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Paolo Valera
I CANNONI DI BAVA BECCARIS
INDICE
IL PRIMO CADAVERE DEL 6 MAGGIO
1898
LA PIAZZA DEL DUOMO IL
VENERDI’ SERA
LE PRIME FUCILATE IN PIAZZA
DEL DUOMO
LA SCENA PIU’ TRAGICA DEL 7
MAGGIO ‘98
I MORTI E I FERITI DEL 9
MAGGIO
IL DIARIO DI UN MESE DI
CELLULARE
NOTERELLE DEL MIO AMICO ALLA
MATRICOLA
LA PAGINA INTIMA DEL PROCESSO
AI GIORNALISTI
GLI ULTIMI GIORNI DEI DEPUTATI
E DEI GIORNALISTI AL CELLULARE
A FINALBORGO STUDIO DEGLI ALTRI GALEOTTI
IO E FEDERICI RITORNIAMO A
FINALBORGO
I LAVORATORI DELLA QUINTA
CAMERATA
Era venerdì. S’andava via per
l’atmosfera tepida come tanti punti interrogativi. Gli uni guardavano in faccia
agli altri e tutti sentivano dell’inquietudine dell’Italia agitata dalla fame.
Pavia come Sesto Fiorentino e come Soresina, aveva avuto i suoi ciottoli
innaffiati dalla strage militare. Il povero Muzio Mussi, il figlio del vice
presidente della Camera, era stato tramazzato al suolo a ventitre anni e la
notizia angosciosa, propalata dai giornali, passava sui nervi della
cittadinanza come una scarica d’indignazione. In mezzo alle piazze, lungo le
vie, si temeva e si presentiva
Nei sobborghi, dove è più
fitta la popolazione operaia, sarebbe bastata un po’ di retorica calda per
mettere sottosopra il sangue cittadino che spumeggiava nelle vene. Con tanta
irritazione che si andava accumulando per i quartieri di ora in ora, a ogni
telegramma che annunciava che il governo curava, dappertutto, lo stomaco vuoto
con la balistite, Milano avrebbe avuto bisogno di uomini prudenti che avessero
saputo, con dolcezza, togliere e non aggiungere combustibile alla catasta che
aspettava lo zolfino. Invece la metropoli lombarda ha avuto Vigoni, Negri,
Minozzi, Prina, Winspeare e Bava Beccaris, regi lenoni che vedevano in ogni
aggruppamento di operai masse di rivoltosi o di congiurati, imbecilli feroci
che avrebbero livragato tutti coloro che non fossero caduti ai loro piedi a
implorare
Alla mattina, come tutte le altre
mattine, i grandi stabilimenti dei dintorni di Ponte Seveso, spalancarono i
portoni e i proletari vi entrarono a frotte per non uscire che a
In mezzo a tanta gente che discuteva,
alcuni operai e parecchi ragazzi distribuivano il manifesto pubblicato la sera
prima dal partito socialista, manifesto redatto dalla penna turatiana che
sentiva il momento e mandava in piazza la protesta d’«intonazione-repubblicana» ,,
come dissero il Secolo e L’Italia del Popolo. Ma per gli agenti
non educati all’agitazione costituzionale e resi prepotenti
dall’incoraggiamento dei superiori, un semplice foglio volante che riassuma la
condizione miserabile del proletariato diventa una perturbazione pubblica, un
delitto. Due agenti della squadra volante, certo Rossi e certo Domenico Viola,
detto il calabrese, si avvicinarono ai distributori, strapparono loro di mano
gli stampati e ne arrestarono due. Potete immaginarvi il subbuglio. Uomini e
donne si misero a gridare: molla! molla! Ma il Viola, che era il Prina della
bassa forza, tirò via con la sua preda fino in via Napo Torriani,
fermandosi al numero 24, la sede della questura del quartiere.
-
Io ero sul posto, - mi disse un testimone oculare, capo sala in una
Sezione dello Stabilimento Pirelli. - Alcuni compagni mi invitarono a trovare
il mezzo di liberare gli arrestati, i quali erano seguiti da una moltitudine di
tre o quattro mila persone. Avviandomi presso la sezione di questura trovai
Carlo della Valle, l’omino che amministrava la Lotta di Classe e si
poteva dire l’anima del partito. Ci trovammo in via Vittor Pisani e andammo
senza indugio a parlare col delegato. Intanto di fuori si urlava e si
scagliavano sassate incessanti contro lo stemma al di sopra dell’entrata.
Dicemmo al delegato che i ragazzi arrestati erano dello Stabilimento Pirelli e
che secondo noi non avevano commesso che qualche ragazzata. E il delegato ci
promise che dopo aver consultato il questore, sarebbero stati messi in libertà.
Uscimmo mentre i fischi degli stabilimenti chiamavano al lavoro. Il largo del
Trotter e le vie adiacenti erano gremite. Ci avviammo verso l’edificio dei
sordo-muti e al largo del Trotter vedemmo venire il Viola, con la rivoltella in
mano, seguito da altri sei o sette poliziotti in borghese, che tenevano in mano
lo stesso strumento della civiltà moderna. I cagnotti in borghese
saltavano da una parte e dall’altra, puntando le bocche da fuoco alla faccia
delle donne e degli uomini, minacciandoli e dicendo loro ingiurie che facevano
impallidire e rimescolare il sangue.
- Mascalzoni! Vaianne!
Con tanta confusione, non so più
se sia stato il Viola o un suo collega. So che uno di loro si avventò
contro una delle ragazze che aveva agitato il foulard rosso che si era tolta
dal collo, percuotendola alla fronte con il calcio della rivoltella. Non
ricordo bene il nome della sventurata. Ma credo si chiamasse Marietta, una
ragazza dai fianchi opulenti e dalle braccia che non avevano paura. La
Marietta, uscita dallo stordimento, con la faccia rigata di sangue, con la
bocca tutta agitata che gridava: assassini! assassini!, divenne una demonia che
non si sapeva più come tenere, perché voleva rincorrere e agguantare il
malandrino e punirlo come meritava. Ma io e alcune sue compagne riuscimmo a
trattenerla e a trascinarla allo stabilimento a farsi medicare nell’ambulanza
interna. Intanto che la si medicava gli operai e le operaie entrati volevano
uscire di nuovo perché di fuori si gridava con insistenza che si doveva
smettere di lavorare.
Il direttore dello stabilimento, signor
Emilio Calcagni, e l’ispettore dell’ordine interno, signor Cavalli, correvano
da una parte all’altra dell’edificio raccomandando a tutti la calma e
supplicando ciascuno di dare il buon esempio e riprendere il lavoro.
Così io, pur sapendo che dovevano venire Turati e Rondani, stati
chiamati d’urgenza dal della Valle e dal compagno Songia, dovetti acconciarmi a
rimanere chiuso nello stabilimento!
Io e gli altri di dentro, parevamo
sugli aghi. Il lavoro che si faceva era un lavoro meccanico. La mente era di
fuori, attorno, con le orecchie che venivano perturbate dalle grida che si
udivano nell’aria: abbasso i birri! morte al Viola! - l’agente esacrato in
tutto il quartiere per il suo carattere malvagio e violento e perché si diceva
da tutti che era stato lui a menare il calcio del revolver sulla fronte
dell’operaia ferita. Tra le due e le due e mezzo, riuscii a mettermi alla grata
di una delle finestre che guardano in Ponte Seveso, proprio tra il numero
ventitre e venticinque dello stabilimento. Era giunto il Turati e per i fori
vedevo che era sulle spalle di due giovani tarchiati, con la mano appoggiata
all’albero, che parlava a pochi passi dall’ufficio postale.
- Come deputato del vostro collegio,
invoco da voi calma e pazienza. Non la pazienza dell’asino, intendiamoci, ma
una pazienza di alcuni momenti, affinché in nome vostro, se lo consentite, noi
possiamo trattare con le autorità per la liberazione dell’arrestato.
L’arrestato era Angelo Amadio, detto el
pompierin, di diciannove anni.
Mezz’ora dopo ritornò Turati e
riparlò alla folla su per giù con queste parole:
- Sentite, compagni. Noi abbiamo saputo
che ormai questore e prefetto non possono farci nulla. L’arrestato che fu
trovato coi sassi in mano... (Molte voci gridarono: No, non è vero!)...
Credo anch’io, anzi mi auguro che non sia vero. Ma ora l’arrestato è
nelle mani del procuratore del re, e io mi recherò da lui.
Ci fu una lunga pausa.
- Ascoltate ora un mio consiglio, o
compagni! Qualunque possa essere la risposta, ve lo dico in coscienza, non
dovete insistere. Questo non è il giorno. (Fu interrotto da una voce: E
quand l’è ch’el vegnarà el dì?). Ho detto che questo
non è il giorno; perché tutto è preparato per le più
feroci repressioni. Il popolo deve essere abile e scegliere lui il giorno in
cui si crederà preparato e organizzato per
E siccome la massa era assai eccitata e
le pareva poco quello che le offriva il deputato del quinto collegio,
così il Turati fu obbligato a ripetere quello che aveva detto.
- Vi ripeto, compagni, non dobbiamo
lasciar scegliere all’autorità il giorno della battaglia. Oggi vi dico
che sarebbe massacro! Fidatevi di me in questo momento: oggi è una
rovina! Contentatevi della scarcerazione.
La cosa si era fatta seria. Su circa
tremila operai non ne erano entrati, tra uomini e donne ottocento. In uno dei
cortili erano stati introdotti, alla chetichella, un centinaio di soldati, i
quali caricavano i fucili. Di fuori, in giro per l’edificio, tutte le entrate e
tutte le uscite erano bloccate da un cordone di quattro file di soldati. Il
fischio delle sei fu un sollievo per tutti. Uscimmo alla spicciolata, passando
per la corte zeppa di soldati di fanteria, dai corridoi che precedono la porta
d’uscita, e poi tramezzo agli altri soldati allineati sui marciapiedi. Vidi di
nuovo il Turati, il Rondani e un altro che non ricordo in una carrozza
scoperta. L’onorevole Turati annunciava a tutti che l’Amadio sarebbe stato
messo in libertà prima di sera. Scomparsa la carrozza e gli oratori per
Dal Trotter, dove era stata chiusa, a
Fu come il segnale. Si udì lo
squillo di tromba.
Si vide il fuggi fuggi, e si
sentì il ran ran che spaventava, che infuriava, che sollevava grida
disperate da tutte le parti e lanciava in aria una nube bianca in un silenzio
sepolcrale.
Fu allora che anch’io gridai come la
Marietta: assassini! assassini! Far seguire allo squillo le fucilate, senza il
tempo di vuotare la via a gambe levate, è un delitto senza nome.
Non vi so dire se il fuoco sia stato
iniziato dai soldati o dai questurini. Ma se tra l’uno e l’altro non c’è
stato attimo di mezzo, le rivoltelle e i fucili devono aver incominciato
insieme.
Non erano ancora le sei e mezzo e il
povero Savoldi che credeva di andare in Corso Loreto, 40, era vicino all’altro
mondo. Stavano per suonare le sei e mezzo e il disgraziato giungeva proprio al
malaugurato portone della sede della sezione di questura, dove dovevano essere
appiattati gli agenti della squadra volante. I dimostranti di fuori
schiamazzavano e domandavano a gola piena se erano stati messi in
libertà gli arrestati. E in questo mentre si vide sbucare il Viola con
la bocca spalancata e la rivoltella tesa verso
Dopo le tre scariche militari corsi
dov’era il Savoldi e là, io e altri amici lo raccogliemmo, prendendolo
per i piedi e per le ascelle. Respirava ancora e lo chiamammo per nome.
- Silvestro? Savoldi?
Egli guardava, con gli occhi istupiditi
dalla morte che lo invadeva, senza rispondere. Lo riprendemmo e ci avviammo
verso il Ponte Seveso per vedere se era possibile farlo medicare
nell’infermeria dello stabilimento Pirelli. Ma la porta era chiusa e la linea
dei soldati non ci permetteva di avvicinarci allo stabilimento.
Senz’altro decidemmo di metterlo sul
tram, avviato alla Piazza del Duomo per il Corso di Porta Nuova. Fu una scena
pietosa. Scomodammo la gente e, sorreggendolo davanti e dietro, riuscimmo a
tirarlo sulla carrozza, adagiarlo lungo il cuscino e mettergli la testa insanguinata
sulle ginocchia di uno di noi. Il tram non si era ancora mosso che il Savoldi
tirò un sospiro lungo che ci andò al cuore, e chiuse gli occhi.
Il tram andava e le nostre mani palpavano sul suo cuore come se avessimo voluto
che continuasse a battere e a mantenersi caldo. Ma la pelle andava
raffreddandosi e quando fummo in piazza Mercanti il medico di guardia ci
mandò via con un bisillabo: morto! Il padre di cinque o sei figli era
morto. E noi, angosciati, ricaricammo il primo cadavere delle giornate di Milano
sul tram che andava a Porta Volta e dal luogo di sosta lo portammo a braccia,
al Cimitero Monumentale.
Ritornato a casa seppi che la balistite
aveva lasciato sul terreno delle donne e degli uomini feriti, due dei quali
morirono prima o subito dopo l’aurora.
L’eccidio di Bava Beccaris era
incominciato.
Che scena! La nuvolaglia si voltolava
su se stessa e il cielo rumoreggiava di tanto in tanto e faceva sentire i sordi
boati che annunciavano l’uragano. Savoldi, l’operaio dello Stabilimento
Pirelli, era appena passato coi compagni che lo accompagnavano a Musocco. La
moltitudine che aveva veduto il tram di Porta Volta che infilava via Carlo
Alberto, accorse a vederlo. Era tenuto su dalle braccia degli amici sotto le
ascelle per dargli aria di passeggero, ma si vedeva che era floscio e andato.
Gli occhi erano spenti, la pelle della faccia era morta da far paura e tutta la
bocca semiaperta era dissanguata. Vennero consigliati di adagiarlo lungo e
disteso. Il tram andava e l’indignazione incominciava.
Il cadavere era in tutte le
conversazioni. Pochi lo conoscevano, ma tutti sapevano che era un operaio che
aveva lavorato fino a quando la campana lo aveva messo alla porta.
La piazza si gremiva, i portici erano
quasi affollati, la fanteria aveva bloccato le entrate della Galleria e
nell’interno si vedevano gli agenti e i delegati di P ..S. con la ciarpa del
mestiere che andavano e venivano o sostavano in certi punti come in attesa di
altri ordini. A qualche passo dalla scalinata della cattedrale, dove erano i
bersaglieri col calcio del fucile a terra, ci fu un tentativo di discorso.
Non ebbi tempo di vedere 1’oratore
sulle spalle di un gruppo di giovani, che una voce imperiosa lo aveva fatto
scomparire.
- Giù, giù! o faccio
suonare la tromba!
Eravamo tutti eccitati, tutti in
un’atmosfera ardente. Guai se in quel momento un Desmoulins della strada avesse
buttato nella calca una scintilla verbale e ci avesse spinti alla rivoluzione!
Ci sarebbe stata una conflagrazione sociale. Inaspriti dal dolore, l’incendio
sarebbe diventato generale. Invece, anche con la truppa che urtava la folla da
una parte e dall’altra per separarla e disperderla nelle vie adiacenti,
prevalse
I cordoni militari che bloccavano la
Galleria venivano rotti dalla lenta fiumana che non poteva più tornare
indietro. Lo straripamento era così possente che si sono dimezzati o
frazionati senza resistenza. Nessuna forza avrebbe potuto trattenerla. Una
volta ingorgati nel grande tunnel non si camminava, si era portati e si andava
via adagio adagio come voleva la corrente umana. Agli ottagoni la respirazione
era affannosa. Ci si sentiva premuti da tutte le parti. Tuttavia si sentiva
l’inno dei lavoratori cantato da mille voci. Vicino al Gnocchi era un impalcato
che avrebbe potuto servire benissimo da piattaforma. Più d’uno s’era
messo tra le travi con la voglia di sgolare l’orazione rivoluzionaria, ma non
c’è stato verso. Gli agenti e i carabinieri non davano tregua a coloro
che avevano la gola piena di prosa veemente. Gli squilli facevano il resto.
Tumultuavano l’ambiente, respingevano la moltitudine e facevano larghi che si
riempivano quasi simultaneamente.
Ho veduto Zavattari con la sua bella
faccia sincera entrare dalla parte della Scala, dopo che era stato sul balcone
municipale a pacificare i cittadini con gli altri oratori. L’interruzione della
piazza e gli squilli erano impotenti a rarefare
Alle dieci molta gente spinta e
risospinta era rimasta fuori della Galleria e si era avviata a domicilio. I
questurini rincorrevano i dimostranti più clamorosi e facevano arresti.
Gli arrestati passavano tra gli agenti che li tenevano per il colletto o per le
braccia.
Le grida di molla! molla! moltiplicavano
il numero di coloro che venivano violentati fino a San Fedele.
Alcuni arrestati s’imputavano e
urlavano e si scuotevano per divincolarsi dai tentacoli polizieschi. L’odio di
classe si era manifestato con tutta la sua perversione. I signori della
Brasera Milanese, dal balcone del terzo piano al di sopra del negozio Munster,
riversavano sulla folla parecchi secchi d’acqua.
La gente, esasperata, volgeva in alto i
visi stravolti dalla collera con i pugni chiusi e la bocca divenuta un vulcano
d’improperi.
I più lontani, quelli
dell’angolo, tiravano al balcone sassi che precipitavano per la parete della
galleria con un baccano indiavolato. Senza le corse e le rincorse dei
questurini e dei carabinieri con gli squilli di tromba, avrebbero scontata la
loro buaggine pericolosa con la morte del Prina. Guai se la folla avesse saputo
da qual parte si saliva per entrare nei loro clubs!
Così non c’è stato che
uno scambio di villanie. Ma i signori che hanno irritata la gente, la devono
aver veduta brutta. Perché c’è stato un momento in cui ho creduto che
gli epiteti vergognosi e sanguinosi che le buttavano sopra con i loro scaracchi
la inducesse a farsi largo attraverso il Campari per uscire sulla scala esterna
e salire tumultuosamente a scaraventarli dal balcone. Gli squilli devono aver
interrotto il pensiero.
Verso
Mai come in quella notte la piazza
della Scala, la Galleria e la piazza del Duomo sono state così
silenziose. Parevan luoghi disabitati. Quanti ne avevano arrestati! mucchi. A
mucchi son stati chiusi nei camerotti puzzolenti della questura di San Fedele.
(dal mio diario)
7 Maggio. - Mi alzo, sono
inquieto, ho ancora nella testa le grida e le scene di ieri sera durante e dopo
l’acquazzone indiavolato che ha fatto scappare tutti dai luoghi aperti, e
sciolta la dimostrazione prima che si adunasse. In Galleria Vittorio Emanuele
ci sono stati momenti terribili. Squilli, moltitudini che si riversavano da una
parte all’altra, aggruppamenti che si disfacevano in un fiato e si
ricomponevano a qualche passo di distanza. Rivedo i provocatori della Brasera
con spavento. Con l’irritazione incandescente dappertutto, i signoracci, in
alto, si abbandonavano allo spasso di aggiungere combustibile per l’incendio,
buttando giù sulle moltitudini parole oscene e villane e mostrando i
pugni chiusi. Ah, birbe! C’è stato un attimo in cui ho veduto nell’atmosfera
irritata la guerra civile. I mascalzoni che apparivano e scomparivano dietro i
vetri rovesciavano sui capannelli che sostavano e passavano secchi d’acqua.
Scellerati!
Anche in casa si sente che siamo in
tempi anormali. C’è un’inquietudine, c’è un malessere, c’è
qualcosa che non so spiegare. Sei amici sono saliti a trovarmi terrorizzati.
C’è tra loro un deputato.
Sembrano tutti in preda alla febbre. A
loro sembra impossibile che io sia ancora al largo. Va via! mi dice qualcuno.
Mettiti al sicuro. Non ci penso neanche. Rido e faccio la punta al lapis che
voglio mettermi in tasca per andare in giro a raccogliere gli avvenimenti. Non
capita tutti i giorni di passare in mezzo al casaldiavolo militare con la
matita che lo raccoglie. La matita nelle giornate di sommossa è forte,
più forte dei cannoni a tiro rapido. Victor Hugo, con la matita che
Baudin gli ha prestato prima di morire sulla barricata della via Santa
Margherita, ha inchiodato i nomi dei malfattori del 2 dicembre alla vergogna
dei secoli. La storia di un delitto è un libro immortale. A proposito: e
perché non lo ha pubblicato subito, quando gli episodi fumavano del sangue
delle vittime, quando gli attori principali del Colpo di Stato suscitavano
ancora gli orrori, gli spasimi? Io non voglio imitarlo. Lui ha saputo tener il
manoscritto chiuso nell’armadio per venticinque anni. Io andrò subito
alla ricerca di una stamperia. Voglio la scena nell’atmosfera in cui si
è svolta.
Ho letto la Lombardia con
disgusto. Ah, che prosaccia da sentina! È un giornale che non mi
è
Che bella giornata! Esco. La portinaia
mi saluta con aria timida. Essa ha avuto delle visite che la impensieriscono.
- Chi erano?
- Facce sinistre.
Si sente per le vie che c’è
qualcosa d’insolito. La gente è affrettata. Sono in giro molti soldati,
numerosi questurini, parecchi carabinieri. Ho veduto uno squadrone di
cavalleria che andava verso Porta Garibaldi. Svolto in Via Dante e svolto alla
volta di Largo Cairoli. Di fianco all’Eden, tra il monumento e l’ingresso del
teatro, è piazzata una batteria di cannoni con le bocche alte verso
l’arteria nuova che conduce in piazza del Duomo. La gente si ferma, interroga
gli artiglieri e va via senza risposta. I soldati sembrano accigliati e i loro
superiori hanno l’aria truce. Sentiamo un ran ran che passa come per i tetti.
Le persone guardano in aria. Nulla. Ma il ran ran è entrato in tutti
come un brivido. I passanti raddoppiano di gamba e si disperdono per le vie in
direzioni opposte ai cannonieri.
Ho incontrato un amico, pallido come un
morto... Mi ha veduto; mi ha dovuto vedere, e non mi ha salutato. Non gliene
faccio colpa. Con Bava Beccaris il saluto può costare
«Consiglio i cittadini di starsene
nelle loro case affinché le truppe abbiano a trovarsi di fronte ai soli
dimostranti e possano così agire con la maggiore vigoria».
Ha copiato, con qualche variante, il
generale di Saint Arnaud delle famose giornate napoleoniche. «Pas des curieux inutiles dans les
rues: impediscono i movimenti dei valorosi soldati che vi proteggono con le
loro baionette». Plagiario!
La città dei quarantottisti
è senza coraggio. Pare che tutto il sangue delle sue arterie sia
stato convertito in acqua. La popolazione legge e fila. Non c’è una mano
capace di strappare gli avvisi che riassumono la tracotanza del soldataccio che
io rovescerei da cavallo se lo incontrassi. L’opinione pubblica è sempre
rappresentata dai giornali, specialmente nelle giornate di torbidi.
E il coraggio dei giornali è
zero. Sbaglio. Nella Perseveranza e nel ,, ha sentito, in
questi giorni di baldoria militare, la collera velenosa del padre. I suoi
articoli sono dell’odio in fermentazione. La sua faccia di bonaccione è
una maschera, è il Prina del giornalismo. Terrorizza i terrorizzati.
Emile de Girardin mi sbroncia. Egli non era un giacobino, ma è stato
solidale con la stampa insorta contro gli arrestatori e i massacratori dei
repubblicani che volevano conservare
Godete, o Giboyer, i vostri giornali
vanno a ruba. È la vostra vendemmia amministrativa. Bava Beccaris ha
parlato ed ecco i giornali dell’ordine invasi dalla paralisi agitante.
Pennivendoli, mangiapani, caratteri di zucchero candito, vilissime creature che
non avete fede che nella mesata, a voi, sul vostro viso, gli scaracchi della
mia indignazione.
Io vado in tutte le stamperie che
conosco, a implorare la grazia di stamparmi un bollettino che rimetta in piedi
i ventraioli in ginocchio, i pavidi rappresentanti del quotidiano divenuti
umili servitori di Bava Beccaris. Vergogna, vergogna! Hanno tutti paura. A
tutti preme il pane, a tutti preme la famiglia, a tutti preme la quiete, a
tutti preme il proprio stabilimento e intanto la libertà del cittadino
muore, e nessuno è più sicuro in casa sua! Ecco che sono
incominciati gli arresti, ecco che vanno in prigione a frotte, ecco che i
soldati, i carabinieri, i questurini, i graduati, gli ufficiali non sono
più che della sbirraglia che agguanta i passanti, che snida la
gioventù nelle case, che strappa gli sposi dalle braccia delle donne
piangenti, che urta brutalmente i bimbi con le braccia avviticchiate alle gambe
dei padri e dei fratelli. Il mio pensiero è in fiamme come quello di
Desmoulins. Mi agita, mi solleva, mi grida: vile! rivoltati, alle armi! alle
armi! ma tutta la gente tace, tutta la gente si lascia condurre in prigione e
tutti i giornalisti applaudono alle vigliaccherie di Bava Beccaris e mi
guardano con l’occhio truce del rinnegato. Io sono solo, incapace perfino di
appendermi ad una fune di campana per suonare a stormo, perché tutte le chiese
sono chiuse, ermeticamente chiuse. Anche il dio cattolico partecipa al delitto!
Oh disperazione di questa mia giornata
di torture che sciupo nell’impotenza senza trovare accenti virili che diano
l’anima dei combattenti del ‘48 alle
generazioni di cinquant’anni dopo!
Più tardi, dopo il ran ran, i
passanti sembrano degli sconosciuti. Nessuno dice addio all’altro. Vanno via
rasente ai muri come incalzati da un vento impetuoso. Invece c’è un sole
che abbrustolisce. Io sono nel sole che scalda la mia desolazione. La paura
è nell’aria. Qua e là si chiudono le imposte. Pare che tutta la
gente stia per andare in campagna. Buon viaggio! Mi trovo in via S. Vincenzino.
Non c’è nessuno, non c’è anima viva. Che cos’ho anch’io? Sono
inquieto, nervoso, trasalisco per nulla. Mi si è chiamato? Chi mi ha
chiamato? Mi sono voltato indietro convinto di aver qualcuno alle calcagna.
Parola d’onore, ho tremato. Vile! Prima di sbucare in via Meravigli vedo
passare un delegato con la sciarpa lungo il panciotto, un ufficiale con la
spada sguainata e un drappello di soldati a baionetta in canna. Dove vanno?
Raddoppio il passo sulle loro pedate. Passano e sollevano il vespaio nel
cervello dei passanti. Si fanno tutte le supposizioni. Il parrucchiere
di via Meravigli chiude in fretta, come quando si ha paura che la tempesta
infuri sui vetri. Raggiungo il drappello in Santa Maria Porta. Il delegato si
volta e mi fa voltare dall’altra parte con un gesto. Tutti gli ordigni di
questura sono diventati onnipotenti. Soldati, disse egli additandomi, fatelo
tornare indietro. E i soldati si preparavano a curvare gli arnesi della
civiltà moderna.
Non c’è bisogno, mi dissi
mentalmente. La disubbidienza può costarmi una fucilata senza che alcuno
mi raccolga e agiti il mio cadavere come una bandiera.
Sono in giro come un matto. Non ho
direzione. In corso Magenta vedo altri perduti che vengono alla mia volta e io
li evito svoltando in via San Giovanni sul Muro. Al margine del vicolo dello
stesso nome sono due cenciose della bassa prostituzione che aspettano il
gozzovigliatore che faccia guadagnar loro il morsello dell’esistenza. Sono
sudicione che fanno ribrezzo come faceva ribrezzo la Gervasa, prima di crepare
di svaccamento fra le gambe del beccamorto.
Il teatro Dal Verme è chiuso, la
chiesuola più in giù, lungo il marciapiede opposto, è
chiusa, le ultime imposte si chiudono. Non si vede nulla e si sente che lo
spavento è nelle abitazioni e nella strada. Non smetto di camminare.
Passo un’altra volta al Largo Cairoli. L’Eden traduce il momento. È
completamente vuoto. Gli artiglieri sono come sull’attenti.
Un altro ran ran rapido, precipitato,
si perde via come in fondo a un bosco. Che c’è? Cosa c’è? Si
combatte? La guerra civile è nelle vie? Mi passa per la schiena un
brivido.
Sono in piazza Castello, dal lato di
Porta Garibaldi. Mi è stato detto che il quartiere popolare è
già tutto in faccende per le barricate. Ran, ran, ran! Cerco col naso e
con gli occhi l’ombra del fumo delle fucilate e trovo Vincenzo Maresti, col suo
cappello nero, floscio, piatto, a larga tesa, piantato sull’occhio, con la sua
giacca accarezzata alla schiena con la duttilità del panno che non fa
pieghe, con le sue gambe lunghe lunghe, con quella sua faccia abbronzata anche
d’inverno. Senza tirar fuori le mani dalle tasche mi assicura che in Porta
Garibaldi c’è fermento. Gli pareva di camminare su di un terreno
infocato. A ogni momento si aspettava un grido o una sollevazione. C’è
gente a frotte. Si capisce che si sono vuotati gli opifici. La direzione
generale è verso il Duomo. Maresti mi induce a cambiar strada e filo con
lui in via Orefici, la via delle catapecchie in demolizione, zuppa di
femminacce ulcerate fino agli occhi. È una via brutta, con
l’acciottolato sempre ricoperto da uno strato limaccioso, sempre pieno di
pozzanghere e di prostitute in agguato ad aspettare il maschio. Dal giorno che
venne decretato il suo disfacimento i vecchi orefici, che vendevano spadine e
bucole alle brianzuole, se ne sono andati, e ogni casupola è diventata
il covo della prostituzione che si sguinzaglia di notte come lupa affamata.
Anche adesso, che la via è sottosopra e tumultuata, si sente l’odore
fetido della carne sdrucita e vendereccia che attutisce ancora i sensi
indiavolati dei briaconi che passano.
Al diavolo il carnimonio! Mi spingo
avanti, dove la gente è più fitta e calcando cerco di mettermi in
prima fila. Sono respinto da una ondata che si rovescia indietro, spinta da
un’altra ondata che non vedo. Riesco vicino al muro della casa che lambisce la
piazza del Duomo, senza vedere nulla di quello che avviene al di là
della barriera umana. Maresti, più alto di me, ha veduto che c’è
un cordone che va dalla offelleria al monumento. La folla che mi pigia e mi
toglie la respirazione è composta in maggioranza di operai impazienti di
attraversare
- Indietro!
Sono le due e mezzo o le due e mezzo
circa. C’è ressa e non posso guardare l’orologio. I bersaglieri
allineati hanno sempre il fucile col calcio in terra. Ma sono lì
sull’attenti, in attesa di un ordine. Ecco il terrore. I soldati hanno come
ricevuto un ordine. Si impallidisce, siamo tutti stravolti. Quelli in prima
fila si rovesciano sugli altri alla schiena come indemoniati. Fermi tutti! urla
Maresti con il suo vocione, credendo di riuscire a sedare il panico e a
trattenere compatta
Come avviene sempre nei tumulti, non
appena i soldati sono ritornati al loro posto, gli scappati si radunano a poco
a poco allo stesso luogo, credendo che l’ordine di andarsene non sia
imperativo. Ma l’illusione non dura molto.
- Indietro! Indietro!
Il nostro posto è preso un’altra
volta dai soldati con la baionetta piegata verso il sedere delle persone che
cercano di distrigarsi dalla ressa. La gente perde
- Largo! Largo! Indietro! Indietro!
via! via!
E tutti sono ripresi dalla vertigine
della corsa e tutti corrono e corrono, andando gli uni sui piedi degli altri,
spingendo, sgomitando, rovesciando, passando sui corpi dei caduti senza
ascoltare le grida, andando innanzi come tanti ciechi, come tanti pazzi.
- Largo! Largo! Indietro! Indietro!
via! via!
Credevamo che fosse la folla dei
soldati che spazzasse
L’altro ha il viso cosparso di sangue e si dice che sia pure
ferito al ventre o alle gambe. Il disgraziato non parla. Ha le braccia
abbandonate sulle spalle di uno dei due che lo portano, e le gambe penzoloni.
Egli è come seduto. Diventa paonazzo. Chi è? Come si chiama?
Nessuno lo conosce. Il piombo lo ha fatto stramazzare. Non si ha tempo di
intenerire per alcuno. Un ferito è seguito da un altro. È una
ragazza che giunge col grembiule in una sola macchia di sangue. La si circonda.
Pare uscita da un macello. la si crede sventrata. È abbattuta, piange,
risponde coi singhiozzi. Finalmente ci toglie l’oppressione raccontandoci che
tutto il sangue del grembiule è di un ragazzo caduto durante il primo
parapiglia. Il poveretto era come scallottato. Non ha potuto passare senza
raccoglierlo. Poi glielo hanno portato via. Tre, quattro, dieci mani se ne sono
impadronite. Tutti i momenti arrivano persone in fuga. Si grida: alla farmacia!
alla farmacia! È un mucchio di gente intorno a un ferito o morto che
sia, e si grida: alla farmacia! alla farmacia! E i portatori si rivolgono verso
Più tardi. La cosa più
strana di questo momento tragico è il pubblico. Il pubblico pare reduce
da una corsa affannosa o esca da un sogno. È come trasecolato. È
per le strade come un punto interrogativo. La sua mente è confusa, le
sue idee sono ingarbugliate, la sua lingua è in moto automaticamente.
Ascolto parole slegate, affastellate, turbolente. Mi trovo faccia a faccia con
degli esaltati, mi fermo con donne e uomini che hanno perduto la memoria di
ciò che è avvenuto. Sono lì istupiditi, con le mani in
mano, con gli occhi imbambolati, come se aspettassero o cercassero qualche
cosa. Che cosa avete udito, che cosa avete veduto, cosa vi hanno fatto? Mi si
lascia pensare quello che voglio. Non riesco a cavar loro di bocca un ette.
Vado innanzi verso la parte che lambisce via Torino. C’è folla. Vedo che
svoltano in via Spadari altri feriti portati a braccia e altri sorpresi o
febbricitanti o esaltati che vanno dalla parte opposta con esclamazioni
d’orrore. Raccolgo un episodio. Una moglie vede il marito sorretto da tre o
quattro persone, scoppia con un oh Dio, e sviene! Il marito non è che
malconcio da qualche piede che gli è passato sopra durante una delle
scariche.
Le gelosie della casa delle perdute in
fine della via sono semichiuse e si vedono le donne coi gomiti ai davanzali e
gli occhi nella parte dischiusa a curiosare con la sigaretta in bocca. Neanche
la sollevazione riesce a far loro dimenticare il mestiere. Accidenti alla
carnaccia postribolare! La sventura cittadina è diffusa. Milano sta per
diventare un’immensa cassa da morto, un gigantesco serbatoio di sangue.
È un giovane che passa portato da quattro uomini. La sua testa segna i
movimenti dei portatori. Le braccia sono senza vita. È terreo,
stralunato, con la bocca appassita come in un’atmosfera ardente. Non c’è
sangue, ha il panciotto slacciato e la camicia macchiata di rosso all’ombelico.
Lo si lascia passare senza ventate di collera. Non si ode che qualche
espressione di dolore.
O Bava Beccaris ha succhiato tutto il
coraggio milanese, riducendo i cittadini a dei Giovanni Bongé, o il pubblico
incomincia ad abituarsi alla strage. Gli uomini non sono più uomini. Il
fucile è il sovrano, è il padrone della nostra vita. Uno scappa e
tutti si danno alla fuga. Un semplice grido infuria tutte le gambe. Nessuno
combatte, nessuno vuol combattere. Le gocce e le chiazze disperse per via
Spadari, segnano il passaggio delle vittime.
Il sangue coagulato sui marciapiedi inorridisce.
I sassi dinnanzi l’osteria riassumono una salassata. Pare una piazza rossastra.
Chi passa rabbrividisce. Mi sovvengo che abbiamo dei deputati. E gli onorevoli
e i nostri uomini di parata, dove sono? cosa fanno? I nostri deputati non sono
dei Baudin. I Baudin sono dell’eroismo storico o vecchio. Non sono più
di moda. Loro morivano. I nostri vogliono vivere. Questa mattina uno di loro mi
diceva che l’asilo più sicuro per gli uomini in «vista» è il
cellulare. Tanta prudenza in un parlamentare della montagna mi ha costernato.
Dell’altro panico. Chi ha diffuso lo spavento? Si è udito o ci è
parso di udire una voce e ci siamo mossi tutti, alla rinfusa a correre.
Più di tre quarti della via sono rimasti vuoti. È come se fossimo
stati cacciati in fondo da un’irruzione di vento infiammato.
Ci siamo trovati ammucchiati, sudati,
tremanti, senza saperne
Il pensiero mi urta, m’incalza, mi
spinge in piazza del Duomo, da dove viene come un silenzio di morte, e
m’incammino, rasente il muro, verso le Asole. All’imbocco trovo il genio del
momento, un eroe delle perturbazioni sociali, uno di quegli uomini che sprecano
la vita in un attimo senza domandarne il prezzo. Pare un personaggio da
romanzo. È un uomo di trentacinque anni, forte come un torello. Sulla
sua faccia è
- Buttate giù la mobilia, i
materassi, buttate giù tutto per la barricata!
La sua audacia mi sbalordisce. È
il primo uomo che si rivolta contro il Magnan delle nostre vie. Pare una sfida
ambulante. È lui che inizia il duello col generale che uccide. La sua
incoscienza ha del grottesco e del sublime. Nessuno gli presta mano. Egli
ingiuria i fuggiaschi: vigliacchi! Ma i vigliacchi non si voltano indietro. Io
ascolto l’improperio che m’incendia la faccia, ma non abbandono il muro di
riparo che mi permette di mettere gli occhi, quando voglio, nella via delle
Asole.
- Vigliacchi!
Vedo in
L’uomo del popolo s’impadronisce dello
spazio che l’attraversa dal margine di via delle Asole ai margini di via
dell’Unione con la panca dei facchini che stanzionano sotto le finestre dell’albergo
del Pozzo. Dalla via dell’Unione viene un carro a due ruote carico di pietre.
L’eroe ne stacca il cavallo che manda via col carrettiere e da solo, con la
spalla alla ruota e le mani ai raggi della ruota, lo rovescia e lo gira vuoto,
lasciandone le stanghe verso le Asole. Poi lo protegge colle pietre, senza
badare che là in fondo, verso piazza del Duomo, è ancora
schierata la fanteria che ha fatto un fuoco micidiale. Io mi avvicino
all’estremità della via trasversale e lo ammiro estatico.
- Vigliacco, alla barricata!
Ha ragione. Dinanzi a lui siamo tutte
creature di gesso. Egli scrive da solo una pagina indimenticabile. In quel
simulacro di barricata è la protesta, la furia, la rivolta del popolo.
È la violenza contro la violenza; la forza contro la forza.
Mentre assisto a tanto sacrificio io mi
limito a far delle note, riparato nella rientratura dell’albergo del Pozzo,
senza accorgermi che registro la mia vigliaccheria. Il giudice istruttore del
massacro è inutile quando si muore. Tuttavia continuo. Io mi sono dato
il compito di registrare tutto e salto dall’altra parte, dove è la
trattoria della Candidezza in argine alla via dell’Unione, luogo che mi
dà modo di occhieggiare da una parte e dall’altra lungo via Torino. Il
popolano, l’eroe della barricata, è ritornato in via delle Asole per
compiere il suo capolavoro. Egli è alla ricerca di seggiole, di imposte,
di tavoli, di bauli, di madie, di credenze, di letti, di armadi. Vuota le
abitazioni. Se non volete dare la vita sacrificate almeno le masserizie. Giù,
giù tutto! Domani la libertà vi ripagherà a mille doppi il
miserabile costo delle suppellettili! Lo sconosciuto strepita presso le
botteghe e le porte con una pietra tolta dalla barricata e passa e ripassa in
mezzo alla via con la faccia in alto, con le braccia spalancate a domandare
dappertutto la pietà di un mobile qualunque per
Ohimè!
I lavoratori alle botteghe si
moltiplicano, Con le punte delle aste strappate alle botteghe, rompono le
vetrine e le bacheche. Alcuni rubano. Si mettono nel seno camicie, fazzoletti,
cravatte, gingilli di similoro. Lo ha detto anche Maupas. Le sommosse, i
combattenti di strada, le insurrezioni chiamano alla superficie i bisognisti,
gli affamati, la plebe che vive come vive, i poveri diavoli che crescono fra un
furto e l’altro. Le tribolazioni cittadine danno loro un po’ d’abbondanza. Ma
con che rischio s’imbottiscono della roba rubata! Vedete, si spara e loro
continuano a far bottino! Alcuni vogliono migliorare la barricata con la
reclame alle muraglie. Le lastre di ferro sembrano di pasta frolla. Le schiodano
con una facilità maravigliosa. Le strappano, le alzano, si staccano e
passano tra le mani di coloro che le portano alla barricata. Le saracinesche
venivano frantumate.
Si va sui tetti. È l’irritazione
che entra in scena. Le fucilate hanno preparato il combustibile nei cervelli e
i morti e i feriti gli danno il fuoco. Vedo in lontananza gente che sfonda gli
sportelli dei portoni e sale a frotte. È ritornato il ‘48. Il tipo di
Carlo Porta è una fantasticheria. Il coraggio è ritornato.
C’è gara per
Il cambiamento dei soldati che hanno
fatto fuoco, con altri soldati, mi diventa un esercito in confusione.
Più mi avvicino verso la linea militare che blocca il passo e più
io non sono più io. Sono sottosopra. Passo attraverso emozioni che non
ho
- Vigliacchi! disse con uno scotimento
di testa e in atto di scagliare la sassata.
L’ufficiale, bianco di terrore, rimase
nell’atteggiamento arcigno di chi ha compiuto un atto feroce ed è pronto
a ripeterlo. Non si mosse, non ebbe una parola, lasciò la punta della
spada nel terriccio.
Se un giorno avrò modo di farmi
ascoltare dai miei concittadini, inizierò una sottoscrizione per te, o
donna. Tu sì che hai avuto del coraggio, del coraggio impulsivo, se
vuoi, ma del coraggio, accidenti! In battaglia sono gli impulsivi che compiono
i prodigi. Tu non ti sei consultata. Tu ti sei abbandonata ai tuoi nervi e i
tuoi nervi ti hanno precipitata sul sasso e scaraventata sul militare che
convertiva le vie e le piazze in campi di rovine e di sciagure umane. Ti vedo
ancora bella come una dea, circonfusa in un’aureola di gloria, con le trecce
dei capelli biondi quasi sfatte, con la faccia imporporata di salute, col seno
che ansa dinanzi le bocche di fuoco, col pugno teso che stringe il proiettile
della vendetta popolare. In un momento di fuga generale ti sei elevato un monumento.
Ma per la nostra società non sei monumentabile. Tu non sei che un
ordigno di sfogo. Passata la commozione cittadina e il trambusto della legge
eccezionale che impera sulla legge generale, passeggerai ancora dalle due alle
quattro di ogni pomeriggio per i portici della Galleria in cerca di uomini([1]).
Giù dal marciapiede, dinanzi le
botteghe del Rituali, c’è una pioggia di copricapi. Rappresentano la
sorpresa, lo scompiglio, lo sbigottimento, il terrore. È una tragedia
senza sangue. Non c’è nessuno e spaventano e fanno correre mentalmente
dietro i loro proprietari. Saranno morti, saranno vivi? Sono una quarantina di
cappelli e berretti di tutte le fogge e di tutti i colori. C’è il
cappello floscio, disorlato, gualcito, con dei buchi. C’è il cappello
duro, ammaccato, impolverato, infangato. C’è il cappello femminile coi
fiori appassiti, con l’ala che ha subito lo strappo e la furia del momento. C’è
il berretto negro, piegato su se stesso come un morto. Sul marciapiede la scena
intetra e si completa. Le pietre sono insanguinate. Ci sono corpi immobili.
Nessuno si muove, nessuno fiata. Alcuni sono bocconi con le braccia larghe, con
le mani piatte, con le gambe contorte l’una sull’altra. Altri sono supini, con
gli occhi chiusi, con le guance e le labbra dissanguate, coi capelli
abbaruffati come in una zuffa, coi piedi da tutte le parti. Fra i cinque
distesi l’un dietro l’altro come se fossero rovesciati da un vento furioso, c’è
un vecchio con la faccia patita, con la barba sporca di terra, la fronte
spruzzata di sangue, la bocca aperta come una gola di carne smunta e accanto a
lui è un giovanotto svaligiato della vita, con gli occhi ingrossati
dalla violenza che li ha resi inservibili, con la testa squarciata,
scallottata. Intorno a lui è
Giù dal marciapiede, lungo il
negozio degli oggetti casalinghi di L. Giannoni, le palle a balistite hanno
infuriato come una gragnuola di piombo che turbina intorno agli alberi umani.
Hanno sorpreso la moltitudine delle persone che fuggivano dopo lo squillo
ordinato dal capitano del 47° e sono cadute le une sulle altre. Ci fu un
momento di silenzio terribile. Anche i vivi rimasero sepolti sotto i morti,
svenuti o inconsci. Il quadro è indescrivibile. I corpi ammucchiati o
sparsi sono quindici o diciotto. Sono stati sbattuti in terra in tutte le
pose. Di fianco, sulla schiena, colle labbra sui sassi, con le braccia spalancate,
con la bocca al cielo che non so più se sia azzurro, scialbo o rosso
come il sangue dei morti. Il sole sui cadaveri pare un’ingiuria o un insulto
atroce. Mette in fuga tutto ciò che è tragico e lascia in terra
lo scherno, lo sberleffo,
Oh, povera gente! Sono morti, proprio
morti, senza speranza di resurrezione. Quanti sono? Ne vedo un mucchio che mi
pare un piazzale. Saranno diciotto o venti e la mia fantasia eccitata dal
sangue se ne figura un cimitero. Tranne uno o due dei quali non vedo che le
scarpe e le braccia, mi sembrano tutti pitocchi, tutti spiantati, tutti poveri.
Sono denutriti, sono ditte di miseria, sono problemi sociali stramazzati al
suolo come sacchi di cenci. Le loro mani sono documenti. Rivelano i disagi
della loro esistenza tribolata. Fra loro è uno scallottato. La
superficie cranica è stata dispersa in frantumi. Se ne vedono le
fibrille sui due grandi vetri del Giannoni, fin su in alto dove è la
ditta e dappertutto. In fondo al cappello cencioso è rimasta una
poltiglia sanguinosa piena di peli. I grandi cristalli di questo negozio sono
stati forati dalle palle. Lo spessore ha impedito che andassero in frantumi.
Resiste più il cristallo che il fusto umano. C’è uno spettatore
che si preoccupa se i lastroni verranno pagati. E che importa, sciagurato!
La folla è sempre
Doveva andare in Verziere. Ha fatto di
tutto per passare dalla via Orefici, o dal passaggio degli Orefici senza
riuscirvi. Rifece la strada, prese la piazza della Rosa, svoltò in via
delle Asole e subito dopo fu in via Torino. I soldati non avevano ancor fatto
fuoco e la gente si avvicinava ai monturati senza pensare alla catastrofe
umana. Lui, poi, un richiamato che doveva presentarsi all’indomani al Castello,
aveva meno paura degli altri. Fu un’imprudenza. Giunto dinanzi alle due schiere
che bloccavano il passaggio, s’avvicinò a un sottufficiale per
domandargli se avesse potuto usargli la cortesia di lasciarlo andare oltre. In
quei giorni i soldati che chiudevano la via all’altezza del negozio del signor
Rituali, erano tutti accigliati e nessuno rispondeva. Allora, mi dice il
testimonio oculare, quello tratto dal mucchio dei cadaveri, mi trovai coi
curiosi che bighellonavano dinanzi i soldati chiacchierando e sperando di poter
andare al di là della linea. Alla mia destra c’erano persone che
facevano commenti sullo sfoggio esagerato di soldati, senza però inveire
Il capitano del 47° fanteria era
arrogante, brutale e guardava tutti noi in cagnesco. Taluni dei ragazzi hanno
cercato di passare tra le file dei soldati, così, ridendo, senza
spingere. Non so che cosa abbia potuto decidere il capitano a dar ordine di far
fuoco. Io non ho visto alcun movimento. Sono abbastanza alto e potevo vedere
benissimo se qualche contingente di insorti fosse stato in marcia verso i
soldati. Il daltonismo del capitano fu forse la causa dello sparo. Con un’aria
minacciosa e un comando che non ammetteva discussione, il capitano
ordinò uno squillo seguito subito dal fuoco di due file fitte di
soldati. Il valoroso sottufficiale al quale avevo domandato con tanta
gentilezza il permesso di andare oltre, mi puntò la bocca del fucile
alla mia bocca. Che cosa è avvenuto di me? Fu il freddo della
canna? Non vi posso dire nulla, né come sono caduto, né perché mi sono trovato
fra tanti cadaveri, con dei cadaveri sullo stomaco. Aspettate. Dio mio, sono
minuti che invecchiano di dieci anni. Lasciate che mi raccapezzi; adesso
incomincio a vedere più chiaro. Sì, mi sono risvegliato e
rinsensai pochi minuti dopo. Mi sentivo addosso un peso enorme e mi pareva di
soffocare.
Per quanti sforzi facessi non riuscii a
levarmi che aiutato dalle persone. Ero circondato da feriti che imploravano
soccorso, e da morti che mi guardavano in faccia con la loro faccia gelata e
coi loro occhi ingrossati e spaventati dalla morte. Non dimenticherò mai
quello dalla testa scallottata. Il disgraziato era tutto impillaccherato del
suo sangue. I capelli alle pareti craniche ne erano incatramati e le guance e
il collo ne erano lastricati. Giaceva come un orrore. In quel momento non ho
potuto trattenermi in gola la parola concitata. Io ho detto qualche cosa contro
i soldati, ho detto che non avrei mai fatto il soldato.
Il ricordo lo fa ricadere nel silenzio.
Egli è commosso, agitato. Gli dico che è tutto insanguinato. Ha
del sangue e delle cervella sui calzoni, sulla giacca, sul cappello. Se vi
prendono così come siete, sarete fucilato. Nascondetevi al primo portone
aperto. Egli mi guarda, si accorge finalmente di avere una scheggia di palla
nel braccio sinistro e senza darmi retta prende la rincorsa e mi lascia con le
persone che ascoltavano la sua narrazione con i pallori della morte. Corre come
un disperato e svolta alla prima via trasversale. Io e alcuni altri ritorniamo
indietro a vedere il popolo che portava via i feriti e aiutava a caricare i
morti sul furgone militare. C’è un uomo in manica di camicia che pare
diventato matto. Egli va sotto le finestre a gridare, con le nove dita in alto,
il numero dei morti. Sono nove, hanno ammazzato nove persone!
Più tardi. Sono quasi le sei. Il
sole sta per scomparire completamente. I fatti della giornata hanno triplicata
l’esasperazione cittadina. Corre voce che la questura abbia invasa la redazione
dell’Italia del Popolo. Per andare in San Pietro all’Orto dove sono i
suoi uffici, faccio un giro che completa la mia stanchezza. È vero.
Tutti i redattori sono sotto chiave in un camerotto di San Fedele. Si dice che
si siano trovate le file del complotto rivoluzionario. Hanno sequestrato
documenti che compromettono molte persone - uno dei quali è il biglietto
da visita dell’avvocato
Bava Beccaris diventa atroce di ora in
ora. Egli non sta quieto un minuto. Dopo il massacro, la soppressione di un
giornale, e dopo la soppressione del giornale, la proclamazione dello stato
d’assedio. Fra poco il generale sarà il nostro padrone. Egli
potrà disporre di noi come se fossimo del bestiame. Il manifesto che ho
potuto leggere in bozze, sarà affisso su tutte le muraglie questa
sera alle dieci. Lo trascrivo tale e quale, perché esso riassume la coercizione
militare che incomincerà ad affliggere e a martoriare i cittadini
domani. Per il generale le armi sono del denaro contante. Esse dovranno essere
versate alla questura... Leggete.
«Per lo stato d’assedio proclamato in
questa provincia con R. Decreto del 7 corrente, assumo i pieni poteri, nella
qualità di Regio Commissario straordinario e decreto quanto segue:
1 Sono annullati tutti i permessi di
porto d’armi; quelli che possedessero armi da fuoco dovranno versarle nel
circondario di Milano, a questa questura centrale e per altri Circondari alle
rispettive Sottoprefetture. Le armi appartenenti ad abitanti della città
di Milano e sobborghi dovranno essere consegnate non più tardi della
2 Rimane vietato ogni assembramento per
le vie, e gli abitanti dovranno rincasare non più tardi delle ore 23.
