nel cittadino la leggenda della sua "rivoluzione". La parola rivoluzione è ormai gloriosa. Accompagna tutti i gesti del duce. Un altro italiano avrebbe avuto paura di servirsi del manganello. Ai tempi dell'Austria lo abbiamo odiato, esecrato, maledetto, stramaledetto. Benito Mussolini, esule a Trento, l'aveva invettivato. Salito al potere se l'è fatto suo. Ci sono state moltitudini che hanno dovuto trangugiare calici e bicchieri di olio di ricino. Questi scandali non l'hanno mai disturbato. Ieri stesso ha potuto dimostrarsi un anticristo in riposo. Dei suoi castighi non è malcontento. "Mettiamo pure in soffitta il manganello, ma, mi raccomando, non mettiamoci le pantofole e la papalina perché potrebbe darsi il caso, che, mentre noi andiamo disarmati con tutti i ramoscelli di una intera foresta di ulivi, gli altri si preparassero armata mano e un giorno ci costringessero alla lotta in condizione di assoluta inferiorità."

La sua personalità politica è sempre in discussione. Egli parla molto. Quasi tutti i giorni. La stampa ha mostrato di voler sapere se quando parla è in nome del capo del Governo o del capo del fascismo. Mussolini non si è trovato in imbarazzo. "Parla l'uno e l'altro — egli ha detto — in quanto che i due elementi non formano che un'unità completa, che due aspetti dello stesso fenomeno, due attività della stessa natura.

"Voglio portare il mio cordiale saluto a voi, uomini della provincia, della buona, della salda, della quadrata provincia. Vorrei che portaste nelle città troppo popolose e spesso smidollate il vostro spirito pieno di profondità saggia. Bisogna fare del fascismo un fenomeno prevalentemente rurale."

Certo le adulazioni pubbliche per il Duce sono oggi in diminuzione. La sua strafottenza e la sua persistenza a tenere per il collo la stampa, gli hanno fatto perdere molte simpatie.

L'affare Matteotti che gli ha messo in piazza i più affezionati collaboratori come complici o mandanti dei sicari ha contribuito a portargli via del rispetto morale. Il ratto del deputato non era stato messo in fuzione né dai Depretis, né dai Crispi, né dai Nicotera, né dai Rattazzi. È stato una sorpresa. Nessuno poi avrebbe creduto all'omicidio. Per me non c'è né politica né dramma nel ragoût messo assieme dai turpi personaggi del Viminale. La rivoluzione ha dato loro alla testa. Ci voleva poco a far loro capire che la rivelazione del fattaccio avrebbe scombussolato e diminuito il fascismo. Certi atti sanno di disperazione. I complotti e l'oscurità dei delitti hanno fatto cadere lo Czar prima con la sua famiglia e Kerensky poi. Darei la preferenza alla guerra civile al delitto Matteotti. Ai loro autori assegnerei un posto in un manicomio. Siamo troppo raccomandati alle dande dei prefetti. Una volta non avevamo per i prefetti che del ridicolo. Ci levavamo in piedi con parole brutali se ci molestavano o ci importunavano. E adesso che c'è alla testa della nazione un ex giornalista, anzi un giornalista che non sa rinunciare alla professione, il prefetto è quello che ci imbavaglia. Cosa assolutamente intollerabile!

La condizione economica del paese è stata sempre più trascurata. I poveri sono rimasti poveri. Con questo di peggio: che la questione dell'abitazione è stata tutta avviata a favore del padrone di casa. I proprietari di stabili si sono tre, quattro, cinque volte arricchiti. Gli affitti sono saliti, aumentati dappertutto. La poveraglia è rimasta schiacciata. Il bottegaismo ha sentito subito la sua funzione rapace. È venuta in scena la piovra. La famiglia di due o tre o quattro lire al giorno è naufragata. È scomparsa, come è scomparsa la trattoria del viandante. La gente che non ha fatto denaro sui mercati dei residuati di guerra non ha trovato più la sua gargotte. È stata dispersa dagli aumenti. Benito Mussolini conosceva queste miserie della vita amministrata dai presidenti piemontesi Giolitti e Facta. Lui salito al potere ha voluto l'atmosfera del palazzo. La sua residenza presidenziale è al palazzo Chigi. È stata per lui una splendida vetrina. Per trovarlo si va oltre la "sala delle galere". Egli riceve nel "salone della Vittoria". Credo che non potrebbe più abitare l'edificio del bisognista. Egli è andato a Roma con l'impero romano del Gibbon. Dalla sua ascensione vive nella lussuria. Non so quante stanze appartengano al suo appartamento nel palazzo Torlonia. Va a Corte direi quasi come un sovrano. Va a cavallo tutte le mattine. Nessuno sapeva ch'egli avesse imparato l'equitazione. Se andasse in bolletta avrebbe da vivere arcibene come chauffeur. Ha tre o quattro automobili. La sua favorita è la torpedo.

