HOME    PRIVILEGIA NE IRROGANTO   di Mauro Novelli    

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Livio, Storia di Roma,

 

 Premessa                  

 

            

 

       PREFAZIONE

      

      Non so se valga davvero la pena raccontare fin dai primordi l'insieme

      della storia romana. Se anche lo sapessi, non oserei dirlo, perché mi

      rendo conto che si tratta di un'operazione tanto antica quanto praticata,

      mentre gli storici moderni o credono di poter portare qualche contributo

      più documentato nella narrazione dei fatti, o di poter superare la

      rozzezza degli antichi nel campo dello stile. Comunque vada, sarà pur

      sempre degno di gratitudine il fatto che io abbia provveduto, nei limiti

      delle mie possibilità, a perpetuare la memoria delle gesta compiute dal

      più grande popolo della terra. E se in mezzo a questa pletora di storici

      il mio nome rimarrà nell'ombra, troverò di che consolarmi nella nobiltà e

      nella grandezza di quanti avranno offuscato la mia fama. E poi si tratta

      di un'opera sterminata, perché deve ripercorrere più di settecento anni di

      storia che, pur prendendo le mosse da umili origini, è cresciuta a tal

      punto da sentirsi minacciata dalla sua stessa mole. Inoltre sono sicuro

      che la maggior parte dei lettori si annoierà di fronte all'esposizione

      delle prime origini e dei fatti immediatamente successivi, mentre sarà

      impaziente di arrivare a quegli avvenimenti più recenti nei quali si

      esauriscono da sé le forze di un popolo già da tempo in auge. Io, invece,

      cercherò di ottenere anche questa ricompensa al mio lavoro, cioè di

      distogliere lo sguardo da quegli spettacoli funesti di cui la nostra età

      ha continuato a essere testimone per così tanti anni, finché sarò

      impegnato, col pieno delle mie forze mentali, a ripercorrere quelle

      antiche vicende, libero da ogni forma di preoccupazione che, pur non

      potendo distogliere lo storico dal vero, tuttavia rischierebbe di turbarne

      la disposizione d'animo.

      Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua

      fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che

      alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né

      confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di

      nobilitare l'origine delle città mescolando l'umano col divino; e se si

      deve concedere a un popolo di consacrare le proprie origini e di

      ricondurle a un intervento degli dèi, questo vanto militare lo merita il

      popolo romano perché, riconnettendo a Marte più che a ogni altro la

      propria nascita e quella del proprio capostipite, il genere umano accetta

      un simile vezzo con lo stesso buon viso con cui ne sopporta l'autorità. Ma

      di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno

      giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto: ciascuno, questo mi

      preme, li analizzi con grande attenzione e si soffermi su che tipo di vita

      e che abitudini ci siano state, grazie all'abilità di quali uomini, in

      pace e in guerra, l'impero sia stato creato e accresciuto; quindi

      consideri come, per un progressivo rilassamento del senso di disciplina, i

      costumi abbiano in un primo tempo seguito l'infiacchirsi del pensiero, poi

      siano decaduti sempre di più, e in séguito abbiano cominciato a franare a

      precipizio fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali tanto il vizio

      quanto i suoi rimedi sono intollerabili. Ciò che risulta più di ogni altra

      cosa utile e fecondo nello studio della storia è questo: avere sotto gli

      occhi esempi istruttivi d'ogni tipo contenuti nelle illustri memorie. Di

      lì si dovrà trarre quel che merita di essere imitato per il proprio bene e

      per quello dello Stato, nonché imparare a evitare ciò che è infamante

      tanto come progetto quanto come risultato. E poi, o mi inganna la passione

      per il lavoro intrapreso, o non è mai esistito uno Stato più grande, più

      puro, più ricco di nobili esempi, e neppure mai una civiltà nella quale

      siano penetrate così tardi l'avidità e la lussuria e dove la povertà e la

      parsimonia siano state onorate così tanto e per così tanto tempo. Perciò,

      meno cose c'erano, meno si desiderava: solo di recente le ricchezze hanno

      introdotto l'avidità, e l'abbondanza di piaceri a portata di mano ha a sua

      volta fatto conoscere il desiderio di perdersi e di lasciare che ogni cosa

      vada in rovina in un trionfo di sregolata dissolutezza. Ma, all'inizio di

      un'impresa di queste proporzioni, siano messe al bando le recriminazioni,

      destinate a non risultare gradite nemmeno quando saranno necessarie: se

      anche noi storici, come i poeti, avessimo l'abitudine di incominciare con

      buoni auspici, voti e preghiere rivolte a tutte le divinità, preferirei un

      attacco del genere, pregandoli di concedere grande successo alla mia

      impresa.

 


Libri 1-2: Dai Re alla Repubblica

 

      

      LIBRO I

      

      

      

      1 Un primo punto che trova quasi tutti dello stesso avviso è questo: dopo

      la caduta di Troia, ai superstiti troiani fu riservato un trattamento

      molto duro; gli Achei si astennero dall'applicare rigorosamente il codice

      militare di guerra solo nei confronti di due di essi, Enea e Antenore, sia

      per l'antica legge dell'ospitalità, sia perché essi erano sempre stati

      sostenitori della pace e della restituzione di Elena. Successivamente, per

      circostanze di varia natura, Antenore e un nutrito gruppo di Eneti, i

      quali, costretti ad abbandonare la Paflagonia a séguito di una sommossa

      interna ed essendo alla ricerca di un luogo dove stabilirsi e di qualcuno

      che li guidasse dopo aver perso a Troia il loro capo Pilemene, arrivarono

      nel golfo più profondo del mare Adriatico, scacciarono gli Euganei che

      abitavano tra mare e Alpi e, Troiani ed Eneti, si impossessarono di quelle

      terre. Il primo punto in cui sbarcarono lo chiamarono Troia e di lì deriva

      il nome di Troiano per il villaggio: l'intero popolo assunse la

      denominazione di Veneti. Di Enea, invece, si sa che, esule dalla patria a

      séguito dello stesso disastro, ma destinato per volontà del fato a dare il

      via a eventi di ben altra portata, arrivò in un primo tempo in Macedonia,

      quindi fu spinto verso la Sicilia sempre alla ricerca di una sede

      definitiva e dalla Sicilia approdò con la flotta nel territorio di

      Laurento. Anche a questo luogo viene dato il nome di Troia. I Troiani

      sbarcarono in quel punto. Privi com'erano, dopo il loro interminabile

      peregrinare, di tutto tranne che di armi e di navi, si misero a fare

      razzie nelle campagne e per questo motivo il re Latino e gli Aborigeni che

      allora regnavano su quelle terre accorsero armati dalle città e dai campi

      per respingere l'attacco degli stranieri. Del fatto si tramandano due

      versioni. Alcuni sostengono che Latino, vinto in battaglia, fece pace con

      Enea e strinse con lui legami di parentela. Altri, invece, raccontano che,

      una volta schieratisi gli eserciti in ordine di battaglia, prima che fosse

      dato il segnale di inizio, Latino avanzò tra i soldati delle prime file e

      invitò a un colloquio il comandante degli stranieri. Quindi si informò

      sulla loro provenienza, chiese da dove o a séguito di quale evento fossero

      partiti dal loro paese e cosa stessero cercando nel territorio di

      Laurento. Venne così a sapere che tutti quegli uomini erano Troiani, con a

      capo Enea figlio di Anchise e di Venere, esuli da una città finita nelle

      fiamme, e alla ricerca di una sede stabile per fondarvi la loro città.

      Quindi, pieno di ammirazione per la nobiltà d'animo di quel popolo e

      dell'uomo di fronte a lui e per la loro disposizione tanto alla guerra che

      alla pace, gli tese la mano destra e si impegnò per un'amicizia futura tra

      i due popoli. I due comandanti stipularono allora un trattato di alleanza,

      mentre i due eserciti si scambiarono un saluto. Enea fu ospitato presso

      Latino. Lì questi aggiunse un patto privato a quello pubblico dando in

      moglie a Enea sua figlia. Questo accordo rinforzò la speranza dei Troiani

      di vedere finite una volta per tutte le loro infinite peregrinazioni

      grazie a una sede stabile e definitiva. Fondano una città. Enea la chiama

      Lavinio dal nome della moglie. Dopo poco tempo, dal nuovo matrimonio

      nacque anche un figlio maschio cui i genitori diedero il nome di Ascanio.

      

      2 In séguito, Aborigeni e Troiani dovettero affrontare insieme una guerra.

      Il re dei Rutuli Turno, cui era stata promessa in sposa Lavinia prima

      dell'arrivo di Enea, poiché non accettava di buon grado che lo straniero

      gli fosse stato preferito, entrò in guerra contemporaneamente con Enea e

      con Latino. Nessuna delle due parti poté rallegrarsi dell'esito di quello

      scontro: i Rutuli furono vinti, ma Troiani e Aborigeni, benché vincitori,

      persero Latino, il loro comandante. Allora Turno e i Rutuli, sfiduciati

      per lo stato presente delle cose, ricorsero alle floride risorse degli

      Etruschi e del loro re Mesenzio, signore dell'allora ricca città di Cere.

      Questi, poiché già sin dagli inizi non aveva gioito della fondazione della

      nuova città e in quel momento pensava che la crescita della potenza

      troiana fosse una minaccia eccessiva per la sicurezza dei popoli vicini,

      non esitò ad allearsi militarmente con i Rutuli. Enea, terrorizzato di

      fronte a una simile guerra, per accattivarsi il favore degli Aborigeni e

      perché tutti risultassero uniti non solo sotto la stessa autorità ma anche

      sotto lo stesso nome, chiamò Latini l'uno e l'altro popolo; né d'allora in

      poi gli Aborigeni si dimostrarono inferiori ai Troiani quanto a devozione

      e lealtà. Ed Enea, forte di questi sentimenti e dell'affiatamento che

      sempre di più cresceva tra i due popoli col passare dei giorni, nonostante

      l'Etruria avesse una tale disponibilità di mezzi da raggiungere con la sua

      fama non solo la terra ma anche il mare per tutta l'estensione dell'Italia

      - dalle Alpi allo stretto di Sicilia -, fece scendere ugualmente in campo

      le sue truppe pur potendo respingere l'attacco dalle mura. Lo scontro fu

      il secondo per i Latini. Per Enea, invece, rappresentò l'ultima impresa da

      mortale. Comunque lo si voglia considerare, uomo o dio, è sepolto sulle

      rive del fiume Numico e la gente lo chiama Giove Indigete.

      

      3 Ascanio, il figlio di Enea, non era ancora maturo per comandare;

      tuttavia il potere rimase intatto finché egli non ebbe raggiunto la

      pubertà. Nell'intervallo di tempo, lo Stato latino e il regno che il

      ragazzo aveva ereditato dal padre e dagli avi gli vennero conservati sotto

      la tutela della madre (tali erano in Lavinia le qualità caratteriali). Non

      mi metterò a discutere - e chi infatti potrebbe dare come certa una cosa

      così antica? - se sia stato proprio questo Ascanio o uno più vecchio di

      lui, nato dalla madre Creusa quando Ilio era ancora in piedi e compagno

      del padre nella fuga di là, quello stesso Julo dal quale la famiglia

      Giulia sostiene derivi il proprio nome. Questo Ascanio, quali che fossero

      la madre e la patria d'origine, in ogni caso era figlio di Enea. Dal

      momento che la popolazione di Lavinio era in eccesso, lasciò alla madre, o

      alla matrigna, la città ricca e fiorente, e per conto suo ne fondò sotto

      il monte Albano una nuova che, dalla sua posizione allungata nel senso

      della dorsale montana, fu chiamata Alba Longa. Tra la fondazione di

      Lavinio e la deduzione della colonia di Alba Longa intercorsero press'a

      poco trent'anni. Ciò nonostante, specie dopo la sconfitta subita dagli

      Etruschi, la sua potenza era a tal punto in crescita che, neppure dopo la

      morte di Enea e in séguito sotto la reggenza di una donna e i primi passi

      del regno di un ragazzo, tanto Mesenzio e gli Etruschi quanto nessun'altra

      popolazione limitrofa osarono intraprendere iniziative militari. Il

      trattato di pace stabilì che per Etruschi e Latini il confine sarebbe

      stato rappresentato dal fiume Albula, il Tevere dei giorni nostri.

      Quindi regna Silvio, figlio di Ascanio, nato nei boschi per un qualche

      caso fortuito. Egli genera Enea Silvio che a sua volta mette al mondo

      Latino Silvio. Da quest'ultimo vennero fondate alcune colonie che furono

      chiamate dei Latini Prischi. In séguito il nome Silvio rimase a tutti

      coloro che regnarono ad Alba Longa. Da Latino nacque Alba, da Alba Atys,

      da Atys Capys, da Capys Capeto e da Capeto Tiberino il quale, essendo

      annegato durante l'attraversamento del fiume Albula, diede a esso il

      celebre nome passato ai posteri. Quindi regnò il figlio di Tiberino,

      Agrippa, il quale trasmise il potere al figlio Romolo Silvio. Questi,

      colpito da un fulmine, tramandò di mano in mano il regno ad Aventino il

      quale fu sepolto sul colle che oggi è parte di Roma e che porta il suo

      nome. Quindi regna Proca. Egli genera Numitore e Amulio. A Numitore, che

      era il più grande, lascia in eredità l'antico regno della dinastia Silvia.

      Ma la violenza poté più che la volontà del padre o la deferenza nei

      confronti della primogenitura: dopo aver estromesso il fratello, sale al

      trono Amulio. Questi commise un crimine dietro l'altro: i figli maschi del

      fratello li fece uccidere, mentre a Rea Silvia, la femmina, avendola

      nominata Vestale (cosa che egli fece passare come un'onorificenza), tolse

      la speranza di diventare madre condannandola a una verginità perpetua.

      

      4 Credo comunque che rientrassero in un disegno del destino tanto la

      nascita di una simile città quanto l'inizio della più grande potenza del

      mondo dopo quella degli dèi. La Vestale, vittima di uno stupro, diede alla

      luce due gemelli. Sia che fosse in buona fede, sia che intendesse rendere

      meno turpe la propria colpa attribuendone la responsabilità a un dio,

      dichiarò Marte padre della prole sospetta. Ma né gli dèi né gli uomini

      riescono a sottrarre lei e i figli alla crudeltà del re: questi dà ordine

      di arrestare e incatenare la sacerdotessa e di buttare i due neonati nella

      corrente del fiume. Per una qualche fortuita volontà divina, il Tevere,

      straripato in masse d'acqua stagnante, non era praticabile in nessun punto

      del suo letto normale, ma a chi li portava faceva sperare che i due

      neonati venissero ugualmente sommersi dall'acqua nonostante questa fosse

      poco impetuosa. Così, nella convinzione di aver eseguito l'ordine del re,

      espongono i bambini nel punto più vicino dello straripamento, là dove ora

      c'è il fico Ruminale (che, stando alla leggenda, un tempo si chiamava

      Romulare). Quei luoghi erano allora completamente deserti. Tutt'ora è viva

      la tradizione orale secondo la quale, quando l'acqua bassa lasciò in secco

      la cesta galleggiante nella quale erano stati abbandonati i bambini, una

      lupa assetata proveniente dai monti dei dintorni deviò la sua corsa in

      direzione del loro vagito e, accucciatasi, offrì loro il suo latte con una

      tale dolcezza che il pastore-capo del gregge reale - pare si chiamasse

      Faustolo - la trovò intenta a leccare i due neonati. Faustolo poi, tornato

      alle stalle, li diede alla moglie Larenzia affinché li allevasse. C'è

      anche chi crede che questa Larenzia i pastori la chiamassero lupa perché

      si prostituiva: da ciò lo spunto di questo racconto prodigioso. Così nati

      e cresciuti, non appena divennero grandi, cominciarono ad andare a caccia

      in giro per i boschi senza rammollirsi nelle stalle e dietro il gregge.

      Irrobustitisi così nel corpo e nello spirito, nonaffrontavano soltanto più

      le bestie feroci, ma assalivano i banditi carichi di bottino: dividevano

      tra i pastori il frutto delle rapine e condividevano con loro svaghi e

      lavoro, mentre il numero dei giovani aumentava giorno dopo giorno.

      

      5 Si dice che già allora sul Palatino si celebrasse il nostro Lupercale e

      che il monte fosse chiamato Pallanzio (in séguito Palatino) da Pallanteo,

      città dell'Arcadia. Là Evandro, il quale, originario di quella stirpe di

      Arcadi, aveva occupato la zona molto tempo prima, pare avesse introdotto

      importandola dall'Arcadia l'usanza che dei giovani corressero nudi

      celebrando con giochi licenziosi Pan Liceo, che i Romani in séguito

      chiamarono Inuo. Mentre erano intenti a questo spettacolo - dato che la

      ricorrenza era ben nota -, si dice che i banditi, per la rabbia di aver

      perso il bottino, organizzarono un'imboscata. Romolo si difese

      energicamente. Remo, invece, lo catturarono e lo consegnarono al re

      Amulio, accusandolo per giunta del furto. Soprattutto gli imputavano di

      aver compiuto delle incursioni nelle terre di Numitore e di aver raccolto

      un gruppo di giovinastri per darsi alle razzie come in tempo di guerra.

      Per questi motivi Remo viene consegnato a Numitore perché lo punisca. Già

      sin dall'inizio Faustolo aveva supposto che i bambini allevati in casa sua

      fossero di sangue reale: infatti sapeva che dei neonati erano stati

      abbandonati per volere del re e anche che il periodo in cui li aveva presi

      con sé coincideva con quel fatto. Però non aveva voluto che la cosa si

      venisse a sapere quando ancora non era il momento giusto (a meno che non

      si fossero presentate l'occasione propizia o una necessità urgente). Fu

      quest'ultima ipotesi a verificarsi per prima: spinto dalla paura, rivelò

      la cosa a Romolo. Per caso anche Numitore, mentre teneva prigioniero Remo

      e aveva saputo che erano fratelli gemelli, considerando la loro età e il

      carattere per niente servile, era stato toccato nell'intimo dal ricordo

      dei nipoti; e a forza di fare domande, arrivò a un punto tale che poco ci

      mancò riconoscesse Remo. Così venne architettato un doppio complotto ai

      danni del re. Romolo lo assale, però non col suo gruppo di ragazzi -

      infatti non sarebbe stato all'altezza di un vero proprio colpo di forza -,

      ma con altri pastori cui era stato ordinato di arrivare alla reggia in un

      momento prestabilito e secondo un altro percorso. Dalla casa di Numitore,

      invece, Remo accorre in aiuto con un'altra schiera di uomini che era

      riuscito a procurarsi. Così trucidano il re.

      

      6 Numitore, durante le prime fasi della sommossa, spargendo la voce che i

      nemici avevano invaso la città e stavano assaltando la reggia, aveva così

      attirato la gioventù albana a presidiare la rocca e a tenerla con le armi.

      Quando vide venire verso di sé i giovani esultanti, reduci dalla strage

      appena compiuta, convocata sùbito l'assemblea, rivelò i delitti commessi

      dal fratello nei suoi confronti, la nobile origine dei nipoti, la loro

      nascita, il modo in cui erano stati allevati, il sistema con cui erano

      stati riconosciuti, e infine l'uccisione del tiranno, della quale dichiarò

      di assumersi la piena responsabilità. Dopo che i due giovani, entrati con

      le loro truppe nel mezzo dell'assemblea, ebbero acclamato re il nonno,

      l'intera folla, con un grido unanime, confermò al re il titolo legittimo e

      l'autorità.

      Così, affidata Alba a Numitore, Romolo e Remo furono presi dal desiderio

      di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti e allevati.

      Inoltre la popolazione di Albani e Latini era in eccesso. A questo si

      erano anche aggiunti i pastori. Tutti insieme certamente nutrivano la

      speranza che Alba Longa e Lavinio sarebbero state piccole nei confronti

      della città che stava per essere fondata. Su questi progetti si innestò

      poi un tarlo ereditato dagli avi, cioè la sete di potere, e di lì nacque

      una contesa fatale dopo un inizio abbastanza tranquillo. Siccome erano

      gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come

      criterio elettivo, toccava agli dèi che proteggevano quei luoghi indicare,

      attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova

      città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare

      i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l'Aventino.

      

      7 Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a

      Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato

      annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l'uno e l'altro

      contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base

      alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti.

      Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al

      sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione

      secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe

      scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell'ira,

      l'avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d'ora in

      poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo

      Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il

      nome del suo fondatore.

      In primo luogo fortifica il Palatino, sul quale lui stesso era stato

      allevato. Offre sacrifici in onore degli altri dèi secondo il rito albano,

      e secondo quello greco in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti

      da Evandro. Stando alla leggenda, proprio in questi luoghi Ercole uccise

      Gerione e gli portò via gli splendidi buoi. Perché questi riprendessero

      fiato e pascolassero nella quiete del verde e per riposarsi anche lui

      stremato dal cammino, si coricò in un prato vicino al Tevere, nel punto in

      cui aveva attraversato a nuoto il fiume spingendo il bestiame davanti a

      sé. Lì, appesantito dal vino e dal cibo, si addormentò profondamente. Un

      pastore della zona, un certo Caco, contando sulle proprie forze e colpito

      dalla bellezza dei buoi, pensò di portarsi via quella preda. Ma, dato che

      spingendo l'armento nella sua grotta le orme vi avrebbero condotto il

      padrone quando si fosse messo a cercarle, prese i buoi più belli per la

      coda e li trascinò all'indietro nella sua grotta. Al sorgere del sole,

      Ercole, emerso dal sonno, dopo aver esaminato attentamente il gregge ed

      essersi accorto che ne mancava una parte, si incamminò verso la grotta più

      vicina, caso mai le orme portassero in quella direzione. Quando vide che

      erano tutte rivolte verso l'esterno ed escludevano ogni altra direzione,

      cominciò a spingere l'armento lontano da quel luogo ostile. Ma poiché

      alcune tra quelle messe in movimento si misero a muggire, come succede,

      per rimpianto di quelle rimaste indietro, il verso proveniente dalle altre

      rimaste chiuse dentro la grotta fece girare Ercole. Caco cercò di

      impedirgli con la forza l'ingresso nella grotta. Ma mentre tentava invano

      di far intervenire gli altri pastori, stramazzò al suolo schiantato da un

      colpo di clava. In quel tempo governava la zona, più per prestigio

      personale che per un potere conferitogli, Evandro, esule dal Peloponneso,

      uomo degno di venerazione perché sapeva scrivere, cosa nuova e prodigiosa

      in mezzo a bifolchi del genere, e ancor più degno di venerazione per la

      supposta natura divina della madre Carmenta, che prima dell'arrivo in

      Italia della Sibilla aveva sbalordito quelle genti con le sue doti di

      profetessa. Evandro dunque, attirato dalla folla di pastori accorsi

      sbigottiti intorno allo straniero colto in flagrante omicidio, dopo aver

      ascoltato il racconto del delitto e delle sue cause, osservando

      attentamente le fattezze e la corporatura dell'individuo, più maestose e

      imponenti del normale, gli domandò chi fosse. Quando venne a sapere il

      nome, chi era suo padre e da dove veniva, disse: «Salute a te, Ercole,

      figlio di Giove. Mia madre, interprete veritiera degli dèi, mi ha

      vaticinato che tu andrai ad accrescere il numero degli immortali e qui ti

      verrà dedicato un altare che un giorno il popolo più potente della terra

      chiamerà Altare Massimo e venererà secondo il tuo rito.» Ercole, dopo aver

      teso la mano destra, disse che accettava l'augurio e che avrebbe portato a

      compimento la volontà del destino costruendo e consacrando l'altare. Lì,

      prendendo dal gregge un capo di straordinaria bellezza, fu per la prima

      volta compiuto un sacrificio in onore di Ercole. A occuparsi della

      cerimonia e del banchetto sacrificale furono chiamati Potizi e Pinari, in

      quel tempo le famiglie più illustri della zona. Per caso successe che i

      Potizi giungessero all'ora stabilita e le viscere degli animali vennero

      poste di fronte a loro, mentre i Pinari, quando ormai le viscere erano

      stae mangiate, arrivarono a banchetto cominciato. Così, finché durò in

      vita la stirpe dei Pinari, rimase in vigore la regola che essi non

      potessero cibarsi delle interiora dei sacrifici. I Potizi, istruiti da

      Evandro, furono per molte generazioni sacerdoti di questo rito sacro, fino

      al tempo in cui, affidato ai servi di Stato il solenne officio della

      famiglia, l'intera stirpe dei Potizi si estinse. Questi furono gli unici,

      fra tutti i riti di importazione, a essere allora accolti da Romolo, già

      in quel periodo conscio dell'immortalità che avrebbe ottenuto col valore e

      verso la quale lo conduceva il suo destino.

      

      8 Sistemata la sfera del divino in maniera conforme alle usanze religiose

      e convocata in assemblea la massa, che nulla, salvo il vincolo giuridico,

      poteva unire nel complesso di un solo popolo, diede loro un sistema di

      leggi. Pensando che esso sarebbe stato inviolabile per quei rozzi villici

      solo a patto di rendere se stesso degno di venerazione per i segni

      distintivi dell'autorità, diventò più maestoso sia nel resto della persona

      sia soprattutto grazie ai dodici littori di cui si circondò. Alcuni

      ritengono che egli adottò il numero in base a quello degli uccelli che,

      col loro augurio, gli avevano pronosticato il regno. A me non dispiace la

      tesi di quelli che sostengono importati dalla confinante Etruria (donde

      furono introdotte la sedia curule e la toga pretesta) tanto questo tipo di

      subalterni quanto il loro stesso numero. Essi ritengono che la cosa fosse

      così presso gli Etruschi dal momento che, una volta eletto il re

      dall'insieme dei dodici popoli, ciascuno di essi forniva un littore a

      testa.

      Nel frattempo la città cresceva in fortificazioni che abbracciavano dentro

      la loro cerchia sempre nuovi spazi: si costruiva più nella speranza di un

      incremento demografico negli anni a venire che per le proporzioni presenti

      della popolazione. In séguito, perché l'ampliamento della città non fosse

      fine a se stesso, col pretesto di aumentare la popolazione secondo

      l'antica idea di quanti fondavano città (i quali, radunando intorno a sé

      genti senza un passato alle spalle, facevano credere loro di essere

      autoctoni), creò un punto di raccolta là dove oggi, per chi voglia salire

      a vedere, c'è un recinto tra due boschi. Lì, dalle popolazioni confinanti,

      andò a riparare una massa eterogenea di individui - nessuna distinzione

      tra liberi e schiavi - avida di cose nuove: e questo fu il primo energico

      passo in direzione del progetto di ampliamento. Ormai soddisfatto di tali

      forze, provvede a dotarli di un'assemblea. Elegge cento senatori, sia

      perché questo numero era sufficiente, sia perché erano soltanto cento

      quelli che potevano ambire a una carica del genere. In ogni caso,

      quest'onore gli valse il titolo di padri, mentre i loro discendenti furono

      chiamati patrizi.

      

      9 Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere

      militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne

      questa grandezza era destinata a durare una sola generazione, perché essi

      non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne

      della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori

      alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo

      popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni. Essi dissero che anche

      le città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in séguito, grazie

      al loro valore e all'assistenza degli dèi, acquistano grande potenza e

      grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma erano stati

      propizi gli dèi e che il valore non le sarebbe venuto a mancare. Per

      questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano disdegnare di

      mescolare il sangue e la stirpe. All'ambasceria non dette ascolto nessuno:

      tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall'altra

      temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di

      una simile potenza. Nell'atto di congedarli, la maggior parte dei popoli

      consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche

      luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio

      alla pari). La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa

      cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per

      conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando il

      proprio risentimento, allestisce apposta dei giochi solenni in onore di

      Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare allo

      spettacolo i popoli vicini. Per caricarli di interesse e attese, i giochi

      vengono pubblicizzati con tutti i mezzi disponibili all'epoca. Arrivò

      moltissima gente, an che per il desiderio di vedere la nuova città, e

      soprattutto chi abitava più vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e

      Antemnati. I Sabini, poi, vennero al completo, con tanto di figli e

      consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione

      della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si

      meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. Quando arrivò il

      momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui

      giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a

      un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze.

      Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che

      spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni,

      venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel

      compito. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre,

      fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di

      sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la

      portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da

      quell'episodio deriva il nostro grido nuziale.

      Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono

      affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando

      il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e i giochi solenni,

      vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite,

      d'altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore

      indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava

      che la cosa era successa per l'arroganza dei loro padri che avevano negato

      ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque,

      sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la

      loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli.

      Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte

      aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue

      l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori

      in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio

      dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto

      questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali

      giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che

      sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole femminile.

      

      10 Ormai l'ira delle ragazze rapite si era del tutto placata. Fu però

      proprio in quel momento che i loro genitori, vestiti a lutto, cercavano di

      sensibilizzare i concittadini piangendo e lamentandosi dell'accaduto. E

      non si limitavano a manifestare in patria il proprio sdegno, ma da ogni

      parte si presentarono in gruppi di delegazioni a Tito Tazio, re dei

      Sabini, perché il suo prestigio in quelle zone era enorme. Quell'affronto

      riguardava in parte Ceninensi, Crustumini e Antemnati. Sembrò loro che

      Tito Tazio e i Sabini agissero con eccessiva flemma: perciò questi tre

      popoli si prepararono a combattere da soli. Ma, a giudicare dall'animosità

      e dall'ira dei Ceninensi, neppure Crustumini e Antemnati si muovevano con

      sufficiente prontezza. Così i Ceninensi invadono da soli il territorio

      romano. Ma mentre stavano devastando disordinatamente la zona, gli va

      incontro Romolo con l'esercito e, dopo una ridicola scaramuccia, dimostra

      loro la vanità dell'ira non sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la

      schiera nemica, la mette in fuga e ne insegue i resti sbandati; quindi si

      scontra in duello col re, lo uccide e ne spoglia il cadavere. Dopo aver

      eliminato il comandante dei nemici, si impossessa della loro città al

      primo assalto. Ricondotto indietro l'esercito vincitore, dimostrò che il

      suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla capacità di

      valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico ucciso su una

      barella costruita all'occorrenza, salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle

      deposte presso una quercia sacra ai pastori, insieme con l'offerta tracciò

      i confini del tempio di Giove e aggiunse un epiteto al nome del dio: «Io,

      Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e

      consacro il tempio entro questi limiti che ho or ora tracciato secondo la

      mia volontà, in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie

      opime che quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno

      qui dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia.»

      Questa è l'origine del primo tempio consacrato a Roma. Così, da quel

      giorno in poi, piacque agli dèi che fosse legge la parola del fondatore

      del tempio (e cioè che i posteri avrebbero dovuto portare lì le spoglie),

      e che la gloria di un tale dono non fosse svilita dal numero elevatissimo

      di chi la poteva ottenere. Da allora tanti anni sono passati e tante

      guerre sono state combattute. Ciò nonostante, altre due volte soltanto si

      presero spoglie opime: così rara fu la fortuna di quell'onore.

      

      11 Mentre i Romani si stavano occupando di queste cose, gli Antemnati,

      cogliendo al volo l'occasione offerta dalla loro assenza, compiono

      un'incursione armata nel nostro territorio. Ma le truppe romane, spinte a

      marce forzate anche in quella direzione, piombano loro addosso trovandoli

      sparpagliati nei campi. Fu così che bastò il primo urto accompagnato

      dall'urlo di guerra per sbaragliarli e conquistarne la città. Mentre

      Romolo era nel pieno dell'ovazione per il doppio trionfo, la moglie

      Ersilia, cedendo alle preghiere incessanti delle donne rapite, lo prega di

      perdonarne i genitori e di ammetterli all'interno della città (la cui

      potenza sarebbe così aumentata proprio grazie alla concordia interna).

      Egli acconsente facilmente. Quindi marcia contro i Crustumini che erano in

      procinto di attaccare. Ma la loro resistenza durò ancora meno di quella

      degli alleati: di fronte a disfatte del genere, non era rimasto troppo

      coraggio. In entrambi i paesi sottomessi furono inviati coloni. La maggior

      parte di essi, però, si iscrissero per Crustumino a causa della fertilità

      della terra. Dall'altra parte, invece, molte persone, soprattutto genitori

      e parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma.

      L'ultimo attacco Roma lo subì dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più

      importante tra le guerre combattute fino a quel punto. Essi, infatti, non

      agirono sotto l'impulso del risentimento e dell'ambizione, né si

      lasciarono andare a dimostrazioni militari prima di dare il via alla

      guerra. Unirono la fraudolenza al sangue freddo. Spurio Tarpeio comandava

      la cittadella romana. Sua figlia, vergine vestale, viene corrotta con

      dell'oro da Tazio e costretta a fare entrare un drappello di armati nella

      fortezza. In quel preciso momento la ragazza era andata oltre le mura ad

      attingere acqua per i culti rituali. Dopo averla catturata, la

      schiacciarono sotto il peso delle loro armi e la uccisero, sia per dare

      l'idea che la cittadella era stata conquistata più con la forza che con

      qualsiasi altro mezzo, sia per fornire un esempio in modo che più nessun

      delatore potesse contare sulla parola data. La leggenda riguardante questi

      fatti vuole che, siccome i Sabini di solito portavano al braccio sinistro

      braccialetti d'oro massiccio e giravano con anelli tempestati di gemme di

      rara bellezza, la ragazza avesse pattuito come prezzo del suo tradimento

      ciò che essi portavano al braccio sinistro; e che al posto dell'oro

      promesso fosse rimasta schiacciata dal peso dei loro scudi. Alcuni

      sostengono che, avendo lei chiesto di scegliere come ricompensa quello che

      essi portavano al braccio sinistro, optò espressamente per gli scudi e che

      i Sabini, credendo li volesse tradire, l'uccisero proprio col compenso che

      aveva richiesto.

      

      12 Comunque sia, i Sabini si impossessarono della cittadella. Il giorno

      dopo, quando l'esercito romano aveva gremito, col suo schieramento al

      completo, lo spazio compreso tra il Palatino e il Campidoglio, i Sabini

      non calarono subito in pianura ma rimasero ad aspettare che l'indignazione

      e il desiderio di recuperare la rocca spingessero i Romani a risalire la

      china e ad affrontarli su in alto. I capi di entrambi gli schieramenti

      incitavano alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i

      Romani. Quest'ultimo, nonostante la posizione svantaggiosa, teneva alto il

      morale con dimostrazioni di coraggio e di audacia nelle prime file. Ma,

      caduto lui, subito i Romani registrarono un netto cedimento e andarono a

      rifugiarsi presso la vecchia porta del Palatino. Romolo stesso, trascinato

      dalla massa dei soldati in ritirata, sollevando le armi al cielo, gridò:

      «O Giove, è per obbedire al tuo volere che ho gettato le prime fondamenta

      di Roma proprio qui sul Palatino. Ormai la cittadella è in mano ai Sabini

      che l'hanno conquistata nella più turpe delle maniere. Di lì, attraverso

      la vallata, stanno avanzando armati verso di noi. Ma tu, padre degli dèi e

      degli uomini, tieni lontani almeno da qui i nemici, libera i Romani dal

      terrore e frena questa loro vergognosa ritirata! Prometto che qui, o Giove

      Statore, io innalzerò un tempio per ricordare ai posteri che è stato il

      tuo aiuto inesauribile a salvare la città». Al termine della preghiera,

      come se avesse avuto la sensazione di essere stato esaudito, disse: «Qui,

      o Romani, Giove ottimo massimo vi ordina di fermarvi e di ricominciare a

      combattere». E i Romani si fermarono, proprio come se stessero obbedendo a

      un ordine piovuto dal cielo. Romolo in persona si lancia nelle prime file.

      Mezio Curzio, intanto, a capo dei Sabini, aveva guidato la carica

      dall'alto della cittadella e fatto il vuoto in mezzo alle fila romane,

      gettando lo scompiglio per tutto lo spazio occupato dal foro. E, ormai non

      lontano dalla porta del Palatino, gridava: «Li abbiamo battuti, ospiti

      malvagi e nemici codardi che non sono altro! Ora lo sanno che differenza

      passa tra rapire delle ragazze inermi e combattere contro degli uomini

      veri.» Mentre così si gloria, gli si avventa addosso, guidato da Romolo,

      un gruppo di giovani pronti a tutto. Per caso in quel momento Mezio stava

      combattendo a cavallo e fu così più facile respingerlo. Dopo averlo messo

      in fuga, i Romani proseguono sullo slancio e il resto dell'esercito,

      infiammato dall'audacia del re, riesce a sbaragliare i Sabini. Mezio fu

      trascinato in una palude dal suo cavallo, divenuto ingovernabile per lo

      strepito degli inseguitori e la cosa attirò l'attenzione anche dei Sabini

      che temevano di perdere una figura così carismatica: urlando e facendogli

      ampi gesti, gli dimostrarono il loro attaccamento ed egli riuscì a tirarsi

      fuori dalla melma. Romani e Sabini riprendono così a combattere nella

      valle che si estende tra le due colline. Ma i Romani continuavano ad avere

      la meglio.

      

      13 Fu in quel momento che le donne sabine, il cui rapimento aveva

      scatenato la guerra in corso, con le chiome al vento e i vestiti a

      brandelli, lasciarono che le disgrazie presenti avessero la meglio sulla

      loro timidezza di donne e non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di

      proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i

      contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti e

      dall'altra i padri. Li imploravano di non commettere un crimine orrendo

      macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di non lasciare il

      marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo,

      figli per gli uni e nipoti per gli altri. «Se il rapporto di parentela che

      vi unisce e questi matrimoni non vi vanno a genio, rivolgete la vostra ira

      contro di noi: siamo noi la causa scatenante della guerra, noi le sole

      responsabili delle ferite e delle morti tanto dei mariti quanto dei

      genitori. Meglio morire che rimanere senza uno di voi due, o vedove od

      orfane.» L'episodio non tocca soltanto la massa dei soldati ma anche i

      comandanti, e su tutti cala improvvisa una quiete silenziosa. Poi vengono

      avanti i generali per stipulare un trattato e non si accordano

      esclusivamente sulla pace, ma varano anche l'unione dei due popoli.

      Associano i due regni, trasferendo però l'intero potere decisionale a Roma

      che vede così raddoppiata la sua popolazione. Tuttavia, per venire in

      qualche modo incontro ai Sabini, i cittadini romani presero il nome di

      Quiriti dalla città di Cures. E in memoria di quella battaglia chiamarono

      lago Curzio lo specchio d'acqua dove il cavallo di Curzio emerse dal

      profondo della melma e portò in salvo il suo cavaliere.

      A una guerra così catastrofica seguì improvvisamente un felice periodo di

      pace che rese le donne sabine più gradite ai loro mariti e ai loro

      genitori, ma, sopra tutti, a Romolo stesso. Così, quando questi divise la

      popolazione in trenta curie, diede a esse il nome delle donne. Senza

      dubbio il loro numero era in qualche modo superiore: la tradizione non ci

      informa se fu l'età, la loro classe sociale o quella dei mariti, oppure

      un'estrazione a sorte il criterio utilizzato per stabilire quali dovessero

      dare il nome alle curie. Nello stesso periodo vennero formate tre centurie

      di cavalieri. Ramnensi e Tiziensi devono i loro nomi a Romolo e a Tito

      Tazio. Quanto invece ai Luceri, nome e origine sono poco chiari. Di lì in

      poi, i due sovrani regnarono non solo in comune, ma anche in perfetto

      accordo.

      

      14 Alcuni anni dopo, certi parenti di Tito Tazio maltrattano gli

      ambasciatori dei Laurenti e, nonostante il loro appellarsi al diritto

      delle genti, Tito mostra di avere orecchie soltanto per le preghiere dei

      suoi. Così facendo, assume su di sé la responsabilità della loro mancanza.

      E infatti, un giorno che era andato a Lavinio per un sacrificio solenne,

      fu assassinato in un moto di piazza. Si narra che la cosa addolorò Romolo

      meno del dovuto, sia per la dubbia affidabilità di una simile divisione

      del potere, sia perché credeva che quella morte non fosse del tutto

      immeritata. Per questo evitò di far ricorso alla guerra. Tuttavia, per

      garantire l'espiazione della morte del re e dell'offesa ai danni degli

      ambasciatori, fece rinnovare il trattato tra Roma e Lavinio.

      Questa pace, a dir la verità, fu un evento al di sopra di ogni

      aspettativa. Invece scoppiò un'altra guerra, molto più vicina, anzi quasi

      alle porte di Roma. Gli abitanti di Fidene, ritenendo troppo vicina a loro

      una potenza in continua crescita, senza aspettare che diventasse forte

      come c'era da prevedere, si affrettano a scatenare il conflitto. Armano

      squadroni di giovani e li spediscono a devastare le campagne tra Roma e

      Fidene. Di lì piegano verso sinistra (a destra niente da fare, c'è il

      Tevere che blocca la strada) e compiono atti di vandalismo terrorizzando i

      contadini. L'improvviso trambusto creatosi nelle campagne arrivò fino in

      città e fu come una prima avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non

      c'era un minuto da perdere con una guerra così vicina, esce immediatamente

      alla testa dell'esercito e si accampa a un miglio da Fidene. Dopo avervi

      lasciato una modesta guarnigione, si mette in moto col grosso delle

      truppe. Una parte di queste ordinò che si piazzasse, pronta a lanciare

      un'imboscata, in una zona tutto intorno criparata da fitti cespuglic. Poi,

      con il blocco più consistente dell'esercito e con tutta la cavalleria, si

      mise in marcia e, proprio come si era prefissato, riuscì ad attirare fuori

      il nemico adottando un tipo di tattica spericolata e minacciosa, con i

      cavalieri che scorrazzavano fin quasi sotto le porte. D'altra parte, per

      la fuga che doveva esser simulata, questo assalto a cavallo forniva un

      pretesto più verisimile. E quando non solo la cavalleria sembrava incerta

      tra il combattere e il fuggire, ma anche la fanteria si ritirava,

      all'improvviso si spalancarono le porte e le linee romane furono travolte

      dallo straripare dei nemici che, nella foga di darsi all'inseguimento,

      furono trascinati nel punto dell'imboscata. Lì i Romani saltano fuori a

      sorpresa e attaccano sul fianco la schiera dei nemici. Allo stupore si

      aggiunge la paura: dall'accampamento si vedono avanzare gli stendardi del

      presidio lasciato di guarnigione. Così i Fidenati, in preda al panico più

      totale, fanno dietro-front quasi prima ancora che Romolo e i suoi uomini

      riuscissero a girare i loro cavalli. E visto che si trattava di una fuga

      vera, riguadagnavano la città in maniera di gran lunga più disordinata di

      quelli che, poco prima, essi avevano inseguito ingannati dalla loro

      simulazione di fuga. Però non riuscirono a sfuggire al nemico: i Romani li

      incalzavano da dietro e, prima che le porte della città venissero chiuse,

      irruppero all'interno, quando ormai i due eserciti sembravano uno solo.

      

      15 La guerra scatenata dai Fidenati fu come una febbre contagiosa che

      colpì gli animi dei Veienti (i quali, oltretutto, vantavano anche legami

      etnici, visto che condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più

      c'era il pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse

      rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si

      riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una

      regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni alla

      rinfusa. Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito nemico, ma

      tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato nelle campagne. I

      Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico nei campi,

      attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare un attacco

      decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici si erano

      accampati e stavano per marciare contro la loro città, andarono loro

      incontro per decidere la battaglia in campo aperto piuttosto che dover

      combattere ostacolati dalle case e dalle mura. Nello scontro, senza far

      ricorso a particolari stratagemmi di supporto alle sue truppe, il re

      romano ebbe la meglio solo grazie alla fermezza dei suoi veterani:

      sbaragliò i nemici e li inseguì fino alle mura, ma dovette desistere

      dall'attaccare la città in quanto risultava ben protetta dalle

      fortificazioni e dalla sua stessa posizione. Sulla via del ritorno

      saccheggia le campagne, più per desiderio di vendetta che per fare razzia.

      E i Veienti, piegati da questo disastroso strascico non meno che dalla

      sconfitta in battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace.

      Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della cessione di parte del

      loro territorio.

      Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari

      durante il regno di Romolo. Nessuno di essi impedisce però di prestar fede

      alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte,

      né al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla

      saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle

      guerre e alla sua politica interna. Fu proprio in virtù di quanto egli le

      aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant'anni di stabilità

      nella pace. Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato

      dai suoi soldati come da nessun altro. Tenne per sé, e non solo in tempo

      di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri.

      

      16 Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno,

      mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla

      palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale

      violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola

      così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento

      in poi, Romolo non riapparve più sulla terra. I giovani romani, appena

      rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della

      tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto

      che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti

      accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla

      tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio

      di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. Poi, seguendo

      l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo

      dio figlio di un dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la

      benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora,

      credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori

      avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si

      diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota l'altra

      versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia

      per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentarne la

      credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi -

      un certo Giulio Proculo -, mentre la città era in lutto per la perdita del

      re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave,

      come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi

      termini all'assemblea: «Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba,

      Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è

      apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto,

      l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha

      risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che

      la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano

      nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana

      potenza è in grado di resistere alle armi romane." Detto questo,» egli

      concluse, «è scomparso in cielo.» È incredibile quanto si prestò fede al

      racconto di quell'uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e

      dell'esercito per la perdita di Romolo l'assicurazione della sua

      immortalità.

      

      17 Nel frattempo, tra i senatori, era in pieno svolgimento una lotta

      febbrile per la gestione del potere. Non si era però ancora giunti a

      candidature individuali perché nel nuovo popolo non c'era nessuna figura

      particolarmente di spicco: si trattava di uno scontro di diverse fazioni

      all'interno delle classi. I cittadini di origine sabina, dopo la morte di

      Tito Tazio, non avevano più avuto un loro re. Così, nel timore di dover

      rinunciare alla spartizione del potere pur continuando a godere degli

      stessi diritti politici, volevano che venisse eletto un re della loro

      etnia. Ma i Romani di vecchia data rifiutavano l'idea di avere un re

      forestiero. Pur nella pluralità di vedute, tutti volevano ugualmente

      essere sottoposti all'autorità di un monarca: infatti non avevano ancora

      assaporato il dolce piacere della libertà. Poi i senatori cominciarono a

      preoccuparsi seriamente, pensando che la città priva di un governo e

      l'esercito privo di un comandante in campo rischiassero un qualche attacco

      da fuori, visto che si trovavano in mezzo a una serie di vicini

      particolarmente maldisposti nei loro confronti. Erano quindi tutti

      d'accordo sulla necessità di avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva in

      animo di rinunciare a favore dell'altro. Così i cento senatori decidono di

      governare collegialmente: creano dieci decurie e da ognuna di esse

      traggono un rappresentante destinato a gestire l'amministrazione dello

      stato. Governavano, quindi, in dieci, anche se uno solo aveva le insegne

      ed era scortato dai littori. Il potere di ciascuno di essi durava cinque

      giorni, poi passava a rotazione a tutti gli altri. Si trattò di un

      intervallo di un anno. Siccome intercorse tra due regni, fu chiamato

      interregno, termine ancor oggi in uso. Ma allora la plebe cominciò a

      lamentare l'aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al posto

      di un padrone adesso gliene toccavano cento. Era chiaro che avrebbero al

      massimo sopportato un re e questo eletto secondo le loro preferenze.

      Quando i senatori si resero conto dell'andazzo, pensarono che sarebbe

      stato bene offrire spontaneamente ciò che era destino avrebbero perso. E

      così si guadagnarono il favore popolare concedendo il potere supremo,

      senza però elargire più prerogative di quante ne mantennero per sé.

      Infatti decretarono che il popolo avrebbe eletto il re, ma la nomina

      sarebbe stata valida solo dopo la loro ratifica. Ancor oggi, quando si

      votano le leggi e si eleggono i magistrati, viene esercitato questo

      diritto, anche se ormai privato della sua importanza: i senatori anno la

      loro ratifica prima che il popolo vada alle urne e quando non si conosce

      ancora l'esito del voto. In quell'occasione, il sovrano in carica convocò

      l'assemblea e disse: «La fortuna, la prosperità e la felicità possano

      assisterci! Quiriti, sceglietevi un re, questo è il volere dei senatori. E

      se chi eleggerete sarà degno di esser chiamato successore di Romolo, in

      quel caso vogliano confermare la vostra scelta.» La proposta fu talmente

      gradita al popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si

      limitò a decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva

      regnare a Roma.

      

      18 In quel periodo Numa Pompilio godeva di grande rispetto per il suo

      senso di giustizia e di religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed

      era esperto, più di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del

      diritto divino e di quello umano. C'è chi sostiene, in assenza di altri

      nomi, ch'egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di Samo. La

      tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu durante il regno di

      Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e nell'estremo sud Italia -

      nei dintorni di Metaponto, Eraclea e Crotone - che Pitagora si circondò di

      gruppi di giovani ansiosi di conoscere a fondo le sue dottrine. E da quei

      lontani paesi, pur ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso

      periodo, la sua fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini? E in che

      lingua comune avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui?

      E sotto la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel

      viaggio attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze? Per

      tutti questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente

      portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua cultura

      non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri, ma

      dipendesse dall'austera e severa educazione degli antichi Sabini, il

      popolo moralmente più puro dell'antichità. Non appena i senatori romani

      sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re proveniente

      dalla loro etnia, l'ago della bilancia politica si sarebbe spostato verso

      i Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a

      quell'uomo se stesso, uno della propria fazione o qualche altro senatore o

      privato cittadino, decidono all'unanimità di affidare il regno a Numa

      Pompilio. Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo dopo

      aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il

      governo, allo stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli

      dèi. Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi,

      questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue

      attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto sedere

      su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione. L'augure, a capo coperto

      e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di nodi il cui nome

      era lituus, prese posto alla sua sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato

      con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli dèi e divise la

      volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale,

      specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle di

      sinistra le settentrionali. Poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a

      sé, un punto di riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo

      sguardo. Quindi, fatto passare il lituus nella mano sinistra e piazzata la

      destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: «O Giove padre, se è

      volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e del quale io sto

      toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche segno manifesto entro i

      limiti che io ho or ora tracciato.» Poi specificò gli auspici che voleva

      venissero inviati. E quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e poté

      scendere dalla collina augurale.

      

      19 Roma era una città di recente fondazione, nata e cresciuta grazie alla

      forza delle armi: Numa, divenutone re nel modo che si è detto, si prepara

      a dotarla di un sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui

      fino a quel momento era stata priva). Ma rendendosi conto che chi passa la

      vita tra una guerra e l'altra non riesce ad abituarsi facilmente a queste

      cose perché l'atmosfera militare inselvatichisce i caratteri, pensò che

      fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo disabituandolo all'uso

      delle armi. Per questo motivo fece costruire ai piedi dell'Argileto un

      tempio in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra:

      da aperto avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso

      che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni. Dal regno di Numa

      in poi fu chiuso soltanto due volte: la prima al termine della prima

      guerra punica, durante il consolato di Tito Manlio, la seconda (e gli dèi

      hanno concesso alla nostra generazione di esserne testimoni oculari) dopo

      la battaglia di Azio, quando cioè l'imperatore Cesare Augusto ristabilì la

      pace per mare e per terra. Numa lo chiuse dopo essersi assicurato con

      trattati di alleanza la buona disposizione di tutte le popolazioni

      limitrofe ed eliminando le preoccupazioni di pericoli provenienti

      dall'esterno. Così facendo, però, si correva il rischio che animi resi

      vigili dalla disciplina militare e dalla continua paura del nemico si

      rammollissero in un ozio pericoloso. Per evitarlo, egli pensò che la prima

      cosa da fare fosse instillare in essi il timore reverenziale per gli dèi,

      espediente efficacissimo nei confronti di una massa ignorante e ancora

      rozza in quei primi anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti

      senza far ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli

      incontri notturni con la dea Egeria e riferì che quest'ultima lo aveva

      esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli dèi,

      nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti specifici. Prima di

      tutto, basandosi sul corso della luna, divide l'anno in dodici mesi. Ma

      dato che i singoli mesi lunari non si compongono di trenta giorni e che ce

      ne sono «undici» di differenza rispetto a un intero anno calcolato in base

      alla rivoluzione del sole, egli aggiunse dei mesi intercalari in maniera

      tale che il ventesimo anno si trovassero rispetto al sole nella stessa

      posizione dalla quale erano partiti e che così la durata di tutti gli anni

      tornasse perfettamente. Stabilì anche i giorni fasti e quelli nefasti,

      poiché sarebbe stato utile, di quando in quando, sospendere ogni attività

      pubblica.