3 Finché durano gli attuali disordini i
pubblici esercizi verranno chiusi alle ore 21.
4 Sotto la responsabilità dei
vari inquilini, verificandosi conflitti per le vie, si dovranno chiudere le
persiane che prospettano le vie medesime.
5 I telegrammi privati che danno
informazioni sui presenti disordini non saranno ammessi se non dietro il visto
di questo Comando.
6 I contravventori alle presenti disposizioni, saranno deferiti ai
Tribunali Militari, come pure vi saranno deferiti i rivoltosi.
7 Le autorità dipendenti
cureranno l’esecuzione del presente Decreto.
Milano
Il Regio Commissario
Generale Bava.
Parecchi giorni dopo, mentre i
Tribunali di Guerra erano al lavoro, ho potuto rivedere il poveraccio rimasto
sepolto sotto i morti in margine al negozio del Giannoni. Era in Castello
vestito da alpino. Non potendo parlarmi mi ha fatto pervenire una narrazione di
quello che gli è capitato nella giornata. «Uscii di casa, mi scriveva,
circa le 8 e mezzo. Passai per il corso V.E. e il corso Venezia leggendo la Perseveranza,
il giornale che costa 5 centesimi dall’ascensione di Bava Beccaris. Vi
trovai i fatti di via Napo Torriani. Giunsi in via Panfilo Castaldi, senza avere
notato nulla di straordinario. Verso le undici ho dovuto andare per i miei
lavori a porta Vittoria. Rincasai e feci colazione. Non avevo ancora in bocca
il boccone che è venuta in casa una inquilina con aria disperata a
raccontarmi che in piazza del Duomo c’era
«In quel tempo si stava mettendo
giù il binario per il tram a Porta Vittoria. La via era tutta sossopra
fin giù quasi in piazza Fontana. I ragazzi si sono caricate le tasche di
sassi. Li dissuasi a servirsene contro l’ufficiale. M’accorsi che intorno loro
c’erano due ..
Riprendo la narrazione della strada,
solo perché ho dimenticato il documento più importante della giornata.
È il manifesto del sindaco.
Cittadini,
Luttuosi avvenimenti hanno funestato la
città.
Milano che pensa e lavora non
può essere solidale con coloro che, obliosi d’ogni dovere, attentano
alla pubblica pace.
Si stringano i buoni fra loro, e,
rispettosi dei fratelli dell’esercito, che sapranno difendere l’ordine
pubblico loro affidato, facciano che Milano torni alla sua industre
tranquillità che la rese fin qui rispettata e invidiata.
La Rappresentanza cittadina, facendo
questo appello, confida che le sue parole non rimarranno inascoltate.
Il Sindaco Vigoni.
Scrivo all’indomani dell’avvenimento,
ma ne sono ancora tutto sgomentato. Ero lì in via Valpetrosa che non
sapevo proprio quanti ne avessi in tasca. Le poche botteghe erano chiuse come i
portoni delle case. Non c’era aperta che la bottega del fumista Pietro Lomazzi
del numero 8, la casa di faccia alla via che si curva leggermente fino al
margine di via Torino. La Valpetrosa era come il rifugio delle persone che
capitavano in
Mi figuravo i soldati in catena,
addossati alle facciate delle case o sotto le entrature dei portoni chiusi con
la mano sul grilletto del fucile in posizione di far fuoco. Durante questi
intervalli che mi facevano passare attimi spasmodici mi spingevo sul
marciapiede e qualche volta dal marciapiede fino a mezzo alla strada,
adocchiando da una parte e dall’altra e ritornando di corsa in Valpetrosa, non
appena udivo i proiettili che infuriavano per l’aria o mi pareva di sentire
sulla faccia la ventata calda di una palla passata via come una saetta. A
sinistra, cioè verso la piazza del Duomo, mentre le scariche davano
l’idea della guerra civile, avveniva il saccheggio alle vetrine delle botteghe.
Erano pochi ladruncoli che le scoperchiavano con le mani o con una spranga di
ferro strappata o dischiodata da una delle imposte chiuse col lucchetto. Si
sentivano i crack del legname che si schiantava e il frastuono dei vetri
che frantumavano con le punte delle imposte o coi pugni nudi addirittura.
Nell’aria infuocata della guerra di strada perdevo di vista il ladro, e non
vedevo che l’eroe.
Tutta Milano scappava, si tappava in
casa, si nascondeva nei solai, nelle cantine o nelle stanze più lontane
e loro, gli inquilini degli abissi più profondi della vita sociale,
continuavano a esercitare la loro professione senza neppure darsi pensiero del
diavolerio militare. La paura degli altri era il loro coraggio. A pochi passi
di distanza si uccideva e loro si imbottivano di camicie, di mutande, di merletti,
di cianfrusaglie, di quello che capitava loro tra le mani. Ho veduto uno di
quei ragazzotti ritornare indietro a raccogliere uno degli ombrelli caduto
dalla vetrina dei fratelli Guarnaschelli, almeno se non ho scambiato una
bottega per l’altra, come se si fosse trattato di roba sua. Il ragazzotto lo
raccolse e senza affrettare il passo se lo trascinò dietro come uno a
zonzo, svoltando nella via che conduce in piazza di Sant’Alessandro. Era in lui
l’imperturbabilità di Gavroche, quando involava la giberna di cartucce
ai soldati per portare la munizione ai «camerati» sulla barricata.
A destra il pam! pam! degli spari si
era come allontanato. Pareva che i soldati facessero fuoco marciando verso il
Carrobbio. Anche la caduta dei coppi non era più così fracassosa
e tempestosa. Tendendo l’orecchio udivo che si era andata rallentando, come se
il fucile avesse diminuito il numero dei combattenti sui tetti. Qualche tegola
però si rompeva ancora sul selciato con rumore. Mi arrischiai a passare
dall’altra parte mettendomi colle spalle al pilastro dell’arco del palazzo
chiuso che porta il numero ventinove, con la faccia un po’ protesa per vedere
che cosa avvenisse dalla parte opposta. Ma c’era l’angolo di via della Palla
che impediva ai miei occhi di andare oltre. Passando di corsa ho potuto
convincermi che prima di arrivare al Carrobbio la battaglia a tegole e a palle
di piombo doveva essere stata disperata. Nel momento in cui sono passato non
c’era un’anima. Il silenzio e il vuoto riassumevano il terrore. Pareva che i
cittadini avessero consumato l’ultimo coppo prima di lasciarsi ammazzare. Tutto
il selciato era letteralmente coperto di tegole, di coppi infranti, di sassi,
di cocci, di polvere rossa. I soldati al di là del materiale di
combattimento erano in agguato sotto le porte o distesi lungo i muri, con gli
occhi ai tetti e il fucile in atto di far fuoco. Con un salto fui all’angolo di
via Palla, di fronte alla madonna che deve aver servito di bersaglio a qualche
alpino. Il proiettile a balistite l’ha colpita sotto il braccio,
bruciacchiandone l’orlo del foro. La balistite distrugge pure la religione o la
superstizione incastrata nelle muraglie delle case. Pam! È meglio che le
palle buchino i corpi delle madonne dipinte che delle madonne vive. Stavo cercando
se vi fosse per la tela qualche altra ferita, quando una voce bruca e brutale
mi diede la levata con degli imperativi che non ammettevano discussione. Non mi
volsi neanche indietro. Ho udito che dovevo andarmene o si sarebbe fatto fuoco.
In un balzo mi trovai in S. Maurilio. In fondo vedevo persone che correvano, ma
la parte verso il corso era completamente deserta.
Coi soldati in giro il pericolo
diventava sempre più grave.
In San Maurilio udivo distintamente che
il fuoco era ricominciato e continuava con maggiore insistenza. A ogni sparo o
a ogni scarica sentivo la risposta fragorosa che veniva lanciata dai tetti.
Erano tegole o mattoni che andavano a farsi in pezzi sulle muraglie o sulle
botteghe o sui marciapiedi. Mi giungeva l’eco di edifici in demolizione. Il
combattimento che mi disseppelliva il materiale storico che mi si era adagiato
nella testa leggendo i tumulti popolari di parecchie nazioni, mi attirava. Io
pensavo al modo di trovarmi vicino o di vederlo da qualche altura ed entrai al
numero uno, dove avevo veduto comparire alla spicciolata parecchi giovani.
È una porta lunga e stretta, divisa da un cancello di ferro che si
può sfasciare con una spallata. A sinistra, dietro il cancello, è
l’entrata laterale dell’osteria. Il cortile è angusto, sente di chiuso,
ha una pompa vicino alla latrina e due latrine a fianco dell’edificio che
paiono sospese alle muraglie.
La portinaia è al primo piano,
vicino alla prima scala. È una donna piuttosto alta, con la faccia
allungata. Era sull’uscio tutta spaventata. Non aveva mai visto salire e
discendere tante persone. Tremava a ogni interrogazione. Le domandai se sapeva
che cosa andava di sopra a fare la gente che avevo visto scomparire nel budello
buio di sotto, ma la povera donna rispondeva che non ne sapeva nulla. Era una
giornata di tribolazione che il Signore le aveva mandato per punirla di qualche
peccato. La curiosità di vedere o il desiderio di trovarmi un
osservatorio, mi fece infilare la seconda scala. Dopo pochi gradini mi fermai
terrorizzato. Intuii il dramma che si svolgeva o che si era svolto all’ultimo
piano. La ringhiera del ballatoio dell’ultimo piano comunicava con una vasta
terrazza, sulla quale i vicini salgono a distendere al sole la biancheria che
lavano dabbasso nel lavello della pompa. Con uno sforzo qualunque dalla
terrazza si può salire sul tetto alla portata delle mani, e dal tetto
bassissimo è facile saltare sul tetto più alto, correre da una
casa all’altra, riparandosi dietro i comignoli tutte le volte che ci fosse
bisogno di salvarsi dalle palle micidiali.
Io sentivo sulla mia testa una
moltitudine di piedi pesanti che faceva tremare l’edificio e delle voci confuse
che traducevano il subbuglio. Pareva che i corpi si urtassero l’un l’altro per
sostenere un peso enorme, un peso di piombo. Su, su, si diceva, sta su, per la
madonna! Ma pare che l’uomo che volevano che stesse in piedi, si lasciasse
andare su se stesso come morto. Venivano giù tutti assieme ingorgandosi
nelle stretture spingendosi per la scala e scambiandosi parole concitate, come
se avessero avuto paura di venire colti col documento sulle braccia di esser
stati sui tetti. Tanto più si avvicinavano al piano inferiore, quanto
più il rumore tumultuoso delle loro scarpe si attutiva e diventava
lugubre. Pareva la discesa di gente che andasse al patibolo. Io passavo e
riandavo attraverso tutte le sensazioni. Mi figuravo il combattimento per i
tetti, cogli insorti gattoni sulle tegole, che strisciavano fino alle grondaie,
fin dove è la vertigine e vedevo il materiale di guerra passare di mano
in mano, fino agli eroi al margine del precipizio, e vedevo gli eroi rotolare
dalla tettoia, con alte strida d’orrore che turbavano l’aria. Vedevo una scena
più spaventevole dell’altra. Vedevo i rappresentanti del coraggio
popolare che andavano giù al posto dei caduti e tutti gli altri che
riprendevano il movimento isocrono di passare da una fila all’altra le tegole
nel silenzio e nell’ansia fino a quando quelli al margine precipitavano come i
primi o giacevano supini, senza vita, sull’altura pensile, con l’ultimo coppo
nella mano che irrigidiva. La moltitudine discendeva, e la mia visione si
insanguinava e diventava spaventosa e il mio pensiero si attorcigliava come
sotto l’azione di un dolore intenso.
Quando mi furono vicini ero come
assiderato dallo strazio. Guardavo istupidito e lasciavo passare il gruppo che
sorreggeva il giovine che incadaveriva ad ogni gradino, che moriva con la
faccia bianca. come la farina, con gli occhi smorti che si travolgevano, con le
guance che assumevano la durezza del marmo, con le labbra che si scoloravano e
diventavano violacee, e si aprivano per lasciar passare l’alito della vita.
Il su! su! dei compagni, che non
volevano che morisse sulle loro braccia, che avevano bisogno di portarlo
altrove, perché nessuno voleva sul piano un uomo che potesse diventare la
sventura di tutti, mi scosse, mi ridette i sensi.
Molti di loro che aveva intorno avevano
la camicia fatta a ventriera piena di sassi. Erano saliti e discesi coi
proiettili della strada che non avevano potuto consumare. I soldati di Bava
Beccaris erano andati sui tetti delle case dall’altra parte della via e a colpi
di balistite li avevano fatti scappare, prima di dar loro tempo di accendersi
con un lanciamento senza tregua e resistere fino alla morte.
Io mi misi alle loro calcagna e discesi
con loro e dietro loro subivo tutta la loro disperazione di non essere
già lontano un miglio. Il terrore di incontrarsi faccia a faccia con
delegati o questurini in borghese, o soldati alla ricerca di rivoltosi,
rianimava le loro gambe stracche, e le voci incitavano il ferito al ventre a
stare in piedi, a camminare, a correre, a nascondersi.
- Su, su! che siamo vicini!
Io li vedo ancora sbucare nella via, rossi come se fossero usciti
da un forno e sbandarsi in un fiato a rotta di collo. Solo i due compagni, con
le ascelle del ferito sulle braccia hanno dovuto continuare la parte dell’eroe,
andando via adagio adagio col moribondo, scuotendolo, facendolo sussultare e
traballare e dicendogli di stare in piedi se non voleva essere arrestato.
Andavano via come tre amici, braccio sotto braccio, e io tenevo loro dietro con
gli occhi ai piedi che descrivevano nel mezzo della strada gli orrori di una
vita che si spengeva.
I piedi che si lasciavano tirar dietro,
scappucciavano, si contorcevano, voltavano la suola dalla parte opposta,
urtavano contro i sassi, sfioravano il suolo, piegavano, puntavano le punte nei
solchi dell’acciottolato come piedi morti.
Io sono rincasato vecchio di cento
anni.
Ho veduto i cadaveri buttati sulle
spiagge dei mari a dozzina, ho veduto morire gente sui campi di battaglia, ma
non ho mai subito il terrore che mi ha fatto subire un uomo calato da un tetto
e sorretto dai combattenti e fatto andare per le strade come un fusto di carne
morta.
Il cadavere che cammina e piega su se
stesso con la testa che va da una parte all’altra, toglie il respiro. Si
allibisce come in mezzo ai fantasmi dell’incubo notturno.
Il pomeriggio della seconda giornata
del maggio novantotto, è stato per tutti una sorpresa. Coi serra serra
del giorno prima, durante i quali sono caduti morti un questurino e un operaio,
c’era in giro qualche apprensione, ma nessun Mathieu de la Drôme avrebbe preveduto che due
Verso l’imbrunire le notizie erano
sempre allo stato confusionario, ma i cittadini prudenti rincasavano in fretta
e in furia, sbalorditi e disperati. Nessuno o pochi sapevano quello che era
avvenuto dalle due a sera, ma tutti sentivano che c’era stato qualche cosa di
grave, di sanguinoso, di furioso, che bisognava salvarsi o caricare il fucile
per difendersi. Io ero violento contro me stesso. Avevo veduto, avevo negli
occhi i morti e i feriti, negli orecchi gli spari e i rantoli ed ero per la
strada pallido di collera a fare nodi alla cordicella che avevo tra le dita per
contenermi. Tutti i nostri uomini pubblici, tutti i nostri grandi, tutti i
nostri deputati, tutti i nostri consiglieri, tutti i nostri giornalisti, tutti
i nostri personaggi, sono rimasti assenti, non si sono fatti vivi, hanno
ignorato che nella via i soldati ammazzavano il popolo disarmato, il popolo che
non sapeva nulla. Quanta viltà! I nostri uomini politici non sono eroi
che ai banchetti. Lamartine nel ‘48 e Victor Hugo nel ‘51 non hanno insegnato
loro niente. L’uno e l’altro, illustri, hanno osato passare tra selve di
baionette, quando le baionette facevano strage; l’uno e l’altro sono rimasti
imperturbabili sotto la grandine di piombo; l’uno e l’altro hanno saputo
apostrofare la truppa che non fraternizzava col popolo. I deputati del ‘51
hanno fatto le barricate. Baudin vi è rimasto. I nostri non hanno
neanche l’età senile che li scusi davanti
Il padrone di casa era ansioso. Le
pattuglie erano in giro. La portinaia era sottosopra. Ci si è
raccomandato di andarcene alla spicciolata come vi eravamo venuti. In pochi
minuti fummo tutti dispersi. Io ero con tre o quattro alla distanza di dieci o
dodici passi l’uno dall’altro. Alcuni minuti di ritardo e saremmo stati tutti
in gabbia. Il delegato, o l’ispettore che fosse, con una frotta di questurini
in borghese, era avviato al domicilio del medico, o in quella direzione. Ci
disperdemmo vicino al Baj. Durante la notte molti dei convenuti si sono dati
alla fuga, alcuni sono stati arrestati, parecchi sono stati ghermiti più
tardi e non pochi sono rimasti ignoti.
La riunione è stata sospettata o
scoperta quando eravamo tutti al largo, compreso il padrone dell’appartamento
che ci aveva ospitati, il quale era già in viaggio per la via di Lugano.
La portinaia fortunatamente ha fatto la stupida per progetto o non ha potuto
compromettere alcuno, perché quella gente non era mai passata dalla sua
portineria. Ella non ha saputo dire alla polizia se non che erano salite molte
persone dal dottore e che fra le molte persone era una signora coperta da un
fittissimo velo. La si è cercata per tutta Milano. Con essa si sarebbe
messo assieme il complotto, la congiura, la cospirazione, il proposito di
insorgere. Ma la signora è rimasta sconosciuta e i tribunali militari,
dopo che la portinaia non ha saputo riconoscere nella signora Kuliscioff la
signora velata, hanno dovuto abbandonare il clou del processo dei
giornalisti
Ho taciuto tutti i nomi perché non sono
autorizzato a pubblicarli. Così taccio anche quello della signora,
dicendo solo che la donna velata non era proprio
Domenica, 8 maggio ‘98. Sono venuto a
casa spaventato. Nel pomeriggio d’oggi, il ponte dello Scalo Merci, si era
affollato di persone che volevano vedere cosa facesse l’ufficiale col cannone e
coi soldati al dazio di Porta Garibaldi. Si era lì tutti a
chiacchierare, quando vedemmo come un movimento intorno alla bocca da fuoco che
mette paura. Non eravamo ancora usciti dalla sorpresa, che udimmo l’esplosione
di un colpo a salve. La moltitudine, quantunque non potesse essere udita,
scoppiò nelle grida indignate, e non pochi tesero le braccia come per minacciarlo..
L’artigliere era al lavoro e noi
credevamo che stesse preparando un’altra scarica a salve. Passarono cinque
minuti di ansie terribili. Malgrado l’illusione in tutti noi, che non si
sarebbe osato scaricare della mitraglia, eravamo tutti silenziosi. Il secondo
colpo sollevò una nube che ci tolse dalla vista soldati, cannone e
ufficiale.
Prima o durante il rumoreggiamento, un
uomo attraversava la piazza dello Scalo Merci con la propria figlia di nove
anni. I particolari li ho saputi quando siamo accorsi ad aiutarlo. La ragazzina
è stata colpita alla fronte. Il padre non ebbe che un grido di dolore.
Si precipitò su lei per sollevarla. Ma una volta che se l’ebbe tra le
braccia, l’uomo svenne. Piegò sulle gambe e andò a sbattere la
fronte sul selciato. Lo aiutammo ad alzarsi. Qualcuno raccolse la morticina e
non pochi seguirono il padre, il quale ha continuato a piangere fino
all’abitazione.
Non ci eravamo accorti che al tempo
stesso uno stalliere, il quale aveva appena finito di dare da mangiare e da
bere alle bestie e divorarsi la solita scodella di minestra, avviato
all’osteria in faccia a berne un quinto, aveva subito la stessa sorte. Non
aveva fatto che tre o quattro passi che precipitava a terra con il ventre
squarciato dalla mitraglia.
Più innanzi trovammo un giovane
tedesco, del quale non ho saputo scrivere il nome, colpito al cuore da un
proiettile, mentre era uscito di casa a comperarsi un sigaro.
Tutto sommato, la seconda cannonata ha
lasciato in terra tre cadaveri.
Nove maggio. Sono a zonzo, come gli
altri giorni, col lapis e il libro delle note in saccoccia. Mi darei dei pugni.
Ho dimenticato a casa il kodak, che mi avrebbe aiutato a raccogliere le scene
della strada. La giornata è splendida, ma il sole non riesce a far
rifiorire le guance della popolazione terrorizzata. La gente è smorta,
biancastra, inquieta. Ciascuno va via per la sua strada, senza voltarsi
indietro, senza salutare gli amici. È come se uno sospettasse
dell’altro. In ogni persona che passa si fiuta un insorto o un delatore. Le
muraglie sono impiastrate di avvisi di tutte le dimensioni. È Bava
Beccaris che ingiunge alle masse i suoi ordini, senza punto far sussultare i
nervi della popolazione. C’è qualcuno che mormora. Ma gli altri che
leggono gli cacciano gli occhi negli occhi come se volessero divorarlo. Nella
fraseologia del generale, c’è sempre del padrone che parla al servo e
dell’imbecille che dalla scuola militare non ha portato via che la
brutalità del mestiere. Egli invita i cittadini a versare le armi
da fuoco, come se i fucili, gli spadoni e i fioretti fossero sacchi di noci o
bottiglie di liquori, o fiaschi di vino!
Durante le sommosse popolari
l’aristocrazia e la borghesia inglesi vanno direttamente alla sezione di
polizia a prestare giuramento e a cingersi i fianchi del conciapopolo, il quale
è un randello corto che spacca la testa del rivoltoso al primo colpo. I policemen
non sono per le vie e per gli squares dei tumulti soli, abbandonati
al disprezzo della folla che mugge contro i nemici dei suoi diritti. Escono
dalle caserme con le upper classes, con dei pari, degli ammiragli, dei
generali, dei deputati, degli avvocati, dei medici, dei banchieri e col resto
dei cani grossi della terrocrazia e della plutocrazia. Le upper classes della
paneropoli, si contentano invece di lasciare il loro biglietto di visita alla
residenza del generale Bava Beccaris, il quale è, come tutti sanno, nel
palazzo del comando militare in via Brera, 15. Un biglietto di visita costa
poco e sopprime la noia di un probabile conflitto con le moltitudini.
Leggo la Perseveranza - il
quotidiano della consorteria milanese, che incomincia questa mane la vitaccia a
cinque centesimi. In questo giorno è un giornale che sbalordisce. Non
è più il leone sdentato e invecchiato nella gabbia del serraglio.
È un leone in piedi che rugge squassando la giubba e guarda la «plebe»
con la minaccia negli occhi torvi. Dal primo giorno dei tumulti, la Perseveranza
ha buttato via ogni solidarietà professionale. È divenuto un
foglio fratricida. Si presenta ogni mattina al pubblico, con le mani
gocciolanti del sangue dei colleghi che ha sgozzato nella notte. Le sue colonne
sono piene di delazioni. Essa incita gli agenti a piombare sui difensori della
libertà di stampa.
La maggioranza dei giornalisti milanesi
è composta di forcaioli. Non pensa che col ventre. Manderebbe al
patibolo tutti noi che abbiamo l’audacia di prendere i ventraioli della penna
di redazione a pedate. I vostri nomi sono registrati nel mio diario.
In questo momento di disgusto mi
ricordo con compiacenza della Parigi giornalistica delle giornate di luglio,
dei giornalisti del ‘30, i quali rimasero uniti a difendere i diritti della
libertà di scrivere contro le ordinanze reali che volevano distruggerla.
Piuttosto che subire il bavaglio, hanno preferito lasciare la penna in
redazione e discendere nelle vie a combattere sulle barricate fino a monarchia
finita. I soldati fraternizzarono coi «rivoltosi» per il rispetto alla Carta, e
Carlo X dovette scappare dal «cervello del mondo» di notte, come un ladro.
Piazza San Fedele è popolata. Ci
sono qua e là dei capannelli che chiacchierano. I gradini del teatro
Manzoni e della chiesa in faccia sono gremiti di spettatori. Intorno al
monumento discutono parecchi signori dal solino lucido e dalle mani inguantate.
Approvano l’energia del generale e dicono che Milano finalmente ha trovato la
mano di ferro che le mancava. Ma aggiungono che avrebbe dovuto risparmiare
Turati «perché non è mica uno scalmanato che vada in piazza con una
palata di parole roventi a rimescolare il fondaccio delle passioni volgari
della plebaglia. Egli è un intellettuale con idee che non sono le
nostre, ma che si possono discutere».
Si aspetta la solita processione degli
arrestati del giorno prima. È uno spettacolo desolante questo di
assistere alla sfilata di sessanta o ottanta individui, legati a due a due,
circondati dalla cavalleria, dai carabinieri e dagli agenti di pubblica
sicurezza, con la bocca della rivoltella che li guarda in bocca. Il pensiero
che la distrazione possa farne scattare qualcuna, mi fa sentire il tormento
degli aghi nella pelle. Perché fate loro attraversare mezza Milano a piedi, a
rischio di trovare qualche esaltato che gridi viva o abbasso qualche nome? Per
procombere su loro ed ammazzarli? Mi sento male a pensarci. No, oggi non voglio
vederla. Mi bastano quelle di ieri e dell’altro ieri.
Filo per Santa Radegonda e mi fermo
rasente il Duomo, cogli occhi verso la piazza. È occupata militarmente e
i soldati hanno l’aria di poveracci che non hanno riposato nel proprio letto.
Coloro che tentano di flanellare lungo i cordoni militari, vengono mandati al
diavolo con la voce rude che sente del momento.
Domando il permesso all’ufficiale
vicino ai magazzini del Bocconi di attraversare la Galleria per salire all’associazione
della stampa. Gli presento la tessera sulla quale è incollata la mia
fotografia. Non si può. Non è permesso. Gli ordini militari non
si discutono, e volto indietro per il corso Vittorio Emanuele. Non sono ancora
vicino al ristorante dell’Orologio, che la gente si mette a scappare in tutte
le direzioni e i negozi semichiusi si chiudono precipitosamente, come se un
esercito di pitocchi stesse per irrompere a dare il sacco alle botteghe. Il
fuggi fuggi fa andare gli uni addosso agli altri e il panico corre per il corso
a mettere tutti sossopra. Si chiudono le porte, si chiudono le finestre e si
lasciano i pedoni senza un rifugio per salvarsi dai pericoli della strada.
Qualche signora che non sa allungare il passo o decidersi a raccogliere le vesti
ed imitare le altre, si spaventa, scolorisce e pronuncia parole che racchiudono
la sua desolazione di essersi lasciata sorprendere dalla sciagura cittadina.
Si senton le ruote dei carri pesanti
che sussultano lungo l’acciottolato e le zampe dei cavalli enormi che
sdrucciolano di tanto in tanto sulle pietre dei ruotabili. Sono due cannoni di
grosso calibro accompagnati dai carri con gli attrezzi e con
Il corso è quasi deserto.
Passano tre lancieri, l’uno dietro l’altro, a pancia a terra e scompaiono per
Svoltano a destra sul naviglio. Io
torno indietro e imbocco, come i lancieri,
Arrivo proprio in tempo a vedere un
reggimento o parte di un reggimento di fanteria che va verso il dazio
spacchettando le cartucce nella giberna. Sembrano soldati che vengano da
lontano. Sono impolverati fino ai capelli e taluni piegano sotto il peso dello
zaino e del fucile. A due passi dalla Prefettura c’è il via vai della
giornata di perturbazione cittadina. Via Monforte non subisce la paura degli
abitanti delle altre vie. Vicino al rappresentante del governo la gente si
sente più sicura. I balconi sono pigiati di signori e di signore che
applaudono entusiasticamente ai soldati che passano. Da una parte e dall’altra,
si vedono i fazzoletti candidi che agitano l’aria e le manine che si aprono come
se lasciassero cadere dei fiori. I soldati tirano innanzi senza guardare in
alto. Solo gli ufficiali danno segno di compiacimento.
Si parla di studenti venuti da Pavia a ingrossare il numero dei
rivoltosi, nascosti nelle cascine di Acquabella e accampati nelle vicinanze. Se
ne discorre e si allibisce, affrettando il passo. Alcuni squilli di tromba mi
fanno ritornare presso il ponte di San Damiano. Mi pare di essere bloccato al
centro delle operazioni militari. Continuano gli squilli. È un generale
con degli altri ufficiali a cavallo, seguito dai trombettieri e parecchi
lancieri. Alcuni mi dicono che sia il generale Bava Beccaris in persona. Ma i
più lo credono Ponza di San Martino. Può darsi che sia invece né
l’uno né l’altro. Il generale e gli ufficiali entrano in via Monforte colle
spade sguainate e ciascuno di loro grida dappertutto: «Chiudete le finestre o
faccio tirare!». I cavalli caracollano, s’impennano, nitriscono e tentano di
prendere la mano ai cavalieri.
La gente, colle mani calde del
battimani fragoroso che aveva salutato la truppa, scompare chiudendo le
imposte. I passanti vengono respinti verso il ponte. Gli imbocchi delle vie
trasversali si chiudono con mucchi di soldati. Si prepara qualche cosa di
grosso. L’entrata al ponte ha una siepe di monturati che impedisce il
passaggio. Si allineano i soldati anche davanti il portone della prefettura. Al
limitare c’è ressa. Vedo gruppi di persone che si sciolgono e si rifanno
o si perdono dietro le colonne.
Qui al cordone di San Damiano
c’è voluto del fiato per indurre i soldati a lasciar passare i fattorini
con manate di telegrammi.
Sono le undici e mezzo. Incominciano le
fucilate di Porta Monforte. Si sentono colpi a intervalli. Dal mio posto vedo
una nube di polvere bianca verso il dazio e dei cavalli che sbucano e ritornano
nella nuvolaglia qualche volta illuminata dalle esplosioni.
Dei signori che stanno in via del
Conservatorio vogliono assolutamente passare. Le famiglie, sapendoli per le
strade, devono essere inquiete.
- Signor ufficiale, ci faccia passare o
accompagnare. Ecco il nostro biglietto di visita.
- Mi duole, ma ho ordini severi: non si
passa.
Il fuoco fuori di Porta Monforte
diventa accelerato. Pam, pam, pam! Pam, pam, pam,
pam!
La commozione diventa generale.
Tuona il cannone.
Indietro! Indietro!
Con le cannonate che imperversano per
l’aria, ho tempo di fare delle considerazioni giornalistiche!
È un mio debole di sostenere i
diritti della penna pubblica, dovunque si tenta metterli in dubbio o
sopprimerli. Le autorità militari vedono nel reporter un intruso o un
nemico. Lo respingono dappertutto come un rognoso.
Questi signori non hanno ancora capito
ch’egli è lo strumento più utile dei popoli che non hanno
vergogna di far sapere al mondo come si svolga la vita nazionale.
Il reporter è il raccoglitore
degli avvenimenti che si compiono sotto i suoi occhi. È impersonale.
Voi fate bene, e il fatto, ch’egli
serve caldo al pubblico, vi copre di elogi e vi circonda di ammirazione.
Voi fate male, e la gente col documento
che egli ha diffuso, vi critica, vi biasima e magari vi stramaledice, come
perturbatori della quiete pubblica o come autori di sventure cittadine.
Carlo Houard Russel, il reporter della
guerra in Crimea, ha fatto piangere il Regno Unito, con le rivelazioni ch’egli
metteva assieme sulle alture di Alma, di Balaclava e davanti a Sebastopoli,
vivendo in mezzo ai soldati, chiacchierando cogli ufficiali, conversando coi
superiori che sapevano di strategia, e passando delle ore coi medici e col
personale addetto alle ambulanze.
Senza di lui, migliaia di soldati di
più si conterebbero tra le vittime del colera, della fame e delle bocche
da fuoco. Senza di lui, lord Ragan sarebbe passato alla storia assai più
che come il mutilato di Waterloo, come l’eroe degli eserciti alleati che hanno
combattuto per la conquista di Sabastopoli - il grande arsenale russo del mar
Nero. Invece le lettere di Russel lo hanno fatto nicchiare tra i generali
confusionarii, che perdono la testa come Bazaine, pur essendo circondati da un
materiale di guerra che basterebbe a condurli alla vittoria.
È un supplizio crudele quello di
stare qui, al margine del teatro di guerra, con le orecchie rintronate da un
fuoco incessante di fucileria, a straziarvi col pensiero che a pochi passi dai
vostri piedi si combatte disperatamente, senza poter rompere il cordone
militare! Farei in due la mia tessera giornalistica! Ma dunque, o colleghi,
avete o non avete conquistato il diritto professionale di passare dovunque?
Corro, corro lungo il naviglio verso
porta Vittoria, con l’idea di voltare in via Stella e riuscire a percorrere fin
sotto i casini daziarii di Porta Monforte. Non incontro che una ragazza e una
bimba che chiamano tutti i nomi del vicinato senza commuovere alcuno.
- Luigia, Giovanna, Marta, aprite, fate
presto, per amor di Dio!
L’egoismo li ha resi tutti sordi. Loro
sono in casa, rannicchiati come tanti conigli, e chi è fuori, crepi!
Col battaglio del portone metto a
rumore il casone.
- Aprite, in nome della legge!
Si apre, e io continuo il mio
itinerario. Avvicinandomi all’estremità del naviglio, le fucilate si
fanno sentire una dopo l’altra, come se i soldati fossero dietro qualche riparo
a far fuoco contro i passanti rimasti per la strada.
Sull’angolo di via Francesco Sforza,
è un gruppo di gente, addossato alla bottega della farmacia chiusa, che
non sa più da che parte avviarsi.
Sul ponte Vittoria le palle passano
fischiando e, al dorso, dove incomincia il corso Vittoria, è la
cavalleria che scorrazza inseguendo chiunque col revolver alla mano e il grido:
indietro, indietro!
Una vecchia del gruppo continua a farsi
il segno della croce.
Giunge, trafelata, vicino alla
farmacia, una lavandaia, che abita in via della Cerva, cioè giù
dal ponte, a destra del Verziere. Vuole assolutamente rincasare.
Ha dei figli e le preme di sapere dove
siano i suoi figli.
- Fanno fuoco, badate, Teresa,
ritornate indietro!
Ella, la grandigliona non ha paura.
Protetta dal grembiule, che si è tirato sulla testa, prende la rincorsa
e scompare, seguita dai pam! pam! che vengono dalla via Stella.
- Gesumaria! gridano le donne
dall’altra parte.
Dal naviglio di San Damiano, arrivano
al mio posto due donne esterrefatte che abitano nel corso Lodi, fuori di Porta
Romana. Sono inquiete per le loro famiglie, e anche loro, come la lavandaia,
vogliono passare attraverso i pericoli, a costo di perdere
- Pam, pam,
pam!
Passate incolumi, le persone addossate
alla farmacia si convincono che i soldati tirano in aria.
- Andiamo, andiamo, che fanno per
spaventarci!
E il gruppo si scioglie e sbuca sul ponte, come una filata di
fannulloni, che vanno per il sole a scaldarsi. Una scarica di fucili li
scompiglia. Scappano in tutte le direzione. È un fuggi fuggi, un si
salvi chi può. Una ragazza precipita a terra dallo spavento e completa
la scena del terrore. Un operaio, che la vede in pericolo, ritorna indietro,
gettandosi sulle mani per evitare le pallottole. Raccoglie la fanciulla sul
fianco e se la trascina giù dal ponte, rasentando la muraglia.
Io mi rifugio nell’osteria di
fianco. Vi si entra discendendo due gradini. Ha l’aria d’una taverna dei vecchi
romanzieri. È tetra, si sente il soffitto sulla testa, e ha i tavoli
popolati di facce che paiono ditte di gente istupidite votando i bicchieri.
Sono invece persone che si sono salvate scappando «per lasciare passare la
tempesta». Nessuno ha voglia di parlare. Ogni fucilata si ripercuote sul loro
sistema nervoso come una bastonata. Entra l’avvocato Crosti della Lombardia,
Ha l’aria di un uomo che ha buttato via più di una notte. I tumulti
non gli hanno dato tregua. Ci salutiamo con un semplice ciao. Ci mettiamo
sul tavolo sotto un finestrone a inferriata che guarda in via Stella.
Assistiamo per alcuni minuti al va e vieni di corsa degli uomini e delle donne
in cerca di rifugio. Le fucilate continuano alla spicciolata, rimbombano spesso
sulle pareti come schiaffi.
Incalzato dalla mia idea di voler
assistere al combattimento tra la truppa e gli insorti, rifaccio il naviglio e
non svolto che in via della Passione. L’arteria è deserta. Le imposte
sono chiuse ermeticamente. Non trovo che un pitocco sdraiato sulla pietra
di una cavità sulla facciata di un edificio. Giungo dinanzi alla chiesa
della Passione. Un caporale e due soldati sono distesi lungo
l’imboccatura di via Vincenzo Bellini. Al di là è il bastione
sotto il quale è lo stabilimento Ricordi. Mi si ingiunge di andarmene.
Per il cielo è una gazzarra di spari. Filo per
A metà via, entra da via Stella
un signore bassotto, abbottonato nello stifelius, con la faccia spaventata, che
mi interrompe il cammino con un imperativo brutale.
- Indietro! Indietro! ..
- Chi siete?
- Ve lo faccio sapere subito chi sono.
Soldati, fuoco!
Discutere coi signori che vi possono
scaricare mezzo chilogrammo di polvere nello stomaco, è da insensati.
Non mi faccio ripetere la ingiunzione, e mogio mogio riprendo la via fatta. Mi
pare di non avere più sangue nelle vene. A ogni passo mi aspetto di
precipitare fulminato dai proiettili.
Sono perduto. Mi trovo in mezzo ad una
rete di sentinelle. Da tutte le parti si grida: Indietro! Indietro! Due
cavalleggeri irrompono dalla via Monforte, con le lance piegate e m’inseguono
spronando i cavalli.
- Via! via! Indietro! Indietro!
I proiettili saltellano freneticamente
per le tegole dei tetti. Riesco in via ..della Passione
più morto che vivo. Il cencioso continua a dormire.
Rieccomi di nuovo sul ponte di San Damiano. Al palazzo della
prefettura c’è un andirivieni che traduce il tumulto intorno allo stato
maggiore in margine al campo di battaglia. Il fuoco continua. Ci sono persone
che si staccano e vengono alla nostra volta. Tra loro sono il signor Elia
Fumagalli, un ricco industriale, almeno così mi si dice, e l’ingegnere
Macchi, un proprietario di case al Foro Bonaparte e un uomo assolutamente
d’ordine.
Tutti questi signori sono stati trattenuti nel casino daziario,
ov’è il comandante, per più d’un’ora. Il loro racconto è
sommario, ma rivela una pagina dei tumulti che stanno scrivendo le bocche del
cannoni e dei fucili.
Il signor Fumagalli dice che passava
dalla via Guicciardini - la prima a destra del corso Concordia, fuori Porta
Monforte in una vettura aperta, col procuratore Enrico Pirolli. Essi vennero
fatti discendere tra le undici e le undici e un quarto, e condotti al dazio,
ove trovarono l’ingegnere Macchi, arrestato un po’ prima di loro.
Mentre erano nel casino daziario, il
comandante era tutto in faccende a dare le disposizioni dell’attacco imminente.
L’ingegnere Macchi, il quale non sembra mica uno scervellato, fece
coraggiosamente delle osservazioni; come per convincere l’ufficiale superiore
che i rivoltosi, se c’erano, dovevano essere altrove. Lui, personalmente, non
ne aveva veduto uno. Le osservazioni dell’ingegnere erano fatte tra un
complimento e una scusa perché il momento scottava e perché il comandante, che
aveva la sua cavalleria che batteva la campagna, poteva essere in grado di
saperne più di un borghese.
Fu così che parecchi di questi
signori assistettero alle fucilate fatte contro le persiane di alcune finestre
del palazzo a sinistra, quasi di faccia al casino daziario, che lambisce il
bastione di Porta Venezia. L’ingegnere Macchi aveva fatto di tutto per
assicurare i signori ufficiali che le loro informazioni non potevano essere
esatte, perché in quel casone signorile abitavano buonissime famiglie, ch’egli
conosceva personalmente. E, dicendolo, dava la sua parola d’onore, che non
erano famiglie che si occupassero di dimostrazioni. Aggiungeva anche che dietro
le persiane agitate, contro le quali si voleva far fuoco, era l’abitazione di
un ottimo padre di famiglia, che sedeva tutti i giorni nel seggiolone di
giudice di tribunale. Ma il tenente incaricato di ordinare il fuoco non volle
sentire ragioni. Era nella testa delle autorità daziarie, della
sicurezza pubblica e militare, che dalle finestre del giudice di tribunale
erano usciti dei colpi di revolver e di fucile.
Non potendo reggere allo strazio di
vedere la truppa che tirava contro le finestre degli amici, l’ingegnere Macchi
prese per un braccio il signor Fumagalli, e tutti e due rientrarono nel casino
daziario ad aspettare che il comandante si persuadesse della loro innocenza.
Intanto che erano chiusi nell’anticamera dell’ufficio, gli squilli di tromba e
le cannonate li facevano impallidire.
I due cannoni che vomitavano la
mitraglia micidiale erano appostati colla bocca verso corso Concordia. Il
secondo, a pochi passi dal marciapiede sinistro del piazzale Monforte, tirava
sul convento dei Cappuccini. Dopo i due squilli, udirono quattro cannonate: la
prima fece sussultare i vetri del casino dove erano, e l’ultima diede a tutto
l’edificio uno scotimento, che fece traballare il suolo sotto i loro piedi.
Intanto che i proiettili imperversavano
per l’aria, nel casino daziario si diceva che gli studenti di Pavia avevano
fatto le fucilate con la truppa schierata lungo i cancelli di Porta Venezia. Si
parlava di un fuoco disperato. Inseguiti, si sarebbero nascosti nel convento e
nella chiesa dei frati, da dove vennero sloggiati dalla mitraglia. Poi si
sarebbero dispersi per le cascine di Acquabella, lasciando a torno gli
avamposti in bicicletta.
Cessato il fuoco, l’incaricato militare
annunciò a tutti che erano liberi di andarsene «perché di loro non aveva
dubbio alcuno». Saputo che erano persone per bene, il comandante li fece
scortare fin dove cessava il pericolo. Lieti di poter correre a casa a
tranquillizzare le famiglie, i signori vollero manifestare la loro gratitudine
ai soldati con un beveraggio. L’ingegnere Macchi fu il primo ad iniziare il
movimento con un biglietto da cinque o da dieci. Gli altri lo imitarono con dei
biglietti da una o da due lire. Il soldato che aveva ricevuto il denaro,
senza protestare, diede l’esempio che i soldati non si lasciano pagare, per
nessun servigio.
Non appena al primo cordone, li
denunciò in massa all’ufficiale di picchetto, come tanti corruttori. Ci
volle del bello e del buono per farlo placare e fargli capire che loro, non
potendo offrire alla scorta né bibite né bevande, avevano voluto contribuire
con qualche cosa, perché se le comprassero.
Spiegato l’equivoco, il tenente li
lasciò passare.
Il convento, destinato a signoreggiare
gli avvenimenti della quarta giornata, non è «quasi nascosto tra gli
alti fabbricati» ,, come vorrebbe uno
sciocco redattore della Lega Lombarda, che riempie le colonne della
«Milano durante i tumulti» di inesattezze delittuose e di sentimenti
anti-cristiani. È un edificio che in piazza Monforte nessuno può
evitare di vedere. Ha il fianco destro completamente libero, che margina il
principio di corso Concordia e la fronte che corre lungo il viale, che porta il
nome del centro ov’è accampata la truppa.
La parte della cinta del cortile,
dimezzata dal cancello di ferro, è sul rialzo dei pedoni, sotto il quale
è il binario del tram. Il viale è largo e a due binari, e il
convento ha di faccia il casone della farmacia, che incomincia il viale
interrotto dal piazzale, sul rialzo dei pedoni, dalla parte opposta.
L’interno del cortile può essere
descritto da un ragazzo. Dinanzi il cancello è la chiesuola del Sacro
Cuore con il suo pronao rustico, sotto cui seggono tutti i giorni i poveri che
mangiano la minestra distribuita dai frati. A destra è la muraglia
addosso alla quale i pitocchi si appoggiano o si distendono a mezzodì,
col cucchiaio di legno nella mano sul ventre che borbotta. Nell’angolo è
l’entrata al convento propriamente detto. Tra il limitare e la postierla
è un andito piuttosto buio con lo sportello a sinistra, dal quale sbuca
la testa simpatica del frate Melitone che scodella la minestra e aggiunge, per
i più affamati, fette di polenta
Il coronaio è un uomo alto e
brutto. Ha il naso grosso e gualcito degli ubriaconi. Al momento dell’invasione
militare, egli era in casa con le convulsioni. Le palle percotevano
fragorosamente le sue gelosie e il suo uscio d’entrata. Di sopra, sua sorella,
gravemente ammalata, piangeva dirottamente dalla paura. Calci del fucile gli
fecero aprire.
- In ginocchio! - gli gridò
l’ufficiale piantandogli in faccia la bocca della rivoltella.
E il povero coronaio, con la pelle
lividastra, si lasciò andare sulle ginocchia colle mani giunte.
- Dove sono i rivoltosi?
- Non lo so, signor tenente.
E il tenente lo fece arrestare.
Il capo dei mendicanti è il
Cerina, un tipo che io ho dovuto studiare più di una volta nella mia Milano
sconosciuta
La sua predilezione per i frati del
convento del viale Monforte è spiegabilissima. In mezzo alla
pitoccaglia, egli è ancora qualche cosa. A ..
Il portinaio è frate Daniele. Un
uomo alto e ossuto, con gli occhiacci della gente che porta nel petto il male
crudele che manda sollecitamente all’altro mondo. È stato parecchi anni
al Chilì, ove prese una febbriciattola che lo tormenta ancora. Il suo
italiano ha molto del bergamasco. È di una intelligenza più che
comune. Non posso mettere in dubbio la sua vocazione religiosa, perché indossa
la tonaca da una filata d’anni. Ma non sono sicuro ch’egli sia capace di capire
quello che legge, se pure legge. Coi poverelli è di una bontà
femminile. Fino a caldaia vuota non nega mai una scodellata di minestra a chi
gli riporge la ciotola per saziarsi.
I mangiatori di minestra appartengono
ai due sessi. Le donne sono malvestite, stracciate, piene di pezze, coi piedi
negli zoccoli che piegano sui sassi. La loro faccia riassume un secolo di
patimenti. Talune entrano dinoccolate, coi bimbi sulle braccia, che paiono
sacchetti di carne morta, o coi piccini a mano, che strascinano dietro come il
bastone gli sfaccendati. I bimbi, abituati ai pasti irregolari e a tutte le
sofferenze degli adulti, hanno perso il vezzo di piangere. Sono piccini,
stracchi, stremati, spolpati, anemici, biancastri, che fanno andar via la
voglia di vederli. Sono sporchi, puzzolenti con la mucidaglia assecchita sotto
i nasucci pavonazzi, con gli occhi incatramati di secrezioni, con le manine
vischiose, coi pannolini a sbrendoli, che penzolano pieni di cacherie.
Le madri non sono vecchie. Sembrano
donne state sorprese sullo stradone dalla bufera, che ha loro portato via la
fioritura dalle guance. Non hanno più nulla. Sono volti scarni, mammelle
vuote, fianchi sfiancati. Il loro occhio smarrito traduce la fame.
Gli straccioni sono vecchi e giovani.
C’è chi ha il piede nella fossa e chi lo ha appena alla soglia della
vita. Indossano abiti frustati da tre o quattro generazioni. Giacchettoni scuciti,
chiazzati di untume, coi baveri impegolati dal sudiciume delle zazzere.
Cappelli stinti, sforacchiati, con la tesa staccata giù per la nuca o
per l’orecchio. Calzoni consumati, che perdono il sedere, che mostrano le
ginocchia, che lasciano vedere i malleoli impaltati. Qualcuno sembra un
viandante che abbia sospeso il cammino per ristorarsi lo stomaco. Porta appeso
alla schiena il parapioggia di cotone mezzo marcio, colle bacchette che
scappano fuori da tutte le parti, e qualche altro scalcagnato tiene sotto il
braccio il fagotto dei propri cenci.
A scarpe stanno tutti male. Sono
sfondate, slabbrate, piene di buchi e di cicatrici. I loro padroni vanno via
lemme lemme, come se avessero i piedi piagati o le dita suggellate di calli
scellerati.
Passata la postierla vi trovate sotto i
portici che inquadrano il primo giardino. La floricoltura non deve essere
spasso dei frati scalzi, perché non si vedono che alberelle morenti o tisiche,
o campanule rosse come nei prati. Lungo il portico, a sinistra, è
l’entrata dei cappuccini nella chiesa. Al di là è un altro
«giardino», incorniciato da portici identici a quelli del primo. È un
po’ più rifiorito dell’altro ed è riservato ai soli «padri» e
agli «studenti». Sotto i portici sono la «scuola di eloquenza» e il «refettorio».
Gli studenti non superano
Il caporale maggiore, che dall’alto del
carretto ha scambiato i cenciosi per una banda di ribelli, ha pure sentito un
colpo di fucile, che gli parve uscito dalla folla del cortile. Fu forse questa
esplosione che lo fece saltare in terra terrorizzato.
Il testimonio che non vuole essere
riconosciuto, mi raccontò l’assalto al convento senza fremere e senza
una parola di biasimo o di lode per alcuno.
- Dopo le comunicazioni del caporale maggiore, la truppa
circondò il convento e incominciò un fuoco di colpi secchi e
insistenti. Gli inquilini delle case, che udivano lo strepito delle palle,
credevano che i soldati stessero contendendo il terreno ai rivoltosi,
comandati, come dicevano alcuni, dal Pirolini repubblicano. Siccome non
compariva nessuno, aumentarono le scariche. Dietro le griglie della mia casa,
non vedevo che fumo e non sentivo che un pam! pam! che infuriava e una
gragnuola di proiettili che penetrava negli edifici, frantumava i vetri, faceva
cadere tegole o portava via tocchi di grondaie. Le palle si rovesciavano sul
convento a centinaia per volta, con un accanimento che gelava il sangue. Tutti
poi, dalle case vicine, credevano a una resistenza inaudita e pensavano alla
strage. Alle fucilate si aggiunse il cannone.
Buum! Buuummm!
- Lo spavento delle famiglie fa venir su la pelle d’oca anche
adesso. Non abituate a trovarsi così vicine ai combattimenti di uomini
contro uomini, le donne gridavano, si stringevano al petto i figli e si
nascondevano, dove l’entrata dei proiettili era meno probabile.
- Buumm! Buuuummmm!
- Le cannonate si prolungavano
nell’aria e diffondevano il terrore. Furono per me, e credo per tutti, momenti
crudeli. Mi aspettavo una scarica di cannone nel salotto, ove mi trovavo, di
minuto in minuto. Deploravo di non aver mandato la moglie e i figli altrove. Ma
poi dicevo che non ne avevo colpa.
La muraglia venne sfondata in due
minuti. Il cannone aveva fatto una larga breccia, nella prima muraglia vicino
al pilastro del cancello, dalla quale potevano passare tre uomini assieme. I
soldati entrarono nel cortile a baionetta in canna al grido di: vittoria!
vittoria!
Non vi trovarono che gli ultimi poveri
che fuggivano, dopo aver aiutato a spalancare la postierla,
Un altro mendicante era stato colpito
durante le prime fucilate a pochi passi dal cancello, evidentemente in cammino
per entrare a mangiare la minestra.
I tre del cortile erano vecchiotti. La
loro esistenza era forse inutile! Dio li abbia in gloria!
- Il cancello era aperto o chiuso?
- Chiuso. La chiave era nella mia tasca.
Dal principio dei tumulti, i frati avevano creduto che le precauzioni non
fossero mai troppe.
- Cerina - mi dissero - voi conoscete
quasi tutta la «nostra famiglia» che viene a mangiare a
- Avreste aperto anche ai soldati,
suppongo, se ve lo avessero ordinato.
- Subito. Non avrebbero avuto da dirmi
che questo: «Aprite.!» perché il cancello venisse loro spalancato.