Lavora come un negro. Ha studiato il pensiero politico di Edmondo Burke e del conte di Chatham, la più grande figura parlamentare inglese del suo tempo. Fu col Burke che nacque il "re patriota" e la teoria che il popolo ha qualche volta torto. Ma il Burke ha però sempre avuto un grande rispetto per il giornalismo. La cabala di corte non fu mai sua. Era considerato un "principe della libertà di stampa". Mussolini ha l'abitudine di dire a se stesso, in italiano o in inglese: it must be so (deve essere così). La prosa parlamentare di Burke era ed è il pane quotidiano degli statisti o degli oratori politici di alto bordo.

La "strada" durante l'impero di Benito Mussolini è divenuta paurosa. Sono bastati pochi conflitti e alcuni cadaveri a deviare le moltitudini. Da un pezzo non si sono più vedute dimostrazioni di strada. Lo sciopero a ripetizione è diventato antipatico. Ha diviso il proletariato, che si è lasciato sottomettere alle grosse organizzazioni di tipo militare. I proletari che non si sono lasciati assorbire dalle ondate mussoliniane non si riproducono. Non si assimilano. Kerensky, non appena alla testa della rivoluzione russa, ha presentato alla Duma l'abolizione della pena di morte. È stata votata. Lo Czar non aveva fatto che impiccare. La Siberia era un nome infame in tutte le nazioni. Luogo di tormenti. I più bei nomi della letteratura, della storia, delle agitazioni e della collaborazione sociale vi sono periti. Lenin, Kropotkine, Plechanoff, Dostoyesky furono uomini di pena. È naturale che la prima alterazione del regime sociale debba essere stata per Kerensky l'abolizione della pena di morte. È stata una prima respirata nazionale. Mussolini con la sua "rivoluzione" della marcia di Roma non si è trovato nella condizione di Kerensky. L'Italia è il paese di Cesare Beccaria. Non ci voleva proprio che Farinacci — l'avvocato di Cremona — per ricordarci che non eravamo brutali abbastanza e che dovevamo riattaccarci all'esecuzione del Boggia per riprendere la funzione del carnefice.

XXXIV

 

«PAGLIACCIO POLITICO»

 

Con la morte di Felice Cavallotti la democrazia italiana ha perduto ogni impronta di fierezza e di virilità. Si è smascolinizzata. Si è invigliacchita. Dopo il '98 Carlo Romussi non è più stato riconoscibile. La numismatica lo ha fatto entrare nella zona delle penne addomesticate. Il Secolo dopo di lui ha perso d'importanza. È divenuto un giornale floscio. Stinto. Cortigiano e voltafaccia come tanti altri. I Cappa, gli Agnelli, i Gasparotto colle loro inversioni cerebrali hanno cooperato a snaturarlo. È finito nelle mani di Giuseppe Bevione, il principe dei bluffisti libici.

I cavallottiani sono oggi gente morta. Ettore Sacchi non era più che un'ombra sparuta. Del cavallottismo non aveva conservato che l'onestà personale. Più volte ministro, lasciava il dicastero più povero di quando vi era entrato. Gli ultimi suoi anni furono penosi. Difendeva nelle preture per il tocco di pane, come un avvocato alle prime armi. Quando l'on. Francesco Giunta nel suo discorso a Napoli ha svillaneggiato Felice Cavallotti chiamandolo "pagliaccio politico" trasalimmo. Ci siamo chiesti se poteva essere vero. I giornali ci hanno confermata la mascalzonata. Non udimmo una protesta intorno a noi. La democrazia non ha reagito. È stata vile. Ha finto di credere la villania insussistente. Non l'aveva trovata nel sunto della Stefani. Ha finto di non capire che il sopprimitore della becerata giuntiana aveva dovuto essere Benito Mussolini. Felice Cavallotti con la sua vita eroica di poeta guerriero, di garibaldino, di scrittore, di giornalista e di deputato flagellatore implacabile di tutte le camorre parlamentari non lo si poteva lasciar sfigurare dalla frase sconveniente di un botolo ringhioso. Benito Mussolini ricordava la immensa costernazione che aveva colpito tutta quanta la nazione alla notizia della di lui morte nel triste dramma di Villa Cellere. La commozione ed il dolore erano stati universali. Tutta Italia piangeva. Tutto il mondo civile deplorava la grande sventura. La guigne del povero Cavallotti era stata terribile. Atroce. Oggi lo possiamo dire. Ferruccio Macola avrebbe voluto evitare di andare sul terreno. Ma non ci fu verso. Qualche ora dopo il grande tribuno era in terra con la gola recisa. La punta della sciabola di Macola gli era penetrata nella cavità della bocca, nello spazio lasciato vuoto da tre denti mancanti, e aveva ferito il fondo della gola. Il dramma si svolgeva in casa di un'amica di Francesco Crispi. Il morto ha dovuto indossare la camicia da notte del suo più grande avversario. Tutta la Camera senza distinzione di partiti lo ha commemorato e pianto come una sciagura nazionale. Il trasporto della salma da Roma a Milano è stato un'eruzione di dolore. I funerali di Milano parvero una visione immensa di commozione. Un corteo di trecentomila persone lungo un percorso di tre chilometri. Il discorso di Filippo Turati al Monumentale velava gli occhi di lagrime. Riesumiamolo. È una pagina superba che ancora oggi è viva e commemora fieramente il Morto dopo il recente oltraggio inflittogli dal discorso Giunta e la vile latitanza della radicanaglia italiana. L'intervista dell'on. Luigi Fera intorno all'avvenimento di Napoli ci ha stomacati. Per mascherare la propria vigliaccheria di invertito egli ha massacrato la figura del grande lottatore parlamentare con un'accusa di "smarrimenti". Paltoniere! Felice Cavallotti non ve lo siete mai meritato. Era troppo in alto con le sue virtù civiche per raccattare i vostri escrementi cerebrali di leguleio opportunista.