      

      20 Quindi rivolse la sua attenzione ai sacerdoti: bisognava nominarli,

      nonostante egli stesso fosse preposto a parecchi riti sacri, soprattutto

      quelli che oggi sono di competenza del flamine Diale. Ma poiché riteneva

      che in un paese bellicoso i re del futuro sarebbero stati più simili a

      Romolo che non a Numa e sarebbero andati di persona a combattere, non

      voleva che passassero in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re.

      Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo

      di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell'autorità regale.

      A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre

      sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio questo di

      origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore.

      Per permettere loro di dedicarsi esclusivamente al servizio del tempio,

      fece assegnare a esse uno stipendio dallo stato e, a causa della verginità

      e di altre cerimonie rituali, le rese sacre e inviolabili. Scelse anche

      dodici Salii per Marte Gradivo e garantì loro la possibilità di

      distinguersi vestendo una tunica ricamata e provvista di una placca di

      bronzo sul petto. Inoltre ordinò loro di portare gli scudi caduti dal

      cielo (noti come ancilia) e di compiere processioni in città cantando inni

      accompagnati da solenni passi di danza in tre tempi. Poi nomina pontefice

      un senatore, Numa Marcio, figlio di Marcio, cui fornisce dettagliate

      istruzioni scritte per tutte le cerimonie sacre: i tipi di vittime, i

      giorni prescritti, i templi in cui celebrare i vari riti e le risorse cui

      fare capo per mantenerne le spese. Subordinò all'autorità del pontefice

      anche tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale

      che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun

      elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni di sorta, dovute

      a negligenze dei riti nazionali o all'adozione di culti di importazione.

      Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non

      solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche

      funerarie, di quelle di propiziazione dei mani e dell'interpretazione dei

      presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni. Per desumere questi

      mistici segreti dallo spirito dei numi, innalzò sull'Aventino un altare in

      onore di Giove Eliio e fece consultare il dio attraverso degli auguri per

      vedere di quali prodigi si dovesse tener conto.

      

      21 L'attenzione per questi fenomeni celesti e la loro continua ricerca

      avevano distolto il popolo intero dalla violenza delle armi, fornendogli

      sempre qualcosa con cui tenere occupata la mente: il pensiero incessante

      della presenza divina e l'impressione che le potenze ultraterrene

      partecipassero dei casi umani avevano permeato di pietà religiosa gli

      animi così profondamente che la città era governata più dal rispetto per

      la solennità della fede che dalla paura suscitata dalle leggi e dalle

      pene. E come in città i sudditi uniformavano il proprio comportamento a

      quello del re, in qualità di unico esempio a loro disposizione, allo

      stesso modo anche i popoli vicini, che in passato avevano sempre visto

      Roma non come una città ma come un accampamento situato in mezzo a loro e

      destinato a destabilizzare la pace di tutti, cominciarono a nutrire per

      Roma una venerazione tale da considerare una violazione sacrilega

      attaccare un centro urbano così integralmente votato al culto degli dèi.

      C'era un bosco con al centro una grotta buia dalla quale sprigionava una

      fonte di acqua perenne. Poiché Numa vi si recava spessissimo senza

      testimoni e diceva di avere là i suoi appuntamenti con la dea, consacrò il

      bosco alle Camene sostenendo che queste ultime si vedevano in quella

      radura con la sua consorte Egeria. Istituì anche un culto solenne in onore

      della Fides e prescrisse che i Flamini si recassero a questo santuario con

      un carro coperto trainato da due cavalli e che celebrassero la cerimonia

      con le mani coperte fino alle dita, per indicare che la Fides non deve

      essere violata e che ha il suo santuario anche nella mano destra. Stabilì

      inoltre molti altri culti sacrificali e i luoghi a essi demandati, luoghi

      cui i pontefici diedero il nome di Argei. Tuttavia, tra tutti i servizi

      resi allo Stato, il più significativo fu questo: per l'intera durata del

      suo regno, consacrò ogni attenzione non meno a mantenere la pace che a

      tutelare il paese. Così, due re di séguito, anche se ciascuno per strade

      diverse, l'uno infatti con la pace, l'altro con la guerra, contribuirono

      ala grandezza di Roma. Romolo regnò trentasette anni, Numa quarantatré. E

      Roma, tanto in caso di guerra quanto nella normalità della pace, non aveva

      più problemi di organizzazione interna e di esperienza.

      

      22 Alla morte di Numa si tornò a un interregno. Poi il popolo elesse re -

      e il senato ratificò l'elezione - Tullo Ostilio, nipote di quell'Ostilio

      che si era distinto nella battaglia contro i Sabini ai piedi della

      cittadella. Il nuovo re non solo fu diversissimo rispetto al suo

      predecessore, ma fu anche più bellicoso di Romolo. La giovane età e la

      forza, unite all'aspirazione alla gloria ereditata dal nonno, erano un

      incentivo al suo ardore. Così, pensando che l'inattività prolungata

      avrebbe irreparabilmente sfiancato Roma, cercava dovunque pretesti per

      scatenare la guerra. Per puro caso successe che dei contadini romani

      andarono a fare razzia di bestiame in territorio albano e quelli della

      campagna di Alba gli restituirono subito il favore compiendo la stessa

      prodezza. In quell'epoca Alba era governata da Gaio Cluilio. Entrambe le

      parti in causa mandarono contemporaneamente degli inviati per riavere il

      maltolto. Tullo aveva ordinato ai suoi di compiere prima di tutto la loro

      missione. Era convinto che avrebbe ottenuto un rifiuto. In tal caso

      sarebbe stato suo diritto dichiarare guerra. I rappresentanti di Alba

      agirono invece con maggiore flemma. Ricevuti con amabile cortesia da

      Tullo, onorano con simpatia il banchetto offerto dal re. Nel frattempo

      quelli di parte romana li avevano presi sul tempo: la richiesta di

      risarcimento era già stata presentata. Di fronte a un secco rifiuto da

      parte albana avevano quindi avanzato una dichiarazione di guerra con

      decorrenza di lì a trenta giorni. Di ritorno a Roma ne riferiscono a

      Tullo. Questi allora invita i delegati albani a chiarire il motivo della

      loro missione. Ed essi, non essendo al corrente di nulla, cominciano

      perdendo tempo in formalità. Si scusarono di dover pronunciare parole

      probabilmente spiacevoli alle orecchie di Tullo, ma dissero che gli ordini

      erano ordini. Sostennero di esser venuti a rivendicare il maltolto e che

      gli era stato ingiunto di dichiarare guerra in caso di rifiuto. A queste

      parole Tullo replicò: «Andate dal vosro re e ditegli che il re di Roma

      chiama in causa gli dèi a testimoniare quale dei due popoli abbia per

      primo sdegnosamente congedato gli ambasciatori inviati a rivendicare

      quanto razziato, in modo tale che facciano ricadere su di lui tutti i

      disastri di questa guerra.»

      

      23 I rappresentanti di Alba se ne tornano indietro a riferire questa

      risposta. Entrambi i popoli si preparano con grandissimo ardore alla

      guerra, che si presentava come una vera e propria guerra civile,

      addirittura quasi uno scontro tra padri e figli: gli uni e gli altri erano

      di origine troiana in quanto Lavinio era stata fondata da Troia, Alba da

      Lavinio e i Romani discendevano dai re albani. Tuttavia l'esito della

      guerra rese lo scontro meno deplorevole: infatti non si combatterono

      battaglie e, quando le abitazioni di una sola delle due città furono

      distrutte, i due popoli si fusero in uno. Gli Albani scesero in campo per

      primi e invasero il territorio romano con un massiccio schieramento di

      forze. Pongono l'accampamento a non più di cinque miglia da Roma e lo

      circondano con un fossato (cui, per alcuni secoli, rimase il nome di fossa

      di Cluilio da quello del comandante, finché, col passare del tempo,

      scomparvero fossato e nome). In questo accampamento muore il re albano

      Cluilio e i suoi soldati eleggono dittatore Mezio Fufezio. Nel frattempo,

      il bellicoso Tullo, imbaldanzito dalla morte del re, sostenendo che

      l'onnipotenza divina si sarebbe vendicata del nome albano (e il re stesso

      era solo l'inizio) per la guerra criminale da lui scatenata, evitato

      nottetempo l'accampamento nemico, andò a riversarsi in territorio albano.

      Questa manovra costrinse Mezio a uscire dalle sue posizioni. Guidando

      l'esercito il più velocemente possibile in direzione del nemico, manda

      avanti un inviato a dire a Tullo che prima dello scontro egli ritiene

      necessario un colloquio tra i due comandanti in capo. Nel caso l'altro

      avesse accettato, era sicuro di poter avanzare delle proposte non meno

      interessanti per i Romani che per gli Albani. Tullo non rifiutò, anche se

      fece schierare le sue truppe in ordine di battaglia nel caso in cui le

      proposte si fossero dimostrate prive di interesse. Gli Albani vanno a

      disporsi dall'altra parte. Finite le manovre di schieramento dei due

      eserciti, i rispetivi comandanti, scortati da pochi maggiorenti, avanzano

      verso il centro del campo di battaglia. Il primo a parlare è l'albano: «Le

      razzie e il bottino non restituito nonostante le esplicite richieste in

      base al trattato mi sembra siano i pretesti che il nostro re Cluilio

      indicava come cause di questa guerra, né dubito Tullo che i tuoi siano

      tanto diversi. Ma se vogliamo dire la verità e non fare tanti giri di

      parole, è la sete di potere che spinge alle armi due popoli vicini e

      provenienti dalla stessa stirpe. Non sto a sbilanciarmi se con ragione o

      torto: la questione riguarda chi ha suscitato la guerra. Io sono soltanto

      un generale scelto dagli Albani per portare avanti le operazioni. Ma ecco,

      o Tullo, quello su cui vorrei attirare la tua attenzione: le proporzioni

      della potenza etrusca, che circonda noi ma soprattutto voi, le conosci

      meglio tu perché vivi più vicino a loro. Per terra dominano, ma per mare

      non hanno avversari. Quindi, nel momento in cui darai il segnale di

      battaglia, ricordati che gli Etruschi staranno a guardare i nostri due

      eserciti e, non appena saremo allo stremo delle forze, ne approfitteranno

      per assalire vincitori e vinti. Per questo, agli dèi piacendo, visto che

      non ci basta la sicurezza della libertà ma preferiamo abbandonarci

      all'incertezza tra il potere e la schiavitù, vediamo di stabilire quale

      dei due popoli governerà sull'altro senza grandi disastri e inutili

      spargimenti di sangue.» La proposta non dispiacque a Tullo, nonostante

      fosse più incline allo scontro sia per motivi di carattere che per la

      speranza di vittoria. Mentre entrambe le parti stavano cercando di

      risolvere la questione, la sorte stessa fornì loro una soluzione.

      

      24 Per puro caso in entrambi gli eserciti c'erano allora tre fratelli

      gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli

      Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi

      più noti dei tempi antichi. Pur essendo però un fatto così celebre,

      permangono ancora dei seri dubbi sui popoli di rispettiva appartenenza di

      Orazi e Curiazi. Gli storici sono divisi, anche se vedo che la maggior

      parte di essi chiama romani gli Orazi e anch'io propendo per questa tesi.

      I re propongono ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si

      sarebbe battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe

      toccata anche la supremazia. Nessuna obiezione. Si stabiliscono tempo e

      luogo. Prima però di dare il via allo scontro, Albani e Romani stipulano

      un trattato secondo il quale il popolo i cui campioni avessero avuto la

      meglio avrebbe esercitato un potere incondizionato sull'altro. Ogni

      trattato ha le sue clausole particolari, ma le procedure sono sempre le

      stesse. Nella circostanza presente sappiamo che fu strutturato in questi

      termini (ed è il più antico trattato di cui si abbia memoria): il feziale

      rivolse a Tullo questa domanda: «Mi ordini, o re, di stipulare un trattato

      col pater patratus del popolo albano?» Poiché il re rispose

      affermativamente, egli proseguì: «Io ti chiedo l'erba sacra.» Il re

      rispose: «Prendi dell'erba pura.» Allora il feziale andò a raccogliere

      l'erba pura sulla cittadella. Quindi rivolse al re questa domanda: «Re, mi

      nomini tu plenipotenziario reale del popolo romano dei Quiriti ed estendi

      questo carattere sacrale ai miei paramenti e ai miei assistenti?» Il re

      risponde: «Te lo concedo, purché non debba danneggiare né me né il popolo

      romano dei Quiriti.» Il feziale, Marco Valerio, nominò pater patratus

      Spurio Fusio toccandogli la testa e i capelli con un ramoscello sacro. Il

      compito del pater patratus è quello di pronunciare il giuramento, cioè di

      concludere solennemente il trattato. A questo fine egli pronuncia una

      specie di ampollosa formula liturgica che non vale la pena riportare.

      Quindi, dopo aver letto le clausole, il feziale dice: «Ascolta, o Giove;

      ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo di Alba.

      Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla cera, sono state

      pubblicamente lette dalla prima all'ultima parola e senza la malafede

      dell'inganno, e che sono state qui oggi perfettamente capite, da queste

      clausole il popolo romano non sarà il primo a recedere. E se lo farà, per

      una decisione ufficiale o con qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove

      superno, colpsci il popolo romano come io ora vado a colpire questo maiale

      in questo giorno e in questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo

      colpo quanto più grande e forte è la tua potenza.» Detto questo, colpì il

      maiale con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro

      comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali e il

      giuramento che li riguardavano.

      

      25 Concluso il trattato, i gemelli, come era stato convenuto, si armano di

      tutto punto. Da entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni.

      Gli ricordavano che gli dèi nazionali, la patria e i genitori, nonché

      tutti i concittadini rimasti a casa e quelli lì presenti tra le fila

      avevano gli occhi puntati sulle loro armi e sulle loro braccia. E i

      fratelli, pronti allo scontro non già solo per il tipo di carattere che

      avevano ma esaltati dalle urla di chi li incitava, avanzano nello spazio

      in mezzo alle due schiere. Gli uomini di entrambi gli eserciti si erano

      intanto seduti di fronte ai rispettivi accampamenti, tesissimi non tanto

      per qualche pericolo imminente, quanto perché era in ballo la supremazia

      legata solo al valore e alla buona sorte di pochi di loro. Così, sul chi

      vive e col fiato sospeso, si concentrano sullo spettacolo non certo

      rilassante. Viene dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni

      opposti nello scontro, si buttano allo sbaraglio con lo spirito di due

      eserciti interi. Né gli uni né gli altri si preoccupano del proprio

      pericolo, ma pensano esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione

      del proprio paese e alle sorti future della patria che loro soli possono

      condizionare. Al primo contatto l'urto delle armi e il bagliore delle lame

      fecero gelare il sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che

      nessuna delle due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il

      respiro. Ma quando poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano

      solo più fisici in movimento e spade e scudi branditi nell'aria ma

      cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani, colpiti a morte,

      caddero uno sull'altro, contro i tre Albani soltanto feriti. A tale vista,

      un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane,

      persa ormai ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione

      circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto indenne,

      non poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era pronto a dare

      battaglia contro uno per volta. Quindi, er separarne l'attacco, si mise a

      correre pensando che lo avrebbero inseguito ciascuno con la velocità che

      le ferite gli avrebbero permesso. Si era già allontanato un po' dal punto

      in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo

      stavano inseguendo piuttosto sgranati e che uno gli era quasi addosso. Si

      fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani

      urlavano ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già

      ucciso l'avversario e si preparava al secondo duello. Allora, con un boato

      di voci - quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i Romani

      presero a incitare il loro campione che cercava di porre presto fine al

      combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere - e non era tanto

      lontano -, uccise il secondo. Ora lo scontro era numericamente alla pari,

      uno contro uno; ma lo squilibrio risultava nelle forze a disposizione e

      nelle speranze di vittoria. L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo,

      era pronto e fresco per un terzo scontro. L'altro, stremato dalle ferite e

      dalla corsa, si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato

      dalle vittorie, era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena

      caduti. Non fu un combattimento. Il Romano gridò esultando: «Ho già

      offerto due vittime ai mani dei miei fratelli: la terza la voglio offrire

      alla causa di questa guerra, che Roma possa regnare su Alba.» L'avversario

      riusciva a malapena a tenere in mano le armi. Orazio, con un colpo

      dall'alto verso il basso, gli infilò la spada nella gola e quindi ne

      spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un'ovazione di gratitudine

      e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la

      disperazione. I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi

      morti con sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la

      supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe

      esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello

      stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e

      con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro.

      

      26 Prima di allontanarsi, Mezio, in base alle clausole del trattato,

      chiede quali siano gli ordini e Tullo gli ingiunge di tenere i giovani

      sotto le armi perché avrebbe avuto bisogno delle loro prestazioni in caso

      di guerra contro Veio. Quindi gli eserciti vengono ricondotti negli

      accampamenti. Alla testa dei Romani marciava Orazio col suo triplice

      bottino. Di fronte alla porta Capena gli andò incontro sua sorella, ancora

      nubile, che era stata promessa in sposa a uno dei Curiazi. Appena

      riconobbe sulle spalle del fratello la mantella militare del fidanzato che

      lei stessa aveva confezionato, si sciolse i capelli e in lacrime ripeté

      sommessamente il nome del caduto. Il suo pianto, proprio nel momento del

      tripudio pubblico per la vittoria, irrita l'animo del giovane impetuoso

      che, estratta la spada, trafigge la ragazza rivolgendole nel contempo

      queste parole di biasimo: «Vattene con la tua bambinesca infatuazione,

      vattene dal tuo fidanzato, tu che riesci a dimenticare i tuoi fratelli

      morti e quello vivo e addirittura la patria. Possa così morire ogni romana

      che piangerà il nemico.» L'atroce delitto sembrò orribile ai senatori e

      alla plebe, ma a ciò si contrapponeva la prodezza di poche ore prima. Fu

      comunque preso e portato di fronte al re per essere processato. Questi,

      non volendosi assumere l'intera responsabilità di una sentenza così penosa

      e impopolare nonché della condanna a morte che ne sarebbe seguita, convocò

      l'assemblea del popolo e disse: «Secondo quanto è prescritto dalla legge,

      nomino una commissione di duumviri e gli affido il compito di processare

      Orazio per lesa maestà.» Il testo della legge era spaventoso: «I delitti

      di lesa maestà siano giudicati dai duumviri. Se l'imputato ricorre in

      appello che l'appello dia luogo a una discussione. Nel caso prevalgano i

      duumviri, si proceda a coprirne il capo; quindi se ne leghi il corpo a un

      albero stecchito e lo si fustighi sia dentro sia fuori il pomerio.» In

      virtù di questa disposizione, vengono nominati i duumviri. Con una legge

      del genere sembrava loro impossibile assolvere anche un innocente. Così,

      dopo averlo giudicato colpevole, uno di essi disse: «Publio Orazio,ti

      condanno per lesa maestà. Vai littore, legagli le mani.» Il littore gli si

      era avvicinato e stava per mettergli il laccio, quando Orazio, su

      consiglio di Tullo, più clemente nell'interpretare la legge, disse:

      «Ricorro in appello.» Il dibattito si tenne così di fronte al popolo e la

      gente fu particolarmente influenzata dalla testimonianza del padre di

      Orazio il quale sostenne che la morte della figlia era stata giusta e

      aggiunse che in caso contrario egli avrebbe fatto ricorso alla sua

      autorità di padre e punito il figlio Orazio con le sue stesse mani. Poi

      implorò il popolo di non orbare anche dell'ultimo figlio un uomo che fino

      a poco tempo prima la gente aveva visto circondato da una notevole prole.

      Dicendo questo, il vecchio andò ad abbracciare il giovane e, indicando le

      spoglie dei Curiazi appese nel punto che ancor oggi si chiama Trofeo di

      Orazio, esclamò: «Quest'uomo che poco fa avete ammirato incedere

      nell'ovazione trionfale della vittoria, o Quiriti, ce la farete a vederlo

      legato e fustigato sotto una forca? Uno spettacolo così ingrato che a

      malapena gli Albani riuscirebbero a tollerarne la vista. Vai littore,

      incatena queste mani che poco fa hanno dato al popolo romano la

      supremazia. Vai, incappuccia la testa al liberatore di questa città e

      legalo a un albero stecchito. Fustigalo sia dentro il pomerio - e quindi

      tra i trofei e le spoglie nemiche -, sia fuori di esso - e quindi tra le

      tombe dei Curiazi. Dove potreste portarlo questo giovane senza che la sua

      gloria gridi vendetta per l'onta di un simile verdetto?» Il popolo,

      incapace di resistere alle lacrime del padre e alla fermezza incrollabile

      del figlio di fronte a ogni pericolo, assolse Orazio più per l'ammirazione

      suscitata dalla sua prodezza che per la bontà della sua causa. E così, per

      purificare malgrado tutto il delitto flagrante con una qualche espiazione,

      al padre venne ordinato di compiere l'espiazione per il figlio a pubbliche

      spese. Per questo motivo egli offrì dei sacrifici espiatori che da quel

      momento divennero una tradizione peculiare della famiglia Orazia. Quindi

      eresse nella pubblica via una struttura di travi e, come se si fosse

      trattato di un giogo vero e proprio, vi fece passare sotto il figlio a

      capo coperto. La cosa esiste ncora e di tanto in tanto viene rimessa in

      sesto a spese dello stato: si chiama trave sororia. Quanto all'Orazia, le

      fu innalzato un sepolcro di pietre squadrate nel punto in cui era caduta

      sotto i colpi del fratello.

      

      27 Ma la pace con Alba non durò a lungo. La gente era scontenta perché le

      sorti del paese erano state affidate a tre soli soldati. Questo influenzò

      l'indole volubile del dittatore. Così, visto che la saggezza non aveva

      avuto troppo successo, per riconquistare la popolarità perduta, egli

      adottò il metodo della malvagità. E come prima in tempo di guerra aveva

      cercato la pace, così adesso in tempo di pace si mise a cercare la guerra.

      Rendendosi però conto che la sua gente aveva sì coraggio ma ben poca

      forza, spinse altri popoli a dichiarare guerra apertamente e con tutti i

      crismi, e riservò ai suoi uomini la possibilità di tradire i Romani

      mostrando invece di voler essere al loro fianco. Gli abitanti di Fidene,

      colonia romana, e quelli di Veio (che erano stati messi a parte dei loro

      piani) vengono spinti a dare il via alle ostilità con la promessa di poter

      contare sull'appoggio di Alba durante il conflitto. Quando Fidene si

      ribellò senza mezzi termini, Tullo convocò Mezio e le sue truppe da Alba e

      mosse contro il nemico. Attraversato l'Aniene, si accampa alla confluenza

      dei due fiumi. Invece l'esercito dei Veienti aveva guadato il Tevere in un

      punto tra quella zona e Fidene. Lo schieramento per la battaglia era

      questo: all'ala destra, lungo il fiume, i Veienti, mentre alla sinistra,

      verso le montagne, i Fidenati. Tullo dirige i suoi contro quelli di Veio e

      piazza gli Albani a fronteggiare i Fidenati. Il coraggio e la lealtà non

      erano il punto forte del generale albano. Non osando quindi né tenere la

      posizione né disertare apertamente, prese ad avvicinarsi a poco a poco

      alla montagna. Quando ritenne di esservisi avvicinato a sufficienza,

      ancora incerto sul da farsi, fece spiegare le sue forze per guadagnare un

      po' di tempo. Il suo piano era questo: scendere in campo dalla parte di

      chi stava avendo la meglio. I Romani che si trovavano più vicini, quando

      si resero conto di avere i fianchi scoperti per la ritirata degli alleati,

      rimasero annichiliti. Allora un cavaliere partì al galoppo e andò a

      riferire al re dell ritirata albana in corso. Tullo, nel pieno della

      crisi, fa voto di creare dodici Salii e di innalzare dei santuari al

      Pallore e al Panico. Interpellando il cavaliere ad alta voce, in maniera

      da poter essere sentito dal nemico, gli ingiunge di tornare in prima

      linea. Non c'era motivo di panico. Lui stesso aveva ordinato alle truppe

      di Alba quella manovra di accerchiamento per prendere da dietro i fianchi

      scoperti dei Fidenati. Fa inoltre ordinare alla cavalleria di alzare le

      lance. Con questa mossa riuscì a nascondere a parte della fanteria romana

      la manovra di ripiegamento delle truppe albane. Chi se n'era reso conto si

      fidò di quel che aveva sentito dal re e si buttò con più foga nella

      mischia. Il terrore passò così dalla parte dei nemici, sia perché avevano

      sentito la frase pronunciata ad alta voce dal re, sia perché gran parte

      dei Fidenati, avendo avuto tra di loro dei Romani come coloni, sapevano il

      latino. Quindi, per evitare che un'improvvisa calata degli Albani dal

      fianco del monte chiudesse loro la strada in direzione della città,

      tornarono indietro. Tullo li insegue e, sbaragliata l'ala dei Fidenati,

      rinviene con più impeto su quella dei Veienti, demoralizzati dal panico

      degli alleati. Anch'essi evitarono lo scontro ma non riuscirono a fuggire

      alla spicciolata perché si trovarono l'ostacolo del fiume alle spalle.

      Quando arrivarono lì, alcuni, gettando ignominiosamente le armi, si

      buttavano in acqua alla cieca, altri, attardatisi sulla riva,

      nell'indecisione tra il fuggire e il combattere, si facevano uccidere. In

      nessuna battaglia precedente i Romani versarono così tanto sangue.

      

      28 Fu allora che l'esercito albano, spettatore dello scontro, riguadagnò

      la piana. Mezio si congratula con Tullo della vittoria sui nemici e Tullo

      gli risponde cortesemente. Quindi ordina agli Albani (e possa la cosa

      avere buon fine!) di unire il loro accampamento a quello dei Romani e poi

      prepara un sacrificio di purificazione per il giorno successivo. Quando

      all'alba tutto era pronto, convoca in assemblea i due eserciti. Gli

      araldi, avendo iniziato dal fondo del campo, chiamarono per primi gli

      Albani che, colpiti dall'assoluta novità della cosa, si andarono a

      piazzare vicino al re per non perderne il discorso. La legione romana,

      armata secondo quanto convenuto, li circonda. I centurioni avevano

      l'ordine tassativo di portare a termine senza indugi quello che gli era

      stato comandato. Allora Tullo prese la parola e disse: «O Romani, se mai

      prima di questa volta, in tutte le guerre da voi combattute, avete avuto

      ragione di rendere grazie prima agli dèi immortali e poi al vostro stesso

      valore, questo è successo nella battaglia di ieri. Infatti non avete

      combattuto solo col nemico, ma - e in questo sta la maggiore pericolosità

      della cosa - avete anche dovuto affrontare il subdolo tradimento degli

      alleati. Sia dunque chiaro: non è su mio ordine che gli Albani si sono

      spostati verso la montagna. Quello che avete sentito da me non è stato un

      mio comando ma una calcolata simulazione: volevo evitare che, rendendovi

      conto di essere stati abbandonati, vi distraeste dalla battaglia e nel

      contempo volevo scatenare panico e fuga tra i nemici facendo credere loro

      di essere stati aggirati. E non tutti gli Albani sono responsabili del

      crimine in questione: hanno seguito il loro comandante, come avreste fatto

      anche voi se vi avessi ordinato una qualche manovra sul campo. È Mezio che

      ha guidato quella diversione. Lo stesso Mezio che ha architettato questa

      guerra, lo stesso Mezio che ha infranto il trattato tra Romani e Albani.

      Che qualcun altro possa di qui in poi ripetere una simile prodezza, se io

      di costui non farò un clamoroso esempio per l'intero genere umano.» Quindi

      i centurioni, armi alla mano, circondano Mezio, mentre il re, con lo

      stesso tono con cui aveva iniziato, riprese: «Che la prosperità e la buona

      sorte siano col popolo romano, con me e anche con voi, o Albani. È mia

      intenzione trasferire tutta la gente di Alba a Roma, concedere la

      cittadinanza alle classi subalterne, eleggere senatori i nobili e avere

      una sola città e un solo stato. Come un tempo la civiltà albana fu divisa

      in due popoli, possa oggi riacquistare la sua unità.» A queste parole, i

      giovani albani, disarmati e circondati da armati, benché divisi nelle

      reazioni individuali al discorso, erano tuttavia uniti nel silenzio dovuto

      alla paura unanime. Allora Tullo disse: «Mezio Fufezio, se tu fossi in

      grado di apprendere la lealtà e il rispeto dei trattati, ti lascerei in

      vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la tua è una

      disposizione caratteriale immodificabile, col tuo supplizio insegna al

      genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai violato. Pertanto, come

      poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo

      essere diviso.» Quindi chiede due quadrighe e vi fa legare Mezio teso nel

      mezzo. Poi incita i cavalli in direzioni diverse: ciascun carro si

      trascinò via pezzi del corpo maciullato, rimasti attaccati ai lacci che lo

      vincolavano da ambo le parti. Tutti distolsero lo sguardo da uno

      spettacolo così orribile. Quella fu la prima e ultima volta che i Romani

      ricorsero a un tipo di pena contraria a ogni umana legge. Per il resto

      possiamo infatti vantarci di non essere secondi a nessun popolo nella

      clemenza delle pene inflitte.

      

      29 Frattanto, vennero mandati ad Alba dei cavalieri per trasferire a Roma

      la popolazione. A essi seguirono poi le legioni per distruggere la città.

      Quando ne superarono le porte, non ci fu, a dire il vero, quel fuggi fuggi

      terrorizzato che è classico delle città conquistate, quando il nemico fa

      breccia negli ingressi, abbatte le mura a colpi d'ariete, assalta la

      cittadella e poi dilaga per le strade mettendo ogni cosa a ferro e fuoco

      in un boato di urla e di armi. Niente di tutto questo: solo un lugubre

      silenzio e un dolore senza voce. Tutti erano così depressi che, in balia

      della paura, non avevano più la lucidità di decidere cosa abbandonare lì e

      cosa portarsi dietro e si interpellavano a vicenda ora immobili di fronte

      alle porte, ora in un abulico vagare dentro le case che avrebbero visto

      per l'ultima volta. Poi, quando ormai i cavalieri gli urlavano di

      sbrigarsi a uscire, quando già si iniziava a sentire il fragore delle

      prime case demolite nei sobborghi e il polverone dei crolli nei quartieri

      lontani aveva coperto ogni cosa come una nuvola bassa e diffusa, allora

      ciascuno cercava di afferrare ciò che poteva uscendo dalla casa in cui era

      nato e cresciuto e in cui doveva lasciare lari e penati. Subito le strade

      si riempirono di una fila interminabile di sfollati i quali, specchiandosi

      nello stato miserando dei propri consanguinei, ricominciarono a piangere e

      urla strazianti di dolore (erano soprattutto donne) si levarono quando

      passarono davanti ai templi piantonati dai soldati armati in quanto sembrò

      loro di lasciare le divinità in mano al nemico. I Romani fanno uscire gli

      Albani dalla città e poi radono al suolo tutti gli edifici, pubblici e

      privati, e in un'ora soltanto azzerano i quattrocento anni di storia che

      Alba aveva alle spalle. L'unica cosa risparmiata, secondo le disposizioni

      del re, furono i templi.

      

      30 Con la distruzione di Alba, Roma si espande, raddoppia la sua

      popolazione. Il colle Celio viene inserito nella città e, per spingere la

      gente a sceglierlo come residenza, Tullo lo elegge a sede permanente della

      reggia da quel momento in poi. La nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi,

      Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine senatoriali, così che anche quella

      parte dello Stato potesse avere un incremento numerico. E come sede

      consacrata per questo strato sociale che egli stesso aveva aumentato di

      proporzioni creò la curia, che continuava ad avere il nome di Curia

      Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. E perché tutte le classi

      potessero crescere numericamente grazie al nuovo popolo, arruolò dieci

      plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle vecchie legioni e ne creò di

      nuove, sempre attingendo esclusivamente alle forze alleate.

      Confidando in queste forze, Tullo dichiara guerra ai Sabini che, in quel

      tempo, eran secondi soltanto agli Etruschi per disponibilità di uomini e

      di armi. Entrambe le parti avevano causato danni senza poi mai farvi

      seguire alcuna riparazione. Tullo lamentava la cattura di alcuni mercanti

      romani nel pieno di una fiera nei pressi del tempio di Feronia. I Sabini

      sostenevano invece che tempo prima alcuni dei loro concittadini erano

      andati a rifugiarsi nel bosco sacro del santuario ed erano stati

      trattenuti a Roma. Questi erano i pretesti addotti per la guerra. I

      Sabini, però, non trascuravano che parte delle loro forze era stata

      trasferita a Roma da Tazio e che la potenza romana era cresciuta grazie

      alla recente annessione del popolo albano. Per questi motivi, cominciarono

      anch'essi a cercare aiuti dall'estero. Gli Etruschi erano vicini, ma

      ancora più vicini erano i Veienti. Presso questi ultimi, essendo il

      rancore dovuto alle recenti guerre un incentivo fortissimo alla rivolta,

      riuscirono a mettere insieme dei volontari e ad assoldare degli

      avventurieri senza né arte né parte attratti soltanto dall'opportunità di

      fare due soldi. Non venne fornito alcun aiuto ufficiale: Veio (e a maggior

      ragione gli Etruschi) restava fedele al suo trattato concluso con Romolo.

      Mentre l'una e l'altra parte si preparavano scrupolosamente alla guerra e

      sembrava che avrebbe avuto la meglio chi avesse aggredito per primo, Tullo

      anticipa i nemici e invade il territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro

      tremendo presso la selva Maliziosa. I Romani ebbero la meglio grazie sì

      alla forza d'urto della loro fanteria, ma soprattutto grazie alla recente

      immissione di effettivi nella cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa

      di cavalieri a seminare il panico tra le fila sabine; da quel momento in

      poi non furono più in grado né di tenere la propria posizione in

      battaglia, né di districarsi con la fuga senza incappare in perdite

      massicce.

      

      31 Dopo la disfatta inflitta ai Sabini, e quando ormai il regno di Tullo e

      la potenza romana avevano raggiunto il vertice della gloria e della

      ricchezza, ecco che venne annunciato al re e ai senatori che sul monte

      Albano stavano piovendo pietre. Siccome la cosa non era molto verisimile,

      furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Essi riferirono di

      aver visto coi loro occhi una spessa pioggia di pietre che cadevano come

      chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla terra. Nel bosco che c'é

      in cima alla vetta era sembrato loro anche di sentire una voce possente la

      quale ordinava agli Albani di celebrare, secondo il rito tradizionale, i

      sacrifici che essi avevano lasciato cadere nell'oblio quando, con la

      città, avevano abbandonato anche i loro dèi e adottato culti romani o,

      come spesso succede, rinnegato i propri per un risentimento nei confronti

      del destino. Anche i Romani, a séguito di questo prodigio, proclamarono

      una novena ufficiale, sia per la voce celeste emessa dal monte Albano

      (così vuole la tradizione), sia su consiglio degli aruspici. In ogni modo,

      rimase un'usanza abituale: ogni qual volta si fosse ripetuto un fenomeno

      analogo, sarebbero seguiti nove giorni di festa.

      Non molto tempo dopo Roma fu colpita da un'epidemia cui fece séguito una

      riluttanza alle prestazioni militari. Ciò nonostante, il bellicoso re

      Tullo non dava tregua ai suoi sudditi, persuaso com'era che le

      esercitazioni militari fossero più salutari ai fisici dei giovani che

      l'aria di casa. Finché lui stesso non fu colpito da una malattia dal lungo

      decorso. E allora l'infermità ne minò simultaneamente il corpo e l'indole

      bellicosa a tal punto che uno come lui, in passato convintissimo che nulla

      fosse più indegno per un re che occuparsi della sfera religiosa,

      improvvisamente divenne vittima di ogni forma di piccola e grande

      superstizione e prese a imbottire la sua gente di scrupoli religiosi.

      Tutti ormai reclamavano un ritorno allo stato delle cose ai tempi di Numa,

      pensando che l'unico rimedio alla deperibilità dei loro corpi consistesse

      nella benevolenza e nel perdono degli dèi. Il re stesso, così vuole la

      tradizione, poiché consultando le memorie di Numa aveva trovato menzione

      di certi sacrifici occulti praticati in onore di Giove Elicio, vi si

      dedicò in segreto. Il fatto è che commise qualche errore nel preparare o

      nel celebrare il rito e quindi, non solo non ebbe alcuna visione divina,

      ma suscitò anche l'ira di Giove il quale, irritato dalla profanazione del

      culto, incenerì con un fulmine il re e il suo palazzo. Comunque, il

      glorioso regno di questo re guerriero durò trentadue anni.

      

      32 Alla morte di Tullo, il potere, in conformità alla regola stabilita sin

      dall'inizio, era tornato ai senatori i quali nominarono un interré. Questi

      convocò l'assemblea e il popolo elesse re Anco Marzio, con la ratifica del

      senato. Anco Marzio era nipote per parte di madre del re Numa Pompilio.

      Quando salì al trono, ricordandosi della gloria dell'avo, aveva la ferma

      convinzione che il regno precedente, tra le tante cose positive, avesse

      mostrato un'unica debolezza: i riti religiosi erano stati trascurati o

      praticati male. Perciò ritenne che la prima cosa da farsi fosse

      ristabilire le pubbliche cerimonie secondo il rituale fissato da Numa e a

      questo proposito ordinò al pontefice massimo di copiare tutte le

      prescrizioni cultuali dai taccuini del re su una tavoletta bianca da

      esporre poi in pubblico. Questo primo passo fece sperare ai Romani avidi

      di pace e ai popoli confinanti che il re avrebbe seguito le orme dell'avo

      tanto nel carattere quanto nel tipo di politica. Così i Latini, coi quali

      era stato firmato un trattato durante il regno di Tullo, ripresero

      coraggio e fecero un'incursione nel territorio romano. Quando i Romani

      gliene chiesero riparazione, essi risposero in maniera sprezzante,

      convinti che un re del genere avrebbe trascorso l'intera durata del suo

      regno dietro altari e santuari. Ma il carattere di Anco era perfettamente

      equilibrato, una via di mezzo tra Numa e Romolo. Inoltre pensava che

      durante il regno dell'avo ci fosse maggiore bisogno di pace perché il

      popolo era nuovo e indisciplinato, ma anche che gli sarebbe stato

      difficile ottenere quella tranquillità che l'avo era riuscito a ottenere

      senza eccessivi travagli. Adesso che mettevano alla prova la sua pazienza

      e poi la disprezzavano, per i tempi in corso, sul trono era meglio un

      Tullo che un Numa. Ma come Numa in tempo di pace aveva fornito un

      regolamento per le pratiche religiose, allo stesso modo egli adesso voleva

      istituire un cerimoniale di guerra, così che non ci si limitasse soltanto

      a fare le guerre ma le si dichiarasse anche secondo un qualche formulario

      fisso. E per approntarlo ricorse a una regola dell'antica tribù degli

      Equicoli, cui ancor oggi i feziali si attengono per presentare un reclamo.

      Quando l'inviato arriva alle frontiere del paese cui viene rivolto il

      reclamo, con il capo coperto da un berretto (dotato di un velo di lana),

      dice: «Ascolta, Giove; ascoltate, o frontiere,» e qui specifica del tale e

      del talaltro paese, «e mi ascolti anche il sacro diritto. Io sono il

      rappresentante ufficiale del popolo romano. Vengo per una missione giusta

      e santa: abbiate per questo fiducia nelle mie parole.» Quindi elenca i

      reclami e chiama a testimone Giove: «Se io non mi attengo a ciò che è

      santo e giusto nel reclamare che mi vengano consegnati questi uomini e

      queste cose, possa non ritrovare pù la mia terra.» Ripete questa formula

      quando attraversa il confine; la ripete al primo uomo che incontra, la

      ripete quando entra in città, la ripete facendo ingresso nel foro, con

      solo qualche piccola modifica nella forma e nell'invocazione del

      giuramento. Se l'oggetto del suo reclamo non viene restituito entro il

      trentatreesimo giorno (si tratta del termine convenzionale), dichiara

      guerra con questa formula: «Ascolta, Giove, e ascolta tu, o Giano Quirino,

      e voi tutte divinità del cielo, della terra e degli inferi, ascoltatemi.

      Io vi chiamo a testimoni che questo popolo,» e ne fa il nome, «è ingiusto

      e non ripara quanto deve. A questo proposito, chiederemo consiglio in

      patria, ai più anziani tra i nostri concittadini, su come ottenere quanto

      ci spetta di diritto.» Poi il messaggero torna a Roma per la decisione

      definitiva. E subito il re si consulta coi senatori grosso modo in questi

      termini: «A proposito degli oggetti, delle controversie e delle cause di

      cui il pater patratus del popolo romano ha discusso con il pater patratus

      dei Latini Prischi e con alcuni dei Latini Prischi, a proposito di ciò che

      non è stato consegnato, restituito e fatto di quello che doveva essere

      consegnato, restituito e fatto, dimmi,» rivolgendosi al primo che lo aveva

      consultato, «che cosa ne pensi?» E l'altro replica: «Penso sia giusto e

      sacrosanto riottenere il dovuto con la guerra: questi sono il mio pensiero

      e il mio voto.» Poi a turno vengono consultati gli altri. E una volta

      ottenuto il consenso della maggioranza, tutti si trovano d'accordo sulla

      guerra. Di solito il feziale porta ai confini con l'altra nazione una

      lancia dal puntale di ferro o temprato sul fuoco e, di fronte ad almeno

      tre adulti, dice: «Poiché i popoli dei Latini Prischi e alcuni dei Latini

      Prischi si sono resi responsabili di atti e offese contro il popolo romano

      dei Quiriti; poiché il popolo romano dei Quiriti ha dichiarato guerra ai

      Latini Prischi e il senato del popolo romano dei Quiriti ha votato,

      approvato e dato il suo consenso a questa guerra coi Latini Prischi, per i

      suddetti motivi, io - e quindi il popolo romano dei Quiriti - dichiaro

      guerra ai popoli dei Latini Prischi e ai cittadini dei Latini Prschi e la

      metto in pratica.» Detto ciò, scaglia la lancia nel loro territorio. Ecco

      dunque in che termini fu esposto il reclamo ai Latini e come fu loro

      dichiarata guerra: l'usanza è passata ai posteri.

      

      33 Anco, dopo aver lasciato ai Flamini e ad altri sacerdoti l'incarico di

      provvedere ai sacrifici, si mise in marcia con un esercito di recente

      formazione e conquistò di forza Politorio, città dei Latini. Quindi,

      seguendo l'usanza dei suoi predecessori sul trono, i quali avevano

      ingrandito Roma integrandovi i nemici fatti prigionieri, vi trasferì

      l'intera popolazione. E visto che i primi Romani avevano occupato il

      Palatino, i Sabini il Campidoglio e la cittadella, e gli Albani il monte

      Celio, al nuovo nucleo di stranieri fu assegnato l'Aventino, sul quale,

      non molto tempo dopo, vennero trasferiti gli abitanti anche di altre due

      città conquistate, Tellene e Ficana. In séguito Politorio fu attaccata una

      seconda volta perché i Latini Prischi l'avevano rioccupata dopo

      l'evacuazione. Ciò fornì ai Romani il pretesto per raderla al suolo: non

      avrebbe così più offerto rifugio ai nemici. Alla fine la guerra coi Latini

      si concentrò integralmente su Medullia, dove, per un po' di tempo, si

      combatté con un certo equilibrio e non era facile prevedere chi avrebbe

      avuto la meglio. Infatti la città era dotata di solide fortificazioni e

      difesa da una guarnigione piuttosto tenace. Inoltre, l'armata latina,

      accampata in aperta pianura, non perdeva occasione di venirsi a scontrare

      coi Romani. Alla fine, impegnando tutti gli uomini a disposizione, Anco

      ottenne la sua prima vittoria in battaglia e rientrò a Roma con un immenso

      bottino. Migliaia di Latini li integrò in città e, per unire Aventino e

      Palatino, diede loro come sede la zona intorno al tempio di Murcia.

      Integrò nella cerchia urbana anche il Gianicolo, non tanto per bisogno di

      spazio, quanto piuttosto per evitare che quella roccaforte potesse un

      giorno cadere in mano al nemico. Si decise non solo di munirlo di

      fortificazioni, ma anche di metterlo in comunicazione con il resto della

      città mediante un ponte di legno che ne avrebbe facilitato l'accesso e che

      fu il primo costruito sul Tevere. Anche la fossa dei Quiriti, difesa no

      trascurabile sul versante più esposto a incursioni dalle pianure, è opera

      di Anco. Con questi possenti incrementi umani, all'interno di una

      popolazione così numerosa era divenuto difficile distinguere il bene dal

      male e di conseguenza il crimine proliferava nell'ombra. Quindi, per

      scoraggiare la crescente illegalità, venne costruito un carcere in pieno

      centro, a due passi dal foro. Il regno di Anco non significò espansione

      soltanto per la città, ma anche per la campagna e i dintorni. Il bosco di

      Mesia, tolto ai Veienti, estese il dominio di Roma fino al mare, e alle

      foci del Tevere venne fondata Ostia, intorno alla quale furono create

      delle saline. Per celebrare invece i successi militari fece ingrandire il

      tempio di Giove Feretrio.

      

      34 Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio

      intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto

      dall'ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo

      che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (in quanto anche in quella

      città era uno straniero). Era figlio di Demarato di Corinto, il quale,

      fuggito dalla patria a séguito di disordini, si era stabilito per puro

      caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui

      nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò

      tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la

      moglie incinta. Demarato non visse molto più a lungo del figlio e,

      ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel

      testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo

      destinato a ereditare, fu chiamato Egerio in ragione della sua miseranda

      condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa

      presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando

      sposò un'esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la

      quale non poteva ammettere che il suo matrimonio la declassasse dal rango

      in cui era nata. Gli Etruschi emarginavano Lucumone perché era straniero e

      figlio di un profugo. La moglie, non potendo tollerare quest'onta, mise da

      parte l'attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il

      marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto

      al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e

      in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e

      intraprendente. A Roma aveva regnato Tazio, un sabino; Numa, per farlo re,

      lo erano andati a cercare a Cures; Anco era figlio di madre sabina, e tra

      i ritratti degli antenati poteva vantare soltanto Numa. Non le è quindi

      difficile convincere un uomo ambizioso e per il quale Tarquinia era solo

      il luogo di nascita. Così, raccolte tutte le loro cose, partono alla volta

      di Roma. Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo (un puro caso che

      successe lì), mentre erano seduti nel loro carro, un'aquila planò su di

      loro con una dolce cabrata e portò via il cappello a Lucumone. Poi,

      volteggiando sopra il carro ed emettendo versi acutissimi, come se stesse

      compiendo una qualche missione divina, si abbassò di nuovo e glielo rimise

      perfettamente in testa. Quindi sparì nell'alto del cielo. Si racconta che

      Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti,

      accolse con entusiasmo il presagio. Abbracciando il marito lo invita a

      sperare grandi cose, spiegandogli che quello era il senso dell'uccello,

      della parte del cielo da cui era arrivato e del dio da cui era stato

      inviato: segno che era stato tolto un ornamento posto sulla testa di un

      uomo, perché venisse ricollocato su ordine di un dio. Con in mente queste

      ottimistiche previsioni, entrarono a Roma. Lì trovarono casa e

      concordarono il nome da spacciare alla gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli

      occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione

      economica. Lui, da par suo, aiutava la buona sorte rendendosi gradito a

      chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e

      alla munificenza. A tal punto che la stima di cui era fatto oggetto arrivò

      fino alla reggia. E il re non lo apprezzò per quel che era finché la

      generosità e l'efficienza dimostrate nei servigi prestati non gli

      garantirono un posto tra gli amici più intimi, tanto da essere consultato

      per questioni di carattere pubblico e privato sia in pace che in guerra. E

      il re, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel

      testamento lo nominò tutore dei propri figli.

      

      35 Anco regnò ventiquattro anni e non fu secondo a nessuno dei suoi

      predecessori per capacità specifiche e gloria acquisita in campo militare

      e civile. I suoi figli erano ormai quasi degli uomini fatti e per questo

      Tarquinio non perdeva l'occasione di sollecitare l'anticipo dell'assemblea

      popolare per l'elezione del re. Quando ne fu indetta la convocazione, egli

      mandò i ragazzi a una battuta di caccia. Pare che Tarquinio fu il primo a

      impegnarsi in una campagna per il trono e che pronunciò un discorso

      puntato a conquistare il favore popolare. Disse che il suo caso non era

      privo di precedenti e, per evitare che qualcuno potesse stupirsi e

      indignarsi, che lui non sarebbe stato il primo bensì il terzo straniero a

      puntare al trono di Roma. Tazio, addirittura, non solo era un re

      forestiero, ma proveniva da un paese nemico e Numa, pur non conoscendo

      affatto Roma e non avendo avanzato alcuna candidatura, era stato invitato

      ad assumere l'incarico. Quanto a se stesso, dal giorno in cui era

      diventato padrone della propria persona, era venuto a stabilirsi a Roma

      con la moglie e tutto quello che possedeva. E la parte di vita che di

      solito si dedica all'adempimento dei propri doveri di cittadini, lui

      l'aveva trascorsa a Roma e non nella sua città natale; quanto alla sfera

      civile e a quella militare, aveva appreso il diritto e i culti religiosi

      romani da un maestro assolutamente fuori del comune, cioè il re Anco in

      persona. Il suo ossequio e il suo rispetto per la persona del re non erano

      inferiori a quelli di nessuno; quanto poi a generosità verso il prossimo,

      solo il re stesso lo era stato più di lui. Il popolo romano, sentendo che

      non mentiva elencando questi aspetti, lo nominò re con un consenso

      unanime. Ed egli, una volta sul trono, non tradì tutti i sani principi

      morali che aveva pubblicizzato quando si era autocandidato. Impegnandosi

      non meno a rinforzare il proprio regno che a consolidare la potenza dello

      Stato, nomina cento nuovi senatori, noti di lì in poi come di secondo

      ordine, i quali divennero incrollabili sostenitori del re al cui favore

      dovevano la loro nomina in senato.

      La sua prima guerra fu contro i Latini: prese d'assalto la loro città di

      Apiole e, avendone riportato un bottino superiore a quanto ci si aspettava

      dalle prime voci, organizzò dei giochi più ricchi ed elaborati di quelli

      dei predecessori. Fu in questa occasione che venne scelto e delimitato lo

      spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo. Divise tra senatori

      e cavalieri dei lotti di terra perché si costruissero dei palchi da

      utilizzare durante gli spettacoli. Detti palchi ebbero il nome di fori e

      poggiavano su sostegni sollevati di dodici piedi dal livello del terreno.

      La manifestazione ruotò intorno a gare di equitazione e a incontri di

      pugilato con atleti per la maggior parte etruschi. Da quell'occasione i

      giochi rimasero uno spettacolo regolarmente allestito ogni anno e a

      seconda dei casi vennero chiamati Giochi Romani o Grandi Giochi. Fu sempre

      Tarquinio a dividere tra i privati cittadini appezzamenti di terreno

      edificabile intorno al foro, i quali vennero utilizzati per la costruzione

      di portici e negozi.

      

      36 Stava anche preparandosi a dotare Roma di una cerchia muraria in

      pietra, quando una guerra coi Sabini si sovrappose ai suoi progetti. La

      cosa fu così improvvisa che i nemici attraversarono l'Aniene prima che

      l'esercito romano potesse mettersi in marcia e andargli a chiudere il

      passaggio. A Roma fu subito il panico. Sulle prime l'esito dello scontro

      fu incerto ed entrambe le parti ebbero parecchie perdite. Poi il nemico

      rientrò nell'accampamento, dando così ai Romani la possibilità di

      riorganizzarsi da capo per la guerra. Tarquinio pensava che le sue truppe

      avessero particolari carenze nei reparti di cavalleria e per questo, alle

      centurie dei Ramnensi, dei Tiziensi e dei Luceri che erano state arruolate

      da Romolo, egli stabilì di aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il

      suo nome. Romolo però aveva agito soltanto dopo un'opportuna consultazione

      augurale e Atto Navio, famoso augure di quegli anni, disse che non si

      potevano apportare modifiche o introdurre innovazioni nella struttura

      dell'esercito senza l'approvazione degli uccelli. Il re reagì stizzito e,

      per ridicolizzarne la presunta scienza, disse: «Avanti, visto che sei un

      veggente, chiedi un po' ai tuoi uccelli se si può mettere in pratica

      quello a cui sto pensando in questo momento!» E quando Atto, dopo aver

      consultato il volo degli uccelli, disse che la cosa si sarebbe avverata di

      sicuro, il re ribatté: «Ben fatto! Il problema è che io stavo pensando che

      tu riuscissi a tagliare in due una pietra con un rasoio. Prendi i due

      oggetti e vedi di fare quello che secondo i tuoi uccelli è possibile.»