Luigi Cerina, con la sua deposizione alla buona, c’introduce
nell’intimità del dramma. «Le turbolenze dei primi due giorni mi avevano
insegnato un po’ di prudenza. Dopo la sollevazione di Porta Ticinese,
consigliai i frati a sospendere la distribuzione della minestra. Dicevo loro
che la ragazzaglia avrebbe potuto mischiarsi coi mendicanti e far nascere
qualche cosa di grosso nel convento. I frati, buoni, isolati dagli avvenimenti,
pensavano più allo stomaco dei loro ospiti che alla perturbazione cittadina.
Essi si credevano lontani mille miglia dalle operazioni militari. Così
non furono del mio parere, e bisogna convenire che non avevano tutti i torti.
Chiudere il cancello ai mangiaminestra era facile, ma dove avrebbero trovato da
mangiare tutti questi poveri cristi la cui esistenza era basata sulla tazzina
calda che dava loro il convento? Sospendendo la distribuzione, avevano poi
paura di venire biasimati e di contribuire, senza volerlo, a dare il
combustibile alle barricate. I cenciosi, la cui maggioranza era composta di
giovani, avrebbero potuto fare del baccano e abbandonarsi cogli altri al
malfare. Questo solo pensiero dava loro i brividi. A ogni modo mi dissero: Voi,
Cerina, che li conoscete tutti, resterete al convento. E, dicendomelo, mi
affidavano le chiavi del cancello d’entrata, coll’ingiunzione di non far
entrare che forestieri e pitocchi. I forestieri sono i frati che passano da
Milano e sostano al convento una notte o due prima di riprendere il viaggio.
«Vi ho detto dei tre morti nel cortile.
La confusione di quel momento non era poco e posso avere straveduto. Ma, se i
miei occhi non mi hanno tradito, potete dire che le prime duecento o trecento
fucilate hanno fatto, nell’interno tre vittime. Il terzo mendicante venne
raggiunto non so dove da una palla, mentre finiva di vuotare la ciotola sotto
il piccolo portico della chiesuola. Egli mangiava seduto sulle calcagna.
Rovesciato, supino, si agitava, come se avesse avuto le convulsioni. Può
darsi che non fosse che ferito. Era vecchio, bassotto, sciancato. Alloggiava
presso qualcuno in via Stella. Non l’ho più veduto in nessuna parte.
«I pitocchi, presi dal panico, si erano
pigiati nell’andito e calcati uno sull’altro lungo l’entrata del convento.
Tutti assieme facevano compassione. I proiettili cadevano da ogni parte e noi
non avevamo per coprirci che le nostre mani e per proteggerci che le nostre
preghiere. Le donne coi bimbi piangevano e nascondevano la testa delle loro
creature con le braccia. Gli uomini cercavano di ficcare la faccia tra le
spalle degli altri.
«Con lo spavento, la lotta per la
conservazione della propria esistenza era diventata generale ed accanita.
Ciascuno di noi cercava di mettersi più al sicuro che poteva,
spingendosi innanzi, magari brutalmente, facendosi largo coi pugni chiusi, risospingendo
i più audaci che prendevano gli uomini e le donne per le spalle per
aprirsi la via verso la postierla.
«La scarica, che ci fece sussultare sul
suolo, finì per incalzarci tutti a cercare un rifugio al di là
dell’assito. Si gridava come disperati.
- Oh, Signore! Oh, Madonna! salvateci!
salvateci!
- Ci ammazzano! salvate i poveri
diavoli che non hanno fatto niente di male!
«E un’altra scarica, che mi parve una
cannonata, ci fece perdere
- Aprite! Aprite!
- Oh, Dio, si muore!
«E in un momento supremo, come se tutte
le forze riunite si fossero rovesciate verso un punto, le lastre di ferro dei
catenacci che ci precludevano la via del rifugio si staccarono quasi fossero
state di pasta frolla, e l’uscio della postierla andò al suolo con un
fracasso che fece scappare gli ultimi frati in coro.
«L’invasione fu un attimo
indescrivibile. Si fuggiva come quando si è inseguiti dall’acqua
straripata dal fiume. A gambe levate, senza pensare ai caduti, senza voltarci
indietro, infilando la scala che sale o discende, svoltando a destra o a sinistra,
tappandoci in una latrina, in una cella rimasta aperta, nascondendoci nel
solaio, nella paglia della stalla, o buttandoci attraverso le fascine della
legnaia nel cortile del fabbricato rustico. Tutto era buono per salvarci. Un
buco, una tana, un sottoscala, un armadio o il porcile.
«Il rimbombo delle cannonate entrava
nel monastero come una sciagura cittadina, che rincupiva per il porticato e si
schiantava sull’alto della muraglia in fondo, come un immenso piatto di
rame che andava in frantumi.
«Ero riuscito ad accovacciarmi
sull’ultimo scalino della cantina, ove trovai due frati laici che tremavano
come foglie. Dopo di me discesero due altri mendicanti. Nessuno di noi fiatava.
Il cannone pareva che avesse cessato. Non si sentivano più che fucilate che
rumoreggiavano in varie direzioni. Un minuto dopo udivamo i soldati che
sacramentavano per i portici, dicendo parole che la mia bocca educata non
può ripetere. Confesso che il minuto ci parve un secolo. Avevamo paura
che i fucili ci ammazzassero giù al buio come tanti conigli. Eravamo
così appiattati l’uno addosso all’altro, quando una voce dall’alto della
scala ci gelò il sangue nelle vene.
- Arrendetevi! Arrendetevi!
«Con la voce si faceva sentire una
spada sguainata che percoteva il muro.
- Arrendetevi!
«Era un capitano che discendeva,
accompagnato da parecchi soldati che avevano il fucile con la baionetta
inastata.
- Arrendetevi!
«Mi feci coraggio e risposi:
- Cosa vuole che «rendiamo» ,,
signor capitano? Semm tutt poveritt.
«Il capitano mi prese per un braccio e
mi trascinò su per la scala, buttandomi in mezzo agli altri già
stati radunati sotto il portico in mezzo a un nugolo di soldati.
«Intanto soldati e superiori frugavano
il convento dal soffitto alla base. Snidavano quelli che erano riusciti a trovare
un nascondiglio e cercavano le armi. Noi eravamo stati palpeggiati fino ai
capelli, e per fortuna nessuno di noi aveva in saccoccia un coltello.
«A intervalli di minuti, alcuni soldati
venivano con qualche frate o qualche pidocchioso che avevano scovato in una
parte recondita dell’edificio.
«Una volta che fummo tutti sotto il
portico, ci si ordinò di andare in Chiesa. I frati laici erano dietro i
padri. Noi eravamo in coda a tutti.
«Colui che aveva dato il comando era un
ufficiale più che energico. La sua voce faceva accapponare la pelle e le
sue parole passavano nelle orecchie come potenti schiaffi.
«Entrando in chiesa, sentii uno sparo
di fucile. Mi pare che venisse dalla stanza attigua al coro. Lo hanno udito
anche quelli vicino a me. Ma, come ho detto, nessuno di noi aveva la testa a
segno. Eravamo terrorizzati e potevamo benissimo scambiare una fucilata per una
cannonata.
«Entrammo in coro come gente che va al
patibolo. Chi piangeva dirottamente, chi singhiozzava in un modo da rompere il
cuore, chi raccomandava l’anima a Dio e chi mormorava preci con le mani giunte
o coi polsi incrociati e le mani piatte sul petto. Le donne tenevano fra le
braccia i bimbi come una preghiera.
«I soldati erano sfilati dinanzi a
questo esercito di piangenti col fucile a baionetta in canna puntato verso il
loro petto. Ciascuno di noi aveva paura che un grido, un gesto facesse
prorompere tutte quelle bocche di fuoco in una volta sola. Io sono un povero
infelice senza colori sulla tavolozza. Ma forse anche coloro che l’hanno
più ricca della mia riusciranno difficilmente a tradurre in poche parole
lo stato dell’animo nostro in quei minuti di trepidazione angosciosa.
«Pare che nella mente dell’ufficiale
fosse l’idea di farci fucilare in massa. Ci credeva rivoltosi, finti mendicanti,
falsi frati tutti truccati per
«L’ansia era stata protratta fino allo
svenimento. Alcuni dinanzi le baionette cominciarono a sentirsi male.
- Fermi! Fermi!
«Fu il nostro salvatore. Era un
tenente... sul grado posso anche sbagliarmi. Era un tenente di fanteria che
entrava col revolver in mano.
- Capitano! Che cosa fa! non vede che
sono tutti poveri?
«La voce del tenente rianimò
tutti, e tutti si misero
«E, se avessimo potuto, ci saremmo
prostrati ai suoi piedi e gli avremmo baciate le scarpe.
«Senza di lui saremmo tutti morti.
Cinque minuti più tardi e il coro sarebbe stato uno stanzone di
cadaveri. Nelle mie preghiere non dimenticherò mai il mio salvatore.
«Circondati dai soldati uscimmo tutti e
ci avviammo alla prefettura di via Monforte, pallidi e invecchiati di dieci
anni».
«Scusi, mi son dimenticato di dirle che
a
- Oh signor, ch’el ne salva che fan i
sciupettad!
«Apersi loro e vennero arrestati con
tutti gli altri. L’arresto è stato per loro un fastidio. Ma senza di me
a quest’ora sarebbero al cimitero di Musocco» ..
Io ero dinanzi la cinta del viale Monforte, e dicevo, tra me e me,
che era proprio un peccato che scomparisse una muraglia storica. Se fossi
ricco, mi andavo ripetendo, la comprerei e la regalerei a un museo che avesse
per compito di conservare i monumenti che rappresentano una pagina della vita
pubblica.
Con queste idee, mi trovai alla
postierla del convento, col cordone del campanello in mano, determinato a
lamentarmi col padre Isaia, un sacerdote cappuccino che avevo intervistato
più di una volta.
Il frate portinaio non è
più quello. Egli è stato cambiato subito dopo le giornate di
maggio, perché il povero Daniele è ancora ammalato di paura. Mentre si
facevano le fucilate, il poveraccio era nella stanza contigua all’entrata a
scodellare la minestra ai poveri, come tutti gli altri giorni.
Quello d’oggi non è così
alto, ma non è meno gentile dell’altro. Tutte le volte che mi vede
sorride, e va difilato ad annunciarmi a qualche padre.
- Ho bisogno di parlare col padre
Isaia.
- Vado di sopra a vedere, ma credo che
sia in coro.
Il padre discese con un giornale
religioso in mano che si era occupato di un mio articolo: era l’Unità
Cattolica.
- Perché non me li mandate mai questi
vostri articoli? mi disse egli, tendendomi le due mani, col trasporto d’un’amicizia
sentita.
Lo fotografo con due colpi di lapis,
mentre diamo una capatina in coro.
È tutt’assieme una figura
simpatica e vigorosa. La sua faccia, larga e massiccia, è spruzzata
dalla lucentezza degli occhioni, che traducono la bonarietà e
Usciti dal coro girammo per il
porticato e infilammo la scala che conduce alla sua cella.
- È vero, padre, che avete
venduto il terreno sul quale è la muraglia con la breccia tappata?
- È vero che abbiamo venduto del
terreno per fabbricare un altro convento fuori di Porta Magenta, alla Maddalena
Grande. Ma quasi tutta la facciata lungo il viale è rimasta nostra. La
breccia rimane tale e quale. Una chiazza bianca coperta del lastrone di metallo
per gli avvisi sacri.
La breccia era rasente il pilastro
destro della cancellata.
Giungendo al piano superiore,
incontrammo tre frati, i quali si prostrano ai piedi del padre Isaia con un
abbandono supplichevole, curvando la testa fin quasi a terra e non alzandosi
che dopo avergli baciato la mano con effusione.
Capii ch’egli era il padre vicario. La
cella di ogni padre ha un motto stampato su una striscia di cartone inchiodata
all’uscio.
Quello del
La cella numero 3 del padre Isaia -
come quella di tutti gli altri inquilini del convento - non ha spazio che per
una persona. Si entra uno dietro l’altro. La finestra che dà
sull’ortaglia è in faccia all’uscio. A sinistra, è un lettuccio
di acero con un semplice pagliericcio poco soffice, nascosto sotto una coperta
di lana colorata. Ai piedi del letto, è un inginocchiatoio, con lo
schienale sormontato da un’asse lucida e giallognola come il resto che serve da
leggio o da tavolo di lavoro. A destra è un piccolo scaffale, pieno di
libri religiosi, agganciato alla parete.
Intanto che il padre Isaia sfogliava il
libro che gli avevano portato, io pensavo alle due baionettate che aveva
ricevuto senza punto accorgersene. Non era uno smemorato, non aveva perduto la
conoscenza né prima né dopo l’avvenimento; era rimasto calmo anche quando era
stato adagiato nel letto dell’Ospedale Maggiore, e tuttavia non sapeva
spiegarsi come le baionette gli fossero entrate nelle carni e lo avessero
inondato di sangue.
- Proprio,
- Non ho sentito nulla, proprio nulla.
Mi sono sentito spossato solo vicino alla breccia. Là, dinanzi al muro
squarciato, incominciai a respirare affannosamente. Pareva che avessi sullo
stomaco una specie di oppressione. Non appena mi trovai sotto l’atrio del
palazzo prefettizio, domandai da bere, perché mi sentivo la gola che bruciava,
e una sedia perché non potevo stare più in piedi. Dovevo essere pallido
come un morto perché parecchi mi domandavano se mi sentivo male. Io rispondevo
che mi pareva d’essere invaso da un languore che mi faceva desiderare un
giaciglio. Mi si condusse all’Ospedale ove mi si domandò che cosa avevo.
Risposi che potevo essere un po’ agitato e li pregavo con insistenza perché mi
salassassero subito o mi mettessero le sanguisughe. Nella sala dell’ambulanza
medica mi si rifece la domanda di prima.
- Che cosa si sente?
- Nulla. Sono un po’ fiacco, un po’
spossato. Pare che mi manchi il fiato.
- Non è ferito?
- Nossignore.
- Eppure dove c’è sangue
c’è ferita. Non vede che perde sangue?
- Avevo i sandali inaffiati di sangue.
- Provi a levarsi la tonaca.
- Non ero più che un’immensa
macchia rossa. Il panno della sottoveste, movendosi, si era inzuppato e mi
aveva insudiciato tutta
- Che cosa avevate fatto per trattarvi
a colpi di baionetta?
Il cappuccino rimase pensoso. Pareva
che non avesse voglia di rimestare il passato. L’esitazione non durò che
pochi secondi.
Egli si convinse che non poteva tacere..
La storia è storia, e nessuno ha diritto di sopprimerla.
- Io parlo pro veritate. Quando
entrarono i soldati mi trovavo nella stanzettina vicino alla postierla
d’entrata a lavare la ferita alla gamba di un pitocco, che non aveva potuto
finire di mangiare . all’impazzata, coi
fucili e le baionette in canna puntati verso il petto dei poveri diavoli
ch’essi credevano rivoltosi - per assicurare l’ufficiale che li comandava che
in convento non c’era anima viva, tranne i frati e i poveri venuti a mangiare
- Per esempio?
- Non posso ripeterle.
- Ripetetele, padre, in nome della
storia!
Non ci fu verso di fargliele ripetere.
- Per istornare qualche terribile
eccidio, pensai di parlare al primo ufficiale che mi fosse capitato, vedendo
che i soldati correvano con gli occhi smarriti, terrorizzati.
- Ritornai verso la stanzuccia, dove
avevo lasciato il ferito, e mi imbattei appunto in un ufficiale che stava in
coda ai soldati, e mostrandogli la caldaia della minestra lo pregai che non
facesse alcun male a quei poverelli che erano venuti per sfamarsi. Se mi
ricordo bene, era un tenente. Mi guardò in faccia come per scovare il
ribelle e poi, con un «frataccio cane!» mi agguantò per il collo della
tonaca e mi piantò la canna del suo revolver al ventre. Forse
sarà stata la mia impressione. Mi pareva che il suo dito cercasse il
grilletto. Col coraggio della gente che difende la propria esistenza, gli
contorsi la mano e lo costrinsi a mettere la canna nel vuoto. Egli si mise a
scuotermi senza mai abbandonare il colletto della veste e con dei continui
tentativi di rimettermi l’arma nella posizione di potermi uccidere. Si trattava
della mia vita e io gliela contesi con tutte le mie forze.
- Permettetemi, padre, di stringervi la
mano.
Io avevo bisogno di una pausa per
sottrarmi alle sensazioni dolorose.
- Il tenente insisteva ed io non
abbandonavo mai la canna.
- Mi bruttava di villanie e io gli
rispondevo che si sbagliava e che non ero un «frataccio cane». Per il collo
della tonaca egli mi trascinava sempre verso l’uscita. Io pensavo in quel
momento che egli volesse condurmi nel cortile e farmi fucilare dai soldati.
- Signor ufficiale, gli dissi, non mi
faccia questa figura. Se vuole uccidermi mi uccida qui subito, senza condurmi
di fuori. Sarebbe uno strazio inutile. Se devo morire, è meglio che
muoia nella casa dei miei fratelli.
- Io pregavo, e l’ufficiale, invece di
darmi retta, mi scoteva e mi trascinava a colpi per il cortile. Mi credevo
perduto.
- Il suo pensiero doveva essere quello di farmi ammazzare dai
soldati. Senza mai abbandonare la canna del revolver, cercavo di proteggere il
mio col suo corpo. E lui, l’ufficiale, impiegava tutti i suoi sforzi per
mettermi alla mercè dei fucili.
- Giunti al fianco della breccia, egli
fu lì lì per finirmi.
- Io gli dissi che infine non ero che
un povero frate stato colto a medicare un ferito.
- Creda, signor tenente, che nel
convento non ci furono mai nè insorti, nè armi da fuoco.
- Passò nella sua mente un
dubbio? Non ve lo saprei dire. La verità è che le sue parole mi
rivelarono ch’egli mi stava proprio mandando all’altro mondo.
- Con disprezzo, come quando si abbandona
un nemico indegno perfino dell’ultimo supplizio, mi disse:
- Per questa volta ti perdono!
- Con una fiatata che riassumeva il sacrificio che compiva, mi
buttò per il buco della breccia, chiamando i soldati. Stramazzai
bocconi, colle mani che mi salvarono
- Fuori della breccia è stato
uno spavento. Ogni soldato aveva una sudiceria da buttarmi in faccia: e quello
che mi fece più pena, fu di veder un maggiore, credo, d’artiglieria,
alto, magro, ruvido, che portava appesa all’occhiello una lente (caramella),
il quale, incontrandomi sul piazzale Monforte, alla preghiera di rimandarmi
libero perché ero innocente, con burbero cipiglio mi minacciò con la
mano in aria un manrovescio, e... Il mio contegno di frate che non aveva paura
di morire non aveva presa su di loro.
- Figlio si di p…!.
- Consegnatelo - disse ad alta voce il
superiore ai soldati al di là della breccia - agli alpini.
- Venni preso brutalmente per le
braccia da due soldati, che mi incalzavano con le parole più svergognate
del postribolo. Il terzo, il caporale, mi diceva:
- Avanti, frataccio! - e mi teneva la
punta della baionetta alle reni.
- Mi pareva di perdere il cingolo e
tentai con le mani di tirarmelo in alto, avendo già perduti i grani
della corona fratesca.
- Sta fermo - mi disse uno dei soldati
- o ti brucio le cervella!
- Da viale Monforte alla via Vivaio, mi
copersero di tutto ciò che potete immaginare di sconcio e di osceno.
- Sull’angolo della via Vivaio erano
altri soldati e un capitano. Mi duole di non sapere il nome del superiore. Fu
il primo gentiluomo che incontrai dopo la mia sciagura.
- Badi, signor capitano, che è
un rivoltoso.
- Non importa, non occupatevene.
È nelle mie mani. Alpini, conducetelo alla prefettura.
- Anche gli alpini mi trattarono con
tutti i riguardi. Invece di trascinarmi per le braccia, mi lasciarono libero e
ingiunsero ai soldati di prima di lasciarmi stare, perché ero sotto la loro
responsabilità.
- Il prefetto Winspeare, non appena mi
vide entrare, mi venne incontro dicendo:
- Come, mi arrestate anche i frati?
- I soldati del viale Monforte gli
dissero che ero un rivoltoso stato colto col fucile in mano.
- Dov’è questo fucile?
domandò il prefetto.
- Non sappiamo, perché questo individuo
ci venne consegnato dal tenente.
- Mentre io stavo dando la spiegazione
al signor prefetto della nostra innocenza e che dal convento non poteva essere
partito alcun colpo di fuoco per la semplice ragione che non vi erano né armi
né armati, eccomi ancora davanti quell’ufficiale d’artiglieria, col medesimo
atto del manrovescio, gridando che aveva veduto partire il colpo dal
Convento lui stesso!...
- Non ci sono stati altri frati,
- C’è stato frate Alessandrino,
il vecchietto che le ho fatto vedere dabbasso.
La nocca di qualcuno ci interruppe.
- Ave - rispose padre
Isaia.
Entrò un frate laico a portargli
un piego suggellato.
Mi voltai dalla parte della finestra a schizzare il frate laico
Alessandrino, col quale avevo parlato più di una volta.
È un ometto di settanta e
più anni, mingherlino, ha la faccia lentamente consumata dai digiuni,
con gli occhi celesti nelle occhiaie vizze, con una punta di barba grigiastra
al mento e dei peli dello stesso colore disseminati per il labbro superiore.
È ammalato da un pezzo, passa il tempo tra un’orazione e l’altra,
pregando il signore di volergli bene.
Il giornalista lo spaventa più
del diavolo. Mi vedeva e scappava. Un giorno che mi aveva sorpreso col lapis e
il note book in mano, corse ad inginocchiarsi all’altare in coro e
ritornò una ventina di minuti dopo a pregarmi di non fargli del male, di
lasciarlo stare, perché lui aveva bisogno, per la sua salute, di una grande
quiete, e a scongiurarmi in nome del Signore Iddio, di non metterlo sul
giornale, perché lui, dopo tutto, non sapeva nulla, non aveva fatto nulla e non
voleva dir nulla. Era un uomo che aveva paura, che si spaventava per delle
inezie e che godeva la pace del coro, quando era vuoto. I soldati lo facevano
rabbrividire solo a pensarci. Non appena li seppe nel convento, scomparve
dietro il coro, passò in chiesa e passò sul pulpito, rimanendovi
appiattito sotto la croce, senza quasi respirare, per timore di farsi sentire.
Se lo avessero lasciato sarebbe rimasto là a costo di morire in
ginocchio. Invece i soldati e un ufficiale lo hanno scoperto e trascinato
giù per
Padre Isaia aveva finito di leggere e
io di scrivere.
- Lo hanno trattato bene, padre,
all’ospedale?
- Con tutti i riguardi.. Le monache della
sala di San Lazzaro erano di una gentilezza materna; le infermiere e gli
infermieri nonostante il grande lavoro, mi usavano speciali riguardi e non so
trovar parole di gratitudine e di ringraziamento per i bravi signori medici e
chirurghi che con tanta pazienza e delicatezza mi assistettero nei dieci giorni
che vi dimorai. Sissignore, c’era ordine di non lasciarci parlare con alcuno
senza speciale permesso.
- Dunque sono rimasti tutto il tempo
senza una visita?
- Sono venute a trovarci parecchie persone, come il Prevosto di
Sant’Alessandro, di S. Stefano, Monsignor Montegagra, il Cardinale, Monsignor
Nasoni e Magistretti, il Conte Greppi, il nobile Corti, D. Battista, le
contesse Sormani e Sola, il marchese Cornaggia eccetera eccetera eccetera che
or tutti non ricordo... il deputato Piola, per esempio.
- Non è mai stato interrogato?
- Sissignore, sono stato interrogato da
un capitano, il quale fu gentilissimo. Fu lui anzi a dirmi che almeno una
baionettata dovevo averla presa in convento...
- C’era anche il tenente che lo aveva
trascinato e buttato attraverso il buco della breccia?
- C’era, e mi sembrava alquanto
mortificato...
Si bussò un’altra volta
all’uscio.
-
Ave.
Dieci maggio. Sono in piedi di buon
mattino. Ho buttato giù alcune note inaffiate di sangue e sono uscito.
Il sole è rutilante. Questi fasci di luce calda mi fanno male. Vorrei
che lo stesso cielo fosse annuvolato come il mio cervello. Io sono tetro, sono
triste, sono un funerale. Darei dieci anni di vita per dimenticare di aver
vissuto ieri. A ogni passo il lunedì mi risorge nella testa affollata di
cadaveri e dilagata di sangue.
Le muraglie sono tappezzate di decreti
di Bava Beccaris. I «Vogliamo» di Napoleone I sentono del genio dell’autore. I
suoi proclami sono modelli di stile vigoroso. È tutta una prosa, la
prosa napoleonica, che si legge con ammirazione anche a tanti anni di distanza.
La prosa di Bava Beccaris è piena di solecismi volgari. È prosa
piatta e amanuense. Quando mi parla di provvedere alla «confezione del rancio
giornaliero», mi pare di essere a tu per tu con uno speziale di campagna
abituato a «confezionare» il lattovario, o alla presenza di una sarta ,,
«confezionista» d’abiti. Questo «appello» per domandare gratis o con buoni a
«richiesta» la «concessione temporanea delle cucine e di quanto occorra per la
cottura del vitto», è un altro documento della sua buaggine e del suo
cuore. Questo imbecille si crede assediato dagli insorti. Non si ricorda di
ieri che per i soldati. Il pubblico ricco è con lui. Ha aperto la borsa
con entusiasmo. Si vedono dappertutto breaks carichi di viveri da
distribuire alla truppa accampata per le piazze.
Il merito di aver suscitato direi quasi
del fanatismo per soccorrere i soldati non è tutto del commissario che
ci ha ingiunto di andare a dormire alle undici precise. Ma è
anche del tenente generale Genova di Revel, presidente del circolo militare,
che ha pubblicato il seguente «appello»:
«Una lunga esperienza di servizio
militare mi rende consapevole di quanto debbono soffrire i militari comandati
alla tutela dell’ordine ed a reprimere il saccheggio.
«Mancanza di riposo, di rancio regolare
e l’ansietà di vedersi attaccati dai rivoluzionari affrangono il fisico
di quei bravi giovani sostenuti unicamente dal sentimento del dovere.
«Devo quindi fare appello a coloro che
vorranno associarsi ad una sottoscrizione per alleggerire le loro dolorose
fatiche» ..
L’esperienza militare del generale
è nei suoi ricordi e io non ho punto voglia di metterla in
dubbio. Sarà stata lunga e lunghissima. Ma volerci far credere che in
Milano, con un generale che abbia la testa sulle spalle, non si sappia mica
come dare il rancio quotidiano a ventimila soldati, è semplicemente
ridicolo. Non è necessario di avere studiato l’organizzazione militare
attraverso i libri di Moltke per sapere che con dei denari in saccoccia, dei
magazzini pieni, dei fornai ad ogni angolo, e degli alberghi e delle osterie e
dei macellai a ogni due passi di ciascuna via, si può mangiare
dappertutto - anche in piazza del Duomo - e bene. Generale, godetevi il riposo
se ve lo siete meritato, ma non venite fuori a dirci sciocchezze. Se Bava
Beccaris, che la storia giudicherà come un sanguinario, non aveva tempo
di occuparsene, doveva dirlo al buon Consonni dell’Orologio - un restaurant frequentato
anche dai gros bonnets dell’esercito -. Bastava dirgli che voleva
ventimila ranci al giorno per essere sicuro che non uno dei suoi soldati
avrebbe patito ..
Ma io sciupo il tempo a dimostrare ai generali che
I due mattoidi dell’esercito vorrebbero
farci credere che l’assedio di Milano non differisce dall’assedio parigino
quando si misuravano le razioni di asini, di cani, di ratti, di topi, quando il
pane era un miscuglio di patate, di piselli secchi, di fagiuoli avariati, di
avena, di segala spolverata, di farina di frumento, quando la carne di cavallo
era divenuta una leccornia dell’ambiente, quando i gatti erano le lepri di
tutti i grandi restaurant, quando un coniglio costava 60 franchi, un’oca 140,
un tacchino 180, l’ultimo montone 1164!
Ah, burloni! generali burloni!
Qualche giorno dopo sono passato dalla
Gli arresti notturni sono
infiniti. I cittadini che si dimenticano che Bava Beccaris non scherza, perdono
il tempo a ciaramellare per le vie e si trovano alle undici nella rete delle
pattuglie. Soldati e questurini vi domandano nome e cognome, chi siete, dove
andate evi conducono a San Fedele. Per questa semplice infrazione si passano
delle notti nei cameroni polizieschi e si arrischia di andare al Castello o al
cellulare come rivoltosi. Ho assistito a scene strazianti. Un povero garzone di
osteria che aveva travasato il vino nella cantina del padrone venne agguantato
cinque minuti dopo le undici con lo sparato della camicia inaffiato di rosso.
L’ho trovato nel camerotto della sezione di questura di S. Simpliciano che si
disperava e diceva ad alta voce che lui non poteva stare in prigione perché
aveva a casa moglie e figli che lo aspettavano! Il suo caso era così
crudele che faceva pietà anche ai questurini. Uno di essi a
I borghesi che applaudiscono Bava
Beccaris possono invece girellare a tutte le ore. Per loro non c’è
coprifuoco. Col passe-partout vanno dove vogliono e quando vogliono.
Copio quello che era stato rilasciato,
per ragioni professionali, al signor Romolo Agosti - l’ex segretario
dell’Associazione Lombarda dei giornalisti. È un documento che completa
la giornata.
È sormontato dallo stemma reale,
ha il bollo del «Comando del III Corpo d’armata» e vi si legge:
REGIO
COMMISSARIO STRAORDINARIO
Si autorizza il libero transito al
signor Romolo Agosti per recarsi dall’interno all’esterno della
città e viceversa anche nelle ore di notte.
Milano
del tenente generale R.
Commissario Straordinario
BATT
Li riassumo in una ventina di morti e
una quarantina di feriti. Non posso darne il numero esatto perché tutte le
volte che ripasso sul terreno della mia inchiesta trovo dei cadaveri e dei
feriti che avevo lasciato per
- Questo vuol dire, o signore, che si
tirava sui passanti a poca distanza.
Tra i disgraziati che caddero fulminati
dai proiettili militari non uno fece nascere il sospetto di essere stato un
rivoltoso. Erano operai, come il falegname Antonelli di via Nino Bixio, o dei
buoni borghesi, come il salsamentario Giuseppe Colombo di via Sottocorno 17, il
quale perdette la vita stando alla finestra a chiacchierare con la figlia che
perdette un occhio.
Non uno dei soldati che presero parte a
questa sedicente battaglia coi rivoltosi è ritornato in caserma ferito o
contuso.
DELL’ «ITALIA DEL POPOLO»
NARRATO DA UN TESTIMONE
A me pare una scena che inchiuda Bava Beccaris. Una di quelle
scene che sì svolgono con una rapidità straordinaria, e lasciano
dovunque tracce di un momento che passa alla storia. Rifacendola per il tuo
libro, il mio pensiero si commuove e si contrista come dinanzi una sventura.
Gli è come rivivere l’ora tragica, in cui la stampa si lasciava strangolare
senza neppure il grido della resistenza legale. Ma non perdiamoci in
considerazioni. Tu non ne vuoi. Voialtri del
giornalismo moderno non volete che il fatto nudo e crudo. Io crepo a digerire i
fatti nella prosa arida. Ma sia fatta la volontà di quelli che sentono
l’avvenire del quotidiano diverso dal mio.
La giornata era il
Potevano essere le quattro e mezzo. Mi
sentivo spossato dalla fame e dal lavoro e la testa confusa dagli avvenimenti.
In redazione c’era stato l’andirivieni della commozione cittadina. Sembrava una
sala d’aspetto. La gente era andata e venuta sbalordita, concitata,
terrorizzata. Gli sconosciuti entravano, raccontavano con la parola spaventata
dal loro spavento o esaltata dalla loro esaltazione e scomparivano, senza
magari lasciarsi mai più vedere. Erano i reporters spontanei delle
giornate tumultuose.
I locali dell’Italia del Popolo li
conosci. Si entrava dal portone della casa di via S. Pietro all’Orto, si saliva
al primo piano, si passava dallo stanzone amministrativo, si voltava a
sinistra, si entrava nella sala di redazione, e si vedeva il direttore
spingendo l’uscio in fondo alla parete di fronte.
Il reportage spontaneo era
cessato. Nella direzione si trovavano Chiesi e Federici - in redazione Ulisse
Cermenati e l’avvocato Valentini, il quale, come sai, scriveva, in quei giorni,
degli articoli finanziarii. Il Seneci era dabbasso in tipografia che lasciava
andare a casa gli operai, raccomandando loro di ritornare per l’edizione di
notte. Di fuori, dinanzi il locale di distribuzione, la folla degli strilloni
aspettava con impazienza l’ultima edizione della giornata. Ne avevano vendute
delle bracciate nella mattina e nel pomeriggio, e s’impromettevano di
spacciarne assai più nella sera. Il pubblico era ansioso di sapere che
cosa avveniva, ma la cronaca di qualunque giornale non gli portava che fatti
slegati e non gli diceva come avevano avuto principio, se erano inanellati e
perché continuavano.
La via di S. Pietro all’Orto venne
occupata militarmente. Non pensavamo neanche che si trattasse di noi. Io poi,
che avevo dovuto essere da una parte e dall’altra e mi ero convinto che Milano
stava per diventare una rete di cordoni militari, tirai via a chiacchierare sui
tumulti spaventosi senza badare a ciò che avveniva nella strada. I fatti
ci assorbivano. Come si erano compiuti? Chi li aveva provocati? C’era stato
scambio di fucilate? Chi sarà stato il primo a far fuoco? Annegavamo
nelle supposizioni senza venire in chiaro di nulla. Il tavolo del cronista
rigurgitava di note sanguinose, ma nessuna ci dava la chiave della giornata. La
nostra conversazione venne interrotta da una moltitudine di piedi che sentivamo
venire alla nostra volta. Erano il viceispettore Prina, il delegato Gislon e
parecchi agenti in borghese che invadevano gli uffici dell’Italia del
Popolo.
Le prime parole che ci dissero furono
che il giornale era sequestrato. Una notizia che ci lasciò tranquilli.
Non era la prima volta che ci si capitava addosso coi sequestri. Ma il Prina
non ci permise di tirare il fiato liberamente, senza aggiungere che era dolente
di comunicarci «la cessazione del giornale fino a nuovo ordine». Il direttore
rimase senza sorpresa. Passammo in stamperia. Assistevano alla scomposizione
del giornale Chiesi, Federici, Cermenati e Seneci. Prima di risalire negli
uffici il Prina diede ordine di non permettere l’uscita ad alcuno.
In redazione ci disse:
- Ci rincresce, ma siamo incaricati di
fare una perquisizione. - Nessuno di noi rispose. Tanto e tanto il nostro
consenso o la nostra protesta non avrebbe contato per nulla. Si misero a
perquisire. Guardavano nei cassetti del direttore e dei redattori, leggevano o
scorrevano affrettatamente i manoscritti, raccoglievano le cartelle scritte o
incominciate per i tavoli e frugavano e adocchiavano dappertutto. Intanto che
avveniva questa operazione, Federici si era affacciato alla finestra, proprio
nel momento in cui De Andreis riusciva, nella sua qualità di deputato, a
passare il cordone militare. Si protese e gli disse:
- Hanno sequestrato il giornale e
stanno facendo una perquisizione. Vieni di sopra.
Due minuti dopo era anche lui in
redazione. Terminata la perquisizione, il Federici chiese, come di legge, che
si facesse il verbale delle cose sequestrate. Uno dei funzionarii rispose:
- Lo faremo in questura, dove abbiamo
l’incarico di accompagnarli. Loro signori sono invitati dal questore per delle
comunicazioni.
Carmenati: Allora vuol
dire che siamo tutti in arresto.
Gislon: Non abbiamo
quest’ordine, non credo ci sia probabilità d’arresto.
De Andreis: Come deputato
protesto per la perquisizione e per la violazione di domicilio, senza mandato
dell’autorità giudiziaria.
Suggellati i pacchi dei manoscritti
sequestrati, il Prina invitò Chiesi, Federici, Cermenati, l’avvocato
Valentini e Seneci ad andare con loro a S. Fedele.
Seneci, in pantofole, domandò il
permesso di mettersi le scarpe.
- Faccia.
De Andreis: Vengo anch’io.
Prina: Scusi,
onorevole, ma io non ho ordini che riguardino lei.
De Andreis: Io voglio
andare dove vanno i miei amici.
Prina: Se crede,
s’accomodi.
Cermenati: Se non siamo in
arresto, noi non vogliamo essere accompagnati dagli agenti di P.S.
Il delegato Gislon li fece allontanare.
In via Soncino Merati, dinanzi
l’entrata del
- Ci siamo!
Colautti rispose, con un gesto, che non
poteva essere.
In S. Paolo, Seneci entrò dal
tabaccaio a bere una bibita. Era stato in tipografia e nel locale di
distribuzione tutto il giorno, e aveva sete. I funzionari non lo aspettarono
neanche. Ci raggiunse correndo. Questo fatto ci lasciò credere che non
eravamo in arresto. Che si tratti solo di dirci che la stampa subirà la
censura preventiva da qualche impiegato di questura?
In questura ci si lasciò in
un’anticamera.
- Aspettino; saranno ricevuti dal
questore non appena sarà libero.
Aspettammo una buona mezz’ora, facendo
mille supposizioni. Annoiati di essere trattenuti tanto tempo, incominciammo a
mormorare. Ma dunque? Ci prendono per dei domestici, questi signori di
questura! Facciano presto, ci dicano se siamo in arresto, se siamo liberi, e
che cosa vogliono da noi. Entrò un impiegato ad invitarci di andare con
lui.
- Tutti, meno l’onorevole De Andreis.
De Andreis non voleva saperne di aria libera. Si mise a protestare
con parole vibrate e a dichiarare ch’egli sarebbe andato dove andavano i suoi
amici. E tutti noi, compreso l’on. De Andreis, passammo in un’altra stanza,
dove ci si trattenne un’altra buona mezz’ora.
Aspettavamo e parlavamo sottovoce.
Perché in questa seconda anticamera eravamo tenuti d’occhio da un agente in
borghese, seduto in mezzo a noi come un muto. Conversando, si almanaccava sul
tempo che ci avrebbero fatto perdere. Federici manifestava la sua opinione che
anche De Andreis sarebbe stato trattenuto.
Qualche altro pregava quest’ultimo a
prendere l’uscio intanto che era libero.
- Libero ci potrai essere più
utile che non chiuso in carcere con noi.
Fu testardo e rimase.
Alle sei e mezzo circa entrò un
vecchio impiegato a dirci queste parole:
- Sono spiacente di comunicar loro che,
essendo stato proclamato in questo momento lo stato d’assedio, loro signori
sono tutti in arresto.
Ci fu un’irruzione di guardie in
borghese le quali, senza tanti complimenti, ci presero per
- Già che ci deve mandare in
guardina, ci potrà mandare anche da mangiare.
- Senza dubbio.
E il delegato promise che ci avrebbe
fatto portare qualcosa dall’Orologio.
- Devono avere un po’ di pazienza,
perché in questo momento ho molte cose da fare.
Ci si chiuse nel camerotto riservato
alle donne, il quale, secondo l’espressione dell’Eula, era «il meno peggio».
Avevamo fame ma non aspettammo molto. Tre quarti d’ora dopo si spalancava
l’uscio ed entravano roast-beef, un fiasco di vino, del formaggio, della
frutta e delle sigarette.
Mangiando si chiacchierava e si rideva.
De Andreis era di opinione che
avrebbero montata qualche macchina per tenerci in prigione.
Federici fumava disperatamente una
sigaretta dopo l’altra per cambiare l’odore dell’ambiente.
Chiesi si contentò di dire che
avrebbe pagato il conto.
Un po’ più tardi Seneci ci
faceva sapere che non aveva mai dormito così bene.
- Vi raccomando di ravvolgervi la testa
nel fazzoletto, se non volete che certe bestioline vi vadano nelle orecchie.
Cermenati si allungò sul tavolato
con una frase tragica:
- Così giovane e già
tanto galeotto!
Qualche minuto dopo, ricordandosi
d’essere stato dilettante drammatico, si drizzò in piedi e si mise a
declamare un po’ d’Amleto:
Potesse, oh! questa troppo salda carne
Che mi veste, scomporsi, andar diffusa,
Sfarsi come rugiada!
Il carceriere, lungo il corridoio, ci
impose il silenzio.
- Signori, faccian silenzio!
Ci addormentammo.
Tra le dodici e mezzo e la una venimmo
svegliati dal fracasso che si fece a schiudere l’uscio. Entrarono, tra la
sorpresa generale, l’avvocato Carlo Romussi e il professore Emilio Girardi,
accompagnati dalla guardia carceraria che portava la lanterna fumosa.
Romussi: Ho ottenuto il
permesso di venirvi a trovare coll’amico Girardi. E giacché ci siamo, vogliamo
tenervi compagnia fino a domattina.
Girardi andò sul tavolato con
un: dio cane!
Seneci fece loro la raccomandazione del
fazzoletto. Romussi ci raccontò che gli agenti erano andati al Secolo
a perquisire la redazione, a far scomporre il giornale e ad arrestare tutti
i redattori che vi si trovavano. Non vi hanno trovato che il direttore ed un
redattore. Negli uffici vi erano parecchie persone, come l’Antongini e il
Missori. Ma nessuno di loro venne arrestato. L’episodio storico dell’arresto del
direttore del Secolo fu quello della sedia.
Romussi era al suo tavolo che scriveva
non so più che cosa sulle ultime notizie. Il delegato, col codazzo dei
questurini in borghese, gli annunciò la perquisizione e credo anche la
sospensione del giornale. Romussi disse qualche parola sulla libertà di
stampa e lasciò che l’uomo di questura andasse a mettere sottosopra il
suo cassetto e a rovistare le carte del tavolo unito a quello di lavoro. Per la
maledetta abitudine di Romussi di accumulare i manoscritti, gli sequestrarono
un numero infinito di carte e di lettere, non poche delle quali dovevano essere
di Cavallotti. Suggellati i pacchi e fatto il verbale di sequestro, Romussi e
Girardi vennero invitati in questura. Romussi, prima d’andarsene, voleva scrivere
due righe non so se alla moglie o ai colleghi. Prima di sedere buttò via
la penna con la quale aveva scritto il delegato, diede un calcio alla sedia,
sulla quale era stato seduto e ordinò al portiere di portarla via subito
e di bruciarla.
- Portamene un’altra e dammi un’altra
penna.
Alla mattina ci svegliammo con le ossa
rotte. Avevamo sulla faccia il colore di una notte trambasciata. Ci eravamo
coricati sul tavolazzo, vestiti come eravamo entrati, e lungo la notte il sonno
ci era stato interrotto centinaia di volte. Dal fracasso degli usci che si
aprivano e si chiudevano, dal trambusto, nel cortile, dei soldati che pareva
arrivassero ogni quarto d’ora, dai piedi che tumultuavano sotto il
portico e dalle voci che giungevano a noi come di gente ammutinata.
Verso le dieci antimeridiane il
delegato Eula ci annunciò che era giunto l’ordine della
traduzione al cellulare. Venimmo chiamati a due a due, e a due a due venimmo
legati, polso a polso, con una catenella, da un maresciallo dei carabinieri
alto e spalluto. Eravamo così appaiati: Valentini e Chiesi, Seneci e
Federici, Cermenati e Romussi, De Andreis e Girardi. Uscimmo ed entrammo
in una folla di circa ottanta arrestati.
Il balcone del palazzo di questura era gremito di altri monturati
con alcuni borghesi. Non posso dire se vi era Bava Beccaris, perché non lo
avevo mai visto neppure sulla fotografia. C’era certamente il questore. Un uomo
magrettino c’ha ha l’aria di essere gobbo. I grandi gallonati parlavano tra
loro e gli uni ci additavano agli altri col dito puntato verso noi.
Prima che il convoglio si mettesse in
moto, il delegato Birondi disse a tutti:
- Non salutino alcuno e non parlino, perché ho ordini severissimi.
Eravamo tutti a piedi, circondati dai carabinieri e dai soldati di
cavalleria col revolver in pugno. Qua e là c’erano parecchi questurini.
C’incamminammo verso le undici. L’itinerario fu questo: piazza S.
Fedele, piazza della Scala, Santa Margherita, via Mercanti, via Dante, foro
Bonaparte, S. Gerolamo, S. Vittore, via Filangieri.
Gustavo Chiesi abita in foro Bonaparte 93. I suoi vecchi genitori
erano alla finestra che si asciugavano le lagrime col fazzoletto. Nessun altro
incidente.
Sai come si è ricevuti al Cellulare.
De Andreis, il quale si sentiva male
per il lungo digiuno, domandò subito da mangiare. Gli altri lo
imitarono. Impolverati, sudati, passati traverso un’ora piena di pericoli,
avevamo una sete da cani trafelati. L’Astengo, il direttore, ci fece portare
dell’acqua con del fernet dal bettoliniere.
Ci si separò in tante celle e ci
si riunì in un cellone a mangiare. Mangiammo del salame, della pasta al
sugo, dell’arrosto e del formaggio e bevemmo del vino comune. Eravamo serviti
da due scopini e sorvegliati da due guardie carcerarie. Terminato il pasto,
venimmo visitati dal cappellano, accompagnato dal direttore. Subito dopo
Federici, Cermenati, Seneci, Valentini e De Andreis vennero cellularizzati in
infermeria. Romussi e Chiesi vennero chiusi in celle separate al secondo
raggio.
Il secondo giorno vedemmo arrivare in
infermeria i deputati Turati e Bissolati.
Il resto ti è troppo noto perché
io sciupi dell’inchiostro.
È una scena piangevole che
potete vedere ogni mercoledì e ogni domenica, tra le dieci e la una,
sulla piazzetta Filangeri, dinanzi l’edificio della sventura sociale. Ma in un
giorno o nell’altro non troverete mai la folla delle giornate di Bava Beccaris,
quando ciascun cittadino aveva paura di non essere più cittadino e ogni
donna poteva essere disgiunta dall’uomo da un ordine imperativo o da una mano
brutale.
La mia pagina è una fotografia
senza ritocchi di una di queste domeniche.
L’orologio di un campanile suonava le
otto e il sole bruciava le cervella. Sul piazzale si vedevano alcune carriole
cariche di frutta acerbe o sfatte, di dolci perseguitati dalle mosche e di cose
mangerecce coperte di polvere. Il portone traduceva un corpo di guardia
improvvisato in una città insorta, Un portone coll’andirivieni della
gente che fa paura. C’erano soldati in piedi, soldati che riposavano sulla
paglia sternita nei fianchi, soldati che entravano e uscivano, soldati che si
asciugavano la fronte e si aggiustavano la giberna sul ventre. Si vedevano
andare e venire secondini, guardie di finanza, delegati, questurini,
carabinieri, ufficiali, autorità carcerarie, autorità militari -
tutte persone che ricordavano il momento, persone dalla faccia feroce, persone
che passavano come ventate di collera, persone pronte a venire alle mani col
primo che avesse detto una corbelleria.
L’ufficiale di guardia pareva, col
pensiero, a spasso. Con la ciarpa azzurra a tracolla, seduto sulla sedia
addossata al pilastro con una gamba sopra l’altra, si ninnolava buttando in
alto il fumo diafano della sigaretta.
Le donne giungevano sole e a gruppi con
i fagotti, i canestri e le corbe piene di roba e si appoggiavano al muro della
carcere o andavano ad occupare i sedili di granito della piazzetta o si
aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia al bastione. Tra le
popolane dal faccione prosperoso e dalle maniche rimboccate sull’avambraccio
bronzato, c’erano vecchie che si reggevano a mala pena in piedi, teste che
riassumevano la primavera nella chiarezza mattinale e figure dalla faccia
bianca o scolorata che uscivano dalla moltitudine con le loro vesti e i loro
cappelli neri come tante ditte di un ufficio mortuario.
Imperava il dolore. Ah, se si potesse
uscire dal dolore come si esce dalle porte cittadine! Il dolore distruggeva la
ripugnanza delle vestite bene per le vestite male e assorellava le donne
colpite da una sventura comune. Tutte queste mamme, tutte queste spose, tutte
queste amanti, tutte queste sorelle vedute assieme storcevano il cuore e
facevano venir sulle labbra una parola tragica, una bestemmia brunita dal
rancore, una maledizione che si rompeva nella testa col suono della lastra di
metallo che la martellata manda in frantumi. Riproducevano l’afflizione,
l’ambascia, il dietroscena domestico, il naufragio femminile, la devozione
sublime delle donne affezionate agli uomini chiusi laggiù, oltre il
portone, al di là dei cancelli, negli sgabuzzini del lugubre edificio
imbevuto delle lagrime dell’esercito della sventura, che ha patito più
del Cristo in croce. Nei loro occhi non era l’ardimento. Nei loro occhi era la
stupefazione, lo sbalordimento, l’umiliazione. Povere donne! Erano donne
abbattute, costernate, vinte dal supremo cordoglio che non le lasciava
disfogare la piena del loro martirio.
I carrettoni chiusi scompigliavano e
buttavano manate di nero sulla tela lugubre che s’allargava a ogni minuto. I
traballamenti delle ruote andavano sul cuore della moltitudine come fitte che
si sprofondavano nelle ferite palpitanti e sollevavano in tutti il vespaio
delle supposizioni. A ogni sussulto si correva involontariamente col pensiero nelle
cellette del veicolo che accarezzavano l’arrestato come la guaina accarezza la
lama, a palpeggiare gli incassati come se si avesse avuto paura che si fossero
rotta la testa o stessero in lotta coll’ultimo alito di vita. Chi saranno? E
l’interrogazione faceva rabbrividire. Forse saranno dei ladruncoli o dei
rivoluzionari o degli innocenti usciti dalle braccia della famiglia, rimasta in
casa a piangere la loro sciagura! E i veicoli della tortura scomparivano e
lasciavano le donne più avvilite di prima.
Questa campana! Si aspettava la campana
del soccorso, la campana che doveva far dimenticare ai cellularizzati la
smisurata intelligenza malvagia degli uomini, degli uomini che hanno per
idealità il male, la campana che consolava lo stomaco di chi mangia poco
e male. Fate presto, in nome del Signore. Spalancate il cancello, prendetevi la
corba delle vivande divenute fredde lungo la strada, divenute immangiabili
aspettando qui sul selciato due ore, tutto un secolo. Siate buoni, siate
caritatevoli con le povere donne trambasciate!
Il convoglio degli arrestati che veniva
verso il Cellulare a piedi suscitava in ogni seno un orrore indicibile. Non
poche donne erano state obbligate a chiudere gli occhi come quando si riceve
un’ondata di luce in pieno viso. Era una banda che falciava gli ideali di
redenzione più modesti. Sfilavano appaiati ai polsi come individui
usciti da un porcaio o da un sotterraneo, con le ragnatele sulle spalle, con
l’umidore nella gonfiezza sotto gli occhi, con i capelli irrigiditi in una
zuffa spaventosa. Erano laidi, stracciati, dilaniati dai patimenti. Circondati
da questurini, da carabinieri e dai soldati, il loro volto assumeva il colore
acceso degli aggressori di strada che stramazzano i viandanti a coltellate.
Alcuni, con gli abiti che non avevano perduta tutta l’eleganza e con la faccia
cadaverica fino alla fronte, davano l’idea degli insorti colti sulle barricate
colle mani odoranti la polvere.
Altri, a piedi nudi, coi gomiti
all’aria come le ginocchia, traducevano la loro vita grama di poveracci che
basivano sul marciapiede e stendevano la mano ai passanti,
Le donne si lasciavano commuovere.
Alcune singhiozzavano e dicevano che era meglio morire che vedersi trattati
come birbaccioni che avevano fatto del male. Altre si mordevano le labbra e si
scricchiolavano le dita per reprimere la sensazione che dava loro stille di
sudore e faceva loro pulsare le tempie dal disgusto e dalla furia.
Non mancavano più che cinque
minuti. La calca piegava verso l’entrata.
La prima fila, spinta dai nuovi venuti
che si cercavano un posto al centro tra le proteste generali, andava più
di una volta sul cordone militare che non si rompeva.
La ragazzaglia aveva dimenticato la
tensione dell’angoscia generale e si era abbandonata al chiasso, e le donne, le
più attempate, che si straccavano a stare in piedi, mormoravano con la
voce piagnolosa.
Proprio, non si aveva pietà per
le donne dei poveri prigionieri. Con tanta gente che soffre e con tanti
soccorsi, la direzione non s’era commossa. Continuava a ricevere alla stessa
ora, nelle stesse ore, come se nulla fosse avvenuto di straordinario.