 

FELICE CAVALLOTTI

COMMEMORATO AL MONUMENTALE

 

"Non finì egli solo. È finita l'opera con la quale tutto un mondo, sacrato al tramonto, tentava disperato resistere alle corruzioni profonde che lo inquinarono; tentava di sfuggire al destino, o più degnamente soccombere.

"Con audacia tenace garibaldina, egli, levatosi di fronte agli irrompenti vibrioni della precoce putredine — «non per questo», gridava, «si salpò da Quarto; non per questo un popolo di prodi e di martiri ingrassò le zolle d'Italia e gremì le segrete; non per questo, cento volte, con spensierata baldanza, offrimmo ai Mani irati della patria e i giovenili sogni e la vita; non perché al banchetto si assidessero, nell'apoteosi, i ciarlatani, i sopraffattori ed i ladri!» E voi, invocava, o dee, a cui egli credeva — Verità, Libertà, Giustizia — e di voi si doleva che sembraste invecchiate e tarde a muovergli incontro.

"Respinto, non fiaccato, ripigliava l'assalto sisifeo; della spada di Milazzo e del Volturno, mutati i tempi, s'era fatto il bisturi da opporre alle invadenti cancrene; e dove egli era — o fosse il campo, o il Parlamento, o la piazza — ivi era spalto e trincea, ivi il fragore e l'impeto di una santa battaglia, come se — più forte dei fati — in lui fosse passata l'anima del suo Generale.

"Questa, amici, la rivoluzionaria opera sua — non importa se il suo labbro ne proferisse il nome. Qui, cittadini, il segreto della sua giovinezza perennemente vivida e ingenua, il segreto della sua vita — e quello, cittadini, della sua morte.

"È morto, ed è l'ultimo!

"L'ultimo! Intendete, cittadini, lo strazio di questa parola? Perché essa ci annunzia che qui non a un uomo diciamo addio; ma a una generazione d'uomini; a quanto fu in essa di bello, di alto, di fiero; che non un sepolcro è questo che spalanchiamo, ma un cimitero vastissimo, nel quale un'era della storia riposa.

"Per questo il funerale è così immensamente grande, così immensamente triste.

"Ma le schiere, per le quali io qui parlo, son testimoni alla storia, che la fiaccola che tu deponi, o poeta, non si è spenta con te; e sarà raccolta e tramandata ai venturi. Esse, che già più volte han pugnato al tuo fianco! — che sentivano te — che tu sentivi — che, malgrado le fuggevoli ire dei dì di tempesta, ti ammirarono, sciolto da settaria pastoia di formule, prorompente incontro all'avvenire, immemore di te, con quella foga medesima con la quale balzavi contro il ferro avversario nelle singolari tenzoni — esse, reclinando oggi sulla tua bara la loro rossa bandiera, la bandiera del colore che tu pure amavi, sanno che l'ombra sua non ti sarà molesta. Sanno che, allorquando la rocca dell'iniquità, a cui tu vibravi da dentro così poderoso il piccone, mentr'esse l'accerchian da fuori, cadrà smantellata, — esulteranno le tue ossa, o poeta, o soldato!

"O cavaliere dell'ideale, o milite della buona battaglia, o lavoratore pertinace ed indomito, anche dall'ara che chiuderà la tua spoglia, nell'ore buie della vita, trarremo gli auspici."