      Pare che a quel punto l'augure, senza un attimo di esitazione, tagliò in

      due la pietra. C'era una statua di Atto in piedi a capo velato nel luogo

      del miracolo, in pieno comizio e proprio sulle scale che portano alla

      parte sinistra della curia. Dicono che anche la pietra fu collocata nello

      stesso punto per ricordare il prodigio ai posteri. Sta di fatto che gli

      auguri e la loro professione acquistarono in séguito un tale prestigio,

      che tanto in pace quanto in guerra non si prese più nessuna iniziativa

      senza prima aver tratto gli auspici: assemblee popolari, chiamate alle

      armi, pratiche di estrema importanza, tutto veniva rimandato se non si

      aveva l'approvazione degli uccelli. Così nemmeno Tarquinio apportò delle

      modifiche alla procedura nel caso presente delle centurie di cavalleria:

      raddoppiò il loro numero di effettivi in maniera tale da avere

      milleottocento cavalieri distribuiti in tre centurie. Mantennero lo stesso

      nome delle centurie dove erano stati arruolati, salvo assumere la

      denominazione di Posteriori. Oggi, visto che ne sono state aggiunte altre

      tre, si chiamano le sei centurie.

      

      37 Una volta rinforzata questa parte dell'esercito, ci fu un secondo

      scontro con i Sabini. Ma, oltre che dall'incremento di effettivi,

      l'esercito romano fu aiutato anche da un astuto espediente: alcuni uomini

      vennero inviati a raccogliere una gran massa di fascine lungo la riva

      dell'Aniene e a gettarle nel fiume dopo avervi dato fuoco. La legna

      incendiata, spinta dal vento a favore, andò a finire per lo più sulle

      barche e sui supporti in legno del ponte che prese fuoco. Lo stesso

      espediente seminò il panico tra i Sabini nel pieno della battaglia e

      impedì loro la ritirata quando poi cominciò il fuggi fuggi. Molti

      riuscirono a evitare il nemico ma morirono nel fiume. Parte delle loro

      armi, galleggiando sull'acqua, furono riconosciute nel Tevere e diedero a

      Roma la notizia della grande vittoria ancora prima che arrivassero i

      messaggeri ad annunciarla. I protagonisti assoluti di questa battaglia

      furono i cavalieri: collocati ai due fianchi dei reparti, quando ormai il

      centro, composto di fanti, si stava ritirando, essi attaccarono da

      entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscirono a frenare le

      legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in

      ritirata, ma le misero anche in fuga. I Sabini si sparpagliarono

      disordinatamente verso le montagne, ma solo pochi di essi le raggiunsero.

      La maggior parte, come già detto prima, fu spinta nel fiume dai cavalieri.

      Tarquinio, pensando fosse opportuno insistere mentre gli avversari erano

      in preda al panico, inviò a Roma bottino e prigionieri; quindi, per

      realizzare un voto fatto a Vulcano, diede ordine di accatastare la grande

      quantità di armi sottratte al nemico e di darvi fuoco. Poi, alla testa

      dell'esercito, invase il territorio sabino. Nonostante la brutta batosta e

      le poche speranze di ribaltare le sorti ormai compromesse della battaglia,

      i Sabini, non avendo tempo a sufficienza per ponderare una decisione,

      scesero in campo con i resti raccogliticci delle loro truppe. Sconfitti

      però una seconda volta e allo stremo delle forze, chiesero la pace.

      

      38 Ai Sabini furono tolti Collazia e il territorio oltre Collazia. A

      governarla con una guarnigione rimase Egerio, nipote di Tarquinio. A

      quanto ne so, ecco in che termini e come avvenne la resa dei Collatini. Il

      re chiese: «Siete voi i legati e i portavoce mandati dai Collatini con

      l'incarico di consegnare voi stessi e il popolo collatino?» «Sì.» «Il

      popolo collatino è padrone di se stesso?» «Sì.» «Consegnate dunque voi

      stessi e il popolo collatino, la città, le campagne, l'acqua, i confini, i

      templi, la mobilia, e tutti gli oggetti sacri e profani all'autorità mia e

      del popolo romano?» «Sì.» «E io accetto.»

      Conclusa così la guerra coi Sabini, Tarquinio rientra a Roma in trionfo.

      In séguito combatté coi Latini Prischi. Ma durante questa guerra non si

      arrivò mai a uno scontro veramente decisivo: accerchiando, invece, di

      volta in volta le singole città, sottomise tutti i Latini. Furono

      conquistate: Cornicolo, Ficulea Vecchia, Cameria, Crustumeria, Ameriola,

      Medullia, Nomento, tutte città dei Latini Prischi o passate dalla loro

      parte durante la guerra. Poi fu conclusa la pace. In séguito il re si

      dedicò a massicce opere di pace con maggiore impegno di quanto ne avesse

      profuso nell'organizzare le guerre. Lo scopo era quello di evitare che la

      sua gente fosse meno impegnata adesso che ai tempi delle campagne

      militari. Così si ricomincia la fortificazione in pietra - abortita sul

      nascere per lo scoppio della guerra coi Sabini - di quella parte di Roma

      che ne era ancora priva. Poi, con un sistema di condotti in discesa verso

      il Tevere, fa bonificare le parti basse della città, le zone intorno al

      foro e le valli tra i colli, perché non era possibile far defluire le

      acque per la natura eccessivamente pianeggiante del terreno. Infine, già

      anticipando l'importanza che un giorno il luogo avrebbe assunto, fa

      gettare sul Campidoglio le ampie fondamenta di un tempio che, durante la

      guerra coi Sabini, aveva promesso di innalzare in onore di Giove.

      

      39 In quel periodo il palazzo reale assisté a un prodigio notevole per

      come si manifestò e per le conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome

      Servio Tullio stava dormendo, furono in molti a vedergli la testa avvolta

      da fiamme. Le urla concitate che gridarono al miracolo attirarono la

      famiglia reale. Un servitore portò dell'acqua per spegnere le fiamme, ma

      la regina glielo impedì e fece cessare il chiasso intimando di non toccare

      il bambino finché non si fosse svegliato da solo. Appena questi aprì gli

      occhi, contemporaneamente le fiamme si estinsero. E allora Tanaquil,

      prendendo da parte il marito, gli disse: «Vedi questo bambino che stiamo

      tirando su in maniera così spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra

      luce nei momenti più bui e il sostegno del trono durante i tempi di crisi.

      Quindi vediamo di allevare con cura chi sarà motivo di lustro per lo Stato

      tutto e per noi stessi.» Da quel momento in poi essi presero a trattarlo

      come un figlio e lo educarono secondo quei nobili principi che in genere

      portano a concepire grandi ideali. La cosa non fu difficile perché la

      volontà divina era dalla sua parte. Il giovane sviluppò qualità veramente

      regali. Quando poi Tarquinio dovette scegliere un genero, non essendoci a

      Roma altri giovani che potessero reggere al confronto con lui, il re gli

      diede in moglie la figlia. Questo grandissimo onore, per qualsivoglia

      natura conferitogli, impedisce di credere che egli fosse figlio di una

      schiava e schiavo lui stesso nella prima infanzia. Io sono più dalla parte

      di chi sostiene questa tesi: caduta Cornicolo, la moglie incinta di Servio

      Tullio, ucciso durante l'assedio e massima autorità cittadina, finì a Roma

      con le altre prigioniere. Qui la regina ne riconobbe i segni

      inconfondibili della nobiltà e non solo impedì che andasse a fare la

      schiava, ma le permise anche di mettere al mondo il suo bambino nel

      palazzo di Tarquinio Prisco. In séguito un simile gesto fece germogliare

      l'amicizia tra le due donne, e il bambino, come se fosse nato e cresciuto

      nella reggia, fu trattato con stima e affetto. È probabile che la tesi

      della sua origine servile fu costruita sulla sorte della madre, fatta

      prigioniera dal nemico dopo la rotta della città d'origine.

      

      40 Dopo quasi trentotto anni dall'inizio del regno di Tarquinio, Servio

      Tullio aveva conquistato la stima totale non solo del re ma anche dei

      senatori e del popolo. I due figli di Anco avevano sempre considerato il

      colmo dell'infamia il tiro mancino con cui il loro tutore li aveva privati

      del regno paterno e il fatto che a Roma regnasse uno straniero le cui

      origini non erano nemmeno italiche. In quel tempo erano più indignati

      ancora dalla prospettiva che nemmeno dopo Tarquinio il regno sarebbe

      toccato a loro, ma, subendo un ulteriore degrado, sarebbe finito in mano a

      un ex-servo. E in quella stessa Roma, dove quasi cent'anni prima Romolo,

      figlio di un dio e dio lui stesso, aveva regnato durante la sua permanenza

      in terra, ora sarebbe salito al trono un servo figlio di una serva.

      Sarebbe stata un'onta tremenda per tutti i Romani in generale e per il

      loro casato in particolare se, nonostante l'esistenza di discendenti

      maschi del re Anco, non solo degli stranieri, ma addirittura degli schiavi

      potessero arrivare a regnare su Roma. Decidono pertanto di evitare con le

      armi un simile affronto. Il risentimento per i torti subiti li spingeva

      più contro Tarquinio che contro Servio: in primo luogo perché se avessero

      risparmiato il re la sua vendetta sarebbe stata più implacabile di quella

      di un suo subalterno, e in secondo luogo, uccidendo Servio, Tarquinio era

      probabile lo avrebbe rimpiazzato con un genero qualunque destinato a

      ereditare il trono al suo posto. Per tutti questi motivi il complotto

      viene ordito ai danni del re. Come esecutori diretti vennero scelti due

      pastori senza scrupoli che, armati degli attrezzi di lavoro di tutti i

      giorni, organizzarono una finta rissa nel vestibolo della reggia e,

      facendo il maggior rumore possibile, cercarono di attirare i domestici del

      re. Poi, dato che entrambi volevano appellarsi al sovrano e il frastuono

      del loro litigio era arrivato fin dentro la reggia, Tarquinio li fece

      convocare. Sulle prime si misero a urlare cercando di prevaricare l'uno la

      voce dell'altro e la smetterono soltanto dopo l'intervento di un littore

      che ordinò loro di esporre a turno le rispettive ragioni. Allora uno di

      essi comincia a mettere insieme quanto precedentemente convenuto. Mentre

      il re lo stava ascoltando con grande attenzione, l'altro solleva la scure

      e lo colpisce alla testa. Quindi, lasciata l'arma nella ferita, i due si

      precipitano di corsa fuori dalle porte.

      

      41 Mentre quelli del séguito sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i

      littori catturarono i due pastori che stavano cercando di darsela a gambe.

      Poi fu subito un gran trambusto di gente che accorreva per vedere cos'era

      successo. Tanaquil, nel pieno della calca, ordina di chiudere la reggia e

      fa uscire i testimoni oculari del delitto. Poi si procura il necessario

      per suturare la ferita, come se ci fosse ancora qualche speranza residua;

      contemporaneamente però, nel caso la speranza fosse venuta meno, prende

      altre precauzioni. Fa subito chiamare Servio, gli mostra il corpo quasi

      esanime del marito e quindi, prendendogli la mano, lo implora di non

      lasciare impunita la morte del suocero né di permettere che la suocera

      diventi lo zimbello dei nemici. «Se sei un uomo, Servio,» gli dice, «è a

      te che tocca il regno e non ai mandanti di questo atroce delitto. Animo,

      quindi, e affidati agli dèi che con quel fuoco intorno alla tua testa

      hanno già voluto preannunciare la fama che ti arriderà. Adesso è l'ora di

      trarre forza da quella fiamma! Adesso è ora di svegliarsi sul serio.

      Eravamo degli stranieri anche noi, eppure siamo arrivati a regnare: pensa

      a quello che sei, non a dove sei nato. Se per gli avvenimenti improvvisi

      non sai che decisione prendere, allora dai retta ai miei consigli.» Quando

      il frastuono e la ressa della gente toccarono il limite estremo della

      tollerabilità, Tanaquil, affacciandosi da una finestra del piano di sopra

      che dava sulla via Nuova (la residenza reale era infatti nei pressi del

      tempio di Giove Statore), arringò il popolo. Invitò i sudditi a stare

      tranquilli rassicurandoli che il re, stordito da un colpo a tradimento,

      era già tornato in sé perché il ferro non era penetrato molto in

      profondità. Inoltre la ferita era stata esaminata, l'emorragia bloccata e

      tutto il resto sembrava a posto. Presto, ne era sicura, lo avrebbero

      potuto rivedere. Nel frattempo, le sue disposizioni erano che obbedissero

      a Servio Tullio, il quale avrebbe amministrato la giustizia e svolto tutte

      le mansioni del re. Servio avanza con tanto di trabea e di littori, occupa

      la sedia del re ed emana verdetti a proposito di alcuni casi, fingendo

      invece di dover consultare il sovrano per altri. In questo modo, per

      alcuni giorni, pur essendo già Tarquinio passato a miglior vita, egli ne

      nascose la morte facendosi passare per un mero sostituto, quando invece

      stava consolidando il suo potere. Dopo un po' di giorni la gente fu

      finalmente informata del luttuoso evento dai pianti che si alzavano dalla

      reggia. Servio, protetto da una robusta scorta, fu il primo a regnare

      senza il consenso popolare ma solo con l'autorizzazione del senato. I

      figli di Anco, quando dopo l'arresto dei sicari da loro prezzolati vennero

      a sapere che il re era ancora vivo e che Servio godeva di così tanto

      favore, si erano già ritirati in volontario esilio a Suessa Pomezia.

       

      42 Servio, per consolidare la posizione di autorità ottenuta, ricorse

      tanto a misure politiche quanto alla sua abilità nel muoversi all'interno

      della sfera privata. Così, onde evitare che l'odio nutrito dai figli di

      Anco nei confronti di Tarquinio divenisse lo stesso sentimento nei suoi

      rapporti con la prole di Tarquinio stesso, diede in moglie le figlie ai

      due giovani rampolli reali Lucio e Arrunte Tarquinio. Ciò nonostante, con

      la sua dimostrazione di assennatezza, non riuscì a infrangere

      l'ineluttabilità del destino: l'invidia per il suo potere creò un clima di

      ostilità e perfidia tra i membri della casa reale.

      Particolarmente opportuna per mantenere lo stato di momentanea

      tranquillità fu una guerra intrapresa coi Veienti (la tregua era ormai

      scaduta) e con altre popolazioni etrusche. In questa guerra, Tullio brillò

      per coraggio e buona sorte. Una volta sbaragliate le ingenti forze

      nemiche, il re ritorna a Roma, conscio di essere ora in una posizione che

      non si prestava più a critiche né da parte dei senatori né da parte del

      popolo. Quindi si occupa di ciò che aveva la precedenza assoluta in campo

      civile: come Numa aveva codificato i regolamenti in materia di religione,

      così Servio è passato ai posteri per aver stabilito a Roma il sistema

      delle divisioni in classi con il quale si differenziavano nettamente i

      diversi gradi di dignità sociale e di possibilità economiche. Stabilì,

      cioè, il censo, cosa utilissima per un regno destinato a enormi

      ampliamenti, col quale i carichi fiscali in materia civile e militare non

      sarebbero più stati ripartiti pro capite, come in passato, ma a seconda

      del reddito. Quindi divise la popolazione in classi e centurie secondo

      questa distribuzione basata sul censo e valida tanto in tempo di pace

      quanto in tempo di guerra.

      

      43 Coloro i quali possedevano dai centomila assi in su formavano ottanta

      centurie, quaranta di anziani e quaranta di giovani, e andarono sotto il

      nome di prima classe. Gli anziani avevano il compito di proteggere

      militarmente la città, i giovani di combattere nelle guerre esterne. Il

      loro armamento di difesa doveva consistere in elmo, scudo rotondo,

      gambali, corazza, il tutto in bronzo; quello di offesa in lancia e spada.

      A questa classe ne vennero aggiunte due di genieri, esclusi dal servizio

      armato ma destinati al trasporto di macchine da guerra. La seconda classe

      era composta da quanti possedevano dai centomila ai settantacinquemila

      assi e contava, tra giovani e anziani, venti centurie. Il loro armamento

      di base consisteva in uno scudo oblungo al posto di quello rotondo e,

      salvo la corazza, era uguale in tutto il resto. La terza classe fu

      stabilito che avesse un censo di cinquantamila assi. Come la seconda,

      venne organizzata in venti centurie ed ebbe la stessa suddivisione per

      età. Quanto invece alle armi, la sola differenza era l'assenza dei

      gambali. Per appartenere alla quarta classe bisognava avere un censo di

      venticinquemila assi. Stesso numero di centurie ma armi diverse:

      nient'altro che asta e giavellotto. La quinta classe era quantitativamente

      più numerosa: formava infatti trenta centurie e prevedeva come armi fionde

      con proiettili di pietra. A essa facevano capo anche due centurie di

      suonatori di corno e di trombettieri. Il censo di questa classe doveva

      ammontare a undicimila assi. Chi era al di sotto di questa cifra - cioè il

      resto del popolo - venne organizzato in una sola centuria dispensata

      dall'assolvere agli obblighi militari. Dopo aver così organizzato e armato

      la fanteria, Servio Tullio reclutò dodici centurie di cavalieri dal fiore

      dell'aristocrazia cittadina. Ne formò altre sei al posto delle tre

      organizzate da Romolo, mantenendo però a esse gli stessi nomi assegnati al

      tempo delle consultazioni augurali. Per l'acquisto di cavalli l'erario di

      Stato stanziò diecimila assi annui per ogni centuria, mentre al

      mantenimento degli stessi designò le donne non sposate le quali dovevano

      provvedere con duemila assi annui ciascuna. Così tutti gli oneri fiscali

      venivano spostati dai poveri ai ricchi. In séguito però venne inserita una

      forma di compensazione: il suffragio universale, basato non più

      sull'uguaglianza di poteri e diritti, non fu ulteriormente concesso -

      secondo l'uso sancito da Romolo e poi mantenuto dai suoi successori - in

      maniera indistinta a tutti, ma vennero stabilite delle priorità che, pur

      non privando nessuno del diritto di voto, ciò nonostante mettevano la

      totalità del potere nelle mani dei cittadini più abbienti. Per primi

      votavano i cavalieri, seguiti dalle ottanta centurie della rima classe. Se

      c'era qualche disaccordo tra i due gruppi (cosa assai rara), fu stabilito

      che in quel caso avrebbe votato la seconda classe. Non si arrivò mai così

      in basso da coinvolgere le classi subalterne. Né ci si deve stupire se il

      nostro attuale sistema, strutturato dopo l'aumento del numero delle tribù

      a trentacinque e dopo il raddoppio delle centurie di giovani e anziani,

      non corrisponde più quantitativamente a quello varato da Servio Tullio.

      Egli infatti divise Roma in quattro parti, con i quartieri e i colli

      allora abitati, e le chiamò tribù facendo - secondo me - risalire il nome

      a tributo. Non a caso la contribuzione proporzionale al reddito è uno dei

      suoi provvedimenti ancora in vigore. E queste tribù non avevano niente a

      che vedere con la divisione in centurie e col loro numero.

      

      44 Dopo aver completato le pratiche del censo, facilitate da una legge che

      minacciava l'incarcerazione e la pena capitale per chi si fosse mostrato

      recalcitrante all'iscrizione, Servio convocò un'adunata per centurie di

      tutti i cittadini romani, da tenersi all'alba in Campo Marzio. Lì, di

      fronte all'intero esercito schierato, offrì in sacrificio di purificazione

      un maiale, una pecora e un toro, e la cerimonia prese il nome di lustro

      della chiusura perché era l'ultimo atto del censimento. Si dice che in

      quel lustro i cittadini censiti ammontassero a ottantamila. Fabio Pittore,

      uno degli storici più antichi, aggiunge che questo era il numero degli

      uomini potenzialmente mobilitabili. Con una popolazione simile, un

      ampliamento di Roma era inevitabile. Così Servio aggiunge altri due colli,

      il Quirinale e il Viminale, amplia l'Esquilino e, per dargli lustro, vi si

      trasferisce lui stesso. Dota Roma di un terrapieno, un fossato e una

      cerchia muraria, estendendo così i limiti del pomerio. Quanto poi a questa

      parola, chi non va più in là dell'etimologia, la interpreta come "il

      tratto oltre le mura". Il senso è invece un altro: significa "il tratto

      intorno alle mura", cioè quello spazio che anticamente gli Etruschi,

      all'atto di fondare una città, delimitavano in modo rigoroso per poi

      costruirvi le mura e quindi consacravano con cerimonie augurali. E questo

      perché all'interno di esso non ci fossero contatti tra edifici e mura

      (cosa che oggi è invece d'uso comune), e all'esterno rimanesse una

      striscia di terra non utilizzabile dall'uomo. Questo spazio,

      caratterizzato dal divieto assoluto di costruire e di coltivare, fu

      chiamato pomerio dai Romani sia perché si trova al di là del muro sia

      perché il muro si trova al di là di esso. E ogni qual volta Roma conosceva

      degli ampliamenti urbanistici, questi limiti consacrati subivano sempre le

      stesse modifiche delle mura.

      

      45 Dopo aver incrementato il prestigio di Roma aumentandone la superficie,

      dopo aver dotato i suoi sudditi di un'organizzazione ugualmente funzionale

      nella sfera civile e in quella militare, Servio, non volendo sempre

      ricorrere alle armi per accrescere la propria potenza, decise di farlo

      seguendo la strada della diplomazia, in maniera tale da conferire ancora

      più lustro alla città. Il tempio di Diana a Efeso era già allora parecchio

      rinomato e la tradizione voleva fosse stato costruito con la cooperazione

      delle città dell'Asia. Servio, parlando di fronte ai nobili latini, coi

      quali aveva in progetto di stringere relazioni di amicizia e ospitalità

      tanto sul piano ufficioso che su quello ufficiale, disse mirabilia di una

      simile intesa e di una simile condivisione di culto. Tornò così spesso

      sull'argomento che, alla fine, Romani e Latini edificarono insieme a Roma

      un tempio in onore di Diana. La questione se Roma fosse o meno la capitale

      dei dintorni - problema questo che così tante volte era stato motivo di

      scontri armati - ebbe quindi una soluzione di tacito consenso. Anche se i

      Latini avevano ormai smesso di occuparsi del contenzioso per i ripetuti

      scacchi subiti in guerra, tuttavia a uno dei Sabini sembrò offrirsi

      un'opportunità fortuita per riottenere, grazie a un'iniziativa

      individuale, la supremazia perduta. Pare che in una fattoria in terra

      sabina fosse nata una giovenca di bellezza e dimensioni assolutamente

      fuori del comune. Un tale spettacolo della natura che le corna furono

      appese nell'atrio del tempio di Diana dove sono rimaste per intere

      generazioni a testimonianza dell'evento. Si gridò al miracolo (in quanto

      era un miracolo!). Gli indovini vaticinarono che chi l'avesse immolata a

      Diana avrebbe automaticamente garantito la supremazia alla sua città di

      appartenenza e la profezia arrivò alle orecchie del sacerdote preposto al

      tempio di Diana. Il primo giorno che parve propizio per il sacrificio, il

      sabino portò a Roma l'animale e lo piazzò davanti all'altare. Lì, il

      sacerdote romano, colpito dalle dimensioni di quella vittima che tanto

      aveva fatto parlare, ricordandosi della profezia, disse al sabino:

      «Straniero, cosa credi di fare? Vorrai mica tu, impuro come sei, fare un

      sacrificio a Diana? Perché non cominci con un bagno di purificazione

      nell'acqua corrente? Qui in fondo alla valle scorre il Tevere.» Lo

      straniero, preso dallo scrupolo e volendo seguire il rituale canonico per

      mandare a effetto il prodigio, scese di corsa al Tevere. Nel frattempo il

      romano immola a Diana la giovenca, conquistandosi la gratitudine del re e

      del popolo tutto.

       

      46 Servio, col tempo e con l'uso, era ormai incontestabilmente padrone del

      potere. Ciò nonostante, sentendo che il giovane Tarquinio continuava a

      mettere in circolazione la voce che il suo regno non aveva avuto il

      beneplacito del popolo, si conciliò prima il favore della plebe

      distribuendo a ciascun cittadino parte delle terre tolte ai nemici e poi

      ebbe il coraggio di chiamare il popolo a esprimere un voto di fiducia nei

      suoi confronti. Fu un grande successo: mai nessun re prima di lui era

      stato eletto con una simile unanimità di consensi. Nemmeno questo episodio

      ridusse in Tarquinio la speranza di impadronirsi del regno. Al contrario,

      essendosi reso conto che la distribuzione di terre alla plebe aveva

      incontrato l'opposizione dei senatori, capì di avere la possibilità di

      diffamare Servio presso di loro e di acquistare credito in senato (lui era

      un giovane impetuoso e di carattere inquieto e per di più, in casa, era

      incitato dalla moglie Tullia). Così anche il palazzo reale di Roma fu

      teatro di un tragico fatto di sangue che accelerò, più della noia per la

      monarchia, l'avvento della libertà e fece sì che l'ultimo regno fosse il

      prodotto di un delitto. Questo Lucio Tarquinio - è poco chiaro se fosse il

      figlio o il nipote di Tarquinio Prisco, anche se la maggior parte degli

      storici propende per la prima tesi - aveva un fratello, Arrunte Tarquinio,

      giovane dal carattere piuttosto mite. Essi avevano sposato, come ho già

      detto, le due Tullie, figlie del re, ugualmente diversissime per

      temperamento. Caso volle che i due caratteri violenti non fossero finiti

      insieme (immagino perché la buona stella del popolo romano volle

      prolungare il regno di Servio e permettere che si consolidassero i

      fondamenti morali della società). La più arrogante delle figlie di Tullio

      non poteva darsi pace che il marito non avesse un briciolo di ambizione e

      intraprendenza. Di qui il suo essere tutta occhi e parole di ammirazione

      per l'altro Tarquinio, da lei definito un vero uomo e un autentico

      rampollo di re. Di qui pure il suo disprezzo per la sorella, a sua detta

      responsabile di appiattire il marito con una totale assenza di iniziativa

      femminile. Presto, come sempre succede, l'affinità reciproca li avvicinò,

      dato che il male può solo attirare il male, anche se però fu la donna la

      responsabile prima di tutto l'intrigo. Quest'ultima cominciò a vedersi in

      segreto col cognato e, durante questi incontri, non si esimeva

      dall'insultare il proprio marito (con il fratello di lui) e la propria

      sorella (con il marito di lei). Il punto su cui batteva di più era questo:

      per lei sarebbe stato meglio essere senza marito e per il cognato sarebbe

      stato meglio essere celibe piuttosto che stare con persone di livello

      inferiore e vedersi costretti a languire per loro ignavia. Se gli dèi le

      avessero fatto sposare l'uomo che meritava, non ci avrebbe messo molto a

      vedere nella sua casa il potere reale che ora vedeva in quella del padre.

      Si affretta così a instillare nel cuore del giovane l'audacia del suo

      progetto. Grazie a due decessi a catena ebbero via libera in casa per

      celebrare un nuovo matrimonio. Servio non si oppose alle nozze, ma non

      diede neppure il suo consenso.

      

      47 Da quel momento in poi la vecchiaia e il regno di Tullio furono di

      giorno in giorno sempre più in pericolo. Infatti, quella donna, dopo il

      primo delitto, non vedeva l'ora di commetterne un secondo e toglieva il

      fiato al marito giorno e notte perché non voleva che i suoi precedenti

      crimini rimanessero fini a se stessi. Non le era certo mancato l'uomo di

      cui si potesse dire che lei era la moglie e la rassegnata compagna di

      sottomissione. Le era mancato un uomo che si ritenesse degno del trono,

      che si ricordasse di esser figlio di Tarquinio Prisco e che preferisse

      avere il potere piuttosto che sperare di averlo. «Se sei tu l'uomo che io

      credo di aver sposato, allora ti chiamo marito e re. Se non lo sei, allora

      vuol dire che mi è andata di male in peggio perché in te oltre all'ignavia

      c'è anche la delinquenza. Perché non ti muovi? Non vieni mica da Tarquinia

      o da Corinto, come tuo padre, né devi andarti a conquistare un trono in

      terra straniera. Gli dèi di casa e della patria, il ritratto di tuo padre,

      il palazzo reale e il trono che vi si trova all'interno, il nome

      Tarquinio, ogni cosa ti vuole e ti chiama re. E se poi non hai abbastanza

      fegato, perché mai inganni la gente? Perché lasci che guardino a te come a

      un erede al trono? Tornatene a Tarquinia o a Corinto, risali i rami del

      tuo albero genealogico, visto che sei più della pasta di tuo fratello che

      non di quella di tuo padre.» Questo più o meno il sarcasmo con cui

      istigava il giovane. Una cosa invece non le dava pace: com'era possibile

      che Tanaquil, pur essendo una straniera, fosse riuscita a brigare tanto da

      far salire al trono, uno dopo l'altro, prima il marito e poi il genero, e

      invece lei che era figlia di un re contava meno di zero negli stessi

      giochi di potere ? Tarquinio, istigato dai furori della moglie, cominciò

      ad andare in giro in cerca di appoggio, specialmente presso i senatori del

      secondo ordine, ai quali, ricordando il gesto generoso del padre, faceva

      presente che era venuto il momento di ricambiarlo. Riempiva di regali i

      giovani. Così, sia grazie alle grandi promesse, sia grazie alla pessima

      pubblicità che faceva al re, la sua posizione acquistava credibilità a

      tutti i livelli. Alla fine, quando gli sembrò fosse tempo di agire, fece

      irruzione nel foro scortato da un drappello di armati. Quindi, nello

      sbalordimento generale, prese posto sul trono di fronte alla curia e,

      tramite un araldo, fece comunicare ai senatori che si presentassero in

      senato al cospetto del re Tarquini. Essi arrivarono subito: alcuni già

      preparati alla cosa, altri temendo di incappare in spiacevoli conseguenze

      mancando all'appuntamento, tutti però sconcertati dalla novità senza

      precedenti e convinti che Servio fosse finito. Tarquinio allora, andando

      molto indietro nel tempo, accusò Servio di essere uno schiavo figlio di

      una schiava il quale, dopo la morte indegna di suo padre, era salito al

      trono grazie al regalo di una donna e non aveva rispettato la tradizione

      (e cioè l'interregno, la convocazione dei comizi, il voto del popolo e la

      ratifica dei senatori). Con un simile albero genealogico e con una simile

      carriera politica alle spalle, aveva favorito le classi più abiette della

      società - cioè quelle dalle quali proveniva -, e per l'odio nei confronti

      di una classe alla quale non apparteneva, aveva tolto le proprietà

      terriere ai notabili per darle alla plebaglia. Gli oneri fiscali prima

      equamente distribuiti li aveva addossati nella loro totalità sulle spalle

      dei più abbienti. Aveva istituito il censo per convogliare l'invidia sulle

      fortune dei ricchi e per averle a portata di mano quando decideva di fare

      generose elargizioni ai nullatenenti.

       

      48 Servio, svegliato di soprassalto da un messaggero, arrivò nel bel mezzo

      di questa tirata e, dall'ingresso della curia, gridò fortissimo: «Che

      razza di storia è questa, Tarquinio? Avere il coraggio, con me vivo, di

      convocare i senatori e di sederti sul mio trono?» La risposta di Tarquinio

      fu estremamente insolente. Disse che stava occupando il trono di suo

      padre, trono che era di gran lunga preferibile finisse in mano all'erede

      legittimo (cioè lui in persona) piuttosto che a uno schiavo e che Servio

      aveva già insultato e preso in giro abbastanza i suoi padroni. Seguirono

      urla di consenso e di approvazione. Intanto la gente stava affluendo in

      massa sul posto ed era chiaro che il potere sarebbe andato al vincitore di

      quel giorno. Allora Tarquinio, costretto dalla situazione a giocarsi il

      tutto per tutto, favorito dall'età e dalla maggiore vigoria fisica,

      afferrò Servio all'altezza della vita, lo sollevò da terra e,

      trascinandolo fuori, lo scaraventò giù dalle scale. Quindi rientrò nella

      curia per evitare che i senatori si sparpagliassero. La scorta e il

      séguito del re se la diedero a gambe. Quanto poi al re stesso, mentre

      quasi in fin di vita stava rientrando a palazzo senza il suo séguito

      abituale, fu raggiunto e assassinato dai sicari di Tarquinio, i quali lo

      avevano pedinato. Sembra (e non stride poi troppo coi suoi precedenti

      delinquenziali) che la cosa porti la firma di Tullia. Su questo, invece,

      non ci sono dubbi: ella, arrivata in senato col suo cocchio, per niente

      intimorita dalla gran massa di persone, chiamò fuori dalla curia il marito

      e fu la prima a conferirgli il titolo di re. Tarquinio la pregò di

      allontanarsi da quel trambusto pericoloso. Allora Tullia, quando sulla via

      di casa arrivò in cima alla via Cipria (dove non molto tempo fa c'era il

      santuario di Diana), ordinò di piegare verso il Clivo Urbio e di portarla

      all'Esquilino. In quel momento il cocchiere bloccò la vettura con un colpo

      secco di redini e, pallido come uno straccio, indicò alla padrona il

      cadavere di Servio abbandonato per terra. Tradizione vuole che in quel

      luogo fu consumato un atto orrendo e disumano di cui la strada serba

      memoria nel nome (si chiama infatti via del Crimine): pare che Tullia,

      invasata dalle Furie vendicatrici della sorella e del marito, calpestò col

      cocchio il corpo del padre. Quindi, piena di schizzi lei stessa, ripartì

      sulla vettura che grondava sangue dopo quell'orrore commesso sul cadavere

      del padre, e si diresse a casa dove i penati suoi e del marito, adirati

      per il tragico esordio del regno, fecero sì che esso avesse una

      conclusione analoga.

      Servio Tullio regnò quarantaquattro anni e anche per un successore buono e

      moderato sarebbe stato arduo emularne la rettitudine. E poi, ad accrescere

      ulteriormente i suoi meriti, c'era anche questo motivo: con lui tramontava

      la figura del monarca giusto e legittimo. Inoltre, per quanto moderato e

      mite il suo regno potesse essere stato, era pur sempre il governo di un

      singolo. Per questo alcuni autori affermano che egli avrebbe avuto

      intenzione di rinunciarvi, se la delinquenza di un parente non si fosse

      sovrapposta al progetto di concedere la libertà al suo popolo.

      

      49 Da allora ebbe inizio il regno di Tarquinio, soprannominato il Superbo

      a causa della sua condotta. E a buon diritto, visto che, pur essendone il

      genero, non concesse a Servio la sepoltura sostenendo che anche Romolo non

      l'aveva avuta, e fece eliminare i senatori più importanti in quanto

      sospettati di aver parteggiato per Servio. Poi, rendendosi conto che

      l'indebita ascesa al trono avrebbe potuto diventare un precedente

      sfruttabile da altri nei suoi stessi confronti, si circondò di guardie del

      corpo. In effetti, l'unico diritto al trono che aveva era la forza, dato

      che stava regnando non solo senza il consenso del popolo ma anche senza

      ratifica del senato. In più si aggiungeva che, non potendo contare in

      alcun modo sull'aiuto dei cittadini, era costretto a salvaguardare il

      proprio potere col terrore. E per renderlo un sentimento diffuso, cominciò

      a istruire da solo, senza l'aiuto di consiglieri legali, le cause per

      delitti capitali: ne approfittava così per condannare a morte, per mandare

      in esilio, e per confiscare i beni non solo di chi era sospettato o

      malvisto, ma anche di chi poteva rappresentare una qualche opportunità di

      bottino. Soprattutto per questo, dopo aver decimato il numero dei

      senatori, stabilì che non se ne eleggessero altri, in modo tale da

      screditare l'ordine per l'inconsistenza degli effettivi e ridurne al

      massimo le eventuali rimostranze per la totale esclusione dalla gestione

      del potere. Tutti i suoi predecessori si erano sempre attenuti alla regola

      tradizionale di consultare il senato in ogni occasione: Tarquinio il

      Superbo fu il primo a rompere con questa consuetudine e resse lo Stato

      fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati,

      alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri

      che voleva, senza mai consultare il popolo e i senatori. Cercava

      soprattutto di procurarsi l'amicizia dei Latini, perché l'appoggio

      straniero gli desse maggiore sicurezza in patria. Con la loro aristocrazia

      non stabiliva soltanto rapporti di ospitalità, ma organizzava anche

      matrimoni. Al tuscolano Ottavio Mamilio - di gran lunga il più

      rappresentativo tra i Latini e, se si presta fede alla leggenda,

      discendente di Ulisse e della dea Circe - diede in moglie la figlia e,

      grazie a questo matrimonio, si legò con molti amici e parenti di lui.

      

      50 Tarquinio vantava già una posizione di grande influenza presso i nobili

      latini, quando decise di convocarli un giorno preciso presso il bosco di

      Ferentina, sostenendo di voler discutere alcuni problemi di comune

      interesse. Alle prime luci dell'alba i Latini affluiscono in massa. Da

      parte sua Tarquinio, pur rispettando la data, si presentò solo poco prima

      del tramonto. Per tutta la durata del giorno, i partecipanti all'assemblea

      avevano parlato a lungo di vari argomenti. Turno Erdonio di Aricia aveva

      inveito violentemente contro Tarquinio, dicendo che non era poi tanto

      strano che a Roma lo avessero soprannominato il Superbo (nome questo ormai

      sulla bocca di tutti, anche se ancora circoscritto alla sfera clandestina

      del sussurro). Oppure c'era qualcosa di più superbo che prendere in giro

      il popolo latino in quella maniera ? Farne venire i capi così lontano dai

      loro paesi e poi disertare la riunione da lui stesso convocata? Era chiaro

      che voleva mettere alla prova la loro pazienza e poi, una volta constatato

      che si lasciavano mettere facilmente i piedi in testa, avrebbe abusato

      della loro sottomissione. A chi poteva infatti sfuggire che il piano di

      Tarquinio era ridurre i Latini in suo potere? Se i suoi sudditi avevan

      fatto bene ad affidarglielo, o se gli era stato affidato e non era il

      prodotto di un orrendo delitto, stessa cosa avrebbero dovuto fare i

      Latini, e neppure in questo caso si sarebbe trattato di uno straniero. Ma

      se i Romani non ne potevano più di lui, delle esecuzioni a catena, degli

      esili, delle confische di beni, i Latini potevano forse sperare in

      qualcosa di meglio una volta nella stessa situazione? Se volevano dare

      retta a lui, Turno, ciascuno avrebbe dovuto tornarsene a casa rispettando

      la data della riunione con la stessa precisione di chi l'aveva

      organizzata. Mentre il turbolento e facinoroso Turno, che doveva proprio a

      tali caratteristiche la posizione di grande rilievo occupata tra le genti

      latine, dissertava su questi argomenti, ecco che arrivò Tarquinio. Tutti

      si voltarono a salutarlo. Venne fatto silenzio e il re, invitato dai più

      vicini a fornire spiegazioni circa il ritardo con cui si era presentato,

      disse di esser stato scelto come arbitro in una disputa tra padre e figlio

      e di aver fatto trdi per il desiderio di riconciliare i due litiganti.

      Quindi, dato che il giorno se ne era andato in quella bega, rimandò la

      riunione al mattino successivo. Pare che Turno non accettò nemmeno questo

      senza replicare e sentenziò che non c'era niente di più facile da

      sistemare che un litigio tra padre e figlio; bastavano infatti due parole:

      o il figlio obbedisce al padre, o peggio per lui.

      

      51 Con questo sarcasmo diretto al re di Roma, il cittadino di Aricia

      abbandona l'assemblea. Tarquinio, incassando l'affronto peggio di quanto

      desse a vedere, inizia subito a cercare il modo per togliere di mezzo

      Turno, in maniera tale da ispirare nei Latini lo stesso terrore col quale

      in patria aveva oppresso gli animi dei suoi sudditi. E poiché non era

      nella posizione di eliminare il suo uomo di fronte agli occhi di tutti, lo

      schiacciò escogitando una falsa accusa che in realtà non aveva nulla a che

      vedere con lui. Grazie ad alcuni rappresentanti del partito

      all'opposizione di Aricia, riuscì a corrompere uno schiavo di Turno

      affinché lasciasse introdurre di nascosto una grande quantità di armi

      nella casa del padrone. Dato che bastò una notte per sistemare la cosa,

      Tarquinio, poco prima dell'alba, convocò in sua presenza i capi latini e,

      fingendo di aver ricevuto qualche notizia allarmante, disse loro che il

      ritardo del giorno prima era stato provvidenziale e aveva salvato loro e

      lui stesso. Infatti c'era stata una denuncia: Turno voleva eliminare lui e

      i capi più in vista del popolo latino per impadronirsi del potere

      assoluto. L'attentato avrebbe dovuto essere messo in pratica il giorno

      precedente durante l'assemblea, ma poi era stato rimandato per l'assenza

      del bersaglio principale, cioè l'ideatore del raduno. Di lì la violenta

      invettiva di Turno contro l'assente, il cui ritardo ne aveva deluso le

      speranze. Tarquinio aggiunse di esser sicuro che, se l'informazione

      ricevuta corrispondeva a verità, Turno, quando alle prime luci dell'alba

      essi si fossero radunati per l'assemblea, si sarebbe presentato con una

      banda di cospiratori armati fino ai denti. Gli avevano anche riferito,

      aggiunse, che a casa di Turno era stata trasportata una grande quantità di

      spade. E la fondatezza di quell'informazione si poteva verificare subito:

      bastava andassero con lui a casa di Turno. L'accusa sembrava veramente

      plausibile: vuoi l'aggressività di Turno nell'invettiva del giorno prima,

      vuoi il ritardo di Tarquinio che dava veramente l'impressione di aver

      fatto saltare l'attentato. Sta di fatto che si avviano disposti a credere

      alla storia, ma nel contempo pronti a considerarla tutta una montatura nel

      caso non ci fosse stata traccia delle spade. Arrivati a destinazione,

      svegliano di soprassalto Turno e lo fanno guardare a vista. Quando poi,

      immobilizzati gli schiavi che si preparavano a fare resistenza per

      attaccamento al padrone, cominciarono a tirar fuori spade su spade da ogni

      angolo della casa, non ci fu più nessun dubbio: Turno fu incatenato e nel

      gran trambusto venne subito convocata un'assemblea di tutti i Latini. Lì,

      le spade piazzate nel bel mezzo suscitarono un tale risentimento che

      Turno, senza nemmeno poter perorare la propria causa, fu sottoposto a un

      supplizio senza precedenti: lo fecero annegare immergendolo nella sorgente

      Ferentina con sopra la testa un graticcio coperto di sassi.

      

      52 Tarquinio quindi riconvocò i Latini in assemblea e si complimentò con

      loro per la fermezza con cui avevano inflitto a Turno, autore di un

      progettato colpo di stato, la giusta pena per il suo evidente reato. Poi

      affermò di potersi basare su un diritto molto antico per sostenere che

      tutti i Latini, essendo originari di Alba, rientravano nelle clausole di

      quel trattato dei tempi di Tullo col quale l'intera nazione albana e le

      sue colonie erano state annesse a Roma. Rinnovare quel trattato sarebbe

      stato un grosso vantaggio: più che altro - questo il suo pensiero - i

      Latini avrebbero partecipato dei successi del popolo romano, senza dover

      sempre rischiare o subire distruzioni e devastazioni di campagne com'era

      successo durante il regno di Anco e durante quello di suo padre Tarquinio

      Prisco. Non fu difficile persuadere i Latini anche se il trattato favoriva

      nettamente Roma. Inoltre, non solo i capi latini erano dalla parte del re

      e ne condividevano i punti di vista, ma proprio poco prima Turno aveva

      fornito loro una dimostrazione di cosa poteva toccare a chiunque avesse

      avuto in mente di opporsi. Il trattato venne così rinnovato e una delle

      clausole prevedeva che i giovani latini si presentassero il tal giorno

      armati di tutto punto nel bosco di Ferentina. Seguendo le disposizioni del

      re di Roma, essi si concentrarono dai diversi paesi di provenienza.

      Tarquinio, allora, per evitare che ogni gruppo avesse un proprio capo, un

      comando separato e insegne diverse dagli altri, creò manipoli misti di

      Latini e Romani con questo criterio: ne organizzò uno sommandone due e due

      dividendone uno. A capo dei manipoli così sdoppiati nominò dei centurioni.

      

      53 Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi sudditi, ma abbastanza un buon

      generale quando si trattò di combattere. Anzi, in campo militare avrebbe

      raggiunto il livello di quanti lo avevano preceduto sul trono, se la sua

      degenerazione in tutto il resto non avesse offuscato anche questo merito.

      Fu lui a iniziare coi Volsci una guerra destinata a durare due secoli, e

      tolse loro con la forza Suessa Pomezia. Ne vendette il bottino e coi

      quaranta talenti d'argento ricavati concepì la costruzione di un tempio di

      Giove le cui dimensioni sarebbero state degne del re degli dèi e degli

      uomini, nonché della potenza romana e della sua stessa posizione maestosa.

      Il denaro proveniente dalla presa di Suessa fu messo da parte per la

      costruzione del tempio.

      In séguito si impegnò in una guerra più lunga del previsto con la vicina

      città di Gabi. Infatti tentò prima una fallimentare soluzione di forza;

      poi, respinto anche da sotto le mura dopo averne cercato l'assedio, alla

      fine ricorse a un espediente poco in sintonia con lo spirito romano, cioè

      l'astuzia dolosa e fraudolenta. Mentre dava a vedere di aver perso

      interesse nella guerra per concentrarsi sulla fondazione del tempio e su

      altre opere di natura urbanistica, Sesto, il più giovane dei suoi tre

      figli, con un preciso piano, riparò a Gabi lamentandosi del trattamento

      eccessivamente crudele riservatogli dal padre. Lì raccontò che

      quest'ultimo, dopo i sudditi, aveva adesso iniziato a tormentare i figli,

      che a sua detta erano fastidiosamente numerosi, e a cercare di riprodurre

      in casa il deserto che aveva fatto in senato, in modo tale da non lasciare

      né discendenti né un qualche erede al trono. Quanto a lui, sfuggito alle

      spade e ai pugnali del padre, era convinto che in nessun posto sarebbe

      stato così al sicuro come presso i nemici di Lucio Tarquinio. Circa la

      guerra che sembrava esser stata abbandonata, avevano poco da illudersi:

      era tutta una finta e, da un momento all'altro, lui li avrebbe attaccati

      quando meno se lo aspettavano. Se poi presso di loro non c'era posto per

      un supplice, allora avrebbe attraversato tutto il Lazio e quindi si

      sarebbe rivolto ai Volsci, agli Equi e agli Ernici, finché non avesse

      trovato gente disposta a proteggere un figlio dalle torture e dalle

      crudeltà inflittegli dal padre. Può darsi anche che avrebbe trovato gli

      stimoli per andare a combattere il più tirannico dei re e il più insolente

      dei popoli. Poiché era chiaro che, se avessero titubato, il giovane,

      infuriato com'era, se ne sarebbe andato, i Gabini gli diedero il

      benvenuto. Gli dissero di non meravigliarsi se il padre si era comportato

      coi figli nello stesso modo che coi sudditi e con gli alleati: avrebbe

      finito col rivolgere la propria crudeltà contro se stesso, una volta

      esaurito ogni bersaglio. Da parte loro, erano comunque contenti della sua

      venuta e confidavano, anche col suo aiuto, di spostare in breve tempo il

      teatro delle operazioni di guerra dalle porte di Gabi alle mura di Roma.

      

      54 In séguito Sesto fu ammesso alle riunioni di governo, durante le quali,

      sul resto delle questioni, si professava dello stesso avviso degli anziani

      di Gabi per la loro maggiore esperienza. Da parte sua, invece, non faceva

      che parlare di guerra e sosteneva di esserne un grande esperto in quanto

      conosceva le forze dei due popoli e sapeva che Tarquinio aveva raggiunto

      un punto tale di arroganza che non solo i cittadini ma i figli stessi non

      riuscivano più a tollerarlo. Così, con questa tecnica, riuscì piano piano

      a convincere i capi di Gabi a riaprire le ostilità. Avrebbe guidato lui in

      persona delle azioni di guerriglia con un gruppo di giovani

      particolarmente coraggiosi. Calcolando perfettamente ogni cosa che faceva

      e diceva, riuscì a incrementare a tal punto la malriposta fiducia nella

      sua persona, che alla fine gli affidarono il comando in capo delle

      operazioni. Siccome il popolo ignorava quel che stava realmente succedendo

      e le prime scaramucce tra Romani e Gabini vedevano quasi sempre prevalere

      questi ultimi, allora tutti, senza distinzioni di classe, cominciarono a

      credere che Sesto Tarquinio fosse l'uomo mandato dal cielo per guidare le

      loro truppe. E i soldati, vedendo che egli era sempre disposto a

      condividere rischi e fatiche ed era oltremodo generoso nella spartizione

      del bottino, gli si affezionarono a tal punto che non era meno potente lui

      a Gabi di quanto suo padre Tarquinio lo fosse a Roma. E così, quando Sesto

      capì di essere abbastanza forte per affrontare qualsiasi impresa, mandò a

      Roma un suo uomo per chiedere al padre cosa dovesse fare, visto che a Gabi

      gli dèi gli avevano concesso di esser padrone incontrastato della

      situazione politica. Al messaggero - suppongo per la scarsa fiducia che

      ispirava - non venne affidata una risposta a voce. Il re, dando a vedere

      di essere perplesso, si spostò nel giardino del suo palazzo e l'inviato

      del figlio gli andò dietro. Lì, passeggiando avanti e indietro in

      silenzio, pare che il re si mise a decapitare i papaveri a colpi di

      bacchetta. Il messaggero, stanco di fare domande senza ottenere risposte,

      ritornò a Gabi convinto di non aver compiuto la missione. Lì riferì ciò

      che aveva detto e ciò che aveva visto: il re, fosse per ira, per insolenza

      o per naturale disposizione all'arroganza, non aveva aperto bocca. Sesto,

      appena gli fu chiaro a cosa il padre volesse alludere con quei silenzi

      sibillini, eliminò i capi della città, accusandone alcuni davanti al

      popolo, e con altri facendo leva sull'impopolarità che si erano acquistati

      da soli. Per molti ci fu l'esecuzione sotto gli occhi di tutti. Certi

      invece, più difficili da mettere sotto accusa, vennero assassinati di

      nascosto. Altri ebbero il permesso di lasciare il paese o vennero

      esiliati. Le proprietà di tutti, morti o esiliati, subirono la stessa

      sorte: vennero confiscate e quindi distribuite in una corsa sfrenata

      all'accaparramento. Badando quindi solo all'interesse particolare, la

      gente perse il senso del disastro in cui la città era franata. Finché un

      bel giorno, rimasta priva di una direzione e di risorse, Gabi si onsegnò

      nelle mani del re di Roma senza opporre resistenza.

      

      55 Dopo essersi impadronito di Gabi, Tarquinio fece pace con gli Equi e

      rinnovò il trattato con gli Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di

      edilizia urbana. Il primo era il tempio di Giove sul monte Tarpeio:

      sarebbe stato un monumento immortale al suo regno e al suo nome, e avrebbe

      ricordato che dei due Tarquini - entrambi re -, prima il padre aveva fatto

      il voto di costruirlo e poi il figlio lo aveva portato a compimento. E

      perché la zona venisse liberata da ogni precedente traccia di culto e

      dedicata esclusivamente a Giove e al suo tempio, ordinò di sconsacrare

      quelle cappelle e quei santuari che erano stati in un primo tempo dedicati

      agli dèi da Tazio nei momenti decisivi della battaglia contro Romolo e che

      in séguito erano stati consacrati e inaugurati. Proprio all'inizio dei

      lavori, tradizione vuole che gli dèi inviassero un segno per indicare la

      grandezza di quel potente regno. Infatti, mentre gli uccelli diedero il

      via libera alla sconsacrazione di tutti gli altri santuari, la stessa cosa

      non successe per quello di Termine. Il presagio augurale fu interpretato

      in questo modo: visto che il tempio di Termine rimaneva al suo posto ed

      era l'unica tra tutte le divinità a non essere allontanata dallo spazio a

      essa consacrato, ciò significava stabilità e solidità per lo Stato. Una

      volta ricevuto questo presagio di durata, ne seguì un altro che annunciava

      la grandezza dell'impero. Pare che durante gli scavi delle fondamenta del

      tempio venisse portata alla luce una testa di uomo con i lineamenti della

      faccia intatti. Il ritrovamento parlava chiaro: quel punto sarebbe

      diventato la cittadella dell'impero e la capitale del mondo. Questa fu

      l'interpretazione degli indovini, sia dei locali, sia di quelli fatti

      arrivare dall'Etruria per pronunciarsi sulla cosa.