Inzuccherate il veleno, o signori! Ci farete penare meno, ci farete! Non ci
voleva un gran giudizio per capire che bisognava far porta un po’ prima.
Pazienza! pazienza! pazienza! Sì, pazienza se si avesse avuto il buon
senso di mettere alla porta un cristiano che non strapazzasse tutti come tanti
servitori! Ma no! Ci avevano lasciato quell’anticristo di vecchio sciancato che
aveva l’anima nera con le povere donne.
Tutte le volte che si doveva passare
sotto un volpone di quella fatta ingrossava il cuore davvero. Era un secondino
ripugnante, col collo che si gonfiava come quello del serpente quando va in
collera, con la faccia ridotta a una grossa cipolla ammaccata. Bastava
spremerla per vederla colare di marcia. Dio non poteva dare del bene a questi
mostri verdi come
Anche quegli altri del soccorso erano
buone lane. Non sapevano dove stava di casa la buona maniera. Bastava non aprir
bene il canestro o avere dimenticato di fare la lista come volevano loro per
vederli dar fuori come vipere.
- L’ultima volta m’hanno mandata a casa
la figlia tutta piangente. Era uscita dalla coda per isbaglio. Si sa, una
povera tosa non può sapere i regolamenti. L’hanno mandata in fila con un
codazzo di rimproveri come se fosse stata la loro figliuola! Forconi! Non hanno
creanza, non hanno. Ci vorrebbe... Lo so io cosa ci vorrebbe. Acqua in bocca,
che i tempi sono tristi.
- A me mi è toccato il peggio.
Mi hanno lasciato il mio Alberto per ultimo perché non aveva la lista scritta.
Noi, povera gente, non si ha tempo di scrivere. Loro hanno un bel dire. Vorrei vederli
al nostro posto. La ragione volete che ve la dica io? Hanno la bocca larga come
quella dei coccodrilli e i denti in gola. Quella è
- Se ci fossero delle persone con due dita di testa ci
lascierebbero entrare senza farci fare anticamera e senza buttar all’aria i
cesti come se fosse roba rubata. Tirano fuori tutto, mettono le mani in tutto,
cacciano il risotto nel salame, la torta nello stufato, le ciliege
nell’insalata e l’arrosto nella minestra. Ci vuole dello stomaco a mangiare il
soccorso.
- Non ditelo a me, per amor del cielo, che
ho veduto quello che voialtri forse non avete veduto. Ho veduto al di là
del terzo cancello come si trattano i cesti. Non ne avete idea. Non ci
sarebbe che la morte che potrebbe farmi dimenticare il disgusto che ho
provato in quella mattina che ho assistito al tanto scempio. Credetelo, in
certi luoghi si ha più considerazione per i torsoli che si gettano ai
maiali. Vuotavano i canestri come se fossero stati sacchi di patate.
Rovesciavano sul tavolo tazzine, piatti, scodelle, tegami, stoviglie, senza badare
se il condimento dell’insalata andava sul minestrone o se la marmellata si
versava sull’arrosto. Erano sgarbati che facevano venire
- I sigari o il tabacco, pazienza. Se non
si fuma, non si crepa. A me è andato perduto il cesto, una volta dopo
l’altra, per due
Finalmente! I primi rintocchi
rovesciarono la folla verso il banco delle guardie. La gente sgomitava, si
sbuttonava, si riversava tenendo in alto i canestri, protendendo le borse e i
fagotti, pregando di accettare la corba e supplicando gli agenti a essere
buoni, che erano lì da un pezzo con la roba gelata.
Le guardie non avevano tempo da
ascoltare storie. Prima della una dovevano verificare circa mille soccorsi.
Prendevano quelli che capitavano loro alle mani, senza guardare e senza
commuoversi. Chi non rispondeva sollecitamente alle domande, veniva lasciato
col pranzo in mano. Ogni donna era obbligata
- Avete fatta la lista?
E il braccio di chi non poteva farla
vedere, veniva scansato e buttato dall’altra parte.
Alla una pomeridiana, le donne giunte
tardi o rimaste tra quelle che non avevano potuto consegnare i fagotti,
piangevano dirottamente.
La campana aveva chiusa la consegna e la
campana non aveva budella.
Era un grande dolore rifare la strada
con il mangiare, dopo aver fatto tanta fatica e avere speso tutto quello che
c’era in casa per consolare i poveri cristi in prigione.
- Aveva ragione Antonia di dire che era
una grande punizione questa che Dio ci aveva mandato!
La mia cella è una fornace. Ho
il sole sulla muraglia esterna dal sorgere al tramonto del sole. Subisco una
trasudazione che mi snerva. Preferisco però l’isolamento alla compagnia
della stanza intermedia. Coi miei compagni sarei divenuto uno scemoide. A poco
a poco il loro linguaggio antintellettuale e trivialmente sbracato sarebbe
divenuto il mio. In otto giorni mi ero già abituato a passeggiare
sull’ammattonato fracido dei loro sputacchiamenti.
Gli habitués del carcere
manifestano ogni giorno, alle finestre, i loro rancori contro i cosiddetti
rivoluzionari. La polizia ne ha fatte delle retate e l’autorità
carceraria ha dovuto affollarli nelle celle. Ci accusano di essere gli autori
delle loro disgrazie. Dicono che i giudici, in conseguenza dei tumulti, sono
diventati eccessivamente severi. Coloro che in tempi ordinarii se la sarebbero
cavata con delle settimane o dei mesi, ritornano al Cellulare con degli anni di
lavori forzati e di sorveglianza.
- La sorveglianza - disse uno di loro -
conduce al domino (domicilio coatto).
Il capoguardia è uno sbilucione
con tanto di pancia. In questo momento è impossibile dire se egli sia un
burbero con del cuore o se sia in lui l’anima dell’aguzzino. Perché il
personale di custodia è come invaso dalla paura di riuscire mite. Parla
a monosillabi, ha una voce che sente del carceriere e preferisce dire di no ai
detenuti che gli domandano qualche cosa. Ieri, dopo tanta insistenza, ho
ottenuto il permesso di tagliarmi le unghie vellutate e lunghe. Ma ho
dovuto tagliarmele alla presenza di questo omaccione che rintuzza ogni
desiderio col regolamento. Il suo ufficio è un bugigattolo in faccia
all’ufficio di matricola. È in esso che ho avuto il primo colloquio. Il
capo metteva la sua faccia tra la mia e quella del mio amico. Ci teneva addosso
gli occhi semichiusi e ci interrompeva tutte le volte che tentavamo di parlare
degli avvenimenti e di scambiarci notizie che sapevano tutti.
Gli ho ridomandato una cella a
pagamento per avere il chiaro alla sera, la materassa sulla branda e un
tavolino con la scranna.
- Ce ne sarebbero così delle
persone che vorrebbero questi comodi! Abbiamo faticato a trasformare una cella
a pagamento per don Davide Albertario, venuto qui il 24. Con un prete non
potevamo fare diversamente. Con le guardie occupatissime siamo anzi obbligati a
mandarlo al passeggio solo per impedire che qualche mascalzone lo insulti. Si
sa, il Cellulare non è un collegio.
È suonata la campana che
annuncia la distribuzione del pane. I prigionieri la chiamano la «voce di Dio».
È un minuto di raccoglimento. Le finestre diventano quelle di un
edificio disabitato. Non si sente più un’anima. I detenuti sono all’uscio ad aspettare che si
apra l’usciuolo con la parola che li invade di piacere: «Pane»! Il distributore
che è uno scopino la ripete a ogni pagnotta che passa per il buco. Lo
ricevo anch’io, ma lo passo, colombando, al delinquente vicino alla mia
cella che ha sempre fame. È un ragazzo di diciassette anni, scolorato
come un onanista, e già recidivo. L’ultimo furto lo ha consumato nello
studio del capomastro suo padrone. Egli si aspetta il dibattimento di giorno in
giorno.
La vita carceraria è fatta per
imbestiare le persone più buone e più altamente educate.
Dall’oggi all’indomani si passa dal finimento da tavola alla scodella di
terraglia del cane dell’accattone orbo. Non c’è più biancheria,
non ci sono più posate, non ci sono più cristalli, non ci sono
più tondi, più tondini, più fruttiere, più
portampolle, più insalatiere, più portastecchi. Non c’è
più che il maiale con un pezzaccio di legno scavato malamente in fondo.
Come, o signori, ma io sono un
inquisito, sono una persona che deve essere creduta innocente fino all’ultima
parola della Cassazione, e voi mi punite mettendomi in mano uno scopino
disfatto e laido perché mi scopi la cella, e voi mi obbligate, con le mie mani
abituate ai guanti, a portare fuori e dentro la mia tana il vasone da notte
come un latrinaio qualunque! No, accidenti, no, mi ribello! capite, mi ribello!
Voi non siete autorizzati a punirmi. Voi dovete rispettare in me il cittadino
anche se fossi uno squartadonne.
Ho perduto. Mi è toccato proprio
scopare e mettere fuori le porcherie con le mie mani. La guardia al mio no! di
stamane se n’è andata chiudendomi l’uscio sui piedi. Ella mi avrebbe
fatto marcire nella puzza e nel sudiciume. Potevo ringraziare Dio - diceva -
che non mi aveva fatto rapporto. I superiori mi avrebbero convinto che avevo
torto, con dei giorni di pane e acqua.
Sia fatta la volontà degli
altri. Ma se divento io direttore generale delle carceri! ....
Noiosi! gente noiosa! Sono entrati per
la seconda volta i battitori e mi hanno stordito. Battono i ferri delle
finestre con un gusto e con dei finali che spaccano
Di che cosa avete paura? Come è
possibile che io possa segare o schiantare i bastoni di ferro se mi avete fatto
svestire e se vi siete assicurati che non è a mia disposizione neppure
un chiodo? Se le vostre guardie non sono corrotte, voi potete smettere di
sciupare il tempo e il personale per rintronarmi le orecchie!
Mi è rimasto in mano il manico
del chiccherotto e la terraglia è andata in frantumi. È come se
avessi rotto una caraffa di cristallo finissimo. C’è tutto il Cellulare
sottosopra.
Il secondino di servizio guardò
i cocci con aria di sospetto, fece un’annotazione e richiuse l’uscio. Rividi lo
stesso agente con un sottocapo, il quale entrò a dare un’occhiatina ai
frantumi.
- Come avete fatto a romperla?
- Cadde. Me ne faccia dare un’altra a
mie spese.
- Uhm!
Stamattina sono stato chiamato ad
«udienza». Tra le sette e le otto il direttore viene al centro della carcere;
va in una stanza che partecipa della rotonda lambita dagli esagoni e dà
«udienza»
..
Coloro che si sono fatti iscrivere e
coloro che sono stati iscritti a loro insaputa, escono dalla cella al suono
della campana che chiama a «udienza», discendono e si fermano sulla punta del
raggio, dove aspettano che Minosse vada in sedia.
È una mezz’ora che l’ho veduto.
Il direttore era seduto a un tavolo di
cucina, con la faccia sullo sfogliazzo e le braccia sul tavolo come pesi in
riposo. Con una mano faceva dei segni rossi in margine al nome e con l’altra
andava alla ricerca della pagina.
- Come avete fatto a romperla?
- Mi restò il manico in mano.
Mi entrò negli occhi come per
precipitarsi negli abissi della mia coscienza e risalirne con la bugia in mano.
- Andate! mi disse.
Ho saputo dopo che ero stato condannato a pagarla. Non sono i
venti o i trenta centesimi che mi fanno sprecare l’inchiostro.
Ma io domando se è giustizia di
farmi pagare un chiccherotto che mi si è dato slabbrato e pieno di crepe
e che aveva servito a chi sa quanti detenuti. Vi pare, o signor direttore,
è giusto che un poveraccio sconti col digiuno un avvenimento che
può avvenire a voi, alle vostre figlie, alla vostra signora, alla vostra
serva, a tutti coloro che bevono?
Mi tocca proprio dare dell’animale
all’avvocato Guglielmo Gambarotta. È qui nel mio raggio, sullo stesso
piano, ha la cella piena di volumi, mi ha lasciato supporre che mi avrebbe
fatto fare un’indigestione di libri e poi mi tiene qui a penare e ad aspettarli
ad ogni piede che passa! Che la guardia non abbia voluto prenderli? Ma e la
«colomba», non ha ancora imparato a «colombare»?
Non ho ancora finito di scrivere
l’interrogazione che sono stato chiamato alla spia da una voce sconosciuta.
- L’avvocato Gambarotta è
uscito. Lo saluta.
- Chi siete?
Nessuna risposta. La sua uscita mi
lasciò fantasticare. Che si sia incominciata la scarcerazione degli
innocenti?
Il passeggio è monotono.
È come un’altra cella scoperchiata. Il gruppo dei passeggi è di
venti raggi che fanno capo a una rotonda di mattoni, circondata di pietre,
sull’alto della quale è la guardia seduta che sorveglia i detenuti. In
direzione opposta i raggi si slargano fino a far posto a una filata di otto
uomini, l’uno a gomito dell’altro. Il cancello dalla parte più larga del
passeggio ha un lastrone di ferro che impedisce di vedere il viso di chi passa.
I muri divisori sono alti quattro metri, così che i passeggiatori di un
passeggio non possono vedere, né capire quello che dicono, i passeggiatori di
un altro.
In venti raggi passeggiano dagli
ottanta ai cento individui. Una volta che i raggi sono popolati, la guardia
discende la scaletta che conduce alla sua altura con una manata di fidibus, li
accende e li distribuisce, di raggio in raggio, ai fumatori.
- Fuoco!
Chiusi tra queste pareti vi accorgete
subito che il detenuto che possegga un pezzo di matita lascia traccia della sua
passeggiata, quantunque sia proibitissimo insudiciare o scrivere sui muri. In
questi segni grafici io non vedo né il grafomane, né il delinquente. Vedo
semplicemente l’individuo che dice sul muro quello che non può dire su
un pezzetto di carta. Supponete che un condannato di ieri possa credere che i
suoi amici, oggi o domani, passeranno per lo stesso passeggio. Non
esiterà un minuto a scrivere: «Amici, salute. Condannato a 14 anni e
otto mesi. Uscirò il 1913. Coraggio! Salutatemi
Si è detto che la muraglia
è il libro della canaglia, perché vi si leggono ideacce che non possono
nascere nel cervello dei galantuomini. È dubbio. Io vorrei vedere
costoro per qualche anno nello stesso ambiente. A nessuno di noi, liberi, viene
in mente di scarabocchiare sui muri i «morte al boia!» State in prigione
e vi vedrete un giorno o l’altro trascinati a manifestare il vostro odio contro
la spia che vi avrà denunciato, o al giudice per salvarsi, o alla
guardia per ingraziarsela, o al direttore per ottenere qualche favore. Le
stesse guardie carcerarie, le quali sovente sono vittime dello spionaggio,
partecipano di questo sentimento che erompe e trova il suo sfogo sulle muraglie
delle casematte, degli ergastoli, dei bagni di tutto il mondo. In Francia
i delatori sono perseguitati sulle muraglie come in Italia.
- «Mort aux
vaches!»
Ci è toccata la prima ora di passeggio. Si esce volentieri
alla mattina, specialmente quando si ha avuto una notte fosforescente come
quella passata. Non sarebbe mancata che l’imprudenza di un solfanello per
metterci in mezzo alle fiamme. I miei compagni sono quelli di ieri.
Passeggiavano col piacere delle persone
che godono mezzo mondo a sentirsi in mezzo all’aria fresca. Il detenuto che ha
i capelli ritti come setole piantate nella testa, spingeva innanzi la faccia
per sentirsela alitare sugli occhi. Andavamo in su e in giù fumacchiando
e sparlando della direzione.
Un compagno ci raccontava che in un
libro, che gli aveva prestato il cappellano, era detto che al bagno di Tolone i
forzati avevano due arie di un’ora ciascuna. Qui invece ci si lesina
anche quella poca ora regolamentare.
Col sistema della direzione che ci
conta l’ora dal primo tocco della campana d’uscita al primo tocco della campana
d’entrata, il prigioniero del Cellulare non sta mai a passeggio più di
cinquanta minuti. Non c’è errore e ve lo dimostro. Siamo in un raggio di
cento persone. Ci sono due
La barba lunga mi ha sempre fatto
schifo. Al largo me la faccio radere una volta al giorno. In questo periodo di
Bava Beccaris ho dovuto lasciarmela crescere quattordici giorni. I peli mi
pungevano come tante pagliuzze.
Adesso sono sbarbato e non mi pento. Ma
vi so dire che ho passato un brutto momento. È entrato nella mia cella
un uomo che mi pareva avesse gli occhi lucidi del bevitore. Il suo alito
puzzava di grappa e le maniche della sua giacca sucida erano lastricate del
pattume del mestiere. A ogni movimento sputava in terra la saliva negra della
cicca che egli rivolgeva come un boccone sotto i denti. Mi ha messo al collo
uno straccio sporco come un cencio di cucina. Gli aveva servito per sbarbare un
raggio intiero. A ogni rasoiata sudavo come sotto un’operazione chirurgica.
Avevo sempre paura di vedermi cadere ..una sleppa di carne
insanguinata. Sbatteva sul pavimento, che avevo reso lucido con le mie braccia,
le ditate della spuma coi peli che si era accumulata sul suo rasoio. Il suo
modo era spiccio. Dalla eminenza dello zigomo passava per la guancia come una
strisciata di rasoio.
Lascia peli dappertutto, specialmente
dove il rasoio non può scorrere liberamente, come nella pozzetta del
mento.
Mi brucia la pelle della faccia come se
fosse stata scorticata e ho ancora per il naso l’odore putrilaginoso del suo
sapone orribile.
Maggio 1898
So quanto deve avere sofferto in una
stanza con degli altri di un’altra condizione. Ma non ho potuto aiutarla. Dalla
sua entrata sono avvenute cose incredibili. Il personale di custodia è
terrorizzato. Noi scrivanelli non abbiamo più modo di entrare nei raggi
dei politici. L’Astengo se n’è andato. Era un direttore umano. Il suo
delitto è di avere permesso ai più grossi detenuti politici di
pranzare insieme. Siccome non ci sono locali sufficienti e siccome anche nella
cella i prigionieri sono appaiati per mancanza di spazio, così non si
capisce il rigore della direzione carceraria di Roma. Provvisoriamente ha preso
il suo posto l’ispettore De Luca. È uomo di cuore. Se ce lo lasciano non
abbiamo perduto nulla. Ha fatto migliorare il vitto e non punisce che quelli
che vogliono proprio essere puniti.
È la prima volta che mi capita
di vedere una testa direttiva che riconosce i diritti dei carcerati. Di solito
i direttori dei nostri giudiziari sono un po’ come i direttori delle caserme
dei forzati in Siberia, descritti dal Dostoïewsky
- un autore che non mi lascia mai uscire dalla tristezza. Individui che hanno
sempre bisogno di passare sul regolamento per schiacciare qualcuno o levare
qualche cosa a qualcun altro.
Ho ricevuto la sua noticina. Si fidi
pure. È un uomo che per me andrebbe nel fuoco. La guardia che sorveglia
la sua cella non è cattiva, ma dice tutto quello che avviene nel suo
raggio. È dunque pericolosa. Non ci sono stanze a pagamento a pagarle un
occhio. È inutile strepitare. Procuri di adattarsi. Sono momenti
eccezionali. Il suo pranzo è andato per due giorni in qualche altra
cella. Si consoli che lo avrà mangiato un povero diavolo. La confusione
è inevitabile. C’è una media di settecento soccorsi al giorno. Si
raccomandi alla madonna perché non le capiti qualcosa di peggio. Va bene, va
bene. Dia sempre retta ai miei suggerimenti. Io la so più lunga di lei e
non lo dico per vantarmi. Lo dico perché la mia esperienza è più
lunga della sua. Ascolti attentamente. Un buon prigioniero deve essere sempre
pronto a subire
Sugli arrestati di maggio non posso
giovarle molto, perché una volta registrati noi non abbiamo più alcuna
comunicazione con loro.
Il giorno sette, cioè sabato,
eravamo qui che aspettavamo, di minuto in minuto, gli arrestati della giornata.
Ma non abbiamo registrato che quattro imputati di delitti comuni, completamente
estranei ai tumulti. Non ricordo bene la data dei primi rivoltosi capitati al
Cellulare. So che i primi sono entrati alle sei ore mattina, la seconda o terza
giornata che fosse dei tumulti di Milano. Erano gli arrestati di Porta
Ticinese. Sono giunti in uno stato da far pietà ai sassi. Erano stati
trattenuti, nella caserma di S. Eustorgio, più di quarant’ore colle
manette ai polsi. È un po’ troppo. Non siamo mica in Russia. La mia
speranza era il dubbio. Non volevo credere che ci fosse gente con tanto di pelo
sullo stomaco. Ho interrogato coloro che li avevano accompagnati al Cellulare.
Il fatto è vero. Le autorità militari, senza locali adatti,
avevano dovuto assicurarsi dei barricatisti con le manette. Poca gente di buono
e fra loro parecchi già noti ai nostri registri.
Il grosso convoglio degli arrestati
è stato quello di domenica. Parlo sempre delle quattro giornate. Era
accompagnato dal delegato Birondi. Egli entrò nella nostra stanza smorto
che faceva paura. Ci si diceva che aveva sofferto orribilmente a passare per le
vie con tanti arrestati e cogli ordini severi che avevano soldati e agenti di
P. S. Un molla! molla! di qualche matto al largo poteva far nascere chi
sa che tragedia. Tra gli arrestati c’erano il deputato De Andreis, il direttore
dell’ltalia del Popolo, l’avvocato Federici, Valentini, ex direttore
della Sera, Ulisse Cermenati dell’ltalia del Popolo e il
professore Gilardi del Secolo.
Lunedì ho registrato gli
onorevoli Turati e Bissolati e
L’avvocato Leonida Bissolati, direttore
dell’Avanti!, parla con la grazia di una signora altamente educata.
È tutt’assieme una faccia intelligente ammantata di un’ombra spirituale.
So che ha tradotto Carlo Marx con un suo amico cremonese. Ma non ho mai potuto
leggerlo. Non c’è ancora nella nostra biblioteca. Se avrà
occasione di vederlo me lo saluti tanto e gli dica della mia simpatia per lui.
La dottora venne registrata dopo. Io
non l’ho veduta. Ma mi s’è detto che essa è venuta qui in
vestaglia. È stata arrestata alle cinque del mattino in casa sua e non
le si è dato tempo neppure di acconciarsi alla meglio. La sua guardiana
mi ha raccontato che la prima cosa che fece in cella fu di accendere una
sigaretta. Ho saputo che è una fumatrice instancabile.
È avvenuto quello che doveva avvenire.
Coi continui arresti non sappiamo più dove mettere gli arrestati. Ieri
eravamo 1048. Il numero eccessivo ha obbligato il direttore a ficcarne,
parecchi, tre per cella, coi pagliericci in terra. Fortuna che non fa troppo
caldo. L’ultimo pesce grosso che registrai fu don Davide Albertario. È
alto, dalle forme erculee. Venne da San Fedele con una comitiva di venti
individui della peggior specie. Quasi tutti recidivi. Per impedire agli
screanzati di dirgli qualche insolenza, il direttore lo manda al passeggio
solo. Mangia bene e riceve il pranzo e la colazione da una trattoria esterna.
Fuma anche lui come un turco. Dopo alcuni giorni gli concessero, come ai
deputati e ai giornalisti, carta, penna e calamaio. Scrive tutto il giorno ed
è sempre in nota per della carta. Deve essere un grafomane.
Domenica si sarà accorto che
diceva messa un’altra voce. Il cappellano Enrico Villa è stato sospeso e
non può più mettere piede nel carcere.. Al suo posto officiava un
frate. Lei sa che io sono religioso e può darsi che pecchi d’indulgenza.
Ma credo che sia impossibile trovare un cappellano come don Enrico. Era un
sacerdote che adempiva al suo ministero con entusiasmo. Lo si vedeva andare e
venire come il moto perpetuo. Appena uno era in cella, andava a trovarlo, a consolarlo,
a incoraggiarlo. Non lasciava mai alcuno senza libri e diceva a tutti parole
che aiutavano a tirare innanzi la vitaccia del cellularizzato.
Il nuovo direttore è tra noi
come un flagello. Non dissimula. È una sovrapotenza assoluta, arricchita
dalla funzione di punire. È in lui come una spaventevole rettitudine.
Respira il dolore degli altri come una donna virtuosa la spiritualità
dell’incenso.
La sua vanteria è di essere il
direttore che ha fatto mangiare, come si esprime lui, più cella di
rigore ai detenuti di tutti i direttori d’Italia. Le guardie che vogliono
entrare nelle sue grazie devono dargli ogni mattina prova del loro zelo. Non si
sono mai visti tanti puniti a pane ed acqua come in questi giorni. Se qualcuno
si lamenta dicendo che la sua infrazione non è di quelle punibili col
regolamento, il direttore gli risponde, in modo piuttosto brusco, che il
regolamento interno del carcere lo fa lui, perché ne è il giudice e il
responsabile.
Il mio compagno all’ufficio di
matricola è stato castigato stamane con dieci giorni di camicia di
forza. La sua mancanza era grave. Aveva dato uno schiaffo a un collega che lo
aveva accusato di poltroneria in questi giorni che non abbiamo avuto tempo
neanche di dormire! Era qui con me da diciannove mesi. Lavorava come un negro
ed era forse, tra noi, il più intelligente. Dopo un semestre di
tirocinio gratis il suo «stipendio», per un lavoro di diciotto ore sulle
ventiquattro, era di dodici lire il mese. Aspetti
La camicia di forza è di tela
grossolana come quella delle brande dei soldati e va giù fin quasi alle
ginocchia. Gli occhielli per stringervi il condannato al supplizio corrono per
il dorso da una estremità all’altra. Le maniche non hanno uscita per le
mani. Il supplizio maggiore è intorno al collo. È una tela rigida
che lo sega. Se le guardie incaricate di chiudervi l’individuo non sono umane,
la camicia di forza diventa una vera tortura. Io credevo di non arrivare alla
fine. Vi respiravo con una fatica rantolosa e lo stringimento mi dava una
molestia che mi faceva impazzire. Dopo qualche ora passata con le braccia
legate sulla schiena, come Gesù Cristo, diventai furioso. Gridavo, mi
rotolavo per il suolo della cella buia e sotterranea con degli sforzi per
liberarmi dal camiciotto che mi dava un tormento spasmodico, ma nessuno veniva
a calmarmi o a vedermi. Non fu che il sonno che mi diede un po’ di requie.
Molti dei condannati al camiciotto che sopprime ogni movimento, implorano la
commutazione del castigo. Preferiscono un periodo più lungo di camerella
con pane e acqua alla tela che pigia le carni su se stesse con intendimenti
assassini. Ma è difficile che si riesca ad ammansare i direttori. La
clemenza non è il loro forte. Ho conosciuto un detenuto, imbestialito
dagli spasimi atroci, che portò via coi denti un pezzo del tavolato sul
quale doveva dormire.
La maggioranza tace. Essa soffre il
supplizio senza mandare un lamento. Ci sono individui che si farebbero
attanagliare piuttosto che domandare perdono al loro carnefice, come ci sono
nature che possono resistere a tutte le pene dell’inferno.
Il regolamento è meno scellerato
dei loro interpreti. Esso dà dei riposi anche alla camicia di forza e
ingiunge che dopo quarantotto ore consecutive rimanga inoperosa per
ventiquattro.
Le infrazioni di poco conto, come le
infrazioni al silenzio, sono punite secondo il sistema del direttore.
Il processo dei ventiquattro è
stato chiamato dei giornalisti per fare del lusso([2]).
In verità, i giornalisti
rappresentavano
- Come, che c’entro io con costoro?
Si conobbero, o almeno si videro, alle
tre del mattino del
Romussi pareva un po’ più
ingrigiato. Era ilare, salutava gli amici e presentava i polsi al suo
ammanettatore con la faccia illuminata dal sorriso. I carabinieri giovani che
adempivano a questo servizio erano più spietati dei vecchi. Continuavano
a dare dei giri anche quando si diceva loro che i polsi facevano sangue.
Don Davide era conosciuto da tutti, ma
lui, personalmente, non conosceva che l’avvocato Romussi, Valera e Zavattari.
Non si capiva se era seccato in mezzo a tanti ignoti che lo guardavano come una
bestia rara. Il capitano lo squadrò dal capo ai piedi, gli girò
intorno col fare di un domatore di belve, e si voltò dall’altra, parte
percotendo leggermente lo stivalone. Si capiva che l’aveva su coi preti o che
ci aveva gusto a vederne uno nelle peste.
Don Davide pareva imbronciato.
Rispondeva al buon giorno di qualche amico con la voce grossa di chi è
in collera con se stesso.
La sua veste talare ambrosiana e il suo
paltò di panno nero sentivano il bisogno di parecchie spazzolate.
Indossava la veste, cinta dalla fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci
tra carabinieri e soldati di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad
arrestarlo. Il suo paltò polveroso era stato buttato nell’angolo della
cella dal momento che vi era entrato.
L’avvocato Bortolo Federici, noto a
molti come repubblicano, attirava l’attenzione di parecchi per il suo cappello
Oberdan nero, sopra un «completo» caffè scuro. Zavattari era abbattuto,
dimagrato, colle guance infossate e biancastre e con le mani che tremavano come
se avesse avuto
Smontarono nel cortile ducale pallidi
come cadaveri. Il primo a discendere fu del Vecchio, un omettino che nessuno,
prima dell’accusa, aveva sospettato che fosse un leone capace di arringare la
folla sulle barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non sapeva trovare
una parola e non seppe trovarla neanche al processo. Accompagnati da molti
carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di soldati a salire per le
scale anguste, al primo e al secondo piano, disperdendoli per gli stanzoni
anticamente occupati dalla Corte degli Sforza. Lungo la ringhiera del primo
piano, avevano messo Chiesi, Seneci, Cermenati, Federici, Valera, Lallici,
Ghiglioni, Romussi. Al secondo piano, Lazzari, Valsecchi, Zavattari, qualche
altro socialista, parecchi anarchici e il direttore dell’Osservatore
Cattolico, il quale occupava
I buchi al centro degli usci dei
ventiquattro processandi permettevano di andare cogli occhi negli stanzoni in
faccia, gremiti di arrestati. Davano a volte l’impressione di un immenso lazzaretto
pieno di colerosi, e a volte di lunghi corridoi affollati di insorti che
agitavano entusiasticamente i cappelli, i fazzoletti e le
mani.
All’uscio di ciascuno dei ventiquattro,
era una sentinella. Al minimo rumore che la seccava, metteva la bocca al buco e
diceva:
- Eh, fate silenzio o vi mando dentro
una pallottola!
Più di uno degli arrestati, per
proteggersi dalla «pallottola» ,, è stato
obbligato a far chiamare il capoposto. Don Davide, che non ha mai avuto paura
di farla a pugni con coloro che lo hanno insultato e come uomo e come prete,
nella sua stanza si sentiva a disagio. Temeva sempre che un Misdea qualunque o
una sentinella che esagerasse nella consegna lo allungasse cadavere. Una sera,
mentre passeggiava fumando un virginia, una sentinella, che doveva essere
anticlericale, continuava a perseguitarlo dalla spia dicendogli di non
fare fracasso, di buttare via il sigaro che era proibito fumare e di andare a
letto se non voleva che ve lo mandasse lui.
Il sacerdote, che non aveva angolo che
non fosse visibile alla bocca di fuoco, venne preso da una specie di panico che
lo obbligò a chiamare ad alta voce il capoposto, il quale, per fortuna,
era un chierico.
I ventiquattro, dopo dieci ore di
processo, ritornavano in camera sfiniti o stracchi morti, mangiavano un boccone
e si buttavano sul pagliericcio con la speranza d’addormentarsi subito e
dimenticare ciò che avevano sentito nella giornata. Le venti o trenta
sentinelle, alla distanza di pochi passi l’una dall’altra, alle otto precise incominciavano
a gridare con delle voci sgangherate: Sentinella all’ertaaa! - All’erta stooo!
Sentinella all’ertaaa! - All’erta stooo! - Sentinella all’ertaaa! - All’erta
stooo! - Sentinella all’ertaaaaaaaa! - all’erta stoooooooo! - Sentinella
all’ertaaaaaaa! - All’erta stooooooooooooooooo!
Una voce seguiva l’altra con degli o
e degli a larghi che spesso morivano nell’aria come un’agonia e
talvolta si rompevano con un fracasso che metteva sottosopra il cervello dei
detenuti che non potevano dormire. E dopo dieci o quindici minuti di riposo,
ricominciavano a gettare le voci per lo spazio più sgangherate di prima.
Gli accusati si alzavano al suono della
campana con le occhiaie della gente che patisce d’insonnia. Il direttore del Secolo,
che non può dormire che al buio e in luogo tranquillo, tormentato
dalle grida degli incappottati, si voltava e si rivoltava anche quando aveva
preso un po’ di solfonal o di trional.
Il Chiesi, che non sa leggere in letto
perché gli si chiudono subito gli occhi, in Castello aveva dei momenti di
disperazione perché non gli si concedeva il riposo notturno. Ulisse Cermenati,
che sa stare ritto sulle gambe, andava al processo dinoccolato e pieno di
sonno, e Federici raccontava agli amici che accendeva, spegneva e riaccendeva
il lume con dei tentativi di passare la notte leggendo.
Si credeva che il processo fosse ancora
più sommario di quello che è stato. E ognuno che aveva qualcosa
da dire si era alzato nell’ultima notte prima dell’alba, col permesso del
capoguardia, a buttar giù qualche nota. Alcuni dei ventiquattro
avrebbero voluto che si fosse andati al Tribunale col proposito dell’on. A.
Costa, quando era tra gli arrestati al Cellulare. Lasciarsi trascinare dinanzi
il Tribunale di guerra senza dire una parola.
Ma quest’idea non ha potuto prevalere,
un po’ perché non si conoscevano tutti, un po’ perché nessuno poteva comunicare
coll’altro e un po’ perché gli accusati appartenevano a diversi partiti in
lotta fra di loro. Valera, andata a male la proposta del silenzio, credeva che sarebbe
stato utile, per suo conto, di servirsi del sistema di O’ Donovan Rossa,
cioè di guadagnar tempo e provare, con la lettura dei documenti
sparsi per i libri e per i giornali, che l’Italia era gravida di socialismo.
Ma il tampone presidenziale gli
è stato messo in bocca tante volte che dovette sedere come un uomo
letteralmente imbavagliato.
Il sistema di O’ Donovan Rossa, il
quale, tra parentesi, non era ancora il capo dei dinamitardi, era di valersi
del Tribunale per far conoscere al popolo la condizione del suo paese e
protrarre il giorno della sentenza con la lettura della storia irlandese
attraverso gli ottantatrè Acts o leggi eccezionali, che avevano
coercizzata la nazione per punirla di domandare con insistenza la
libertà che avevano gli Inglesi.
Dopo tre giorni il giudice tappò
la bocca al feniano, ma il suo sistema divenne un’arma poderosa nella Camera
dei Comuni, ove i parnellisti costringevano i deputati coercizionisti ad
assistere a delle sedute parlamentari che duravano perfino quarantadue ore e
impedivano ai ministri, per delle settimane e dei mesi, di far votare i
bills che dovevano imbavagliare gli Irlandesi.
Don Davide, che era sempre stato tenuto separato dagli altri e che
anche al Cellulare si mandava al passeggio da solo, si era preparata
un’autodifesa di circa venti o venticinque fogli da protocollo, per provare,
con grande semplicità, la sua innocenza. Cominciava dal dire di ignorare
il perché era stato arrestato, carcerato e condotto al Tribunale, e tirava via
affermando che, né direttamente, né indirettamente, aveva mai preso parte ai
tumulti.
«Non solo, diceva egli in terza
persona, né indirettamente, né direttamente non ha preso parte a tumulti, ma
sempre in vita sua usò dello scritto e della parola per l’ordine nella
religione, maestra di rispetto, fonte di civiltà e di proprietà.
Lo stesso avvocato fiscale che lo incolpa di fini speciali, confessa di
non sapere il perché lo si perseguita. Fini speciali? Dunque, non connivenze
con altri partiti, ma un’azione solitaria. Quale? Repubblicana, no; socialista,
no; dunque? Distruzione dell’Italia attuale e ricostituzione del poter
temporale del papa; questo, suppone l’accusatore. Ora, questo è assurdo,
perché don Davide Albertario in proposito ha per programma di attenersi a
quello che gli altri poteri, l’ecclesiastico e il laicale, concertino tra di
loro.
«Domando dunque, concludeva don Davide,
che mi si lasci libero al mio lavoro benefico, al mio altare, alla mia
famiglia. Sono cittadino e sacerdote e scrittore che ha fatto il suo dovere.
Non rapitemi
Romussi, che, come tutti sanno,
è un lavoratore instancabile, si era alzato alle due antimeridiane a
gettar giù cartelle sopra cartelle, dolendosi, di tanto in tanto, di non
avere avuto con sè la collezione del Secolo per poter documentare
la sua vita di giornalista.
Ciononostante, scrisse un mucchio di
cartelle che sono state distrutte o perdute.
Al Castello vi doveva essere un
raccoglitore di manoscritti. Perché di tanto in tanto si sentiva qualcuno dei
ventiquattro lamentarsi di avere smarrito dei foglietti pieni delle idee che
intendeva svolgere al Tribunale militare. Don Davide fu il più
sventurato di tutti. Perché, oltre all’avere sciupata la fatica per
l’autodifesa, trovò che una mano ignota gli aveva involato dalla valigia
un manoscritto ch’egli aveva preparato nelle lugubri giornate al Cellulare e
che intendeva pubblicare subito dopo
La cosa più noiosa durante gli
otto giorni di processo erano le manette. A tutti noi si mettevano i ferri
quando si usciva dalla stanza per andare al tribunale nel cortile della
Rocchetta, quando dal tribunale si era accompagnati nella stanza a far
colazione, quando ci si riconduceva sul banco degli accusati e quando ci si
riconsegnava al secondino per essere chiusi in prigione fino all’indomani alla
stessa ora. Lungo il passaggio tra un cortile e l’altro, v’era sempre folla. In
quello ducale, era una siepe di ufficiali che amavano vedere da vicino queste
persone pubbliche che avevano scritto delittuosamente nel giornale socialista,
repubblicano, radicale, liberale, cattolico. In quello della Rocchetta, era la
moltitudine, composta di curiosi, di amici, di preti, di soldati, che sgomitava
per mettersi in prima fila a vedere, salutare, commuoversi, piangere. Si
vedevano persone che si tergevano le lagrime col dorso della mano, persone che
agitavano il cappello per dir loro: coraggio! e persone che levavano in alto le
mani giunte per tradurre la loro desolazione.
La prima volta che riattraversavano il
cortile della Rocchetta per salire a colazione, vi fu un fotografo che sentiva
indubbiamente la prepotenza della funzione del giornalismo moderno di
riprodurre la vita sociale illustrata. Si staccò da un capannello e si
presentò colla sua macchina sullo stomaco dinanzi i primi due dei
ventiquattro, i quali erano il direttore del Secolo e il direttore dell’Osservatore
Cattolico colle mani legate assieme. Romussi si mise un braccio attraverso
il naso e don Davide si tirò il cappello sugli occhi voltandosi di
fianco - entrambi per tradurre la loro indignazione e per impedirgli di
esercitare la sua professione. Anche adesso che correggo le bozze mi duole di
questo loro scatto antigiornalistico. Perché ci hanno soppresso uno dei
documenti più preziosi delle giornate di Bava Beccaris. Se fossi
direttore di giornale vorrei che tutti i miei corrispondenti avessero l’audacia
del fotografo giornalista. Allora sarei sicuro che il mio quotidiano sarebbe il
primo quotidiano d’Italia.
Tra la folla degli avvocati accorsi a
dare l’ultimo addio ai condannati, si distingueva il Majno che camminava con
l’ombrello in una mano e il cappello nell’altra, salutando dappertutto: «Addio,
Chiesi, ciao, Federici, coraggio, Romussi, sta allegro, Valera, arrivederci
presto, don Davide, ecc.».
Nei suoi addii era lo strazio di un
avvocato e di un amico reso impotente dalla legge marziale.
Questa traversata fu un attimo solenne,
indimenticabile che fece piangere più di uno dei diciannove che
ritornarono in camera carichi di mesi e di anni.
La Kuliscioff non ha mai partecipato a
questi strazi e a queste consolazioni, perché la sua residenza rimase sempre al
Cellulare. Ne veniva e vi ritornava in brougham, vestita di nero come un
funerale.
Il suo contegno è stato di donna
equilibrata. Nelle poche parole che le si permise di dire, non si occupò
che delle sue idee marxiste. Il resto sembrava per lei estraneo. Di tanto in
tanto si assentava per fumare una sigaretta.
D’altronde, non era la prima volta che
essa passava delle giornate in prigione. Era già stata nelle carceri
parigine e poi per più di due anni nelle prigioni d’Italia.
Poche ore dopo la sentenza, gli anarchici
vennero mandati a Finalborgo, e i giornalisti partirono il giorno seguente,
cioè alle 11 della sera del ventitrè.
Alla Stazione Centrale, c’era una folla
enorme ch’era riuscita a sapere l’ora della partenza. Ma i carabinieri fecero
entrare i condannati dalla parte opposta - evitando di passare sulla prima
piattaforma, piena di amici che volevano salutarci.
Tra gli intimi di Romussi, vi era il
professore Pietro Panzeri, direttore dell’Istituto dei rachitici, che piangeva
come un ragazzo.
Il vagone cellulare era nuovo e
pennelleggiato di fresco. Perdeva un odore di vernice che faceva turare il
naso.
Don Albertario, grosso come era, non
riuscì a mettere il piede sul predellino che aiutato. Nello sforzo gli
cadde il cappello da prete: istintivamente tentò di raccoglierlo, ma si
avvide tosto di essere ammanettato ed alzò gli occhi al cielo.
Nessuno disse una parola. Pareva che la
vita fosse finita sul montatoio. Ciascuno, ravvolto nel proprio dolore come in
un mantello, sentiva gli strazii delle famiglie che singhiozzavano sotto la
tettoia.
Viaggio notturno da Milano a Finalborgo la notte dal 24 al
Mentre i carabinieri si preparavano a
metterci i ferri per avviarci alla casa di pena a scontare le sentenze
militari, ciascuno di noi pensava, involontariamente, al carrozzone che ci
doveva condurre dal Castello alla Stazione Centrale. Nessuno di noi aveva
potuto dimenticare la nicchia nella quale, venendo dal Cellulare, aveva
subìto, per più di mezz’ora, lo strazio di pencolare tra la vita
e la morte per mancanza d’aria!
I ferri ci distrassero. I carabinieri
adempivano alla funzione di ammanettarci, incalzati dal «fate presto!» del
tenente dei carabinieri, che ci guardava con la caramella nell’occhio.
L’ordine era di ammanettarci a fior
di pelle. E chi si lamentava riceveva la buona misura di qualche altro giro
di vite. Io protestai. Dissi che non era possibile che ci fosse ordine di
stringerci i polsi fino a farceli sprizzare di sangue. Mi si fece tacere,
assicurandomi che alla stazione mi sarebbero stati allargati.
Chiusi nel carrozzone, credevamo di
morire. C’era un fetore che dava il capogiro. La cella era angusta, buia, col
sedile di legno cosparso di crostini di pane e coi fori per l’aria che parevano
tappati. Il veicolo ci sballottava in un modo crudele. Quando le ruote
sussultavano sui sassi o attraversavano i binari, ci sembrava che il carrozzone
stesse per rovesciarci sulla strada.
Non abituati a questi viaggi di
punizione, sognavamo il treno.
Alla stazione ci si fece discendere
passandoci sotto l’ascella, a zig-zag, una catena che ci teneva uno dietro
l’altro e ci impediva di pensare alla fuga.
Per scappare bisognava che il
condannato si trascinasse dietro tutti gli altri.
Eravamo così male informati sul
trasporto del bestiame di galera, che credevamo sul serio che ci avrebbero
fatti viaggiare in un vagone di terza classe. Invece fummo disillusi non appena
ci trovammo in quella specie di corridoio lungo due filate di celle.
A mano a mano che si saliva, si veniva
spinti e incassati dal carabiniere che aspettava il condannato dietro l’uscio.
L’operazione di cellularizzarci veniva fatta in un modo fracassoso. Si
schiudevano gli usci con collera, si bestemmiava contro i catenacci che
cigolavano senza andare avanti o indietro, si ingiungeva il silenzio con degli
imperativi brutali a coloro che volevano sapere dove diavolo ci si mandava, e
si sbattevano sulla faccia gli usci come tanti schiaffi ribaldi.
Rimanemmo per qualche minuto
sbalorditi. Io mi trovavo in una cella di mezzo, tra Romussi e don Davide
Albertario. Chiesi era in faccia al direttore del Secolo e io potevo
vederlo, attraverso la ferriata, di profilo. L’avvocato Federici era in una
delle prime celle della fila a destra e gli altri, compresi due che non
conoscevo, erano sparsi nelle celle in fondo.
Aspettavamo con ansia che venissero a
liberarci le mani indolenzite dal peso del ferro che diventava sempre
più enorme.
Faceva un caldo eccessivo. Nella tana
inverniciata il giorno prima, coll’uscio sulle ginocchia che non ci permetteva
né di allungare, né di incavalcare le gambe, si respirava un’aria pestilenziale
e si sudava come in un forno. L’indugio del treno a mettersi in moto era per
noi un vero supplizio. Speravamo che, lanciandosi nello spazio, folate d’aria
sarebbero venute ad attutirci la sete e a rinfrescarci la faccia.
Finalmente il treno si era mosso. La
lentezza e le prime fermate ci fecero capire ch’eravamo attaccati a un treno
omnibus. Il treno, che s’incammina adagio adagio e sosta a tutte le stazioni,
diventa una tortura per i poveracci calcati nelle nicchie che lasciano
respirare a disagio e intetrano l’ultima scena dei condannati sulla via della
espiazione.
Invece delle buffate d’aria fresca che
non venivano, né potevano venire, perché il nostro vagone era l’ultimo e aveva
le aperture in faccia a due altri, fummo obbligati a incominciare una lotta
disperata contro l’usciuolo dell’inferriara a scacchi, che si chiudeva e
minacciava di soffocarci a ogni scossa.
- Signori carabinieri, facciano il
piacere di fermarci l’usciuolo!
I signori carabinieri non potevano
essere umani con noi, perché avevano ricevuto ordini imperiosi di essere severi
e perché temevano, a ogni stazione, di
trovarsi alla presenza di qualche
ufficiale incaricato di «dare un’occhiata ai polli nella stia».
Ma per l’usciuolo facevano proprio di
tutto per inchiodarlo alla parete e spesso sacramentavano contro la compagnia
ferroviaria che si era dimenticata di configgervi la molla o l’uncino per
tenerlo aperto. Di tanto in tanto veniva qualcuno di loro a sbattercelo
indietro con un sostantivo energico. Ma il più delle volte dovevamo
respingerlo noi con la punta delle dita.
Alla stazione di Pavia, una voce umana
riuscì a intenerirci fino alle lagrime.
- Signor Romussi, signor Chiesi, posso
fare qualche cosa per loro e per i loro compagni?
La persona che parlava era invisibile.
Si sentiva solamente che la sua voce era commossa.
A così poca distanza, eravamo
già tutti stracchi morti per la posizione incomoda in cui ci teneva la
celletta, per i ferri che ci avevano intormentite le braccia e per l’arsura che
ci faceva dire a ogni minuto:
- Signori carabinieri, un po’ d’acqua!
La voce dello sconosciuto ci era andata al cuore come una
consolazione. C’era dunque qualcuno che pensava ai poveri diavoli che
soffrivano. Romussi, interpretando il pensiero di tutti, con una voce che
avrebbe impietosito i sassi, disse:
- Se ci potesse dare una gasosa!
Lo sconosciuto ci rispose con dei
singulti.
Era troppo tardi. Il ristorante era
chiuso e il treno stava per partire.
- Addio e coraggio! ci disse lo
sconosciuto con degli altri singhiozzi.
Lungo questo viaggio indimenticabile ci
domandavamo di tanto in tanto l’un l’altro se eravamo vivi.
Chiesi: Come stai,
Fritz?
Federici: Bene.
- Don Davide, dormite?
- Magari potessi dormire!
- Romussi, come ti senti?
- Maledettamente male. Non avrei mai
creduto che il trasporto dei prigionieri fosse fatto in questo modo. Siamo
trattati peggio delle bestie.
- Pazienza, che non siamo lontani da
Sampierdarena.
Guardando nelle celle della fila
opposta mi si agghiacciava il sangue. La testa dei cellularizzati che ubbidiva
al moto del treno si delinquentizzava in un modo spaventevole. Pareva la testa
di un mostro. Illuminata dalla luce fosca che tremolava, assumeva proporzioni
spaventevoli. La fronte si allungava sovente con delle gibbosità che
facevano abbassare le palpebre dalla paura. Gli occhi ingrossavano e venivano
alla superficie con una luminosità feroce. La bocca, sbadigliando,
spalancava un abisso circondato da una dentiera enorme che digrignava come
quella di un teschio appeso nella penombra.
Lazzari sembrava una iena in agguato.
Lungo le gallerie avevamo il fumo della
macchina che entrava nelle celle a volumi a ubriacarci e ad avvelenarci le
ultime ore.
- Signori carabinieri, un po’ d’acqua.
Io muoio dalla sete!
A Sampierdarena il cuore del brigadiere
si lasciò intenerire dalla voce piangevole dei condannati.
- Ci faccia dare un caffè,
signor brigadiere. Sia buono.
- Dio gliene renderà merito, gli disse don Davide che
tirava il fiato come un uomo che si sente morire.
Il carabiniere con la caffettiera in
una mano e la chicchera nell’altra ci conciliò con l’umanità che
sembrava composta di tigri.
Ci si aperse la cella e ce lo si
versò in bocca a sorsi, con una pazienza materna. Bravo carabiniere!
Discendemmo a Finalmarina come gente
scampata a un pericolo. Aprivamo la bocca per sorseggiare l’aria e ci
auguravamo che il reclusorio fosse lontano lontano per aver tempo di
sgranchirci le gambe e di rimetterci dallo sbalordimento di un vagone che
chiamavamo assassino.
Qualche mese dopo, nella quinta
camerata del reclusorio di Finalborgo, ricordando questo episodio della nostra
vita carceraria, i direttori del Secolo, dell’Osservatore Cattolico
e dell’Italia del popolo si strinsero la mano e promisero che, non
appena ritornati al largo, avrebbero intrapresa la campagna contro questa
abbominazione che si chiama vagone cellulare.
Alla stazione di Finalmarina non
c’erano che cinque o sei persone, compresi due preti. Eravamo disfatti. Avevamo
gli occhi della gente che non ha dormito, i capelli spettinati, le guance
cadaveriche e le punte dei baffi piegate come una desolazione. Il sole ci illuminava
le lividure ai polsi che avevano assunto un colore nerastro. Ci si passò
la catena da un braccio all’altro e fiancheggiati dai carabinieri e seguiti dai
facchini coi fagotti, ci avviammo verso il reclusorio. Il silenzio intristiva
I carabinieri ci stavano ai panni e ci
incalzavano con degli avanti! È per loro il momento più trepido.
Anche legati come cani, potrebbe saltare in testa a qualcuno di darsi alla
fuga. Sprofondavamo i piedi nella polvere alta, sollevando un pulviscolo che ci
imbiancava e ci andava per la gola e per le nari come un prurito che ci
raddoppiava il malessere. Rasentavamo Capra Zoppa perseguitati da un’arsura
indicibile. Ciascuno di noi sognava una sorsata di latte o un’altra chicchera
di caffè per snebbiarci il cervello.
Quando fummo a metà strada, al
dorso di un parapetto, trovammo un giovine che aveva l’aria di un chierico e
piangeva come un ragazzo. Forse sapeva chi eravamo o forse provava una
commozione violenta dinanzi un prete alto e spalluto che passava incatenato
come un grassatore.
Dopo una ventina di minuti, vedevamo
sorgere a destra la torre quadrata del malaugurato edificio nel quale dovevamo
passare tanto tempo. Svoltammo il ponte, passammo tra mezzo alla folla,
infilammo il viottolo tortuoso a sinistra e, dopo pochi passi, ci trovammo alla
porta del reclusorio di Finalborgo.