 

 

XXXV - CHI ERA FRANCESCO CRISPI

 

Perché gli odierni esaltatori di Francesco Crispi si ricredano riplasmiamo l'uomo con il materiale della sua esistenza. Così vedremo dall'esordio alla fine che la canaglia sbuca da tutti i periodi. Il primo periodo si è svolto a Torino nel '53. Egli, Crispi, aveva 34 anni. Avvocato, emigrato, conosciuto per agitatore e per i suoi capelli lunghi e a ciocche sul bavero. La polizia piemontese lo ha chiuso fra i prigionieri al Palazzo Madama. Tempi luridi e polizieschi. La vita del profugo era sempre in pericolo. Durante la prigionia di Crispi la giovane che portava al carcere la biancheria stirata era Rosalia Montmasson. È nata tra lui e lei una passione. Scarcerato i patrioti gli fecero una colletta e gli innamorati andarono a Malta. Fecero della miseria negra. Mangiarono pane e insalata e dormirono sulla paglia. Rosalia si rimise al lavoro. Crispi a scrivere la Staffetta che i pescatori facevano penetrare nel reame del re Bomba. Si capisce che la ragazza senza padre e senza madre avesse il desiderio della donna che vuole accomodarsi nella legge per rispetto al mondo. Crispi si è valso della di lei ingenuità per farla passare attraverso una scena matrimoniale che avrebbe fatto sbellicare dalle risa sul palcoscenico. Così è rimasta una scena criminosa. Francesco Crispi è stato capace di preparare il trucco della cerimonia coi testimoni che dovevano assistere e compiuta la farsaccia col prete che doveva benedire, unire e mettere l'anello al dito della sposa, andare a tavola con tutti loro senza rivelare con la risata la turpe commedia. Il trucco è rimasto un segreto per degli anni. Rosalia Montmasson non lo ha saputo che al momento della separazione. Adagio. Io precipito. Ella è stata avviata a Ginevra e lui si è imbarcato per Londra. La lontananza rendeva infelice la Montmasson e non appena la fanciulla è riuscita a raggranellare il denaro sufficiente per il viaggio andò a raggiungerlo in Inghilterra. Divenne emissaria di Mazzini. Portava gli ordini ai personaggi e ai circoli della Giovane Italia e le comunicazioni ai rifugiati.

Vestita come una rivendugliola, con il cavagno della pollivendola o della ovivendola passava i confini senza paura. Crispi intanto faceva l'impiegato di una banca diretta da un compatriota. Poco dopo se ne sono andati a Parigi, dove il "marito" si era occupato in una casa di commercio. Rosalia badava alla casa. L'attentato Orsini lo fece espellere dalla Francia. Egli è stato creduto fra i bombardieri. Lui e la Montmasson ripassarono la Manica. Pillolizzo, per l'esiguità dello spazio. Ella fu con lui fra i Mille. Combatteva, incoraggiava, medicava, portava soccorsi. Alla battaglia di Calatafimi la Montmasson faceva della propria camicia delle bende. Garibaldi si è accorto di lei vedendole le trecce uscire dal berretto garibaldino mentre tirava sul nemico. Ho dimenticato di dire che la Montmasson figurava dappertutto come la "signora Crispi". Il grand'uomo venne eletto più volte deputato. Egli si era monarchizzato. Aveva fatto sventolare a Salemi la bandiera Italia e Vittorio Emanuele. Aveva scritto che la Monarchia unisce e la repubblica disunisce. Il grand'uomo aveva la Riforma. Il trasporto della capitale era avvenuto. L'insistenza per la confisca dei beni ecclesiastici a beneficio della nazione ha sollevato contro di lui il vespaio clericale.

Il primo atto infame di Crispi è nell'affare Lobbia. Egli che sapeva i nomi dei deputati che avevano venduto il voto alla Regia dei tabacchi, malgrado le promesse di rivelazioni fatte a Bizzoni e a Cavallotti, ha saputo tacere con il pretesto del silenzio professionale. Egli ha lasciato condannare dal tribunale di Milano Achille Bizzoni innocente; ha lasciato avvelenare i complici del segreto per le vie di Firenze; ha lasciato pugnalare Cristiano Lobbia senza contribuire a rivelare i documenti nel plico e non ha avuto pietà neppure quando il Lobbia, per salvarsi dai calunniatori e dalla giustizia che lo aveva condannato come autouccisore, si è suicidato. Crispi è passato darwinianamente sul suo cadavere. Uomo eminentemente politico, in nome del segreto professionale ha contribuito a compiere una tragedia che non può avvenire che in una società di sbirri e di sicari. Pillolizzo. Non ho spazio per diffondermi. Mi allargherò più tardi. Per ora resto con "madama Crispi". Coloro che l'hanno veduta nella insurrezione siciliana l'hanno nicchiata fra le eroine. È stata. Io non sono per i marmi. Ma le donne che lo sono dovrebbero elevarle un monumento più alto e più sincero di quello che Palermo ha elevato al suo falsario.