      Nella mente del re c'era ormai spazio solo per le spese pubbliche: così,

      il ricavato del bottino di Pomezia, destinato a coprire la costruzione

      dell'intero edificio, bastò appena a pagare le fondamenta. Questo perché

      la mia fonte è nel caso presente Fabio, che è più antico, e secondo il

      quale il bottino fu soltanto di quaranta talenti, e non Pisone che invece

      parla di quarantamila libbre di pesante argento stanziate per l'opera. Una

      simile somma non è pensabile la si potesse all'epoca ricavare dal bottino

      di una sola città e non esiste edificio, neppure oggi come oggi, le cui

      fondamenta arrivino a costare così care. 56 Nel desiderio di portare a

      termine la costruzione del tempio, Tarquinio, dopo aver fatto venire

      operai da tutta l'Etruria, attinse non solo ai fondi di Stato stanziati

      per questo progetto, ma ricorse anche alla mano d'opera della plebe. Non

      era certo un lavoro da poco e in più c'era il servizio militare. Tuttavia,

      ai plebei pesava meno dover costruire i templi degli dèi con le proprie

      mani che essere impiegati, come poi in séguito successe, in lavori meno

      spettacolari ma molto più sfibranti (come la costruzione dei sedili del

      Circo o quella, da realizzarsi sotto terra, della Cloaca Massima,

      ricettacolo di tutto il liquame della città, opere queste al cui confronto

      la grandiosità dei giorni nostri ha ben poco da contrapporre). Dopo aver

      impegnato la plebe in queste grandi costruzioni, Tarquinio, pensando che

      una popolazione numerosa se disoccupata sarebbe stata per Roma un peso

      morto, e volendo nel contempo ampliare i confini del suo regno con la

      deduzione di colonie, inviò coloni a Signa e Circei per farne un giorno

      dei bastioni di Roma sulla terra e sul mare.

      Nel bel mezzo di queste iniziative, si assistette a un prodigio tremendo:

      da una colonna di legno sbucò fuori un serpente che gettò nel panico il

      palazzo reale. Quanto al re, la sua reazione non fu di improvviso terrore

      ma di ansia e preoccupazione. Per i prodigi di carattere pubblico

      Tarquinio consultava soltanto gli indovini etruschi. Ma in questo caso,

      spaventatissimo da un fenomeno che sembrava interessare la sua casa,

      stabilì che fosse interrogato l'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo.

      Non osando però affidarne a nessun altro il responso, mandò due dei suoi

      figli in Grecia attraverso terre a quel tempo ignote e attraverso mari

      ancora più ignoti. Tito e Arrunte partirono. Al loro séguito si imbarcò

      anche Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia, sorella del re, giovane dal

      carattere completamente diverso da quello che dava a vedere. Quando era

      venuto a sapere che i personaggi più in vista della città, e tra questi

      suo fratello, erano stati eliminati dallo zio, aveva deciso di rinunciare

      a ogni atteggiamento e a ogni successo economico che avrebbero potuto

      innervosire il re o suscitarne l'invidia, e si era risolto a cercare la

      sicurezza nel disprezzo, visto che la giustizia offriva ormai ben poca

      protezione. Così, facendo apposta l'imbecille e lasciando che il re

      disponesse liberamente della sua persona e delle sue sostanze, non aveva

      rifiutato nemmeno il soprannome di Bruto, per mascherare il grande

      coraggio che, una volta scoccata l'ora fatale, lo avrebbe spinto a

      liberare il popolo romano. Era lui che i Tarquini si portavano a Delfi,

      più come una spassosa macchietta che come un compagno di viaggio: pare che

      il suo dono ad Apollo consistesse in un bastone d'oro racchiuso in un

      altro di corno che era stato scavato proprio con quell'intento, a

      rappresentazione simbolica del suo carattere. Una volta arrivati a Delfi e

      compiuta la missione per conto del padre, i giovani furono presi dal

      desiderio insopprimibile di sapere a chi di loro sarebbe toccato il regno

      di Roma. Pare che dal profondo dell'antro si sentì una voce pronunciare le

      seguenti parole: «A Roma regnerà, o giovani, il primo di voi che darà un

      bacio a sua madre.» I Tarquini, per far sì che Sesto, rimasto a Roma, non

      venisse a sapere del responso e restasse così tagliato fuori dal potere,

      impongono il segreto più assoluto sull'episodio. Di comune accordo

      lasciano che la sorte decida chi, una volta a Roma, bacerà per primo la

      madre. Bruto pensò invece che il responso della Pizia avesse un altro

      significato: per questo, facendo finta di scivolare, cadde a terra e vi

      appoggiò le labbra, considerando la terra madre comune di tutti i mortali.

      Quindi rientrarono a Roma, dove fervevano i preparativi per una guerra

      contro i Rutuli.

       

      57 Ardea apparteneva ai Rutuli, popolo che in quella regione e in

      quell'epoca spiccava per le sue ricchezze. La vera causa della guerra fu

      questa: il re di Roma, dopo essersi svenato con la sontuosità dei suoi

      progetti urbanistici, contava di riassestare il proprio bilancio e, nel

      contempo, facendo del bottino sperava di placare gli animi della gente,

      esacerbati non soltanto dalla sua ferocia, ma incapaci di perdonargli di

      essere stati così a lungo impegnati in lavori faticosi e servili. Si tentò

      di prendere Ardea al primo assalto. Visto il fallimento del tentativo, i

      Romani scelsero la via dell'assedio e scavarono una trincea intorno alla

      città nemica. In questa guerra di posizione, come sempre accade quando si

      tratta di una guerra più lunga che aspra, le licenze erano all'ordine del

      giorno, anche se ne beneficiavano più i capi che la truppa. I figli del

      re, tanto per fare un esempio, ammazzavano il tempo spassandosela in

      festini e bevute. Un giorno, mentre stavano gozzovigliando nella tenda di

      Sesto Tarquinio e c'era anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio, il

      discorso cadde per caso sulle mogli e ciascuno prese a dire mirabilia

      della propria. La discussione si animò e Collatino affermò che era inutile

      starne a parlare perché di lì a poche ore si sarebbero resi conto che

      nessuna poteva tener testa alla sua Lucrezia. «Giovani e forti come siamo,

      perché non saltiamo a cavallo e andiamo a verificare di persona la

      condotta delle nostre spose? La prova più sicura sarà ciò che ciascuno di

      noi vedrà all'arrivo inaspettato del marito». Infiammati dal vino,

      urlarono tutti: «D'accordo, andiamo!» Un colpo di speroni al cavallo e

      volano a Roma. Arrivarono alle prime luci della sera e di lì proseguirono

      alla volta di Collazia, dove trovarono Lucrezia in uno stato completamente

      diverso da quello delle nuore del re (sorprese a ingannare l'attesa nel

      pieno di un festino e in compagnia di coetanei): nonostante fosse notte

      fonda, Lucrezia invece era seduta nel centro dell'atrio e stava

      trafficando intorno alle sue lane insieme alle serve anche loro

      indaffarate. Si aggiudicò così la gara delle mogli. All'arrivo di

      Collatino e dei Tarquini, li accoglie con estrema gentilezza e il marito

      vincitore invita a cena i giovani principi. Fu allora che Sesto Tarquinio,

      provocato non solo dalla bellezza ma dalla provata castità di Lucrezia, fu

      preso dalla insana smania di averla a tutti i costi. Poi, dopouna notte

      passata a godersi le gioie della giovinezza, rientrarono alla base.

      

      58 Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a

      Collazia con un solo compare. Lì fu accolto ospitalmente perché nessuno

      era al corrente dei suoi progetti. Finita la cena, si andò a coricare

      nella camera degli ospiti. Invasato dalla passione, quando capì che c'era

      via libera e tutti erano nel primo sonno, sguainata la spada andò nella

      stanza di Lucrezia che stava dormendo: la immobilizzò con la mano puntata

      sul petto e disse: «Lucrezia, chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e sono

      armato. Una sola parola e sei morta!» La povera donna, svegliata dallo

      spavento, capì di essere a un passo dalla morte. Tarquinio cominciò allora

      a dichiarare il suo amore, ad alternare suppliche a minacce e a tentarle

      tutte per far cedere il suo animo di donna. Ma vedendo che Lucrezia era

      irremovibile e non cedeva nemmeno di fronte all'ipotesi della morte,

      allora aggiunse il disonore all'intimidazione e le disse che, una volta

      morta, avrebbe sgozzato un servo e glielo avrebbe messo nudo accanto, in

      modo che si dicesse che era stata uccisa nel degrado più basso

      dell'adulterio. Con questa spaventosa minaccia, la libidine di Tarquinio

      ebbe, per così dire, la meglio sull'ostinata castità di Lucrezia. Quindi,

      fiero di aver violato l'onore di una donna, ripartì. Lucrezia, affranta

      dalla grossa disavventura capitatale, manda un messaggero al padre a Roma

      e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei, ciascuno con un

      amico fidato, e di non perdere tempo perché era successa una cosa

      spaventosa. Arrivarono così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di

      Voleso, e Collatino con Lucio Giunio Bruto (questi ultimi stavano per caso

      rientrando a Roma quando si erano imbattuti nel messaggero inviato da

      Lucrezia). La trovano seduta nella sua stanza e immersa in una profonda

      tristezza. Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora

      le chiede: «Tutto bene?» Lei gli risponde: «Come fa ad andare tutto bene a

      una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le

      tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è

      puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l'adutero non

      rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è

      venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con

      la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto

      non sia fatale solo a me ma anche a lui.» Uno dopo l'altro giurano tutti.

      Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa

      ricadeva solo sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che

      ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e

      quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei

      replica: «Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi

      assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi

      in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel

      disonore!» Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo

      piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le

      urla del marito e del padre.

      

      59 Bruto, mentre gli altri erano in preda allo sconforto, estrasse il

      coltello dalla ferita e, brandendolo ancora stillante di sangue, disse:

      «Su questo sangue, purissimo prima che un principe lo contaminasse, io

      giuro e chiamo voi a testimoni, o dèi, che di qui in poi perseguiterò

      Lucio Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe

      col ferro e col fuoco e con qualunque mezzo mi sarà possibile e non

      permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma.» Quindi passa il

      coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio, tutti sbalorditi

      dall'incredibile evento e incapaci di stabilire da dove Bruto prendesse

      tutta quella veemenza. Giurano com'era stato loro ordinato e, passati dal

      dolore alla rabbia, appena Bruto li invita a scagliarsi immediatamente

      contro il potere reale, non esitano a seguirlo come loro capo.

      Quindi trascinano fuori di casa il cadavere di Lucrezia e lo adagiano in

      pieno foro dove piano piano si accalca la gente, attratta, come di

      consueto, dalla stranezza della cosa e in più dalla sua nefandezza. Tutti

      si scagliano indignati contro la violenza criminale del principe. La loro

      commozione nasceva dalla tristezza del padre ma anche da Bruto che li

      invitava a smetterla con tutti quei pianti e li esortava a esser degni del

      proprio nome di uomini e di Romani e a prendere le armi contro chi aveva

      osato trattarli come nemici. I giovani più coraggiosi si armano e si

      offrono volontari, seguiti subito da tutto il resto della gioventù.

      Quindi, lasciato il padre di Lucrezia a guardia di Collazia e piazzate

      delle sentinelle per evitare che qualcuno andasse a riferire

      dell'insurrezione alla famiglia reale, il resto delle truppe fa rotta su

      Roma agli ordini di Bruto. Una volta lì, questa moltitudine armata semina

      dovunque il panico e lo sconcerto al suo passaggio. Ancora una volta,

      però, vedendo che alla testa c'erano i personaggi più in vista della

      città, l'opinione generale fu che, qualunque cosa stessero facendo, non

      poteva trattarsi di un'iniziativa sconsiderata. L'atroce episodio suscita

      a Roma non meno commozione di quanta ne avesse suscitata a Collazia e da

      ogni parte della città la gente si riversa nel foro. Una volta lì, un

      messo convocò il popolo di fronte al tribuno dei Celeri, magistratura

      tenuta casualmente in quel periodo proprio da Bruto. Egli allora pronunciò

      un discorso assolutamente non in sintonia con il carattere e gli

      atteggiamenti che fino a quel giorno aveva simulato di avere. Parlò della

      brutale libidine di Sesto Tarquinio, dello stupro infamante subito da

      Lucrezia, del suo commovente suicidio e del lutto solitario di Tricipitino

      che era più affranto e indignato per la causa che non per la morte stessa

      della figlia. Ricordò loro anche l'arroganza tirannica del re e lo stato

      miserando della plebe, costretta a schiantare di fatica a forza di scavi e

      di fogne da ripulire. A questo proposito aggiunse che i Romani, capaci di

      sottomettere ogni altro popolo dei dintorni, erano stati trasformati in

      manovali e tagliapietre da guerrieri che erano. Dopo aver citato l'indegna

      fine di Servio Tullio e l'episodio orrendo della figlia che ne calpestava

      il cadavere col cocchio, invocò gli dèi vendicatori dei crimini contro i

      genitori. Con questi argomenti e, credo, con altri ancora più atroci

      dettati dall'immediatezza dello sdegno, ma quasi mai facilmente

      ricostruibili da parte degli storici,infiammò il popolo e lo trascinò ad

      abbattere l'autorità del re e a esiliare Lucio Tarquinio con tanto di

      moglie e figli. Poi Bruto in persona arruolò i giovani che si offrivano

      volontari e, dopo averli dotati di armi, partì alla volta di Ardea per

      sollevare contro il re l'esercito là accampato. Lasciò il comando di Roma

      a Lucrezio, che poco tempo prima era già stato nominato prefetto della

      città dal re. Nel pieno di questo trambusto, Tullia scappò dal palazzo e,

      dovunque passava, la gente la subissò di maledizioni e di invocazioni alle

      furie vendicatrici dei crimini contro i genitori.

      

      60 Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò all'accampamento, il re,

      allarmato dal pericolo inatteso, partì alla volta di Roma per reprimere

      l'insurrezione. Bruto, informato che il re si stava avvicinando, per

      evitare l'incontro fece una manovra di diversione. Anche se per strade

      diverse, Bruto e Tarquinio arrivarono quasi nello stesso momento ad Ardea

      e a Roma. A Tarquinio vennero chiuse in faccia le porte e comunicata la

      notizia dell'esilio. Il liberatore di Roma fu invece accolto con

      entusiasmo dagli uomini nell'accampamento, i quali poi ne espulsero i

      figli del re. Due di essi seguirono il padre nell'esilio a Cere, in terra

      etrusca. Sesto Tarquinio partì alla volta di Gabi, come se fosse stato un

      suo dominio, ma lì fu assassinato da quanti ne vendicarono le stragi e le

      razzie di un tempo.

      Lucio Tarquinio Superbo regnò venticinque anni. Il regime monarchico a

      Roma, dalla fondazione alla liberazione, durò duecentoquarantaquattro

      anni. In séguito, attenendosi a quanto scritto nei diari di Servio Tullio,

      i comizi centuriati, convocati dal prefetto della città, elessero due

      consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.

      

      LIBRO II

      

      

      

      1 La nuova libertà del popolo romano, le sue conquiste in campo militare e

      civile, le magistrature annuali e il rafforzamento della norma legale in

      relazione all'arbitrio dell'individuo: questi saranno di qui in poi i miei

      temi. Dopo l'autoritarismo tirannico dell'ultimo re, questa libertà fu

      salutata con ancora più entusiasmo. Infatti i suoi predecessori avevano

      esercitato il potere in maniera tale da poter essere a buon diritto

      considerati, uno dopo l'altro, i fondatori di almeno parti di Roma, cioè

      di quei quartieri nuovi aggiunti per far fronte alla crescita demografica

      che essi stessi avevano voluto. E non c'è dubbio che addirittura Bruto,

      copertosi di gloria per l'espulsione del tirannico Tarquinio, avrebbe

      agito in modo dannosissimo per lo Stato, se il desiderio prematuro di

      libertà lo avesse trascinato a detronizzare qualcuno dei re precedenti.

      Infatti cosa ne sarebbe stato di quel branco di pastori e di avventurieri

      se, fuggiti dai loro paesi per cercare libertà o impunità nel recinto

      inviolabile di un tempio, si fossero liberati della paura di un re e

      avessero cominciato a lasciarsi scombussolare dalla virulenza dei

      demagoghi e a scontrarsi verbalmente coi senatori di una città che non era

      la loro, prima che l'amore coniugale, l'amore paterno e l'attaccamento

      alla terra stessa (sentimento questo legato alla lunga consuetudine) non

      avessero unito le loro aspirazioni? Lo Stato, minato dalla discordia, non

      sarebbe riuscito a muovere nemmeno i primi passi. Invece l'atmosfera di

      serenità e moderazione che accompagnò la gestione del potere ne influenzò

      a tal punto la crescita che, una volta raggiunta la piena maturità delle

      sue forze, poté esprimere i frutti migliori della libertà.

      E poi l'inizio della libertà risale a questa data non tanto perché il

      potere monarchico subì un qualche ridimensionamento, ma piuttosto perché

      fu stabilito che i consoli durassero in carica soltanto un anno. I primi a

      occupare questa magistratura mantennero tutte le attribuzioni e le insegne

      dei re, salvo che non ebbero contemporaneamente i fasci per non dare alla

      gente l'impressione di un terrore raddoppiato. Bruto, che col consenso del

      collega fu il primo ad averli, dimostrò di non essere meno attento nel

      preservare la libertà di quanto fosse stato determinato nel rivendicarla.

      In questa direzione ecco quale fu il suo primo provvedimento: per evitare

      che il popolo, tutto preso dalla novità di essere libero, potesse in

      séguito lasciarsi convincere dalle suppliche allettanti della casa reale,

      lo costrinse a giurare che non avrebbe permesso più a nessuno di diventare

      re a Roma. Poi, per rinforzare il senato ridotto ai minimi termini dalle

      esecuzioni a catena pretese dall'ultimo re, ne portò il totale degli

      effettivi a trecento nominando senatori i personaggi più in vista

      dell'ordine equestre. Di lì pare che entrò nell'uso di convocare per le

      sedute del senato padri e coscritti (dove è chiaro che con questo termine

      si alludeva agli ultimi eletti). Il provvedimento giovò straordinariamente

      all'armonia cittadina e al riavvicinamento della plebe alla classe

      senatoriale.

      

      2 Poi venne presa in esame la sfera religiosa. E poiché certe cerimonie di

      natura pubblica erano officiate dal re in persona, per evitare che se ne

      potesse in qualche modo rimpiangere la presenza, nominarono un re dei

      sacrifici. Questo sacerdozio fu però subordinato al pontefice, in modo

      tale che la carica unita al titolo non rappresentasse un'insidia per la

      libertà, che in quel momento era la cosa in assoluto più importante. Può

      anche darsi che in questo senso (la salvaguardia maniacale della libertà)

      si esagerò un po'. Infatti il solo torto dell'altro console fu quello di

      portare un nome odiato da tutti: i Tarquini erano troppo abituati a essere

      re. Il primo fu Tarquinio Prisco, poi lo scettro toccò a Servio Tullio e

      nemmeno questo intervallo fece dimenticare il trono a Tarquinio il

      Superbo; infatti se lo riprese con la violenza degna di un criminale,

      considerandolo un'eredità di famiglia e non la prerogativa di un altro.

      Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, il potere era adesso nelle mani

      di Collatino. I Tarquini non erano in grado di vivere da privati

      cittadini. Alla gente non andava a genio il nome: era un pericolo per la

      libertà. Si cominciò così, mettendo in giro questi argomenti per tastare

      lo stato d'animo del popolo. Quando poi il sospetto inizia a creare

      inquietudine in più parti, Bruto convoca un'assemblea generale. Lì, prima

      di tutto, legge ad alta voce ciò che il popolo aveva giurato, e cioè di

      impedire che in futuro qualcuno potesse diventare re di Roma o

      rappresentare una minaccia alla libertà. Era quindi un dovere morale

      attenersi rigorosamente a quel giuramento e non trascurare nessun

      dettaglio che lo potesse in qualche modo riguardare. Gli dispiaceva

      alludere a qualcuno di preciso e avrebbe evitato di parlare se non fosse

      stato per il suo attaccamento alla patria. Non era convinto che il popolo

      romano avesse riconquistato in pieno la libertà: la famiglia reale e il

      suo nome non erano soltanto in città ma addirittura al governo, e ciò

      rappresentava un ostacolo insormontabile per la libertà. «Sta a te,»

      disse, «o Lucio Tarquinio, prendere l'iniziativa e dissipare questa paura.

      Certo, non bisogna dimenticarselo che hai cacciato i re. Vai fino in fondo

      col tuo nobile gesto e porta via da Roma il loro nome. Sulle tue proprietà

      non metterà le mani nessuno, ti do la mia parola. Anzi, se non sono

      adeguate, subiranno dei ritocchi munifici. Vattene da amico. Libera la

      gente da questa paura, può darsi del tutto infondata, ma nell'animo di

      tutti vi è questo convincimento: soltanto quando il nome dei Tarquini

      scomparirà da Roma, la monarchia sarà solo più un ricordo.» Sulle prime il

      console rimase senza parole di fronte a una cosa così sbalorditiva e

      imprevedibile. Poi, quando stava per replicare, viene circondato dai

      personaggi più influenti della città i quali gli rivolgono la stessa

      richiesta, anche se con scarso successo emotivo. Spurio Lucrezio, invece,

      univa il prestigio dell'anzianità allasua posizione di suocero: perciò,

      quando cominciò, passando dalla supplica alla persuasione, a convincerlo

      di piegarsi alla volontà unanime del popolo, Collatino, temendo che allo

      scadere del mandato consolare si sarebbe ritirato a vita privata senza più

      nulla in mano e con magari l'aggiunta di qualche altra ignominiosa

      aggravante, rinunciò alla sua carica e abbandonò Roma dopo aver trasferito

      a Lavinio tutti i suoi beni. Su delibera del senato, Bruto propose al

      popolo un decreto che sancisse l'esilio per tutti i membri della famiglia

      dei Tarquini. Con l'approvazione dei comizi centuriati nominò suo collega

      Publio Valerio, che era stato un valido aiuto nella cacciata dei re.

      

      3 Pur non essendoci dubbi che fosse imminente una guerra coi Tarquini,

      l'attacco fu sferrato più tardi di quanto si potesse prevedere. Invece, e

      questo nessuno poteva prevederlo, gli intrighi e i tradimenti per poco non

      privarono Roma della sua libertà. Tra i giovani romani ve n'erano alcuni,

      di condizioni non modeste, che in epoca monarchica avevano avuto meno

      difficoltà a vivere in maniera sregolata e che essendo coetanei e compagni

      dei giovani Tarquini erano cresciuti con abitudini principesche. Quindi,

      ora che tutti godevano di uguali diritti, rimpiangevano la licenziosità di

      un tempo e si lamentavano reciprocamente che la libertà degli altri fosse

      diventata la loro schiavitù. Il re era un uomo dal quale si poteva

      ottenere un favore, lecito o illecito che fosse; c'era spazio per

      l'appoggio e per il beneficio; poteva passare dalla collera al perdono, ma

      sapeva distinguere tra amici e nemici. La legge era invece un qualcosa di

      sordo e inesorabile, migliore e più vantaggiosa per l'indigente che per il

      benestante, ma priva di flessibilità e di indulgenza quando si passava la

      misura. Troppo pericoloso vivere di sola innocenza, visto che l'esistenza

      di un uomo è tutta una debolezza. Erano già quindi di per se stessi

      maldisposti intimamente quando arrivarono degli inviati da Tarquinio i

      quali non fecero accenno al rientro ma si limitarono a reclamarne le

      proprietà. Il senato diede loro ascolto e poi discusse la questione per

      alcuni giorni: un rifiuto avrebbe costituito un buon pretesto per la

      guerra, mentre una risposta affermativa una forma di sussidio e di

      assistenza per permettergli di portare avanti la guerra stessa. Nel

      frattempo gli inviati si mossero in un'altra direzione: col pretesto

      ufficiale di reclamare le proprietà della famiglia reale, sotto sotto

      tramavano per restaurare la monarchia e, pur dando a vedere di compiere la

      loro missione, saggiavano la disposizione psicologica dei giovani nobili.

      A tutti quelli che sembravano interessati alla cosa consegnarono una

      lettera dei Tarquini e organizzarono un complotto per farli rientrare

      segretamente in città durante la notte.

      

      4 I primi a essere messi al corrente del progetto furono i fratelli

      Vitelli e i fratelli Aquili. La sorella dei Vitelli aveva sposato il

      console Bruto e da quel matrimonio eran nati due figli, Tito e Tiberio,

      già piuttosto grandi. Gli zii coinvolsero anche loro nel complotto, oltre

      ad alcuni altri giovani nobili i cui nomi si son però persi col tempo.

      Dato che in senato avevano nel frattempo avuto la meglio quanti

      sostenevano la tesi della restituzione dei beni, gli inviati ebbero un

      pretesto in più per trattenersi a Roma in quanto i consoli gli concessero

      il tempo necessario per procurarsi i carri con cui portar via ciò che

      apparteneva alla famiglia reale. Trascorrono tutto questo tempo in

      conciliaboli con i congiurati e, a forza di insistere, ne ottengono una

      lettera da consegnare ai Tarquini (i quali altrimenti come avrebbero

      potuto fidarsi ciecamente dei loro inviati visto che si trattava di una

      questione così delicata?). Queste lettere, destinate a essere una garanzia

      di affidabilità, costituirono la prova concreta del complotto criminoso.

      Infatti, il giorno prima che gli inviati tornassero dai Tarquini, ci fu

      una cena, guarda caso, proprio dai Vitelli. Lì i congiurati, dopo aver

      congedato gli altri invitati (potenziali testimoni), chiacchierarono a

      lungo ovviamente sul recente progetto. I loro discorsi furono però

      intercettati da uno schiavo che aveva già prima subodorato quel che stava

      per succedere ma aspettava il momento della consegna delle lettere agli

      inviati per provare la fondatezza della sua accusa con l'intercettazione

      delle stesse. Quando vide che la consegna era avvenuta, andò a denunciarli

      ai consoli. Questi si precipitarono a casa dei Vitelli dove colsero in

      flagrante legati e congiurati e liquidarono la cosa senza troppo rumore,

      facendo attenzione soprattutto che non sparissero le lettere. I traditori

      furono arrestati immediatamente. Quanto invece ai legati, ci fu un attimo

      di esitazione: poi, pur ritenendo che meritassero un trattamento da

      nemici, prevalse il diritto delle genti.

      

      5 La restituzione delle proprietà reali, già approvata in precedenza, fu

      di nuovo messa in discussione di fronte al senato. Questa volta

      l'indignazione ebbe la meglio. Si votò contro la restituzione, ma anche

      contro la confisca da parte dello Stato: la plebe avrebbe avuto carta

      bianca sulle proprietà reali, in maniera tale da rinunciare per sempre,

      devastandole, all'idea di far pace coi discendenti dei Tarquini. Le loro

      terre, situate tra Roma e il Tevere, furono consacrate a Marte e in

      séguito divennero il Campo Marzio. Pare che al momento ci fosse solo grano

      e per giunta pronto per il raccolto. Siccome mangiare il grano del Campo

      Marzio sarebbe stato un sacrilegio, le spighe furono tagliate con tutto lo

      stelo da una gran massa di persone contemporaneamente e gettate in ceste

      di vimini nel Tevere che scorreva a basso regime d'acqua, come sempre

      succede in piena estate. Così le fascine di spighe, andandosi a impigliare

      dove l'acqua era meno profonda, si sarebbero depositate sul fango del

      fondale e di lì, a poco a poco e anche grazie ai detriti di altra natura

      che il fiume trascina accidentalmente a valle, si sarebbe formata

      un'isola. In séguito, suppongo, vennero aggiunti dei terrapieni e si

      lavorò manualmente per innalzare il livello del terreno e metterlo in

      condizione di ospitare templi e portici.

      Finita la devastazione delle proprietà reali, i traditori furono

      condannati e la loro esecuzione risultò ancora più notevole in quanto la

      carica di console costrinse il padre al compito ingrato di infliggere la

      condanna ai propri figli; infatti, mentre proprio Bruto avrebbe dovuto

      essere la persona esentata dall'assistere al loro supplizio, la fatalità

      della sorte lo designò invece come esecutore ultimo della pena. Legati al

      palo c'erano dei giovani tra i più nobili di Roma; ma gli altri, come se

      fossero stati delle persone qualunque, non attiravano minimamente

      l'attenzione: tutti avevano occhi soltanto per i figli del console e ne

      compativano la pena non meno del reato per cui l'avevano meritata. Proprio

      quello stesso anno che la patria aveva riconquistato la libertà e per

      merito del loro padre, lo stesso anno che il consolato era stato

      inaugurato dalla famiglia Giunia, quei giovani avevano avuto il coraggio

      di tradire senatori, plebe e tutto ciò che era romano in cielo e in terra,

      nonché di consegnare ogni cosa in mano a colui che prima era stato un re

      tirannico e che adesso rimaneva un nemico in esilio. I consoli presero

      posto sui loro seggi e diedero ordine ai littori di eseguire la sentenza.

      I colpevoli, completamente nudi, vennero flagellati con verghe e poi

      decapitati. Per l'intero corso dell'esecuzione gli occhi di tutti rimasero

      puntati sull'espressione del padre, sul cui volto di occasione per

      l'ufficialità della carica era segnato nettissimo il dolore paterno. A

      fine esecuzione, perché l'esempio potesse essere un deterrente doppiamente

      efficace nello scoraggiare il crimine, allo schiavo autore della denuncia

      venne assegnato un premio in denaro a spese dello Stato nonché concesse

      l'affrancatura e la cittadinanza. Si dice che egli fu il primo a essere

      liberato con la vindicta e addirittura c'è chi sostiene che l'etimologia

      di questo termine sia da ricondurre al nome di quello schiavo (che

      affermano si chiamasse Vindicio). Sta di fatto che, dopo di lui, divenne

      una prassi costante considerare cittadini a tutti gli effetti quanti

      venivano liberati con quel tipo di affrancatura.

      

      6 Quando Tarquinio venne a sapere com'erano andate le cose, non riuscì a

      contenere lo sconforto sia per il crollo di tutte le sue speranze sia per

      l'odio e la bile. Vedendo che la strada del piano doloso era completamente

      sbarrata, allora decise di ricorrere alla guerra aperta e cominciò ad

      andare in giro a supplicare le città etrusche dei dintorni, in particolar

      modo Tarquinia e Veio. Ricordava loro che era un etrusco anche lui con lo

      stesso sangue nelle vene, e li implorava che non lasciassero morire di

      fronte ai loro occhi i suoi figli e lui stesso, ora povero ma un tempo

      arrivato al massimo della potenza. Altri erano stati chiamati a regnare a

      Roma: lui, invece, quando era già sul trono e aveva ingrandito l'impero

      con le sue conquiste, era stato cacciato a séguito di un infame complotto

      ordito dai suoi parenti. Questi ultimi poi, vedendo che in città non c'era

      uno solo degno di diventare re, avevano messo le mani sul potere

      spartendoselo tra di loro e, perché nessuno rimanesse estraneo alla

      razzia, avevano consegnato i suoi beni in mano alla plebe che ne facesse

      scempio. Il suo unico desiderio era riprendersi terra e scettro e punire

      l'ingratitudine dei suoi sudditi. Quindi che lo aiutassero e lo

      assistessero. A loro volta si sarebbero vendicati degli affronti di un

      tempo, delle tante disfatte patite in battaglia e di tutta la terra

      perduta. Questi argomenti toccarono i Veienti e ciascuno per parte sua

      gridava in tono minaccioso che almeno agli ordini di un romano bisognava

      vendicare le umiliazioni subite e riprendersi quel che si era perso in

      guerra. A Tarquinia, invece, fanno presa il nome e la parentela: li

      attirava l'idea che a Roma regnasse uno dei loro.

      Così due città e due eserciti seguirono Tarquinio con l'intento di

      riconquistargli il regno e di vendicarsi militarmente dei Romani. Quando

      entrarono in territorio romano, i consoli avanzarono contro il nemico:

      Valerio guidava la fanteria disposta in ordine compatto mentre Bruto lo

      precedeva in esplorazione con la cavalleria. Anche nell'armata nemica il

      primo corpo era la fanteria, agli ordini di Arrunte Tarquinio figlio del

      re. Questi era dietro col resto delle truppe. Arrunte, individuando da

      lontano prima i littori, capì che il console era lì nei pressi. Poi,

      quando avvicinandosi riconobbe senza orma di dubbio i lineamenti di Bruto,

      infiammato dalla rabbia, urlò: «Ecco laggiù l'uomo che ci ha cacciati

      dalla terra in cui siamo nati. È proprio lui. Guardatelo come avanza

      tronfio delle nostre insegne! O dèi che vendicate i re, assisteteci!»

      Sprona il cavallo e si butta a testa bassa dritto contro il console. Bruto

      allora si sentì minacciato. Dato però che in quel tempo era motivo

      d'orgoglio per i comandanti buttarsi nella mischia in prima persona, Bruto

      per questo accetta la sfida senza pensarci un attimo. I due si scontrarono

      con un accanimento incredibile, preoccupandosi soltanto di colpire

      l'avversario e non di schivarne i colpi. Così, trafitti l'uno e l'altro

      dall'asta dell'avversario passata attraverso lo scudo, furono sbalzati da

      cavallo e franarono a terra in fin di vita. Nello stesso istante ebbe

      inizio anche lo scontro tra il resto delle due cavallerie e poco dopo

      toccò alle fanterie scendere in campo. Si combatté con alterno successo e

      l'esito della battaglia rimase legato a un filo. L'ala destra di entrambi

      gli schieramenti aveva la meglio, mentre la sinistra cedeva. I Veienti,

      abituati alla sconfitta con le truppe romane, furono sbaragliati e

      dispersi, I Tarquini, invece, avversario nuovo e sconosciuto, non si

      limitarono a reggere bene l'urto ma riuscirono anche a respingere quella

      parte dell'esercito romano che si trovava nel loro settore.

      

      7 Nonostante l'andamento incerto della battaglia, Tarquinio e gli Etruschi

      furono presi da un panico tale che abbandonarono l'impresa senza portarla

      a compimento e quella stessa notte entrambi gli eserciti, il veiente e il

      tarquiniense, se ne tornarono nei loro paesi. Il racconto di questa

      battaglia contiene anche del prodigioso: nel silenzio della notte

      successiva pare si sia sentita una voce proveniente dalla selva Arsia e

      identificata con quella del dio Silvano, la quale avrebbe detto: «Gli

      Etruschi hanno perso un uomo in più in battaglia, quindi la vittoria della

      guerra va ai Romani.» A ogni modo i Romani se ne andarono da vincitori,

      gli Etruschi da vinti. Infatti, quando alle prime luci del giorno non ci

      fu più l'ombra di un nemico in vista, il console Publio Valerio raccolse

      le spoglie e fece rientro a Roma in trionfo. Celebrò il funerale del

      collega nella maniera più sontuosa possibile per l'epoca. Quel che però fu

      ben più clamoroso per la sua memoria fu il lutto civile e, all'interno di

      esso, il fatto che le donne di Roma lo piansero per un anno, come se fosse

      stato un padre, per l'accanimento che aveva mostrato nel vendicare

      l'oltraggio alla castità femminile.

      In séguito, il console sopravvissuto alla battaglia, vittima della

      volubilità del volgo, vide crollare la propria popolarità nell'avversione

      e fu oggetto di sospetti e accuse abominevoli. Si vociferava che aspirasse

      a diventare re perché non aveva sostituito Bruto con un un nuovo collega e

      perché si stava facendo costruire una casa in cima alla Velia, una collina

      naturalmente fortificata che, così si diceva, sarebbe diventata per lui

      una rocca inespugnabile. Queste calunnie del popolino, cui si dava credito

      nonostante fossero infondate, esacerbarono il console che, convocata

      un'assemblea generale, salì sulla tribuna dopo aver fatto abbassare i

      fasci. Per la gente fu uno spettacolo graditissimo vedere abbassati

      davanti a lei i simboli del potere, a indicare esplicitamente che la

      maestà e l'autorità del popolo erano superiori a quelle del console.

      Quindi, dopo aver richiesto l'attenzione dell'uditorio, il console lodò la

      buona sorte del collega che, dopo aver liberato la patria ed esserne

      assurto ai sommi onori, era morto in battaglia per la repubblica, nel

      pieno della gloria e prima che questa potesse degenerare in impopolarità.

      Lui, sopravvivendo alla sua stessa gloria, adesso passava da una calunnia

      all'altra e da liberatore della patria era stato declassato al rango degli

      Aquili e dei Vitelli. «Sarà dunque mai possibile che con voi la virtù non

      finisca nel fango dell'oltraggio? Dovrei temere di essere accusato di

      aspirare al trono io, il nemico più acerrimo della monarchia? Anche se

      andassi ad abitare addirittura sulla rocca del Campidoglio, dovrei credere

      di incutere timore nei miei concittadini? Possibile che una banalità del

      genere riesca a rovinare la mia reputazione presso di voi? La vostra

      fiducia poggia su fondamenti così fragili che la collocazione della mia

      casa conta di più della mia persona? E sia: la casa di Publio Valerio non

      sarà una minaccia alla vostra libertà, o Quiriti: non abbiate paura per la

      Velia. Mi sposterò in pianura, anzi no, ai piedi di un colle in modo di

      abitare sotto di voi visto che sono un cittadino sospetto. Sulla Velia ci

      costruisca chi può dare maggiore affidamento per la libertà di quanto non

      ne offra Publio Valerio.» Fece subio spostare tutti i materiali tra la

      Velia e il punto dove oggi sorge il tempio di Vica Pota e lì, ai piedi del

      pendio, venne costruita la casa.

      

      8 In séguito furono presentate delle leggi che non solo affrancarono il

      console dal sospetto di voler restaurare la monarchia, ma che al contrario

      ebbero anche un effetto tale da renderlo addirittura popolare e da

      meritargli il soprannome di Publicola. Tra tutte le proposte, quella che

      permetteva di appellarsi contro un magistrato in presenza del popolo e

      quella che autorizzava l'anatema contro la persona e i beni di chiunque

      avesse nutrito aspirazioni monarchiche ebbero un'accoglienza

      particolarmente calorosa da parte del volgo. Dopo aver fatto passare

      queste leggi da solo (per non spartirne il merito con nessun altro),

      allora finalmente bandì delle elezioni per rimpiazzare il collega morto.

      Venne eletto console Spurio Lucrezio, il quale, troppo avanti negli anni

      per tenere testa ai molti compiti dell'ufficio, morì pochi giorni dopo. Lo

      si sostituì quindi con Marco Orazio Pulvillo. Vedo però che alcuni storici

      antichi non menzionano il consolato di Lucrezio e indicano in Orazio

      l'immediato successore di Bruto. Ho l'impressione che del mandato di

      Lucrezio se ne perse memoria perché durante quel periodo non successe

      nulla di importante.

      Il tempio di Giove sul Campidoglio non era ancora stato dedicato. I

      consoli Valerio e Orazio tirarono a sorte chi avrebbe dovuto assumersi

      quell'incarico. Uscì il nome di Orazio e Publicola partì per una campagna

      contro i Veienti. Che la consacrazione di un tempio così famoso fosse

      toccata a Orazio irritò oltremisura i parenti di Valerio che cercarono in

      tutti i modi di ostacolarla. Esaurita ogni risorsa, quando ormai il

      console aveva già la mano sul montante della porta ed era nel pieno della

      sua invocazione alle divinità, essi interruppero la cerimonia gridando

      l'agghiacciante notizia che Orazio aveva perso un figlio e che il padre di

      un morto non era nelle condizioni di consacrare un tempio. Se egli abbia

      reagito non dando credito alla cosa o dimostrando grande forza d'animo,

      non lo sappiamo con certezza né è facile fare delle congetture al

      riguardo. Sta di fatto che, senza lasciarsi distogliere dalla notizia se

      non per dare ordine di seppellire il cadavere, tenendo la mano sul

      montante, completò l'invocazione e consacrò il tempio.

      Furono questi gli avvenimenti politici e militari del primo anno di regime

      repubblicano.

      

      9 I consoli di quello successivo furono Publio Valerio (per la seconda

      volta) e Tito Lucrezio. In quel tempo i Tarquini si erano rifugiati presso

      Larte Porsenna, re di Chiusi. Là, in un misto di consigli e suppliche, lo

      pregavano di non lasciar stentare nell'indigenza dell'esilio gente ch'era

      di origine etrusca e aveva nelle vene il sangue della sua stessa razza,

      oppure, a seconda dei giorni, lo invitavano anche a sopprimere sul nascere

      la recente moda di detronizzare i re. La libertà era già abbastanza

      allettante di per se stessa. Se i re non difendevano i loro regni con la

      stessa forza con cui i sudditi cercavano di ottenere la libertà, non ci

      sarebbe più stata differenza tra l'alto e il basso, e gli Stati non

      avrebbero più avuto quel qualcosa di superiore capace di svettare al di

      sopra di tutto il resto. Sarebbe stata la fine della monarchia,

      l'istituzione più bella mai vista da uomini e dèi. Porsenna, pensando che

      sarebbe stato meglio per gli Etruschi se a Roma ci fosse non solo un re,

      ma un re di sangue etrusco, marciò su Roma con le sue truppe. Mai prima il

      senato aveva provato un panico simile, tante erano allora la potenza di

      Chiusi e la fama di Porsenna. E non temeva soltanto i nemici, ma gli

      stessi concittadini, perché la plebe romana, in preda al terrore, avrebbe

      potuto riammettere in città i re e accettarne il giogo, pur di avere la

      pace. Proprio in quell'occasione il senato fece di tutto per dimostrarsi

      attento alle esigenze della plebe: prima di ogni altra cosa si ebbe

      particolare cura dell'annona e vennero spediti degli emissari tanto ai

      Volsci quanto a Cuma con l'obiettivo di procurare frumento. E ancora, il

      commercio del sale, il cui prezzo era salito alle stelle, fu tolto ai

      privati e divenne monopolio di stato. La plebe godette dell'esonero dai

      dazi e dai tributi e le classi abbienti dovettero provvedere a quest'onere

      fiscale nella misura in cui erano in grado di farlo: i poveri bastava

      pagassero allevando i figli. Questa liberalità dei senatori, quando poi

      arrvarono i tempi duri dell'assedio e della fame, riuscì a creare

      un'unione tale tra le classi che il nome del re suscitò la stessa paura

      nei cittadini di bassa e di alta estrazione, e in séguito nessuno divenne

      tanto popolare grazie agli espedienti della demagogia, quanto lo fu

      l'intero senato per l'accorta moderazione del suo operato.

      

      10 Quando apparvero i nemici ci fu un fuggi fuggi generale dalle campagne

      a Roma e Roma stessa fu munita di presidi armati. Certe zone davan

      l'impressione di esser sicure per via delle fortificazioni, altre per

      l'ostacolo costituito dal Tevere. Il ponte Sublicio però avrebbe quasi

      offerto una breccia al nemico, se non fosse stato per un uomo solo, Orazio

      Coclite, il quale in quel giorno fece da sostegno alle sorti di Roma.

      Destinato per caso alla guardia del ponte, vide che i nemici si erano

      impossessati del Gianicolo con un attacco a sorpresa e da quel punto

      stavano correndo giù a rotta di collo, mentre i suoi compagni, in preda al

      panico più totale, rompevano le righe e buttavano le armi. Allora,

      trattenendoli uno per uno, bloccando loro la strada e chiamando a

      testimoni gli uomini e gli dèi, urlava che era inutile che fuggissero dopo

      aver abbandonato i loro posti: in un attimo sul Palatino e sul Campidoglio

      ci sarebbero stati più nemici che sul Gianicolo, se si fossero lasciati

      alle spalle il ponte incustodito. Così li esorta e li spinge a

      distruggerlo col ferro, col fuoco o con qualsiasi altro mezzo a loro

      disposizione: avrebbe retto lui l'urto dei nemici, nei limiti del

      possibile per un corpo solo. Quindi avanza a grandi passi verso l'ingresso

      del ponte, facendosi notare in mezzo alle schiere dei compagni che

      rinunciavano a scontrarsi e sbalordendo gli Etruschi con l'incredibile

      coraggio che dimostrava nell'affrontarli armi alla mano. Trattenuti dal

      senso dell'onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e

      Tito Erminio, entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu

      con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima

      ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase

      in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli

      urlavano di ripiegare, costrinse anche loro a mettersi in salvo. Quindi,

      lanciando occhiate di fuoco ai capi etruschi, passava dallo sfidarli

      singolarmente a duello ad accusarli tutti insieme di essere schiavi

      dell'arroganza monarchica e di esser venuti a minacciare la libertà altrui

      senza pensare alla propria. Essi allora ebbero un attimo di incertezza, e

      si guardarono l'uno l'altro prima di attaccare. Poi, spinti dalla

      vergogna, si buttarono tutti insieme all'assalto e gridando a gran voce

      concentrarono i loro tiri contro quell'unico nemico. Ma Orazio riuscì a

      ripararsi con lo scudo da tutti i colpi e non si mosse di un centimetro

      dalla sua posizione di difesa a oltranza del ponte e quando gli Etruschi

      erano ormai sul punto di travolgerlo per farsi strada, il fragore del

      ponte che andava in pezzi e insieme l'esplosione di gioia dei Romani per

      aver portato rapidamente a termine l'operazione li spaventarono e ne

      contennero l'urto. In quel preciso momento Coclite gridò: «O padre

      Tiberino, io ti prego solennemente, accogli benigno nella tua corrente

      questo soldato con le sue armi!» Detto questo, si tuffò nel Tevere armato

      di tutto punto e sotto una pioggia fittissima di frecce arrivò indenne a

      nuoto fino dai suoi compagni, protagonista di una impresa destinata ad

      avere presso i posteri più fama che credito. Lo Stato ricompensò il suo

      eroismo con una statua in pieno comizio e con la concessione di tutta la

      terra che fosse riuscito ad arare nello spazio di un giorno. Accanto agli

      onori ufficiali ci furono anche manifestazioni di gratitudine da parte dei

      privati: infatti, nonostante il periodo di grande carestia, ogni

      cittadino, in proporzione alle proprie disponibilità, si privò di parte

      della sua razione di viveri per fargliene dono.

       

      11 Porsenna, respinto al primo attacco, modificò la sua strategia,

      passando dall'idea dell'assalto a quella dell'assedio. Piazzò una

      guarnigione armata sul Gianicolo e si accampò in pianura lungo le rive del

      Tevere. Quindi, mettendo insieme una flottiglia con le imbarcazioni

      reperibili nei dintorni, la impiegò per un blocco alle importazioni di

      grano a Roma e per permettere ai suoi uomini di compiere di tanto in tanto

      delle razzie, in questo o quel punto, dall'altra parte del fiume. In un

      breve lasso di tempo rese ogni zona della campagna romana così insicura

      che i contadini dovettero ricoverare all'interno delle mura non solo tutto

      ciò che avevano nei campi, ma anche il bestiame che nessuno più osava

      portare al pascolo fuori città. Tutta questa libertà concessa agli

      Etruschi non era tanto il risultato della paura quanto di un preciso

      disegno. Infatti il console Valerio, in attesa dell'occasione propizia per

      assalire di sorpresa un numero consistente di nemici quando questi fossero

      stati sparpagliati, lasciava correre le aggressioni di poco conto e si

      riservava una vendetta in grande per circostanze ben più significative.

      Così, per attirare i razziatori, con un bando fece ordinare ai suoi di

      uscire in massa con le greggi, il giorno successivo, dalla porta Esquilina

      (la più distante dalle posizioni nemiche), persuaso che gli Etruschi

      l'avrebbero sùbito saputo perché l'assedio e la carestia spingevano gli

      schiavi infedeli alla diserzione. E infatti fu da un disertore che lo

      vennero a sapere e così guadarono il Tevere in molti più del solito,

      sperando in un ricco bottino. Publio Valerio ordina allora a Tito Erminio

      di appostarsi con un modesto contingente sulla via Gabinia a due miglia da

      Roma; a Spurio Larcio, invece, di andare alla porta Collina con un corpo

      di giovani fanti armati alla leggera e di attendere il passaggio dei

      nemici per poi tagliare loro la via della ritirata facendo da diaframma

      tra essi e il fiume. Dei due consoli, Tito Lucrezio uscì dalla porta Nevia

      con alcuni manipoli, mentre Valerio guidò personalmente sul monte Celio

      delle truppe scelte che per prime sarebbero state viste dal nemico. Appena

      Erminio capì che lo scontro era iniziato, uscì dal suo nascondiglio e

      piombò sulle retrovie degli Etruschi che invece erano rivolti nella

      direzione di Lucrezio. A sinistra, dalla porta Collina, e a destra, da

      quella Nevia, gli rispose un coro di voci: i predatori furono circondati e

      fatti a pezzi, inferiori com'erano di numero ai Romani e oltretutto

      tagliati fuori da ogni possibile ritirata. Questo episodiosegnò la fine

      delle scorribande etrusche.

      

      12 L'assedio non era certo meno pressante, il frumento caro e scarso e

      Porsenna, insistendo con la sua tattica, nutriva speranze di espugnare

      Roma. Intanto, Caio Muzio, giovane di nobile famiglia, non poteva

      sopportare che il suo popolo, mai assediato da potenze straniere durante

      il periodo di schiavitù monarchica, una volta libero dovesse ora essere

      schiacciato dentro le mura dagli Etruschi che, in campo militare, con Roma

      avevano conosciuto solo sconfitte. Determinato a vendicare l'indegna

      situazione in atto con un qualche gesto audace, sulle prime decise, senza

      consultare nessuno, di penetrare nell'accampamento nemico. Ma in séguito,

      temendo che una missione priva dell'autorizzazione consolare e ignorata da

      tutti avrebbe potuto costargli l'arresto per diserzione se le sentinelle

      romane lo avessero sorpreso (accusa peraltro molto verisimile dati i tempi

      e il luogo), comparì di fronte al senato e disse: «Senatori, vorrei

      attraversare il Tevere e penetrare, se possibile, nell'accampamento

      nemico, ma non per fare razzia e ripagare il vandalismo con la stessa

      moneta. No, con l'aiuto degli dèi ho in mente qualcosa di più grande.» I

      senatori approvano e Muzio parte con una spada nascosta sotto la veste.

      Arrivato all'accampamento etrusco, si mescola nel fitto della folla di

      fronte al palco del re. Casualmente era giorno di paga per i soldati e

      c'era uno scrivano, seduto accanto al re e vestito press'a poco come lui,

      al quale si rivolgevano quasi tutti i soldati e che era estremamente

      affaccendato. Siccome Muzio non voleva chiedere quale dei due fosse

      Porsenna (perché ignorando una cosa del genere si sarebbe smascherato), si

      affidò alla sorte e sgozzò lo scrivano al posto del re. Poi si dileguò,

      facendosi largo con la spada insanguinata in mezzo alla folla in preda al

      panico. Appena però la gente cominciò a gridare all'impazzata, arrivarono

      da ogni parte le guardie reali e, dopo averlo catturato, lo portarono di

      fronte al palco del re. E lì, pur trattandosi di un situazione

      rischiosissima e continuando più a incutere paura che ad averne, disse:

      «Sono romano e il mio nome è Caio Muzio. Volevo uccidere un nemico da

      nemico, e morire non mi fa più paura di uccidere. Il coraggio nellagire e

      nel soffrire è cosa da Romani. E io non sono il solo ad avere questi

      sentimenti nei tuoi confronti: dopo di me è lunga la lista dei nomi di

      quelli che vorrebbero avere questo onore. Perciò, da oggi in poi, se ci

      tieni alla vita, prepàrati a difenderla a ogni ora del giorno e abìtuati

      all'idea di un nemico armato fin nel vestibolo della reggia. Questa è la

      guerra che la gioventù romana ti dichiara: niente scontri, niente

      battaglie, non temere. Sarà soltanto una cosa tra te e uno di noi.» Poiché

      il re, insieme furibondo e terrorizzato dal pericolo corso, minacciava di

      ordinare che lo mandassero al rogo se non si sbrigava a chiarire tutta

      quella serie di oscure minacce nei suoi confronti, Muzio esclamò:

      «Attento! Questo è il valore che dà al corpo chi aspira a una grande

      gloria!» E così dicendo infila la mano destra in un braciere acceso per un

      sacrificio e la lascia bruciare come se fosse stato privo di sensazioni.