L’entrata è quella di un portone
qualunque. Non dà l’impressione di una tomba di vivi, neppure pensando
alle sentinelle di guardia.
Ci si tolsero i ferri tra due cancelli
che inchiudono l’ufficio del capoguardia e ci si domandò se avevamo
bisogno di qualche cosa.
- Dell’acqua, rispondemmo.
Ce ne portarono due bottiglie e i
secondini, con la premura di dissetarci, ci diedero l’impressione di persone
che non incrudeliscono col Regolamento.
Anche colle mani libere, sembravamo
galeotti autentici. Romussi, coll’ala del cappello floscio che gli ombreggiava
la faccia fuligginosa, col solino gualcito e annerito dal sudore e coi baffi
sottosopra, aveva assunto l’aspetto di un uomo feroce. Chiesi, colla barba e
coi capelli impolverati e coi neracci della notte perduta sotto gli occhi,
pareva un capo ciurma invecchiato di dieci anni in poche ore. Don Davide in un
altro luogo avrebbe fatto scompisciare dalle risa. Aveva l’aria di un Ernani
passato attraverso il polverone della strada. Al margine del cubicolo, colla
tesa del tricorno pelosa e abbandonata dalle stringhe, colla collarina
scomparsa sotto il merinos, col panciotto dai bottoni escoriati pieno di
chiazze, colla veste talare ammantata di polvere e colle scarpe scalcagnate e
coperte d’uno strato bianco, faceva compassione. Sulla sua faccia erano tutti i
patimenti di uno strazio inenarrabile.
I carabinieri consegnarono le buste dei
nostri denari al capoguardia, il quale si mise a registrarle, ci salutarono e
noi passammo nello stanzone a pianterreno intitolato «banchi di rigore». Lo
stanzone, colle due finestrucole che davano sul viottolo, era buio. Col suo
immenso lastrone infisso lungo la parete, cogli anelloni sotto il rialzo dei
piedi al disopra della testa, faceva rabbrividire. Si vedeva che eravamo
proprio in una casa di pena. Ogni ìnfrazione al regolamento voleva dire
andare sul tavolato di pietra incatenato alle mani e ai piedi.
Il capoguardia non ci fece cattiva
impressione. Era alto, piuttosto magro, con una voce che faceva sentire il twang
americano e con un accento leggermente meridionale. Valera lo
battezzò subito per il Javert del reclusorio, per un Regolamento
ambulante, per il funzionario che si sarebbe stroncata la vita piuttosto che
violarlo.
E attraverso i mesi che siamo rimasti
sotto la sua sorveglianza non abbiamo avuto occasione di modificare il giudizio
valerano. Egli è rimasto, per tutti noi, l’uomo-regolamento, guidato da uno
zinzino di buon senso. Prima di noi, in altre galere, egli aveva avuto sotto di
sè Amilcare Cipriani e De Felice.
Per ammazzare il tempo e impedire agli
amici di pensare che stavamo per diventare dei numeri di matricola, mi misi a
narrar loro la fuga del principe Krapotkine dall’ospedale dei detenuti di San
Nicola di Pietroburgo. Fu un grido unanime di protesta. Era una fuga che
sapevano tutti a memoria. Sapevano della stanzetta al terzo piano dirimpetto
all’ospedale, del violino che suonava che la via era libera e la carrozza di
fuori ad aspettarlo, e dei passi guadagnati sulla sentinella coi famosi due
lati del triangolo.
Entrò il capoguardia mentre don
Davide e Federici, dall’alto del tavolato, cercavano di capire dalla
finestruola da che parte dell’edificio penale ci trovavamo. Egli aveva in mano
un opuscolo.
- Loro sono persone educate. Questo
è il Regolamento. Lo leggano e procurino di non violarlo per non
obbligarci a infligger loro delle punizioni.
Rientrò il capo con una guardia
che portava il misuratore e con un’altra che aveva sotto il braccio il mastro
dei delinquenti.
- Adesso, dobbiamo registrarli e
prendere loro la misura.
Ci lasciammo registrare e misurate con la docilità delle
pecore. Non eravamo mica in galera per romperci la testa contro gli articoli
del regolamento. Il primo a sottomettersi fu Chiesi e l’ultimo Achille
Ghiglioni, l’uomo terribile che aveva messo sossopra tutto Niguarda con una
Cooperativa di commestibili di trecento o quattrocento lire!
L’attraction, sulla piattaforma
del misuratore con l’asta che discendeva sulla testa, era don Davide, il quale,
tra noi, aveva raggiunto l’altezza massima. Sul misuratore, con le cosce
voluminose e la grandiosità del torace, egli aveva più del
granatiere che del sacerdote.
Finita questa operazione, ci si
annunciò il bagno. Era quello che desideravamo. Dopo tanti giorni di
processo, tante notti passate sul saccone in terra e un viaggio che ci aveva
diminuito di peso, un bagno era la suprema delle consolazioni corporali. Vi
andammo l’uno dopo l’altro senza ritornare ai «banchi di rigore».
Il bagno era in un angolo della vasta
cucina, ove cuoce la minestra quotidiana dei condannati, diviso da una coperta
appesa a due chiodi. Ciascuno di noi dovette svestirsi e tuffarsi nell’acqua
alla presenza di una guardia incaricata di tener sempre gli occhi sul recluso.
Don Davide ebbe delle ritrosie. Egli non seppe decidersi a liberarsi degli
ultimi indumenti che quando la guardia si rassegnò a voltare la faccia
dall’altra parte.
Il
criterio nostro è questo; ogni provvedimento sarà vano se non sia
assicurata al Paese piena ed intera libertà: libertà di
propaganda, di pensiero, d'associazione, d'organizzazione, a tutte le classi
della società.
((Dal primo
discorso alla Camera).
L’ho conosciuto nell’ottanta o
nell’ottantuno. Io caricavo l’appendice della Plebe di Bignami della
zavorra umana che scovavo e raccoglievo negli angiporti e nelle stamberghe, e
lui riempiva le colonne di una terapeutica che inchiudeva, colle spinte e
controspinte romagnosiane, i germi della giustizia sociale. Era forse la
prima volta che la democrazia adulta leggeva in un giornale socialista che la
questione criminale è intimamente connessa colla questione economica.
Con un centinaio di pagine intitolate Il delitto e la questione sociale il
Turati si rivelava un naturalista della scienza penale, un verista che studiava
oggettivamente l’uomo delinquente, un sociologo che accusava la società
di essere «complice impune dei misfatti che freddamente puniva». Egli credeva
fino d’allora che l’ordinamento punitivo fosse essenzialmente transitorio e che
il delitto troverebbe la sua cura in uno Stato che volesse «a tutti garantito
il frutto integrale del proprio lavoro».
Il suo cruccio erano i suoi nervi.
I nervi non gli davano requie. Non lo lasciavano dormire, non lo lasciavano
lavorare e gli distruggevano il pensiero di prepararsi un futuro intellettuale.
Egli si diceva sfibrato, fiacco, senza attività cerebrale. Doveva
morire. Sarebbe morto fra due
Durante questa battaglia accanita tra
lui e il suo sistema nervoso egli, come il dott. Pascal, si preparava
silenziosamente i dossiers coi quali avrebbe poi intrapresa la campagna
per liberare la società borghese dalle sofferenze sociali. Condannato da
una malattia implacabile, consumava le sue ultime ore nel laboratorio della
putredine sociale a cercare i parassiti distruttori che saccheggiano
l’organismo umano. Morente, sentiva, come Pascal, la voluttà e la
grandiosità della vita, della vita sana, economicamente e moralmente
sana. Oui, je crois au triomphe final de la vie.
Egli leggeva, postillava, ammucchiava
note sopra note e maturava nel cervello allargato dallo studio febbrile la
rivista alla quale diede poi tutta la sua intelligenza.
Con la tendenza a credersi esternamente
ammalato e dotato della pigrizia del divoratore di libri che non darebbe mai
mano alla penna della produzione, il Turati sarebbe forse divenuto un frutto
secco o rimasto un autore stitico s’egli non avesse potuto fondere la sua esistenza
con quella di una donna capace di agitargli lo spirito cogli stessi ideali e di
piegarlo a un lavoro meno sbandato e più omogeneo. E questa donna fu
Anna Kuliscioff. È lei che lo ha incalzato, che lo ha fortificato, che
lo ha imparadisato. Lei e lui e
La bibbia di Filippo Turati è il
Capitale. Non c’è altro di più nutriente. Dal Capitale si
esce uomini completi. Un giorno che gli si è domandato di dire
pubblicamente quale libro avrebbe raccomandato a chi fosse condannato a
portarsi seco in un eremo tre soli volumi, egli rispose ripetendo tre volte il Capitale.
Con questo libro che egli paragona o mette al disopra al Darwin’s
Journal, la gioventù entra nella vita corazzata di altruismo, con
una idea chiara dello Stato a base di produzione socializzata. Ammiratore
convinto del grande novatore della scienza sociale, egli è,
necessariamente, entusiasta dei socialisti tedeschi - tali erompenti, dice lui,
dal forte ceppo scientifico di Carlo Marx - i quali, con la loro marcia
gloriosa, hanno infuturato il più grande fatto e l’esempio più
significante della storia contemporanea.
Cresciuto in un ambiente prefettizio -
idolatrato dalla mamma - con un avvenire trionfale nel foro milanese -
circondato dagli agi della vita, egli preferì discendere nell’agone
sociale a lottare per l’esistenza collettiva - a sostenere i diritti dei
proletari incatenati agli anelloni del salario - ad agitare il programma
marxista che deve eliminare dalla società i ricchi e i poveri.
Lui, coi nervi che gli impedivano
un’occupazione costante, si dedicò a un lavoro febbrile - a un lavoro
che aumentava in ragione degli anni - a un lavoro che lo cacciava dalla
redazione sulla piattaforma pubblica - e dall’angolo del correttore di bozze
nel girone legislativo.
Perdutamente innamorato dei suoi
ideali, egli non sospettava che sarebbe venuto il giorno in cui i suoi nemici -
che sono anche i nostri - lo avrebbero sorpreso sulla strada e svaligiato di
tutto.
È stato mandato al reclusorio di
Pallanza come incitatore di tumulti e come un demagogo che mette un po’ di
barricata in ogni frase. Ma non c’è nessuno che abbia mai sentito come
lui tanta avversione per la turbolenza oratoria che sprona alla battaglia ogni
minuto e per i «discorsi che acclamano la rivoluzione, sovreccitano i
sentimenti delle masse e fanno sbottonare le stifelius di un delegato di
pubblica sicurezza». No, il bavardage épouvantable degli esaltati non ha
mai fatto parte del suo bagaglio di piattaforma.
Il socialismo in bocca di costoro non
può impensierire alcuno. Dovrebbe impensierire i suoi nemici quando si
ritrae dal palcoscenico dei teatri diurni per entrare nel laboratorio «a
notomizzare col bisturi della scienza il carcame sociale steso sul tavolaccio
della statistica e della disciplina positiva». Allora sì. Allora gli
statisti dovrebbero proprio incominciare a sentire delle apprensioni. «Perché
quei miti pensatori, nutriti di cifre e di sillogismi, onesti, riservati, impeccabili
sovente nella vita privata, magari un po’ puritani e un po’ quacqueri se se ne
gratta la scorza, quei sacerdoti dell’altruismo, quei mangiatori d’hascisch dell’ideale,
hanno più dinamite nella loro parola e nella scatola ch’è sotto
il loro cappello, che non ne sia nelle tasche dei feniani e nelle cantine di
Pietroburgo: con quest’aggravante che, di cotesta nitroglicerina spirituale,
non c’è doganiere o segugio di polizia dal fiuto fine che ne possa
sentire l’odore e mettervi sopra
Nell’ambiente parlamentare egli era una
forza legislativa - una voce gagliarda che domanda giustizia per gli affamati
di pane, di libertà e di pensiero - un ragionatore che sa disorientare i
legislatori borghesi, i quali non vogliono convincersi che la società
degli sfruttatori s’avvia verso il periodo della sua naturale decomposizione.
Eloquente, con una dizione esatta, egli sa far ingoiare, con garbo, agli
onorevoli tutto quel diavolo che vuole, spruzzando la sua prosa tersa ed
elegante di una ironia e di un sarcasmo che non trovate se non in bocca degli
oratori altamente educati.
I discorsi di Sheridan si leggevano una
sola volta e si mettevano in libreria. Quelli di Filippo Turati si leggono e si
consultano sovente come quelli di Burke, perché sono densi di pensieri,
pronunciati in una lingua che dovrebbe far testo nelle scuole, caldi dell’anima
dell’oratore che vuole condurci ad espropriare la società a beneficio di
tutti.
Va sulla piattaforma con riluttanza.
Preferisce il tavolino di redazione al palco dinanzi la folla che lo saluta col
battimano fragoroso e lo ascolta a bocca aperta. Nemico dei parolai e degli
smargiassoni che sciolgono i problemi con qualche frase alcoolizzata, non capisce
la piattaforma che quando si ha qualcosa da dire. È una tolda che lo
impensierisce, che lo mette in orgasmo, che lo obbliga a buttar giù
note, a raccogliere fatti, a pulire della prosa che andrà perduta per
l’aria, perduta fino a quando avremo anche noi il quotidiano che darà il
discorso tale e quale è pronunciato. Ma una volta che egli è in
piedi, pieno dell’argomento, il suo discorso esce come dal libro di un grande
uomo.
Tutti lo hanno sentito parlare. La sua
eloquenza non è l’eloquenza bolsa che va in giro per il comizio a
mendicare gli applausi. È l’eloquenza di un grande oratore. Qualche
volta pare una tempesta di pensieri. I suoi periodi snodati, brevi, vigorosi
sull’uditorio come un uragano intellettuale.
La sua penna di giornalista, che gli ha
conquistato un mondo di lettori, è una penna che cesella ed ubbidisce al
padrone. Non è mai sbrigliata anche quando è virulenta o infuria
sull’avversario. Produce uno stile nervoso - uno stile che ti mette sottosopra
il sangue - che ti accarezza - che ti schiaffeggia - che ti intenerisce. Ha
immagini scultorie, grandiose, indimenticabili.
Adesso che i nervi lo lasciano
tranquillo, la sua
Veste male, non è mai stato
vestito bene. Da giovane andava per le vie coi calzoni che gli lasciavano
vedere tutto il corame della scarpa, con una giacca o un paletot che lo tirava
da tutte le parti e un cappello floscio che lasciava vedere il suo alto
disprezzo per la spazzola e il copricapo nuovo. Il nodo della cravatta
traduceva l’uomo che non si guarda mai nello specchio; era mal fatto e andava
da tutte le parti, tranne che sotto il bottone del solino spesso sgualcito.
Parecchi di noi che scrivevamo nella Farfalla lo credevamo un bohémien
eternamente alla caccia di un louis d’or come gli eroi di Murger. Lo
si vedeva e si pensava all’assalto alla borsa. Ma lui ci stringeva la mano, ci
parlava di qualche pubblicazione e ci salutava senza domandarci nulla. La
giornata dopo che il Giarelli lo aveva fatto diventare celebre presentandolo ai
lettori della Ragione come autore del Mago - un canto che sentiva
del profumo dei suoi anni e che sgretolava il vecchio mondo come il canto
satanico di Carducci - lo pregai di prestarmi un libro.
- Figurati!
Mi lasciai trascinare a casa sua con uno stringimento di cuore. Mi
aspettavo di vedermi spalancato l’uscio di un uomo in mare. Credevo di trovarlo
in una soffitta che venisse inaffiata dalla pioggia, con una dozzina di volumi
pieni di ditate untuose per il suolo, con dei fogli imbrattati di inchiostro su
un tavolo che non sta mai quieto, con una seggiola sventrata, con una camicia
sudicia appesa alla parete e un paio di ciabatte squinternate vicino a un
saccone di foglie di granturco sui cavalletti di legno.
All’entrata diventai di tutti i colori.
La sua casa in via Gesù era di quelle che respirano il benessere degli
inquilini. La portinaia lo salutò con una mezza riverenza, lo
chiamò signor dottore, e gli lasciò prendere un mucchio di
lettere da un casellario che rivelava l’ambiente signorile. Salimmo per uno
scalone, entrammo per l’uscio aperto da una cameriera e mi trovai coi piedi sul
tappeto, in un salotto sontuoso, circondato da mobili eleganti, cogli occhi che
andavano da una tela di qualche sommità del pennello ai bibelots di
un’étagère superba.
La mamma non pareva la mamma di un
figlio che si trascurava negli abiti fino all’indecenza. La guardavo e pensavo
alla castellana: alla signora alta, coi capelli bipartiti come una Madonna, con
la faccia signorilmente lunga, con l’abito nero giù a piombo, illuminato
intorno al collo dal pizzo antico e illustrato al seno da una nidiata di
solitari sepolti nelle trine. Nella penombra del salotto le sue dita affusolate
si muovevano e perdevano faville dappertutto.
Se avessi qualcosa da amministrare e
potessi indurre Filippo Turati a prendersi cura del mio patrimonio, non
esiterei un minuto ad affidargli la mia amministrazione. In pochi anni sarei
sicuro di andare verso la ricchezza che ride dei rovesci degli altri. Egli
è un ragioniere consumato. Ha l’occhio nell’avvenire ed è di una
esattezza direi quasi scrupolosa. Questa abilità, che in un uomo di
cifre diventerebbe una virtù grandiosa, in lui è un difetto che
gli costa una somma enorme di lavoro intellettuale perduto. Mi sento male
quando vedo il direttore della Critica Sociale scrivere gli indirizzi
degli abbonati, registrare gli incassi, impaccare libri e correre alla posta
carico come un facchino.
Ma lui non smetterà mai. Egli
chiama tutto questo una distrazione. Abituato a non darsi al riposo,
continuerebbe a scrivere e diventerebbe prolisso e slavato come un pennivendolo
da ottanta lire il mese.
Fuma dalla mattina alla sera. Terminata
una sigaretta ne accende un’altra e continua così fino al momento di
addormentarsi.
Alcuni che non lo conoscono bene
sospettano in lui il tirchione che si lascerebbe ammazzare piuttosto che metter
fuori un centesimo o offrire una bibita agli intimi che vanno a trovarlo.
È un errore grossolano. Filippo Turati non è uno sciupone. Ma
coloro che frequentano la sua casa sanno che la sua tavola è sempre
popolata di amici e che la sua mano mette sempre nella mano dei
bisognisti dei biglietti di banca.
Una sola volta l’ho veduto seccato di sapersi all’uscio persone
che hanno bisogno di dirgli una parola. Stava facendo colazione e questi
signori lo avevano fatto smettere sei volte. Alla settima rifiutò di
muoversi.
- Ah, per oggi basta, perdio! Ditegli
che non ci sono, ditegli!
Poi, dopo qualche boccone, si
trovò pentito.
- Era forse uno che meritava più
degli altri. La ragione è che ne ho troppi. Da un po’ di tempo il mio
uscio sembra l’uscio del duca Scotti.
È buono, generoso, leale, capace
di amicizie vere, sentite. Il socialismo è la sua anima, la sua fede, il
suo ideale. Per esso ha combattuto - per esso soffre - per esso sarà
pronto domani e sempre a morire.
Passando per il corridoio dei cubicoli,
vidi nel secondo Chiesi, nel terzo Romussi, nel quarto Federici,
e nel quinto don Davide. Credo di essere diventato pallido come un morto.
Veduti col viso ai due bastoni di ferro in croce dell’uscio, mi parvero delle
bestie o delle ditte di un museo di criminali. Le loro facce non erano
più che grinte spaventevoli, con delle mascelle enormi, degli occhi
biechi, delle fronti con tutte le stimmate del delinquente nato. Entrai nel
sesto. Dopo di me, venivano Achille Ghiglioni e Costantino Lazzari.
Il cubicolo era completamente vuoto.
Non vi trovai che una lastra d’ardesia, larga poco più del corpo d’un
uomo, infissa nella parete a destra. Mi distesi carico di emozioni, chiudendo
gli occhi come per obbliarmi. Sarebbe bastata una parola qualunque per farmi
piangere. Non avevo paura, ma tutto ciò che si compiva nel silenzio di
quell’attimo mi commoveva fino alla gola.
Vi rimasi assopito non so più
quanti minuti. Mi risvegliai spossato. Il cubicolo era così tetro e
angusto che mi ricordai delle camerucce dei famosi forni di Monza, ove i
Visconti avevano scontato i loro mesi di prigionia. Per muovermi, non avevo che
uno spazio di un metro e sessanta di lunghezza e un metro circa di larghezza.
Era alto, con una finestrolina sopra la porta che riceveva la luce scialba del
corridoio chiuso e largo poco più della tana. Per vederci malamente
dovevo stare cogli occhi alla inferriata.
Nessuno dei miei compagni fiatava. Si
capiva che attraversavano anche loro il momento della prostrazione.
Sentii Chiesi che domandava a Fritz
come stava.
- Bene, grazie.
Nacque subito il dialogo.
Romussi: Mi pare di
essere in un antro. È possibile che ci si facciano passare degli anni in
questo buco?
Federici: lo
tranquillava assicurandolo che la segregazione personale non poteva durare
più di un sesto della pena.
Romussi: Saccorotto! Ci
dici poco a vivere in questa tana per sette od otto mesi? Ho tentato di leggere
col libro alla ferriata, ma ho dovuto smettere. Vi avrei lasciata la vista...
Chiamammo due
Io, che personalmente lo conoscevo da
parecchi anni e che durante il processo avevo ribadita l’amicizia, inquieto del
suo silenzio, gridai:
- Don Davide? Che cosa fate? Dormite?
Rispose con una voce cavernosa che non dormiva. Non aveva bisogno
che un po’ di calma per riaversi da tutte quelle emozioni che stavano per
strangolarlo.
Fummo sorpresi dalla guardia con le
scarpe di cimossa, la quale ci spiava in agguato.
- Silenzio! gridò imperiosamente
il secondino.
Mezz’ora dopo venne il direttore a
vederci, cubicolo per cubicolo, col cappello in testa e la voce che sentiva
dell’uomo abituato a parlare coi galeotti. Così fu anche in seguito.
Venne sempre nella nostra camerata col cappello in testa e col linguaggio
dell’uomo che vuole essere temuto e vuole essere considerato un domatore di
dannati alla galera.
Uscito il direttore dal corridoio,
entrò nel cubicolo un pagliericcio di crine vegetale puntato,
assolutamente insufficiente anche per un corpo mingherlino come quello di
Romussi. Mancava ai piedi di mezzo braccio e bisognava addormentarsi sul fianco
e con la faccia al muro, se non si voleva cadere sull’impiantito.
- Pane!
Trasalimmo.
Era un galeotto con la catena a
parecchie maglie, accompagnato da una guardia, che andava di buco in buco a
distribuire la pagnotta.
Il pane regio - come lo chiamavamo -
parve a tutti noi immangiabile. Dovevamo avere fame, perché eravamo ancora con
l’ultima costoletta e l’ultimo risotto che avevamo mangiato al Castello.
Romussi mi fece sapere che aveva
divorata la sua pagnotta fino all’ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e
il suo apparecchio digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un’altra.
Gli altri la sbriciolarono.
- Minestra!
- Uh! - sentii dire.
Era un uh! che traduceva la nausea.
Nessuno di noi seppe ingoiare la
minestra.
Guardai che cosa mi aveva scodellato
nella gamella. Vidi una pasta che mi pareva esalasse un non so che di tufaceo e
una broda piena di scandellature gialle alla superficie. Tutto assieme mi
faceva recere.
L’afa del pomeriggio ci rendeva
inquieti e ci faceva sentire un bisogno prepotente di uscire all’aria a vedere
un po’ di cielo.
Verso sera, ci si portò una
coperta, un fiaschetto d’acqua, un catino di zinco ed un asciugatoio ruvido a
quadrettoni colorati, largo come un fazzoletto.
Alle cinque, per noi era notte fatta. Ci
augurammo la buona sera.
Mi adagiai sul pagliericcio nella
speranza di addormentarmi. La tristezza aumentava in ragione della
oscurità che andava diffondendosi nel cubicolo.
Verso le nove, sentii due mandate
all’uscio del portico.
Era la ronda.
La ronda è composta di un
sottocapo e di due guardie, una delle quali porta la lanterna fumosa e
puzzolente.
Entra in ogni cubicolo tre volte per
notte, sbatte in faccia la luce della lanterna, dà un’occhiata alla
finestra e alla ferriata e se ne va richiudendo l’uscio a chiave.
Ci vogliono dei mesi prima di abituarsi
a queste sorprese notturne.
Romussi non poteva dormire che con dei
narcotici. Gli sbatacchiamenti gli davano sui nervi.
Il secondo giorno fu più triste.
Ci eravamo alzati all’alba, chiamati dalla campana come gente che non aveva
tempo da perdere e poi ci si era lasciati nella capponaia a cellucce senza
darci un libro, senza dirci una parola, senza lasciarci sperare che
all’indomani saremmo usciti.
Bisogna proprio essere aguzzini che
gustano la voluttà dell’altrui sventura, per tenere degli infelici cento
e più ore sotto l’impressione che il sesto della loro sentenza
verrà consumata in una tana senza luce e senz’aria!
Nel cubicolo siamo rimasti due giorni e
mezzo.
Durante questo primo periodo, non
abbiamo visto che una ombra che passò dalla nostra cella con una parola
per ogni buco: coraggio!
L’ombra era il cappellano.
Uscimmo storditi. Ci palpavamo la nuca
e guardavamo il cielo come abbacinati. Erano bastati due giorni e mezzo per
solcarci le guance e imbrutirci come gente che si levasse da una sbornia
potentissima.
Ci scambiammo su per giù gli
stessi pensieri.
- Credetti di morire, sapete. Mancavo
d’aria: avevo bisogno di moto e di luce, soprattutto di luce, soprattutto di
moto, soprattutto d’aria.
Don Davide aveva avuto delle nausee che
lo avevano impensierito.
- Ci fu un momento in cui dovetti
raccogliermi e pregare il Signore Iddio.
Costantino Lazzari aveva l’aria di uno
smemorato. Si palpeggiava il collo e continuava a battere i piedi in terra come
per ridar loro la circolazione del sangue.
Ci si condusse al passeggio in un
cortiletto che sentiva del luogo. Non avevamo che uno spazio di pochi passi
inquadrato da muraglie giallognole, scrostate e sbullettate. Col dorso verso la
torricella, dalle finte finestre, che usciva da un angolo dell’edificio,
vedevamo un largo verde di Capra Zoppa. La torricella era triste e ci ricordava
che in essa erano le celle più orribili del reclusorio.
Al lato opposto della porticina
d’entrata del portico, è la muraglia con le finestruole a mezzaluna e a
doppia inferriata, dietro la quale è una filata di cubicoli.
Quante volte, durante la passeggiata,
abbiamo sentito gli inquilini dei cubicoli prorompere in pianti dirotti!
Nella muraglia che taglia il cortile,
è un pozzo chiazzato di verde.
Le due diane dipinte sul muro sono gli
orologi solari dei reclusi. L’una segna il corso del sole dalle 7 del mattino a
Le dita della destra battute sul palmo
della mano sinistra di un sottocapo ci avvertirono che la nostra ora d’aria era
terminata.
Nella quinta camerata entrammo il
Vi entrammo l’uno dopo l’altro
accompagnati da una guardia e da un sottocapo. L’entrata è un altro
cancello di ferro, foderato nella parte superiore da un lastrone munito di
spia, che sopprime il di fuori fino alla distanza di un mezzo metro da terra.
Di modo che i secondini, accosciati negli angoli, possono assistere ai
movimenti dei piedi, oppure coll’occhio al buco vedere tutti i condannati che
escono dalla rete del regolamento.
La nostra camerata non ha che la spia
nella fodera del cancello. Ma le altre ne hanno due anche nelle muraglie che le
fiancheggiano.
La guardia le scopre all’insaputa dei
reclusi e li sorprende fuori di posto o a chiacchierare o a giuocare a dama
colle pedine di mollica di pane.
Di tanto in tanto la udite che ingiunge
loro di stare quieti o zitti.
- Fate silenzio, voi, numero tale, se
non volete andare in «camerella»!
La guardia di Finalborgo fa il suo
dovere senza esagerazione e senza imbestialire contro la ciurma che ha delinquito.
Ma è possibile, dite, di rimanere in un camerone di settanta o ottanta
individui per delle settimane, per dei mesi, per degli anni, con una mano
nell’altra, col pensiero istupidito, senza mai lasciarsi scappare una parola,
un’interrogazione, un grido che viene su dall’anima in un momento di
crepacuore? No, non è possibile. Me lo disse tutto il personale del
penitenziario di Dublino quando ero là a visitare i dinamitardi e gli
altri condannati alla servitù penale. La lingua non sa acconciarsi alla
paralisi completa. Me lo disse e lo scrisse il principe di Krapotkine che ha
scontato la condanna francese nella Maison centrale di Clairvaux.
«Questo sistema - diceva - è
così contrario alla natura umana che non poteva essere mantenuto che a
forza di punizioni. Nei tre anni che passai a Clairvaux, il sistema era caduto en
désuétude. Lo si era abbandonato a poco a poco, a condizione che le
conversazioni all’atelier e alla passeggiata non fossero troppo
rumorose».
Volete un documento che le punizioni
non riuscirono, né riusciranno mai a far perdere agli inquilini delle carceri
l’abitudine di parlare?
Ero al Cellulare quando il signor
Sampò prese il posto del signor Astengo. I detenuti conversavano senza
vedersi, stando alla ferriata della finestra; Il nuovo direttore si mise a
infliggere delle settimane e dei quindici giorni di pane ed acqua, con
l’aggiunta magari della cella di rigore, ai violatori del silenzio. Credete che
ci sia riuscito?
Dalla conversazione di finestra in
finestra era stato eliminato il linguaggio stomachevole. Ma il
chiacchierìo era rinato pochi giorni dopo con maggior vigore di prima. E
quale castigo, o signori carcerieri, riuscirebbe mai a tappare la bocca ai
prigionieri subito dopo la sveglia e mentre squilla la campana del silenzio?
Voi sentite mille bocche in una volta che si scambiano dei buon giorno
commoventi, degli addii pieni di cuore, dei Saluti che inchiudono il
«coraggio!» o il «non pensarci che passeranno anche questi mesi!»
- Ciao, Biscella!
- Addio, Lumaghin!
- Giuliano, dormi bene!
Una sera ci sono cascato anch’io. Un
detenuto .
sopra o vicino alla mia
- Numero tale?
- Che cosa hai fatto?
Non risposi.
- Buona sera.
- Buona notte.
Questo semplice dialogo mi fece
affiggere sul dorso dell’uscio della mia cella che il direttore mi aveva punito
con dieci giorni di pane ed acqua!
Dopo il Cellulare, il Castello e il
cubicolo, la quinta camerata dell’ex convento dei frati, dell’ordine di san
Domenico, ci parve un paradiso. la percorrevamo in lungo e in largo con delle
fiatate di soddisfazione. Finalmente qui si respira! le pareti erano pulite,
imbiancate di fresco, con del verde che girava tutto intorno a un metro
d’altezza.
Le finestre a doppia inferriata, coi
famosi cassoni, che non ci lasciavano vedere dall’alto che un profilo di Capra
Zoppa, diventarono, per noi, delle aperture illimitate che lasciavano entrare
aria a volumi. Le brande lungo il dorso del camerone assunsero la forma di
letti elastici, con dei materassi sprimacciati, sui quali si poteva adagiare il
corpo affranto dai patimenti, con un guanciale soffice che pareva appena uscito
dalle mani del materassaio.
Guardavamo tutto con compiacenza.
Paragonavamo l’asse al disopra delle brande, che correva lungo la parete, a una
elegante guardaroba o a una comodissima dispensa. Ciascuno di noi aveva un
largo spazio per ammonticchiarvi la biancheria e i libri, per mettervi il
catinetto di zinco, la fiaschetta impagliata, la brocca per bere, la spazzola e
la pettinina, la gamella con inciso il nostro numero di matricola e la pagnotta
che ci avrebbero portata tepida due volte il giorno. Il sole completava la
nostra contentezza. Vi entrava un po’ di sbieco dalla prima finestra e veniva a
frangersi sui bastoni di ferro della seconda, lasciando cadere dei barbagli fino
al suolo e portandoci del calore e della gaiezza che si diffondeva dappertutto.
La sola noia del luogo erano le mosche
- delle mosche grosse come quelle che vivacchiano intorno ai letami - delle
mosche pesanti che aleggiavano con un ronzìo greve, che parevano
sonnolente anche nell’aria, che si fermavano sul nostro naso, sulle nostre
orecchie, sul nostro collo, sulle nostre labbra, sulle nostre mani, senza paura
di essere schiacciate dalla nostra collera. Si cacciavano via e ritornavano a
noi con una insistenza feroce e con una ostinatezza che ci faceva perdere
In camerata non eravamo più che
delle cifre. Gustavo Chiesi era divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556,
don Davide Albertario il 2557, Bortolo Federici il 2558, Paolo Valera il 2559,
Costantino Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561.
La prima volta che si spalancò
il nostro cancello e che entrò un sottocapo con due galeotti a fare la
distribuzione degli asciugatoi e delle lenzuola, ci fu un po’ di confusione.
Nessuno era ancora riuscito a tenersi a mente il proprio numero di matricola e
a convincersi che non eravamo più che dei numeri.
- 2555?
- Presente!
A mano a mano che si veniva chiamati,
si andava vicino al cancello a ricevere la «biancheria». Per asciugarci la
faccia e tutto il corpo, ci avevano dato una pezzuola di canape ruvidissima, a
rigoni spaventevoli, a listoni alternati, che andavano dal bigio al cioccolato
- due colori che porto nella testa con orrore. Perché sono le striscie che
rappresentano la casa di pena e riassumono l’emblema del reclusorio. Sono i
colori della camicia, i colori delle lenzuola, i colori del saccone, i colori
del tascapane, i colori delle mutande, i colori del berretto, i colori della
casacca e i colori dei calzoni.
Per tutto il tempo della condanna non
si vedono che dei clowns. Delle schiene a rigoni, delle braccia a
rigoni, delle gambe a striscie e delle teste col copricapo listato di
caffè e di bigio con dei puntini che paiono tante punzecchiature di
pulci.
Il numero di matricola aveva ingrossato
il cuore di alcuni miei compagni. Romussi si era seduto sul suo sedile di legno
con le lenzuola sulle braccia l’asciugatoio in mano dicendo: «Saccorotto!» Don
Davide, di temperamento sensibilissimo, che si lascia commuovere, o
trasportare, o abbattere dagli avvenimenti, sarebbe dato fuori a piangere se
non fossimo stati presenti. Gli pareva impossibile, come diceva lui, che un
sacerdote, che indossava la veste talare da trentasei anni, questa veste,
aggiungeva, «che mi fu compagna e amica nei tempi lieti e tristi», potesse
essere diventato il 2557, con la gamella matricolata e con la branda in una
camerata comune ch’egli doveva calare e piegare al suono di una campana!
Era inutile abbandonarci alle
malinconie. Perché non eravamo che alla titillazione del sistema. Ci
aspettavano ben altre sorprese.
Costantino Lazzari si era seduto, come
al solito, tra due brande senza dire una parola. Egli si teneva come isolato.
Non aveva confidenza in alcuno e nel suo angolo era il suo mondo. Se qualcuno
lo interrogava, rispondeva come un mastino irritato. Una volta che gli domandai
se aveva qualche dispiacere, mi rispose di occuparmi delle cose mie!
- 2559?
- Presente!
Presi la mia biancheria e me la appesi
dando in una risata che mise quasi tutti di buon umore.
Noi credevamo che nei penitenziarii i
forzati e i reclusi venissero abbandonati al rimorso dei loro misfatti, e non
vedessero che la mano incaricata di stendere loro dal buco la pagnotta, la
minestra e l’acqua. Invece, in una camerata di galera, si è come in una
sala di ufficio telegrafico. C’è sempre gente che va e viene.
Alla mattina, quando avete ancora gli occhi ingarbugliati, vi dovete mettere
sul guardavoi, nello spazio delle brande, per la «conta». Si spalanca il
cancello ed entrano tre guardie seguite da un sottocapo o da una guardia scelta
che vanno fino in fondo alla muraglia, contando, mentre passano, uno, due, tre,
quattro, cinque, sei e sette. È la consegna dei reclusi dalla guardia
notturna alla guardia diurna. Escono, si chiude e si schiude di nuovo il
cancello per i reclusi che vengono a portar via il mastello dell’acqua sporca,
per il recluso che viene a prendere il barile dell’acqua, per il forzato che
vuota il «bugliolo» e il pitalone. Il «bugliolo» è il recipiente di
legno con coperchio del liquido puzzolente. Scoperchiandolo, vi sentite in
faccia la tanfata pestifera delle uova putrefatte. Il «pitalone» delle altre
camerate è un enorme mastello che rimane negli angoli e passa per i
corridoi come una cloaca. Nel reclusorio di Finalborgo non ci sono latrine!
Quando si vuotano e passano dinanzi i cancelli, si è come in mezzo ai
bonzoni dei pozzi neri che si scaricano. Il fluido nauseabondo vi sommerge come
un edificio coperto fino ai coppi di materie fecali.
Credete di essere lasciato in pace ed
ecco il delinquente che viene col secchione del latte a mescervene nella brocca
cinque centesimi. Rimane chiuso per cinque minuti e poi si riapre per lasciar
entrare il recluso con la pagnotta.
- Pane!
State per mettervi a sedere e si
spalanca un’altra volta il cancello. È il sottocapo che batte le dita
della destra sul palmo della sinistra dicendo: aria!
Ritornati dal passeggio, viene a farvi
visita il forzato della spesa.
La spesa non durava mai meno di
quindici minuti.
Era la cosa più difficile di
questo mondo. Ogni mattina si doveva sciogliere il problema come si poteva
vivere all’indomani con 25 centesimi, se si era condannati alla reclusione come
il 2555 e il 2556, o con 35 centesimi se si era condannati alla detenzione come
gli altri numeri di matricola della nostra camerata. Il 2555 rinunciava di
solito al vino. Un quarto di vino costava nove centesimi. Era del lusso. E si
faceva registrare per due «uova al tegame» - cioè per 22 centesimi. Il
resto lo scialava in frutta.
Il 2256 non rinunziava alla bibita.
Senza una golata di vino non avrebbe saputo ingoiare tutte le porcherie del
bettolino.
La lista della spesa includeva anche il
caffè. Il 2557 e il 2559 persistettero per più di una mattina a
berne mezza razione di cinque centesimi. Ma dovettero rinunciarvi. Era un’acqua
colorata e tepida di un sapore che faceva fare gli occhiacci. Lo si inghiottiva
come una medicina disgustosa.
Il 2557 non lasciò mai il suo
mezzo litro di vino di 18 centesimi, anche quando il vino era acre o imbevibile
come l’aceto. Egli aveva uno stomaco di ferro, ma senza una goccia di vino non
avrebbe potuto digerire i piatti del menu carcerario.
Il nostro piatto di forza erano i
gnocchi di dodici centesimi conditi coll’olio, puah! che sentiva della colatura
della lucerna. Il lunedì avevamo la leccornia di
Non ho veduto sbatterlo via con
indignazione che una volta.
- Aristocratico! aristocraticone!
gridammo in coro al 2558
- Bravi! guardateci in fondo!
C’era un semplice scarafaggio in
decomposizione!
Lo regalammo al forzato latrinaio, avvertendolo
della nausea in fondo.
Lo prese come un intingolo regale,
leccandosi le dita e curvandosi con la fraseologia dei ringraziamenti sentiti.
Ne avessero tutti i giorni i galeotti di queste vivande che rifocillano lo
stomaco e rincarnano gli ischeletriti!
- La nostra sentenza - ci disse -
sembrerebbe meno dura.
Il secondo moto di violenza che ricordo
fu quello del 2557. Era una domenica e indossavamo già la casacca
galeottesca. In domenica, in luogo della minestra delle undici, c’è la
carne e il brodo. Eravamo seduti al desco. Il 2557 aveva sbocconcellata un po’
di pagnotta nel brodo, come gli altri. In un attimo lo vedemmo alzarsi con un
impeto di revulsione, suggellato da un porci! Egli si era drizzato in
piedi come un fusto d’orgoglio, aveva preso la gamella ed era andato alla spia
del cancello.
- Dite al signor direttore che non sono
un maiale! Questa carne puzza come una carogna!
Fu un sottosopra. Siccome, in fondo,
volevano tutti bene al 2557, un po’ perché era un sacerdote, un po’ perché era
un bell’uomo, e un po’ perché era buono, così venne su subito il
sottocapo a constatare il reato d’incipiente putrefazione e a dirgli che gli
avrebbe mandato di sopra una sleppa di manzo eccellente.
Noi però non gli abbiamo
perdonato lo scatto che ci aveva tolto l’appetito. Il 2555 lo pregò di
leggere il «manuale del buon sacerdote» ..
- È doloroso che un secolare vi
debba richiamare ai doveri che vi impone la vostra veste. Mangiate quello che
vi portano; siate umile, siate modesto, siate paziente e perdonate a tutti
coloro che vi fanno del male. Andare sulle furie per un po’ di carne «passata»,
è da uomo volgare.
- Avevo fame! capite che avevo fame! Ho
52 anni, sono alto e grosso e mi tocca mangiare la razione comune, la razione
della gente mingherlina, piccola, senza il mio apparecchio digestivo! È
vero o non è vero che c’è voluto più stoffa per vestirmi?
È vero o non è vero che c’è il supplemento al vitto per
gli uomini della mia proporzione anche nelle caserme? È dunque naturale
che mi si dovrebbe trattare con una dieta diversa.
- Voi vorreste dei privilegi!
- Abbasso i privilegi!
- Privilegio! gridai anch’io.
- Privilegio! Chi è mingherlino
non può mangiare come mangia un uomo dalle mie proporzioni!
Anche senza avere l’apparecchio
digestivo del
Con
I trentacinque minorenni della nona
camerata, quasi in faccia alla nostra, ci impietosivano. E tutte le volte che
potevamo, mandavamo loro le nostre pagnotte e la nostra minestra.
Senza le nostre cinque o sei o sette o
dieci pagnotte al giorno avrebbero fatto della fame tutti i giorni. Perché in
prigione si patisce inesorabilmente la fame.
Tanto è vero che in prigione si
soffre del digiuno prolungato, che il 2556 - cioè il direttore del Secolo
- mi disse, la seconda volta che fummo al Cellulare, queste testuali
parole che trovo registrate nel mio diario:
- Una buona novità introdotta
dal direttore cav. Codebò è quella di avere diviso la
distribuzione della minestra e del pane. Certi prigionieri, giovinotti robusti,
mangiavano d’un colpo i
Gli entusiasmi per la quinta camerata non potevano durare a lungo.
Chiudetemi in un salotto elegante con le inferriate a scacchi e il cancello di
ferro, e vedrete che in pochi giorni i mobili mi diventeranno odiosi e
l’ambiente senza uscita mi incendierà il cervello e mi ridurrà in
un angolo a imbecillire nella mia impotenza.
Il silenzio è obbligatorio: disteso
a caratteri neri sul fondo bianco della muraglia in faccia al cancello,
diveniva, di ora in ora, odioso e intollerabile per dei giornalisti che avevano
passata la vita tra il chiasso delle redazioni. Era una ingiunzione che ci
riduceva a una ragazzaglia di casa di correzione.
Vivere con degli amici - e degli
intellettuali come i miei compagni - è una vera consolazione e spesso
anche un’istruzione. La loro parola vi va per le orecchie come una carezza, vi
solleva lo spirito abbattuto, vi distrae e vi porta in mezzo ai ricordi
tumultuosi della loro professione battagliera. Ma sempre, sempre, senza mai un
minuto di isolamento, diventa, spesso, una pena e una tortura!
Vi fa male di vedere loro crescere
lentamente le unghie sudice senza aver modo di offrir loro la limettina per
tenerle regolate e pulite, e di assistere a tutto ciò che fuori di galera
si fa nel bagno, alla latrina, nello spogliatoio e nella stanza da letto. E vi
sentite desolati di udire la bestemmia di qualche vostro compagno che aveva
l’abitudine di lavarsi i denti collo spazzolino.
- Che male ci sarebbe - incominciava
- E che strappo si farebbe al
regolamento se io, prete, continuassi a indossare quella divisa di sacerdote
che io credo di non avere disonorata?
- Capisco la punizione.
- Io no, non
- Lasciami dire. Io posso capire
- Taci! C’è raffinatezza
più diabolica di quella di romperti violentemente la comunicazione
epistolare con tutto il mondo che hai conosciuto, che conosci, che ti ama e
continua a volerti bene, anche dopo la condanna dei tribunali di guerra?
Raffinatezza più triste, più sciagurata di quella di impedirti di
scrivere a tua moglie, a tua madre, ai tuoi figli, a coloro che ti amano e che
ti piangono e che ti idolatrano, se non una volta ogni tre mesi, se sei alla
reclusione, o una volta al mese, se sei alla detenzione? E anche questa lettera
mensile e trimestrale non è un’altra tortura? Tu non puoi parlare, ti si
dice, che dei tuoi interessi. Non è un interesse dire, per esempio, ai
tuoi di casa di non addolorarsi perché ti si è mandato alla reclusione
innocente? No, perché insulteresti
Più di una volta, io e don
Davide abbiamo dovuto discendere in direzione a riprenderci la lettera
coll’ordine di riscriverla senza qualche frase contraria al regolamento. Per
due settimane ero stato malaccio. Mi sentivo debole e non sapevo più
digerire la pagnotta e la pasta del penitenziario. Scrissi nella lettera della
mia indisposizione, aggiungendo «che adesso stavo bene». Si poteva essere
più modesti? La direzione trovò modo di farmela rifare.
- Non le pare, signor direttore, o
signor capo, che questa sia una notizia di carattere intimo?
- No, perché il recluso non deve occuparsi
di ciò che avviene nel reclusorio.
- Aguzzini! gridai mentalmente.
Aguzzini!
E le lettere che ci pervenivano dal di
fuori? Bastava un accenno alla vita pubblica, un alito dell’agitazione che si
faceva a favore dei condannati, un’allusione a una prossima amnistia, una frase
ministeriale, il pensiero di un deputato, l’opinione di un giornale, perché la
mano della direzione corresse sul delitto con la penna carica di inchiostro a
coprire tutto di nero. Ho veduto delle lettere piene di chiazze, piene di
rigoni che sgrammaticavano la dicitura o sopprimevano le parole che potevano
suscitare delle speranze o lasciar trapelare la commozione pubblica.
Qualche volta la mano diventava brutale
e allora recideva il foglio alla testa o alle gambe o lo metteva spietatamente
in un cassetto senza neanche dire crepa al numero di matricola al quale era
indirizzato!
Una scena che avrebbe fatto piangere
gli amici, se avessero potuto mettere l’occhio alla spia della nostra camerata,
era quella dei pasti dei primi tempi. Gli abiti dei sette amici, che
aspettavano il monosillabo della Cassazione per uscire o per indossare la
casacca galeottesca, si erano consumati e malconciati. C’erano delle maniche
sdrucite, dei calzoni sfilacciati agli orli, degli occhielli sfatti o che si
sfacevano, delle ginocchia e dei gomiti lucidi o maculati di larghi oleosi e
dei baveri sui quali si era andata accumulando la forfora di una cute che
nessun parrucchiere spazzolava da un pezzo.
Don Davide pareva uno di quei preti
descritti dal Porta. Colla veste piena di macchie, colle calze rotte, colle
brache stralucide che perdevano, col nero, dei brandelli, e con la collarina
inamidata da tanto tempo che lasciava vedere il giallo delle trasudazioni del
collo.
Abituati al tovagliolo e alla posata
lucente sul candore diffuso per la tavola, la mobilia della nostra sala da
pranzo si riduceva a una lunga panca dalla quale sbucavano, di tanto in tanto,
gli insetti rossicci che la povera gente chiama cimici, e a dei sedili di legno
rotondi, le cui capocchie laceravano di frequente i calzoni dell’avvocato
Romussi. Mettevamo la panca vicino alla seconda finestra e sedevamo quattro da
una parte
Ho parlato delle cimici, perché ne ho
trovate dappertutto. Nei camerotti polizieschi, nelle celle del Cellulare di
Milano, nelle stanze del carcere giudiziario di Genova e nello stanzone del
penitenziario di Finalborgo. Dopo la condanna, il Turati occupava, al
Cellulare, una stanza spaziosa e ariosa nell’esagono del secondo raggio. Io, De
Andreis, Romussi e Federici passavamo parte della giornata con lui. Nessuno di
noi poteva adagiarsi sul suo letto a pagamento, senza che venissero alla
superficie filate di queste schifose bestioline che fanno pancia col vostro
sangue. Mi diceva Turati che di notte sciupava il tempo con questi
puzzolentissimi insetti che non lo lasciavano dormire. Tre o quattro giorni
prima che andasse alla reclusione, il direttore, impressionato dal suo
tormento, gli fece imbiancare il cellone e passare alle fiamme il letto di
ferro.
- Ne ho trovate, ci diceva lo scopino
incaricato di farli morire col fuoco, a nidiate. Morivano mandando un’odore
pestilenziale che mi dava le vertigini.
Un’ora dopo questo nettamento e questa
pulitura, ne vedemmo tre che andavano via, pian piano, per il cuscino!
Nelle vecchie carceri di Genova non mi
sono fermato che 15 ore. Se vi fossi rimasto di più, ne sarei uscito
dissanguato. Venivano fuori a frotte.
Il soffitto ne era pieno e negli angoli
delle pareti si potevano prendere a manate. Alla notte, per paura che mi
andassero nelle orecchie, o su per il naso, o in bocca, fui costretto ad
alzarmi. Il letto ne formicolava. Potevo coglierle a manate al buio. Sdraiato
non mi lasciavano quieto. Le mie mani precipitavano sulle gambe, sul petto, e
le rincorrevano per il corpo senza riuscire mai a liberarmene. Come erano
spietate le cimici del carcere giudiziario di Genova! In questo carcere
maledetto, non ebbi coraggio di mangiare, ma ebbi l’imprudenza di comandare un
caffè. Ritirandolo dal buco dell’uscio me ne caddero tre nella chicchera
e due nel piattino. Buttai via la bevanda dal disgusto.
Nello stanzone di Finalborgo
formicolavano per i cornicioni, si sorprendevano sulle pareti, si trovavano in
letto, nelle screpolature dei muri, nelle commessure delle finestre, e perfino
nelle crepe del tavolo.
L’ambiente ha una grande influenza
sugli individui. Anche l’uomo cresciuto nella reggia, nelle tombe penali diventa,
a poco a poco, un porco. Dopo due
Se volete convincervi che l’ambiente
agisce potentemente sull’individuo, invitate un ex recluso a pranzo.
Osservatelo attentamente quando mangia e lo sorprenderete più di una
volta in flagrante violazione delle regole più comuni della persona
allevata bene.
Se il direttore dell’Osservatore
Cattolico fosse stato ministro della chiesa anglicana, a quest’ora egli
sarebbe padre di una nidiata di figli. Perché le misses non gli
avrebbero permesso di consumare la gioventù nel celibato, in un paese
ove il servo di Dio prende moglie come qualunque altro mortale.
Fisicamente è più
corazziere che sacerdote. È un bell’uomo alto, spalluto, con un petto
che traduce la sua salute di ferro, piantato su due gambe poderose, che fanno
tremare le pareti della quinta camerata di Finalborgo quand’egli passeggia
conciato o disperato di sapersi un leone in gabbia. La dieta della fame non
è riuscita a smagrarlo, o a chiazzargli di lividure le guance
voluminose, o a fargli nascere delle rughe sulla fronte. I suoi 52 anni
sembrano
La sua attività cerebrale è
prodigiosa. Non appena gli furono concessi gli strumenti di lavoro, la sua mano
non è stata più quieta. Con una corrispondenza che avrebbe tenuto
occupati tre segretari, egli trovò modo, in due mesi, di riempire 587
fogli di protocollo, che rappresentano l’opera sua di prete, di giornalista, di
predicatore e di recluso. Senza essersi completamente sbottonato, come in una
autobiografia, i lettori - se i manoscritti verranno pubblicati - vi troveranno
il polemista che si ferma dove incomincia l’invettiva, il letterato che si
sdraia con compiacimento nel suo letto intellettuale, l’oratore che ripassa
pieno di letizia attraverso le sue orazioni trionfali, il sacerdote che sta
ritto sulla tolda della sua nave cattolica, agitando il suo programma che si
riassume nella formola «col papa e per il papa».