I superstiti della spedizione si sono quotati e le hanno offerto una croce di diamanti. Madama Crispi è stata decorata come tutti i mille. Lo Stato ha votato per lei una pensione, compenso ai suoi servigi. Rosalia per degli anni è stata il centro degli uomini della rivoluzione. A Firenze, in casa sua, aveva ospitato Garibaldi. Crispi aveva fiutato che in lui era un avvenire politico. E da quel giorno l'avvocato si è sentito vergognoso dell'ex stiratrice savoiarda. Ecco il delitto della Montmasson. La disgraziata non era un'intellettuale. E lui ha cominciato a mettere in giro la storiella che la sua donna era stata presa dalla follia delle grandezze. Ella si decorava il petto come una bacheca di gioielliere. Lo faceva arrossire. Fole. Era naturale che non fosse più la stiratrice. Era naturale ch'essa non potesse più adattarsi alle abitudini della pitocca di Torino, di Londra, di Parigi. Crispi era salito. Lei stessa era un nome. La sua toilette non poteva più essere quella di prima. Rifiutata o disamata dall'uomo al quale aveva dedicata la gioventù si è data ad amare le bestie. Per lei erano più buoni i cani e i gatti che il marito. Indispettita, commetteva stravaganze, indossava abiti vistosi. Forse era gelosa. Forse sentiva che dietro lei era un'altra femmina. Crispi vedeva i suoi abiti verdi e si esasperava. Ammetto che potesse separarsi. Che la vita con lei non fosse più possibile. Ma il trucco? Il falso atto matrimoniale con la complicità del falso prete e dei due complici, Depretis e Tamajo? Rosalia che veniva a ogni momento invitata a far casa da sé, che sentiva gli amici che la lavoravano per prepararla alla separazione soffocava i dolori nelle bibite. Beveva. Crispi che passava da un successo parlamentare all'altro, un giorno disperato del ménage che lo disgustava corse dal Tamajo. Glielo ha detto. Egli non voleva più saperne di Rosalia. Piuttosto che riprendere la vita in comune con lei era pronto a uccidersi, a ucciderla. Se ne vada, diceva, le assicurerò la vita. Se ne vada!

"Crispi ti scaccia", le disse il Tamajo. "Vattene. Egli penserà ai tuoi bisogni. Non ti lascerà mancare nulla, ma egli non vuole più udire parlare di te."

Essa rispondeva con i suoi diritti, parlava del suo marito, del suo matrimonio.

Tamajo alzava le spalle. La farsa di Malta ritornava in scena. Non c'era stato matrimonio. Colui che si era prestato alla falsa unione non era reperibile. Bisognava che ella si sottomettesse alla pochade crispina. E così ha fatto, col singhiozzo, col crepacuore. Ella non poteva scegliere che il lastrico o la questura. Ha accettato il mensile per non crepare di fame. La sua bontà è in un episodio. Vedendo un giorno Tamajo verso Montecitorio gli disse con la testa verso il palazzo della Consulta: "Non lo dimentico, sai. Saprei ancora amarlo e consolarlo".

È andata al suo posto la Barbagallo, vedova di un magistrato di Siracusa. Quantunque fosse in azione il matrimonio civile da cinque anni egli la sposò solo in chiesa. Nel '76 il partito lo ha elevato a presidente della Camera. Il discorso inaugurale conteneva questa frase: "Come l'Etna, la fiera montagna del mio paese, ho la fronte coperta di neve. Ma il mio cuore è rimasto caldo e ardente per la mia patria". Il lapsus ha rivelato il rigattiere. I suoi discorsi non sono mai stati i "suoi" discorsi. Egli non aveva che l'arte di impararli a memoria e infondere ai pensieri le vibrazioni dei suoi nervi. Raggiunse il potere del suo sogno: quello di ministro degli Interni. Corse subito il sottovoce ch'egli aveva sposato la Filomena Barbagallo in chiesa. Si è affrettato a sposare civilmente alla chetichella, senza pubblicazioni, a Napoli, quand'ella aveva 33 anni. Il garibaldino ha saputo acconciarsi subito alla livrea. La prima volta che ha pranzato a corte alla tavola di Vittorio Emanuele II, ha indossato il frak ricamato con la placca della gran croce dei santi Maurizio e Lazzaro, con il cappello a piume e con le brache corte dei cortigiani come uno di reggia. La Lina, in fatto di educazione, non dava punti alla Rosalia. Al pranzo di corte teneva la forchetta fin quasi ai denti. Più tardi andava in carrozza coi porchetti vivi, ai quali metteva al collo il nastro rosso. Palermo e Napoli l'hanno veduta con i suoi favoriti del truogolo. Della sua fedeltà non vale la pena di parlare. I suoi scandali di letto sono nelle cronache. Sono arcinoti i bigliettini amorosi agli amanti capitati nelle mani del Comitato dei cinque o dei sette. Uno fra i quali è quello divenuto famoso per l'indiscrezione di un membro dello stesso comitato. Era un invito al prediletto del momento, un giornalista amante. "Vieni, spaccami il c... ma fammi godere." La casa di Crispi non aveva migliorato, forse era peggiorata. Più di una volta, anzi molte volte, egli si trovava a tavola sconosciuti amici della signora. La sua tavola aveva sempre invitati, parecchi invitati. A tavola parlava poco e mangiava meno. Si assentava prima di tutti. Gli ospiti continuavano.