      Il re allora, sbalordito dall'episodio senza precedenti, dopo essersi

      alzato di scatto dal suo scanno e aver fatto allontanare il giovane

      dall'altare, disse: «Vattene, sei libero: sei riuscito a infierire contro

      la tua persona più di quanto tu non abbia fatto con la mia. Onorerei il

      tuo coraggio se fosse al servizio del mio paese. Dato che le cose non

      stanno così, ti risparmio la corte marziale e ti lascio libero senza che

      ti si torca un capello.» Allora Muzio, quasi per ricambiarne la

      generosità, disse: «Visto che stimi il coraggio, ti dirò quel che non mi

      hai strappato con la minaccia: abbiamo giurato in trecento, il meglio

      della gioventù romana, di attentare alla tua vita in questo modo. Io sono

      stato sorteggiato per primo. Gli altri, qualunque sia la sorte di quelli

      che li hanno preceduti, faranno lo stesso, ciascuno quando sarà il suo

      turno, fino al giorno in cui il destino non ti esporrà ai nostri colpi.»

      

      13 Il rilascio di Muzio, poi soprannominato Scevola per la perdita della

      mano destra, fu seguito dall'invio di ambasciatori a Roma da parte di

      Porsenna. Il primo pericolo corso, ed evitato solo per un errore del

      sicario, e l'idea di dover affrontare la stessa situazione un numero di

      volte pari a quello dei futuri aggressori, lo avevano scosso al punto da

      arrivare a offrire spontaneamente la pace ai Romani. Tra le clausole della

      proposta c'era quella concernente la restaurazione dei Tarquini sul trono:

      pur sapendo che sarebbe stata un buco nell'acqua, Porsenna la avanzò, più

      perché non se la sentiva di dire di no ai Tarquini piuttosto che per

      ignoranza del sicuro rifiuto da parte romana. Ottenne invece la

      restituzione ai Veienti del loro territorio. Quanto ai Romani, dovevano

      consegnare degli ostaggi, se volevano che venisse ritirata la guarnigione

      armata dal Gianicolo. Conclusa la pace a queste condizioni, Porsenna

      ritirò le sue truppe dal Gianicolo e abbandonò il territorio romano. Per

      ricompensare il coraggio dimostrato, i senatori fecero dono a Caio Muzio

      di un terreno al di là del Tevere che in séguito prese il nome di Prati

      Muzi. Questi onori resi alle virtù virili spinsero anche le donne ad atti

      di patriottismo. Così, una ragazza di nome Clelia, cui era toccato di

      trovarsi nel numero degli ostaggi, siccome l'accampamento etrusco era

      situato casualmente vicino alla riva del Tevere, riuscì a sfuggire alle

      sentinelle, e, con al séguito un gruppo di coetanee, attraversò a nuoto il

      fiume sotto una pioggia di frecce, e le ricondusse sane e salve ai parenti

      in città. Appena il re lo venne a sapere, montò su tutte le furie e in un

      primo tempo mandò degli ambasciatori a Roma per chiedere la restituzione

      dell'ostaggio Clelia, senza preoccuparsi troppo di tutte le altre ragazze.

      Poi però, passato dalla collera all'ammirazione, disse che un'impresa del

      genere superava quelle dei Cocliti e dei Muzi e che il rifiuto di

      restituire l'ostaggio sarebbe stato considerato una violazione del

      trattato. Se invece gliel'avessero consegnata lui l'avrebbe restituita ai

      suoi senza farle alcun male. Entrambe le parti mantennero la parola: i

      Romani riconsegnarono il pegno di pace, come previsto dal trattato, e il

      re etrusco non solo protesse la ragazza, ma ne onorò il coraggio con

      questa forma di riconoscimento: le avrebbe donato parte degli ostaggi e

      lei stessa poteva scegliere quali portarsi con sé. Quando li ebbe tutti

      davanti, pare che abbia preferito gli adolescenti, sia perché la scelta

      era più in sintoni con la sua età, sia perché avrebbe probabilmente avuto

      l'approvazione degli ostaggi stessi, in quanto la cosa migliore era

      togliere al nemico chi si trovava nell'età maggiormente esposta a

      possibili rischi. Una volta ristabilita la pace, i Romani immortalarono

      quell'atto di coraggio nuovo in una donna con un onore anch'esso nuovo: in

      cima alla Via Sacra le fu dedicata una statua equestre che rappresentava

      una ragazza in groppa a un cavallo.

      

      14 Questa ritirata così pacifica degli Etruschi da Roma stride con

      l'usanza, giunta insieme ad altre fino ai giorni nostri dai tempi antichi,

      di «mettere in vendita i beni di Porsenna». È giocoforza che una pratica

      simile sia nata durante la guerra e poi sia stata mantenuta in tempo di

      pace, oppure abbia avuto origine a séguito di qualche episodio meno

      cruento dell'aggiudicazione dei beni tolti in guerra al nemico, cui la

      formula fa esplicito riferimento. La versione più verisimile tra quelle

      tramandate è questa: quando Porsenna evacuò il Gianicolo, abbandonò il suo

      accampamento ricco di vettovaglie provenienti dalla vicina e fertile

      campagna etrusca, e ne fece dono ai Romani, ridotti alla fame dal lungo

      assedio. Tutto quanto c'era fu venduto per evitare che il popolo lo

      razziasse come si razzia una terra nemica. Il nome che toccò a quegli

      oggetti -«beni di Porsenna» - fu più dovuto alla riconoscenza per il dono

      che a un'asta delle proprietà reali (le quali, per altro, non

      appartenevano neppure al popolo romano).

      Abbandonata la guerra con Roma, Porsenna, per non dare l'idea di aver

      portato le sue truppe invano in quella zona, invia il figlio Arrunte ad

      assediare Aricia con parte dell'esercito. Sulle prime l'attacco senza

      preavviso paralizzò gli abitanti di Aricia. Poi però, ricevuti rinforzi

      dalle tribù latine e da Cuma, acquisirono una tale fiducia nei propri

      mezzi che osavano affrontare il nemico in campo aperto. Lo scontro era

      soltanto agli inizi quando gli Etruschi sferrarono un attacco talmente

      poderoso da sbaragliare gli Aricini al primo vero urto. Le coorti venute

      da Cuma, opponendo la tattica alla forza bruta, operarono un lieve scarto

      laterale e si lasciarono superare dai nemici che avanzavano

      disordinatamente; quindi, tornando sui propri passi, li assalirono alle

      spalle. Così gli Etruschi, rimasti presi tra due fuochi, furono fatti a

      pezzi nonostante ormai avessero quasi in mano la vittoria. I pochissimi

      superstiti, privi del loro comandante e di un qualsiasi rifugio più

      vicino, si trascinarono fino a Roma, disarmati e nelle condizioni e

      nell'aspetto tipici dei supplici. Furono accolti benignamente e ospitati

      qua e là presso privati. Una volta rimessisi in sesto, alcuni tornarono a

      casa e riferirono l'accoglienza fraterna ricevuta. Molti invece rimasero a

      Roma, per l'affetto che li legava alla città e ai loro ospiti. Il

      quartiere, che venne loro assegnato perché vi abitassero, in séguito prese

      il nome di Vico Etrusco.

      

      15 Publio Lucrezio e Publio Valerio Publicola furono quindi eletti

      consoli. Quell'anno Porsenna fece l'ultimo tentativo diplomatico per

      restaurare i Tarquini sul trono. Poiché il senato rispose ai legati che

      avrebbe mandato un'ambasceria al re, furono subito inviati i senatori più

      eminenti. Non perché fosse difficile dare una risposta concisa («Niente re

      a Roma»), ma piuttosto perché era meglio che una delegazione del senato la

      desse a lui personalmente piuttosto che ai suoi legati a Roma. Con una

      mossa del genere l'annosa questione non si sarebbe più presentata, né si

      sarebbe corso il rischio di rovinare i buoni rapporti tra i due popoli con

      un'irritazione reciproca. Irritazione per altro giustificatissima in

      quanto Porsenna chiedeva qualcosa di lesivo della libertà romana, mentre i

      Romani, a meno di fare dell'aperto autolesionismo, dovevano dire di no

      alla richiesta di un uomo cui non avrebbero voluto negare nulla. A Roma il

      tempo dei re era finito: ora c'era la libertà repubblicana. Perciò si era

      deciso di aprire le porte ai propri nemici piuttosto che ai re. Questo era

      il voto unanime di tutti: la fine della libertà sarebbe stata anche la

      fine di Roma. Se quindi gli stava a cuore il bene di Roma, lo pregavano di

      non calpestare la loro libertà. Vinto dal senso del rispetto, il re

      rispose: «Siccome vi vedo assolutamente irremovibili, non vi importunerò

      più su una questione senza vie d'uscita né illuderò più i Tarquini con la

      speranza di un aiuto che non è in mio potere garantirgli. Qualunque siano

      le loro intenzioni, risolvere il problema con la guerra o con la

      diplomazia, dovranno cercarsi un'altra sede per il loro esilio, in modo

      che nulla possa incrinare i nostri rapporti.» Le sue parole furono seguite

      da ulteriori dimostrazioni di amicizia: restituì gli ultimi ostaggi e il

      territorio di Veio avuto a séguito del trattato stipulato sul Gianicolo.

      Tarquinio, invece, persa ogni speranza di poter rientrare, si ritirò in

      esilio a Tuscolo, presso il genero Ottavio Mamilio. Così, tra i Romani e

      Porsenna la pace non ebbe più ostacoli.

      

      16 Consoli Marco Valerio e Publio Postumio. Quell'anno si combatté con

      successo contro i Sabini e i due consoli ottennero il trionfo. Poi i

      Sabini si prepararono a una guerra di ben altre proporzioni. Per

      fronteggiare questo pericolo e per evitare altre imprevedibili minacce da

      parte degli abitanti di Tuscolo, i quali, pur senza aver dichiarato guerra

      sembrava avessero tutte le intenzioni di farlo, furono eletti consoli

      Publio Valerio, per la quarta volta, e Tito Lucrezio, alla sua seconda

      esperienza. In campo sabino, tra gli interventisti e i fautori della pace,

      esplose un contrasto e una buona parte di loro passò ai Romani. Infatti,

      Azio Clauso, in séguito conosciuto a Roma come Appio Claudio, capo del

      partito della pace, piegato dalle turbolenze degli interventisti e

      incapace di opporvi una qualche resistenza, abbandonò Inregillo e con un

      gruppo consistente di clienti si venne a stabilire a Roma. A loro fu

      concessa la cittadinanza e un appezzamento di terreno al di là

      dell'Aniene. In questa sede formarono quella che in séguito, grazie

      all'immissione di nuovi membri, venne chiamata la «vecchia tribù claudia».

      Appio, accolto in senato, in breve tempo ne divenne uno dei membri più

      autorevoli. I consoli guidarono una campagna militare in territorio

      sabino, e tanto le devastazioni prima, quanto poi le disfatte inflitte in

      campo aperto al nemico furono così clamorose da rassicurare del tutto

      circa possibili future ribellioni in quella zona. A fine campagna i

      consoli tornarono a Roma in trionfo.

      L'anno successivo, durante il consolato di Menenio Agrippa e Publio

      Postumio, morì Publio Valerio, universalmente considerato il migliore

      degli strateghi e degli statisti. Pur avendo raggiunto il massimo degli

      onori, era così povero da non potersi pagare nemmeno il funerale che fu

      celebrato a spese dello Stato. Le donne lo piansero come avevano pianto

      Bruto. Quello stesso anno, due colonie latine, Pomezia e Cora, defezionano

      passando dalla parte degli Aurunci. Fu subito guerra. Dopo la disfatta di

      un ingente esercito aurunco andato ad affrontare con determinazione le

      truppe consolari che ne avevano invaso il territorio, l'intero conflitto

      si concentrò su Pomezia. Non ci fu un attimo di requie né prima né durante

      la battaglia. Il numero dei caduti superò di gran lunga quello dei

      prigionieri. E questi ultimi vennero passati per le armi senza troppe

      sottigliezze. Nessuna pietà nemmeno per i trecento ostaggi che erano stati

      consegnati. Anche quell'anno Roma vide un trionfo.

      

      17 I consoli dell'anno successivo, Opitro Virginio e Spurio Cassio,

      tentarono di conquistare Pomezia prima con la forza e poi con delle vigne

      e con altri mezzi d'assalto. Durante l'assedio subirono un attacco degli

      Aurunci, i quali, spinti più dall'implacabilità dell'odio che da una

      qualche speranza di sfruttare favorevolmente l'occasione, li assalirono

      armati quasi tutti di tizzoni ardenti al posto delle spade e seminarono

      morte e incendi dappertutto. Diedero fuoco alle vigne, ferirono e uccisero

      molti nemici, e addirittura uno dei consoli - anche se nelle fonti non si

      specifica quale dei due - fu disarcionato, ferito gravemente e per poco

      non perse la vita. Dopo quella disfatta si fece ritorno a Roma. Moltissimi

      i feriti rimpatriati e con loro anche il console, sospeso tra la vita e la

      morte. Non molto tempo dopo - quanto ci volle per curare le ferite e

      rimettere in sesto i ranghi dell'esercito -, si tornò all'attacco di

      Pomezia, con più rabbia e determinazione e con un'armata più consistente.

      Avevano già riattato le vigne e le altre apparecchiature e gli uomini

      stavano per fare breccia nelle mura, quando la città si arrese. Per gli

      Aurunci non ci fu nessuna pietà: nonostante la resa, subirono la stessa

      sorte che sarebbe toccata loro se la città fosse caduta a séguito di un

      assalto. I personaggi più in vista furono decapitati, mentre il resto dei

      coloni vennero venduti come schiavi. La città fu rasa al suolo e la terra

      messa all'incanto. I consoli ebbero il trionfo più per aver vendicato

      implacabilmente gli affronti subiti che per l'importanza del successo

      ottenuto in guerra.

      

      18 L'anno successivo ebbe come consoli Postumio Cominio e Tito Largio.

      Durante la celebrazione dei giochi a Roma, dato che un gruppo di giovani

      sabini infoiati cercò di portarsi via delle prostitute, ci fu subito un

      assembramento di uomini e scoppiò una rissa così simile a una battaglia

      vera e propria da dar l'impressione di non essere un episodio

      insignificante bensì una minaccia di riapertura delle ostilità. Ma il

      pericolo di una nuova guerra coi Latini non era il solo allarme: infatti

      si sapeva ormai per certo che trenta città latine, istigate da Ottavio

      Mamilio, avevano formato una coalizione. La tensione generale dovuta a

      queste cupe notizie portò a suggerire per la prima volta la nomina di un

      dittatore. Circa l'anno e il nome dei consoli sospettati di essere

      «filotarquiniani» (si parla anche di questo) non c'è accordo tra le fonti,

      né si sa con certezza chi sia stato il primo dittatore. Tuttavia vedo che

      gli storici più antichi parlano di Tito Larcio come primo dittatore e di

      Spurio Cassio come maestro di cavalleria. Si propendeva per gli ex

      consoli: così prevedeva la legge presentata sull'elezione del dittatore.

      Proprio per questo motivo tendo personalmente a credere che come

      moderatore e mentore dei consoli venne scelto Larcio che era un ex console

      e non tanto Manio Valerio, figlio di Marco e nipote di Voleso, il quale

      console non lo era ancora stato. Se poi avessero voluto scegliere il

      dittatore proprio da quella famiglia, avrebbero dovuto nominare suo padre,

      Marco Valerio, uomo di specchiata virtù ed ex console.

      Dopo l'elezione del primo dittatore della storia di Roma, quando la gente

      lo vide preceduto dalle scuri, provò una paura tale da obbedire con più

      zelo alla sua parola. Infatti non era più possibile, come nel caso dei

      consoli, i quali dividevano equamente il potere, ricorrere o appellarsi al

      collega, né esisteva altra forma di comportamento che l'obbedienza

      scrupolosa. Anche i Sabini furono presi dal panico quando seppero che a

      Roma era stato nominato un dittatore, tanto più perché credevano fosse

      stato nominato per causa loro. Quindi inviarono ambasciatori con proposte

      di pace. Quando questi chiesero al dittatore e al senato di perdonare

      l'errore commesso da dei giovani, fu loro risposto che ai giovani si

      poteva perdonare, ma non a degli adulti che continuavano a fomentare una

      guerra dopo l'altra. Tuttavia, si intavolarono trattative: la pace sarebbe

      stata garantita se i Sabini avessero acconsentito a indennizzare Roma per

      le spese di preparazione della guerra; questa fu la richiesta. Fu

      dichiarata guerra, ma un tacito accordo mantenne la pace per un anno.

      

      19 Consoli Servio Sulpicio e M. Tullio. Niente di notevole da segnalare.

      Quindi fu la volta di Tito Ebuzio e di Caio Vetusio. Durante il loro

      consolato Fidene fu assediata e Crustumeria conquistata; Preneste passò

      dai Latini ai Romani e non fu più possibile rimandare una guerra coi

      Latini dopo anni di tentennamenti. Aulo Postumio, dittatore, e Tito

      Ebuzio, maestro di cavalleria, si misero in marcia con un massiccio

      schieramento di fanti e cavalieri e incontrarono il nemico presso il lago

      Regillo, nel territorio di Tuscolo. La notizia della presenza dei Tarquini

      tra le fila latine suscitò un'indignazione tale nei Romani da non poter

      rimandare ulteriormente lo scontro. Per questo la battaglia non ebbe

      precedenti quanto a ferocia e accanimento. Infatti i comandanti non si

      limitarono a dirigere le operazioni, ma si buttarono di persona nella

      mischia e quasi nessun membro dei due stati maggiori, salvo il dittatore

      romano, uscì indenne dallo scontro. Postumio era in prima linea a dirigere

      e incoraggiare i suoi uomini, quando Tarquinio il Superbo, nonostante

      l'età e il fisico indebolito, si lanciò al galoppo contro di lui, ma

      rimediò una ferita al fianco e riuscì a scamparla solo grazie

      all'intervento tempestivo dei suoi uomini. All'ala opposta dello

      schieramento, Ebuzio, il maestro di cavalleria, aveva attaccato Ottavio

      Mamilio. La manovra non era però sfuggita al comandante di Tuscolo il

      quale a sua volta gli si era lanciato contro al galoppo. L'urto delle loro

      lance fu così violento che Ebuzio rimase con un braccio trapassato e

      Mamilio fu colpito al petto. I Latini lo coprirono portandolo in seconda

      linea, mentre Ebuzio, che col braccio in quello stato non era più in grado

      di maneggiare un'arma, abbandonò il campo di battaglia. Il comandante

      latino, assolutamente noncurante della ferita, cercava di riaccendere lo

      scontro e, notando un cedimento dei suoi, fece intervenire il battaglione

      degli esuli romani guidati da un figlio di Lucio Tarquinio. Il loro

      accanimento, raddoppiato dall'indignazione per la perdita della patria e

      dei beni, riuscì per un attimo a ristabilire la situazione.

      

      20 Mentre i Romani da quella parte erano già in piena ritirata, Marco

      Valerio, fratello di Publicola, vide che il giovane Tarquinio si stava

      esponendo nelle prime file degli esuli; infiammato dalla gloria della sua

      famiglia, e volendo che dopo l'onore di aver cacciato i re le toccasse ora

      anche quello di averli uccisi, spronò il cavallo e con la lancia in resta

      piombò su Tarquinio. Questi, per evitare la carica forsennata

      dell'avversario, si ritirò in mezzo ai compagni. Mentre Valerio stava

      piombando a testa bassa contro il battaglione degli esuli, uno di essi lo

      centrò lateralmente passandolo da parte a parte. La ferita del cavaliere

      non rallentò l'impeto del cavallo e il giovane romano franò a terra in fin

      di vita coperto dalle armi. Quando il dittatore Postumio si rese conto di

      una simile perdita e vide che gli esuli stavano caricando con una foga

      inaudita mentre i suoi iniziavano a perdere terreno, ordinò alla sua

      coorte (un nucleo speciale di uomini che gli faceva da guardia del corpo)

      di trattare alla stregua di nemici chiunque avesse visto fuggire. La

      doppia paura distolse così i Romani dalla fuga e li respinse contro il

      nemico, risollevando le sorti della battaglia. La coorte del dittatore

      entrò solo allora nel vivo della mischia: fresca com'era di forze e col

      morale intatto, piombò sugli esuli ormai sfiancati e li fece a pezzi. In

      quel momento ci fu un altro scontro fra i capi. Il comandante latino,

      vedendo che il battaglione degli esuli stava per essere circondato dal

      dittatore romano, prese con sé alcuni manipoli della riserva e si lanciò

      in prima linea. Tito Erminio, il comandante in seconda, li vide arrivare e

      riconobbe in mezzo a loro Mamilio, inconfondibile per la tenuta e per le

      armi che portava. Attaccò così il generale avversario con molta più forza

      di quanto non avesse fatto prima il maestro di cavalleria e lo uccise con

      un colpo solo trapassandolo da parte a parte. Nell'attimo in cui stava

      spogliandone il cadavere, fu però anche lui colpito da un'asta nemica.

      Trasportato al campo da vincitore, morì mentre gli venivano somministrate

      le prime cure. Allora il dittatore, vedendo che i fanti erano sfiniti,

      vola in direzione dei cavalieri e li invita a smontare da cavallo e a

      gettarsi nella mischia. Obbediscono alla consegna: saltano a terra, si

      precipitano in prima linea e riparano gli antesignani coi loro scudi. Il

      morale dei fanti, vedendo che il meglio dei giovani nobili combatteva alla

      loro stregua e ne condivideva i rischi, riprende sùbito coraggio. Soltanto

      allora l'urto dei Latini fu contenuto e la loro linea di battaglia si

      disunì perdendo terreno. I cavalieri rimontarono in sella per lanciarsi

      all'inseguimento del nemico. La fanteria dietro. In quel momento, si narra

      che il dittatore, per non trascurare alcun aiuto divino o umano, dedicò un

      tempio a Castore e promise dei premi ai primi due soldati che fossero

      entrati nell'accampamento nemico. I Romani si lanciarono con una foga tale

      che con un unico assalto sbaragliarono il nemico e ne conquistarono il

      campo. Così andarono le cose al lago Regillo. Il dittatore e il maestro di

      cavalleria tornarono a Roma in trionfo.

      

      21 I tre anni successivi non furono caratterizzati né dalla stabilità

      della pace né dalla guerra. Prima furono consoli Quinto Clelio e Tito

      Larcio, poi Aulo Sempronio e Marco Minucio. Durante il consolato di questi

      ultimi venne consacrato il tempio di Saturno e istituita la festività dei

      Saturnali. I consoli successivi furono Aulo Postumio e Tito Verginio. Vedo

      che alcuni autori collocano la battaglia del lago Regillo solo in questa

      data e sostengono che Aulo Postumio, diffidando apertamente del proprio

      collega, avrebbe rinunciato alla carica e sarebbe quindi stato eletto

      dittatore. Visto che ogni storico adotta un criterio arbitrario in materia

      di cronologie e di liste di magistrati, ne consegue che è quasi

      impossibile riferire con esattezza la successione dei consoli e le date

      degli eventi, quando non solo i fatti ma anche gli autori stessi sono

      avvolti nelle nebbie del passato.

      I consoli successivi furono Appio Claudio e Publio Servilio. Fu un anno

      memorabile per l'annuncio della morte di Tarquinio. Questi si spense a

      Cuma, alla corte del tiranno Aristodemo che lo aveva accolto dopo la

      disfatta delle forze latine. La notizia entusiasmò tanto il senato quanto

      la plebe. I senatori, però, esagerarono nelle loro manifestazioni di

      giubilo e la plebe, fino a quel giorno fatta oggetto di ogni premurosa

      attenzione, cominciò a subire il potere soffocante del patriziato. Quello

      stesso anno, la colonia di Signa, voluta da Tarquinio, venne rifondata con

      l'invio di un nuovo contingente di coloni. A Roma il numero delle tribù fu

      portato a ventuno e il quindici di maggio fu consacrato il tempio di

      Mercurio.

      

      22 Con i Volsci non c'era stata, durante la guerra latina, né pace né

      aperta ostilità. Infatti sia i Volsci avevano messo insieme dei rinforzi

      armati che avrebbero inviato ai Latini se il dittatore romano non avesse

      accelerato le operazioni, sia quest'ultimo le accelerò per non doversi

      trovare a combattere contemporaneamente con Volsci e Latini. Indignati per

      questo comportamento, i consoli spinsero le legioni nel territorio dei

      Volsci. E i Volsci, non potendo prevedere una spedizione punitiva così

      immediata, furono presi alla sprovvista. Senza nemmeno abbozzare una

      reazione, consegnano come ostaggi trecento rampolli dell'aristocrazia di

      Cora e Pomezia. Così le legioni lasciarono il paese senza combattimenti.

      Ma non molto tempo dopo, i Volsci, una volta ripresisi dalla paura,

      tornano al loro comportamento abituale: si alleano militarmente con gli

      Ernici e fanno di nuovo preparativi segreti per la guerra. Mandano anche

      degli emissari qua e là per il Lazio a istigarne le popolazioni alla

      ribellione. Ma i Latini, dopo la disfatta del lago Regillo, avevano un

      solo sentimento nei confronti di chi avanzava proposte di guerra: l'odio

      più esasperato. Quindi non ebbero rispetto nemmeno per gli ambasciatori

      dei Volsci: li arrestarono e li portarono a Roma. Lì, dopo averli

      consegnati ai consoli, denunciarono i preparativi di guerra che Volsci ed

      Ernici stavano effettuando col progetto di aggredire Roma. All'annuncio

      della notizia i senatori ebbero una reazione così entusiastica da arrivare

      a rilasciare seduta stante seimila prigionieri latini e a rinviare ai

      nuovi magistrati il progetto di un trattato che in precedenza era stato

      negato per sempre. È ovvio che per i Latini fu una grande soddisfazione: i

      protagonisti di quella missione diplomatica ebbero riconoscimenti fuori

      del comune. Mandarono una corona d'oro in dono a Giove Capitolino. Insieme

      agli inviati che la portavano arrivò anche la massa debordante dei

      prigionieri restituiti ai loro cari. Dirigendosi verso le case dove

      ciascuno aveva prestato servizio, ringraziano della benigna accoglienza

      ricevuta durante il tempo della loro disgrazia e quindi instaurano

      rapporti di ospitalità con gli ex-padroni. Prima di quell'episodio, non

      c'era mai stata un'unione così profonda, sia in campo politico che in

      quello privato, tra la gente latina e lo Stato romano.

      

      23 Mentre la guerra coi Volsci era alle porte, a Roma infuriava lo scontro

      intestino tra le classi: patrizi e plebei si trovavano ai ferri corti e la

      causa prima era rappresentata dagli schiavi per debiti. Questi i termini

      della loro protesta: mentre prestavano servizio militare attivo per lo

      Stato, in patria erano oppressi e fatti schiavi; i plebei si sentivano più

      sicuri in guerra che in pace, più liberi tra i nemici che tra i

      concittadini. Il malcontento si stava già spontaneamente diffondendo,

      quando un episodio sconcertante fece traboccare il vaso. Un uomo già

      piuttosto attempato e segnato dalle molte sofferenze irruppe nel foro. Era

      vestito di stracci lerci. Fisicamente stava ancora peggio: pallido e

      smunto come un cadavere e con barba e capelli incolti che gli davano

      un'aria selvaggia. Benché sfigurato, la gente lo riconosceva: correva voce

      che fosse stato un ufficiale superiore e quelli che lo commiseravano gli

      attribuivano anche altri onori militari; lui stesso, a riprova della sua

      onesta militanza in varie battaglie, mostrava le ferite riportate in pieno

      petto. Quando gli chiesero come mai fosse così mal ridotto e sfigurato -

      nel frattempo l'assembramento di gente aveva assunto le proporzioni di

      un'assemblea - egli rispose che, durante la sua militanza nella guerra

      sabina, i nemici non si eran limitati a razziargli il raccolto, ma gli

      avevano anche incendiato la fattoria e portato via il bestiame; poi, nel

      pieno del suo rovescio, erano arrivate le tasse e si era così coperto di

      debiti. Il resto lo avevan fatto gli interessi da pagare sui debiti

      contratti: aveva prima perso il podere appartenuto a suo padre e a suo

      nonno, quindi il resto dei beni e infine, espandendosi al corpo come

      un'infezione, il suo creditore lo aveva costretto non alla schiavitù, ma

      alla prigione e alla camera di tortura. Dicendo questo, mostrò agli

      astanti la schiena orrendamente segnata da ferite recenti. Tale vista,

      unita a quanto appena sentito, fu salutata da un coro di voci sgomente e

      da un'agitazione collettiva che non si limitò soltanto al foro ma si

      espanse a macchia d'olio in tutti i quartieri della città. I debitori, sia

      quelli già fatti schiavi sia quelli ancora liberi, sciamano da ogni parte

      per le strade, implorano la protezione dei Quiriti e in ogni angolo

      trovano volontari pronti a unirsi a loro. Da ogni parte, urlando, si corre

      a gruppi verso il foro. Fu un bel rischio per quei senatori che,

      trovandosi casualmente in zona, finirono nel pieno della mischia. E la

      situazione non sarebbe tornata sotto controllo, se i consoli Publio

      Servilio e Appio Claudio non fossero intervenuti a sedare la sommossa. I

      dimostranti si girarono allora verso di loro e cominciarono a mostrare

      catene e altre orrende mutilazioni, gridando che quella era la ricompensa

      alle campagne cui ciascuno di essi aveva preso parte nel tale e nel

      talaltro paese. Reclamarono, con un tono che aveva più della minaccia che

      della supplica, la convocazione del senato e circondarono la curia per

      controllare e regolare dipersona le deliberazioni ufficiali. I consoli

      misero insieme giusto quei pochi senatori che casualmente erano lì

      intorno. Gli altri erano terrorizzati all'idea non solo di entrare nella

      curia, ma anche nel foro, e il senato non poteva fare nulla per

      l'insufficienza numerica dei presenti. Allora i dimostranti cominciarono a

      credere che li stessero prendendo in giro e cercassero di guadagnare

      tempo: pensavano che l'assenza dei senatori non fosse dovuta al puro caso

      o al panico, ma a una precisa volontà ostruzionistica, ed erano certi,

      vedendo che i senatori menavano il can per l'aia, che ci si stesse

      prendendo gioco della loro miseranda condizione. Quando ormai sembrava che

      anche l'autorità consolare non avesse più alcun potere coercitivo su

      quella massa di gente imbestialita, ecco che finalmente arrivarono quei

      senatori rosi dal dubbio se si rischiasse di più standosene al coperto o

      comparendo in senato. Raggiunto così il numero legale dei presenti, né i

      senatori né tantomeno i consoli riuscivano a mettersi d'accordo su una

      soluzione possibile. Appio, che aveva un carattere impulsivo, era

      dell'opinione di risolvere la cosa con l'impiego dell'autorità consolare:

      con un paio di arresti, gli altri si sarebbero calmati. Servilio, invece,

      più incline ad adottare misure di compromesso, era dell'opinione che fosse

      più sicuro, oltre che più semplice, assecondare la rabbia dei dimostranti

      piuttosto che ricorrere alla repressione.

      

      24 Nel frattempo ecco una notizia ancor più minacciosa: dei cavalieri

      latini arrivarono al galoppo e seminarono il panico annunciando che

      l'esercito dei Volsci era in marcia su Roma. La frattura intestina tra le

      classi era così profonda che plebe e senato ebbero una reazione

      completamente antitetica all'annuncio di quella notizia. I plebei

      esultarono, sostenendo che gli dèi si stavano vendicando dell'arroganza

      dei senatori. Si esortavano reciprocamente a non arruolarsi: sarebbe stato

      meglio morire tutti insieme che da soli. In prima linea ci andassero i

      senatori, prendessero loro le armi e i pericoli toccassero a chi ne traeva

      vantaggio. I membri della curia, invece, scoraggiati e in preda a un

      doppio terrore, provocato dai concittadini e dai nemici, supplicarono il

      console Servilio, più popolare del collega presso le classi subalterne, di

      tirar fuori lo Stato dal vicolo cieco in cui si era venuto a trovare.

      Allora il console, dopo aver aggiornato la seduta, si presenta di fronte

      al popolo. Gli dimostrò che il senato era preoccupato degli interessi

      della plebe; tuttavia la deliberazione che riguardava la maggior parte dei

      cittadini, ma pur sempre soltanto una parte di essi, doveva lasciare la

      precedenza al pericolo che interessava l'intera cittadinanza. Col nemico

      pressoché alle porte, tutto passa in secondo piano rispetto alla guerra.

      Se poi si fosse fatta qualche concessione, non sarebbe stato onesto per la

      plebe pretendere una ricompensa prima di aver combattuto per la patria, né

      troppo decoroso per i senatori farsi trascinare dalla paura a prendere

      delle misure concernenti il miglioramento delle condizioni di vita dei

      loro concittadini, piuttosto che adottare in séguito gli stessi

      provvedimenti però di loro spontanea volontà. Suggellò il suo discorso con

      un editto: più nessun cittadino romano poteva essere messo in catene o

      imprigionato, e dunque non gli poteva essere tolta la facoltà di iscrivere

      il proprio nome nella lista di arruolamento dei consoli; nessuno poteva

      impossessarsi dei beni di un soldato, impegnato in guerra, né venderli, né

      trattenere i suoi figli e i suoi nipoti. Appena l'editto venne pubblicato,

      diedero subito il proprio nome per arruolarsi i debitori che erano lì sul

      posto; gli altri, da ogni quartiere della città, abbandonarono le case dei

      privati che non avevano più diritto di trattenerli e si ammassarono nel

      foro per prestare giuramento. Formarono un contingente massiccio e nella

      guerra contro i Volsci non ebbero rivali per coraggio e determinazione.

      

      25 Il console guida le truppe contro il nemico e si accampa a poca

      distanza da esso. La notte successiva, i Volsci, sperando che la discordia

      venutasi a creare a Roma favorisse diserzioni e tradimenti nelle tenebre,

      attaccano l'accampamento nemico. La cosa non sfuggì alle sentinelle che

      diedero subito l'allarme e, al primo segnale, tutti si precipitarono alle

      armi, vanificando così la sortita dei Volsci. Il resto della notte fu

      dedicato al sonno da entrambe le parti. Il giorno dopo, alle prime luci

      dell'alba, i Volsci riempiono i fossati e invadono le trincee. Quando

      stavano già per abbattere l'intera palizzata, il console, benché tutti gli

      uomini - e i debitori più di ogni altro - lo supplicassero di dare il

      segnale, indugiò qualche momento per metterne alla prova il coraggio.

      Quando non c'era più alcun dubbio sull'incrollabilità del loro ardore,

      diede finalmente il segnale d'attacco e fece uscire le sue truppe,

      impazienti di buttarsi nella mischia. Bastò il primo assalto per

      respingere il nemico. I fanti si lanciarono all'inseguimento dei

      fuggitivi, incalzandoli da dietro finché fu loro possibile. Il resto lo

      fecero i cavalieri, costringendoli a retrocedere, terrorizzati, fino

      all'accampamento. L'accampamento stesso, circondato dalle legioni e

      abbandonato dai Volsci in preda al panico, fu preso e devastato.

      L'indomani le truppe furono condotte contro Suessa Pomezia, dove i nemici

      si erano rifugiati: nello spazio di pochi giorni la città fu conquistata e

      si diede via libera alla razzia. Ciò permise ai soldati più indigenti di

      migliorare un po' la loro condizione. Il console, carico di gloria,

      ricondusse a Roma l'esercito vincitore. Sulla strada una delegazione di

      Volsci di Ecetra, preoccupati per la propria sorte dopo la rotta di

      Pomezia, incontrò il console che si stava allontanando in direzione di

      Roma. Su decreto del senato venne loro concessa la pace, ma tolto il

      territorio.

      

      26 Subito anche i Sabini misero in allarme i Romani: ma in effetti si

      trattò più di una scorreria che di una guerra vera e propria. Nel pieno

      della notte arrivò la notizia che un contingente di razziatori sabini si

      trovava nei pressi dell'Aniene e stava saccheggiando e incendiando a

      casaccio le fattorie dei dintorni. Immediatamente venne inviato sul posto

      con tutta la cavalleria Aulo Postumio, il dittatore della guerra latina.

      Il console Servilio gli tenne dietro con dei corpi scelti di fanteria. La

      maggior parte dei nemici, sbandati com'erano, fu circondata dalla

      cavalleria e, quando sopraggiunse la colonna dei fanti, le truppe sabine

      non opposero resistenza. Stremati non solo dalla marcia ma dalla nottata

      di razzie, buona parte dei nemici, pieni di vino e cibo rastrellati nelle

      fattorie, riuscirono giusto a scappare con le poche energie che erano loro

      rimaste.

      Dopo che nell'arco di una sola notte erano venuti a sapere della guerra

      coi Sabini e l'avevano portata a termine, il giorno dopo, quando ormai si

      poteva contare su una pace generale, il senato ricevette una legazione

      degli Aurunci; costoro dissero che avrebbero dichiarato guerra a Roma se

      non fosse stato evacuato il territorio dei Volsci. L'esercito si era messo

      in movimento con loro e la notizia che era già stato avvistato non lontano

      da Aricia gettò i Romani in un tale stato di confusione che, non potendo

      portare, come di consuetudine, la questione di fronte al senato né

      rispondere con calma a un popolo che era già sul piede di guerra, si

      armarono anche loro. Marciarono su Aricia a ranghi compatti: la battaglia

      avvenne nei pressi della città e la guerra durò un solo scontro.

      

      27 Dopo aver sbaragliato gli Aurunci, i Romani, reduci da un gran numero

      di successi militari in così pochi giorni, contavano sulle promesse dei

      consoli e sulla parola del senato, quando Appio, parte per la naturale

      arroganza del suo carattere e parte per screditare il collega, intervenne

      in maniera quanto mai dura in materia di debiti. La conseguenza fu che gli

      ex-debitori insolventi furono riconsegnati ai creditori e dei nuovi furono

      messi ai ferri. Ogni qualvolta si trattava di un soldato, questi

      interpellava il collega. Intorno a Servilio c'era sempre un assembramento

      di gente: tutti gli ricordavano le promesse fatte e gli mostravano gli

      attestati militari nonché le ferite riportate in battaglia. Gli

      chiedevano, o di portare la questione di fronte al senato, o di rendersi

      utile dando una mano come console ai concittadini e come generale ai

      militari. Pur essendo toccato da quella supplica, la situazione lo

      costringeva a temporeggiare, perché l'opposizione era fortissima, avendo

      dalla sua parte non soltanto il collega ma l'intera nobiltà. Tenendo così

      una posizione di sostanziale neutralità, non riuscì né a evitare l'odio

      dei plebei né a conciliarsi il favore dei senatori. Infatti, per questi

      ultimi era un console senza polso e un agitatore, mentre per i primi uno

      che faceva il furbo. Presto apparve chiaro che era odiato al pari di

      Appio. I consoli si contendevano l'onore di consacrare il tempio di

      Mercurio e il senato girò la questione al popolo: a chi dei due fosse

      toccato, per volontà del popolo stesso, l'onore della consacrazione,

      sarebbe andata anche l'amministrazione dell'annona e il compito di formare

      una corporazione di commercianti, nonché di celebrare i riti solenni di

      fronte al pontefice massimo. Il popolo assegnò la consacrazione del tempio

      a Marco Letorio, centurione primipilo, con un intento chiarissimo: non si

      trattava cioè tanto di onorare quest'uomo - troppo grande la sproporzione

      tra l'incarico e la sua posizione nella vita di tutti i giorni -, quanto

      di un'offesa alle persone dei consoli. Inevitabile conseguenza fu un

      ulteriore inasprimento da parte di uno dei due consoli e dei senatori. Ma

      i plebei si erano fatti forza e stavano seguendo una tattica ben diversa

      da quella adottata prima. Infatti, perduta ogni speranza nell'intervento

      dei consoli e del senato, appena vedevano un debitore trascinato in

      giudizio, intervenivano da ogni parte. La sentenza del console,

      sopraffatta dal trambusto delle voci, non arrivò agli astanti e poi, anche

      quando fu pronunciata, nessuno obbedì. La sola legge era la violenza: la

      paura in tutte le sue forme e il rischio di essere catturati passarono dai

      debitori ai creditori, mentre questi, sotto gli occhi del console,

      venivano presi da parte e aggrediti da interi gruppi. Nel pieno di questo

      marasma venne a inserirsi una guerra contro i Sabini. Fu bandita una leva,

      ma nessuno si iscrisse. Appio era fuori di sé. Imprecava contro

      l'ambizione del collega, reo di aver tradito lo Stato per rendersi

      popolare con la sua politica dell'inerzia e, non soddisfatto di aver

      sospeso il giudizio sui verdetti concernenti i debiti, non era in grado

      nemmeno di mettere in pratica la leva stabilita dal decreto del senato.

      Ciò nonostante, lo Stato non era proprio del tutto alla deriva né

      l'autorità consolare era completamente decaduta: ci avrebbe pensato lui,

      da solo, a salvaguardare la credibilità sua e del senato. Mentre era

      circondato dalla solita folla di ceffi esaltati, ordinò di arrestarne uno

      che era un ben noto trascinatore. Mentre i littori lo stvano portando via,

      questi si appellò. E il console non glielo avrebbe concesso (cosa poteva

      infatti scegliere il popolo?) se la sua ostinazione non si fosse piegata

      più davanti all'esperienza e all'autorità dei maggiorenti che alle urla

      del popolo, tanta era la forza che aveva ancora in corpo per sfidare

      l'impopolarità. Da quel momento in poi i dissapori peggiorarono giorno

      dopo giorno, non solo con manifestazioni pubbliche ma, sintomo ben più

      grave, con riunioni appartate e colloqui segreti. Alla fine, i consoli,

      così odiati dalla plebe, completarono il loro mandato: Servilio non

      incontrò i favori di nessuna delle due parti, Appio invece fu osannato dai

      senatori.

      

      28 Entrarono allora in carica Aulo Verginio e Tito Vetusio. La plebe,

      quindi, non sapendo che tipo di consoli sarebbero stati, tenne delle

      riunioni notturne - parte sull'Esquilino e parte sull'Aventino - per

      evitare di prendere nel foro delle decisioni precipitose e lasciare che

      tutto avvenisse all'insegna della più avventata casualità. I consoli,

      pensando che si trattasse, come in effetti era, di una situazione

      veramente pericolosa, ne misero al corrente il senato, ma la denuncia non

      poté essere esaminata come il regolamento imponeva: infatti la notizia fu

      accolta da un coro di urla scomposte dei senatori, indignati che

      scaricassero sul senato l'impopolarità di un provvedimento che invece

      rientrava nella sfera delle loro competenze. Era chiaro che se Roma avesse

      avuto dei magistrati come si deve, le sole assemblee sarebbero state

      quelle ufficiali. Al momento presente, invece, il governo dello Stato era

      frammentato in una dispersione di migliaia di assemblee e di

      contro-senati. Un uomo solo - e santo dio si trattava di qualcosa di più

      di un console! - della statura di Appio Claudio avrebbe spazzato via in un

      attimo tutte quelle conventicole di gente. I consoli incassarono le

      critiche e chiesero lumi sul da farsi, dichiarandosi disponibili ad agire

      con tutta la determinazione e il polso che il senato avrebbe considerato

      necessari. Fu ordinato loro di mettere in pratica la leva militare con la

      maggiore energia possibile, perché proprio nell'inattività la plebe

      diventava insolente. Dopo l'aggiornamento della seduta, i consoli salgono

      sulla tribuna e fanno l'appello dei giovani. Visto che nessuno rispondeva

      al proprio nome, la folla, accalcata intorno ai due magistrati come

      durante un comizio pubblico, dichiarò che non ci si sarebbe più fatti

      gioco della plebe e che Roma non avrebbe avuto più un solo soldato se non

      si fossero mantenute le promesse ufficiali: bisognava restituire a

      ciascuno la libertà prima di mettergli in mano le armi, in modo che

      combattesse per la patria e i propri concittadini e non per dei padroni. I

      consoli avevano capito benissimo quello che era stato ordinato loro dai

      senatori; solo che tra quanti li avevano aggrediti verbalmente all'interno

      della curia, lì fuori non ce n'era uno a condividere con loro quel momento

      di impopolarità, ed era chiaro che lo scontro con la plebe sarebbe stato

      durissimo. Così, prima di giocarsi il tutto per tutto, pensarono bene di

      interpellare di nuovo il senato. Allora i senatori più giovani,

      avventandosi minacciosamente verso gli scranni dei consoli, intimarono

      loro di rassegnare le dimissioni e di rinunciare a quel potere che, per

      mancanza di temperamento, non riuscivano a far rispettare.

      

      29 Avendo battuto a sufficienza entrambe le strade percorribili, alla fine

      i consoli dichiararono: «Perché non dobbiate, o senatori, sostenere di non

      esser stati avvertiti, sappiate che ora siamo sull'orlo di una grande

      sommossa. A chi ci ha aggredito dandoci brutalmente dei codardi noi

      chiediamo di venire ad assisterci nelle pratiche della leva. Visto che

      questo è il vostro desiderio, agiremo uniformandoci alla volontà dei più

      inflessibili tra voi.» Quindi tornano in tribunale e ordinano apposta di

      chiamare per nome uno degli astanti. Siccome questi non rispondeva e se ne

      stava in mezzo a un crocchio che lo aveva circondato per proteggerlo da

      eventuali violenze, i consoli mandarono un littore a prelevarlo. Ma dato

      che la folla lo respinse, i senatori venuti ad assistere i consoli,

      gridando che si trattava di una violazione indegna, si precipitarono giù

      dai banchi del tribunale per dare man forte al littore. La folla allora,

      lasciando da parte il pubblico ufficiale, cui era stato semplicemente

      proibito l'arresto di quell'uomo, rivolse la sua carica aggressiva contro

      i senatori e soltanto l'intervento dei consoli riuscì a sedare la rissa,

      fatta non tanto di sassi e armi vere e proprie, quanto di un chiassoso

      scambio di idee più che di violenze. La seduta del senato avvenne in un

      clima di grande confusione, che raggiunse il suo apice al momento di

      adottare una delibera: le vittime dell'aggressione esigevano un'inchiesta

      e i membri più violenti la approvavano non tanto con regolari interventi

      quanto con un boato di urla. Una volta placatisi gli animi, i consoli

      deplorarono che in piena curia ci fossero minori manifestazioni di

      assennatezza di quante essi ne avessero viste in mezzo alla folla del

      foro. Detto questo, si poté procedere a un regolare dibattito. Ci furono

      tre interventi. Publio Verginio era contrario a ogni forma di

      generalizzazione: la sua proposta era di prendere in esame soltanto coloro

      i quali, fidandosi della parola del console Publio Servilio, avevano

      militato nelle campagne contro Volsci, Aurunci e Sabini. Tito Larcio,

      invece, sosteneva che in un momento come quello era impensabile

      ricompensare soltanto i reduci di guerra: la plebe tutta era immersa nei

      debiti fino al collo e l'unico rimedio credibile sarebbe stato un

      provvedimento a carattere generale. Eventuali sperequazioni, poi,

      all'interno della stessa classe, avrebbero acuito la tensione invece di

      ridurla. Appio Claudio, il cui carattere aggressivo trovava un valido

      incentivo ora nell'odio della plebe ora negli applausi dei senatori, disse

      che la causa di quelle sommosse popolari non era tanto la miseria quanto

      la permissività e inoltre che la plebe era più insolente che feroce. Tutto

      il male veniva soltanto dal diritto d'appello: i consoli, infatti,

      potevano minacciare ma non avere una reale autorità, visto che ai

      colpevoli era lecito comparire di fronte ai loro stessi complici. «Diamoci

      da fare,» disse, «eleggiamo un dittatore il quale non è sottoposto al

      diritto d'appello; cesserà così, una buona volta, questo furore che ha

      infiammato ogni cosa. E voglio un po' vedere se qualcuno oserà ancora

      mettere le mani su un littore, sapendo di avere schiena e vita in completa

      balia di colui di cui ha violato la maestà.»

      

      30 La maggior parte dei senatori trovarono eccessivamente spietata, come

      infatti era, la proposta di Appio. Al contrario, quelle di Verginio e di

      Larcio non sembrarono molto praticabili: la prima perché avrebbe creato un

      precedente, la seconda perché avrebbe tolto ogni fiducia. La miglior

      soluzione di compromesso per entrambi i contendenti sembrava comunque

      quella di Verginio. Ma lo spirito di parte e la priorità degli interessi

      particolari, che hanno sempre danneggiato e sempre danneggeranno le

      deliberazioni pubbliche, fecero prevalere Appio: poco mancò che venisse

      addirittura eletto dittatore, cosa che avrebbe del tutto alienato la plebe

      in quei momenti di grandissimo rischio (il caso voleva, infatti, che

      Volsci, Equi e Sabini fossero contemporaneamente in armi). Ma i consoli e

      i senatori più anziani, preoccupandosi che quella carica, di per sé vicina

      all'onnipotenza, finisse in mano a una persona dal carattere mite,

      eleggono dittatore M. Valerio, figlio di Voleso. La plebe, pur rendendosi

      conto che la nomina di un dittatore avveniva a suo discapito, tuttavia da

      quella famiglia non temeva tristi sorprese o repressioni visto che era

      stato proprio un fratello del neoeletto a far varare la legge sul diritto

      d'appello. In séguito un editto del dittatore confermò queste buone

      disposizioni perché riproduceva a grandi linee quello del console

      Servilio. Ma pensando che la miglior cosa fosse aver fiducia sia nell'uomo

      che nella sua carica, abbandonarono l'ostruzionismo e si arruolarono. Mai

      prima di allora ci fu un numero così alto di effettivi: vennero formate

      dieci legioni. Ogni console ne ebbe tre ai suoi ordini, mentre quattro

      andarono al dittatore.

      La guerra non si poteva più rimandare. Gli Equi avevano invaso il

      territorio latino. Ambasciatori latini chiedevano al senato o un invio di

      rinforzi o l'autorizzazione a prendere le armi per proteggere il proprio

      paese. Difendere i Latini inermi sembrò più sicuro che permettere loro di

      riprendere le armi. Venne inviato il console Vetusio, il quale pose fine

      alle razzie. Gli Equi evacuarono la campagna e, fidando maggiormente nella

      posizione che nelle armi, se ne stavano in attesa sulle cime dei rilievi.

      L'altro console marcia contro i Volsci e, anche lui per non perdere tempo,

      comincia a devastare metodicamente le campagne per spingere il nemico ad

      accamparsi più vicino e costringerlo allo scontro. I due eserciti si

      schierarono ciascuno di fronte alla propria trincea, in una piana compresa

      tra i due accampamenti. I Volsci erano numericamente di gran lunga

      superiori: per questo si buttarono sprezzanti allo sbaraglio. Il console

      romano non si mosse né permise di rispondere all'urlo di guerra, ma ordinò

      ai suoi di stare fermi e con le aste piantate a terra: soltanto quando il

      nemico fosse arrivato a distanza ravvicinata, avrebbero dovuto assalirlo

      con tutte le loro forze e risolvere la cosa con le spade. Quando i Volsci,

      affaticati dalla corsa e dal gran gridare, arrivarono sui Romani,

      apparentemente atterriti alla loro vista, e si resero conto del

      contrattacco in atto vedendo il bagliore delle spade, come se fossero

      finiti in un'imboscata, fecero dietro-front spaventati. Ma non avevano più

      la forza nemmeno di fuggire, perché si erano gettati in battaglia

      correndo. I Romani, invece, rimasti fermi nelle fasi iniziali, erano

      freschissimi: non fu quindi difficile per loro piombare sui nemici sfiniti

      e catturarne l'accampamento. Di lì inseguirono i Volsci rifugiatisi a

      Velitra, dove vincitori e vinti irruppero come se fossero stati un

      esercito solo. Là, in un massacro generale e senza distinzioni, versarono

      più sangue che nella battaglia vera e propria. Vennero risparmiati

      soltanto quei pochi che si arresero inermi.