È nato nella provincia di Pavia,
studiò all’Università gregoriana - frequentata dagli stranieri
che si avviano alla carriera ecclesiastica. Si laureò in sacra teologia
nel
L’Osservatore Cattolico si può
dire sia stato il suo bimbo adottivo. Incominciò a volergli bene nel
1869 e continuò ad amarlo e a nutrirlo col suo ingegno fino al giorno in
cui Bava Beccaris mandò i carabinieri e i soldati ad arrestarlo come un
malandrino qualunque nella casa paterna.
Io non posso dire di essere un lettore
costante di fogli religiosi. Ma credo che non ci sia in Italia un giornale del
partito che possa essere paragonato al quotidiano di don Davide. È un
giornale che sente tutta la modernità professionale senza perdere del
suo concetto fondamentale, che è la necessità della chiesa
cattolica. È redatto bene, redatto da giovani che lo seminano di idee
col ventilabro e che riempiono le sue colonne di uno stile spigliato, nervoso,
che non lascia mai giù le ali sui guazzi sociali per paura di sporcare
chi legge. È interessante per ogni lettore. Vi trovate l’appendice
drammatica, l’appendice letteraria, l’articolo politico, il trafiletto, la
cronaca, gli avvenimenti internazionali e una larga piattaforma per i servizi
municipali - per le questioni operaie - per i problemi dell’avvenire.
L’Osservatore Cattolico è stato
condannato nella persona del suo direttore per queste motivazioni: 1.° perché
ha con fine ironia combattuta la monarchia; 2.° perché si è unito ai
repubblicani e ai socialisti e agli anarchici per demolire le istituzioni dello
Stato; 3.° perché ha eccitato all’odio i contadini contro i signori e contro
altre classi sociali; 4.° perché ha educato il clero alla vita battagliera
invece che alla missione di pace alla quale è destinato da Cristo.
- Che c’è di vero, don Davide,
in tutto questo?
- Per capire la portata della
motivazione della sentenza che mi ha relegato per tre anni in questo
reclusorio, bisogna conoscere la natura del mio giornale. L’Osservatore
Cattolico è anzitutto un giornale che si dedica alla propaganda e
alla difesa della chiesa cattolica e del papa. Siccome l’Italia è
aderente a questa chiesa, così si deve ritenere necessaria la religione
al bene sociale, per la vita presente e per la vita futura, come si deve
ritenere necessario che essa sia tenuta in onore e non perda influenza. Questo
è il caposaldo del programma del mio giornale nel rapporto religioso.
«Nel rapporto politico io, direttore dell’Osservatore
Cattolico, sono indifferente alla forma monarchica o repubblicana di
governo. Do la preferenza a quella forma in cui i governanti sono col mio
programma religioso, al quale subordino tutto il resto. Quindi è una
bugia dire che io combatta la monarchia, come è una brutta invenzione
quella di accusarmi di complicità coi repubblicani e socialisti e
anarchici. In un ambiente monarchico io lavoro in mezzo al popolo, perché il
governo abbia a cessare dall’opposizione contro il papa e contro la religione e
abbia a promuovere la pace religiosa nel paese.
«Il mio programma sociale è
ampio e generoso. Io accetto tutto ciò che nei postulati del socialismo
è compatibile colle dottrine della chiesa cattolica e mi adopero per
attuarlo formando l’opinione in questo senso. Deploro il concetto fondamentale
materialista del socialismo, deploro che non ammetta le verità
cattoliche, perché il materialismo e la negazione delle verità
cattoliche scavano un abisso tra il cattolicismo e il socialismo. L’Osservatore
Cattolico combatte la speculazione che impoverisce, combatte l’usura,
invoca provvedimenti di Stato che salvaguardino i diritti e gli interessi delle
classi inferiori e ne migliorino le condizioni. Esso però rifugge dallo
Stato collettivista. Tutto questo vogliamo ottenere con la persuasione della
propaganda pacifica, con la carità generosa, col mezzo delle
autorità e delle leggi. Credetelo, è una calunnia dire che io
ecciti all’odio o alla discordia.
«Da questo potete argomentare del valore delle motivazioni della
sentenza del Tribunale militare. No, non sussiste la fine ironia contro la
monarchia, non sussiste la congiura con altri partiti contro le istituzioni,
non sussiste l’eccitazione di odio tra le varie classi sociali, non sussiste
l’educazione del clero in senso opposto alla missione assegnatagli da Cristo.
Non sussiste nulla di nulla. Di vero non c’è che questo: che si è
mandato in galera un innocente.
«Volete una prova che il direttore
dell’Osservatore Cattolico non ha tentato di sviare dal retto sentiero
il clero italiano? Da che sono nella casacca del galeotto, sua santità
il papa mi ha mandato la benedizione più di una volta, e una medaglia
d’oro che tengo carissima, centinaia di vescovi, da ogni parte d’Italia,
scrissero a me e a mia sorella lettere affettuosissime, sacerdoti e vescovi -
come quello di Savona - sono venuti a trovarmi e a ogni distribuzione postale
ricevo, come avete veduto, un mucchio di lettere e di telegrammi. Se non ci
fossero di mezzo i patimenti di questa vitaccia, che sopprime il sacerdote e
distrugge l’uomo, direi che il Tribunale di guerra mi ha reso un segnalato
servigio».
L’affezione per sua sorella è
nota a tutti coloro che leggono le sue lettere datate da Finalborgo e
indirizzate alla «cara Teresa». Sono lettere castrate e scritte nella
condizione di un uomo che non può dire quello che sente e che vuole. Ma
in esse è il pathos di un’anima addolorata. C’è la tenerezza di
chi soffre della separazione e della lontananza. E la sorella lo ricambia di
pari affetto. La sua assenza è il suo strazio. Per liberarlo, ha messo
sossopra mezzo mondo. Ha mandato una lunga epistola all’episcopato italiano -
ha scritto al presidente dei ministri e ha fatto bussare, a insaputa del
fratello, fino alle porte reali.
In mezzo a noi, don Davide, non ha mai
fatto sentire il prete. Egli era un compagno che prendeva parte alla
discussione. che si adattava in un modo mirabile alla vita comune, e che rideva
delle nostre risate come un giovialone che non si ricorda della condanna.
L’uguaglianza di trattamento non
impediva ai forzati di avere una grande simpatia per gli inquilini della quinta
camerata e di manifestarla tutte le volte che capitava loro l’occasione. Alla
mattina e alla sera, per esempio, venti o trenta forzati addetti ai lavori del
reclusorio passeggiavano nel cortile sotto le nostre finestre. Il
tintinnìo delle loro catene ci chiamava al davanzale, cogli occhi tra il
cassone e
La loro passeggiata era per me uno
studio. Notavo il loro modo di andare in su e in giù e chiamavo Romussi
e don Davide Albertario a constatare che il loro passo rivelava il galeotto.
Dimostravo loro come un Jean Valjean avrebbe potuto essere scoperto dal segugio
di polizia anche vent’anni dopo, vestito con eleganza, in una sala immensa
affollata di signori che la percorressero conversando.
Si vedeva che il piede, il quale aveva
l’anellone della catena appesa al fianco o attorcigliata intorno la caviglia,
indugiava uno zinzino più dell’altro a muoversi, e sfiorava assai
più il suolo del sinistro, come se l’uno dei due fosse carico di piombo.
Aggiungevo un’altra osservazione sui passi. Nei passi è l’uomo che
è stato in branca, cioè incatenato con un altro per degli anni e
costretto a esercitare le gambe in uno spazio di pochi metri. Contraggono
un’abitudine indimenticabile. Adesso che sono disgiunti e che è a loro
disposizione un terreno venti volte più largo della cella, consumano
l’ora di passeggio come prima, gomito contro gomito, con un movimento di tre o
quattro passi avanti e indietro, voltandosi come quando erano appaiati,
cioè senza urtarsi e senza spostarsi.
I tipi di forzati, che abbiamo
conosciuto più da vicino e che possiamo presentare al pubblico come
nostri amici, erano i «mozzi» o coloro che adempivano alle funzioni domestiche.
Il 129 era il latrinaio - un galeotto che riassumeva il suo delitto come un
grande artista. Si passava la mano sulla fronte e lo paragonava a «un
temporale», a «una notte buia», a «una tempesta». Fu l’uragano dei sensi che
gli fece recidere la gola alla padrona ch’egli serviva come cocchiere a
Ferrara. Egli la voleva o viva o morta. E se la baciò durante il «temporale»
tepida ancora di vita, con gli occhi spalancati che pareva una strega. Egli
è ormai tranquillo e non pensa più, come gli altri, a rientrare
nel mondo dal quale venne scacciato. Per lui, «stare qui o altrove, è lo
stesso. In qualche luogo, mi diceva, bisogna stare».
Veduto da vicino, con gli occhi nelle
buche della sua faccia massiccia e larga, si prova la repulsione di chi si
sente a tu per tu con un sanguinario. Dalle sue linee facciali sbuca il
violento, ghiotto dell’altro sesso. Ha delle occhiate diaboliche, lambite dalle
rughettine che infittiscono e si gonfiano quando spalanca la bocca per la
risata che pare uno scroscio. Le sue mandibole voluminose completano l’orrore
con la zucca enorme, calva alla superficie, leggermente schiacciata alle pareti.
Intorno alle sue labbra carnose,
è diffuso il cinismo che si prolunga fino alla radice del naso, dove
incomincia una fronte spaziosa, fuggente, giallognola, la quale si increspa
ogni volta che parla. Ha le gambe arcuate ed ha sempre fame. Tutte le volte che
veniva nella nostra camerata gli davamo parecchie pagnotte.
Veduto da lontano, immobile, nel sole,
con le mani sulle reni e le pupille velate o addormentate nel fondo
cristallino, ha l’aria di un uomo impagliato.
Un altro tipo curioso sotto parecchi
aspetti, era l’infermiere che veniva nella nostra camerata nei pomeriggi della
caldura a inaffiarla di acido antisettico per tentare di salvarci dalle mosche
inique e dalle cimici implacabili. È un forzato di cuore, che si trova
in galera per avere creduto nella fedeltà della donna. È piccolo,
tozzo, giallastro, con una fronte bassa, rugosa e senza fughe, con delle
pupille che stanno spegnendosi nelle occhiaie fonde, con un naso camuso, delle
guance che incominciano a piegarsi e a incresparsi come cortine vecchie e una
bocca che spalanca una voragine di fuoco pallido e lascia vedere le gengive
quasi sguernite.
Non ci fu ammalato che non mi abbia
parlato con entusiasmo di questa perla di condannato che nessun direttore o
capo guardia è mai riuscito a punire in ventisette anni di carriera
dolorosa. Me lo si raccomandava dicendomi che in infermeria, senza di lui, si
poteva morire.
Egli è una suora di
carità, un fratello che va dovunque si soffre. Accorre al letto degli
infermi con sollecitudine materna, si alza di notte se qualcuno si sente male,
e, con quel poco che il medico mette a sua disposizione, cerca di lenire i
dolori altrui. Avete la schiena tormentata dai reumatismi? È la sua mano
che viene a battervela, a spalmarvela di una goccia d’olio come un allievo del
professor Panzeri, o a pennelleggiarvela magari con della tintura di iodio, se
ne ha nell’armadio e se il medico lo ha ordinato. Avete un dente che vi
strazia? Eccolo pronto con
Per provare la bontà del 193,
non ho da citare che tre testimoni che non lo dimenticheranno facilmente.
Gaspare Giucchetto, minorenne, Giovanni Vedani, di 32 anni, e Angelo Vanoni di
Luino, come il Vedani, e padre di tanti figli.
Il primo aveva ricevuto una palla al
petto con lesione, pare, al polmone; il secondo era stato colpito allo stinco,
e il terzo aveva lo stomaco perforato nel corpo. Io li ho veduti in infermeria,
subito dopo il loro arrivo. Erano giunti a Finalborgo in una condizione da
commuovere le pietre. Straziati dai dolori, con le ferite ancora aperte e col
Vedani che non poteva e non può, credo, neppure oggi, stare in piedi,
perché la ferita continua a produrre materia purulenta.
In una infermeria, dove non ci sono che
alcuni letti, una cassetta di polverine, un vasetto di tintura di iodio e della
liquerizia per i catarri stomacali e le tossi che non lasciano dormire, anche
un infermiere come il 193 non può fare molto. Ma li curava da cristiano,
lavando, fasciando loro le ferite, aiutandoli a mangiare, curvandosi a ogni
minuto per spostare la gamba al Vedani, la testa al Giucchetto e le spalle a
Vanoni, il quale Vanoni era diventato tetro, perseguitato dal pensiero che il
suo polmone fosse stato toccato dal proiettile. Mi diceva che «si sentiva il
polmone in sussulto».
Il Gaspare Giucchetto portava il numero
di matricola 2749; il Giovanni Vedani il 2731, e l’Angelo Vanoni il 2747.
Don Davide Albertario non è
stato in infermeria che quattro o cinque giorni a trangugiare due ..
Il direttore dell’Osservatore
Cattolico ritornò nella quinta camerata pieno di entusiasmo per il
193 che lo aveva curato come una madre. Gli stava alle calcagna quando era in
piedi, gli andava intorno quando era nell’altra stanza a scrivere e sedeva di
notte, per delle ore, vicino al suo letto, a vegliare i suoi movimenti.
Il 193 è vecchio, è nelle
mani della giustizia dal
Il nostro barbiere era un altro
omicida, condannato a trenta anni. Nel reclusorio sembrava mite, gentile,
afflitto soltanto di trovarsi in mezzo a tanta zavorra umana. Era pallido,
emaciato, colle sfumature, intorno gli occhi, degli individui che portano nei
polmoni i bacilli della morte. I suoi colpettini di tosse mi davano la
sensazione penosa di essere accanto a un moribondo. La sua faccia era repulsiva
per la carne scrofolosa gualcita dal coltello anatomico, per le contrazioni che
gli avevano lasciato il segno sulle guance scarne e sulle palpebre rosse e
senza peli.
Ci considerava uomini superiori e ci
radeva con una delicatezza femminile, raccontandoci sovente il suo amore
sventurato.
A diciannove anni si era ammogliato con
una giovane che ne aveva diciotto. Dopo la cerimonia nuziale la sposa gli
raccontò che un altro - un «civile» - l’aveva delibata a tredici.
Fu una notte burrascosa quella della
sua confessione. La poveretta gli buttava le braccia al collo piangendo
dirottamente e gli domandava perdono. La colpa non era stata sua. A tredici
anni non si ha la testa e una ragazza si lascia saccheggiare della
verginità come un viandante dai malandrini. Lui la consolò con
una sfuriata di baci, impromettendosi di obbligare il «civile» a farle
Il «civile» promise di pagare. Ma i
denari non venivano mai. Allora ritornò a ripicchiare allo stesso uscio
e a esigere
- Adesso che l’hai, tienila!
Gli «calò una benda sugli occhi»
e lo uccise come un dissoluto malvagio.
- Il mio dolore massimo è di
essere stato creduto capace di premeditare il delitto.
«Ero andato da lui per riscuotere, non
per ammazzarlo. Il mio fu un impeto di passione. Lo dissi al presidente del mio
processo».
Ora ne era pentito. Non potendo andare
dalla famiglia, come fra Cristoforo, a domandarle perdono, le mandò una
lettera bagnata delle sue lagrime.
- La famiglia mi ha perdonato, il
parroco del mio paese lo ha fatto sapere a tutti dal pulpito, ma il governo
tace ancora. Ah, è duro il governo coi poveri condannati! Una volta che
siamo pentiti dovrebbe permetterci di riabilitarci. Invece ci lascia morire in
galera o ci manda fuori quando non siamo più che dei carcami da
ricoveri.
«Porto la catena e la giacca rossa da
diciannove anni e morirò forse in galera. Sia fatta la volontà di
Dio! Ma mi dispiace, credano, di non rivedere più il mio paese!»
E il dolore gli fece sputare del
catarro sanguinoso.
Il sei settembre, il giorno in cui ci
rase i baffi, era commosso come un minorenne perduto, nel buco di una cella di
rigore. Egli sapeva che cosa volevano dire questi crepacuori. Nei baffi era
l’uomo. Radendoli, radeva il cittadino e non lasciava dietro il rasoio che un
numero di matricola.
Eravamo in sette e l’operazione
durò più di un’ora. Andammo uno dietro l’altro dal barbitonsore,
senza dirci una parola. Ciascuno di noi sembrava compreso del sacrificio,
tranne forse Gustavo Chiesi, il quale conservò sempre l’attitudine dello
stoico. Sotto il rasoio a più d’uno di noi si riempirono gli occhi.
Federici e don Davide furono del numero. Non si aveva paura, nessuno pensava
alla paura, ma l’emozione, più forte di tutti, rompeva la diga.
Mentre mi si radeva, con la guardia
carceraria seduta in faccia, mi venivano le lagrime in bocca come a un bimbo
sculacciato!
- Coraggio! diceva a ciascuno di noi il
barbiere. I baffi e la barba ricresceranno più vigorosi di prima.
- E voi, don Davide, gli domandai
qualche giorno dopo, perché avete pianto, se non avete mai avuto baffi e se vi
facevate radere il labbro superiore anche prima?
- Perché mi si infliggeva una punizione
infamante. Perché mi si riduceva il 2557.
Dall’emozione profonda passammo
all’ilarità clamorosa. A mano a mano che uno di noi rientrava nel
camerone con la faccia galeottizzata, si scoppiava in una risata sonora.
Sembravamo dei mostri. Salve le proporzioni individuali e la voce, potevamo
benissimo scambiarci per dei galeotti sconosciuti.
Il solo che non avesse alterato la
figura era il sacerdote. Gli altri pareva che fossero stati in un’altra stanza
a truccarsi o a cambiarsi la testa.
Gustavo Chiesi, grasso e grosso, aveva
del frate Melitone. Il buon Suzzani - che si chiamava, con compiacenza,
«compagno di Carlo Marx» - aveva assunta l’aria d’un abatino pieno di modestia.
Costantino Lazzari era uscito dalle mani del parrucchiere una edizione
peggiorata. L’avvocato Federici si era trasformato in un santocchione che sginocchia
per le chiese. Ghiglione era ritornato in mezzo a noi come un uccello di
rapina. Il suo naso lungo si era prolungato e la punta appariva più
adunca di prima. I peli scomparsi dalla guancia sinistra gli avevano lasciato
all’aria una prominenza che gli delinquentizzava la faccia.
Il nostro barbiere è nato sotto
una cattiva stella. Egli ci sbarbava direi quasi con orgoglio. Considerava il
sabato il più bel giorno della sua vita, perché poteva scambiare qualche
parola con noi. Ma venne il giorno triste della partenza. Il direttore lo aveva
destinato per il reclusorio di Finalmarina. Trovò modo di venirci a
salutare. Strinse la mano a ciascuno di noi con la voce che tremava. Addio, si
ricordino di me, del povero barbiere pentito del suo fallo. E lo sentimmo che
si allontanava col singhiozzo che egli tentava di soffocare nel fazzoletto a
quadrettoni.
Il mio viaggio da Finalborgo
Ricordo tutto, come se fosse adesso.
Era il 27 luglio, una giornata afosa. Io e alcuni abitanti della quinta
camerata stavamo con la gamella capovolta, sul mastello dell’acqua sporca, per
lasciar colare la pasta dalla brodaglia maculata di scandellature.
Entrò il sottocapo Osmiani a
scompigliarci. Era l’uomo più serio del personale di custodia. Non
sciupava parole. Ci chiamava guardando in terra e tenendo l’indice della
sinistra in alto.
- 2559!
- Presente!
Ero già pronto. Mi lasciai
baciare teneramente dagli amici, presi il fagotto sotto il braccio e uscii con
la gola rasa di commozione. Per evitare il disastro di una gita galeottesca
avevo fatto di tutto. Avevo detto al direttore che soffrivo e che non ero in
grado di rimettermi in un vagone cellulare. Ma non ci fu verso. Il medico, dopo
avermi palpeggiato, come se fossi stato di straccio, mi trovò sanissimo.
Il mio compagno di viaggio era uno
della «rivoluzione». Egli era stato colto in piazza di Luino durante i tumulti
e condannato dal tribunale militare a sei anni di reclusione.
- Vi rincresce?
- Sì, perché sono
innocente e perché ero l’aiuto dei miei genitori.
Facemmo la strada a piedi. I veicoli ci
empivano gli occhi e la bocca di polverone bianco e la gente voltava via la
faccia inorridita. Un nugolo di studentesse sull’omnibus a giardiniera ci fece
venire le vampe della vergogna alla faccia.
- Come sono brutti!
E non avevano torto. Il più bel
giovine d’Italia, che esca da un reclusorio, spaventa. In pochi mesi il
reclusorio te lo rende irriconoscibile.
Eravamo giunti tre quarti d’ora prima
del treno. Ne ero contentissimo. Era dell’aria fresca guadagnata. I
carabinieri, invece di chiuderci nella stanza di sicurezza, ci lasciarono sul
margine del binario della stazione. Grazie! Ebbi tempo di fumare tre sigarette.
In questo frattempo, vennero alla mia volta alcuni signori a domandarmi se ero
il tale.
- Sissignori, risposi a colui che mi
aveva interrogato.
I signori si tolsero il cappello e si
curvarono leggermente.
- Scusino, dissi loro, commosso; ma io
non li conosco.
- Non importa. Noi sappiamo chi
è lei.
Rimasero lungo il binario fino alla
partenza del treno, salutandomi con un’altra scappellata.
Il vagone cellulare del mio secondo viaggio
apparteneva al tipo vecchio. Era composto di venti celle, divise da un piccolo
corridoio longitudinale, con un largo all’entrata per i rappresentanti
dell’arma regia.
Una volta entrati, si è sommersi
nella penombra anche col sole allo zenit, perché non ci sono finestre alle
pareti dei fianchi.
La cella era più angusta e
più nauseosa di quella che mi aveva condotto nel reclusorio. Col sedile
di legno e con le pareti insudiciate di sputacchi e di mucillaggine nasale, mi
sentivo in una cassa da morto in piedi, con un traversino sotto il sedere. Il
legno mi accarezzava dappertutto. I piedi stavano più male. Si trovavano
sopra uno strato molle e viscido e non potevo alzarli. Per quanto facessi, non
riuscivo a tener su le ginocchia sull’uscio. Si respirava l’atmosfera
riscaldata dall’alito dei detenuti.
Lo sfiatatoio era il contrario di un
conduttore d’aria. Si crepava dal caldo e i malviventi imploravano un sorso
d’acqua. Non so da dove venivano perché a tutte le stazioni se ne caricavano e
in alcune se ne scaricavano.
Il brigadiere che aveva in consegna le
stie, era un uomo tarchiato con una faccia da simpaticone. Quando gli si diceva
di essere buono e di provvedere gli assetati di un fiasco d’acqua, andava sulle
furie dicendo che non voleva essere buono. I buoni non facevano carriera e lui
era già sulla lista dei futuri marescialli.
- Consideratemi cattivo e mi troverete
buonissimo.
E io, davvero, ero della sua opinione.
In fondo alla mia nicchia, lo consideravo uno di quegli arnesi di sentina che
godono a far patire la gente tribolata, come godevano i carabinieri
dell’Andalusia del 1893-94, i quali davano pane e merluzzo ai morenti di sete e
nerbate a coloro che desistevano dal correre intorno la stanza giorno e notte!
Un po’ più in là, dovetti
ricredermi. Egli non era la iena che supponevo. A una stazione intorno il collo
della riviera di levante, si era lasciato impietosire da tutte le voci che gli
dicevano:
- Sia buono, signor brigadiere!
E mi ha fatto piacere. Perché è
sempre una consolazione sapere che un uomo rinsavisce o si stanca del piacere
di torturare gli impotenti.
Il brigadiere fece discendere il
carabiniere a riempire il fiasco e ordinò che se ne desse una golata a
ciascuno.
Per dissetarvi, il carabiniere è
obbligato ad aprire la cella con un catenaccio che cigola dalla ruggine e non
scorre che con dei calci, e a versarvi l’acqua in gola. Se il carabiniere non
è gentile, il liquido gorgoglia, trabocca dalle labbra e va giù a
biscia per lo stomaco. Io avevo sete, ma non ho voluto suggere al cannello
comune. Pensavo alla infezione. Ma ho dovuto pentirmene. Un’ora dopo mi sarei
lasciato inaffiare il gorgozzule anche da un cannello imbrattato dalle labbra
di una generazione!
Lungo il tragitto è avvenuta una
delle solite scene stomachevoli di questi trasporti. Un poveraccio in
traduzione si sentiva incalzato da una urgenza corporale.
- Signor brigadiere, mi faccia
smanettare che non ne posso proprio più.
- Fate silenzio o vi metterò le
catene ai piedi!
Sul pavimento della celluccia, Sono gli
anelli infissi nel pavimento per incatenare i furiosi o i pericolosi o i
prepotenti.
Il galeotto turturato dai dolori di
pancia era vicino alla mia cella. Udivo che si moveva e si lamentava.
Qualche minuto dopo, l’ambiente era
pestifero. Il miserabile si era sgravato come aveva potuto.
Gli inquilini gli diedero dell’animale
a braccio di panno e del porco senza fine, ma lui si difese dicendo che si fa
presto a rimproverare quando non si è nella stessa condizione.
I discorsi che si facevano erano
noiosissimi. I condannati non si occupano che di pane, di reclusori, di
regolamenti, di minestra, di punizioni, di guardie buone e cattive e di
direttori con o senza peli sullo stomaco. Per me, erano però discorsi
utilissimi. Perché mi rivelavano la vita intima del detenuto. Il mio vis-à-vis,
per esempio, raccontava che le giornate di traduzione volevano dire, per
loro, la fame completa..
«Di solito, diceva, ci si fa partire
dal carcere alle quattro antimeridiane con una pagnotta di seicento grammi di
pane stantio, e nessuno pensa più a noi se non all’indomani per darci
un’altra pagnotta e rimetterci in viaggio. Se la si dimenticasse nel vagone o
la si perdesse mentre si va dall’omnibus al vagone, felicenotte. Bisognerebbe
rimanere digiuni fino all’altra distribuzione. Non si capisce perché il
trasloco da una galera all’altra faccia perdere il diritto alla minestra.
«La gente onesta che viaggia tutto il
giorno, quando arriva, si mette a tavola e si ristora con dell’acqua fresca
sulla faccia e un buon pranzo inaffiato bene. Noi galeotti arriviamo, ci si
registra e ci si chiude in una stanzaccia con quattro o cinque pagliericci in
terra. Tutta la nostra consolazione è un secchio d’acqua nell’angolo, stato
riempito magari il giorno prima. Quando sono nel penitenziario ho diritto, coi
miei denari, a una spesa di cose mangerecce di venticinque centesimi. Perché il
viaggio mi fa perdere questo diritto?»
E il condannato concluse dicendo che le
giornate di traduzione sono, per il ventre del recluso, le più
desolanti. Lo si dimentica.
A Genova ci si fece discendere dopo che
il treno si era vuotato. Ci dovevano essere, col nostro, altri vagoni
cellulari, perché la «catena» si era ingrossata. Potevamo essere una
cinquantina, compresa una reclusa. La donna, che aveva le mani slegate, non era
trattenuta dal giro della catena comune. Ci seguiva. Era una donna brutta,
bassotta, con tanti capelli neri e con le labbra sottili della sanguinaria. La
maggioranza era in borghese, in viaggio per la casa di espiazione. I reclusi,
col loro abito carnevalesco, colorivano la scena, e i galeotti, col
tintinnìo della catena che penzolava loro dal fianco,
Fuori della stazione ci aspettava una folla
enorme. Passammo tra i commenti degli spettatori e filammo, in linea, per tre o
quattrocento passi, fin dove ci aspettavano i veicoli.
Le vetture erano meno crudeli delle
carrozze cellulari. Erano omnibus lunghi, a giardiniera, col tendone che giungeva
a filo dell’orlo del veicolo. Col tendone legato alla sponda, non potevamo
vedere, curvandoci, che i sassi o le pietre della strada e il lucido del mare
conturbato quando lo rasentavamo. Eravamo pigiati, quasi l’uno sull’altro, ma
rinfrescati, di tanto in tanto, da una buffata d’aria marina.
L’impressione che si subiva era
però più spaventevole di quella di essere chiusi nel carrozzone
cellulare. Perché quando il veicolo passava sui sassi metteva in rivoluzione le
budella e quando sterzava pareva che stesse per riversarci nella via
sottostante o nel mare.
A un certo punto, i cavalli smisero il
trotto. La salita era divenuta faticosa e i vetturali facevano schioccare ..
La discesa fu più difficile. Uscendo
dal buio, col fagotto nella mano legata con l’altra, e la catena intorno
all’ascella tirata da quelli che precedono e seguono, si mette il piede sul
predellino con la paura di scavigliare o di ruzzolare sul selciato.
Nella luce dei lampioni foschi e delle
fiamme libere dei becchi
Arrivai in faccia a un portone
spalancato e sormontato dallo stemma del carcere giudiziario, con la lingua che
penzolava dai denti come quella di un cane. Ero digiuno, con la bocca secca. La
lingua mi sembrava un pezzo di carne dalla pelle ruvida in bocca come un
castigo. A sinistra dell’entrata, era un tubetto di ottone che usciva arcuato
dal muro e lasciava cadere una colonnuccia d’acqua. Il rumore della caduta
sulla pietra decompose
Lo smanettamento, la consegna delle
buste coi denari e la registrazione dei detenuti durò una buona
mezz’ora. I viaggiatori sembravano stracchi morti. Nessuno diceva una parola.
Qualcuno sbocconcellava la pagnotta e qualche altro rimaneva in piedi. Io fui
l’ultimo, perché mi ero posto dietro tutti, sulla panca in giro dello stanzone
immenso. Mi si conosceva di nome e questo mi suscitava la speranza che avrei
potuto indurli a farmi comperare qualche vivanda per
Delle cimici che divoravano il soffitto,
annerivano le pareti e muovevano il pagliericcio, ho già parlato.
È una donna nuova. Imbevuta di
idee proibite, uscì dalla società dello zar come una rivoltosa
che non ha paura di stroncare i legami che la legano al mondo pieno di
pregiudizi e di ingiustizie. Fortificata dall’esempio delle nichiliste delle
classi superiori del suo tempo, le quali abbandonavano la casa patema come le
mogli del teatro di Ibsen abbandonano la casa maritale, Anna Kuliscioff,
consumato il periodo della propaganda pratica per la campagna russa, si
avviò verso l’esilio, con l’anima piena di negazioni, con la fede
nell’avvenire, determinata a compiere la sua evoluzione intellettuale in mezzo
alla gente latina in lotta per la rigenerazione sociale.
La Kuliscioff è stata la prima
nichilista che ho conosciuto. Le venni presentato da Benoit Malon, a Lugano,
quando il comunardo scriveva, se mi ricordo bene,
La Kuliscioff poteva essere intorno ai
venti anni. Mi parve una vergine slava. Con una testa da madonna, con la
carnagione bianca imporporata di salute, con le trecce lunghe, di un biondo
luminoso, per le spalle, mi faceva pensare alle donne graziose dei
preraffaelliti che in quei giorni ammiravo come uno narcotizzato dai loro
colori.
Malon parlava, e io mi perdevo negli
occhi della nichilista, inondati di quella malinconia che va al cuore come una
nota soave, al punto da farmi riprendere da una voce grave - una voce che mi
insegnava che un socialista non deve contemplare una signorina viva come si
farebbe con una figura sulla tela.
Seppi dopo molte cose di lei. Della sua
agitazione, dei suoi studi, della sua prigionia, del suo sfratto dall’Italia,
dei suoi amori, della Rivista Internazionale del Socialismo ch’essa
pubblicava con Costa, della nascita della sua Andreina, delle sue tribolazioni,
della sua laurea di dottora, della sua unione con Turati, della sua malattia
crudele, ma non la vidi più che nel ‘95, cooperatrice e collaboratrice
della Critica Sociale.
Nel ‘78 il mio pensiero si genufletteva
alla bellezza. Oggi, esso si inchina alla pensatrice.
Migliaia di donne, in mezzo agli
uragani della sua esistenza fortunosa, sarebbero naufragate cento volte. Anna
Kuliscioff è sempre rimasta in faccia alle procelle come una sfida.
Dagli avvenimenti che volevano inghiottirla, usciva sempre più forte,
più saggia, più preparata a sgomberare la società del
passato per far largo all’avvenire.
Neppure la sua malattia implacabile
seppe vincerla. Di tanto in tanto si diffonde, tra gli amici, una notizia
funebre. La Kuliscioff sta male - la Kuliscioff ha poco da vivere - la
Kuliscioff è in fine di vita. E poi non se ne sa più nulla. Non
si parla più del suo male implacabile. La si rivede, con la sigaretta in
bocca, al tavolino dell’amministrazione o della redazione a lavorare come una
negra. Avveniva, su per giù, la stessa cosa con
La Martineau ebbe tempo di completarla
e di lasciarla negli armadi dell’editore per venti anni. Per venti anni i suoi
amici si aspettavano, ogni mattina, di leggere nei giornali la fine della
giornalista che ha prodotto più di ogni altro uomo del suo tempo([4]).
Nel ’98 è capitato alla
Kuliscioff quello che un secolo prima era capitato a madame Roland. Di vedersi
svegliata all’alba dagli agenti di pubblica sicurezza e di andarsene in
prigione nella vestaglia.
Nelle poche parole ch’essa
pronunciò dinanzi il Tribunale militare è tutta la donna che ho
presentato. Compendiano il suo cuore, la sua modestia e il suo carattere.
Leggetele, vi troverete la indifferenza tragica per tutto ciò che
riguarda l’imputata - la serenità della martire che crede, che persiste
a credere, che crederà sempre che nel socialismo sia la rigenerazione
sociale.
«La mia azione nel partito socialista
era molto limitata e molto modesta. Se verranno fuori dei fatti a mio carico io
ne assumo fin d’ora
In letteratura io e la Kuliscioff siamo
divisi da un abisso. Ella, se l’ho capita bene, sente ancora dell’affezione per
la vita romanzesca intessuta dalla fantasia dell’autore e drappeggiata nella
fraseologia che non lascia esalare i cattivi odori dell’ambiente. Io sono
più rude. Spalanco tutte le porte, discendo in qualunque fogna e mi
servo del linguaggio dei personaggi che riproduco. Il mio temperamento mi
trascina ad essere sincero in ogni manifestazione della vita senza preoccuparmi
se farò smettere di leggere o chiudere il libro anche agli amici che mi
vogliono bene.
La ragione di questo nostro dissenso
letterario è che in fondo alla Kuliscioff è rimasto un po’
d’idealismo e un po’ di misticismo. Ella dà la preferenza al libro che
lascia vivere qualche illusione e che non svergina o smaga brutalmente chi
legge, e crede alla immortalità dell’anima. Non mi meraviglierei domani
di saperla spiritista.
Sul terreno delle questioni economiche
essa torreggia. E il futuro storico del socialismo italiano lascerebbe un gran
vuoto nel suo lavoro s’egli non ci dicesse l’influenza che questa donna ha
esercitato sul movimento di quest’ultimi venti anni.
Nel resto la Kuliscioff è donna
capace di grandi amori e di odii inestinguibili([5]).
Turati, De Andreis, Romussi, Federici e
Valera si sono riveduti, dopo tante noie, con dei baci, degli abbracci e delle
strette di mano, nel cellone esagonale B, numero 2, del secondo raggio.
Gli ultimi tre erano giunti dal reclusorio di Finalborgo e i due deputati erano
ancora sbalorditi dai dodici anni di reclusione che aveva inflitto loro il
Tribunale militare.
La loro vita era piuttosto agitata. Si
alzavano, alla mattina, mezz’ora prima dell’alba e ciascheduno nella propria
cella, dopo il caffè, si metteva al lavoro. Turati aveva sempre un
mucchio di lettere da scrivere e un numero infinito di Riviste da leggere;
Romussi, il quale sdrucciolava dal letto sempre di buon umore, era sommerso
nelle opere di Carlo Cattaneo; del quale stava facendo uno studio; De Andreis,
l’uomo che non pensava mai alla condanna, aveva del lavoro fin sopra i capelli.
Leggeva dei poeti inglesi, tedeschi e francesi
Alle otto antimeridiane, si
trovavano tutti nel raggio del passeggio - un raggio angustissimo - si davano
il buon giorno, si dicevano se avevano dormito bene o male - la maggioranza
pativa di insonnia - si comunicavano le notizie portate loro dalle ultime
visite e dalle ultime lettere e poi incominciavano la conversazione, la quale
era sempre interessante anche quando, per ridere, discutevano della
possibilità di una evasione, citando quelle storiche di Napoleone III,
di Rochefort, dei prigionieri politici della monarchia di luglio, di
Krapotkine, di Bakunine, ecc., ecc.
Ritornavano in cella a lavorare per un
paio d’ore e poi, alle undici, ciascheduno usciva con la sedia, col tovagliolo,
con la forchetta e col cucchiaio di legno e andava a far colazione nel cellone
turatiano.
La loro colazione alla forchetta era
modestissima. Quando non ordinavano il risotto alla certosina o la polenta col
fegato in comune, Romussi mangiava i tagliatelli al sugo e la costoletta
coll’osso, Turati un piatto di carne e due uova strapazzate, De Andreis vi
aggiungeva un po’ di gorgonzola, Federici faceva precedere al pollo o al fegato
la zuppa alla pavese e Valera alternava le uova al tegame con la pasta al burro
ben cotta.
La discussione si animava bevendo
qualche bicchiere di vino buono delle bottiglie che mandavano gli amici,
mangiando dei dolci che inviavano la mamma di Turati, o la signora di Federici
o di Romussi - e fumando le sigarette che trovavano un po’ dappertutto.
Qualche volta capitavano loro, durante
la giornata, dei cestelli di frutta fresca, dei panettoni che obbligavano De
Andreis a mettere sul tavolo la bottiglia di barolo che Turati dimenticava
nell’angolo.
Il deputato di Milano non voleva
Il discorso eterno era la Cassazione
che li teneva sugli aghi. Ma facciano presto!
Mandateci in galera, dicevano, ma, fate
presto in nome di Dio!
Nessuno si lasciava cullare dalla
speranza che i magistrati dall’alto tribunale avrebbero accolto il ricorso.
Tuttavia, quando andava Majno a trovare qualcuno di loro, rinasceva la
discussione con un po’ di fede.
- Me l’ha detto lui adesso! Egli si
crede, legalmente, in una botte di ferro.
- Volete che Majno non sappia quello
che dice?
De Andreis faceva il suo solito
risolino e voltava le pagine del libro che aveva fra le mani. Per lui, erano
chiacchiere inutili. E si metteva a sviluppare il suo programma di condannato a
dodici anni con una indifferenza che faceva scappare la pazienza a Turati, il
quale non voleva assolutamente diventare un eroe della casa di pena.
Dodici anni sono lunghi, eterni, sono
la vita di un uomo! È un errore, aggiungeva il Turati, credere che si possa
lavorare serenamente in queste condizioni, quando si manca di tutto, quando si
deve vivere in un buco ove si soffoca d’estate e si gela d’inverno, con
venticinque centesimi al giorno!
Romussi metteva sul tappeto la
questione del viaggio. Egli, che si ricordava del vagone cellulare che lo aveva
condotto a Finalborgo con degli scotimenti di testa, vedeva avvicinarsi il
giorno della partenza con orrore.
Gli rincresceva di lasciarsi chiudere
in quella specie di cassa da morto. Ma non avrebbe ceduto. No, non avrebbe
ceduto! Se il Governo voleva disonorarsi, tanto peggio per lui. E andava sotto
la finestra a dare delle puntate di scarpa nel muro.
- No, no, e poi no! non mi
lascerò commuovere dalle lagrime di mia moglie e di mia figlia. Non
voglio andare nel vagone a mie spese per salvare Pelloux dall’infamia di
trattare i giornalisti come delinquenti comuni!
- Ci lasceremo tagliare i baffi e
indossare l’abito del recluso?
La Kuliscioff, che Turati vedeva spesso
nella stanza dei colloqui speciali, era determinata a sostenere una battaglia
in favore dell’abito del condannato politico. Essa aveva già detto al
capoguardia che nessuna guardiana avrebbe osato metterle le mani addosso per
farle indossare la veste abbominevole della reclusa.
Federici non ne era molto interessato.
Egli diceva che non si disonoravano i condannati politici indossando la toletta
del condannato comune. Sono quelli che la impongono loro che si disonorano. La
preoccupazione sua era piuttosto se si dovesse lasciare sola la Kuliscioff a
sostenere la lotta per l’abito. Valera ricordava che anche i deputati
irlandesi, ai tempi delle ultime leggi eccezionali, erano divisi su questa
questione. Il più accanito fu O’ Brien - l’ex direttore dell’United
Ireland. Egli la considerava una grande battaglia politica e la sostenne
non lasciandosi svestire che dopo lotte disperate tra lui e gli aguzzini di
Kilmainham - prigione di Dublino. Ci vollero otto carcerieri a strappargli la
giacca ed il panciotto. E i calzoni, otto giorni. Egli stette otto giorni in cella,
in camicia, senza coperta e senza pagliericcio d’inverno, a costo di crepare di
freddo e di starnuti.
Ma poi ha dovuto finire per lasciarsi
vestire come gli altri. Mandéville, il quale ha voluto imitarlo, è
uscito sconquassato dai pugni ed è morto. E gli altri deputati - Hooper,
Sheehy e Carew - che non hanno resistito come O’ Brien, dopo il pugilato in
carcere, non sono stati più loro. Anche al Parlamento non si son fatti
più sentire che come votanti. L’amico Michele Davitt, che è ora
alla Camera dei Comuni ed è stato alla servitù penale, come
feniano, per sette anni, non dava alcuna importanza agli sforzi di O’ Brien. Mi
raccontava che era del tempo sciupato. L’Irlanda aveva altro da fare che
occuparsi dei calzoni di O’ Brien!
A mano a mano che si avvicinavano alla
decisione della Cassazione, i colloqui si succedevano ai colloqui in un modo
straordinario. Erano parenti, amici, compagni di lavoro che andavano al
Cellulare come in processione. Pei condannati, era uno strazio. Passavano da un
abbraccio all’altro commossi della commozione altrui. Toccava ai condannati far
coraggio ai visitatori! Il Turati risaliva qualche volta sfatto.
- È un supplizio. A momenti, mi
facevano piangere!
Romussi, più di una volta,
entrava nel cellone colle lagrime negli occhi.
Federici rientrava e si metteva a
passeggiare colle mani imbracciate. De Andreis invece si toglieva la giacca -
lui non stava mai che in maniche di camicia - la metteva con cura sul letto di
Turati, accendeva una sigaretta e ricominciava a mandare a memoria delle
declinazioni latine!
Il giorno in cui si seppe l’esito della
Cassazione mangiarono con maggior appetito senza punto discuterlo. Lo sapevano
anche prima. Il ricorso per loro non era stato che un modo per guadagnar tempo
e per aderire alla volontà dei parenti e degli amici che volevano che si
andasse fino in fondo. Il dolore comune erano le centocinquanta lire!
- Queste sì, disse De Andreis,
che sono state sciupate!
- Rubate! dicevo io.
Dopo la parola della Cassazione fu
davvero una pena. Nessuno era riuscito a dir loro il giorno della partenza e
ogni sera si separavano coll’ambascia di non rivedersi più per del
tempo.
- Ci manderanno assieme?
Turati aveva una pallida speranza di
rimanere al Cellulare con la compagna della sua vita o di andare a Pallanza,
dove la sua buona mamma avrebbe potuto andarlo a vedere di tanto in tanto senza
fare un lungo viaggio. Romussi aveva paura di ritornare a Finalborgo, un luogo
maledettamente umido, lontano da Milano, ove gli sarebbero ritornati i dolori
artritici. Federici era considerato il fortunato dei fortunati. Lui aveva
già scontato quattro mesi dei dodici che gli avevano appioppati e lo
avrebbero lasciato
- Te fortunato! gli dicevano.
Di giorno in giorno, ne passarono
dodici. Dodici giorni di ansie crudeli. Facevano il pacco alla sera, dopo essersi
salutati con un abbraccio fraterno, e lo sfacevano alla mattina, ricominciando
il lavoro di suggestionarsi l’un l’altro.
L’ultima sera, disperati di non partire
mai e determinati a non pensare più alla partenza, si proposero di
mangiare tutti assieme il pollo alla cacciatora.
- Allora, disse Romussi, vedrete che ci
manderanno via. Il pollo alla cacciatora è sempre stato l’ordine di
partenza. In Castello abbiamo ordinato il pollo alla cacciatora e ci hanno
fatto partire prima di mangiarlo. Lo abbiamo comandato a Finalborgo e ci hanno
rinviati a Milano.
Alle due e mezzo della notte del 4
settembre il capoguardia andò nelle celle dei condannati politici a dir
loro di alzarsi in fretta che si doveva partire.
Alle tre si trovavano nell’ottagono
Romussi, De Andreis, Federici e Valera.
La cella di Turati era illuminata.
Vennero ammanettati e cellularizzati
nell’omnibus che li aspettava.
Alla stazione centrale si fecero prima
uscire De Andreis e Romussi.
Quando discesero dal predellino della
vettura Valera e Federici, gli altri due erano scomparsi.
Turati lo si fece partire per Pallanza
mezz’ora dopo, in un omnibus piccolo, che lo aspettava nello stesso cortile.
Egli si era portato via il materiale
per scrivere un libro sul socialismo italiano. Ma poi, ricordatosi della sua
idea fissa, che in galera non si scrive, smise l’idea per rimpinzarsi di libri.
La «colomba» e il linguaggio dei
detenuti non si possono capire bene che dopo sei mesi di cella in una casa di
pena o in un carcere giudiziario, dove la voce degli inquilini è
perseguitata dalle punizioni che macerano lo stomaco e riducono in una tana
sotterranea come tanti animali.
Una volta che siete passati attraverso
questo periodo di segregazione completa, con le guardie di custodia quasi
sempre in agguato per sorprendervi in flagrante violazione del regolamento, voi
entrate nel periodo di adattamento e incominciate a imparare tutte le
astuzie che vi aiutano a modificare la disciplina antisociale che impera
nell’ambiente dei reclusi.
La preparazione alla vita carceraria,
nell’isolamento senza interruzione, vi ha resi più sensibili.
La caduta di un fazzoletto vi fa
trasalire come il chiavone che entri nella toppa. Ci sono momenti in cui vi
pare di poter sentire le pulsazioni del cuore degli individui che abitano ai
fianchi della vostra abitazione. L’udito vi si raffina in un modo che nessuna
zampa di gatto può avvicinarsi all’uscio a vostra insaputa. A furia di ascoltare
le pedate dell’individuo che vi passeggia sulla testa, siete in grado di
distinguere il suo stato d’animo, di indovinare quando il suo pensiero è
tranquillo o rassegnato o quand’esso è sottosopra o imperversa per il
suo cervello come una tempesta.
Un addio sommesso, uscito da una di
quelle buche che chiamano finestre, vi giunge all’orecchio con tutti i larghi
della voce squillante e sonora. L’alito diventa, per il recluso, un suono; che
va giù a remigarvi nell’anima come un notturno tenero ed elegiaco di Chopin.
Dotati di questa percezione, voi
sentite nell’aria la voce di un sepolto come un’armonia lamentosa uscita da un
organo toccato da una mano raffinata. È lui che chiama in aiuto la
vostra «colomba», perché ha bisogno di sapere o di comunicarvi una notizia,
perché i crampi del suo stomaco lo obbligano a cercarvi un tozzo della vostra
pagnotta, perché ha una voglia matta di accendere la pipa o il sigaro, o perché
desidera farvi leggere un giornale che gli è riuscito di avere per la
via della via.
La «colomba» è una funicella o
un attorcigliamento di stracci, di striscie di fazzoletti o di camicie, o di
liste di lana o di panno sfilacciate. Tutto è buono, purché si riesca a
mettere assieme una specie di corda lunga tre piani di Cellulare. Per coloro
che sono condannati in un carcere giudiziario e quindi senza biancheria
propria, la «colomba» diventa un problema che non può sciogliere che la
pazienza o qualche detenuto sotto processo capace di regalarvi il materiale per
farla.
Con la pazienza potete rarefare il
tessuto della coperta - del letto, del pagliericcio, dell’asciugamano, del
fazzoletto e magari degli abiti che indossate.
Una volta che siete padroni di una
«colomba», voi potete mettervi tra i prigionieri, diremo così, agiati.
Voi possedete un tesoro che vi permette di comunicare con tutte le finestre
della facciata dell’edificio che vi ospita e delle facciate degli altri raggi
congiunti col vostro.
Mi spiego con un esempio.
Supponete che io occupi una cella al
primo piano di un ambiente di cento finestre. Le finestre sentono
dell’aguzzino. Vedute all’esterno, sembrano grandi buche da lettere
incorniciate in un rialzo di granito. All’interno, spaventano il novizio. Hanno
l’inferriata staccata dal pietrone che si protende in fuori e impedisce di
vedere le altre finestre e di agguantare la funicella che penzolasse dinanzi.
Io ho un solfanello e tutti gli altri
miei colleghi della mala vita vogliono fumare. Il solfanello del buon
prigioniero deve sempre essere di legno. Con uno spillo, del quale un vecchio frequentatore
di carcere deve essere munito, a costo di nasconderselo nella pelle, lo apro in
quattro.
Metto i tre quarti nel ripostiglio
più recondito della cella, e mi servo dell’altro per accendere un po’ di
lisca ravvolta in un mucchietto di filacce per impedirgli di divampare. Con
poco solfo sulla capocchia, sarei un cretino se mi dimenticassi dell’esperienza
dei miei colleghi. La quale è che non si deve mai passare allo
sfregamento senza prima avere strofinato ben bene un bottone di metallo o un
chiodo delle scarpe o un legno qualunque.
Sfregando leggermente sulla parte calda
o infocata voi potete scommettere che farete pipare tutti.
I miei amici del Cellulare sono tutti
pronti e non aspettano che il segnale, che può essere uno starnuto, o un
colpo di tosse, o anche una battuta di mano.
Accendo il mio virginia, tossisco,
metto fuori dalla finestra la scopetta e aspetto la fune dalla finestra del
terzo piano perpendicolare alla mia.
Tutto ciò avviene in un modo
rapidissimo. Alla estremità della «colomba» è un peso o un sasso
nel sacchetto o nel mucchietto di cenci. Lo tiro a me con la scopetta, vi lego
il sacchetto con la lisca che fumacchia internamente adagio adagio, sale, si
ferma alla seconda finestra ove è atteso, riprende la via e scompare
nella cella di colui che mi ha lasciato giù la fune.
Costui se ne serve e poi getta il
sacchetto attaccato alla fune sulla scopetta della cella a fianco.
È questo il movimento più
difficile della «colomba» ..Ma la mano abituata
vi riesce al primo colpo.
Il compagno che l’ha presa ne stacca il
sacchetto dalla funicella che viene ritirata, lo appende alla sua «colomba», se
ne serve e lo lascia cadere dalla prima alla seconda finestra, ove sosta come
accenditoio e riprende la discesa per
fermarsi alla terza finestra dove avviene la stessa operazione di
staccarlo da una «colomba» per
attaccarlo a un’altra e gettarlo sullo scopino della finestra a fianco.
Mi sono servito dell’esempio più
difficile. Gli esempi facili sono con le finestre sopra o sotto o a fianco della
mia. Se non ci sono le piantelle (guardie) nel cortile che adocchiano, io sono
sicuro, con la «colomba», di soccorrere e di poter essere soccorso.
Il linguaggio dei detenuti
è di una semplicità alfabetica. Lo si impara in mezzo minuto. Ma
non si può servirsene che dopo avere esercitato i pugni sulla parete per
dei mesi.
Le lettere dell’alfabeto del prigioniero sono ventuno e ciascuna
di esse corrisponde a un numero:
a b
c d e
f g h
i l m
n o
1 2
3 4 5 6
7 8 9 10 11 12 13
p q
r s t
u v z.
14 15 16 17 18
19 20 21.
Io e un altro siamo in due celle divise
da un muro. Non ci conosciamo, non ci siamo mai visti e forse non ci vedremo
mai. Ma l’uno desidera di sapere chi è l’altro e tutt’e due vogliamo
narrarci la storia dei nostri delitti.
Se io batto undici volte, voi avrete
capito che ho battuto una m, mentre se non do che tre colpi avrò segnato
il c.
Sono io che invito il compagno
dell’altra cella a fare conoscenza o a parlare con me.
Incomincio con una sfuriata di pugni
che pare traduca dell’allegria.