Il colpo tragico è stato compiuto da Nicotera. Vittorio Emanuele era morto. Pio IX era crepato. Mancava la morte morale di Francesco Crispi. Giovanni Nicotera che sapeva del falso matrimonio di Malta, e che aveva una vendetta da compiere, fece trovare sulla toilette di Margherita — appena salita al trono — un numero del Piccolo — nel quale era narrata la bigamia di Crispi. L'opinione pubblica è passata sulla Penisola come un uragano di indignazione. L'articolo è stato riprodotto a Roma dal Capitan Fracassa. Lo scandalo fu colossale. Il 7 marzo 1878 Crispi era in terra in frantumi.

A Milano Leone Fortis, divenuto più tardi il suo illustratore, gridava dal Pungolo ch'egli doveva rientrare nella vita privata. Per due mesi Crispi è passato per un sudicione del focolare domestico. È stata un'esplosione di collera. Un altro uomo si sarebbe sotterrato. Francesco Crispi è andato al tribunale. Non si trattava di un caso di bigamia. Crispi non era bigamo. Era un falsario. Si era appaiato alla Rosalia con un finto atto di matrimonio. Il famigerato curato Vidal, secondo il Tamajo, o non esisteva o non aveva preso parte alla cerimonia. Depretis — uno dei complici — era morto. Il tribunale avrebbe dovuto processarlo per falso in atto pubblico. Si è contentato di dichiarare un non luogo a procedere. Un uomo simile è ritornato al potere. La Montmasson è morta straziata. Io l'ho difesa. Lei voleva processarmi. C'era ancora in lei del rispetto per l'uomo che l'aveva buttata sul lastrico come un limone spremuto. La Montmasson ha lasciato un figlio che io suppongo di Crispi. Lo credo ancora vivo. Era commissario di pubblica sicurezza.

 

 

XXXVI - LA « IMMONDA CURÉE »

 

Benito Mussolini salito al potere aveva lasciato credere che con lui i battenti del Gran Magistero degli ordini cavallereschi sarebbero rimasti sprangati. Paolo Boselli era affaticato. La sua veneranda età andava rispettata. Con Facta non aveva avuto requie. Le onorificenze erano state di tutti. Lavapiatti, salumai, cavadenti, ciabattini, impresari e trafficanti di ogni risma. Errore! I "ricostruttori" esigevano la loro parte. Piovvero croci e commende. Gli ex del rivoluzionarismo scarlatto le ambivano più che tutti. Mussolini ha dovuto piegarsi alle postulazioni. Re Vittorio non ha potuto rifiutarsi. Paolo Boselli ha ripreso il suo mestiere di gran ciambellano. I vecchi monarchici ne rimasero come storditi. Poi ghignavano. Le commende dei Savoia ai Rocca, ai Michele Bianchi, ai Cesarino Rossi, ai Marinelli, ai Rossini, ai Racheli? Era la curée degli invertiti.

Benito Mussolini in mezzo alla ridda dei concorrenti alla bacheca della vanità pare un uomo seccato. Lascia capire che è stufo o nauseato di chincaglierie. Il suo caso personale lo deve avere smagato. Troppi ciondoli intorno a lui. È di ieri il suo discorso al Consiglio Nazionale Fascista. "Abbiamo un po' peccato di vanità; ci siamo un po' troppo gingillati; troppi commendatori, troppi cavalieri." È certo che i suoi atteggiamenti contraddittori lo fanno ogni giorno una figura sempre più discussa, dagli stessi uomini del suo partito. Da qualche tempo egli non è più avvicinabile. Pare accigliato. Pare scruti. La torpedo che egli guida quasi sempre con le sue mani lo sopprime rapidamente dalla folla. La attraversa come un fulmine. Dove vada, è affar suo. Non ci sono più i fiacres dei tempi in cui Zola imbottiva la sua Roma. Roba da museo! Ormai l'automobile circola sovrana. È diventata il veicolo della curée. L'altro giorno al console torinese Brandimarte gliene hanno involata una.

L'assenza di Cesarino Rossi è sentita alla trattoria Brecche. Il frascatano sarà imbronciato. Non si sapeva che il capo della stampa ministeriale fosse un gozzovigliatore e gustasse così bene la compagnia notturna. Egli era un cliente che bazzicava da Roma a Parigi i Chez-Maxime e pagava i conti a piè di lista, come il Naldi. Pippo Naldi, ex direttore del Resto del Carlino, è un affarista d'alto bordo. Ha sempre svolta la sua attività di grande finanziere del grande quotidiano. Fu lui a varare Mussolini ai tempi della sua abiura socialista. Tutta gente che ha fatto pancia in questa vita che viviamo.