      

      31 Durante questa campagna contro i Volsci, il dittatore, mette in rotta i

      Sabini - di gran lunga il nemico numero uno per Roma - conquistandone

      l'accampamento. Lanciatosi all'attacco con la cavalleria, aveva fatto il

      vuoto nel centro dell'esercito nemico, rimasto troppo scoperto per

      l'eccessiva apertura a ventaglio delle due ali. Nel bel mezzo di questo

      disordine subentrarono i fanti all'assalto. Con un solo e unico attacco

      presero l'accampamento e misero fine alla campagna. Dopo quella del lago

      Regillo, nessun'altra battaglia, in quegli anni, fu più famosa. Il

      dittatore tornò a Roma in trionfo. Oltre agli onori di rito, fu riservato

      un posto a lui e ai suoi discendenti per assistere ai ludi nel circo, e lì

      fu sistemata una sedia curule. A séguito di questa sconfitta i Volsci

      persero il territorio di Velitra; la città, popolata da coloni inviati da

      Roma, divenne colonia. Poco tempo dopo si combatté con gli Equi, anche se

      il console era contrario perché si trattava di abbordare il nemico da

      posizione sfavorevole. Ma i suoi uomini lo accusavano di tirare per le

      lunghe la cosa per lasciare che scadesse il mandato del dittatore prima

      del loro rientro a Roma e far così cadere nel nulla le sue promesse, come

      era già prima successo con quelle del console. Quindi lo forzarono a una

      mossa sconsiderata e del tutto affidata al caso: spingere le truppe sul

      versante della montagna di fronte a loro. Fu solo grazie alla codardia dei

      nemici che questa manovra, di per sé malcongegnata, ebbe un esito

      favorevole: i Romani non erano ancora arrivati a distanza di tiro che

      essi, scoraggiati da una simile dimostrazione di audacia, abbandonarono il

      loro accampamento piazzato in una posizione quasi inespugnabile e si

      dileguarono nei valloni dell'altro versante. Si trattò di un bottino non

      trascurabile e di una vittoria senza perdite.

      Malgrado questo triplice successo militare, plebe e senato non avevano

      smesso di preoccuparsi della soluzione dei problemi interni. E gli usurai,

      con un assiduo lavorio da veri esperti, si erano dotati degli strumenti

      per frustrare le iniziative non solo della plebe ma anche del dittatore

      stesso. Infatti Valerio, dopo il rientro del console Vetusio, diede

      precedenza assoluta alla causa del popolo vincitore, portandola

      all'attenzione del senato e chiedendo un pronunciamento definitivo sugli

      insolventi per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata, disse: «Io

      non vi vado a genio perché cerco di ricomporre la frattura. Tra pochi

      giorni, ve lo garantisco, desidererete che la plebe abbia dei difensori

      come me. Per quel che mi riguarda, non ho intenzione di prendere

      ulteriormente in giro i miei concittadini né di continuare a fare il

      dittatore solo in teoria. Questa magistratura era l'unica soluzione per

      uno Stato diviso tra urti interni e una guerra da combattere all'esterno:

      fuori è tornata la pace, mentre in città si fa di tutto per ostacolarla.

      Interverrò nei disordini da privato cittadino piuttosto che da dittatore.»

      Uscì quindi dalla curia e rassegnò le dimissioni. La plebe capì benissimo

      che un gesto simile era stato dettato dal risentimento per i torti che

      essa subiva. E così, come se egli avesse mantenuto la parola - non era

      colpa sua se l'impegno non era stato onorato -, lo seguirono mentre

      rientrava a casa e gli manifestarono la loro gratitudine con un lungo

      applauso.

      

      32 Allora i senatori cominciarono a temere che, congedando l'esercito, si

      sarebbe tornati alle riunioni segrete e alle cospirazioni. Così, pur

      essendo stati arruolati per ordine del dittatore, tuttavia, siccome

      avevano giurato nelle mani dei consoli, si pensava che i soldati fossero

      ancora legati a quel giuramento. Quindi, col pretesto di una ripresa di

      ostilità da parte degli Equi, ordinarono che le legioni venissero condotte

      fuori città. Ma questo provvedimento accelerò la rivolta. Sulle prime pare

      si fosse parlato di assassinare i consoli per svincolarsi dagli obblighi

      del giuramento. Quando però fu spiegato loro che non c'era delitto che

      potesse liberare da un vincolo sacro, allora le truppe, su proposta di un

      certo Sicinio, si ammutinarono all'autorità dei consoli e si ritirarono

      sul monte Sacro, sulla riva destra dell'Aniene, a tre miglia da Roma.

      Questa è la versione più accreditata. Stando invece a quella adottata da

      Pisone, la secessione sarebbe avvenuta sull'Aventino. Lì, senza nessuno

      che li guidasse, fortificarono in tutta calma il campo con fossati e

      palizzate limitandosi ad andare in cerca di cibo e, per alcuni giorni, non

      subirono attacchi né attaccarono a loro volta. Roma era nel panico più

      totale e il clima di mutua apprensione teneva tutto in sospeso. La plebe,

      abbandonata al suo destino, temeva un'azione di forza organizzata dal

      senato; i senatori temevano la parte di plebe rimasta in città, ed erano

      incerti se fosse preferibile che essa rimanesse o se ne andasse. E poi,

      quanto sarebbe durata la calma dei secessionisti? Che cosa sarebbe

      successo se nel frattempo fosse scoppiata una guerra con qualche paese

      straniero? La sola speranza era rappresentata dalla concordia interna: per

      il bene dello Stato andava restaurata e a qualunque costo.

      Si decise allora di mandare alla plebe come portavoce Menenio Agrippa,

      uomo dotato di straordinaria dialettica e ben visto per le sue origini

      popolari. Una volta introdotto nel campo, pare che raccontò questo apologo

      con lo stile un po' rozzo tipico degli antichi: «quando le membra del

      corpo umano non costituivano ancora un tutt'uno armonico, ma ciascuna di

      esse aveva un suo linguaggio e un suo modo di pensare autonomi, tutte le

      altre parti erano indignate di dover sgobbare a destra e a sinistra per

      provvedere a ogni necessità dello stomaco, mentre questo se ne stava zitto

      zitto lì nel mezzo a godersi il bendidio che gli veniva dato. Allora,

      decisero di accordarsi così: le mani non avrebbero più portato il cibo

      alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta per prenderlo, né i denti

      lo avrebbero più masticato. Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di

      fame lo stomaco, le membra stesse e il corpo tutto eran ridotti pelle e

      ossa. In quel momento capirono che anche lo stomaco aveva una sua funzione

      e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era nutrito e a tutte le

      parti del corpo restituiva, distribuito equamente per le vene e arricchito

      dal cibo digerito, il sangue che ci dà vita e forza». Mettendo in

      parallelo la ribellione interna delle parti del corpo e la rabbia della

      plebe nei confronti del senato, Menenio riuscì a farli ragionare.

      

      33 Venne allora affrontato il tema della riconciliazione e si giunse al

      seguente compromesso: la plebe avrebbe avuto dei magistrati sacri e

      inviolabili il cui compito sarebbe stato quello di prendere le sue difese

      contro i consoli, e nessun patrizio avrebbe potuto avere quest'incarico.

      Quindi furono eletti due tribuni della plebe, Caio Licinio e Lucio Albino.

      A loro volta essi si scelsero tre colleghi, uno dei quali era Sicinio, il

      promotore della rivolta. Sui nomi degli altri due ci sono parecchie

      incertezze. Alcuni autori sostengono che sul monte Sacro vennero eletti

      soltanto due tribuni e che lì fu proposta la legge sull'inviolabilità.

      Durante la secessione della plebe, Spurio Cassio e Postumio Cominio erano

      diventati consoli. Nel corso del loro mandato fu stipulato un trattato di

      alleanza con le popolazioni latine. Per concluderlo, uno dei consoli

      rimase a Roma. Il suo collega, invece, incaricato di una campagna contro i

      Volsci, sbaragliò e disperse i Volsci di Anzio; quindi, costringendoli a

      rifugiarsi a Longula, li inseguì ed espugnò la città. Subito dopo

      conquistò Polusca, altra città dei Volsci. Poi attaccò con estrema

      decisione Corioli. Tra i giovani nobili c'era allora arruolato Gneo

      Marzio, tipo sveglio e risoluto, che in séguito fu soprannominato

      Coriolano. Mentre l'esercito romano era intento all'assedio di Corioli e

      teneva gli occhi puntati sugli abitanti compressi all'interno delle mura,

      senza alcuna preoccupazione di un eventuale attacco dall'esterno, fu

      all'improvviso assalito da un contingente di Volsci partiti da Anzio e

      contemporaneamente sorpreso da una sortita degli assediati. Per caso

      Marzio era di guardia. Con un pugno di soldati scelti non solo tamponò la

      sortita, ma ebbe anche il coraggio di buttarsi oltre la porta dove compì

      un massacro nei quartieri più vicini e, trovandosi del fuoco per le mani,

      incendiò gli edifici che sovrastavano il muro. Il panico dei cittadini

      che, come sempre succede, seguì, misto ai pianti delle donne e dei

      bambini, la prima reazione degli assediati, tonificò i Romani e

      demoralizzò i Volsci, ovviamente sconsolati dalla resa della città cui

      eran venuti in soccorso. Così furono sbaragliati i Volsci di Anzio e

      conquistata la città di Corioli. L'impresa di Marzio eclissò la gloria del

      console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio

      Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria

      su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio

      combatté contro i Volsci.

      Quello stesso anno morì Menenio Agrippa, l'uomo che in vita era stato

      ugualmente caro alla plebe e ai senatori e che dopo la secessione sul

      monte Sacro fu più caro alla plebe. L'uomo che aveva fatto da mediatore e

      da interprete della riconciliazione tra i cittadini, che era stato

      l'ambasciatore del senato presso la plebe e colui che l'aveva ricondotta a

      Roma, non lasciò il denaro sufficiente per pagarsi il funerale: ci pensò

      così la plebe, con una sottoscrizione di un sesto di asse a testa.

      

      34 I consoli successivi furono Tito Geganio e Publio Minucio. Quell'anno,

      non essendoci più nessuna preoccupazione militare ed essendo stato

      composto ogni motivo di urto all'interno, una calamità di ben altra

      portata si abbatté su Roma: la mancanza di generi alimentari, dovuta al

      fatto che i campi erano rimasti incolti durante la secessione della plebe,

      poi la fame, come succede alle città in stato d'assedio. Per gli schiavi e

      soprattutto per la plebe avrebbe voluto dire morte se i consoli non

      avessero provveduto mandando degli emissari a racimolare frumento

      dovunque, non solo lungo la costa etrusca a nord di Ostia e a sud

      superando via mare le terre dei Volsci fino giù a Cuma, ma addirittura in

      Sicilia, tanto lontano li aveva costretti a cercare aiuto l'odio dei

      popoli confinanti. A Cuma, una volta acquistato il grano, le navi furono

      trattenute dal tiranno Aristodemo come indennizzo delle proprietà dei

      Tarquini di cui egli era l'erede. Presso i Volsci e nel Pontino non si

      riuscì nemmeno ad acquistarne: i compratori di grano rischiarono

      addirittura di esser assaliti dai locali. Dall'Etruria ne arrivò invece

      via fiume, lungo il Tevere, e bastò per sfamare la plebe. In quel disastro

      generale si sarebbe venuta ad aggiungere una quanto mai intempestiva

      guerra, se sui Volsci, già pronti a scendere in campo, non si fosse

      abbattuta una tremenda pestilenza. Vedendo il terrore che una simile

      decimazione aveva seminato, i Romani, per far sì che il nemico non

      riuscisse a liberarsi completamente della paura anche una volta uscito

      dall'epidemia, potenziarono con nuovi invii la colonia di Velitra e ne

      fondarono una nuova a Norba, sulle montagne, per avere una roccaforte nel

      Pontino.

      Sotto il consolato di Marco Minucio e di Aulo Sempronio ci fu una

      massiccia importazione di grano dalla Sicilia e il senato discusse il

      prezzo a cui avrebbe dovuto esser venduto alla plebe. Molti pensavano

      fosse arrivato il tempo di dare un giro di vite alla plebe e di recuperare

      i diritti che essa aveva estorto ai senatori con le violenze della

      secessione. Uno dei più accesi, Marzio Coriolano, nemico della potestà

      tribunizia, disse: «Se vogliono il grano al prezzo di una volta,

      restituiscano ai senatori i loro antichi diritti. È mai possibile che io

      debba vedere dei plebei magistrati e un Sicinio dotato di poteri, io che

      son passato sotto il giogo e sono stato riscattato da questa specie di

      delinquenti? Dovrò sopportare più a lungo del necessario delle infamie del

      genere? Io che non avrei tollerato Tarquinio come re, dovrei sopportare un

      Sicinio? Ci vada lui ora in secessione e si porti la plebe con sé. La

      strada che porta al monte Sacro e agli altri colli è libera. Rubino pure

      il frumento dai nostri campi come due anni fa. Si godano la carestia

      frutto della loro follia. Non ho paura di affermare che, domati da questa

      piaga, preferiranno andare a lavorare i campi piuttosto che, come fecero

      durante la secessione, impedire con la violenza che gli altri lavorino.»

      Io credo che i patrizi avrebbero potuto, mettendo delle condizioni

      all'abbassamento dei prezzi, liberarsi del potere dei tribuni e di tutti

      quei diritti concessi loro malgrado. Solo che non è altrettanto facile

      dire se avrebbero dovuto farlo.

      

      35 Il discorso sembrò eccessivamente duro anche al senato. Nei plebei

      suscitò una reazione così violenta da farli quasi ricorrere alle armi.

      Sostenevano che li si stava prendendo per fame come fossero nemici, e che

      li si stava privando dei generi di prima necessità per la sopravvivenza:

      avrebbero tolto loro di bocca anche quel frumento di importazione, il solo

      alimento che un inatteso colpo di fortuna aveva regalato, se i tribuni non

      si fossero consegnati in catene a Gneo Marzio e se non gli si fosse data

      la possibilità di rifarsi sulla pelle della plebe. Ai loro occhi era lui

      il nuovo boia saltato fuori a costringerli a una scelta obbligata tra la

      morte e la schiavitù. E gli sarebbero saltati addosso fuori dell'ingresso

      della curia, se i tribuni, quanto mai tempestivamente, non lo avessero

      citato in giudizio. Il provvedimento sedò la rabbia: ciascuno si vedeva

      già giudice del nemico e padrone di scegliere per lui tra la vita e la

      morte. All'inizio Marzio stette ad ascoltare con aria sprezzante le

      minacce dei tribuni, sostenendo che essi erano dei magistrati di supporto

      e non avevano alcuna autorità penale, cioè appunto si trattava di tribuni

      della plebe e non di senatori. Ma la plebe aveva il dente così avvelenato

      che i senatori dovettero sacrificare un loro membro per placarne l'ira.

      Ciò nonostante tennero testa all'odio degli avversari facendo ricorso alle

      capacità dei singoli e alle risorse dell'intero ordine. La prima mossa fu

      questa: mandarono in giro dei loro clienti col compito di prendere da

      parte i singoli e di dissuaderli dal partecipare alle riunioni e agli

      assembramenti, nella speranza che potessero mandarne all'aria i piani. Poi

      l'intero ordine senatoriale si presentò in pubblico (tutti senza

      eccezioni, come se avessero dovuto rispondere di qualche reato)

      supplicando la plebe di restituirgli un solo cittadino, un senatore: se

      poi non lo volevano assolvere, almeno gli facessero la grazia di

      rimandarlo indietro come colpevole. Visto che però alla data stabilita

      Marzio non ricomparve, la rabbia divenne incontenibile. Condannato in

      contumacia, andò in esilio presso i Volsci lanciando minacce al suo paese,

      verso il quale già da allora era ostile.

      I Volsci lo accolsero amichevolmente e la loro buona disposizione nei suoi

      confronti cresceva di giorno in giorno in proporzione al progressivo

      aumento della rabbia di Marzio verso la sua terra d'origine, alla quale

      riservava ora nostalgici lamenti ora minacce. Era ospite di Azio Tullio,

      all'epoca una delle personalità eminenti del popolo volsco e un

      anti-romano di antica data. Così, spinti uno dall'odio di sempre e l'altro

      dal recente risentimento, studiano insieme una guerra contro Roma.

      Sapevano che sarebbe stato difficile convincere la loro gente a riprendere

      le armi per combattere un avversario che già le aveva procurato tanti

      dispiaceri. Prima la serie di guerre e poi la pestilenza ne avevano

      fiaccato gli entusiasmi portandosi via il meglio della gioventù. L'odio

      risaliva ormai al passato: bisognava ingegnarsi per trovare qualche nuovo

      motivo di risentimento che ravvivasse gli antichi furori.

      

      36 Casualmente a Roma si stavano facendo i preparativi per ricominciare da

      capo i Ludi Magni. E li si ricominciava per questa ragione: la mattina dei

      giochi, prima dell'inizio dello spettacolo, un padrone non meglio

      identificato aveva fatto passare nel mezzo del circo uno schiavo con forca

      al collo e lo aveva frustato. I giochi erano poi cominciati, come se

      quell'episodio non avesse nulla a che vedere con l'aspetto cerimoniale

      della manifestazione. Non molto tempo dopo, un plebeo di nome Tito Latinio

      fece un sogno: vide Giove che gli diceva di non aver gradito il primo

      ballerino ai giochi e che la città sarebbe stata in pericolo se i giochi

      stessi non fossero stati ricominciati da capo in modo grandioso. Quindi

      gli disse di andare a riferire la cosa ai consoli. Benché il suo animo non

      fosse esente da scrupoli religiosi, il timore reverenziale nei confronti

      dell'autorità consolare ebbe in lui la meglio sulla paura di diventare lo

      zimbello di tutti. Questa esitazione gli costò cara: nel giro di pochi

      giorni gli morì un figlio. E perché non ci fosse nessun dubbio sulla

      natura della disgrazia, nel pieno del lutto gli apparve di nuovo in sogno

      quella stessa figura che gli domandò se il suo disprezzo per la divinità

      era stato adeguatamente ricompensato e gli disse che era previsto un

      rincaro della dose se non si fosse sbrigato a riferire ai consoli. La cosa

      incalzava ormai pericolosamente. Tuttavia insistette nell'indugiare,

      finché lo colpì una malattia implacabile accompagnata da un'improvvisa

      debolezza. Solo allora l'ira degli dèi lo fece ragionare. Quindi,

      prostrato dalle disgrazie passate e presenti, convocò una riunione di

      famiglia durante la quale espose ai congiunti ciò che aveva visto e

      sentito, e cioè le diverse apparizioni di Giove in sogno e le sue

      disgrazie personali seguite all'ira e alle minacce della divinità. Quindi,

      con l'approvazione di tutti i parenti convenuti, si fece trasportare su

      una lettiga in foro davanti ai consoli, i quali gli concessero di entrare

      nella curia. Lì, mentre tra lo stupore dei senatori ripeteva lo stesso

      racconto, ci fu un nuovo prodigio: si racconta che l'uomo, completamente

      paralizzato e trasportato a braccia in senato, una volta compiuta la

      propria missione, se ne tornò a casa con le proprie gambe.

      

      37 Il senato decretò che venissero celebrati dei giochi con la maggior

      sontuosità possibile. Su suggerimento di Azio Tullio, vi prese parte una

      nutrita delegazione di Volsci. Prima dell'inizio della manifestazione,

      Tullio, seguendo il piano concertato con Marcio a casa sua, si presentò ai

      consoli e disse di voler discutere segretamente di una questione di

      pubblico interesse. Una volta allontanati gli estranei, disse: «Mi

      rincresce dover dire dei miei concittadini cose che non li mettono in

      buona luce. Tuttavia non sono venuto a denunciarli per aver commesso

      qualche reato, ma per evitare che lo commettano. Il carattere volubile del

      nostro popolo è superiore anche ai miei desideri. Prova ne sia il numero

      delle nostre disfatte militari: se esistiamo ancora non è merito nostro ma

      della vostra tolleranza. Attualmente ci sono parecchi Volsci a Roma; ci

      sono i giochi; i cittadini saranno concentratissimi sullo spettacolo.

      Ricordo benissimo la bravata dei giovani sabini, sempre qui a Roma e in

      concomitanza di un'analoga occasione. Ciò che mi spaventa è la possibilità

      di qualche gesto imprevedibile e sconsiderato. Per questo, nel nostro

      comune interesse, ho ritenuto opportuno, o consoli, mettervi sul chi vive

      riguardo a questa eventualità. Quanto a me, ho intenzione di tornarmene

      subito a casa: non voglio, restando qui, farmi complice di quel che si fa

      o si dice.» Detto questo, se ne andò. I consoli riferirono al senato

      l'incerta informazione (proveniente però da fonte certissima) e, come

      sempre succede in casi del genere, fu più l'autorità della fonte che la

      notizia stessa a spingerli a prendere misure precauzionali superiori alle

      reali necessità. Un decreto del senato ingiunse ai Volsci di abbandonare

      Roma. Tramite degli araldi venne loro ordinato di partire prima del calare

      della notte. La reazione immediata fu il panico: si misero a correre

      all'impazzata per andarsi a riprendere la loro roba nelle pensioni

      dov'erano alloggiati. Poi, mentre erano già per strada, subentrò

      l'indignazione: li avevano trattati alla stregua di criminali e

      scellerati, cacciandoli dai giochi in quei giorni di festa e, in qualche

      modo, anche dal consesso degli dèi e degli uomini.

      

      38 Mentre procedevano in una fila quasi ininterrotta, Tullio, il quale li

      aveva preceduti alla fonte Ferentina e lì li stava aspettando, andò

      incontro ai concittadini più in vista man mano che arrivavano e,

      rivolgendo loro parole di sdegno e indignazione (ma adattissime alla loro

      grande rabbia per l'accaduto), grazie all'influenza che essi esercitavano

      sugli altri, riuscì a condurli tutti in un terreno che si trovava sotto la

      strada. Lì, parlando come se fosse stato in un'assemblea, disse:

      «Dimentichiamoci pure tutto il resto, gli affronti del passato e le

      disastrose disfatte militari inflitte ai Volsci dal popolo romano: ma

      com'è possibile lasciar correre lo sfregio di oggi e permettere che il

      nostro disonore sia sfruttato come cerimonia di apertura dei giochi?

      Oppure non vi siete accorti che per loro oggi è stato un trionfo su di

      voi? E che la vostra espulsione ha dato spettacolo a tutti, cittadini e

      stranieri e a molti dei popoli con cui confiniamo? Che le vostre mogli e i

      vostri figli sono sulla bocca di tutti? E quelli che han sentito le parole

      degli araldi, quelli che hanno assistito alla nostra partenza, quelli che

      per strada si sono imbattuti in questa colonna della vergogna, cosa

      credete che abbiano pensato se non che dovevamo aver di certo commesso una

      grave colpa, per la quale, con la nostra presenza allo spettacolo, avremmo

      profanato i giochi e che eravamo stati espulsi onde evitare che sedessimo

      accanto alla gente pia e partecipassimo alla loro riunione? E poi, non vi

      rendete conto che siamo vivi perché non ci abbiamo pensato due volte a

      partire? Ammettendo che non si tratti di fuga. E non vi sembra di dover

      considerare questa città una tana di nemici, dato che un solo giorno di

      permanenza sarebbe costato a tutti la vita? Vi è stata dichiarata guerra:

      tanto peggio per chi l'ha dichiarata, se voi siete degli uomini.» Così,

      già di per sé indignati ed eccitati da quelle parole, rientrarono nelle

      rispettive città e ciascuno infiammò a tal punto la propria gente da

      causare la rivolta dell'intera razza volsca.

      

      39 All'unanimità tutti i popoli scelsero quali comandanti in capo per

      quella guerra Azio Tullio e Gneo Marzio, l'esule romano, nel quale

      riponevano ancora maggiori speranze. Ed egli non le deluse, dimostrando

      chiaramente che il punto di forza di Roma non erano tanto le sue truppe

      quanto i suoi generali. Il primo bersaglio fu Circei: ne cacciò i coloni

      romani e restituì la città, ora libera, ai Volsci. Quindi conquistò

      Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente

      sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via

      Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione,

      Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò

      presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città. Facendo base in

      questo punto, devastò l'agro romano nei dintorni, preoccupandosi di

      inviare coi guastatori anche degli uomini incaricati di salvaguardare le

      proprietà terriere dei patrizi. Due le ragioni di questa mossa: dimostrare

      che la sua rabbia era maggiormente diretta contro la plebe, e fare in modo

      di creare un nuovo urto tra le due classi. E così sarebbe stato: infatti i

      tribuni, con le loro invettive, stavano facendo di tutto per istigare la

      plebe, già di per sé infuriata, contro i patrizi. Solo la paura del

      nemico, massimo vincolo di concordia nonostante la diffidenza reciproca,

      riusciva a tenere uniti gli animi di tutti. Su una questione non erano

      d'accordo: il senato e i consoli non vedevano altre speranze che nelle

      armi, mentre la plebe avrebbe scelto qualsiasi altra cosa piuttosto che la

      guerra. I consoli in carica erano Spurio Nauzio e Sesto Furio. Mentre

      stavano passando in rassegna le legioni e piazzando delle guarnigioni

      sulle mura e nei punti in cui avevano stabilito di collocare dei posti di

      guardia e delle sentinelle, una folla di dimostranti favorevoli alla pace,

      in un primo tempo li spaventò con grida di rivolta e quindi li costrinse a

      convocare il senato perché inviasse degli ambasciatori a Gneo Marzio. I

      senatori accolsero la proposta quando si accorsero che il morale della

      plebe stava precipitando e mandarono a Marzio degli inviati per trattare

      la pace. La risposta che riportarono fu terribile: se il territorio dei

      Volsci veniva restituito, in quel caso si poteva parlare di pace; ma se

      volevano la pace solo per godersi il bottino di guerra, allora lui,

      Marzio, memore dell'ingiustizia subita in patria e del'ospitalità

      offertagli in terra straniera, avrebbe dimostrato che l'esilio aveva

      raddoppiato, e non infiacchito, le sue energie. Gli inviati fecero un

      secondo tentativo ma non furono nemmeno ammessi all'interno

      dell'accampamento. Pare che addirittura i sacerdoti, con tutti i loro

      paramenti, si presentarono supplici all'accampamento nemico ma che, come

      già gli ambasciatori, non riuscirono a far cambiare idea a Marzio.

      

      40 Allora le donne sposate andarono in massa a trovare Veturia e Volumnia,

      rispettivamente madre e moglie di Coriolano. Non mi è stato possibile

      ricostruire se ci fu un preciso ordine ufficiale o semplicemente la paura

      delle donne. In ogni modo convinsero l'anziana Veturia e Volumnia, con al

      suo séguito i due bambini avuti da Marzio, ad accompagnarle

      nell'accampamento nemico: se Roma non la si poteva difendere con le armi

      degli uomini, allora l'avrebbero difesa le donne con le loro lacrime e le

      loro suppliche. Quando arrivarono all'accampamento e venne annunciata a

      Coriolano la presenza di una massiccia schiera di donne, egli,

      irremovibile di fronte alla maestà dei rappresentanti dello Stato nonché

      di fronte all'aspetto venerando dei sacerdoti - che tanto può sugli occhi

      e sullo spirito -, in un primo tempo si mostrò ancora più ostinato nei

      confronti delle lacrime di quelle donne. Poi, uno dei suoi amici più

      intimi, riconosciuta Veturia che spiccava tra le altre per mestizia ed era

      in piedi tra la nuora e i nipotini, gli disse: «Se la vista non m'inganna,

      quelli là sono tua madre, tua moglie e i tuoi bambini.» Coriolano saltò

      giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per

      abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse:

      «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un

      nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una

      prigioniera o una madre. Ecco fino a che punto mi hanno trascinato questa

      mia lunga vita e questa infelice vecchiaia: son costretta a vederti in

      esilio e addirittura nostro nemico. Come hai potuto devastare questa terra

      che ti ha generato e nutrito? Anche se eri partito con animo ostile e

      minaccioso, possibile non ti si sia sbollita la rabbia una volta superati

      i confini? Possibile che con Roma davanti agli occhi non ti sia venuto in

      mente di pensare "Dentro quelle mura c'è tutto quello che mi appartiene,

      casa, penati, madre, moglie, figli"? Allora, se io non ti avessi messo al

      mondo, Roma adesso non sarebbe assediata. Se non avessi avuto figli, sarei

      morta libera in una libera patria. D'altra parte, oramai non mi attende

      più nulla che possa peggiorare la mia miseria e il tuo disonore: se ho

      toccato il fondo della disgrazia non ho più molto tempo per rimanerci. È a

      loro che devi pensare: se ti ostini in questa direzione, gli toccherà o

      una morte immatura o una lunga servitù.» Allora la moglie e i figli lo

      abbracciarono e il pianto levatosi da tutte le donne e i loro lamenti per

      la patria e se stesse alla fine piegarono l'irremovibilità di Marzio.

      Abbracciò la sua famiglia rimandandola a casa; quanto a lui, tolse

      l'accampamento da sotto le mura, evacuò l'agro romano delle sue truppe e

      pare rimase ucciso proprio in quella zona, vittima dell'odio che si era

      procurato. Non c'è accordo sulle cause della morte: presso Fabio, di gran

      lunga la fonte più antica, ho trovato che morì di vecchiaia. In ogni modo,

      egli riferisce che quando ormai era un vecchio, Coriolano ripeteva

      spessissimo che l'esilio è ancora più duro se si è avanti con gli anni.

      Gli uomini romani non invidiarono le donne per il loro nobile gesto (tanto

      lontani si era allora dal vivere nell'invidia della gloria altrui). Anzi,

      a ricordo dell'episodio, fu costruito e consacrato un tempio alla Fortuna

      delle donne.

      In séguito i Volsci, alleatisi con gli Equi, invasero di nuovo l'agro

      romano, ma gli Equi non accettarono più Tullo Azio come comandante in

      capo. La questione - a chi cioè affidare il comando dei due eserciti uniti

      - creò prima un aperto contrasto per poi finire in un bagno di sangue. In

      quel caso la buona stella del popolo romano annientò due eserciti nemici

      in una battaglia non meno rovinosa che accanita.

      Consoli Tito Sicinio e Caio Aquilio. A Sicinio toccarono i Volsci, ad

      Aquilio gli Ernici, scesi anche loro in campo. Quell'anno gli Ernici

      furono sconfitti. La guerra coi Volsci, dopo alterne fortune, si risolse

      in un nulla di fatto.

      

      41 I consoli successivi furono Spurio Cassio e Proculo Verginio. Fu

      stipulato un trattato con gli Ernici in base al quale Roma si annetteva i

      due terzi del loro territorio. Il console Cassio era dell'avviso di darne

      metà ai Latini e metà ai plebei. E a questa donazione voleva aggiungere

      parte della terra che teoricamente risultava essere di demanio pubblico e

      che invece, secondo la sua accusa, era detenuta abusivamente da privati.

      Questa proposta terrorizzava molti senatori che, essendo essi stessi i

      proprietari, si vedevano minacciati nelle proprie sostanze. Ma i senatori,

      visto il ruolo da essi ricoperto in ambito pubblico, temevano che con

      quella donazione il console potesse acquistare un'influenza pericolosa per

      la libertà. Allora, per la prima volta, fu promulgata una legge agraria:

      da quella data fino ai giorni nostri non c'è stata volta che il ritorno

      sulla stessa questione non abbia causato gravi disordini politici. L'altro

      console si opponeva alla donazione e aveva dalla sua parte i senatori

      senza nel contempo trovarsi di fronte l'ostilità di tutta la plebe, la

      quale aveva sùbito mostrato di non gradire che la donazione fosse stata

      estesa dai cittadini ai semplici alleati. E in più sentiva spesso che il

      console Verginio denunciava pubblicamente la perniciosità della

      elargizione proposta dal collega, sostenendo che quella terra avrebbe

      ridotto in schiavitù chiunque ne avesse beneficiato e avrebbe

      rappresentato una strada diretta verso la monarchia. Che ragioni c'erano

      di includere nella spartizione gli alleati e il popolo latino? A che pro

      rendere agli Ernici, fino a ieri nemici, un terzo della terra conquistata,

      se non perché quelle genti al posto di Coriolano avessero Cassio? Da quel

      momento, lui che era stato l'oppositore della legge agraria, cominciò a

      diventare popolare. In séguito, tra i due consoli, si assistette quasi a

      una gara di attenzioni verso la plebe: Verginio si diceva pronto ad

      accettare la donazione a patto che interessasse soltanto i cittadini

      romani; Cassio, poiché con la promessa di donazione agraria si era reso

      popolare presso gli alleati, conquistandosi però lantipatia dei suoi

      concittadini, per riconciliarsene i favori con un altro dono, ordinò di

      rimborsare al popolo il denaro pagato per il frumento siciliano. Ma la

      plebe respinse sdegnosamente l'offerta giudicandola un tentativo di

      comprarsi in contanti il potere monarchico. E per questo sospetto

      istintivo voltavano sprezzanti le spalle ai suoi doni, come se avessero

      tutto in eccesso. A fine mandato - è un fatto su cui non ci sono dubbi -,

      fu condannato a morte e ucciso. Alcuni sostengono che l'esecutore

      materiale della sentenza fu suo padre: istituita la causa a domicilio, lo

      avrebbe fatto frustare a morte e ne avrebbe consacrato i beni a Cerere.

      Poi avrebbe fatto scolpire una statua con questa iscrizione: «Dono della

      famiglia Cassia.» Presso alcuni autori ho trovato una versione diversa ma

      più aderente alla realtà: i questori Cesone Fabio e Lucio Valerio lo

      avrebbero accusato di alto tradimento, il popolo lo avrebbe riconosciuto

      colpevole e lo Stato avrebbe fatto radere al suolo la casa. È la zona

      antistante al tempio della Terra. Sta di fatto che la condanna, frutto di

      un processo pubblico o privato, fu pronunciata durante il consolato di

      Servio Cornelio e Quinto Fabio.

      

      42 Il risentimento popolare nei confronti di Cassio non durò a lungo. La

      legge agraria, già allettante di per se stessa, ora che era scomparso il

      suo promulgatore, affascinava tutti e il desiderio che se ne provava fu

      accresciuto dalla meschinità dei senatori, i quali, quell'anno, dopo una

      vittoria sui Volsci e sugli Ernici, privarono i soldati del bottino. Tutto

      ciò che fu tolto al nemico il console Fabio lo mise all'incanto e ne

      trasferì i proventi nelle casse dello Stato.

      Il nome dei Fabi era impopolarissimo proprio a causa di quest'ultimo

      console. Ciò nonostante, i consoli riuscirono a ottenere che insieme a

      Lucio Emilio venisse eletto console Cesone Fabio. Questo incrementò il

      rancore dei plebei che, a séguito dei disordini causati in patria, fecero

      scoppiare un conflitto all'estero. E con la guerra le discordie civili

      conobbero una tregua: patrizi e plebei uniti, agli ordini di Emilio con

      una brillante vittoria sedarono una ribellione dei Volsci e degli Equi. I

      nemici, tuttavia, ebbero più perdite durante la ritirata che durante lo

      scontro, tanta fu l'ostinazione con la quale i cavalieri li inseguirono

      mentre fuggivano sparpagliati. Il quindici luglio di quello stesso anno

      venne consacrato a Castore il tempio promesso dal dittatore Postumio

      durante la guerra latina: lo dedicò suo figlio, eletto duumviro

      espressamente per questo ufficio.

      Anche quell'anno la plebe cedette al richiamo allettante della legge

      agraria. I tribuni della plebe cercavano di rinforzare la loro autorità

      popolare con una legge popolare: i senatori, trovando che era già

      sufficiente la violenza spontanea della plebe, vedevano le donazioni come

      un rischioso stimolo alla temerarietà. I fautori più accesi

      dell'opposizione senatoriale furono i consoli. Così la spuntarono proprio

      questi ultimi, e non solo nella circostanza presente: infatti, l'anno

      successivo, riuscirono anche a portare al consolato Marco Fabio, fratello

      di Cesone, e un personaggio ancora più impopolare, Lucio Valerio, l'uomo

      cioè che aveva accusato Spurio Cassio.

      Anche in quell'anno ci fu una grande battaglia coi tribuni. La legge subì

      uno scacco totale, così come lo subirono quanti l'avevano proposta

      promettendo cose immantenibili. La famiglia dei Fabi si conquistò una

      grande stima con quei tre consolati consecutivi, tutti caratterizzati da

      continui conflitti coi tribuni. Così, visto che era considerato in mani

      sicure, l'incarico rimase abbastanza a lungo presso quella famiglia. In

      séguito scoppiò una guerra con Veio e i Volsci si ribellarono. Ma visto

      che per i conflitti esterni c'era un eccesso di forze, le si impiegò

      malamente in quelli interni. Al malessere generale vennero anche ad

      aggiungersi dei prodigi divini che, quasi ogni giorno, si manifestavano a

      Roma e nelle campagne minacciando sventure. Secondo le interpretazioni

      pubbliche e private, basate sulle viscere degli animali e sul volo degli

      uccelli, l'ira degli dèi aveva una sola spiegazione possibile: nelle

      cerimonie religiose non ci si era attenuti alle prescrizioni rituali.

      Tutte queste paure non portarono ad altro che alla condanna della vestale

      Oppia, accusata di aver violato il voto di castità.

      

      43 Quinto Fabio e Caio Giulio furono in séguito eletti consoli. Quell'anno

      la lotta di classe che dilaniava la città non fu meno accanita e accesa

      della guerra combattuta al l'estero. Gli Equi presero le armi; le

      scorribande dei Veienti arrivarono fino all'agro romano. La crescente

      inquietudine dovuta a queste campagne è l'atmosfera in cui vengono eletti

      consoli Cesone Fabio e Spurio Furio. Gli Equi stavano assediando Ortona,

      una città latina. I Veienti, già carichi di bottino, minacciavano di

      attaccare Roma stessa. Tutti questi campanelli d'allarme, invece di sedare

      l'animosità dei plebei, la incrementarono ulteriormente. E ricominciarono

      con la politica del boicottaggio del servizio militare, anche se non

      spontaneamente: infatti il tribuno della plebe Spurio Licinio, vedendo

      nella crisi del momento un'occasione propizia per imporre ai patrizi la

      promulgazione di una legge agraria, si era messo in testa di ostacolare i

      preparativi di guerra. Da quel momento in poi il tradizionale odio nei

      confronti del tribunato si concentrò esclusivamente sulla sua persona: i

      consoli non lo attaccarono meno animosamente dei suoi stessi colleghi e fu

      proprio grazie al loro sostegno che riuscirono a organizzare la leva

      militare.

      Si reclutarono truppe per due campagne contemporanee: Fabio sarebbe stato

      il comandante della spedizione contro gli Equi, Furio di quella contro i

      Veienti. Quest'ultima non fece registrare niente che meriti di essere

      ricordato. Nella campagna contro gli Equi, Fabio ebbe in qualche modo più

      problemi con i suoi effettivi che con i nemici. Fu soltanto quella grande

      figura, il console stesso, che resse le sorti dello Stato, tradito in

      tutti i modi possibili dai soldati i quali lo detestavano. Un solo

      esempio: dopo aver dimostrato in molte altre occasioni grande abilità

      nella strategia e nella condotta delle operazioni, quando il console operò

      una mossa che gli permise di sbaragliare le linee nemiche con un assalto

      della sola cavalleria, la fanteria si rifiutò di lanciarsi

      all'inseguimento dei fuggiaschi; e né l'incitamento dell'odiato generale,

      né il disonore loro e la vergogna che in quel momento ricadeva su tutti,

      né il rischio che il nemico potesse riprendere coraggio e tornare sui

      propri passi, nessuno di questi fattori li spinse ad accelerare l'andatura

      o, se non altro, a mantenersi allineati. Così, nonostante gli ordini,

      ritornarono indietro e, con facce che avresti detto di vinti, rientrano

      alla base maledicendo a turno il generale e l'efficienza della cavalleria.

      Il comandante non riuscì a rimediare in nessun modo a questo episodio, per

      quanto rovinoso fosse stato, e ciò dimostra che le menti superiori hanno

      spesso maggiori problemi a imporre la propria volontà politica ai

      cittadini che la propria legge militare ai nemici. Il console ritorna

      quindi a Roma, non tanto carico di gloria conquistata sul campo, quanto

      dell'odio esacerbato e dell'esasperazione dei soldati nei suoi confronti.

      Ciò nonostante, i senatori ottennero che il consolato rimanesse presso la

      famiglia dei Fabi; nominano console Marco Fabio cui viene affiancato come

      collega Gneo Manlio.

      

      44 Quell'anno vide un tribuno, Tiberio Pontificio, proporre la legge

      agraria: seguendo pari passo le orme di Spurio Licinio - come se a lui

      fosse andata bene -, per un certo periodo riuscì a ostacolare la leva. Di

      fronte al rinnovarsi delle preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse

      che l'anno prima si era avuta la meglio sul potere dei tribuni e che la

      vittoria in quella precisa occasione potenzialmente valeva anche per i

      giorni a venire, in quanto allora si era scoperto che esso poteva essere

      annientato proprio con le sue stesse forze. Infatti ci sarebbe sempre

      stato un tribuno desideroso di ottenere un successo personale ai danni del

      collega e disposto a conquistarsi il favore del patriziato rendendo un

      servizio allo Stato. E, all'occorrenza, un numero più consistente di

      tribuni non avrebbe esitato a spalleggiare il console; d'altra parte

      sarebbe bastato uno contro tutti. La sola cosa che i consoli e i senatori

      più in vista dovevano fare era questa: cercare di portare, se non tutti,

      almeno qualcuno dei tribuni dalla parte dello Stato e del senato. L'intero

      ordine senatoriale, seguendo le istruzioni di Appio, cominciò a dimostrare

      ai tribuni gentilezza e disponibilità; e gli ex consoli, contando

      sull'influenza che ciascuno di essi vantava sui singoli, in parte con

      favori personali, in parte con l'autorità di cui disponevano, fecero in

      modo che i tribuni mettessero i loro poteri al servizio dello Stato. Così,

      quattro di essi, contro un solo e ostinato avversario dell'interesse

      generale, collaborarono coi consoli nella realizzazione della leva.

      Fatto questo, partì la spedizione armata contro Veio, dove si erano

      concentrati dei contingenti provenienti da tutta l'Etruria, non tanto per

      sostenere la causa dei Veienti, quanto piuttosto perché c'era la speranza

      che le discordie interne potessero accelerare il crollo della potenza

      romana. I capi di tutte le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee

      sostenendo che l'egemonia di Roma sarebbe durata in eterno, se essi non

      avessero smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide.

      Quello era l'unico veleno, la sola rovina delle società fiorenti, nata per

      far conoscere ai grandi potentati il senso della caducità. A lungo

      contenuto, vuoi per l'accorta gestione dei senatori, vuoi per la

      rassegnazione della plebe, il male stava ormai dilagando in maniera

      incontrollabile. Di uno stato se n'erano fatti due, con tanto di leggi e

      magistrati autonomi in ciascuno di essi. Nei primi tempi c'era

      un'opposizione accesa e sistematica alla leva e poi, quando si trattava di

      combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti. Qualunque fosse la

      situazione interna, bastava reggesse la disciplina militare per tenere in

      piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai magistrati era diventata una moda

      che aveva coinvolto anche il mondo militare romano. Che considerassero

      l'ultima guerra da loro combattuta: quando lo schieramento allineato era

      già nel pieno dello scontro, ecco che tutti i soldati avevano deciso di

      comune accordo di rimettere la vittoria nelle mani degli ormai vinti Equi,

      di liberarsi delle insegne, di abbandonare il comandante sul campo e di

      rientrare alla base contro ogni ordine ricevuto. Nessun dubbio che se gli

      Equi avessero fatto ancora uno sforzo Roma sarebbe crollata sotto i colpi

      dei suoi stessi soldati. Non ci voleva molto: una semplice dichiarazione

      di guerra e una dimostrazione di efficienza militare. Al resto avrebbero

      pensato il destino e il volere degli dèi. Queste speranze spinsero gli

      Etruschi a scendere in guerra, nonostante la lunga sequenza di alterne

      vittorie e sconfitte.

      

      45 I consoli romani, a loro volta, non temevano nulla quanto le proprie

      forze e le proprie truppe. Memori del deplorevole incidente occorso

      nell'ultima guerra, eran terrorizzati all'idea di scendere in campo per

      affrontare contemporaneamente la minaccia di due eserciti. Così

      stazionavano all'interno dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di

      quel doppio pericolo. Non era escluso che il tempo e i casi della vita

      avrebbero ridotto la tensione degli uomini e riportato il buon senso. Ma

      proprio per questo i loro nemici, Etruschi e Veienti, stavano accelerando

      al massimo le operazioni: sulle prime li provocarono a scendere in campo

      cavalcando nei pressi dell'accampamento e sfidandoli a uscire; poi, visto

      il nulla di fatto, presero a insultare a turno i consoli e la truppa.

      Dicevano che la storia della lotta di classe era un pretesto per coprire

      la paura e che il dubbio più grande dei consoli non era rappresentato

      tanto dalla lealtà quanto dal valore dei loro uomini. Che razza di

      ammutinamento poteva essere una rivolta di soldati di leva tutti buoni e

      silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano altre, più o meno fondate,

      circa le recenti origini della loro razza. I consoli non reagivano a

      questi insulti provenienti proprio da sotto il fossato e le porte. La

      moltitudine, invece, meno portata a simulare, passava dall'indignazione

      all'umiliazione più profonda e si dimenticava degli attriti sociali:

      voleva farla pagare ai nemici e nel contempo non voleva che i consoli e il

      patriziato potessero vantare una vittoria. Il conflitto psicologico era

      tra l'odio per la classe avversaria e quello per il nemico. Alla fin fine

      ebbe la meglio il secondo, tanto insolente e arrogante era diventato lo

      scherno dei nemici. Si accalcano davanti al pretorio, reclamano la

      battaglia, chiedono che si dia il segnale. I consoli confabulano, come se

      fossero in piena riunione di consiglio. La discussione dura a lungo. Il

      loro desiderio era combattere; nel contempo, però, frenavano e

      dissimulavano il desiderio stesso in odo tale che crescesse l'impeto dei

      soldati ostacolati e trattenuti. Gli uomini si sentirono rispondere che

      attaccare sarebbe stato prematuro perché gli sviluppi della situazione non

      erano ancora arrivati al punto giusto. Quindi che rimanessero

      nell'accampamento. Seguì l'ordine di astenersi dal combattere: se

      qualcuno, violando la consegna, avesse combattuto sarebbe stato trattato

      come un nemico. Con queste parole li congedarono: ma il loro apparente

      rifiuto fece crescere negli uomini l'impazienza di buttarsi all'assalto.

      Quando i nemici vennero a sapere che il console aveva interdetto ai suoi

      di scendere in campo, si accanirono ulteriormente nella provocazione,

      infiammando così ancora di più i soldati romani. Era evidente che li

      potevano schernire senza correre rischi: godevano di così poca fiducia che

      venivano negate loro persino le armi. La conclusione sarebbe stato un

      ammutinamento generale con il conseguente crollo della potenza romana.

      Forti di queste convinzioni, vanno a lanciare grida di scherno davanti

      alle porte dell'accampamento e si trattengono a stento dall'assalirlo. A

      quel punto i Romani non poterono sopportare oltre gli insulti e da tutti i

      punti del campo si riversarono di corsa davanti ai consoli: le loro non

      erano più come prima richieste disciplinate e presentate per bocca dei

      primi centurioni, ma un coro di voci scomposte. La cosa era matura:

      tuttavia i consoli tergiversavano. Alla fine, Fabio, vedendo che il

      collega, di fronte a quel crescente tumulto, era sul punto di cedere per

      paura di una sommossa, chiamò un trombettiere per imporre il silenzio e

      poi disse: «Questi uomini, Gneo Manlio, possono vincere, te lo assicuro;

      che lo vogliano, ho qualche dubbio, e per colpa loro. Quindi sono deciso a

      non dare il segnale di battaglia se prima non giurano di ritornare

      vincitori. Le truppe, durante le fasi di uno scontro, han tradito una

      volta il console romano: gli dèi non li tradiranno mai». A quel punto, un

      centurione di nome Marco Flavoleio, tra i più accaniti nel reclamare la

      battaglia, disse: «Tornerò vincitore, o Marco Fabio!» Augurò che l'ira del

      padre Giove, di Marte Gradivo e degli altri dèi potesse abbattersi su di

      lui in caso di fallimento. A seguire giurarono tuti gli altri uomini,

      ripetendo ciascuno lo stesso augurio nei propri confronti. Finito il

      giuramento si sente il segnale e tutti corrono ad armarsi, pronti a

      scendere in campo con una carica di rabbioso ottimismo. Ora sfidano gli

      Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno sfida quelle male lingue a farsi

      sotto, ad affrontare il nemico adesso che è armato di tutto punto! Quel

      giorno, patrizi e plebei senza differenze, brillarono tutti per il grande

      coraggio dimostrato. Al di sopra di ogni altro, però, il nome dei Fabi:

      con quella battaglia essi riguadagnarono il favore popolare perso nel

      corso della lunga sequenza di lotte politiche a Roma.

      

      46 L'esercito viene schierato e né i Veienti né le legioni etrusche si

      tirano indietro. La loro certezza quasi assoluta era questa: i Romani non

      li avrebbero affrontati con maggiore determinazione di quanta ne avevano

      dimostrata con gli Equi; oltretutto, vista l'esasperazione degli animi e

      la totale incertezza dello scontro, non era escluso che commettessero

      qualche nuovo e imprevedibile errore. Ma le cose andarono in tutt'altra

      maniera: in nessuna delle guerre del passato i Romani si erano prodotti in

      un attacco così violento, tanto li avevano esasperati sia gli insulti del

      nemico sia gli indugi dei consoli. Gli Etruschi avevano appena avuto il

      tempo di spiegare il proprio schieramento che i Romani, nel pieno della

      concitazione iniziale, prima avevano lanciato a caso le aste più che

      prendendo la mira, e poi erano arrivati al corpo a corpo con la spada,

      cioè proprio il tipo più pericoloso di duello. Nelle prime file le

      prodezze straordinarie dei Fabi erano un esempio per i concittadini. Uno

      di essi, quel Quinto Fabio che era stato console due anni prima, stava

      guidando l'attacco contro un gruppo compatto di Veienti, quando un etrusco

      fortissimo e particolarmente esperto nel maneggiare le armi lo sorprese

      mentre incautamente si spingeva tra un nugolo di nemici e lo passò da

      parte a parte in pieno petto. E una volta estratta la spada, Fabio crollò

      a terra riverso sulla ferita. Anche se si trattava di un uomo solo, la

      notizia della sua morte fece scalpore in entrambi gli schieramenti e i

      Romani stavano già per cedere, quando il console Marco Fabio,

      scavalcandone il cadavere e proteggendosi con lo scudo, gridò: «È questo

      che avete giurato, soldati? Fuggire e ritornare al campo? Allora vuol dire

      che temete quei gran codardi dei nemici più di Giove o Marte, in nome dei

      quali avete giurato? Benissimo: io non ho giurato, eppure o tornerò

      indietro vincitore o cadrò battendomi qui accanto a te, Quinto Fabio!»

      Alle parole del console replicò allora Cesone Fabio, console l'anno

      precedente: «Credi, fratello, che diano retta alle tue parole e tornino a

      combattere? Daranno retta agli dèi, è su di loro che han giurato. Quanto a

      noi, per il rango sociale che occupiamo e per il nome che portiamo (siamo

      o non siamo dei Fabi?), è nostro dovere infiammare l'animo dei soldati più

      con l'esempio concreto che con tanti discorsi». Detto questo, i due Fabi

      volarono in prima linea con le lance in resta e si trascinarono dietro

      tutto l'esercito.

      

      47 Così furono risollevate le sorti della battaglia da quella parte.

      Dall'altra ala dello schieramento il console Gneo Manlio stava

      impegnandosi con non meno ardore a sostenere il combattimento, quando

      accadde un episodio quasi del tutto analogo. Infatti, come prima Quinto

      Fabio all'ala opposta, così adesso da questa parte Manlio, mentre stava

      guidando l'attacco impetuoso dei suoi soldati contro il nemico già quasi

      allo sbaraglio, fu ferito gravemente e dovette abbandonare la battaglia.