Egli mi risponde con altrettante
battute precipitate che rappresentano il saluto.
Lo interrogo con due colpi secchi e
serrati che vogliono dire: sei pronto?
Egli mi risponde con due battute l’una
dietro l’altra che equivalgono a «sono pronto, parla».
Supponete ch’io voglia domandargli: -
Chi sei?
Batto prima tre colpi, poi otto, poi
nove, poi diciassette, poi cinque, poi nove. Tra una lettera e l’altra
c’è una pausa per dar tempo al mio compagno di battere due colpi e farmi
sapere che ha capito.
In meno di dieci minuti io, colla
rapidità delle battute, posso fargli sapere chi sono, che cosa ho fatto,
quante volte sono stato condannato, se ho l’amante, se sono ammogliato, quando
finirà la mia sentenza e in che modo uscirò senza finirla.
La conversazione termina sempre con una
sfuriata di battute da una parte e dall’altra, come uno scambio di saluti.
Mi sono spiegato?
Di sera, verso l’ora della campana, le
muraglie delle celle diventano i nostri pianoforti. I nostri pugni sprigionano
fughe commosse, preludii che vanno nel sangue come tessuti di tenerezza, arie,
duetti, finali che si diffondono nella grandiosità dell’ombra, come una
fusione di poesia e di musica.
Non si sa se la sua mano e la sua testa
c’entrino per qualche cosa nella sua sempiterna attività prodigiosa. Si
sa ch’egli è una macchinetta automobile che riempie un foglio dopo
l’altro tutte le volte che c’è da scrivere. Al suo tavolo di redazione
voi vedete sempre proti e compositori che aspettano originali.
Supponete ch’egli stia scrivendo un
articolo sulla esposizione artistica. Gli si dice che mancano ancora due pagine
a compilare il numero unico per i bagni. Consegna il manoscritto sull’arte,
corre difilato alla stazione balneare senza rivedere lo stampone per
riattaccare il filo interrotto e pochi minuti dopo riprende l’opuscolo sui
doveri dei cittadini ch’egli deve finire per domani, o la prefazione agli
scritti di Carlo Cattaneo che ha promesso fino da ieri l’altro.
Intanto che scrive, passa e ripassa
dinanzi il suo tavolo la popolazione che lavora intorno al giornale e alla casa
editoriale. Impiegati, fattorini, portieri, telegrafiste, traduttori,
personaggi d’amministrazione. Lo si interroga, lo si interrompe, gli si
annunciano visite, gli si rammentano nomi o fatti. Ci sono persone che hanno
bisogno di vedere il signor direttore, amici che vanno a trovare Romussi,
zuppificatori che vogliono infliggergli certe idee su date questioni, veterani
del partito che salgono per stringergli la mano e interessarsi della sua salute
o della salute della sua signora, archeologi che seggono sulla scranna che
trovano per conversare e buttargli, tra un periodo e l’altro, un monumento
storico che è stato scoperto, o che si minaccia di demolire o che stanno
illustrando. Nel momento in cui si crede stia per incominciare la quiete, entra
un filantropo a squadernargli un progetto che deve commuovere e vuotare le
tasche ai cittadini, o un segretario di qualche circolo o di qualche associazione
operaia che vuole assolutamente ch’egli tenga una conferenza sul risorgimento
del Comune o sulla battaglia di Legnano, o un disgraziato che è ansioso
di leggere stampato il manoscritto che gli ha portato da tante settimane.
- E questo mio articolo, signor
Romussi!
- È sul «bancone». C’è
tanta materia da perdere
- Il signor Edoardo Sonzogno lo chiama
dabbasso.
Butta lì la penna, passa dagli
usci come una folata di vento che schiuda e chiuda fracassosamente, ritorna di
sopra stropicciandosi le mani o rosso fino alle tempie, e ricomincia l’articolo
su Crispi, parlando tra lui e il manoscritto, come se stesse dettandolo, spesso
posando la voce più fortemente su una sillaba che su l’altra.
- L’onorevole Crispi è una vera
sfortuna per l’Italia.
Questa vita quotidiana, capace di
ammazzare due
Se sono bene informato, egli è
al Secolo da ventinove o trent’anni. Vi è entrato in un modo
curioso. Moneta era alla ricerca di un redattore che avesse delle
qualità giornalistiche e una coltura che andasse al di là di
quella dei soliti giornalisti improvvisati. Un giorno trovò per
- Senta, professore, non saprebbe mica
aiutarmi a scovare un giovane che abbia imparato qualche cosa e facilità
di scrivere?
Il professore di letteratura si
passò la mano sulla fronte.
- Eh, proprio, è difficile. Ne
ho conosciuto uno, quello sì... Era un diavolo che sapeva scrivere
drammi, novelle, brani di storia, biografie... La sua penna andava come il
vento.
- Se è morto non parliamone.
- È vivo. Ma non so dove sia
andato a finire. Aspetti, deve essere a Pavia. Credo che studii legge.
Certamente non vorrà smettere per fare il giornalista.
In allora, per spiegare la frase
dell’autore della Celeste, non erano che gli scapigliati che si
compiacessero di prendere delle sbornie coll’inchiostro di redazione. Erano
giovani pieni di coraggio e anche d’ingegno o degli studiosi che volevano farsi
largo, ma irregolari nella vita e nel lavoro. Nessun direttore poteva contare
sul loro articolo pel numero di domani. Gli editori pagavano poco o
niente e i giornalisti di professione, come è naturale, non esistevano.
Non esisteva che la bohême
chiassosa, buontempona, nottivaga, capace di annunciare in prima colonna e in
corpo dieci che i redattori avevano orgiato e non potevano quindi scrivere
l’articolo di fondo o l’appendice drammatica!
Un anno dopo, Moneta rivide il padre
del Falconiere e lo pregò di procurargli un giovanotto che avesse
la stoffa del giornalista.
- Fra i miei scolari passati e presenti
non ne conosco uno. Non potrei suggerirle che quello dell’anno scorso. Quello
là ha tutte le attitudini per uno scrittore di giornale. Ha una penna
pronta, sollecita, che si piega a tutte le movenze di uno stile facile. Ha
letto molto. È una biblioteca ambulante.
- Me lo mandi, dunque!
- Vedrò di cercarne l’indirizzo.
Un giorno, in cui il pensiero di Moneta
era lontano le mille miglia dal redattore che gli doveva mandare il Marenco, si
sentì annunciare il dottor Carlo Romussi.
- Passi.
Fisicamente non gli fece una grande
impressione. Non gli si era presentato che un omino il quale non lasciava
supporre in sè tanta resistenza al lavoro. In due parole
s’intesero. Il Romussi faceva pratica d’avvocato ed accettava volentieri di
passare a teatro le serate come critico d’arte. Moneta voleva qualcosa di
più di un critico d’arte, ma per il momento si accontentava.
È inutile ch’io dica dei suoi
ideali drammatici. Tutti sanno che il Romussi in arte e in letteratura non
è stato figlio del suo tempo. Egli è entrato nel giornalismo come
un vecchio che sente e difende le glorie virtuose del passato. Assoluto come
tutti quelli che credono di avere il monopolio della verità, ha sempre
dato addosso o ignorato la gioventù che ha portato sul palcoscenico e
nel romanzo o sulla tela o nel marmo la vita con le sue grandezze e coi suoi
orrori. Zola fu uno dei suoi boicottati fin a ier l’altro. La Duse, per lui,
è rimasta un’artistaccia di provincia. Ibsen non gli uscirà mai
dalla penna che come un degenerato del teatro.
La fortuna del Secolo data dalla
guerra franco-germanica. Il Moneta simpatizzava per la Francia antimperiale e
la tiratura salì vertiginosamente dalle otto alle venticinque mila. Era
un trionfo giornalistico che bisognava conservare migliorando il servizio. E
Moneta assunse, come cronista a ottanta lire il mese, l’avvocato Carlo Romussi.
Il suo primo articolo fece scalpore.
Gli altri giornali avevano narrato il giorno antecedente un grave scandalo
contro un patrizio milanese. Moneta, giudizioso e temperato, non volle lasciar
correre la notizia se non dopo essersi informato personalmente che esisteva una
querela e che c’erano i genitori i quali affermavano che la loro figlia
minorenne era stata deflorata da un duca. Romussi non fu che l’esecutore. Avuto
l’incarico dalla direzione, si mise al tavolino a fianco della vecchia
scrivania del direttore e scrisse più di una colonna colorita,
spigliata, nervosa, paragonando il violatore di fanciulle al Borgia crapulone.
Venuta la minaccia di una querela per diffamazione, e sinceratisi, con le
visite mediche, che la ragazza era virgo intacta, il Secolo trangugiò
uno di quei rospi vivi che non lasciano sopravvivere che la buona fede del
giornale.
La cronaca composta di note aride e di
fatterelli che facevano sbadigliare, divenne, nelle mani del Romussi, una
rubrica importantissima. A poco a poco del Broglio del Pungolo - il
quale passava per il cronista sommo della Risottopoli per le sue noterelle
patrie e per avere introdotto, tra i fatti cittadini, le notizie che la
questura comunicava a lui solo - non rimase più nulla. La cronaca si era
elevata, Romussi l’aveva intellettualizzata, allungata, drammatizzata e resa
indispensabile. Con lui i pennivendoli più sfacciati della cronaca
cittadina sono stati obbligati a divenire più prudenti o a frenare la
loro ingordigia.
Egli è ora direttore del Secolo,
di quasi cento mila copie, ma io, a costo di farmi lapidare, persisto a
credere che sia in lui più l’uomo di lettere che il giornalista. Chi ha
letto i suoi lavori e specialmente Milano nei suoi monumenti - un’opera
che quando sarà terminata rappresenterà la sua gloria - non
può venire che a questa conclusione. Egli è un illustratore
passionato. Charles Dickens è stato il primo direttore del Daily-News
a due mila ghinee l’anno. Ma anche i suoi più grandi ammiratori
hanno dovuto convenire che la sua tendenza era verso l’immortale Pickwick.
Romussi è sempre pronto a buttar giù, lì per lì,
qualunque soggetto. Ma il giornalismo moderno non si contenta della vitesse della
penna. Esso esige tutta l’attività di un uomo anche se quest’uomo non
scrive mai un articolo. I più grandi direttori dei più grandi
giornali del mondo scrivono pochissimo. John Dilane, l’autore, si può
dire, del Times dei nostri giorni, non fu mai a writer. Non
scrisse che qualche articolo tra un anno e l’altro. Ma i suoi biografi sono
concordi nel dire che egli era il Times.
Carlo Romussi è pieno di cuore,
ha ridondanza di affetti ed è un amico, se vi dà veramente la sua
amicizia, prezioso. Egli è capace di dedicarvi l’esistenza. La sua
intimità con Cavallotti, la sua affezione per Cavallotti, la sua
idolatria per Cavallotti sono cose di ieri. Nessuna donna ha amato il poeta
anticesareo coi trasporti del direttore del Secolo. Per degli anni egli
non ha veduto che cogli occhi di lui, non ha palpitato che col cuore di lui e
non ha avventato un’idea politica che non fosse un idea cavallottiana. Ed
è stato un errore. La devozione di Pilorge per Chateaubriand mi
commuove. L’uomo privato può darsi il lusso dell’adorazione. L’uomo
pubblico, il direttore di un giornale, non può sposare un uomo con le
sue virtù, con i suoi difetti, con le sue aspirazioni, con le sue beghe
personali. L’uomo è un individuo, il giornale è una istituzione,
è un veicolo che deve andare in casa di tutti come un informatore.
Cavallotti può odiare il socialismo e i socialisti fin che gli pare e
piace. Il Secolo non può, non deve seguirlo. E con Romussi,
ipnotizzato da Cavallotti, il Secolo ha ignorato per degli anni il
socialismo e i socialisti. Non ne ha più parlato. Per lui non esistevano
o non erano mai esistiti o erano morti. Boicottare un partito per delle bizze
personali vuol dire rendere un cattivo servizio ai lettori che pagano per
essere informati di tutti gli avvenimenti e alla amministrazione che pubblica
il giornale per arricchire il suo editore o dare grossi dividendi agli
azionisti. Boicottate un uomo pubblico o un partito o una notizia e voi
sopprimerete dei lettori. Il giornale, che non è superiore ai rancori personali,
che non sa essere imparziale cogli amici e coi nemici, che ha delle antipatie e
delle simpatie, che omette questo fatto ed esclude quest’altro, perde il
diritto a questo nome. Diventa l’organo di Tizio o di Caio, ma non è
più un giornale nel significato professionale.
Carlo Romussi è nato
Ci siamo alzati, come gli altri giorni,
al suono del din din, dan dan della campana del reclusorio. I miei compagni
parevano tante mutrie. Rispondevano al buon giorno e agli augurii con dei buon
giorno e degli augurii secchi, come gente che si sarebbe morsicata se non ci
fosse stato di mezzo il galateo. Don Davide andò
L’intervallo tra il caffè e
l’aria fu sepolcrale. Passeggiavamo in su e in giù, con le mani sulla
schiena, con la faccia rabbuiata e con gli occhi che parevano altrove. Il
latrinaio, che ci aveva salutati con tutti i complimenti che aveva potuto
raccogliere la sua testa, rimase senza risposta.
- Signori, buon Natale e tanti anni
come questi!
Parecchi di noi lo avrebbero
sprofondato. Asino porco di un amazza donne, non è buono neanche di
essere gentile!
Va all’inferno!
- Aria!
- Ci lasci almeno prendere il
caffè, signor sottocapo. Un minuto, meno di un minuto.
Il caffè era squisito. Era stato
fatto dalla mano maestra del Federici che non lo beveva. Don Davide prese la
chicchera senza ricordarsi dell’ordine che aveva dato. Il moka ci lasciò
immusoniti più di prima.
Andammo all’aria come a un funerale.
Nel cortile eravamo sbandati. Ciascuno passeggiava per proprio conto. Pareva
che l’uno non volesse avere contatto con l’altro. Ritornammo nella camerata
accigliati e taciturni. Chiesi sedette sulla branda piegata e si
sprofondò in una Histoire de la Commune illustrata, don Davide si
sommerse nel Breviarium romanum che teneva sempre sul tavolo, Federici
aperse il Dodo - un romanzo che riproduce la vita intima inglese e
lascia sentire l’odore della classe che dipinge. Lazzari si rimise sulla figura
che stava disegnando con gli occhi torvi e l’aria di un mastino che avrebbe
addentato il polpaccio del primo che gli si fosse avvicinato. Suzzani
ricominciò a percorrere lo stanzone senza zuffolare l’inno dei
lavoratori, la sua aria favorita che ci regalava dalla mattina alla sera senza
perdere di lena - e Ghiglione, il tremendo Ghiglione che aveva sobillato con
fervore i terrazzani di Niguarda, si era gettato a capofitto in un manuale di
musica da quindici centesimi. La colazione passò nel silenzio. Ciascuno
mangiava quello che aveva ordinato senza dire una parola. La sola cosa in
comune fu una bottiglia della cassetta che ci aveva inviato il buon Quadrio,
direttore della Valtellina di Sondrio. Era un vino eccellente che non
bevevamo da un pezzo.
- Buono, dissi vuotando il bicchiere.
Nessuno rispose. Pareva avessi detto
loro una insolenza.
Dopo la colazione entrò il
sottocapo con un immenso pacco di lettere e di biglietti di visita e una manata
di telegrammi. Si buttarono loro sopra come avari che ricuperino il sacco dei
denari che credevano perduto per sempre, e si ingolfarono nella lettura intima
senza lasciar trapelare un pensiero dei tanti pensieri che erano loro giunti.
Le sole cose che riferivano erano i
saluti o gli augurii nei quali fossimo compresi tutti od alcuni di noi.
- Il tale vi saluta tutti!
- L’Aliprandi saluta anche te, Paolino.
- Grazie.
- Il tale augura a tutti buon Natale!
Tra i tanti telegrammi ricevuti nella
giornata ricordo quelli di Bertolazzi, i quali riuscirono a smutriare qualcuno.
- Buon Bertolazzi!
- Buonissimo!
Lungo l’asse che correva al dorso della
parete erano parecchi panettoni. Furono essi che incominciarono a dar vita alla
conversazione.
- Che ce ne facciamo? Non possiamo
mangiarceli tutti.
- E se ne dessimo uno ai poveri
forzati? I reclusi del maggio ricevono qualche cosa, hanno forse ricevuto tutti
qualche cosa. Mentre i perpetui e gli a tempo con la catena, non sono ricordati
neppure dai parenti. Chi ha vergogna di loro e chi li dimentica come individui
morti. E se ne dessimo una fetta, a tutti loro? C’è questo del
Mascarini, offelliere di Milano, mandato a don Davide. È grosso come un
cetaceo.
Federici non si fece ripetere
l’interrogazione. Se lo portò sul tavolo e con una cordicella si mise ad
affettarlo.
- Quanti sono?
- Ventinove o trenta.
Incaricammo di distribuirlo don Davide
Albertario. Fu una scena commovente - una scena che inumidì gli occhi di
tutti coloro che hanno potuto essere presenti. I forzati si alzarono in piedi,
rimanendo vicini al loro stramazzo, visibilmente commossi. Era forse la prima
volta in tanti anni che sentivano parole dolci pronunciate da una persona che
li capiva.
«A nome dei miei compagni della quinta
camerata - disse loro don Davide - vi dirigo il saluto in questo giorno di
pace; come prete, io vi auguro la benedizione di Gesù Cristo che consoli
il vostro cuore: accettate questo segno dei sentimenti del nostro cuore
desideroso del vostro bene». E incominciò subito
Don Davide mi prese sotto il braccio e
mi disse:
- Avete notato che piangevano? Dinanzi
al prete vestito d’assassino come loro, reo solo di avere professata la sua
fede con maggiore sincerità e fervore, si sono sentiti le lagrime agli
occhi. Non sono dunque completamente perduti. Credetemi, l’uomo che ha ancora
la rugiada del cuore, è ancora un essere redimibile. Sembravano degli
agnelli. Perché non vi sarà maniera di rendere duraturi nell’anima di
quegli sventurati questi nobili sentimenti e di ricondurli alla buona via?
«Ve lo giuro sull’anima mia: non dimenticherò
mai questo momento del Natale in galera. È un episodio che mi
resterà nella memoria in eterno. Mi hanno intenerito come un fanciullo».
- Diamo loro un altro panettone.
- Se si potesse, figuratevi!
Durante la giornata abbiamo avuto la
visita del capo guardia prima e del direttore poi. Il primo ci parlò
delle sue noie con dei prigionieri politici nello stabilimento. Per suo conto
avrebbe voluto che ci avessero lasciati andare oggi piuttosto che domani. Non
c’era più modo di aver pace. Parevamo gente in relazione con tutto il
mondo. Una volta non si vedevano i portalettere che per
- Senta, signor capo guardia, non si
potrebbe mica avere qualche sigaretta di quelle che mi hanno ritirate?
- Quest’altro, adesso! Vorrebbe la
gallina e poi anche l’ovo. Vorrebbe farmi nascere
Il direttore era stato in tutte le
camerate a fare una specie di predicozzo sui doveri del condannato e a
incoraggiare i reclusi a sperare nella grazia sovrana. Lo ascoltavano in
silenzio, in piedi, tra una branda e l’altra, e lo lasciavano voltar fuori con
dei viva l’amnistia! che forse lo facevano sorridere.
A noi non disse che qualche parola
insignificante e non parlò, con deferenza, che col Chiesi, il quale
sembrava nelle sue grazie. Io lo vedo ancora passarci in rivista col cappello
calcato in testa, col bavero del paltò alzato e con le mani in tasca.
Col suo sguardo truce e la sua voce da terrorizzatore, non mi invogliava a
vederlo, tra noi, per un pezzo.
Noi poi, escluso sempre il Chiesi, non avevamo ragione di essergli
riconoscenti. A Federici aveva negato parecchie cose che lo avevano fatto
imbestialire più di una volta. A Lazzari aveva fatto sequestrare tutti i
suoi disegni dopo che erano stati finiti. Tra gli altri eravi un don Davide vestito
da galeotto e alcune guardie alla nostra cancellata, che avrebbero potuto
illustrare qualche pagina del mio libro. A me non lasciò mai scrivere
una lettera senza farmela copiare e ricopiare per delle inezie o delle parole
contrarie al suo gusto letterario. A don Davide ne fece di quelle da farlo
venire di sopra con gli occhi pieni di pianto.
Una volta che il direttore dell’Osservatore
Cattolico si era permesso di mettere, per distrazione, le dita sulla
scrivania del direttore, il signor Reoboamo Codebò gli disse in tono
grave:
- 2557, tenete giù le mani!
Un’altra volta... Ma non ricordo
più bene il perché. So che gli si doveva comunicare qualche risposta
ministeriale a una sua domanda e che la comunicazione gli era stata fatta in un
modo brutale o da fargli capire ch’egli non era più che un numero di
matricola.
Eravamo nel periodo della fame, quando
stavamo in piedi con la pagnotta e
- Che cosa vi è accaduto?
Stette in forse se mangiare o buttar
via la gamella.
- Mi è accaduto... Mi è
accaduto che mi si è detto chiaro e tondo che io non devo
considerarmi ormai più che il 2557 e io ho dato fuori. Sissignori, ho
dato fuori! Dunque, dissi al direttore, mi considerano e intendono trattarmi
come un vero delinquente? Sia! La prego però di darmi la carta per
scrivere al ministro Pelloux che mi faccia fucilare! Laggiù non si
conosce che cosa sia la dignità umana e io gliela farò imparare!!
Noi ci guardammo tutti in faccia come
spaventati. Non lo avevamo mai veduto con gli occhi stralunati e le guance
convulsionate dallo sdegno.
- Calmatevi, don Davide.
- Anche il direttore dopo avere veduto
che mi aveva indignato mi ha detto di calmarmi. Non si è più
padroni di sè quando ci si dicono certe cose!
- Mangiate la minestra che è
quasi fredda e passate sopra alle parole che vi possono dire in un luogo come
questo.
- Siete o non siete il 2557? - gli
diss’io ridendo e facendolo ridere.
- Lo sono. E si mise a manducare.
La novità del giorno di Natale
è stata che abbiamo potuto, per la prima volta, mangiare sulla tovaglia
candida, avere il tovagliolo candidissimo e servirci dei cucchiai, delle
forchette e dei cucchiaini di metallo. Era della roba che ci aiutava a
rientrare nella società che stavamo per dimenticare. Mancavano a
completare la tavola imbandita i coltelli - arnesi pericolosi per della gente
in galera.
L’allegria era assente. Si
iniziò il pranzo con un bicchiere di vino bianco di botte e con del
prosciutto tagliato di fresco. Assaggiammo una minestra stata cotta sul
fornello della trattoria esterna e attaccammo, con qualche appetito, un
tacchino di Filighera e dei polli stati allevati in Liguria, che mandavamo
giù tra una forchettata e l’altra di insalata giovine. Giungemmo al
zabaglione dopo avere vuotate parecchie bottiglie valtellinesi, senza dire una
parola che valesse la pena di essere ricordata sul palinsesto della mia
memoria.
Il pensiero dei miei compagni era
probabilmente intorno il collo dei loro cari. Chiesi pensava alla sua mamma,
Federici alla sua signora e alla sua bimba che spasimava di vedere, don Davide
alla sua Teresa, la sorella che lo idolatra e Suzzani a sua madre che nominava
sovente.
Potevamo star su fino alle dieci.
Alle otto eravamo tutti a letto.
Chiesi russava maialescamente da dieci
minuti.
Gustavo Chiesi è uscito dalle
pagine di Mazzini. Tutto ciò che è regio non entra nei suoi
ideali. Tutto ciò che è frivolo non partecipa della sua
esistenza. Le sue alte aspirazioni sono per una Repubblica di repubblicani
ammodernati dalla vita pubblica.
In un periodo di specialisti, egli
è rimasto l’uomo di una coltura straordinaria. Volgendosi verso la montagna
della sua produzione, si può credere che egli abbia dato fondo
all’universo. Si è occupato, con competenza, di tutto lo scibile umano.
Di storia, di scienza, di letteratura, di invenzioni, di geografia, di arte, di
navigazione, di questioni agrarie, di strategia militare, di industria, di
drammatica, di legislazione. Egli ha biografato mezzo mondo. Da Dante a
Cimarosa, da Leonardo da Vinci a Cavour, a Cantù, a Crispi. Non
c’è uomo illustre nella storia e nel rinascimento patrio che non sia
entrato nella sua collezione illustrata.
Self-made man del giornalismo
italiano, egli si è scelto un motto inglese adatto alla sua pertinacia
di lavoratore: time is money - il tempo è danaro. Con una testa
costantemente in eruzione e convinto che «la volontà è l’anima
dell’ingegno e la vittoria del progresso», egli resiste al tavolo fino ai
crampi nella mano. Passa indifferentemente da un soggetto all’altro, senza
bisogno di sosta. Smette l’articolo politico e riprende la continuazione
dell’appendice, consegna al proto la pagina critica e si riversa sull’Italia
irredenta - una pubblicazione che deve «tener vivo nelle masse il
sentimento della loro nazionalità, il retaggio sacro della lingua, la
speranza di una rivendicazione avvenire».
È difficile trascinarlo in una
conversazione che gli faccia perdere il tempo e il danaro, ma una volta ch’egli
si decida per il riposo, vi trovate con un causeur nel vero senso
della parola, con un uomo il quale sembra non abbia fatto altro nella
vita che occuparsi di salotti aristocratici o di aneddoti politici o di musica
wagneriana. Verso sera, quando si aspettava la luce elettrica o si flanellava,
gli abitatori della quinta camerata lo ascoltavano tra una meraviglia e
l’altra.
Pareva Villemesant o Rochefort che
stesse dettando le sue memorie. Si andava dall’Africa - ove era stato due volte
come corrispondente del Secolo - al palcoscenico di una prima donna che
ha fatto storia - nel dietroscena di Caprera quando donna Francesca rimase col
generale - alla redazione di un giornale che si ricorda ancora - a un
periodo tumultuoso che egli sapeva rimettere in piedi tale e quale, colla data,
cogli incidenti, cogli attori principali, sceneggiando il
disastro o il trionfo coi colori di una tavolozza arciricca. Un
semplice paesucolo sconosciuto diventava nella sua bocca di un interesse
sommo. Ce lo circondava delle industrie e degli uomini della regione e ci
diceva l’avvenimento che lo aveva reso celebre.
Pur pensando a Cavallotti quasi
balbuziente, dubito che il Chiesi abbia qualità oratorie. Gli mancano i
mezzi vocali e l’inconsapevolezza di Castelar che sa stare sulla
piattaforma con la tranquillità di uno scrittore a tavolino.
Il processo del tribunale di guerra
è riuscito a propalare assai più il suo carattere, la sua
produzione letteraria, la sua attività giornalistica.
Prima, quantunque avesse scritto una
ventina di romanzi, descritta l’Italia da un capo all’altro, il suo nome non
era nelle moltitudini come oggi. Giornalista che aveva nutrito una legione di
giornali, gli mancava la simpatia nazionale che gli ha data una condanna la
quale ha fatto fremere anche coloro che sono agli antipodi de’ suoi ideali
politici.
In Gustavo Chiesi è
l’imperturbabilità grandiosa di Danton che dice al carnefice di mostrare
la sua testa al popolo. È rimasto sul banco degli accusati di un
tribunale militare come uno stoico. Se ha aperto bocca, non è stato per
proteggere la sua prosa giornalistica, ma per salvare i suoi cooperatori e
adempiere al dovere di direttore.
- Io non ho da dire che due brevi cose.
«Primo, ringrazio i miei difensori per
la grande dottrina colla quale mi hanno difeso. (Era stato difeso dai tenenti
Giglio e Corselli). Secondo, dichiaro sulla mia parola d’onore che il Cermenati
si recò a Pavia e a Piacenza soltanto in qualità di redattore del
giornale, e per nessun’altra ragione».
E quando Bacci, il sostituto avvocato
generale in missione, escluse dal numero dei colpevoli Ulisse Cermenati e
Arnaldo Seneci, amministratore dell’Italia del popolo, sulla faccia del
direttore si diffuse
In galera nessuno lo ha mai sentito
lamentarsi. Egli lavorava dalla mattina alla sera e non sostava che per pensare
alla vecchia madre che lo piangeva disperatamente.
Pochi idolatrano la famiglia dei
genitori e contribuiscono al suo benessere come Gustavo Chiesi.
Egli è stato eletto deputato
mentre era nel reclusorio di Finalborgo e Forlì continuerà ad
eleggerlo per un pezzo, perché Gustavo Chiesi non è di coloro che si
abbandonano subito dopo che la giustizia delle masse ha stravinto la giustizia
delle classi.
Conosciuto, lo si ama per la sua
intelligenza; per la sua bontà e per la saldezza dei suoi principii.
In questi tempi di uomini di carta pesta,
un uomo di bronzo, come Gustavo Chiesi, diventa, in un ambiente legislativo
come il nostro, un tesoro nazionale. Tiene in piedi anche i legislatori di
pasta frolla.
È dotto, è una biblioteca
ambulante ed è una penna incorruttibile che perseguita i corrotti.
Ci fu un galeotto che ci disilluse
tutti. Era il cuoco del bettolino - un buon diavolo cogli occhioni pieni di
lampeggiamenti e con le ganasce lardose. Aveva per noi della vera affezione.
Coi pochi centesimi che potevamo spendere, si struggeva per farci mangiare meno
scelleratamente che poteva. Soprattutto era pulito. Ci portava alla mattina una
minestra per venticinque centesimi, la quale, in galera, potevamo dire buona e
delle porzioni di gnocchi di patate che mandavano in visibilio Romussi.
- Neanche la mia cuoca saprebbe
cucinarli così bene!
Gustavo Chiesi, che si interessava
assai poco della vita del reclusorio e che giurava, di tanto in tanto, che non
avrebbe mai scritto una riga sulla sua prigionia, aveva della tenerezza per il
cuoco. Ci diceva che, se andava fuori, voleva fare qualcosa per lui, perché lo
meritava. Sapevamo che era un fratricida, ma avevamo la sua parola d’onore
ch’egli era innocente. Secondo lui, non fu che il caso che lo fece trovare
nella stanza ove un altro suo fratello scannava il terzo. In galera poi non si
può pretendere di trovare delle mani immacolate.
Una mattina che avevamo più fame
del solito, lo aspettavamo andando in su e in giù per la camerata e
gettando occhiate per il corridoio attraverso la spia.
- Ma questo cuoco?
Giunse in vece sua un recluso dei fatti
di maggio. Che aveva? Era egli ammalato? Nessuno ne sapeva niente e nessuno ci
voleva dire niente. Alle nostre interrogazioni, si rispondeva con smorfie che
suscitavano una curiosità maggiore. Che cosa gli era capitato? Il
direttore lo aveva condannato a quindici giorni di cella di rigore e di camicia
di forza. Che cosa aveva fatto? Quando lo sapemmo, lo buttammo tutti idealmente
dalla finestra, come si fa con una persona della quale non si voglia più
ricordarsi. Egli si era appaiato con uno della sua specie.
Dopo quest’uomo triviale che ci ha
trascinati nei bassifondi della malavita, è una consolazione ritornare
alla superficie dove sono esseri di una morale un po’ più sostenuta.
Il 598 era il modello di tutti quanti
ho conosciuti. Egli gode la fiducia del direttore e non ne abusa. È
fedele, è rispettoso, è astemio e lavora dalla mattina alla sera
come un martire. Va da un corridoio all’altro senz’essere accompagnato dalla
guardia. È il solo che esca tutti i giorni dallo stabilimento -
accompagnato, si intende, dall’agente di custodia - a portare la corrispondenza
alla direzione dei reclusori ed è il solo che vada fino a Finalmarina a
prendere i medicinali.
Un giorno, mentre il buon Pascotto
stava spolverando la lampada della nostra camerata, gli domandai perché non
scappava.
- Voi non avete più che dodici
anni da fare. Ma pensate che la vita è breve, accidempoli! Nei vostri
panni io non esiterei un minuto. Mi servirei della casacca per insaccarvi la
testa del mio guardiano e obbligarlo a sciupare del tempo a districarsela e poi
direi: gambe mie aiutatemi! Continuerei a fuggire senza mai voltarmi indietro.
Non smise neanche di strofinare
Egli mi rispondeva da uomo emendato, e
il mio pensiero incanagliva e trepidava, preparandosi una fuga clamorosa e
spettacolosa. Lui mi parlava di ridicolaggine e di catena, e io sentivo il mare
che si frangeva fracassosamente sulla spiaggia di Finalmarina. Lui si vedeva
inseguito dai cagnotti sguinzagliati dalla giustizia che non dà tregua,
e io mi gettavo sul mare supino e, a forza di gambe, raggiungevo la nave
straniera che mi accoglieva a bordo a braccia aperte. Il 598 si vedeva
impacciato, perseguitato e morto di fame. Io mi sentivo libero, sulla piattaforma
inglese o americana, circondato da migliaia di persone che mi salutavano con
dei battimani fragorosi e mi riempivano le tasche di dollari o di sterline
udendomi raccontare le avventure della mia fuga e il periodo della fame de’
miei amici della quinta camerata!
Il 77 era il lavandaio. Era alto come
un palo telegrafico, secco come il merluzzo e giallognolo come la pelle di un
giapponese. Con il suo collo esile, sormontato da una testa poco voluminosa,
con le sue braccia lunghe appese alle spalle come cose floscie giù
rasente il corpo, con la sua faccia piena di rientrature, pareva uno scheletro
ambulante.
Gli occhi, nascosti nelle occhiaie
profonde sotto le tettoie ossute e pelose, sembravano focolari di delinquenza.
Erano in essi i guizzi del delitto che facevano passare per la schiena l’aria
fredda. Tutte le volte che lo guardavo, mi obbligava a liberarmi dai fremiti
che mi suscitava con degli scotimenti di spalle. La sua bocca a culo di gallina
e il suo mento che tirava da sinistra a destra, mi riassumevano il tipo del
luogo.
Aveva la mano denutrita e le dita
lunghe del fantasma. Si muovevano come tentacoli. Prendevano la biancheria
sporca con un movimento meccanico. Sul cuore del 77 era il listone nero del suo
trasporto, e sulla sua testa gibbosa era il berretto giallo a spicchio che lo
incadaveriva.
Come tutti i sanguinarii, era di modi
carezzosi. Parlava con dolcezza e non si lamentava mai della sua sorte. Una
volta che gli domandai se pensava di rientrare nella vita sociale, mi offerse
una presa di tabacco con una spallata di sprezzo. Pareva volesse dire:
Società ingrata, non avrai le mie ossa! I suoi compagni mi dicevano che
era religiosissimo. Non mangiava mai senza farsi il segno della croce e non
andava mai sulla branda senza prima essersi inginocchiato a ringraziare il
Signore Iddio di averlo mantenuto buono anche in quella giornata.
Tra tutti i condannati della quinta
camerata preferiva don Davide. Il sacerdote nel camiciotto del recluso gli
faceva sanguinare l’anima. Non gli pareva giusto che un uomo di «talento», come
diceva lui, fosse in prigione per avere del «talento».
Don Davide si soffiava il naso sovente
a Finalborgo. Aveva preso un raffreddore che gli era divenuto cronico. E il
lavandaio, di nascosto, gli lavava un fazzoletto al giorno e glielo portava
pulito e piegato come una cosa proibita dal regolamento.
L’udito del 77 era molto difettoso.
C’era un recluso che aveva già
scontato otto anni e che anche nel saio della casa di pena non aveva perduto la
caratteristica del mestiere che esercitava prima di essersi intriso le mani nel
sangue dei suoi simili. Lo si vedeva e si pensava al palcoscenico. Egli non
poteva essere che un calcascene. Il suo viso era una ditta teatrale. Una di
quelle facce grassottelle di venticinque anni, con la carne biancastra della
gente che va a letto quando la notte sfittisce, con l’ombreggiatura per la
mezza faccia della barba fitta e nera che ha subìto il contrappelo e con
gli occhioni dalle pupille fulgide nella vivezza lattiginosa che inondano l’assieme
di una bontà infinita.
La sua vita di «scrivanello» - una vita
che lo lascia libero tutto il giorno e gran parte della notte - non gli ha
fatto dimenticare che gli mancano quattro anni, anni che egli chiamava quattro
secoli anche quando gli si diceva che la sua liberazione non poteva essere
lontana.
Le lettere che riceveva dalla famiglia
gli rinverdivano le speranze ogni tre mesi, ma, tra l’una e . l’altra del
trimestre, aveva dei momenti neri di ipocondria. Gli pareva che più
nessuno pensasse a lui. Prima che venisse l’indulto me ne fece leggere una la
quale gli dava l’idea che finalmente il sovrano si era commosso del suo stato.
Egli era convinto che S. M. stava per firmare la sua grazia. Ma il giorno che
mi vide partire senza novità per lui, ricadde nella disperazione.
- «Non mi dimentichi!» mi disse. E
dicendolo si asciugava gli occhi, volgendosi dall’altra parte. «Se posso
ritornare a casa, le assicuro che non mi vedranno più in questi luoghi.
L’ho scontata troppo cara per dimenticare la vita del recluso. Poi ho la mamma
e la sorella che mi vogliono un bene dell’anima. Lei ha letto l’ultima loro
lettera e può dire se hanno del cuore».
Di mattina, era addetto al medico.
Registrava la medicina da mandarsi a prendere. Dopo, andava per le camerate a
raccogliere le ordinazioni mangerecce, e nel pomeriggio, fino magari dopo la
Prima dell’attore veniva da noi, col
libro della spesa e il calamaio attaccato per un lembo di pelle al bottone
della giacca, uno scrivanello che aveva ammazzato un carabiniere il quale lo
aveva sorpreso a svaligiare una carbona (casa) fuori di porta Magenta.
L’omicidio gli aveva dato modo di rimanere fuori dalle unghie della giustizia
per parecchi mesi. Ma la gatta, anche dopo una paura maledetta, va al lardo fin
che vi lascia lo zampino. E un bel giorno lo agguantarono con degli altri ladri
o degli altri grassatori e lo mandarono in galera con una sentenza di
vent’anni.
Era recidivo, qualche colpo gli
era andato bene e sapeva adattarsi all’ambiente in un modo meraviglioso. Quando
la direzione non lo imbestialiva coi conti che gli aveva affidato, non si accorgeva
di essere in un reclusorio. Lasciava l’ufficio verso
Qualche volta, se la guardia che lo
accompagnava non gli era vicino, gli dicevo che faceva male a lavorare tante
ore in un periodo in cui gli operai che mangiano meglio si agitavano per un
orario quotidiano di otto. Vi ammalerete e andrete al cimitero senza rivedere
Milano.
Mi rispose che stava meglio in ufficio
che in infermeria, ove poteva coricarsi e alzarsi presto senza svegliare
alcuno. L’infermeria è uno stanzone lunghissimo con delle finestre
libere dai cassoni e con due filate di letti quasi sempre vuoti.
- Come, vi lamentate di dormire sulla
materassa?
- Non mi lamento, ma lei non sa...
- Datemi del voi, gli dissi celiando.
Sapete bene che il regolamento proibisce ai detenuti di servirsi di un pronome
che non sia di seconda persona plurale.
- Giusto, voi non sapete che in letto -
anche sulla materassa - sto male. È l’unica cosa alla quale non sono mai
riuscito ad abituarmi. Il galeotto è incatenato alla branda. Ora,
mettetevi nella mia posizione, e vedrete che darete la preferenza al pisolino
sulla scranna dello scrivanello. La lunghezza della catena non mi permette che
di mettere il piede in terra dalla parte dell’anello e di rimanere, se non
voglio scorticarmi, in una posizione supina. Il letto, per me, è una
tortura.
Fu lui che ci iniziò ai pasti
dei peperoni, dei pomidori, dell’insalata di cipolle e di patate coll’aglio e
di fagiolini tirati fuori dalla pasta del convento, quando la minestra era coi
fagioli. Egli è piuttosto piccolo, con la pelle sulla faccia scura e
butterata, con gli occhi un po’ loschi e con le estremità del taglio
della bocca non esattamente equidistanti. È tutt’assieme una figura rapace.
Lo abbiamo perduto per avere alzato il
gomito. Poco abituato a bere, un giorno era riuscito ad ubriacarsi. Lo trovai
nel letto della infermeria incatenato alla branda, con la cuffia di cotone
bianco sulla fronte, che stava aspettando la sbriacatura.
- Che cosa fate? gli domandai.
- Non ho potuto alzarmi alla solita ora
per un po’ di vino brusco. Accidenti al vino brusco!
All’indomani, o qualche giorno dopo, il
direttore lo mandò nell’altro reclusorio a mia insaputa e io non ho
potuto restituirgli lo Stecchetti che mi aveva imprestato per passare il tempo.
Lo scrivanello lo sapeva quasi tutto a
memoria.
Tra l’ottanta e l’ottantatrè i
pionieri del movimento marxista continuavano a battere il chiodo che, se si
voleva organizzare i mestieri, bisognava costituire un partito puramente
operaio, il quale, a suo tempo, avrebbe potuto trasformarsi in partito
socialista italiano. Parecchi operai, che studiavano e frequentavano i circoli
di studi sociali, si misero a concionare in questo senso, e subito dopo la
morte di Carlo Marx la loro organizzazione si potè dire iniziata.
Ormai, si disse, l’operaio farà
da sè. Chiunque si occupava di questioni sociali e non aveva i calli del
lavoratore alle mani, veniva considerato una specie d’intruso. Lo si vedeva
negli angoli dei meetings come un rognoso.
Coi pregiudizi che pullulavano nella
testa operaia e con la stampa che blatterava di progresso e dava eternamente
ragione agli intascatori di lavoro non pagato, senza un giornale che
stimolasse, che aiutasse, che confortasse, che difendesse e che rivelasse la
vita che si svolgeva negli stabilimenti padronali, gli operai non
avrebbero potuto tener duro.
Un giornale era necessario. Senza di
esso sarebbero stati calunniati, schiacciati. Non si domandarono neanche chi di
loro sapeva scrivere o chi di loro sapeva mettere assieme un foglio qualunque.
L’esperienza li avrebbe fatti andare sulle pedate degli altri. Il loro partito
era nuovo e nuovi dovevano essere gli scrittori.
Non si trattava di scrivere in ghingheri.
Si trattava semplicemente di dire chiaro e tondo che cosa volevano, dove
tendevano, a che cosa aspiravano. Non altro. E il Fascio Operaio - voce
dei figli del lavoro - il
Nel
primo articolo intitolato
«chi siamo e che cosa vogliamo»,
dicevano apertamente che erano
«operai nel più stretto senso della parola, cioè, operai
manovali».
«Siamo i figli di quella immensa
moltitudine a cui la vita non è concessa che a patto di una perenne
produzione - di quella classe che lavora e soffre, senza adeguati compensi -
che vede il frutto delle proprie fatiche aumentare le ricchezze dei
capitalisti».
L’attività dei redattori del Fascio
Operaio era infaticabile. Restando al lavoro, tenevano conferenze ogni
sera, organizzavano la lega di resistenza ogni volta si trovavano coi compagni,
e scrivevano articoli ogni settimana. In due mesi la «voce dei figli del
lavoro» seppe preparare e inaugurare un Congresso operaio a cui il Fascio mandava
il suo saluto «perché i congressisti erano puramente dei lavoratori che si
ispiravano alla loro coscienza di lavoratori».«Siate uomini nuovi, diceva loro.
Due siano le vostre stelle polari. L’eguaglianza di tutti gli uomini in faccia
alla giustizia e l’indipendenza della personalità umana».
Il Fascio Operaio discuteva i
problemi operai, polemizzava coi giornali che si occupavano dei redattori e dei
loro articoli, decomponeva, a poco a poco, il Consolato operaio nelle mani dei
romussiani, e attaccava, con qualche violenza, la democrazia al dorso del Secolo,
chiamandola «vile». Cavallotti, che fino dai tempi del Gazzettino Rosa aveva
imitato don Margotti, tenendo nella sua casa il casellario degli uomini
pubblici - casellario che se venisse pubblicato adesso sorprenderebbe molti e
susciterebbe polemiche infinite - si era occupato anche dei redattori del Fascio
e specialmente di Costantino Lazzari, il quale, oltre essere il redattore
capo del Fascio, era l’anima del partito operaio.
Per capire l’importanza dell’accusa
contro Costantino Lazzari, bisogna ricordarsi che nell’86 Cavallotti aveva
già assunto il carattere di leader parlamentare ed aveva
già iniziato il sistema di inseguire e snidare i corrotti dovunque li
trovava o li sapeva.
Nel salone dei Giardini Pubblici, ove
aveva finito di parlare Cavallotti sulle elezioni generali, non appena il
redattore capo del Fascio si permise di domandare la parola, si
sentirono voci spaventevoli.
- Fuori le spie! fuori le spie!
Chi erano le spie? I redattori del Fascio.
Ma l’indiziato era Costantino Lazzari. Tanto è vero che nel
questionario, che invitava Cavallotti a dare «risposte categoriche in nome
della verità e della giustizia», c’era questa interrogazione:
- È giusto paragonare il
compagno Lazzari ad un agente di polizia?
Cavallotti non volle mai smentire l’accusa
e non volle mai dire pubblicamente su quale documento era basata, Ma tutti gli
amici dell’autore di Anticaglie sapevano e sanno che l’accusa era basta
su una ricevuta di cinquecento lire, firmata da Costantino Lazzari, nelle mani
di Nicotera, ministro dell’interno. Chiunque di noi l’avesse veduta senza
cercare altro, non avrebbe potuto venire ad altra conclusione.
Cioè che Costantino Lazzari non aveva schifo dei fondi segreti. Ma la
cosa non è così. E ne parlo appunto per distruggere una calunnia
che perseguita Lazzari da parecchi anni. Non lo si può dire prudente,
questo no. Prendere del danaro per un partito senza domandare da che parte
venga, con la scusa che il denaro non ha «odore», è un po’ arrischiato.
Ma in verità Costantino Lazzari entrò come un sorcio nella
trappola. Non sapeva del tranello. Gli si esibirono cinquecento lire per il
partito in un momento elettorale, le prese, e le consegnò intatte al
partito senza curarsi d’altro. Un fatto consimile è avvenuto tra i
socialisti di Londra. I tories diedero parecchie centinaia di sterline a
un leader socialista per moltiplicare le candidature socialiste tra il
candidato tory e il candidato liberale. Il giuoco era che col terzo
candidato i liberali avrebbero perduto i voti che venivano dati ai socialisti e
quindi qua e là dei collegi. Si gridò al tory money, come
qui si gridò alla spia. Ma il leader inglese e il leader italiano
poterono salvarsi mostrando, come Walpole, le mani pulite. Dopo questo fatto il
Fascio Operaio - del quale parlo perché è come parlare di
Costantino Lazzari - e il partito operaio subirono le violenze prefettizie e
passarono attraverso un uragano indemoniato. Il Comitato Centrale del partito
operaio italiano venne sciolto, il Fascio Operaio sospeso e la redazione
intiera messa sotto chiave al Cellulare per ottanta giorni. I condannati furono
cinque, tra i quali Costantino Lazzari,
E il Fascio Operaio risorse,
dicendo che «il socialismo è un gigante che nessuna forza può
vincere».
In Costantino Lazzari è rimasta
l’avversione del Fascio Operaio per gli «intrusi». Un socialista dottore
o avvocato o scrittore o ingegnere o architetto gli fa torcere il viso
dall’altra parte. Ha per tutti costoro un’antipatia invincibile. Li chiama i
socialisti dal panciotto bianco o i socialisti dal gilé de gess.
Si dice che la gratitudine non sia il
suo forte. Ma è indubitato ch’egli, giovanissimo, si è dato la
briga di soccorrere la sua famiglia povera, e di mantenere alle scuole di
Milano una sua sorella e un suo fratello.
Ha rinunciato alla carriera commerciale
per dedicarsi completamente al socialismo. Ma le vicissitudini dell’esistenza
tribolata gli hanno fatto riprendere la via di prima. Egli è ora
commesso viaggiatore. È stato in prigione più di una volta. Egli
era nell’Umbria ed è andato in galera per i tumulti di Milano!
Ha un’istruzione tumultuaria, è
un conferenziere improvvisatore, ha una tendenza sentita verso la misantropia,
ed è disgustato degli uomini e della vita.
Se dovessi riassumere Lazzari, direi,
con Tommaso Grossi, ch’egli è un «orso mal leccato».
Per ricordarmi di queste giornate
negre, ammuchiavo le mie impressioni sui margini, sui frontispizi e sotto e
sopra gli indici dei libri. Mi servivo di un moncone di lapis che tenevo
nascosto tra il dorso e la legatura di un volume, il quale rimaneva con me
giorno e notte. I libri che giovano di più al prigioniero sono quelli
che offrono più spazio.
Quelli che hanno cinque o sei pagine
bianche prima di arrivare alla prefazione, che incominciano e finiscono i
capitoli con dei vuoti preziosi, che sono stampati in modo da lasciarvi una
linea tra una riga e l’altra e che terminano in fondo col lusso della
entratura. A me, per esempio, sono stati di grande giovamento la grammatica
tedesca del dottor Friedmann e le Ascensioni Umane del Fogazzaro. Mi
hanno permesso di scrivere un volume su ciascun volume. Se dovessi ritornare in
prigione e qualcuno volesse regalarmi qualche libro, non dimentichi di dare
un’occhiata agli spazi.
Copio, o meglio completo i periodi coi
riempitivi che lasciavo fuori per economia.
«Il periodo della fame venne inaugurato
stamane, sei settembre. Se lo avessi saputo prima, ieri sera mi sarei imbottito
con un pranzo luculliano. Non si è
«Che cani! Ci hanno portato via penne,
calamai e lapis. Sono venuti a prendere i libri per registrarli. Ho domandato
il permesso di scrivere una lettera per comunicare agli amici l’avvenimento, ma
mi si è detto che il regolamento non mi autorizza a scriverne che una al
mese. Chiesi, che è alla reclusione, non può scriverne che una
ogni tre. A proposito, egli è alla reclusione, e rimane con noi. Dunque
non c’è differenza che nelle spese e nelle lettere. Lui può
spendere venticinque centesimi e noi, alla detenzione, trentacinque.
«Non riuscirete mai, signori aguzzini,
a farmi capire l’utilità sociale di impedirci di scrivere per tenerci
qui a guardarci l’un l’altro. Seguitiamo a chiacchierare sulla dieta. Nessuno
ha paura. Se non sono morti quelli con la catena che la subiscono da anni senza
migliorarla col sopravitto, vuol dire che non si muore.
«Le latrine sono indecenze primitive.
Mi sono messo con la faccia alla ferriata della prima finestra e sono stato
lì per recere. Sotto, nel cortile, è un mastellone nascosto da un
murello a curva, che lascia venir su una puzza velenosa. È il mastellone
dei condannati addetti ai lavori domestici. Il direttore di questa casa di pena
deve avere l’olfatto molto ottuso. In tutto il penitenziario non c’è una
latrina. Ciascuno fa i suoi bisogni come in un bosco. Peggio che in un bosco.
Perché qui non potete alzarvi e andarvene via. Qui vi si lascia il mastellone
che riceve il materiale di tutta la camerata tutto il giorno e tutta
«Non è la prima volta che mangio
la pagnotta, ma era un pezzo che non
«Ho sempre sentito dire che la crosta
solida è un indizio della bontà del pane. Dev’essere abbondante,
fitta, resistente, cotta bene. Questa è molle, sottile, che si stacca
senza fatica, che ritiene la ditata non appena la premete leggermente. Ha un
colore tra il rosso-bruno e il giallo-dorato.
«Fanno sul serio. È cessata
anche la pulizia domestica. Prima ci facevano scopare la camerata e lavare la
gamella dai galeotti. Adesso ci si è detto che la cuccagna è
finita. Benissimo. Non marciremo neanche per questo. Il male è che con
la minestra condita d’olio la latta rimane unta. Senza acqua calda ci ungiamo
come guatteri e ce le laviamo male. Ciascuno di noi si è scelta la
giornata di pulizia. Lunedì Lazzari, martedì Federici,
mercoledì Valera, giovedì Chiesi, venerdì Ghiglione,
sabato don Davide, domenica Suzzani. È un movimento igienico. Si
puliscono e si mettono a posto i tavoli e si scopa due volte il giorno. I
più volonterosi e i più abili sono indubbiamente Lazzari e
Federici. Entrambi scopano adagio, passano l’arnese sotto le brande, si fermano
a far uscire i crostini dalle connessure tra mattone e mattone e tra pietra e
pietra e si tirano a dietro il materiale fino in fondo, senza lasciare per la
via polvere o briciole. Scopa bene anche don Davide, ma non con la diligenza
degli altri due. Se al sabato si dimentica del suo turno, il Chiesi gli grida
subito alle spalle:
«- Non più privilegi e non
più privilegiati!