I trafficatori del ferrame di guerra si riconoscono nella ricercatezza dell'abito e nelle dita che abbagliano gli spettatori. Brillanti grossi come chicchi. Hanno l'orologio d'oro al polso. Cappelli a larghe falde come i reduci dal paese di Kruger. Calzoni a campana. Ghette chiare e mussoliniane. Frequentatori del tavolo verde. Le loro Nanà sono costose. Orgiastiche. Il fascismo ne ha portati molti di questi lupi sociali in circolazione. Cesare Forni e Raimondo Sala ne hanno conosciuti parecchi anche fra i "pezzi grossi". Il Forni, col suo discorso biellese, è stato una rivelazione. "Individui di umilissime condizioni finanziarie, i quali nel 1920 e 1921 si rivolgevano personalmente a lui chiedendo l'elemosina di poche lire per potersi sfamare, attualmente vivono a Roma in appartamenti principeschi che si pagano coi denari del popolo italiano." Il Sala — ex sindaco di Alessandria — è in lotta coll'ex Alto Commissario delle Ferrovie on. Torre, davanti il Tribunale di Roma, per beghe di affarismo. Accusa il Torre di essersi arricchito alle spalle del fascismo. C'è il processo. Vedremo.

Il comm. Luigi Freddi — ex capo della stampa fascista buttato da Mussolini nell'immondezzaio dei rifiuti — è inseguito da un sottovoce scandaloso. I fratelli Forni lo rincorrono coll'aggettivazione di pederasta, attribuitagli da Cesarino Rossi. Anche il Freddi era un personaggio eminente della curée. Uno dei più giovani e dei primi arrivati. C'è un'altra bega fra i cuccagnisti della Marcia su Roma. L'ex generale della Milizia Italo Bresciani è accusato dai Fasci di Verona di essersi impegolato di porcaggini. Anche lui ha messo in giro il suo processo. Farà del chiasso.

Benito Mussolini nel suo recente discorso non ha dimenticato di strigliare gli "affaristi" che si servono del fascismo per arraffare ed insaccocciare biglietti di grosso taglio. "Bisogna avere l'ignoranza se non il disprezzo degli affari. Bisogna proprio essere estranei agli affari. Rifiutarsi persino di sentirne parlare." Lo sbafo era diventato uno scandalo nazionale quasi quotidiano. La curée non conosceva più ritegno. Tutte le mattine avevamo un nuovo sottovoce, una nuova cronaca di succhionismo. Oggi la Camec, domani la Sinclair, e via via. Ma Mussolini si illude. In regime capitalistico les affaires sont les affaires. Le fauci della borghesia sono insaziabili.

La Marcia su Roma ha riportato in prima linea, sulla scena politica, figure che l'opinione pubblica aveva rincorso a pedate. Maffeo Pantaleoni era stato di queste. Deputato di Macerata aveva dovuto subire le ingiunzioni di dimissione dai giornali che gli mettevano in saccoccia centomila lire di mediazione per aver cooperato a far perdere nove milioni e trecentomila lire al Banco Sconto e Sete di Torino. Eravamo ai tempi dei ladri parlamentari Poli e Miaglia. Maffeo Pantaleoni aveva avuto un passato onorevole. Era stato con Napoleone Colaianni un inseguitore dei pirati della Banca Romana, un denunciatore di ladrerie statali, un tribuno dell'ostruzionismo contro il regime giberna dei Pelloux, dei Morra di Lavriano e dei Bava Beccaris. Il disastro del Credito Mobiliare Italiano fu la sua liquidazione. Nemmeno la difesa di Guglielmo Ferrero lo ha potuto salvare. Si era venuti a sapere che il deputato ladrone Giovanni Poli lo aveva associato alla spartizione delle duecentocinquantamila lire di provvigione sulla costituzione della Société Franco-Italienne con un vaglia telegrafico di ventitremila ottocentoquaranta lire. L'uomo parve finito. Perse la medaglietta. Per un gran pezzo non si parlò più di lui. Con la guerra lo si è rivisto in circolazione. Scrittore robusto, economista dotto, polemista focoso, non ha penato fatica a richiamare gente intorno a sé. È risalito sulla piattaforma delle virulenze statali e delle aggressioni personali come un bravaccio della stampa. Vittorio Emanuele Orlando fu il suo soppedaneo. Gli è andato sopra con epiteti scurrili. Lo ha chiamato mafioso saraceno e lo ha minacciato di tagliargli la lingua. Benito Mussolini lo ha lasciato lavorare. Era uno dei quattrocentoventi del fascismo che insieme a Vincenzo Morello, vecchio arnese del giornalismo sbruffato da Crispi, aiutava la "rivoluzione" a consolidarsi. Entrambi senatori del nuovo regime, "Rastignac" e Maffeo Pantaleoni sono ancora oggi considerati i massimi pilastri della stampa fascista.