      La truppa, credendolo morto, cominciò a vacillare e avrebbe ceduto la

      posizione se l'altro console, arrivato al galoppo da quella parte con

      alcuni squadroni di cavalieri, gridando che il suo collega era vivo e che

      egli stesso aveva piegato e messo in fuga i nemici dall'altro versante

      dello schieramento, non avesse raddrizzato la situazione. Anche Manlio,

      facendosi vedere in mezzo a loro, contribuisce a rimettere in sesto la

      linea di battaglia. E il morale degli uomini riprende sùbito quota appena

      riconoscono i lineamenti dei due consoli. Nello stesso istante si riduce

      anche la pressione del nemico perché essi, contando sulla superiorità

      numerica, avevano ritirato le riserve e le avevano mandate ad attaccare

      l'accampamento romano. Lì la resistenza è di breve durata, nonostante la

      violenza relativamente modesta dell'urto. Mentre però i nemici si davano

      da fare col bottino più che preoccuparsi degli sviluppi della battaglia, i

      triarii romani, che non erano stati capaci di sostenere l'impeto iniziale,

      mandarono dei messaggeri per riferire ai consoli come andavano le cose;

      quindi, riunitisi di nuovo nei pressi del pretorio, lanciarono un

      contrattacco senza aspettare i rinforzi e di loro spontanea volontà. Nel

      frattempo il console Manlio era rientrato nell'accampamento e, piazzando

      degli uomini in corrispondenza di tutte le porte, aveva tagliato al nemico

      ogni via d'uscita. Gli Etruschi allora, in quella situazione disperata,

      invece di dare una dimostrazione di coraggio, persero la testa. Infatti,

      dopo aver più volte tentato invano di sfondare dove speravano che fosse

      possibile una sortita, un gruppo compatto di giovani si lanciò dritto sul

      console, dopo averlo individuato per il tipo di armamento che aveva

      addosso. I primi colpi furono parati dai soldati del suo séguito, ma

      l'urto era troppo violento per poterlo reggere più a lungo; e il console

      cadde, ferito a morte, mentre gli uomini del suo presidio personale

      fuggirono. Gli Etruschi ripresero allora coraggio e il panico si impadronì

      dei Romani che correvano all'impazzata per l'accampamento: la situazione

      sarebbe veramente precipitata, se alcuni ufficiali superiori, dopo essersi

      impadroniti del corpo del console, non avessero dato via libera ai nemici

      da una delle porte. Fu di lì che si lanciarono fuori, andando però a

      cozzare senza più nessun ordine nel console vincitore che li massacrò di

      nuovo e quindi li disperse.

      Fu una grande vittoria, anche se funestata dalla morte di due uomini di

      quella statura. Così il console, quando il senato autorizzò il trionfo,

      disse in risposta che se le truppe lo potevano celebrare senza il loro

      generale, egli avrebbe dato volentieri il proprio consenso per

      l'eccellente prestazione da esse offerta in quella guerra. Quanto a se

      stesso, con la famiglia in pieno lutto per la morte del fratello Quinto

      Fabio e lo Stato mutilato in una delle sue parti per la perdita dell'altro

      console, non avrebbe potuto accettare la corona d'alloro in quel momento

      di grande cordoglio pubblico e privato. Il rifiuto del trionfo fu un

      titolo di merito superiore a qualsiasi altro trionfo mai celebrato, com'è

      vero che rifiutare la gloria al momento giusto significa raddoppiarla col

      tempo. Poi celebrò uno dopo l'altro i funerali del collega e del fratello,

      e in entrambi i casi pronunciò l'orazione funebre: pur non togliendo ai

      due uomini alcun merito, riuscì a concentrare su se stesso buona parte

      delle lodi. E senza perdere di vista quella politica di riconciliazione

      con la plebe che era stata uno dei suoi obiettivi principali all'inizio

      del consolato, affidò ai patrizi il compito di curare i soldati feriti. La

      maggior parte toccò ai Fabi e le attenzioni che essi ricevettero in questa

      casa non ebbero uguali nel resto della città. Da quel momento i Fabi

      cominciarono a essere popolari presso la plebe e fu soltanto servendo lo

      Stato che essi raggiunsero un simile obiettivo.

      

      48 Poi entrambe le parti, patrizi e plebei, mostrano un'uguale propensione

      nel voler nominare console Cesone Fabio accanto a Tito Verginio. Il primo,

      all'inizio del suo mandato, lasciando da parte guerra, leva militare e

      ogni altro problema governativo, si concentrò esclusivamente sulla

      realizzazione del suo progetto, fino a quel momento solo abbozzato, della

      riconciliazione tra plebe e patriziato. Così, nei primi mesi di

      quell'anno, per evitare che un qualche tribuno saltasse fuori con proposte

      di legge agraria, suggerì ai senatori di giocare d'anticipo e di agire

      autonomamente distribuendo alla plebe la terra conquistata e facendolo

      nella massima imparzialità possibile. Era giusto diventasse proprietà di

      quanti avevano dato sangue e sudore per conquistarla. I senatori

      bocciarono la proposta e, anzi, alcuni di loro arrivarono a dire che

      l'eccesso di gloria aveva insuperbito e offuscato la mente di Cesone una

      volta molto lucida.

      In séguito il conflitto tra le classi urbane conobbe un periodo di stallo.

      I Latini erano tormentati dalle incursioni degli Equi. Cesone si recò

      allora con un esercito nel territorio degli Equi per compiervi delle

      razzie. Gli Equi si arroccarono nella loro città, al riparo delle

      fortificazioni, e fu per questo che non ci fu nessuno scontro

      particolarmente memorabile. Coi Veienti, invece, si registrò una disfatta

      solo a causa della temerarietà dell'altro console: l'esercito sarebbe

      stato distrutto, se Cesone Fabio non fosse arrivato per tempo in aiuto.

      Dopo questo episodio, i rapporti coi Veienti non furono né pacifici né

      bellicosi, ma si limitarono a una sorta di reciproca scorrettezza. Di

      fronte alle legioni romane, si arroccavano nelle loro città; quando

      vedevano che le legioni si erano ritirate, allora uscivano e facevano

      delle scorrerie nelle campagne, eludendo alternativamente la guerra con

      una sorta di pace e la pace con la guerra. In modo tale che la cosa non

      poteva né essere abbandonata né esser portata a compimento. Quanto ai

      rapporti con gli altri popoli, si era di fronte o a guerre imminenti (per

      esempio con Equi e Volsci, la cui inattività non poteva durare più del

      tempo necessario per digerire il dolore, ancora bruciante, per l'ultima

      disfatta) o a guerre destinate a scoppiare di lì a poco (con i Sabini

      sempre ostili e con l'intera Etruria). Ma i Veienti, tipo di nemici più

      ostinati che insidiosi e portati maggiormente a provocare che a creare

      pericoli, faceva tenere il fiato in sospeso perché non lo si poteva mai

      perdere di vista e impediva di rivolgere altrove l'attenzione. Allora la

      gente Fabia si presentò di fronte al senato e il console parlò a nome

      della propria famiglia: «Nella guerra contro Veio, come voi sapete, o

      padri coscritti, la costanza dello sforzo militare conta più della

      quantità di uomini impiegati. Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate

      che i Fabi se la vedano coi Veienti. Per quel che ci concerne, vi

      garantiamo di tutelare l'onore del popolo romano: è nostra ferma

      intenzione trattare questa guerra alla stregua di una questione di

      famiglia e di accollarcene tutte le spese: lo Stato non deve preoccuparsi

      né dei soldati né del denaro.» Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il

      console uscì dalla curia e se ne tornò a casa scortato da un nutrito

      drappello di Fabi, i quali avevano aspettato il verdetto del senato nel

      vestibolo della curia. Quindi, ricevuto l'ordin di trovarsi il giorno

      dopo, armati di tutto punto, di fronte alla porta del console, rientrarono

      tutti nelle proprie case.

      

      49 La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle

      stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato

      e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e

      combattuta con armi private. Se in città ci fossero state altre due

      famiglie così forti, una si sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli

      Equi e il popolo romano si sarebbe goduto beatamente la pace una volta

      sottomessi tutti i vicini. Il giorno successivo i Fabi si presentano

      all'appuntamento armati di tutto punto. Il console, uscito nel vestibolo

      in uniforme da guerra, vede schierati tutti i membri della sua famiglia e,

      postovisi a capo, dà ordine di mettersi in marcia. Per le vie di Roma non

      sfilò mai in passato nessun altro esercito meno numeroso ma nel contempo

      così acclamato e ammirato dalla gente. Trecentosei soldati, tutti patrizi,

      tutti della stessa famiglia, ciascuno dei quali più che degno di esserne

      al comando, e capaci insieme di formare, in qualsiasi momento,

      un'eccellente assemblea, avanzarono a passo di marcia minacciando

      l'esistenza del popolo di Veio con le forze di una sola famiglia. Li

      seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici - gente

      straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione,

      ma solo a sentimenti sublimi - e in parte da gente qualunque spinta

      dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. Tutti

      auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di

      riportare un successo degno dell'impresa. E una volta di nuovo in patria,

      avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio

      e riconoscimento. Quando passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella

      e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti

      ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella

      schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla

      patria e ai parenti. Ma vane furono le preghiere. Partiti lungo la Via

      Infelice e passati dall'arcata destra della porta Carmentale, arrivarono

      alla riva del torrnte Cremera, posizione che sembrò indicata per la

      costruzione di un campo fortificato.

      Dopo questi episodi furono eletti consoli Lucio Emilio e Caio Servilio.

      Finché si trattò soltanto di razzie, i Fabi non solo garantirono una

      sicura protezione al loro campo fortificato, ma in tutta l'area di confine

      tra la campagna romana e quella etrusca resero sicura la propria zona e,

      con continui sconfinamenti, crearono un clima di pericolo costante nel

      territorio nemico. Quindi le razzie cessarono per un breve tempo, finché i

      Veienti, reclutato un esercito in Etruria, attaccarono il presidio di

      Cremera e le legioni romane agli ordini del console Lucio Emilio li

      affrontarono in uno scontro all'arma bianca. A dir la verità, i Veienti

      ebbero così poco tempo per schierarsi in ordine di battaglia che, quando

      nel disordine delle manovre iniziali era in corso l'allineamento dietro le

      insegne e la collocazione dei riservisti al loro posto, la cavalleria

      romana li caricò all'improvviso sul fianco, togliendo loro la possibilità

      non solo di attaccare per primi, ma anche di mantenere la posizione.

      Respinti in fuga fino al loro accampamento a Saxa Rubra, implorarono la

      pace. Ma per la debolezza tipica del loro carattere, si pentirono di

      averla ottenuta prima che la guarnigione romana avesse evacuato il campo

      di Cremera.

      

      50 Il popolo di Veio si trovò di nuovo nella necessità di vedersela coi

      Fabi, senza però essere meglio preparato alla guerra. E non si trattava

      più soltanto di razzie nelle campagne e di repentine rappresaglie contro i

      razziatori, ma si combatté non poche volte in campo aperto e a ranghi

      serrati, e una famiglia romana, pur misurandosi da sola, ebbe più volte la

      meglio su quella città etrusca allora potentissima. Sulle prime ai Veienti

      ciò parve umiliante e penoso. Poi però, studiando la situazione, decisero

      di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, anche perché

      vedevano con piacere che i reiterati successi avevano raddoppiato

      l'audacia dei Fabi. Così, parecchie volte, quando questi ultimi si

      avventuravano in razzie, facevano trovare loro, come per pura coincidenza,

      del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate

      dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano

      con un terrore più spesso simulato che reale. E ormai i Fabi si erano

      fatti un'idea tale del nemico da non ritenerlo in grado di sostenere le

      loro armi vittoriose, qualunque fossero stati l'occasione e il luogo dello

      scontro. Quest'illusione li portò ad uscire allo scoperto, nonostante la

      presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a

      notevole distanza dal campo di Cremera. Dopo aver superato, senza però

      rendersene conto vista la velocità con cui procedevano, un'imboscata

      proprio sulla loro strada, si dispersero nel tentativo di catturare il

      bestiame che, come sempre succede quando reagisce spaventato, correva

      all'impazzata in tutte le direzioni. Proprio in quel momento, si trovarono

      all'improvviso di fronte i nemici saltati fuori dovunque dai loro

      nascondigli. Prima fu il terrore per l'urlo di guerra levatosi intorno a

      loro, poi cominciarono a volare proiettili da ogni parte. E mentre gli

      Etruschi con una manovra centripeta li chiusero in una fila ininterrotta

      di uomini, in modo che a ogni loro passo avanti corrispondeva una

      riduzione dello spazio concentrico in cui i Romani si potevano muovere,

      questa mossa ne mise in chiara luce l'inconsistenza numerica esaltando

      invece la massa compatta degli Etruschi che sembravano il doppio in quella

      stretta fascia di terra. Allora, rinunciando alla resistenza che avevano

      sostenuto in tutti i settori, si concentrarono in un unico punto dove,

      grazie alla forza d'urto e alla loro perizia militare, riuscirono a fare

      breccia con una formazione a cuneo. In quella direzione arrivarono a

      un'altura appena accennata, dove in un primo tempo riuscirono a resistere.

      Poi, dato che la posizione sopraelevata permise loro di tirare il fiato e

      di riprendersi dal grande spavento, respinsero anche i nemici che

      pressavano da sotto. Quel pugno di uomini stava avendo la meglio grazie

      alla posizione vantaggiosa, quando i Veienti spediti ad aggirare l'altura

      emersero da dietro sulla cima e permisero ai compagni di riprendere in

      mano la situazione. I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il

      loro campo venne espugnato. Nessun dubbio: morirono in trecentosei; se ne

      salvò soltanto uno, pco più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita

      la stirpe dei Fabi e a diventare per Roma, nei momenti più cupi in pace e

      in guerra, un sostegno fondamentale.

      

      51 Al momento di questo disastro, Gaio Orazio e Tito Menenio erano già

      consoli. Menenio fu subito inviato a fronteggiare gli Etruschi esaltati

      dalla vittoria. Ancora una volta la spedizione ebbe un esito sfavorevole e

      i nemici occuparono il Gianicolo. E avrebbero addirittura assediato Roma,

      messa alle strette non solo dalla guerra ma da una carestia in atto

      (infatti gli Etruschi avevano attraversato il Tevere), se il console

      Orazio non fosse stato richiamato dal paese dei Volsci. La guerra stava

      minacciando le mura così da vicino che avevano già avuto luogo una prima

      battaglia dall'esito incerto presso il tempio della Speranza e una seconda

      davanti alla porta Collina. Lì, i Romani ebbero la meglio, anche se di

      poco; tuttavia questa battaglia restituì ai soldati il coraggio dei giorni

      migliori in vista degli scontri a venire.

      Aulo Verginio e Spurio Servilio diventano consoli. Dopo la sconfitta

      subita di recente, i Veienti evitarono il confronto in campo aperto e

      optarono per la tecnica della scorribanda: utilizzando il Gianicolo come

      campo base, facevano incursioni qua e là nella campagna romana e tutti,

      bestiame e contadini, erano in pericolo. Ma dopo un po' di tempo furono

      vittime della stessa trappola nella quale erano caduti i Fabi: mentre

      stavano inseguendo i capi di bestiame utilizzati intenzionalmente come

      esca, caddero in un'imboscata; siccome però eran più numerosi dei Fabi, le

      proporzioni del massacro furono maggiori. Questo disastro, suscitando la

      loro rabbiosa reazione, rappresentò l'inizio e la causa di una ben più

      grave disfatta. Infatti, attraversato il Tevere in piena notte, si

      buttarono all'assalto del campo del console Servilio. Respinti però con

      ingenti perdite, riuscirono a riparare faticosamente sul Gianicolo. Senza

      indugiare un attimo, il console passò a sua volta il Tevere e piazzò un

      campo fortificato sotto il Gianicolo. All'alba del giorno successivo,

      esaltato in parte dal successo del giorno prima, ma soprattutto costretto

      dalla carestia a optare per soluzioni spericolate purché di rapido

      effetto, arrivò a una tale temerarietà da spingere le sue truppe su per le

      pendici del Gianicolo fino al campo nemico: la sconfitta fu peggiore di

      quella subita dai Veienti il giorno precedente e, soltanto grazie

      all'intervento del collega, lui e le sue truppe ne uscirono incolumi. Gli

      Etruschi, presi tra due eserciti, dovendo dare le spalle ora all'uno ora

      all'altro, subirono un vero massacro. Così, grazie a un'imprudenza dalle

      conseguenze fortunate, la guerra contro Veio venne soffocata.

      

      52 A Roma, col ritorno della pace, anche i prezzi degli alimentari

      tornarono a un livello ragionevole, sia per l'importazione di frumento

      dalla Campania sia perché, una volta cessato in tutti il terrore di una

      nuova carestia, vennero rimesse in circolazione le derrate nascoste

      durante i tempi bui. Però, con l'abbondanza e l'inattività tornò di nuovo

      negli animi un'atmosfera di malessere e, visto che all'estero non c'era

      più nulla che potesse impensierire, si presero a rispolverare in patria

      gli attriti di un tempo. I tribuni sobillavano i plebei con il veleno di

      sempre, cioè la legge agraria; li incitavano contro la resistenza del

      patriziato, e non solo contro l'intera classe, ma anche contro i singoli

      individui. Quinto Considio e Tito Genucio, promotori della legge agraria,

      citarono in giudizio Tito Menenio. Lo si accusava di aver abbandonato la

      roccaforte di Cremera, quando lui, in qualità di console, aveva un

      accampamento fisso non lontano da quel punto. Questo episodio gli costò

      carissimo, pur essendosi i senatori fatti in quattro per lui non meno che

      per Coriolano e pur essendo ancora solidissima la popolarità di suo padre

      Agrippa. Nella richiesta della pena i tribuni non vollero esagerare:

      nonostante avessero chiesto la pena di morte, si limitarono tuttavia a

      condannarlo a un'ammenda di duemila assi. Questo gli costò comunque la

      vita: si dice che non riuscendo a sopportare un disonore così doloroso, si

      ammalò e ne morì.

      Durante il consolato di Caio Nauzio e Publio Valerio, proprio all'inizio

      dell'anno, ci fu un altro processo, questa volta ai danni di Spurio

      Servilio, appena uscito di carica. Citato in giudizio dai tribuni Lucio

      Cedicio e Tito Stazio, contrariamente a Menenio che aveva adottato come

      linea di difesa le suppliche sue e dei senatori, Servilio parò le accuse

      dei tribuni con la grande fiducia nella propria innocenza e nel favore che

      vantava presso il popolo. Anche lui era accusato per la battaglia con gli

      Etruschi lungo le pendici del Gianicolo. Ma, dimostrandosi uomo di grande

      temperamento non meno nel perorare la propria causa che nella difesa della

      patria, con un discorso coraggiosissimo confutò non solo le accuse dei

      tribuni ma anche la plebe; a essa rinfacciò di aver preteso la condanna a

      morte di Tito Menenio quando era proprio grazie a suo padre che i plebei

      tempo addietro erano stati ricondotti a Roma e avevano ottenuto quei

      magistrati e quelle stesse leggi di cui ora abusavano. E fu proprio la sua

      audacia a salvarlo. Un grande aiuto lo ebbe anche dal collega Verginio

      che, prodotto in qualità di teste, divise con lui i propri meriti. Ma

      l'orientamento dell'opinione pubblica era così cambiato che l'elemento

      decisivo a suo discapito fu la condanna di Menenio.

      

      53 Niente più lotte di classe a Roma e di nuovo guerra contro i Veienti,

      questa volta coalizzati coi Sabini. Il console Publio Valerio fu inviato a

      Veio a fronteggiarli con le sue truppe e con reparti ausiliari forniti da

      Ernici e Latini. Avendo sùbito assalito l'accampamento sabino situato di

      fronte alle mura nemiche, vi gettò un tale scompiglio che, mentre le

      compagnie uscivano alla rinfusa per respingere l'attacco nemico, egli si

      impadronì di quella stessa porta che era stata il primo obiettivo della

      sua azione di forza. Quel che seguì all'interno del campo non fu una

      battaglia quanto un vero massacro. Il grande trambusto arrivò di lì fino

      alla città e gli abitanti, in preda al panico come se Veio fosse stata

      catturata, corsero alle armi. Parte di essi andò in soccorso ai Sabini,

      parte si buttò a corpo morto sui Romani che, concentrati esclusivamente su

      quanto avveniva all'interno del campo, ebbero un momentaneo

      disorientamento. Poi, dopo che essi si furono stabilizzati in una

      posizione di doppio contenimento, sopraggiunse la cavalleria agli ordini

      del console e disperse gli Etruschi costringendoli alla ritirata. Nello

      stesso momento gli eserciti dei due vicini più potenti erano stati

      sconfitti. Mentre erano in corso queste operazioni contro Veio, i Volsci e

      gli Equi si erano accampati nel territorio latino e avevano razziato i

      dintorni. I Latini, soltanto con i propri mezzi e il sostegno degli

      Ernici, senza ricevere da Roma né un comandante né truppe di rinforzo, li

      scacciarono dall'accampamento e, oltre a recuperare quello che apparteneva

      loro, si impossessarono di un grande bottino. Da Roma, tuttavia, fu

      inviato contro i Volsci il console Gaio Nauzio. Non era gradito, credo,

      che gli alleati decidessero e conducessero le guerre da soli, senza un

      esercito e un generale romani. Nei confronti dei Volsci non si andò per il

      sottile con le distruzioni e le provocazioni: ciò nonostante, risultò

      impossibile costringerli a uno scontro aperto.

      

      54 I consoli successivi furono Lucio Furio e Gaio Manilio. A quest'ultimo

      toccarono i Veienti. Tuttavia non si arrivò a combattere in quanto, su

      loro espressa richiesta, venne concessa una tregua di quarant'anni in

      cambio di denaro e frumento. Alla pace con l'estero successe

      immediatamente una ripresa dei disordini interni. I tribuni aizzavano la

      plebe con l'arma della legge agraria. I consoli, per nulla spaventati al

      ricordo della condanna di Menenio e del pericolo corso da Servilio,

      resistevano con grande forza. Al termine però del loro mandato, il tribuno

      della plebe Gneo Genucio li trascinò in giudizio.

      Lucio Emilio e Opitro Verginio entrano quindi in carica come consoli. In

      alcuni annali ho trovato Vopisco Giulio al posto di Verginio. In

      quell'anno - chiunque fossero i consoli - Furio e Manilio, accusati di

      fronte al popolo, andarono in giro vestiti a lutto visitando non meno i

      plebei che i giovani senatori. Li mettevano in guardia e li dissuadevano

      dall'assumere cariche onorifiche e dal lasciarsi invischiare nella

      gestione dello Stato; cercavano di far capire loro che le fasce consolari,

      la toga pretesta e la sella curule non erano nient'altro che accessori da

      pompe funebri: quegli splendidi ornamenti valevano le bende sulla fronte

      delle vittime, e portarli significava avviarsi alla morte. Se il consolato

      li affascinava tanto, almeno si rendessero conto che ormai esso era

      ostaggio e schiavo dello strapotere tribunizio e che il console, ridotto

      al rango di subalterno dei tribuni, era costretto a subordinare ogni suo

      movimento al cenno e agli ordini dei tribuni stessi; qualunque suo

      movimento, qualunque segno di reverenza nei confronti dei senatori,

      qualunque concezione che non contemplasse la plebe come unica presenza

      all'interno dello Stato, avrebbe dovuto fare i conti con l'esilio di Gneo

      Marzio e con la condanna a morte di Menenio. Infiammati da queste parole,

      i senatori cominciarono a tenere riunioni che non avevano carattere

      pubblico ma si svolgevano in privato e all'insaputa della maggior parte

      dei cittadini. Durante questi incontri una sola era la parola d'ordine:

      gli imputati andavano sottratti al giudizio ricorrendo a procedure lecite

      o meno; di conseguenza, più una proposta era turbolenta, più incontrava il

      favore dei convenuti e non mancavano anche i fautori di gesti

      assolutamente temerari. Così, il giorno del giudizio, con la plebe in

      piedi nel foro (nessuno osava fiatare nell'attesa), sulle prime ci fu

      un'ondata di stupore per la mancata comparsa del tribuno e poi, quando la

      sorpresa si trasformò in sospetto, tutti cominciarono a pensare che il

      magistrato si fosse venduto ai patrizi e avesse proditoriamente

      abbandonato la causa dello Stato. Alla fine, quelli che erano andati ad

      aspettare il tribuno davanti alla porta tornarono dicendo che lo avevano

      trovato morto in casa. Appena la notizia si diffuse in tutta l'assemblea,

      come un esercito che si squaglia quando il comandante cade sul campo, così

      la folla si disperse in tutte le direzioni. I più terrorizzati erano però

      i tribuni, perché la morte del collega aveva chiaramente dimostrato la

      scarsa protezione che veniva loro garantita dalla legge

      sull'inviolabilità. Né i senatori riuscirono a mascherare la propria

      soddisfazione: il crimine commesso suscitò così pochi sensi di colpa che

      addirittura gli innocenti volevano far vedere di avervi preso parte e

      tutti ormai parlavano della violenza come unico antidoto al potere dei

      trbuni.

      

      55 Subito dopo questa vittoria, che costituiva un pericoloso avvertimento,

      viene bandita una leva militare che i consoli riescono a portare a termine

      senza la minima opposizione da parte degli spaventatissimi tribuni. In

      quell'occasione la plebe andò su tutte le furie più per il silenzio dei

      tribuni che per l'autorità dei consoli e cominciò a sostenere che la sua

      non era più libertà, che si era tornati ai soprusi di una volta e che con

      Genucio il potere tribunizio era morto e sepolto in un colpo solo. Per

      resistere ai patrizi bisognava adottare e impiegare una tecnica diversa.

      La sola via praticabile sembrava però questa: difendersi da soli visto che

      mancava ogni altra forma di aiuto. La scorta dei consoli consisteva di

      ventiquattro littori e anch'essi erano uomini del popolo. Niente più

      disprezzabile e più instabile di costoro, se solo ci fosse stato qualcuno

      capace di disprezzarli. Era l'idea che ciascuno si era fatta di loro a

      renderli imponenti e inquietanti. Quando ormai gli uni e gli altri si

      erano reciprocamente infiammati con questi discorsi, i consoli mandarono

      un littore ad arrestare Volerone Publilio, un plebeo che non voleva essere

      arruolato come soldato semplice in quanto sosteneva di essere stato

      centurione. Volerone si appella ai tribuni. Ma dato che nessuno di essi si

      presentò a sostenere la sua causa, i consoli ordinarono di spogliarlo e di

      farlo frustare. Allora Volerone disse: «Mi appello al popolo, perché i

      tribuni preferiscono assistere alla fustigazione di un cittadino romano

      piuttosto che lasciarsi trucidare da voi nel loro stesso letto». E più si

      agitava e dava in escandescenze, più il littore si accaniva a spogliarlo e

      a strappargli le vesti. Allora Volerone, già di per sé possente e in più

      coadiuvato da quanti aveva fatto intervenire in suo soccorso, si scrollò

      di dosso il littore e, andandosi a rifugiare nel mezzo della mischia tra

      quelli che urlavano con più accanimento, disse: «Mi appello al popolo e

      invoco la sua protezione! Aiuto, concittadini! Aiuto, commilitoni! Non

      contate sui tribuni: sono loro che han bisogno del vostro aiuto!» La

      gente, quanto mai eccitata, si prepara come per andare in battaglia: era

      chiaro ce la situazione poteva avere qualsiasi tipo di sviluppo e che

      nessun diritto pubblico o privato sarebbe stato rispettato. I consoli,

      dopo aver tenuto testa a quella bufera, si resero conto di quanto sia

      insicura l'autorità senza l'impiego della forza. I littori furono

      malmenati e i loro fasci fatti a pezzi; quanto poi ai consoli stessi,

      vennero spinti dal foro nella curia, senza sapere fino a che punto

      Volerone avrebbe voluto sfruttare quella vittoria. Quando poi, a disordini

      finiti, essi convocarono il senato, si lamentarono dell'affronto subito,

      della violenza popolare e della sfrontatezza di Volerone. Nonostante molti

      interventi veementi, ebbe la meglio la volontà dei più anziani, ai quali

      non andava affatto a genio uno scontro tra la rabbia dei senatori e

      l'irrazionalità della plebe.

      

      56 Alle elezioni successive, Volerone, divenuto un beniamino della plebe,

      fu nominato suo tribuno per quell'anno che ebbe come consoli Lucio Pinario

      e Publio Furio. Contrariamente a quanto tutti si aspettavano, e cioè che

      egli avrebbe usufruito della carica per dare addosso ai consoli uscenti,

      Volerone diede invece la precedenza all'interesse popolare rispetto al

      risentimento privato e, senza il benché minimo attacco verbale ai consoli,

      presentò al popolo un progetto di legge secondo il quale i magistrati

      della plebe avrebbero dovuto essere eletti dai comizi tributi. Benché a

      prima vista sembrasse un provvedimento del tutto innocuo, si trattava di

      cosa serissima perché avrebbe tolto al patriziato la possibilità di far

      eleggere i tribuni di suo gradimento attraverso il voto dei clienti.

      Questa proposta, salutata con entusiasmo dalla plebe, si scontrò con

      l'opposizione incrollabile dei senatori; dato però che né l'influenza dei

      consoli né quella dei cittadini più in vista riuscì a ottenere il veto di

      uno dei membri del collegio (ed era questo l'unico tipo di ostruzionismo

      praticabile), la questione, a causa della sua intrinseca delicatezza, fu

      il principale argomento di discussione per l'intera durata dell'anno. La

      plebe rielegge Volerone tribuno: i senatori, pensando che si sarebbe

      arrivati ai ferri corti, eleggono console Appio Claudio, figlio di Appio e

      già subito detestato e malvisto dalla plebe per le battaglie

      antidemocratiche sostenute dal padre. Come collega gli assegnano Tito

      Quinzio.

      All'inizio dell'anno non si parlava d'altro che di quella legge. E come

      Volerone ne era stato il promotore, così il suo collega Letorio la

      sosteneva con ancora più entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo del suo

      prestigioso servizio militare perché come soldato dava dei punti a tutti i

      coetanei. Mentre Volerone non aveva altro argomento che la legge ma si

      asteneva da ogni forma di attacco contro le persone dei consoli, Letorio,

      invece, lanciatosi in una filippica contro Appio e le crudeltà

      antipopolari della sua arrogantissima famiglia, arrivò ad accusare i

      patrizi di aver eletto non un console ma un carnefice chiamato a torturare

      e a fare a pezzi la plebe; solo che la rozzezza del suo linguaggio da

      caserma non era in grado di sostenere la franchezza del suo sentire. Così,

      mancandogli le parole, disse: «Visto che i gran discorsi non sono il mio

      forte, o Quiriti, vediamo di mettere in pratica quel che ho detto e

      troviamoci qui domani. Quanto a me, o vi morirò davanti agli occhi, o farò

      passare la legge.» Il giorno successivo i tribuni occupano i rostri,

      mentre i consoli e i patrizi rimangono in piedi in mezzo alla gente, col

      preciso intento di impedire l'approvazione della legge. Letorio ordina di

      allontanare tutti i non aventi diritto di voto. I giovani nobili

      rimanevano al loro posto senza dar retta agli uscieri. Allora Letorio

      ordina di arrestarne qualcuno. Il console Appio replicò che l'autorità dei

      tribuni era ristretta alla plebe in quanto non si trattava di una

      magistratura del popolo ma della plebe; se anche poi si fosse trattato di

      una magistratura del popolo, stando alla tradizione, non aveva alcun

      diritto di ordinare l'allontanamento di nessuno in quanto la formula era

      questa: «Se non vi dispiace, Quiriti, allontanatevi.» Spostando la

      discussione sulla sfera del diritto e facendolo in maniera sprezzante,

      Appio poteva facilmente provocare Letorio. Così, livido dalla rabbia, il

      tribuno inviò il suo messo al console, mentre quest'ultimo gli mandò un

      littore gridando che Letorio era soltanto un privato cittadino senza alcun

      potere o magistratura. E il tribuno avrebbe pero la propria inviolabilità,

      se l'intera assemblea non avesse preso le sue parti dando minacciosamente

      addosso al console, e una folla coi nervi a fior di pelle non si fosse

      riversata nel foro da tutti i quartieri della città. Ciò nonostante, Appio

      si ostinava a tener testa a un tumulto di quelle proporzioni e la cosa

      sarebbe finita in un bagno di sangue se Quinzio, l'altro console, non

      avesse incaricato gli ex-consoli di afferrare il collega e di trascinarlo

      fuori dal foro con la forza (nel caso fosse stato necessario), e se egli

      stesso non avesse ora supplicato la folla di calmarsi ora richiesto ai

      tribuni di aggiornare la seduta, in modo da far sbollire i furori. Il

      tempo non li avrebbe privati della forza: anzi, ad essa avrebbe aggiunto

      la capacità di riflettere e i senatori avrebbero fatto la volontà del

      popolo come il console quella del senato.

      

      57 Fu difficile per Quinzio placare la folla, ma ancora più difficile fu

      per i senatori placare l'altro console. Aggiornata finalmente l'assemblea

      popolare, i consoli convocarono il senato. Durante la seduta, ci furono

      interventi di senso opposto, a seconda del prevalere ora della rabbia ora

      della prudenza. Col passare del tempo, però, l'animosità si trasformò in

      riflessione e tutti rinunciarono alla spigolosità dell'inizio: a tal punto

      che arrivarono a ringraziare Quinzio per aver placato con il suo

      intervento i furori della folla. Ad Appio si richiese di accettare che

      l'autorità dei consoli non superasse il limite di tollerabilità

      all'interno di un paese caratterizzato dall'armonia: finché i tribuni e i

      consoli accentravano ogni cosa nelle proprie persone, c'era un vuoto di

      forze nel mezzo e lo Stato si riduceva a contrasti e a divisioni interne,

      visto che il problema centrale non era come garantire la sicurezza ma in

      quali mani stesse il potere. Da parte sua Appio, invocando la

      testimonianza degli dèi e degli uomini, dichiarò che era colpa della

      codardia se lo Stato stava andando alla deriva abbandonato a se stesso;

      che non era il console a mancare al senato ma il senato a mancare al

      console e infine che si stavano accettando condizioni più dure di quelle

      accettate sul monte Sacro. Tuttavia, piegato alla fine dall'unanimità dei

      senatori, si placò e la legge passò senza particolari opposizioni.

      

      58 Allora, per la prima volta, i tribuni vennero eletti dai comizi

      tributi. Stando a quanto si trova in Pisone, il loro numero fu aumentato

      di tre, come se in passato fossero stati due. Ci riferisce anche i nomi

      dei neoeletti: Gneo Siccio, Lucio Numitorio, Marco Duilio, Spurio Icilio,

      Lucio Mecilio.

      Mentre Roma era in piena sedizione, scoppiò una guerra coi Volsci e con

      gli Equi. Essi avevano devastato le campagne in maniera da poter offrire

      asilo alla plebe nel caso di qualche secessione. Una volta però compostasi

      la controversia, ritirarono le loro truppe. Appio Claudio fu mandato

      contro i Volsci, mentre a Quinzio toccarono gli Equi. Appio dimostrò di

      avere in campo militare lo stesso rigore che aveva a Roma in quello

      politico, e qui godeva anche di maggiore libertà perché non era frenato

      dalle interferenze dei tribuni. Odiava la plebe ancor più di quanto non

      l'avesse odiata suo padre: ne era stato sconfitto; durante il suo mandato

      di console eletto appositamente per fronteggiare la plebe era stata

      approvata una legge che i consoli precedenti, sui quali il senato non

      faceva troppo affidamento, erano riusciti a non far passare senza

      affannarsi eccessivamente. L'ira repressa e l'indignazione istigavano il

      suo carattere aggressivo a imporsi alle truppe con un'autorità soffocante.

      La violenza non fu sufficiente a domarle, in quell'ubriacatura di odio

      reciproco. Mettevano in pratica ogni disposizione con pigrizia, lentezza,

      negligenza e ostinazione: non c'erano amor proprio e paura capaci di

      metterli in riga. Se lui dava ordine di accelerare il passo, i soldati

      rallentavano apposta; se andava di persona a esortarli sul lavoro,

      smettevano subito tutti ciò che avevano spontaneamente intrapreso. In sua

      presenza abbassavano gli occhi, al suo passaggio lo maledivano sotto voce,

      così che l'animo di quell'uomo, irremovibile nel suo odio verso la plebe,

      ne era a volte scosso. Dopo aver sperimentato senza risultati tutte le

      sfumature del suo rigore, non voleva più avere nulla a che fare con la

      truppa: diceva che era colpa dei centurioni se l'esercito era corrotto e

      ogni tanto, per deriderli, li chiamava «tribuni della plebe» e «Voleroni».

      

      59 I Volsci, al corrente di tutti questi aspetti, aumentarono così la

      pressione sperando che l'esercito romano manifestasse nei confronti di

      Appio la stessa disposizione all'ammutinamento mostrata nei confronti del

      console Fabio. Ma gli uomini furono molto più duri con Appio che con

      Fabio. Infatti non si limitarono, come nel caso di quest'ultimo, a non

      volere la vittoria, bensì desiderarono la sconfitta. Una volta schierati

      in ordine di battaglia, riguadagnarono l'accampamento con una vergognosa

      fuga e si fermarono soltanto quando videro i Volsci lanciarsi all'attacco

      delle loro fortificazioni e seminare la morte nella retroguardia. Fu

      allora che i soldati romani, respingendo a viva forza dalla trincea il

      nemico già vincitore, dimostrarono che la sola cosa che stesse loro

      veramente a cuore era salvare l'accampamento, ma per il resto salutarono

      con entusiasmo la disfatta subita e la vergogna. Queste cose non

      scoraggiarono minimamente l'aggressività di Appio. Quando però decise di

      ricorrere a mezzi ancora più rigidi sul piano disciplinare e di convocare

      l'adunata, i suoi diretti subalterni e i tribuni accorsero a frotte da lui

      e gli consigliarono di non fare ricorso a un'autorità il cui fondamento

      risiedeva nel consenso di quelli che dovevano obbedire. Pare che i soldati

      non volessero comparire in adunata e qua e là si sentissero voci di chi

      reclamava l'evacuazione del territorio dei Volsci. Il nemico vincitore era

      poco tempo prima arrivato a due passi dagli ingressi e dalla trincea e un

      disastro di enormi proporzioni non era più soltanto un'ipotesi probabile

      ma una realtà concreta di fronte ai loro occhi. Alla fine cedette, ma la

      punizione dei colpevoli era soltanto rimandata; quindi, dopo aver sospeso

      l'adunata, diede ordine di mettersi in marcia il giorno successivo. Alle

      prime luci dell'alba, il trombettiere diede il segnale di partenza.

      Proprio quando la colonna stava uscendo dal campo, i Volsci, come

      svegliati di soprassalto da quello stesso segnale, piombarono sulle

      retrovie. Di qui il disordine si diffuse tra le prime linee; drappelli e

      compagnie erano in preda a un terrore tale che non era più possibile né

      sentire gli ordini né allinearsi. Il pensiero di tutti fu la fuga. ra

      mucchi di corpi e di armi abbandonate il fuggi-fuggi generale fu così

      disordinato che l'inseguimento dei nemici cessò prima della ritirata dei

      Romani. Quando al termine di quella rotta scomposta i soldati ritrovarono

      un assetto, il console, che li aveva seguiti tentando invano di

      richiamarli al proprio dovere, li fece accampare in una zona sicura. Poi,

      convocata l'adunata, se la prese - e non a torto - con la truppa per

      l'insubordinazione alla disciplina militare e per l'abbandono delle

      insegne. Rivolgendosi ai singoli uomini, domandava che fine avessero fatto

      le insegne e le armi. I soldati privi di armi, i signiferi che avevano

      perso l'insegna e inoltre i centurioni e i duplicari colpevoli di aver

      abbandonato la propria posizione furono fustigati e quindi decapitati.

      Quanto alla massa dei soldati semplici, uno su dieci fu estratto a sorte e

      giustiziato.

      

      60 Nella campagna contro gli Equi, al contrario, si assistette a una gara

      di gentilezze e di buoni propositi tra console e truppa. Quinzio aveva un

      carattere più mite, e, visti i pessimi risultati dell'autoritarismo del

      collega, era ancora più soddisfatto della propria indole. Gli Equi, di

      fronte a una simile sintonia tra comandante e truppa, non osarono scendere

      in campo e lasciarono che il nemico devastasse e razziasse in lungo e in

      largo le loro campagne. Infatti, in nessun'altra guerra del passato si era

      messo insieme un bottino così ricco. Tutto fu dato alla truppa; si

      aggiunsero anche gli elogi, che - si sa - toccano l'anima del soldato non

      meno delle ricompense. Al rientro dell'esercito, non solo il comandante,

      ma grazie al comandante addirittura i senatori erano visti in una luce

      diversa, in quanto gli uomini sostenevano di aver avuto dal senato un

      padre e non un tiranno come l'altra parte dell'armata.

      In questa altalena di incerti episodi militari e di disordini a Roma e

      all'estero, l'anno appena concluso si segnalò soprattutto per la creazione

      dei comizi tributi, evento ben più importante per l'esito favorevole della

      lotta che per i suoi risultati pratici. Infatti la riduzione di prestigio

      dei comizi, dovuta all'allontanamento dei patrizi, fu più significativa

      che il reale aumento di forze da parte della plebe o la sottrazione di

      esse al patriziato.

      

      61 L'anno successivo, sotto i consoli Lucio Valerio e Tito Emilio, ci

      furono disordini più gravi, dovuti tanto allo scontro tra le classi in

      materia di legge agraria, quanto al processo a carico di Appio Claudio.

      Acerrimo avversario della legge e sostenitore della causa di coloro che

      avevano il possesso dell'agro pubblico, come se fosse stato un terzo

      console, fu citato in giudizio da Marco Duilio e da Gneo Siccio. Di fronte

      al popolo, in passato, non era mai stato processato nessun imputato così

      inviso alla plebe e carico come lui era del risentimento procuratosi di

      persona e di quello suscitato dal padre. I patrizi, da parte loro, non si

      erano mai dati tanto da fare per nessun altro. E non a caso, visto che in

      lui vedevano il difensore del senato, il guardiano della loro autorità e

      l'uomo che si era opposto a tutte le agitazioni dei tribuni e dei plebei,

      lo stesso personaggio che in quel momento era esposto alle ire della

      plebe, soltanto per avere oltrepassato la misura nel mezzo dello scontro.

      Uno solo tra i senatori, lo stesso Appio Claudio, aveva un atteggiamento

      di completa indifferenza nei confronti dei tribuni, della plebe e del suo

      processo. Né le minacce della plebe né le suppliche del senato ebbero su

      di lui alcun effetto: infatti non soltanto rimase vestito com'era e

      rifiutò di andare a implorare la pietà della gente, ma, all'atto di

      presentare la propria difesa di fronte all'assemblea, non si peritò

      neppure di smorzare o almeno di contenere la sua notissima virulenza

      verbale. Stessa espressione disegnata sul viso, stessa smorfia arrogante

      sulle labbra e stessa veemenza infiammata nella parola: il tutto così

      esasperato che gran parte della plebe temeva Appio da imputato non meno di

      quanto lo avesse temuto da console. Perorò la propria causa in una sola

      circostanza, ma con quello stesso tono accusatorio che era la sua

      caratteristica peculiare in ogni circostanza. E la fermezza dimostrata

      impressionò a tal punto plebe e tribuni da portarli ad aggiornare la

      seduta di propria spontanea volontà e a permettere che la pratica si

      trascinasse per le lunghe. Non passò tuttavia molto tempo:prima però della

      data stabilita, Appio si ammalò gravemente e morì. Dato che un tribuno

      cercò di impedire che se ne pronunciasse l'orazione funebre, la plebe non

      volle che una personalità simile fosse privata dell'onore solenne proprio

      l'ultimo giorno e non solo ne ascoltò il suo elogio funebre con la stessa

      attenzione con cui aveva ascoltato l'accusa contro di lui quando era vivo,

      ma partecipò in massa al suo funerale.

      

      62 Quello stesso anno il console Valerio guidò una spedizione contro gli

      Equi. Visto però che non riusciva a portare il nemico a uno scontro

      aperto, si dispose ad attaccarne l'accampamento, ma fu bloccato da una

      tremenda tempesta con grandine e tuoni rovesciati giù dal cielo. Le

      sorprese non erano però finite: infatti, non appena venne dato il segnale

      della ritirata, il tempo ritornò così calmo e sereno che, come se una

      divinità avesse voluto proteggere l'accampamento, la superstizione li

      dissuase dal rinnovare l'attacco. Tutta la furia della guerra si volse a

      devastare le campagne. L'altro console, Emilio, guidò una campagna contro

      i Sabini. Anche lì, siccome il nemico se ne stava rintanato all'interno

      delle mura, il territorio fu razziato. Solo quando venne dato fuoco non

      solo ad alcune fattorie ma anche a villaggi popolosi, i Sabini, usciti

      all'aperto, si imbatterono nei predatori e, dopo uno scontro dall'esito

      incerto, il giorno successivo spostarono l'accampamento in una zona più

      sicura. Il console, considerata questa mossa un pretesto sufficiente per

      ritenere il nemico battuto e abbandonarlo sul posto, si ritirò senza

      essere arrivato a un punto decisivo della campagna.

      

      63 Durante queste guerre e con gli scontri di classe ancora in atto a

      Roma, vennero eletti consoli Tito Numicio Prisco e Aulo Verginio. Era

      chiaro che la plebe non avrebbe tollerato ulteriori dilazioni alla legge

      agraria e si sarebbe decisa a un'azione di forza definitiva, quando le

      colonne di fumo che si alzavano dalle fattorie in fiamme e il fuggi-fuggi

      dei contadini preannunciarono l'avvicinarsi dei Volsci. Questa notizia

      soffocò sul nascere i fermenti di rivolta ormai prossimi a un'imminente

      esplosione. I consoli, chiamati d'urgenza dal senato a occuparsi della

      spedizione difensiva, guidando fuori Roma la gioventù, contribuirono a

      portare una certa tranquillità nel resto della plebe. Quanto ai nemici,

      dopo essersi limitati a mettere i Romani sul chi vive con un falso

      allarme, si ritirarono a marce forzate. Numicio fece rotta su Anzio contro

      i Volsci, Verginio guidò le truppe contro gli Equi. In questa campagna si

      sfiorò il massacro a séguito di un'imboscata, ma il coraggio dei soldati

      riuscì a rimettere in piedi la situazione compromessa dalla negligenza del

      console. Le operazioni contro i Volsci furono condotte con maggiore

      scrupolo: i nemici, sbaragliati al primo scontro, furono messi in fuga e

      costretti a riparare ad Anzio, all'epoca uno dei centri più ricchi dei

      dintorni. Non osando per questo attaccarla, il console tolse agli Anziati

      un'altra città, Cenone, però molto meno prospera. Mentre Equi e Volsci

      tenevano occupate le truppe romane, i Sabini arrivarono fino alle porte di

      Roma con le loro scorribande. Pochi giorni dopo, però, quando entrambi i

      consoli invasero infuriati il loro territorio, subirono dai due eserciti

      più perdite di quelle che avevano causato.

      

      64 L'anno si chiuse con uno spiraglio di pace, ma, come in tutte le

      precedenti occasioni, si trattò di una situazione appesa a un filo per la

      rivalità tra patrizi e plebei. La plebe, indignata, non volle prendere

      parte ai comizi consolari; grazie ai voti dei senatori e dei loro clienti

      vennero nominati consoli Tito Quinzio e Quinto Servilio. L'anno del loro

      mandato assomigliò a quello appena trascorso: disordini all'inizio, e alla

      fine una guerra esterna a mettere a posto ogni cosa. I Sabini,

      attraversando a marce forzate i campi Crustumini, seminarono morte e

      devastazione intorno al fiume Aniene; furono respinti soltanto a due passi

      dalla porta Collina e dalle mura, non prima però di aver messo insieme un

      consistente bottino di prigionieri e di bestiame. Il console Servilio,

      buttatosi all'inseguimento con un contingente armato, non riuscendo a

      raggiungere le loro schiere in un punto pianeggiante, si diede a devastare

      la zona con una tale meticolosità che nulla venne risparmiato e egli

      ritornò con un bottino nemmeno lontanamente paragonabile a quello fatto

      dai Sabini.

      Nella campagna contro i Volsci brillarono per efficienza tanto il

      comandante quanto i soldati. Sulle prime ci fu uno scontro in aperta

      pianura ed entrambe le formazioni lamentarono moltissime perdite e un gran

      numero di feriti. E i Romani, colpiti più a fondo da quelle perdite a

      causa dell'inferiorità numerica, avrebbero cominciato a ritirarsi, se il

      console, ricorrendo a una coraggiosa menzogna, non avesse ridato forza e

      convinzione urlando che il nemico stava fuggendo dall'altra parte dello

      schieramento. Si buttarono così al contrattacco e, credendosi vincitori,

      ottennero la vittoria. Il console, ritenendo che un inseguimento troppo

      insistito avrebbe riacceso la battaglia, fece dare il segnale della

      ritirata. Per qualche giorno, in una specie di tacito accordo, entrambe le

      parti non si mossero. Nel frattempo, un ingente schieramento di rinforzi

      reclutato tra tutte le tribù dei Volsci e degli Equi raggiunse il loro

      accampamento, con la certezza che i Romani sarebbero partiti nel cuore

      della notte se lo fossero venuti a sapere. Così, intorno a mezzanotte,

      mossero all'attacco dell'accampamento. Quinzio, dopo aver placato il

      trambusto seguito all'improvviso spavento, diede ordine ai soldati di

      rimanere tranquillamente nelle proprie tende; quindi guidò sugli avamposti

      una coorte di Ernici e, dopo aver fatto montare a cavallo i suonatori di

      corno e i trombettieri, ordinò di suonare i loro strumenti di fronte alla

      trincea e di tenere il nemico sul chi vive fino all'alba. Per il resto

      della notte, nell'accampamento la calma fu così totale che anche i Romani

      riuscirono a dormire. Quanto ai Volsci, intravedendo quelle figure di

      fanti armati (che essi ritenevano molto più numerosi e romani) e sentendo

      il nitrito e lo scalpitare dei cavalli imbizzarriti per la novità della

      cavalcatura e per quel suono assordante nelle orecchie, rimasero in stato

      di allerta come di fronte all'imminenza di un attacco nemico.

      

      65 Alle prime luci del giorno, i Romani, freschissimi e riposati dopo il

      sonno, vennero disposti in ordine di battaglia per fronteggiare i Volsci,

      i quali invece erano stremati per la notte passata in piedi e a occhi

      aperti: vennero così sbaragliati al primo urto, anche se a dir la verità

      non si trattò di una vera e propria disfatta ma di una sorta di ritirata

      in quanto si trovarono alle spalle delle alture dove, con la copertura

      delle prime linee, si andarono a mettere al sicuro i resti intatti del

      loro esercito. Il console, dato che era arrivato in un luogo sfavorevole,

      ordinò di fermarsi. Gli uomini, trattenuti a stento, reclamavano a gran

      voce l'autorizzazione di incalzare il nemico già in ginocchio. E i

      cavalieri erano ancora più accaniti: accalcandosi intorno al comandante,

      gridavano di volersi spingere oltre le insegne. Mentre il console

      tentennava, sicuro del valore dei propri uomini ma poco convinto della

      posizione, essi gridarono che sarebbero andati e le urla furono subito

      seguite dall'azione. Piantate le lance a terra, in modo da essere più

      leggeri in salita, vanno su di corsa. I Volsci, avendo utilizzato le loro

      armi a lunga gittata durante il primo scontro, lanciarono addosso ai

      nemici i sassi che si trovavano tra i piedi e riuscirono a disunirli con

      una pioggia di colpi dalla loro posizione sopraelevata. E l'ala sinistra

      della cavalleria romana sarebbe stata schiacciata, se il console,

      chiamando quelli che stavano indietreggiando ora codardi ora scriteriati,

      non avesse ridato loro coraggio facendo leva sul senso dell'onore. Si

      fermarono immediatamente, decisi a resistere a ogni costo. Quindi, vedendo

      che col mantenere quella posizione riprendevano forza, osarono anche

      spingersi avanti e, alzando di nuovo il grido di guerra, si misero in

      movimento tutti insieme. Quindi, con un ulteriore slancio, si buttarono

      all'assalto ed ebbero ragione della posizione sfavorevole. Ormai erano a

      un passo dalla vetta, quando i nemici volsero le spalle: lanciatisi in una

      corsa disordinata, fuggiaschi e inseguitori arrivarono mescolati

      all'accampamento dei Volsci e lo catturarono nel pieno del panico. I

      Volsci che riuscirono a fuggire si rifugiarono ad Anzio. Anche i Romani

      marciarono su Anzio. Dopo qualche giorno d'assedio, la città si arrese,

      non per qualche nuova azione di forza da parte degli assedianti, ma per la

      demoralizzazione seguita all'infelice battagla e alla perdita

      dell'accampamento.