«Il Ghiglione, campagnolo, scopa male,
lo fa di mala voglia e pulisce i tavoli come un uomo che si senta umiliato.
«La direzione di qualunque casa penale
vende ogni mese la Rivista di discipline carcerarie, diretta dal
Beltrani-Scalia, direttore delle carceri (ora, come si sa, ha preso il suo
posto il Canevelli). lo scopo della rivista è pio. È di assistere
con delle sottoscrizioni i figliuoli derelitti dei condannati. Una cosa la
quale vi suggerisce che la società punisce più i figli che i
genitori. Perché mette sotto chiave i secondi e lascia sulla strada i primi.
«Le ultime pagine sono occupate dal
movimento dei liberati dagli stabilimenti penali durante il mese. In agosto
hanno lasciato uscire 54 uomini e 6 donne per grazia sovrana, 299 uomini e 12
donne per indulto e 31 maschi e 2 femmine condizionalmente.
«La tabella dei liberati condizionalmente prova che l’Italia
è più crudele d’ogni altra nazione. L’Inghilterra, punto tenera
pei suoi delinquenti, dà loro modo, colla buona condotta e col lavoro
persistente, di guadagnarsi tre mesi su ogni anno. Conquistandosi il numero
fisso di marchette, il condannato, poniamo, a sei anni, è sicuro di non
rimanere in carcere che quattro anni e mezzo. Il nostro sistema non assicura
nulla al condannato e premia la condotta incensurata con una lesineria che fa
piangere. Deduce, su per giù, da un anno a un anno e mezzo per ogni dieci
anni di galera!
«Ne scelgo uno. N.A., di Napoli,
contadino, condannato a dodici anni, è uscito a 37 anni, dopo avere
scontato una pena di undici anni ed un mese!
«Nella stessa tabella si nota che la
donna subisce gli stessi rigori. A.L., di Palermo, entrata nella casa di pena a
38 anni, con una condanna di vent’anni per omicidio, è uscita dopo una
pena di diciotto di lavori forzati. Che tigri!
«Aggiungo che la liberazione dei
condannati non dovrebbe mai essere lasciata all’arbitrio del direttore - il
quale è, novantanove volte su cento, parziale e crudele.
«Non so se dipende dalla dieta. Ma con
una dieta scellerata e insufficiente ho perduto persino la voglia di leggere.
In un mese non sono riuscito a rileggere il primo volume dei dieci anni di
Louis Blanc. Sbadiglio spesso, e spesso, dopo una specie di torsione alla
regione epigastrica, mi istupidisco in un sopore che mi spaventa. I miei amici
di camerata mi dicono che mangio troppo poco e che butto via troppo sovente
«Ci hanno portato di sopra delle
lettere piene di cancellature. A noi che abbiamo il limone per disseppellire le
parole dai neracci del direttore, importa poco. Ma mi piacerebbe che qualcuno
mi rivelasse l’utilità di queste soppressioni di parole. Una volta che
siamo condannati, che cosa deve importare a voi che qualcuno ci faccia sapere
un breve minuto della vita del mondo dal quale siamo stati espulsi con tanta
violenza? È una cretineria da mettersi con le altre che si commettono in
questi luoghi.
«Il mio amico Mario Borsa,
corrispondente londinese del Secolo, mi manda una rivista mensile per tenermi
al corrente dei grandi fatti europei. Una rivista estera non può
impensierire alcuno. Qui impensierisce. Il direttore mi ha fatto chiamare in
direzione per dirmi che non poteva darmela perché ci sono in essa articoli che
si occupano di cose che non devo sapere! Suppongo per un minuto che vi sia
qualche narrazione sui fatti di maggio. Nossignore, me la nega perché vi
è un articolo sulla guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna! Sono o non
sono un giornalista? Una società. che corregge e non abbia per compito
di mandarmi fuori imbecille, dovrebbe procurarmi, anche a proprie spese, le
riviste e di giornali che mi dovrebbero tenere al corrente di tutto ciò
che avviene. Non vi pare? Anche al Chiesi hanno trattenuto delle riviste
francesi per le stesse ragioni. Asini!
«Piove. Quando piove, il condannato
perde il diritto all’aria e al moto delle gambe. Senza uscire dalla gabbia si
diventa di umore nero. È una meraviglia che uno non s’avventi
sull’altro. Ci si tiene nella camerata sino a quando il cielo si rasserena. E
in questa regione, quando incomincia a diluviare, è capace di tirare
innanzi senza interruzione per una settimana. Nella camerata al dorso della
nostra sembrano diventati tanti leticoni indiavolati. Di tanto in tanto
qualcuno si sfoga gridando: aria! In uno stabilimento di tanta gente ci
dovrebbe essere anche il passeggio coperto. Ma non ci si pensa. Perché il
bestiame in galera può crepare senza inumidire l’occhio sociale.
«La visita del medico che abbiamo avuta
ieri l’altro mi ha fatto un effetto strano. Mi parve un uomo incaricato di
venire a vedere se avevamo ancora delle giornate da vivere. Sì, o signori
aguzzini, siamo languidi più di ieri, ma non siamo ancora moribondi.
Anche col vitto insufficiente possiamo vivere degli anni.
«La nota di ieri è stata un po’
baldanzosa. Si indebolisce lentamente e lentamente mi pare che si perda
«Siamo calati tutti di peso. Il
pancione di don Davide è rientrato di molto. Forse sarà l’effetto
della rasatura dei baffi, ma il naso di ciascuno di noi mi riproduce il naso
dell’allampanato. Anche il Federici è dimagrito. Parla poco e fa dei
pisolini ripetuti con pochi intervalli. A Chiesi si sono formate le scodellette
sotto gli occhi. Il naso di Ghiglione pare il becco adunco dell’aquila.
La faccia di Suzzani è accesa e si è spiritualizzata. Egli mi ha
detto che si sente di tanto in tanto dei dolori dietro l’orecchio destro. Noto
tutto senza spiegare nulla. Lazzari ha avuto degli stringimenti pilorici. Dorme
poco, e durante il sonno parla con delle interiezioni di dolore.
«A me non passa più nulla.
Federici mi ha dato un cucchiaio della sua magnesia effervescente. Per una
concessione speciale egli può tenersene un vaso e farselo riempire quando
è vuoto. Se ne prende una cucchiaiata ogni mattina in due dita d’acqua.
Mi ha fatto bene. Ho potuto trangugiare la gamella di pasta senza gli impeti di
repulsione. Sento che mi ritornano le forze. Leggo e più rapidamente.
Ieri ero proprio in uno stato compassionevole. Ho dovuto domandare il permesso
di adagiarmi sulla branda. Mi sentivo vicino al deliquio. Sdraiato, ebbi degli
assopimenti leggeri. Mi pareva di essere in decomposizione. Rimasi più
di tre ore col dorso completamente abbandonato allo stramazzo. Non sentivo
più che il languore delle braccia ed un certo calore insolito alle
tempia.
«Il grido che si muore di fame è
nell’aria. - Tutte le camerate ci fanno chiedere dei bocconi di pane. Noi, che
soffriamo un po’ tutti di inedia, mandiamo gli avanzi delle nostre pagnotte ai
35 minorenni della camerata quasi in faccia alla nostra. Tra loro sono
pochissimi quelli che possono spendere per il sopravitto. Devono essere tutti
poveri o figli di poveri. Don Davide, che ha tra loro il suo chierico, va a dir
messa spesso collo schianto del cuore. Gli rincresce di non avere sempre un
boccone di pane da dargli. Quel ragazzo patisce la fame sotto la sorveglianza
governativa! Se fossi direttore dello stabilimento butterei via lo stipendio.
Non saprei mangiare coi piedi sotto la tavola senza pensare al battaglione di
affamati sotto la mia custodia. Il grido dei minorenni mi sospenderebbe il
boccone in gola.
«Stanotte sono stato svegliato da un
grido acuto di qualcuno che stava male nella camerata al dorso della nostra.
Non ci ha lasciato più dormire. Aveva il rantolo bronchiale ed emetteva
gemiti che si ripetevano anche dopo che la guardia gli vociava dalla spia:
«- Fate silenzio, che domani andrete
dal medico!
«Un compagno deve averlo soccorso con
una goccia d’acqua. Ho sentito i suoi piedi nudi che correvano da una parte
all’altra.
«Come deve essere triste morire in
questo luogo!
«La luce misurata dai cassoni alle
finestre finisce per indebolirci
«Alla domenica c’è sempre
speranza di rifarsi lo stomaco con una gamella di brodo e
«Il pane di stamane è
esecrabile. Sente dell’acido del lievito che ha tentato di farlo levare
prestamente. Mi par di sentire il gesso sotto i denti. la mollica umida ha qua
e là dei punti biancastri che rivelano la qualità infame della
farina. Ghiglione ci consola dicendoci che prima, quando lo facevano i galeotti
nello stabilimento, era più buono. Adesso, coll’appalto, è
malcotto, pesante, indigeribile. l’indigestione di un pane come questo produce
a tutti noi effetti straordinari. Sembra che ci fermenti nel ventre. Un’ora
dopo ci sentiamo tutti gravidi. Lo si fa con una farina di quarta o quinta
qualità e con poco o nessun glutine. Preferisco ancora la pagnotta che i
signori danno ai cavalli.
«Anche i galeotti che lo mangiano da
tanti anni se ne lamentano e farebbero un «fuori! fuori!» se non avessero paura
di un rincrudimento di rigore. Sarei contento che una volta o l’altra mi si
processasse per diffamazione. Io non domanderei che la testimonianza dei sei
compagni della quinta camerata e il permesso di citare una cinquantina di
galeotti e un centinaio di reclusi. Proverei come due e due fa quattro che la
qualità del pane è infimissima e che alla reclusione si
imbecillisce dalla fame. Sarebbe uno dei processi più emozionanti di
questo secolo.
«Ho trovato modo di eliminare la pasta
dal mio cibo quotidiano. Non sapevo mandarne giù che qualche cucchiaiata
e con ripugnanza. Un galeotto mi ha raccontato ch’egli vive da anni con
l’insalata di patate e cipolle. Mi sono messo sulle sue pedate una settimana e
non mi trovo malcontento. Qualche volta mi sento sazio. Le patate potrebbero
però essere più buone. Ne butto via una su tre. Si vede che sono
il rifiuto delle corbe. Quasi tutti ci siamo dati all’insalata di patate e
cipolle. L’olio è troppo cattivo e peserebbe troppo sui miei
trentacinque centesimi. La condisco col sale e coll’aceto. Più di
una volta vi aggiungiamo i fagiuoli che troviamo nella minestra di pasta. Sono
fagiuoli bianchi. Compero pure qualche spicchio d’aglio. Ho dovuto eliminare
definitivamente anche il pane. Non potevo più ingoiarlo. Abbiamo
protestato sovente e qualcuno di noi se ne lamentò col direttore e col
sottocapo. Ma all’indomani ritorna peggio di prima. C’è stato un giorno
che non lo si volle in nessuna camerata. Molti rifiutanti vennero castigati con
della cella di rigore. In prigione non si sa come fare. Se si protesta si
è puniti e se non si richiama con questa misura l’attenzione
dell’autorità carceraria, si mangia come bestie.
«Tutto il mio essere sta in piedi con
trentacinque centesimi al giorno. Ecco come li ho spesi stamane. Ho comperato
cinque centesimi di sapone, dieci di pane bianco, cinque di patate, tre di
cipolle, due d’aglio, tre di sale, cinque di fichi secchi e due di carta per
«Siamo fortunati che non c’è
specchio. Ci spaventeremmo. Sento che la pelle della faccia mi stiracchia da
tutte le parti.
«Ho dovuto comperarmi due centesimi di
refe per trasportarmi il bottone dei calzoni. Senza bretelle, li perdo. Sono
diventato magro, magro. Ho i miei dubbi che si esca tutti. Ho sempre avuto
schifo dei sorci. Ma se ce ne fosse uno abbrustolito lo mangerei con l’appetito
dei parigini durante l’assedio della loro capitale. È strano che non ci
siano topi in questo vecchio edificio. Noi non ne abbiamo mai veduto uno. Ci
sono parecchi gatti. Ma rimangono tutti nel cortile e sono sotto la protezione
di una guardia alta, addetta alle celle di rigore. Un gatticidio potrebbe
costarmi parecchi mesi di cella di rigore e di camicia di forza.
«La ciarla si è ammorzata. Non
parliamo più tanto. Una lettera suscitava, settimane sono, una
discussione che durava delle ore. Adesso la si legge e la si lega con le altre.
Sembriamo tanti nevrastenici. La nostra conversazione è diventata monosillabica.
Ci guardiamo difficilmente in faccia.
«Ho comunicato a Federici i miei
timori. Ho paura di uscire idiota. Ci sono dei momenti in cui sono obbligato a
mettermi la mano sulla testa per paura che mi scappi il pensiero.. Egli mi
disse che è dovuto alla mia cocciutaggine di non voler mangiare
abbastanza. In carcere bisogna essere alliatrofago. Inghiottire ogni cosa,
anche se ributtante. Con trentacinque centesimi non si può vivere. E con
trentacinque centesimi mi compero il limone, il sapone, il refe, gli aghi e i
bottoni che perdo. I bottoni sembrano stati attaccati con gli sputi. Son sempre
in terra. Questa mane al passeggio mi sono lustrato le scarpe. Il sottocapo mi
disse che erano indecenti. Erano ormai divenute rosse.
«Ha ragione Federici. E poi tutti i
giorni insalata! Son tre giorni che mi brucia lo stomaco e non la mangio
più con lo stesso piacere. Mi dànno
«Ho notato che Federici verso gli
ultimi del mese diventa più cupo. Pare che incominci a pensare al suo
colloquio. Non sono che lui e don Davide che hanno la consolazione di vedere
qualcuno che non sia di questa casa maledetta. Dopo il colloquio con la sua
signora, Federici risale gaio, amico di tutti, coi saluti per tutti.
«Come mi farebbe bene una goccia di
cognac! Mi tirerebbe su lo stomaco e mi ridarebbe le forze perdute. Il mio
corpo deve avere una calorificazione incompleta. Stanotte mi sentivo freddo. O
piuttosto mi pareva di avere in me un umidore freddo che mi andava dalla radice
dei capelli alle unghie dei piedi.
«Provavo la sensazione di un organismo
che sta raffreddandosi. Sommerso nell’ombra e nel silenzio m’intenerivo. Mi
sentivo le lagrime in gola e non piangevo. Che cosa pagherei a essere un
fisiologo consumato! Potrei uscire con un diario completo sulle sensazioni
della fame. A me pare che ne risentano tutti gli organi. Sono spossato
dappertutto. Il cervello pare vuoto, la testa è indolenzita e pesa due
volte, le braccia sentono il bisogno di rimanere adagiate, i polpacci delle
gambe paiono carichi di piombo e i piedi mi dànno l’idea che stiano per
slogarsi. E tuttavia, dopo i primi giorni, non ho mai provato le insurrezioni
di una fame canina. Mastico senza piacere come un automa.
«I miei movimenti sono diventati lenti
e faccio fatica a tener aperti gli occhi. Sono determinato a rifarmi con la
pagnotta, ma la mia determinazione non val nulla dinanzi all’atonia
dell’apparecchio digestivo. La forza digestiva è come interrotta. Ieri
sera stavo facendo il letto e ho dovuto sedere sul materasso due volte. Mi
sembravo vicino al deliquio. Federici è stato buono anche questa volta.
Mi ha dato un cucchiaio di magnesia effervescente. L’ho bevuta col piacere che
dà lo champagne. Ho respirato più liberamente.
«Ghiglione è andato dal medico.
Non ci ha detto nulla. È egli ammalato? Non è ammalato?
«Vi sono andato anch’io, ma solo per
domandargli il permesso di un bagno. Io mi immergo sempre con piacere
nell’acqua. Non capisco come le persone possano tirare innanzi degli anni senza
mai buttarsi addosso un secchio d’acqua. Pulitevi, se volete star sani!
«Nessuno dorme profondamente,
l’insonnia è generale. Qualcuno parla o straparla. Stanotte ho dovuto
confessare alla guardia scelta di ronda che stavo proprio male. È andato
in infermeria e mi ha portato una polverina di bismuto e magnesia. È
un’infermeria che non ha nulla. Tutti gli ammalati sono curati con delle
polverine di calomelano, di bismuto e magnesia e di bicarbonato di soda.
C’è qualche pennellata di tintura di iodio per i reumatismi e i dolori
acutissimi e basta. Il cavadenti è un condannato. È un vero
miracolo che egli non abbia mai smascellato qualcuno. Il suo sistema è
questo: mette la testa del paziente sulle ginocchia, gli guarda in bocca, si fa
puntare col dito il dente cariato, l’agguanta con la tenaglia e tira. Spesso,
nello sforzo, si levano in piedi operatore e paziente e l’uno segue l’altro
fino alla parete. A una di queste operazioni era presente don Davide.
«Siamo salvi o per lo meno siamo salvi
per un po’ di giorni. La signora di Federici è riuscita a far passare
del cioccolatte. Deve avere sgelato il cuore della direzione. Federici ha
incominciato subito col distribuirne due pezzi a ciascuno di noi. Mi sentii
immediatamente ristorato. E non ne ho mangiato che uno. Il secondo sono stato
capace di tenerlo in tasca fino alle sei di sera. Poi ho cominciato a
scartocciarlo con l’intenzione di non rosicchiarne che un angolo e non ho smesso
che a tavoletta finita. Ingordo!
«Ho passato una buona notte e alla
mattina mi sono messo a leggere di gusto. Credendo che fosse permesso a tutti
di mangiare del cioccolatte, ho scritto subito a casa di mandarmene due
chilogrammi. Son stato chiamato dal capo, il quale era incaricato dal direttore
di farmi sapere che il cioccolatte non è nel regolamento. Al Federici
venne dato perché era giunto come pacco postale e a sua insaputa. Se giungesse
anche a me, a mia insaputa, si potrebbe fare lo stesso.
«Ci sono state annunciate delle
cassette di biscotti. Sarebbero stati provvidenziali. Li abbiamo aspettati per
due giorni. La direzione ci ha fatto comunicare che potevamo rimandarli a chi
ce li aveva spediti o regalarli all’ospedale di Finalborgo. Non potendo mangiarli
noi, abbiamo votato per gli ammalati.
«Federici ci tiene in piedi col suo
cioccolatte. Non appena ci si porta la pagnotta, egli va da tutti con una
tavoletta e li costringe ad accettarla. Una tavoletta di cioccolatte in galera,
nella nostra condizione, val un tesoro. Pochi se ne disfarebbero con tanta
sollecitudine. Bisogna avere del cuore per compiere sacrifici come questi.
«Novità. Ci deve essere qualcuno
che lavora per noi. Il periodo della fame che produce le allucinazioni è
finito. È venuto un ordine che ci permette di spendere settantacinque
centesimi al giorno. Abbiamo subito domandato il permesso di farci fare, a
nostre spese, una minestra collettiva da venticinque centesimi ciascuno. Ci
è stata concessa.
«Incominciamo a smutriarci. Facciamo
delle spanciate di baccalà fritto per venti centesimi. Beviamo quasi
tutti un quarto di vino per nove centesimi. È brusco, accidente se
è brusco! Io e Lazzari siamo ritornati al pane bianco. Anche Chiesi e
Suzzani si son dati al pane bianco. Don Davide e Federici resistono e
continuano col pane della casa. Il piatto più buono sono le uova al
burro arrostite, per ventidue centesimi. Vi manca però il burro e se
c’è lo vedono appena. Non poche volte sono putrefatte, ma a lamentarsi
ce le cambiano. Ci si dà una tazza di caffè per dieci centesimi.
È una tazza di un boccalino, ma imbevibile. Io e don Davide abbiamo
tenuto duro per qualche settimana, ma abbiamo dovuto rinunciare anche a questo
lusso. Nella tariffa dei generi in vendita nella dispensa, è stata introdotta
«Sette dicembre. Non si muore
più di fame. Il Governo ci ha inviato il commendatore Berardi a
comunicarci personalmente che da oggi possiamo mangiare e spendere quello che
vogliamo noi. Egli è già stato a comunicare la stessa notizia al
Romussi e al De Andreis nel reclusorio di Alessandria e a Turati in quello di
Pallanza.
«Ecco che cosa mi ha detto:
- Io sono un ispettore inviato dal
Ministero. So che lei adesso non può spendere che settantacinque
centesimi e che questo aumento non le è stato concesso che pochi giorni
sono. Da oggi io posso comunicarle ch’ella può spendere per il suo vitto
cinque o anche dieci lire al giorno, se lo desidera. Non c’è limite. Se
non le piace la cucina del reclusorio può servirsi dell’osteria o
dell’albergo di fuori. Desidera qualcosa altro?
«Uno dopo l’altro gli domandammo due arie,
cioè due ore di passeggio. Perché un’ora sola, lesinata anche quella,
non ci dava esercizio sufficiente per conservarci sani:
- Concesso, rispose a ciascuno di noi.
Desidera qualche cos’altro?
- Se si potesse fumare qualche
sigaretta.
- Lo domanderò al direttore. Se
fossero completamente separati dagli altri, non esiterei
- Lei sa che noi siamo tutti bevitori
di caffè. Se ci permettesse di comperarci la macchinetta, il
caffè, lo zuccaro, lo spirito e di farcelo quando vogliamo noi, in
camerata?
- Concesso. D’altro?
- Scusi, se abuso.
- Faccia, perché io sono venuto qui per
contentarli.
- Grazie. Senta, ci sono libri che il signor direttore non ci
consegna perché si ostina a considerarli immorali o pornografici. Lei sa che
noi siamo abituati a leggere tutto.
- Concesso. D’altro?
«Mi curvai. Egli mi strinse
. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..
«Sono uscito con l’indulto. L’indulto
è una remissione di pena, è un perdono. Chi ve lo ha domandato? E
se non ve l’ho domandato perché non mi date il permesso di rifiutarlo? Non so
che farmene del vostro perdono.
«Sono uscito arciconvinto che nei
reclusori
«Un anno di reclusione, con seicento
grammi di pane in due razioni e due mezze gamelle di pasta in brodo al
giorno, basta per ritornare alla società secchi come chiodi e col
cervello completamente rammollito».
PS. - Permettetemi di aggiungere due
parole alle note di Finalborgo. Sono stato perdonato, non è vero? Ma, o
signori, o cosa direste se io, legge, vi mettessi sotto chiave per dei mesi e
poi vi perdonassi? C’è stato un processo, lo so. Non siamo mica stati
mandati alla reclusione così alla cieca. Ci si è detto che
avevamo commesso un delitto. Ma anche noi, o signori, abbiamo detto e ridiciamo
che ci si è mandati in galera innocenti. E se siamo stati mandati in
galera innocenti, non c’è che una via alla riparazione. Rifare il
processo, restituirci quello che ci si è tolto e risarcirci dei danni.
Il risarcimento dei danni vogliamo, o signori, che ci avete mandati in galera e
ci avete lasciati fuori come mendichi che avessero limosinato l’indulto. Non
altro.
Sono sicuro che se Achille Ghiglioni
dovesse autobiografarsi, si presenterebbe ai lettori come un uomo senza
importanza. Al Castello, nella stanza lungo il ballatoio che dà sul
cortile della Rocchetta egli, con grande modestia, si meravigliava di trovarsi
impigliato nel processo dei giornalisti.
Con noi, nella quinta camerata di
Finalborgo, è stato il modello degli uomini industriosi. Si alzava e si
metteva al lavoro. In un giorno egli studiava, senza mai stancarsi, un po’ di
tedesco, un po’ di olandese, un po’ di spagnuolo, un po’ di musica, un po’ di
manuale del capomastro, un po’ di stenografia, un po’ di disegno, un po’ di
computisteria, un po’ di letteratura moderna, un po’ di Porta e un po’ di altre
cose che non ricordo.
Egli è entrato ed è
uscito un tenace cooperatore.
La «catena» era composta di noi due. Il
vagone cellulare era nuovo e non puzzava di biacca. Le celle erano assai
più comode delle altre del primo viaggio. I carabinieri non sembravano
cattivi diavoli. I ferri erano noiosi, ma non ci pigiavano i polsi come le
altre volte. Chiusi nelle due celle in fondo, l’una in faccia all’altra, vicini
alla finestra del vagone, non mancavamo di qualche boccata d’aria.
Ricordandomi dei due viaggi, mi dicevo
contento.
- Almeno qui, non si crepa. Mi misi in
bocca una sigaretta con un po’ di fatica e con un po’ di fatica riuscii ad
accendermi lo zolfanello.
Federici attraversava
Verso Sampierdarena i lineamenti
facciali di Federici assunsero una parvenza di dolcezza. L’uomo stava per
convincersi che era inutile lottare contro l’invisibile. Eravamo nelle mani di
sconosciuti che ci sbalestravano da una parte e dall’altra e bisognava adattarsi.
Anche a me sarebbe piaciuto andare in un altro reclusorio, dove avrei potuto
raccogliere del materiale nuovo, dove avrei potuto fare la vera vita del
galeotto con dei galeotti autentici, dove avrei potuto studiare tipi che nella
quinta camerata non avrei
A Sampierdarena il nostro vagone venne
staccato e lasciato fuori dalla tettoia. C’era un intervallo di due ore e
mezza. Era un’altra punizione che avremmo scontata se i carabinieri non
avessero avuto fame. Avevano appetito, volevano mangiare col sedere sulla
scranna, e dare anche a noi il modo di far colazione più comodamente che
ammanettati nella cella. Ci domandarono se volevamo cavarcela con qualche cosa
di asciutto in cella o se preferivamo di andare alla sezione dei carabinieri
con loro. Io non esitai un minuto a votare per l’uscita. L’idea di muovermi e
di respirare l’aria libera mi metteva gli aghi nelle gambe. L’indugio di un
attimo mi diventava un supplizio. Mi faceva salire le fiamme alla faccia e mi
dava l’impressione che soffocavo. Federici era riluttante. Lui e Romussi, nel
viaggio di traduzione, avevano imparato che per le strade di giorno, si attira
l’attenzione di tutti i passanti. Vinse l’aria libera. Uscimmo e fummo
contenti. La gente sostava sulle botteghe, i ragazzi ci correvano dietro, i
passanti si fermavano a vederci, alcuni commentavano, ma noi passavamo senza
darcene pensiero. Ormai ci avevamo fatto il callo. - Chi ci conosce ci conosce
e chi non ci conosce felice notte.
Giunti alla sede dei carabinieri ci si
chiuse in uno stambugio buio più di una cantina, esalante
- Piuttosto che mangiare in questo
luogo, preferisco la fame.
- Anch’io. Ma vedrai che non saranno
tanto cani.
Stavano a farci preparare la tavola.
Facemmo colazione nella loro cucina, la
quale aveva una larga apertura verso il cortile. Mangiammo due ossi buchi
indimenticabili. Erano eccellenti. Bevemmo del vino eccellentissimo, e facemmo
scomparire un pezzo di formaggio di gorgonzola bianco e un’alzata di uva e
pesche saporitissime.
- Vogliono anche il caffè?
- Vada per il caffè!
- La Cassazione ha parlato e può
darsi che questa sia l’ultima colazione dell’uomo libero.
- Non pensiamoci. Ce ne sono tanti in
galera e non sono morti.
I carabinieri dicevano anche loro che
la bestia non era poi così brutta come la si dipinge.
- E poi loro! ci si diceva. Usciranno
più presto di quello che credono. C’è tanta agitazione per il paese.
- Sembra che non ci siamo che noi in
prigione!
Il maresciallo della caserma era un
uomo tarchiato, con una faccia grossa e grassa da bonaccione.
- Li condurrò alla stazione in
carrozza per non farli passare traverso la folla.
- Grazie.
- Pagheranno la vettura!
- S’intende.
Alla stazione venimmo circondati da una
moltitudine che aumentava di minuto in minuto.
Entrammo in un vagone di terza classe.
È stata una vera sorpresa. Non eravamo mai stati così bene.
Prima che suonasse il campanello della
partenza, un signore ottenne il permesso di salire sul predellino a stringere
la mano a Federici.
- Faccia buon viaggio.
- Grazie.
Il signore era commosso. Federici con
le mani legate non aveva potuto stringergliela come avrebbe voluto.
- Partenza!
Il maresciallo ci salutò con un
gesto della mano.
Al reclusorio trovai il capo guardia in
collera.
- Lei si lascia intervistare!
- Da chi?
- Lei si lascia intervistare dai
giornalisti per dir male del Reclusorio.
Mi vennero in mente parecchi
giornalisti che erano venuti a trovarmi nel camerotto indecente della Corte
d’Appello di via Clerici. Chi sa che cosa mi avranno fatto dire!
- Lei si lamenta!
- Certamente che io sto meglio fuori.
- Non doveva entrare se non le piaceva!
- Non ci sono venuto spontaneamente.
- E va bene, loro hanno sempre ragione!
- Mi faccia leggere questa intervista e
le dirò se quello che ho detto è esatto.
- Gliela farà leggere il
direttore!
Erano dei mesi che intisichivamo dietro
la speranza che un giorno o l’altro ci avrebbero restituiti il calamaio e
Non ci si proibiva di leggere. Ma si
legge male in una camerata e in una camerata ove gli individui sono padroni di
fare quello che vogliono. Tu leggi, e gli altri chiacchierano. Tu 1eggi,
e due amici ti passano innanzi e indietro sussurrandoti il coro:
A casa, a casa, amici,
Ove v’aspettano,
Le vostre spose.
Tu leggi, e un compagno zufola e
rizufola per il lungo e per il largo, per delle ore, l’Inno dei lavoratori e
subito dopo un altro, te ne canticchia la prima quartina, ricominciandola con
sempre crescente piacere:
Su fratelli, su compagni,
Su venite in fitta schiera,
Sulla libera bandiera
Splende il sol dell’avvenir.
Tu leggi, e due altri passeggiano, come
in una caserma, o lungo un corridoio, o nel cortile, con le braccia sulla
schiena, battendo i tacchi, scombussolandoti il pensiero col tremuoto dei
piedi. Tu leggi, ed ecco un animale che si sveglia di soprassalto, con dei
versi in bocca:
Me non nato a percuotere
Le dure illustri porte,
Nudo accorrà, ma libero,
Il regno della morte.
Tu leggi, e nasce una conversazione che ti prorompe nel cervello
come una gazzarra di voci, ma che finisce per piacerti e uncinarti a prendervi
parte. Tu leggi, e un prigioniero si sbottona e ricorda aneddoti contemporanei
che ti fanno chiudere il libro, tanto sono interessanti. Tu leggi, e un agente
del reclusorio ti chiama dabbasso, in direzione, per una cosa che ti si poteva
dire con un monosillabo, o anche fra cento anni. Tu leggi, ed entrano i
battitori a scomodarti e a rintronarti le orecchie. Tu leggi, e suona la
campana della distribuzione della minestra e del pane. Tu leggi... Credetelo,
in una camerata perdete l’illusione di potervi sommergere in un libro per
ritornare alla vita rifocillato di qualche cosa.
Col permesso di scrivere, il nostro
tempo penale si accumulava e si accorciava rapidamente. Qualche volta si
avrebbe voluto che la giornata di diciassette ore fosse più lunga, per
avere modo di prolungare la gioia del lavoro. C’era tra noi la gara degli
operai a cottimo. Ci si alzava e ciascuno andava al proprio posto. Chiesi e
Federici avevano un tavolo nello spazio in fondo, a fianco della finestra. Il
primo scriveva dalla mattina alla sera, senza mai smettere che all’ora dei
pasti o quando aveva bisogno di stiracchiarsi le braccia, appendendosi al
bastone più alto dell’inferriata. Senza i libri necessari per un’opera
descrittiva, o storica, o politica, egli si era votato interamente al romanzo -
un lavoro, da quello che vedevo, che non gli costava che la fatica manuale. Non
è mai a secco né di idee né di scene. Dotato di un apparecchio digestivo
che non gli annoia il cervello, e arciricco di vocaboli, egli poteva prendere
la penna ad ogni minuto, digiuno o col boccone in bocca, quando pioveva a
diluvio e quando il sole si riversava nella nostra camerata come un’allegria.
Alla mattina riprendeva il filo del racconto senza neppure degnarsi di leggere
l’ultima frase e, dopo la colazione, il passeggio e il pranzo, ricominciava
come se non vi fosse stata interruzione. Il Sue si popolava il tavolo, sul
quale scriveva, di pupazzi per tenere a mente i personaggi che gli nascevano a
mano a mano che entrava nella intimità del romanzo. Gustavo Chiesi ha
potuto completare Il Corpo di Ballo - un romanzo d’ambiente che
racchiude tutta la popolazione del palcoscenico della Scala - senza sciupare
più di alcuni nomi scritti sul cartone dei fogli che produceva. Il suo
modo di composizione è dei più semplici. Incomincia la prima riga
e tira via senza mai voltarsi indietro, cioè senza mai dare un’occhiata
alle cartelle che la sua penna ha ammonticchiato. Non cancella che di rado, una
volta o due alla settimana. Non potendo leggere il suo manoscritto per la sua
calligrafia illeggibile, non lavora di lima che sulle bozze. Ma è
difficile ch’egli si permetta di alterare una frase. Sul suo stampone non
vedete ai margini che poche correzioni o dei segni che paiono lasciati
giù da una mosca che lo abbia percorso con le zampe umide d’inchiostro.
Perché la frase gli esce limpida, corretta e brunita, come da una officina. In
pochi mesi ha scritto tre romanzi, letto parecchi volumi e mantenuta una
corrispondenza abbastanza voluminosa.
Il secondo, cioè Federici, si
alzava sempre prima di ogni altro, un po’ perché amava il pediluvio quotidiano,
e un po’ perché gli piaceva diguazzare nel catino più lungamente degli
altri. Iniziava i suoi lavori con una spanciata di verbi inglesi, che egli si
trangugiava tranquillamente, tra un passo e l’altro, fatti colla leggerezza e
la mollezza della gallina che non disturba. Lo si vedeva andare in su e in
giù, rasente le brande, colla grammatica sotto gli occhiali
scintillanti, o chiusa con l’indice tra le pagine, con la sinistra sul collo
della destra o cogli occhi che vagolavano per il soffitto come quelli
dell’inspirato o dell’uomo che manda versi o prosa a memoria. Dopo la
distribuzione del pane, la quale avveniva verso le ore otto, sedeva e si
metteva di schiena al lavoro di traduzione, divorando un esercizio dopo
l’altro, senza magari dire una parola.
E noi, fino a quando non si sapeva di
che umore si era alzato, ci guardavamo bene dal buttargli l’amo della ciarla.
Perché, malgrado la gentilezza e la squisitezza d’animo, il Federici era il
compagno più difficile della camerata. Non si sapeva mai da che parte
pigliarlo. Proprio nel momento in cui lo credevate il vostro migliore amico,
poteva scattare per un nonnulla o vi poteva tappare la bocca con una di quelle
parole solenni che arrivano alla testa come un pietrone, o vi poteva isolare
per un tempo indeterminato, senza mai accorgersi della vostra presenza, anche
se vi trovavate gomito a gomito o a faccia a faccia, allo stesso tavolo.
Terminato il boicottaggio, risentivate l’amico che vi dava il buon giorno, che
spartiva i suoi cinque centesimi di frutta con voi, che vi dava, se ne aveva,
con la miglior grazia del mondo, un pezzo del suo cioccolatte eccellentissimo,
o che si metteva con voi al passeggio, ingolfandovi in una conversazione
piacevole e spesso istruttiva.
Il tempo che gli lasciava l’inglese lo
consumava nella lettura. Leggeva romanzi, filosofia, storia e tutto ciò
che di buono gli capitava tra le mani. In musica mi parve più che un
orecchiante o un buongustaio. Canticchiava sovente le arie popolari o
più conosciute delle opere moderne - sapeva dei pezzi di Wagner come e
assai più del Chiesi che aveva propalato e difeso il maestro di musica
dell’avvenire con uno studio, e correggeva le voci stonate degli altri che
volevano imitarlo.
Don Davide incominciava dopo
Lo si chiamava e si fingeva di credere
ch’egli andasse a compiere i suoi uffici divini fuori del reclusorio.
- Don Davide, fate il piacere di
comperarmi trenta centesimi di sigarette virginia.
- Don Davide, se vedete il
pollivendolo, mandateci a casa un’anitra, sgrassata, come quella della
settimana scorsa.
- Don Davide, non dimenticate di
passare dall’oste che siamo senza vino.
- Don Davide, se trovate del pesce
fresco, mandatene a casa una padellata.
Rientrava ilare e pieno di scuse. Ci
diceva che il pescivendolo era alla spiaggia, che il tabaccaio era andato alla
dispensa e che il pollivendolo non veniva in paese che tre volte la settimana.
Si metteva al lavoro senza indugio. Il
suo tavolino era tra il finestrone e la sua branda. Si perdeva sui suoi fogli
di protocollo fino a colazione. Durante il lavoro taceva volentieri, ma non
andava in collera se lo si interrompeva e se si faceva di tutto per fargli
perdere del tempo.
Chiesi: Don
Davide, come state?
Don Davide: Bene,
grazie.
Chiesi: Che
cosa supponete che stiano dicendo, in questo momento, De Andreis e Romussi?
Don Davide: È
difficile indovinarlo.
Chiesi: Ve lo
dirò io che cosa stanno pensando. Stanno pensando a una chicchera di
caffè buono, magari con una goccia di grappa buonissima.
Don Davide: Piacerebbe
anche a me, adesso una tazza di caffè caldo con uno spruzzo di grappa di
quella che ho a casa mia, a Filighera!
Riprendevano il lavoro e poi
ricominciavano il dialogo.
Don Davide: Che
opinione hai tu questa mattina sull’amnistia?
Chiesi: Conosco
Pelloux. È un soldato, ma un soldato che ha sempre fatto parte della
sinistra. È impossibile ch’egli si mangi il passato in un boccone. Lascerà
passare la tempesta per contentare un po’ i fanatici e poi, alla prima
occasione, metterà nel discorso reale, per guadagnare della
popolarità al re, l’amnistia.
Interveniva qualcuno di noi
Chiesi: Tu non
conosci Pelloux. Nella sua vita parlamentare ha dimostrato più di una
volta di non essere quello che gli inglesi chiamano un martinet della
caserma. L’esercito non può fargli dimenticare che c’è della
gente che soffre ingiustamente.
Don Davide: Vedremo.
Chiesi: Non si
tratta di voi, don Davide. Voi siete qui per «fini speciali».
Don Davide intingeva la penna con un
risolino, la piegava dolcemente sul pezzetto di carta che si teneva a destra, e
si rimetteva a scrivere. Nessuno ha mai potuto leggere una riga dei suoi
manoscritti. Ma dai discorsi si sapeva ch’egli riempiva le pagine di
impressioni, di reminiscenze, di note autobiografiche, di vita giornalistica,
di articoli di polemica e di sfoghi poetici.
La sua calligrafia non fa mettere gli
occhiali. È nitida e arieggia l’inglesino. Non è quella dello
scrittore che va via all’impazzata e lascia agli altri la briga di capirla. Se
il pane terroso non gli aveva fatto peso o non gli aveva gonfiato il ventre, il
pensiero gli si sgomitolava senza interruzioni. Giornalista col fondaccio
letterario, gli piace, quando non è infuriato dalla rotativa, rifare il
manoscritto, senza toccarlo troppo o levargli la naturalezza della prosa
spontanea. Il suo stile è pastoso, la sua prosa calda, la sua penna
duttile, il suo periodo limpido come un cristallo. Con qualche predilezione per
la frase pariniana, rifugge dalle inversioni del poeta del Giorno, che
svogliano il lettore. L’ingiustizia gli scalda il calamaio egli fa produrre una
prosa vigorosa, senza ridondanze e senza i plebeismi del Baretti. Con o senza
collera egli non è
Le tre mila lettere ch’egli ha scritto
durante la sua prigionia - lettere che potrebbero formare, per il pubblico
cattolico, un epistolario interessantissimo - ne sono un documento. Sono in
esse la sua bontà infinita, lo spandimento, della sua anima mal
rassegnata a stare in prigione, l’affezione intensa per la gente ch’egli ama e
che lo ama, il perdono incommensurato per tutti gli avversari pentiti che gli
hanno tribolata l’esistenza a 52 anni, proprio quando, diceva lui, si ha
bisogno di un po’ di vita buona.
In prigione non ha mai avuto rimpianti.
Egli è sempre stato orgoglioso del suo passato. Non ha mai avuto
che parole d’amore per la sua penna che
l’ha mandato «tra i ferri anziché
adattarsi a mentire e adulare», come non ha avuto che trasporti per il suo
Osservatore Cattolico «divenutogli più che mai prezioso, ora che gli
ha procurato il carcere, e dato occasione di soffrire per la causa che difende
e dimostrare che seriamente anche in faccia alla morte, la difende e la
difenderà sempre».
Costantino Lazzari consolava i suoi
ozii forzati nel silenzio, nella lettura, nel disegno. Taceva per delle ore,
leggeva volumi ponderosi senza sbadigliare, rileggeva i Promessi Sposi con
piacere, la Vita di Benvenuto Cellini direi quasi con entusiasmo e il Sant’Ambrogio
di Romussi, superbamente illustrato, con ammirazione, e disegnava,
disegnava sempre. Disegnava galeotti, secondini, reclusi, frontoni del
reclusorio, compagni di camerata. Copiava danzatrici, madonne, bimbi, uomini
illustri, donne celebri, quello che trovava nelle riviste e nei libri
illustrati. Con la tenacia del volere è potere, dell’uomo che vuoi
riuscire ad ogni costo, la sua matita faceva progressi meravigliosi. Le sue figure
prendevano forma, diventavano vive, assumevano la grazia dell’arte.
- Perché non smetti di fare il commesso
viaggiatore e non ti dai interamente al lapis che ti serve così bene e
che ti darebbe una vita meno stentata?
Perché era troppo tardi, perché non
aveva fantasia, perché l’artista, per essere tale, non deve essere tormentato
dai bisogni urgenti della vita, perché altri lo precedevano di parecchie
miglia.
Non so s’egli abbia continuato e se
continui. So che, se all’abilità del disegno egli potesse aggiungere la
sollecitudine, potrebbe diventare un giornalista che illustra i suoi e gli
articoli degli altri. Egli non è l’ultimo dei ritrattisti. Ha disegnato
un don Davide seduto, vestito da galeotto, il quale resterà il suo
capolavoro di Finalborgo. Ci ha dato una mezza figura di Chiesi mirabile e un
Suzzani intiero, con la gamella in mano, che non dimenticherò
facilmente. Ma io sciupo le parole come il padre di Cellini che voleva fare del
figlio un suonatore di flauto e di cornetta. Cellini lo contentava di tanto in
tanto, con qualche pifferata. Ma continuava per la sua strada a cesellare.
Così sarà di Costantino. Egli diventerà tutto fuorché un
artista.
Le ore della sera erano le più
tranquille. Si passava come dall’inferno al paradiso. Federici, Chiesi e don
Davide - il primo in mezzo e gli altri due in faccia - avevano una lampada a
petrolio in comune sui loro due tavoli riuniti. Noi quattro ci servivamo della
lampaduccia a luce elettrica, la cui poverezza di luce ci faceva chinare
sovente gli occhi, o ci lasciava per due minuti sotto un rossore
crudele. Migliorammo la nostra condizione quando a furia di guardarla ci
accorgemmo che aveva del filo attorcigliato che ci poteva servire per
allungarla fin quasi al tavolo.
Tutto sommato, erano ore deliziose. Il
chiasso delle camerate vicine alla nostra cessava con la campana del silenzio.
Salvo qualche gola che sprigionava versi da dannato o qualche voce che dava
fuori nel sonno o qualche disgraziato che manifestava i suoi tormenti fisici
con degli: oh Signor! femm murì, femm!, potevamo supporci in un
sepolcro. Si poteva sentire la penna di qualcuno che s’impuntava sulla carta, o
il piede di cimossa di un sottocapo in giro a origliare e a guardare attraverso
i pertugi, o la respirazione di un recluso al di là della parete, male
adagiato. Lo starnuto di Lazzari, fatto a bella posta per ricordarci che
eravamo vivi, ci faceva trasalire o sussultare come quando si sentono sulle
spalle le mani degli sconosciuti che vi dichiarano in arresto in nome della
legge.
Si lavorava immersi nel lavoro. Chiesi
a mettere in iscena i suoi ballabili, don Davide a scrivere una epistola dopo
l’altra per vivere di ricordi e riallacciare i legami col mondo che lo
conosceva. Lazzari a riprodurre il momento storico dei tre lavoratori con un
disegno grandioso che toccava e ritoccava ogni sera senza dirlo mai finito,
Ghiglione a illustrare le parole di un dizionario tedesco con l’idea
froebeliana che chi legge Himmel accanto a una chiazza di cielo e Frau
dinanzi a una testa di fanciulla, impara una lingua a vapore e non la
dimentica più mai.
- Come farai, gli domandavo, a
illustrare ich habe kein Geld?
- In un modo semplice. Mettendo tra le
parole un individuo che si fruga svogliatamente nelle tasche.
- Ma il tuo dizionario diventerà
una montagna!
Federici allargava la zona dei suoi
studi nella letteratura di altre lingue, in manica di camicia, senza mai
smettere, senza mai aprire bocca, come se fosse stato obbligato dal regolamento
carcerario a divorarsi un dato numero di pagine, e Giovanni Suzzani si
sprofondava nei romanzi dell’editore Aliprandi, scoppiando talvolta in risate
così plateali e così rumorose che costringevano il secondino di
guardia a buttare per il buco un ordine imperioso:
- Silenzio!
In certe sere... In certe sere nessuno lasciava cadere un libro,
nessuno tossiva, nessuno si muoveva come se avessimo saputo che avevamo alle
spalle gli occhi e le orecchie degli agenti incaricati della sorveglianza
notturna.
Ci capitava addosso la ronda, col lanternone
fumoso, come una sorpresa che metteva freddo.
- Sono le dieci!
Non ce lo facevamo dire due volte. In
un minuto spostavamo i tavoli, mettevamo carta e libri al posto, lasciavamo
giù le brande, facevamo il letto e ci buttavamo sul pagliericcio senza
aver modo di cambiare la camicia.
Chiesi era sempre il primo a toccare le
lenzuola. Adagiato, con la guancia sul guanciale, incominciava subito a ruggire
come una belva con una palla nella testa. Don Davide non dormiva subito. In
letto, con una coperta che non lo copriva completamente né da una parte né
dall’altra, sembrava un enorme cetaceo a mezz’acqua. Si voltava faticosamente
come un pachiderma. Federici si metteva sul fianco, con un libro in mano, in
una posizione da ricevere la luce sulle pagine e continuava la lettura per
un’altra mezz’ora. Poi mi diceva:
- Ciao, Paolino, dormi bene.
- Ciao.
Lazzari, santone, con gli occhiali che
gli aveva prestato l’amico Scannatopi e che gli davano l’aria di una vecchia in
collera, si dava furiosamente alla lettura, leggendo cento, centocinquanta
pagine di un fiato, lasciandosi magari sorprendere dalla seconda ronda col
libro in mano.
Dove siamo adesso stiamo assai meglio
che nella quinta camerata. Ma pochi di noi, rientrati in questa vita
vertiginosa, rigodranno la pace delle serate intellettuali del reclusorio di
Finalborgo.
L’uomo è un animale che
rimpiange perfino la galera!
Non so se sia in lui il giornalismo
nuovo. So che è giovine e che il giornalismo lo ha stregato. Anche dopo
che la professione gli ha fatto rasentare la porta del reclusorio, non sa
staccarsene. Con la penna del giornalista gli pare di essere più uomo.
Dal processo è uscito di
carattere piuttosto timido. È buono come un marzapane e ricco al di
là delle cento mila lire, ma gli manca l’audacia giacobina. Tutti i
testi, compreso il sindaco di Lecco, ce lo profilarono con parole che andavano
al cuore. Lo stesso Plutarco di S. Fedele non seppe o non volle adagiarlo nei
colori foschi delle altre biografie.
Sul banco degli accusati lo
consideravamo un problema professionale. Dalla sua condanna o dalla sua
assoluzione si doveva sapere se un giornale potesse inviare sul teatro di una
sommossa i suoi redattori, senza che la legge dei tribunali militari li
considerasse dei partecipanti côlti
con le armi alla mano.
- Dopo l’assoluzione, gli domandai un
giorno che facevamo colazione al Savini con un amico, che cosa ti è
avvenuto?
- Nulla. Io, Seneci, Zavattari, del Vecchio, socialista, e
Invernizzi, anarchico, fummo accompagnati a San Fedele da due agenti di P. S.
in borghese, in due carrozze a nostre spese. Nella prima erano del Vecchio e
Zavattari, nella seconda io e gli altri due. Alla porta della questura c’era
L’lnvernizzi e il del Vecchio vennero
rinchiusi in un camerotto per ordine del viceispettore Prina. Zavattari
e Seneci vennero rilasciati dopo le solite formalità. Zavattari, quando
l’ispettore Latini gli fece un’interrogazione, divenne un po’ agitato. Non
voleva sentire più niente. Voleva andarsene sui monti e non pensare al
brutto sogno attraverso il quale era passato. Io fui sfrattato dalla
provincia di Milano, entro le ventiquattro ore.
All’uscita trovai l’ing. Ongania,
sindaco di Lecco, e l’avv. Ignazio Dell’Oro che mi aspettavano. Stavamo per
andarcene, quando il vetturale che mi aveva condotto alla questura mi
ricordò la corsa.
- Dica, e la corsa?
Non mi si avevano ancora restituiti i
denari. Il mio amico sindaco tirò fuori subito il portafogli.
Vetturale: Scusi, lei
è forse uno del processo dei giornalisti?
-
Sissignore.
Diede una frustata al cavallo e via
senza la corsa.
- Ho anch’io un cuore, diss’egli
scappando.
([1]) Avevo ragione. Nessuno si era ricordato di lei o ha saputo del suo atto eroico. Ella è proprio una stradaiuola arcinota che passa ogni giorno traverso la moltitudine dei negozianti e dei sensali della piazza Mercanti e dei portici della Galleria V.E. come una fruttaiuola che non ha tempo da perdere. Mena braccia dappertutto e va in giro senza cappello. È forte, bassotta, con un collo taurino, con la carne biondiccia, con gli occhioni di una vivezza superba, con la faccia mista di bonarietà e di spavalderia, con il petto vanitoso dei trent’anni, con i fianchi pienotti della donna in fiore.
([2]) Il processo dei giornalisti è stato il più strepitoso di tutti i processi delle Corti militari. I Tribunali - divenuti quotidiani durante lo stato d’assedio - hanno raggiunto, con esso, la massima tiratura di 35.000 copie. Col processo dei deputati l’interesse era diminuito e la tiratura discese alle 10.000.
([5]) Non
conoscevo la lettera che la Kuliscioff scrisse in carcere. Ne taglio via due
brani. perché documentano il mio profilo e ribadiscono in tutto la convinzione
che la dottora congiunge a un’alta intelligenza un carattere adamantino.
«Sentite,
caro Prampolini: voi sapete che non sono ipocondriaca, che non sono portata
all’esagerazione dei miei malanni fisici. anzi sono fatalista e piuttosto
fiduciosa della mia resistenza. Ho tante volte visto vicina la morte e le ho
sempre resistito: perché dovrei proprio morire in questi due anni?
«Ma. dall’altro lato. sono osservatrice e sono medico. Vedo che i sintomi dell’idremia si aggravano: temo che il medico, per rassicurarmi, non mi dica tutta la verità, asserendo che non vi siano alterazioni renali. Caso mai, dunque, che il mio stato si aggravasse. lascio a voi, a Leonida la tutela della mia dignità. Vi prego a mani giunte di opporvi a qualunque passo che si volesse fare per ottenere la mia libertà con una grazia personale o con un indulto speciale. Impedite a chicchessia, per amor di chicchessia, fosse anche mia figlia, che mi sia fatta un’offesa morale. Se dovessi conquistare la libertà a questo prezzo, sarei tanto avvilita, tanto diminuita, tanto degradata, che nulla mi sarebbe la libertà, l’affetto pei miei cari, l’affetto degli amici buoni. Questa, caro Prampolini, è l’unica preghiera che rivolgo agli amici. prima che si rinchiuda la nostra tomba».