 

 

FINALE

 

Ho finito. Meglio non ho finito. Benito Mussolini è una figura statale che ormai non conosce confini. Si spersonalizza, si rinnova, si trasforma direi quasi tutti i giorni. Egli si è impadronito della cronaca nazionale e si è circondato di una moltitudine di ras che gliela inveleniscono e gliela propalano come della turbolenza agitatrice e sovvertitrice. Il ras più agitato del suo momento storico è il cremonese Farinacci, un rappresentante eminente che ha abbassato il Paese a tutte le umiliazioni. Immaginatevi che nella Cremona dove impera egli può pubblicare un quotidiano, costrutto di scemenze e di insolenze sgrammaticate, per imporre ogni giorno al governo le sue più strampalate e mostruose idee liberticide che diventano poi il piatto forte della cronaca politica della stampa nazionale. Il giornale di Frassati ha inaugurato la rubrica "Farinacci". Si fa presto a dire che "non bisogna dargli importanza". Ma quando lo si vede in consultazione con Mussolini — un agitatore di idee che se non altro ha un cervello arroventato e un passato politico di uomo che ha fatto storia — si trasalisce. Già, Benito Mussolini da un po' di tempo è prigioniero di faziosi scriteriati che condurrebbero alla rovina anche un Gladstone. Non si era mai veduto un Presidente del Consiglio che tutti i giorni ha da comunicare alla nazione ordini e contrordini, decreti e controdecreti, modifiche, alterazioni e correzioni istituzionali o statutarie. La stampa non è mai stata bistrattata, imbavagliata, violentata, incatenata come in questi tempi di "legislazione farinacciana". Il neo avvocato di Modena deve essere un charmeur, perché a quest'ora egli sarebbe stato inseguito come il Prina.

In verità la gente che circonda Mussolini quando non è in preda ai furori dei fanatici è in maggioranza costituita da ex rivoluzionari avariati, passati attraverso teorie senza fede. Capirete che nessun Presidente del Consiglio avrebbe saputo tollerare al Viminale e nel suo ambiente governativo tanta geldra censurata dall'opinione pubblica come Cesarino Rossi, Marinelli, Filippelli, Naldi, Dumini, Volpi, ed altre creature spaventose. Tutta zavorra per l'égout sociale! Se i suoi dipendenti o collaboratori non fossero stati degli scalzacani che lo avessero mercanteggiato, Mussolini avrebbe dovuto accorgersi che era circondato da tanta melma umana.

Il fattaccio Matteotti ha sbalordito e turbato i partiti di tutte le nazioni. Neanche sotto la dittatura di Cromwell si era osato tanto. Sgozzare un legislatore per complotto o mandato di altolocati intorno al potere! Si finisce per credere che Mussolini sia stato sopraffatto dai suoi Giuda. Livragato dai suoi collaboratori ha perduto la verità sugli individui e la concezione di libertà che deve regolare l'andamento di una nazione civile. Ha riportato sulla scena dell'orgoglio nazionale una delle più impure e sfottute figure della nostra vita parlamentare. Mentre la Rivoluzione francese aveva snicchiato dal Pantheon Mirabeau per punirlo del suo traffico con Luigi XVI, la rivoluzione di Mussolini ha masturbato Crispi — la figura più porca e più vendereccia dei tempi di Tanlongo — con un tentativo di riabilitazione patriottica.

Molta gente non pensa che Mussolini, in mezzo a tanta oratoria fracassosa, è anche un gourmant della letteratura contemporanea e uno stilista dalla fraseologia tornita. Nessuno ha rilevato, in questi ultimi tempi di veemenza politica, che egli si è pubblicamente manifestato un adoratore manzoniano. Egli ha capito che in questa Italia di moltitudini di sgrammaticati, che incominciano col g di Lanza ed arrivano alla beozia di Farinacci, non c'era che da sostituire alla "indomabile" grammatica il metodo manzoniano del controtesto linguistico ed ha fatto regalare dalla Deputazione Provinciale di Milano ai giovanetti lombardi venticinquemila Promessi Sposi in edizione purgata. Fra gli scrittori francesi il suo preferito è Goncourt.

Mussolini oratore è tutti i giorni sulla piattaforma. Anche in questa settimana che l'opposizione è stata con l'orecchio teso per ascoltare il tonfo della sua caduta, presentita un po' dappertutto, Mussolini non ha ceduto terreno. È stato sfolgorante. Ha avuto un linguaggio tutto tronfio della sua persona. Si è imposto. Lo si è voluto paragonare a Silla, il grande console romano. Forse gli assomiglia. In Mussolini si è sviluppata un'aristocrazia che non si conosceva prima della sua ascesa. Vuole la grandezza imperiale di Roma, caput mundi. Prepara alla sua discesa di domani un bagaglio di romanità spettacolosa.