 


Libri 3-4: Lotte civili e conquiste militari

       

      

      LIBRO III

      

      

      

      1 Dopo la presa di Anzio, vengono eletti consoli Tito Emilio e Quinto

      Fabio. Quest'ultimo era quel Fabio unico superstite della famiglia andata

      distrutta presso il Cremera. Nel suo precedente consolato, Emilio si era

      già fatto promotore della donazione di terre alla plebe; e proprio per

      questo, anche durante il suo secondo mandato, i fautori della

      distribuzione agraria avevano ricominciato a sperare nella legge e i

      tribuni, pensando di poter ottenere con l'aiuto di un console quello che

      non avevano ottenuto per l'opposizione dei consoli, li sostenevano. Tito

      Emilio rimaneva della sua idea. I proprietari terrieri e gran parte dei

      senatori, lamentandosi che il più autorevole cittadino assumesse

      atteggiamenti tribunizi e si conquistasse la popolarità con elargizioni di

      proprietà altrui, avevano trasferito dalle persone dei tribuni a quella

      del console il risentimento provocato dall'intera faccenda. E di lì a poco

      lo scontro sarebbe diventato durissimo, se Fabio non avesse risolto la

      questione con una proposta che non scontentava nessuna delle parti in

      causa: sotto il comando e gli auspici di Tito Quinzio, l'anno prima era

      stata tolta ai Volsci una notevole porzione di terra. Ad Anzio, centro

      strategico sulla vicina costa, si poteva fondare una colonia. Così facendo

      la plebe avrebbe ottenuto la terra senza suscitare le proteste dei

      proprietari e per la città sarebbe stata la pace interna. Questa proposta

      fu accolta. In qualità di triumviri addetti alla distribuzione delle terre

      Fabio nomina Tito Quinzio, Aulo Verginio e Publio Furio. L'ordine era che

      gli interessati all'assegnazione di un appezzamento andassero a dare il

      proprio nome. Ma, come spesso accade, l'abbondanza delle terre a

      disposizione creò una sorta di ripulsa e le iscrizioni furono così

      limitate che si dovettero aggiungere dei coloni volsci per completare il

      numero. Il resto del popolo preferì chiedere la terra a Roma piuttosto che

      riceverne altrove. Gli Equi cercarono di ottenere la pace da Quinto Fabio

      - egli era giunto là con l'esercito -, ma poi furono loro stessi a mandare

      tutto in fumo con un'improvvisa incursione in terra latina.

      

      2 Quinto Servilio, inviato l'anno successivo contro gli Equi - era infatti

      console insieme a Spurio Postumio - pose un accampamento permanente in

      terra latina, dove una pestilenza costrinse l'esercito a una sosta

      forzata. Quando diventarono consoli Quinto Fabio e Tito Quinzio la guerra

      entrava nel suo terzo anno. L'incarico di condurla venne affidato in via

      del tutto straordinaria a Fabio, in quanto era stato proprio lui a

      concedere la pace agli Equi dopo averli vinti. Partito con la precisa

      convinzione che la fama legata al suo nome avrebbe placato gli Equi,

      ordinò agli ambasciatori inviati all'assemblea di quel popolo di riferire

      questo messaggio: il console Quinto Fabio mandava a dire che, dopo aver

      portato la pace dagli Equi a Roma, ora portava la guerra da Roma agli Equi

      con quella stessa mano - adesso armata - che prima era stata tesa loro in

      segno di amicizia. Ciò accadeva per la loro malafede e la loro perfidia:

      gli dèi ne erano adesso i testimoni e presto ne sarebbero stati i

      vendicatori. Quanto a lui, comunque fosse andata la cosa, preferiva che

      gli Equi si pentissero adesso piuttosto che costringerli a subire un

      trattamento da nemici. Se si fossero pentiti, avrebbero potuto trovare un

      rifugio sicuro nella clemenza romana già precedentemente sperimentata. Se

      invece avessero continuato a compiacersi della propria malafede, si

      sarebbero trovati a combattere l'ira degli dèi ancor più che i nemici.

      Queste parole ebbero così scarsa presa sui presenti che gli ambasciatori

      vennero quasi malmenati e l'esercito inviato sull'Algido per affrontare i

      Romani. Quando queste cose furono annunciate a Roma, l'oltraggio, più che

      l'effettivo pericolo, fece uscire dalla città l'altro console. Così due

      eserciti consolari schierati in ordine di battaglia marciavano alla volta

      del nemico con lo scopo di affrontarlo sùbito. Ma dato che per caso stava

      già quasi per fare buio, dalla postazione dei nemici ci fu uno che gridò:

      «Questo, o Romani, è un'esibizione che non ha nulla a che vedere con la

      guerra vera e propria. Vi siete messi in ordine di battaglia con la notte

      alle porte: ma per uno scontro come quello che si annuncia abbiamo bisogno

      di più ore di luce. Tornate a schierarvi domattina all'alba. Occasioni per

      combattere ce ne saranno a migliaia, non temete.» Irritati da queste

      parole, i soldati vengono ricondotti al campo nell'attesa del giorno

      successivo, con in mente l'idea che la notte imminente - destinata a fare

      da preambolo alla battaglia - sarebbe stata molto lunga. Intanto si

      ristorarono con cibo e sonno. Quando apparve l'alba del giorno successivo,

      l'esercito romano si schierò in ordine di battaglia con un buon anticipo.

      Alla fine si fecero vedere anche gli Equi. Si combatté accanitamente da

      entrambe le parti: i Romani si buttarono nella mischia con la forza

      dell'odio e della rabbia; quanto agli Equi, erano costretti a tentare il

      tutto per tutto, sapendo di esser responsabili del pericolo in cui si

      trovavano ed essendo quasi certi che in futuro nessuno avrebbe prestato

      loro fede. Tuttavia gli Equi non riuscirono a sostenere l'attacco romano.

      E, dopo essersi ritirata nel proprio territorio in séguito alla sconfitta,

      la moltitudine bellicosa e per niente incline alla pace se la prese con i

      comandanti rinfacciando loro di aver accettato la battaglia in campo

      aperto nella quale i Romani eccellevano; invece gli Equi erano più portati

      alle scorrerie e alle razzie e molte unità sparse avrebbero condotto la

      guerra meglio che non la mole ingombrante di un solo esercito.

      

      3 Lasciato quindi un presidio armato nell'accampamento, gli Equi fecero

      un'incursione così profonda in territorio romano da seminare il terrore

      addirittura a Roma. E un gesto così inaspettato incrementò l'apprensione,

      perché non c'era nulla di più inquietante di un nemico che, pur essendo

      vinto e quasi assediato all'interno del proprio accampamento, si faceva

      venire in mente l'idea di un'incursione. La gente di campagna, spinta

      dalla gran paura a riversarsi attraverso le porte, non riferiva di

      saccheggi e di piccole bande di razziatori, ma, ingigantendo ogni cosa per

      il terrore, andava in giro urlando che intere armate in assetto di guerra

      si precipitavano sulla città. Quelli che si trovavano lì riferivano ancor

      più dilatate le imprecise notizie udite da costoro. La corsa disordinata e

      il trambusto di quelli che gridavano «Alle armi!» non erano molto diversi

      dal terrore che regna in una città caduta in mani nemiche. Il caso volle

      che il console Quinzio fosse rientrato a Roma dall'Algido. E fu proprio

      questo il rimedio contro la paura. Placato il tumulto, Quinzio disse

      indignato che il nemico tanto temuto era stato vinto e collocò dei presidi

      in prossimità delle porte. Quindi convocò il senato, e con un decreto

      votato dai senatori, proclamò la sospensione delle attività giudiziarie.

      Poi, dopo aver lasciato Quinto Servilio in qualità di prefetto della

      città, partì per difendere i confini, senza però trovare traccia del

      nemico nelle campagne attraversate. L'altro console condusse le cose

      egregiamente: prevedendo il punto dove il nemico sarebbe passato, lo

      assalì mentre arrancava oberato dal peso del bottino, rendendo ben funesto

      agli Equi il loro saccheggio. Furono in pochi i nemici che riuscirono a

      scampare all'imboscata. Quanto invece al bottino, esso fu tutto

      recuperato. Col ritorno in città del console Quinzio ebbe fine anche la

      sospensione delle attività giudiziarie, rimasta in vigore per quattro

      giorni. In séguito venne fatto il censimento e Quinzio ne celebrò il

      sacrificio conclusivo. Pare che i cittadini registrati - fatta eccezione

      per orfani e vedove - ammontassero a 104.714. Dopo questi avvenimenti, nel

      territorio degli Equi non ci fu alcuna iniziativa degna di esser

      menzionata: la gente si rifugiò nelle città, lasciando che la propria

      campagna fosse devastata e data alle fiamme. Il console, dopo aver

      compiuto con le sue schiere alcune sortite per saccheggiare il territorio

      nemico in tutta la sua estensione, ritornò a Roma coperto di gloria e di

      bottino.

      

      4 I consoli successivi furono Aulo Postumio Albo e Spurio Furio Fuso

      (alcuni autori scrivono Fusio al posto di Furio: ne faccio menzione perché

      nessuno debba prendere per una sostituzione di uomini quella che invece è

      una semplice questione di nomi). Non c'erano dubbi che uno dei consoli

      avrebbe fatto guerra agli Equi i quali, di conseguenza, si rivolsero ai

      Volsci di Ecetra per ottenere appoggio militare. Siccome esso venne

      concesso con grande slancio - tale era infatti l'odio che i due popoli da

      sempre nutrivano nei confronti del nemico romano - i preparativi di guerra

      fervevano febbrili. Gli Ernici lo vennero a sapere e comunicarono

      preventivamente ai Romani che la gente di Ecetra era passata dalla parte

      degli Equi. Sospetta divenne anche la colonia di Anzio, visto che al tempo

      della presa della città moltissimi si erano rifugiati presso gli Equi. E

      infatti, durante la guerra con i Volsci, gli Anziati combatterono con

      estremo accanimento. Quando poi gli Equi vennero ricacciati nelle loro

      città fortificate, questa massa di sbandati fece ritorno ad Anzio e lì

      rese avversi ai Romani quei coloni che erano già di per sé infidi. Dato

      che al senato venne riferito che si stava preparando una defezione, anche

      se la cosa non era ancora matura, i consoli ebbero l'ordine di convocare a

      Roma i notabili della colonia per chiedere loro notizie sulla situazione.

      Questi si presentarono senza fare difficoltà, ma alle domande che vennero

      loro rivolte una volta introdotti dai consoli in senato, risposero in

      maniera tale che, all'atto della partenza, risultarono più sospetti di

      quanto non fossero parsi al momento dell'arrivo. Di lì in poi non ci

      furono più dubbi sulla guerra. Spurio Furio, uno dei consoli, al quale era

      toccato quest'incarico, partì per affrontare gli Equi. Nel territorio

      degli Ernici trovò i nemici intenti a saccheggiare. Ignorandone però il

      numero - non li si era infatti mai visti prima tutti insieme -, espose

      avventatamente alla battaglia l'esercito, inferiore per forze. Respinto al

      primo assalto, dovette riparare all'interno dell'accampamento. Ma questa

      mossa non pose fine allo stato d'allarme. Infatti, sia quella notte che il

      giorno successivo l'accampamento venne assediato e assalito con tanto

      accanimento che nemmeno un messaggero poté uscire per andare a Roma. Gli

      Ernici riferirono che lo scontro aveva avuto un cattivo esito e che il

      console e le sue truppe erano assediati. Il racconto terrorizzò i senatori

      a tal punto che si diede all'altro console Postumio l'incarico di

      provvedere perché la Repubblica non patisse alcun danno; questa forma di

      deliberazione del senato veniva sempre adottata in situazioni di estrema

      necessità. La migliore delle risoluzioni sembrò che il console stesso

      rimanesse a Roma ad arruolare tutti coloro che fossero in grado di portare

      le armi. In soccorso all'accampamento assediato sarebbe stato invece

      inviato Tito Quinzio, dotato di poteri consolari, con una formazione di

      alleati. Per completarne i ranghi, Latini, Ernici e la colonia di Anzio

      ebbero ordine di fornire a Quinzio dei contingenti d'emergenza (questo il

      nome dato allora agli ausiliari arruolati su due piedi).

      

      5 Nei giorni che seguirono ci fu un gran numero di manovre e di assalti da

      una parte e dall'altra: i nemici infatti, forti della superiorità

      numerica, cominciarono a tormentare con continui attacchi da ogni

      direzione le forze romane, nella speranza che queste non sarebbero bastate

      a tutto. E mentre cingevano d'assedio l'accampamento, nel contempo parte

      delle truppe venne inviata a saccheggiare le campagne romane e ad

      attaccare Roma stessa, qualora se ne fosse presentata l'opportunità. Lucio

      Valerio fu lasciato a difesa della città. Il console Postumio venne invece

      inviato a proteggere i confini da eventuali incursioni. Vigilanza e sforzi

      rivolti alla difesa non furono trascurati in nessun punto: sentinelle

      furono disposte in città, corpi di guardia di fronte alle porte, presidi

      armati lungo le mura e - cosa necessaria in mezzo a una confusione di quel

      genere - per alcuni giorni fu sospesa l'attività giudiziaria. Nel

      frattempo il console Furio, dopo aver sulle prime subito in maniera

      passiva l'assedio all'interno dell'accampamento, fece una sortita

      improvvisa dalla porta decumana, piombando sul nemico che non si aspettava

      una simile manovra. Ma poi, pur potendo buttarsi all'inseguimento, si

      fermò per paura che il campo rimanesse esposto a un possibile attacco

      dalla parte opposta. La corsa trascinò troppo in là il luogotenente Furio,

      fratello del console: nello slancio dell'inseguimento non si accorse che i

      suoi si stavano ritirando e che i nemici rivenivano su di lui da tergo.

      Tagliato così fuori dalla ritirata, dopo svariati ma vani tentativi di

      aprirsi una breccia in direzione del campo, cadde combattendo con

      accanimento. Quando il console venne informato che il fratello era stato

      accerchiato, si buttò nella mischia con maggior temerarietà che

      accortezza. La vista di lui ferito, sollevato da terra e portato in salvo

      a fatica da quelli che gli stavano vicino, gettò nello sconforto i suoi

      uomini e rese più accaniti i nemici. Infiammati dalla morte del

      luogotenente e dalla ferita inflitta al console, essi da quel momento in

      poi divennero così incontenibili da schiacciare di nuovo i Romani

      nell'accampamento, con prospettive e risorse non certo equilibrate tra i

      due schieramenti. Addirittura l'esito finale dell'intera guerra avrebbe

      rischiato di essere compromesso, se non fosse sopraggiunto Tito Quinzio

      con dei contingenti stranieri - composti cioè di Ernici e Latini. Avendo

      trovato gli Equi intenti ad assediare il campo romano e a mostrare con

      arroganza la testa del luogotenente, li assalì alle spalle proprio mentre

      quelli dell'accampamento si producevano in una sortita a un segnale da lui

      dato quando si trovava ancora lontano, riuscendo così a circondarne una

      grande quantità. Gli Equi che si trovavano in territorio romano subirono

      una disfatta di minori proporzioni ma dovettero impegnarsi in una fuga più

      prolungata: mentre stavano saccheggiando la zona sparpagliati in gruppi,

      vennero attaccati da Postumio in alcuni punti dove aveva opportunamente

      collocato delle guarnigioni armate. Lanciatisi quindi in una fuga

      disordinata e priva di meta, i saccheggiatori si imbatterono in Quinzio

      che tornava vincitore insieme al console ferito. Fu allora che con una

      gloriosa battaglia le truppe consolari vendicarono la ferita del loro

      comandante insieme al massacro del luogotenente e delle sue coorti. In

      quei giorni entrambe le parti inflissero e subirono gravi perdite: risulta

      difficile, trattandosi di un episodio così remoto, stabilire in maniera

      esatta il numero preciso dei combattenti e dei caduti. Ciononostante

      Valerio Anziate si avventura a fornire cifre precise: dice che nel

      territorio degli Ernici i Romani lasciarono 5800 uomini e che degli Equi

      che vagavano saccheggiando all'interno dei confini romani 2400 vennero

      uccisi dal console Aulo Postumio. Quanto invece al resto della spedizione

      andata a cozzare nelle truppe di Quinzio, Valerio sostiene che essa subì

      un massacro senza precedenti: dei suoi componenti - e qui si arriva a

      spaccare il capello - ne vennero abbattuti 4230.

      Quando l'esercito rientrò a Roma e venne ripristinato il normale corso

      della giustizia, si videro ovunque fuochi nel cielo, mentre altri prodigi

      o vennero realmente individuati da occhi umani o furono la vana illusione

      di osservatori suggestionati dalla paura. Per stornare il panico

      collettivo vennero indetti tre giorni di festa durante i quali tutti i

      templi furono invasi da folle di uomini e donne che imploravano la

      benevolenza degli dèi. In séguito le coorti di Latini e di Ernici vennero

      rinviate in patria, dopo aver ricevuto il ringraziamento del senato per

      l'abnegazione dimostrata durante la campagna. Mille soldati di Anzio, rei

      di essere corsi in aiuto quando ormai la battaglia era finita, furono

      invece rispediti a casa quasi con il bollo dell'infamia.

      

      6 Dalle successive elezioni uscirono consoli Lucio Ebuzio e Publio

      Servilio. Il primo agosto - data che allora rappresentava l'inizio

      dell'anno - entrano in carica. Si era nella stagione malsana e il caso

      volle che quello fosse un anno di pestilenza tanto a Roma quanto nelle

      campagne, e sia per gli uomini che per il bestiame. Ad accrescere la

      virulenza dell'epidemia contribuì poi la gente che, terrorizzata da

      possibili saccheggi, cominciò a ricoverare in città mandrie e relativi

      pastori. Questo miscuglio eterogeneo di animali tormentava col suo

      insolito odore i cittadini, mentre la gente di campagna, stipata in dimore

      anguste, soffriva per il caldo e la mancanza di sonno. E poi lo scambio di

      servizi e il contatto stesso contribuivano a diffondere l'infezione.

      Proprio in quel momento - e cioè con i Romani appena in grado di

      sopportare il peso di queste calamità - arrivarono dagli Ernici degli

      ambasciatori ad annunciare che gli eserciti congiunti di Volsci ed Equi si

      erano accampati nel loro territorio e che da quella base saccheggiavano le

      campagne con un impressionante spiegamento di forze. Non solo lo scarso

      numero di senatori rimasti rendeva manifesto agli alleati che la città era

      prostrata dalla pestilenza, ma mesta fu anche la risposta che ebbero: gli

      Ernici, insieme con i Latini, difendessero da soli i loro possedimenti

      perché Roma, per l'improvvisa ira degli dèi, era devastata dall'epidemia.

      Se quel male si fosse placato, allora sarebbero intervenuti in aiuto degli

      alleati, come nell'anno precedente e in tutte le altre occasioni. Gli

      alleati partirono riportando in patria in cambio di un triste annuncio uno

      ancora più triste: il loro popolo doveva infatti affrontare da solo una

      guerra che avrebbe sostenuto a fatica anche col potente sostegno dei

      Romani. I nemici non si trattennero più a lungo nel territorio degli

      Ernici. Di lì avanzarono infatti con intenti bellicosi nella campagna

      romana che subì danni e devastazioni anche senza le violenze della guerra.

      Nessuno si fece loro incontro - nemmeno un uomo disarmato - e poterono

      così penetrare in un territorio privo ormai non solo di guarnigioni

      armate, ma anche di campi coltivati; Volsci ed Equi arrivarono fino al

      terzo miglio della Via Gabinia. Il console Ebuzio era morto. Per il suo

      collega Servilio c'erano ben poche speranze. Il contagio aveva colpito

      quasi tutti i maggiorenti, buona parte dei senatori e pressappoco la

      totalità di quanti erano in età militare. Così il loro numero non solo non

      bastava per le spedizioni rese necessarie dalla situazione allarmante, ma

      arrivava appena a coprire l'organico dei posti di guardia. Il servizio di

      vigilanza toccò allora a quei senatori che per età e condizioni di salute

      erano in grado di prestarlo. Le ronde armate toccarono invece agli edili

      della plebe, ai quali erano passati anche il potere supremo e l'autorità

      consolare.

      

      7 Senza un capo e senza forze, la città spopolata fu protetta dai suoi

      numi tutelari e dalla sua buona stella, che ispirò a Volsci ed Equi un

      comportamento da predoni più che da nemici. Infatti il loro animo era così

      lontano dal nutrire una qualche speranza non solo di conquistare ma

      addirittura di avvicinarsi alle mura di Roma e la vista da lontano dei

      tetti e dei colli sovrastanti aveva fuorviato le loro menti tanto, che

      l'intero esercito cominciò a esser percorso da mormorii di

      disapprovazione: si domandavano perché dovessero sprecare il tempo

      inoperosi in un'area desolata e abbandonata, dove non c'erano opportunità

      di bottino, ma solo cadaveri di uomini e di bestie, mentre avrebbero

      potuto invadere una terra ricca di ogni ben di Dio e inviolata quale la

      zona di Tuscolo. Per questo si misero rapidamente in marcia e per vie

      traverse che passavano in mezzo alla campagna labicana si spostarono sulle

      colline di Tuscolo per concentrarvi tutto l'impeto e la furia della

      guerra. Nel frattempo Ernici e Latini, spinti non solo dalla pietà ma

      anche dalla vergogna che certo avrebbero provato se non si fossero opposti

      ai nemici comuni lanciatisi in assetto di guerra contro Roma e non fossero

      intervenuti a fianco degli alleati stretti d'assedio, unirono i propri

      eserciti e si misero in marcia verso Roma. Qui, non avendo trovato nemici

      ma fidandosi delle informazioni avute per strada e seguendo le tracce del

      loro passaggio, li incontrarono mentre da Tuscolo stavano scendendo nella

      valle di Alba. Si combatté con forze impari e la loro lealtà per il

      momento portò poca fortuna agli alleati. A Roma la strage dovuta

      all'epidemia non fu di proporzioni minori di quella patita dagli alleati a

      colpi di spada. L'unico console rimasto era nel frattempo deceduto. Così

      come morti erano pure altri personaggi illustri quali gli àuguri Marco

      Valerio e Tito Verginio Rutulo e il capo delle curie Servio Sulpicio. La

      malattia aveva colpito con tutta la sua violenza anche la folla anonima. E

      il senato, non potendo più contare sull'aiuto degli uomini, spinse il

      popolo a rivolgere le preghiere agli dèi, ordinando che tutti, con mogli e

      bambini, andassero nei templi a supplicare il cielo e a chiedere la pace.

      Così, indotti dall'autorità pubblica a fare le cose a cui già li

      costringevano le proprie sventure, i cittadini si affollarono in tutti i

      santuari. Dovunque le matrone, piegate a spazzare coi capelli sciolti i

      pavimenti dei templi, implorano gli dèi adirati e li supplicano di porre

      fine alla pestilenza.

      

      8 Da quel momento in poi, a poco a poco, sia per la pace ottenuta dagli

      dèi sia per il progressivo esaurirsi della stagione malsana, i corpi nei

      quali il corso della malattia si era compiuto cominciavano a tornare in

      salute, mentre le menti si rivolgevano ai problemi dello Stato. Dopo

      alcuni interregni, Publio Valerio Publicola, il terzo giorno del suo

      interregno, nomina consoli Lucio Lucrezio Tricipitino e Tito Veturio

      Gemino (o Vetusio, se questo era il suo nome). Entrano in carica tre

      giorni prima delle idi del mese Sestile, con il paese in condizioni di

      salute ormai così rassicuranti da potersi permettere non solo di allestire

      una difesa armata ma addirittura di lanciare delle offensive. Perciò,

      quando gli Ernici vennero ad annunciare che i nemici avevano varcato i

      loro confini, senza alcuna esitazione fu loro promesso aiuto. Una volta

      arruolati due eserciti consolari, Veturio fu inviato a portare la guerra

      nel territorio dei Volsci. Tricipitino invece, incaricato di salvaguardare

      quello alleato da incursioni selvagge, non si spinge più in là della terra

      degli Ernici. Veturio sbaraglia e mette in fuga i nemici al primo scontro.

      A Lucrezio sfuggì invece un contingente di predoni nemici che dalle alture

      di Preneste marciava in direzione delle campagne. Dopo aver devastato i

      terreni coltivati intorno a Preneste e Gabi, questo gruppo di guastatori

      piegò dalla zona di Gabi verso i colli di Tuscolo. La cosa fu motivo di

      grande apprensione pure a Roma, anche se più per l'imprevedibilità della

      mossa che per l'effettiva penuria di risorse difensive. A capo della città

      c'era in quel frangente Quinto Fabio: armando i giovani e disponendo

      presidi nei punti nevralgici, rese ogni cosa tranquilla e sicura. Così i

      nemici, dopo aver fatto razzie negli immediati dintorni, non osarono

      avvicinarsi a Roma e ripresero, sia pur con diversioni, la strada di casa.

      Mentre cresceva in loro un senso di sicurezza a mano a mano che aumentava

      la distanza da Roma, si imbatterono nel console Lucrezio che, già al

      corrente della direzione di marcia scelta dai nemici, li attendeva pronto

      a dare battaglia. Così i Romani, pur essendo in inferiorità numerica,

      attaccarono con giusta disposizione d'animo i nemici in preda invece a un

      improvviso attacco di paura. Quindi, dopo averne sbaragliato il possente

      schieramento e averli messi in fuga verso certe valli poco spaziose da

      dove era difficile sfuggire, li accerchiarono. Lì poco mancò che il nome

      dei Volsci venisse cancellato dalla faccia della terra. In alcuni annali

      ho trovato che tra fuga e battaglia ci furono 13.470 morti, che 1750

      vennero catturati vivi e che le insegne conquistate ammontarono a 27.

      Anche se tali cifre risentono di una certa tendenza all'esagerazione,

      ciononostante si trattò indubbiamente di un grande massacro. Il console

      vincitore tornò con un enorme bottino all'accampamento. Allora i due

      consoli si accamparono insieme, mentre Volsci ed Equi facevano confluire

      in un unico esercito i propri decimati reparti. La battaglia che seguì fu

      la terza nel corso dell'anno. La vittoria arrivò grazie alla stessa buona

      sorte: dopo aver disperso i nemici, ne conquistarono anche l'accampamento.

      

      9 La potenza romana tornò così alla situazione di un tempo e l'esito

      favorevole della guerra suscitò all'improvviso dei contrasti interni in

      città. Quell'anno Gaio Terentilio Arsa era tribuno della plebe. Pensando

      che l'assenza dei consoli fosse per i tribuni la migliore occasione per

      darsi da fare, egli passò alcuni giorni a lagnarsi presso la plebe

      dell'arroganza patrizia, inveendo soprattutto contro l'autorità consolare,

      ritenuta eccessiva e intollerabile per un libero Stato. Tale potere era

      infatti a sua detta solo formalmente meno detestabile - ma di fatto più

      crudele - di quello dei re: al posto di un padrone adesso ne avevano due

      che, godendo di un'autorità priva di restrizioni e vivendo in uno stato di

      sfrenatezza non sottoposta a controlli, rovesciavano sulla plebe il

      terrore suscitato dalle leggi e dalle punizioni. Perché i consoli non

      dovessero godere in eterno di quella condizione privilegiata, il tribuno

      disse di voler far passare una legge che prevedesse la nomina di cinque

      magistrati con l'incarico di approntare delle leggi che regolassero

      l'autorità consolare. I consoli avrebbero così goduto del potere assegnato

      loro dal popolo, ma non avrebbero potuto trasformare in legge quello che

      invece era il loro capriccio o il loro arbitrio. In séguito alla

      presentazione di questa legge, siccome i senatori temevano che l'assenza

      dei consoli li costringesse a sottostare a un simile giogo, il prefetto

      della città convocò il senato e lì attaccò la proposta e il suo autore con

      una tale veemenza che, se entrambi i consoli fossero stati presenti e

      avessero circondato il tribuno in maniera ostile, non avrebbero potuto

      aggiungere nulla alla virulenza delle sue minacce. Chi davvero a sua detta

      rappresentava un'insidia concreta per il paese era Terentilio, reo di

      esser passato all'attacco sfruttando le circostanze. Se l'anno prima -

      quando cioè la pestilenza e la guerra infuriavano sulla città - la rabbia

      divina avesse imposto un tribuno simile a lui, la situazione sarebbe stata

      insostenibile. Coi due consoli morti e la città in preda all'infuriare del

      morbo e alla confusione generale, Terentilio avrebbe proposto una legge

      volta a privare lo Stato del potere consolare e avrebbe guidato Equi e

      Volsci all'assedio di Roma. Ma alla fin fine dove voleva arrivare? Se i

      consoli si erano macchiati di arroganza o di crudeltà nei confronti di

      qualche cittadino, non era forse lecito trascinarli in giudizio e

      accusarli di fronte a un corpo giudicante che annoverasse tra i suoi

      membri chi aveva subito l'ingiustizia? Non il potere dei consoli, ma

      l'autorità dei tribuni Terentilio rendeva invisa e insopportabile. Quella

      stessa autorità che si era pacificata e riconciliata col senato, adesso

      ricadeva di nuovo negli antichi mali. Ciononostante Fabio non lo avrebbe

      pregato di abbandonare quanto intrapreso. «Esorto,» gridò, «voialtri

      tribuni a riflettere sul fatto che questa autorità vi è stata assegnata

      per soccorrere i singoli individui e non per danneggiare la comunità

      tutta. Voi siete stati eletti tribuni della plebe, non nemici del senato.

      Che lo Stato privo dei suoi difensori subisca attacchi è triste per noi,

      ma odioso per voi. Non diminuirete le vostre prerogative, ma la vostra

      impopolarità, se farete in modo che il vostro collega rinvii fino al

      ritorno dei consoli la questione nei termini in cui oggi si trova. Quando

      l'anno passato l'epidemia ci privò dei consoli, anche Equi e Volsci ci

      risparmiarono una guerra crudele e impietosa.» I tribuni fanno pressione

      su Terentilio. Quindi, dopo un apparente rinvio della proposta di legge

      trasformatosi poi in aperto ritiro, vennero immediatamente convocati i

      consoli.

      

      10 Lucrezio tornò con un enorme bottino e con ancora maggiore gloria.

      Questa subì poi un ulteriore incremento quando, una volta arrivato, egli

      espose per tre giorni il bottino lungo tutta l'estensione del Campo

      Marzio, in maniera tale che ciascuno potesse ritirare ciò che riconosceva

      come proprio. Gli oggetti che non furono rivendicati dai legittimi

      proprietari vennero messi all'incanto. Sul fatto che il console meritasse

      il trionfo erano d'accordo tutti: la cosa fu però rinviata per la proposta

      avanzata dal tribuno che, agli occhi di Lucrezio, appariva di primaria

      importanza. Del provvedimento si discusse per alcuni giorni prima in

      senato e poi di fronte al popolo. Alla fine il tribuno decise di

      sottostare all'autorità del console e lasciò perdere. Solo allora

      l'esercito e il comandante ricevettero gli onori dovuti: Lucrezio ottenne

      il trionfo su Volsci ed Equi e nel corteo trionfale venne accompagnato

      dalle sue legioni. All'altro console fu concesso di entrare a Roma con gli

      onori dell'ovazione ma privo dei soldati.

      L'anno successivo la legge terentiliana venne di nuovo presentata

      dall'intero collegio dei tribuni contro i consoli appena eletti Publio

      Volumnio e Sergio Sulpicio. Quell'anno si videro prodigi di fuoco nel

      cielo e la terra venne sconvolta da un terremoto di notevole intensità. Si

      credette che una vacca avesse parlato, cosa a cui nell'anno precedente

      nessuno aveva prestato fede. Tra gli altri eventi prodigiosi si assistette

      anche a una pioggia di carne che, a quanto pare, venne intercettata da un

      enorme stormo di uccelli finito in volo proprio lì nel mezzo. Quel che

      invece cadde a terra rimase sparpagliato sul suolo per alcuni giorni senza

      però imputridire. I duumviri addetti ai riti sacri consultarono i libri

      sibillini e predissero che un gruppo di stranieri sarebbe stato motivo di

      pericolo e avrebbe sferrato un attacco alla cittadella con conseguente

      spargimento di sangue. Ammonirono anche di astenersi dagli scontri tra

      fazioni. I tribuni li accusavano di averlo suggerito per ostacolare la

      legge e lo scontro si annunciava senza esclusione di colpi. Ma poi - ogni

      anno si ripetono le stesse cose - ecco arrivare gli Ernici con l'annuncio

      che Volsci ed Equi, pur dopo le recenti perdite, stavano rimettendo in

      sesto i rispettivi eserciti, che Anzio era il centro delle operazioni, che

      a Ecetra coloni di Anzio tenevano apertamente delle riunioni; quello era

      il punto di riferimento, quelle le forze della guerra. Una volta ascoltate

      queste comunicazioni in senato, si indice una leva militare. Quanto poi

      alla gestione della guerra, i consoli ricevono l'ordine di organizzarla in

      maniera tale da occuparsi uno dei Volsci e l'altro degli Equi. I tribuni

      si misero invece a urlare in pieno foro che la guerra contro i Volsci era

      solo una commedia inscenata apposta e che gli Ernici erano stati preparati

      per recitarvi una parte. Ormai la libertà del popolo romano non era come

      un tempo soffocata a séguito di uno scontro leale, ma veniva ignorata con

      espedienti. Dato che non si poteva più far credere che Volsci ed Equi -

      quasi totalmente annientati - decidessero spontaneamente di mettersi sul

      piede di guerra, si andavano a cercare nuovi nemici e una colonia vicina e

      leale veniva infamata. Si dichiarava guerra agli innocenti Anziati, ma in

      realtà si faceva guerra alla plebe romana: i consoli infatti l'avrebbero

      caricata di armi e condotta a marce forzate fuori della città; si

      sarebbero così vendicati dei tribuni mandando in esilio e relegando i

      cittadini. I plebei dovevano convincersi che l'unico scopo di tutto questo

      era mettere a tacere la legge e che ciò si poteva evitare - finché le cose

      erano agli inizi ed essi si trovavano ancora in patria in abiti civili -

      operando in modo da non essere esclusi dal controllo della città e da non

      piegarsi al giogo. Se solo avessero osato farlo, certo non sarebbe venuto

      loro meno l'aiuto, dato che i tribuni erano tutti dello stesso avviso. Non

      c'erano minacce esterne, né pericoli in vista. L'anno prima gli dèi

      avevano fatto in modo che la libertà potesse esser difesa senza correre

      rischi. Queste furono le parole dei tribuni.

      

      11 Dall'altra parte i consoli, posti i loro sedili di fronte ai tribuni,

      facevano la leva. I tribuni arrivano di corsa trascinandosi dietro la

      folla. Non appena - quasi si volesse tastare il terreno - vengono fatti i

      nomi di alcuni cittadini, ecco che scoppiano sùbito disordini. Ogni

      qualvolta il littore, su ordine del console, ne prendeva uno, un tribuno

      ordinava di rilasciarlo. E la condotta di ognuno non era regolata da un

      diritto effettivo, ma dalla fiducia nei propri mezzi fisici: di

      conseguenza quello che si aveva in mente lo si doveva ottenere con la

      forza.

      All'ostruzionismo praticato dai tribuni per ostacolare la leva militare i

      senatori contrapposero un atteggiamento di aperta ostilità alla legge che

      veniva riproposta tutti i giorni dedicati alle assemblee. La rissa

      scoppiava quando i tribuni ordinavano alla gente di separarsi per votare e

      i patrizi non permettevano che li si allontanasse. I senatori più anziani

      quasi non prendevano parte alla cosa perché non si poteva venirne a capo

      con l'uso della ragione, ma tutto era affidato all'avventatezza e alla

      temerarietà. Anche i consoli cercavano di non lasciarsi coinvolgere per

      evitare che nel trambusto generale la solennità del ruolo rivestito

      potesse essere esposta all'ingiuria di qualcuno. C'era un giovane, Cesone

      Quinzio, imbaldanzito non solo dai nobili natali ma anche dalla sua

      struttura possente e dalla sua forza fisica. A questi doni piovuti dal

      cielo egli aveva aggiunto molte imprese gloriose in guerra e una tale

      dialettica forense, da non essere ritenuto inferiore a nessuno in città

      per prontezza tanto di mano quanto di lingua. Piantato in mezzo al gruppo

      di senatori e sovrastandoli come se stesse brandendo con la voce e con la

      forza tutto il potere dei dittatori e dei consoli, Cesone riusciva a

      sostenere da solo l'attacco dei tribuni e l'impeto disordinato della

      folla. Con lui alla testa degli aristocratici, i tribuni vennero più volte

      allontanati dal foro e la plebe addirittura sbaragliata e dispersa. Chi se

      lo trovava per caso faccia a faccia finiva malmenato e senza uno straccio

      addosso. Ed era chiaro che se le cose continuavano così, per la legge

      c'erano ben poche speranze. Allora, quando ormai gli altri tribuni avevano

      subito diverse forme di intimidazione, un membro del loro collegio, un

      certo Aulo Verginio, trascina Cesone in tribunale chiedendo per lui la

      pena capitale. Ma, invece di terrorizzare Cesone, questa iniziativa accese

      il suo animo fiero, portandolo a ostacolare la legge con maggiore

      accanimento, e a stuzzicare la plebe e ad attaccare i tribuni come se si

      fosse trattato di una guerra vera e propria. L'accusatore lasciava che

      l'accusato si rovinasse da sé, attizzando il risentimento popolare e

      fornendo così nuova materia alle proprie incriminazioni. Nel frattempo

      continuava a insistere sulla legge, non tanto nella speranza di vederla

      passare, quanto per spingere Cesone a commettere qualche gesto avventato.

      In quei frangenti, molte delle cose dette e fatte a sproposito dai giovani

      aristocratici ricaddero sulla sola persona di Cesone a causa dei sospetti

      ingenerati dalla sua indole. Ciononostante egli continuava a opporsi alla

      legge. E Aulo Verginio insisteva, rivolgendosi alla plebe in questi

      termini: «Immagino che vi rendiate ormai perfettamente conto, o Quiriti,

      di non potere avere nel contempo Cesone come concittadino e la legge che

      tanto desiderate. Ma perché poi parlo di legge? È alla libertà che costui

      cerca di opporsi, superando in arroganza l'intera genia dei Tarquini.

      Aspettate che quest'uomo diventi console o dittatore, lui che già ora, pur

      essendo un privato cittadino, ci mette i piedi in testa a colpi di soprusi

      e insolenze.» Molti che si lamentavano delle percosse subite erano

      d'accordo e incitavano il tribuno a portare la cosa fino in fondo.

       

      12 Il giorno del processo si avvicinava ed era ormai chiaro che, a

      giudizio di tutti, la libertà dipendeva dalla condanna di Cesone. Questi

      allora, pur considerandola un'iniziativa spregevole, fu alla fine

      costretto a cercare l'appoggio dei singoli. Al suo séguito c'erano gli

      amici, e cioè le personalità più in vista dell'intero paese. Tito Quinzio

      Capitolino, che in passato era stato per tre volte console, parlando dei

      molti onori toccati a lui stesso e alla sua famiglia, sosteneva che, né

      all'interno della gens Quinzia, né nel resto della cittadinanza romana, si

      era mai vista una personalità così spiccata e provvista di tante assennate

      qualità. Cesone era stato il suo migliore soldato: spesso lo aveva visto

      lanciarsi contro il nemico proprio davanti ai suoi occhi. Spurio Furio

      rilasciò questa testimonianza: inviatogli da Quinzio Capitolino, Cesone

      era intervenuto in suo aiuto in una situazione pericolosa. A sua detta non

      c'era nessun altro che, al pari di Cesone, avesse contribuito a

      ristabilire le sorti dello scontro. Lucio Lucrezio, console l'anno

      precedente e nel fulgore della recente gloria, divideva i propri meriti

      con Cesone, ne ricordava le azioni militari, ne menzionava le non comuni

      imprese, tanto nel corso delle spedizioni, quanto nei combattimenti. Ed

      esortava la gente a preferire che quel giovane straordinario, provvisto

      d'ogni dono fornito dalla natura e dalla sorte, nonché capace di diventare

      il punto di forza di qualunque paese lo avesse accolto, fosse un

      concittadino loro piuttosto che di altri. Ciò che in lui poteva

      infastidire (eccesso di ardore e impulsività) col passare degli anni si

      sarebbe attenuato. Ciò che invece gli mancava (ossia la prudenza) sarebbe

      cresciuto giorno dopo giorno. La gente avrebbe dovuto accettare che un

      uomo simile - nel quale l'intensità dei difetti era destinata ad

      affievolirsi insieme al progressivo maturare delle virtù - invecchiasse

      nel pieno possesso della cittadinanza romana. Tra i suoi difensori c'era

      anche il padre, Lucio Quinzio, soprannominato Cincinnato. Questi, evitando

      di ribadire gli elogi rivolti al figlio per non accrescerne

      l'impopolarità, ma implorando clemenza per errori imputabili alla giovane

      età, chiedeva al popolo di assolvere il figlio come favore dovuto al padre

      che non aveva mai offeso nessuno, né con gli atti, né con le parole. Ma

      alcuni, o per imbarazzo o per paura, si rifiutavano di dare ascolto alle

      sue implorazioni, mentre altri, lamentandosi delle percosse subite o di

      quelle toccate agli amici, facevano capire con interventi durissimi il

      voto che avrebbero espresso.

      

      13 Oltre alla diffusa impopolarità, un'accusa pesava in maniera

      particolare sull'imputato: un testimone oculare, Marco Volscio Fittore,

      che era stato tribuno della plebe alcuni anni addietro, sosteneva di

      essersi imbattuto - non molto tempo dopo che la pestilenza aveva colpito

      la città - in un gruppo di giovani che imperversava con violenza nella

      Suburra. Lì era scoppiata una rissa e suo fratello maggiore, non ancora

      pienamente guarito dalla malattia, era stramazzato al suolo colpito da un

      pugno di Cesone. Trasportato a casa in fin di vita, a detta di Volscio,

      era poi morto a séguito di quel colpo. Tramite i consoli degli anni

      precedenti non gli era stato possibile avere soddisfazione di un gesto

      tanto efferato. Le parole concitate di Volscio infiammarono gli animi

      della gente a tal punto che Cesone per poco non fu vittima della furia

      popolare. Verginio dà ordine di arrestarlo e di chiuderlo in prigione. I

      patrizi rispondono con la forza alla forza. Tito Quinzio urla che un uomo

      su cui pende un'imputazione passibile della pena capitale, e che tra breve

      dovrà comparire in tribunale, non può essere sottoposto a violenza prima

      di essere condannato, prima ancora di aver subito un regolare processo. Ma

      il tribuno replica di non volerlo punire senza prima averlo processato.

      Tuttavia sostiene che lo si debba tenere in prigione fino al giorno del

      processo, in maniera tale che al popolo romano venga data facoltà di

      punire un uomo colpevole di omicidio. Ma i tribuni ai quali ci si appella

      decidono di esercitare il proprio diritto di veto, proponendo una

      soluzione di compromesso: proibiscono che l'imputato sia incarcerato;

      esigono che questi compaia in giudizio e versi al popolo una cauzione per

      il caso in cui non compaia. Siccome non era chiaro quale fosse la somma

      giusta da concordare, la questione viene portata di fronte al senato. In

      attesa che i senatori decidano, Cesone viene guardato a vista. Si stabilì

      di nominare dei mallevadori, fissando la cauzione a 3.000 assi per

      ciascuno di loro. Ai tribuni venne lasciata la facoltà di determinare il

      numero dei mallevadori: decisero che fossero dieci. E tanti furono i

      mallevadori che diedero all'accusatore le dovute garanzie. Quello di

      Cesone fu il primo caso di impegno cauzionale in attesa del processo.

      Essendogli stato concesso di abbandonare il foro, la notte successiva

      partì per l'esilio in terra etrusca. Il giorno del processo, l'assenza di

      Cesone venne giustificata, adducendo la tesi dell'esilio volontario, ma

      ugualmente Verginio tentò di convocare l'assemblea, che fu invece

      invalidata a séguito di un appello presentato ai suoi colleghi. La

      cauzione venne pretesa senza alcuna pietà dal padre di Cesone che,

      costretto a vendere tutti i propri beni, per un certo periodo andò a

      vivere come un esiliato in un tugurio fuori mano al di là del Tevere.

      

      14 Mentre sul fronte esterno tutto taceva, la città era in preda a

      continue agitazioni per il processo in corso e per la promulgazione della

      legge. I tribuni, visto il brutto colpo subito dai patrizi con l'esilio di

      Cesone, credevano di essere usciti vincitori e pensavano che il passaggio

      della legge fosse a quel punto quasi scontato. E se per parte loro i

      senatori più anziani avevano ormai abbandonato ogni pretesa di controllo

      del paese, i più giovani - in special modo quelli che avevano fatto parte

      del sodalizio di Cesone - aumentarono il proprio risentimento nei

      confronti della plebe, senza mai perdersi d'animo. Ma ottennero i

      risultati migliori sforzandosi di moderare in qualche maniera i loro

      attacchi. Quando la legge venne ripresentata per la prima volta dopo

      l'esilio di Cesone, si fecero trovare pronti allo scontro e con una

      massiccia schiera di clienti aggredirono i tribuni non appena questi ne

      offrirono l'occasione cercando di allontanarli: nell'assalto nessuno

      riuscì a primeggiare per gloria o per impopolarità, ma la plebe si

      lamentava che al posto di un solo Cesone adesso ce ne fossero mille. Nei

      giorni di intervallo nei quali i tribuni non si occupavano della legge,

      niente era più pacifico e tranquillo di loro: salutavano educatamente i

      plebei, si fermavano a chiacchierare, li invitavano a casa, li difendevano

      nel foro e addirittura permettevano, senza interferire, che i tribuni

      tenessero altre assemblee. Non avevano mai atteggiamenti arroganti né in

      pubblico né in privato, eccetto quando saltava fuori la questione della

      legge. In altre occasioni agivano in maniera apertamente democratica. I

      tribuni non si limitarono soltanto a portare avanti senza intralci le

      altre loro iniziative, ma vennero anche rieletti per l'anno successivo. I

      giovani senatori non alzavano neppure la voce, né tantomeno arrivavano

      alla violenza fisica. Così, agendo con delicatezza e tatto calcolati,

      riuscirono ad ammansire la plebe. Grazie a questi espedienti, la legge

      venne schivata per l'intera durata dell'anno.

      

      15 I consoli Gaio Claudio, figlio di Appio, e Publio Valerio Publicola

      ricevono una città più tranquilla. L'anno nuovo non aveva portato novità.

      Una doppia preoccupazione regnava in Roma: da una parte l'ansia di veder

      passare la legge, dall'altra il terrore di doverne accettare

      l'approvazione. Quanto più i giovani senatori cercavano di ingraziarsi il

      favore della plebe, tanto più i tribuni si sforzavano di renderli sospetti

      agli occhi della plebe stessa, accumulando accuse a loro carico. Era stata

      nel frattempo ordita una congiura: Cesone si trovava a Roma, il piano era

      quello di eliminare i tribuni e di massacrare la plebe. I senatori più

      anziani avevano affidato ai giovani il cómpito di abolire la potestà

      tribunizia facendo sì che la città ritornasse alle condizioni esistenti

      prima della secessione sul monte Sacro. C'era poi anche la paura suscitata

      da Volsci ed Equi, il cui attacco si era ormai trasformato in una

      ricorrenza quasi puntuale e fissata. Ma una nuova inaspettata sciagura

      arrivò da una zona ben più vicina a Roma: un contingente di 2.500 esuli e

      schiavi, agli ordini del sabino Appio Erdonio, occupò nottetempo il

      Campidoglio e la cittadella. Qui fecero súbito strage di quelli che si

      rifiutavano di prendere parte attiva alla congiura, combattendo al loro

      fianco. Alcuni, però, sfruttando il grande trambusto, riuscirono a

      sfuggire al massacro e in preda al panico si buttarono di corsa in

      direzione del foro. Si udivano varie voci gridare: «Alle armi!» o «Il

      nemico è in città!». I consoli, ignorando la provenienza di quell'attacco

      repentino (lo avevano lanciato degli stranieri o dei Romani?), e non

      potendolo quindi attribuire con certezza al risentimento della plebe o a

      un'insurrezione di schiavi, non sapevano se convenisse o meno armare il

      popolo. Tentavano di sedare la rivolta, anche se coi loro sforzi la

      fomentavano ulteriormente: l'autorità di cui erano investiti non era

      infatti sufficiente per controllare la folla in preda al panico e allo

      spavento. Ciononostante le armi vennero consegnate, anche se non proprio a

      tutti, ma in maniera tale che, nell'incertezza legata all'identificazione

      del nemico, si potesse contare su una guarnigione sufficientemente sicura

      e pronta a ogni evenienza. In preda all'ansia e all'incertezza intorno

      alla provenienza e alle proporzioni numeriche del nemico, questi reparti

      impiegarono il resto della notte ad allestire picchetti armati in tutti i

      punti strategici della città. La luce del giorno poi rivelò quale guerra

      fosse e chi la guidasse. Dal Campidoglio Appio Erdonio incitava gli

      schiavi a conquistare la libertà: si era addossato la causa di tutti i

      diseredati per ricondurre in patria gli esuli ingiustamente banditi e

      affrancare gli schiavi dal giogo opprimente della schiavitù. Certo

      preferiva che tutto accadesse con l'approvazione del popolo romano: se

      però da quella parte non c'erano speranze, allora avrebbe chiamato in

      causa Volsci ed Equi, deciso a non scartare le soluzioni estreme.

      

      16 La situazione divenne così più chiara per i senatori e i consoli. Oltre

      a tutto ciò che incombeva minacciosamente sul paese, essi temevano che si

      trattasse di un'iniziativa dei Veienti o dei Sabini, e che, con tutti quei

      nemici in città, le truppe etrusche e sabine potessero arrivare da un

      momento all'altro, a compimento di un piano preordinato; o ancora che i

      nemici di sempre, Volsci ed Equi, si rifacessero vivi, non più come prima

      solo per saccheggiare le campagne romane, ma spingendosi fino a Roma,

      considerata ormai quasi conquistata. Molteplici e diversi erano quindi i

      motivi di forte apprensione. Tra tutti spiccava però per intensità quello

      suscitato dal problema degli schiavi: ognuno sospettava di avere un nemico

      in casa, di cui non era sicuro continuare a fidarsi; e d'altronde,

      togliendogli la fiducia, c'era il rischio di accrescerne l'ostilità.

      Sembrava che neppure con la concordia si sarebbe potuto rimediare alle

      difficoltà. Le disgrazie del momento superavano e offuscavano tutto il

      resto in maniera così netta che ormai nessuno temeva più i tribuni e la

      plebe: questo male minore, sempre pronto a saltar fuori tra una disgrazia

      e l'altra, ora sembrava essere stato placato dal terrore seguito

      all'attacco straniero. E invece fu proprio questo annoso problema a farsi

      sentire in quei momenti critici: infatti i tribuni arrivarono a un punto

      tale di dissennata esaltazione da sostenere che il Campidoglio non era

      stato oggetto di un vero e proprio attacco militare, ma di una finta

      guerra inscenata per distogliere gli animi della plebe dal pensiero fisso

      della legge. Se la legge fosse passata, gli amici e i clienti dei patrizi

      si sarebbero resi conto dell'inutilità di quella messinscena e se ne

      sarebbero ritornati a casa ancora più silenziosamente di come erano

      venuti. Perciò, dopo aver richiamato il popolo sottraendolo agli obblighi

      militari, convocarono un'assemblea con l'intento di far approvare la

      legge. Nel frattempo i consoli, certo più preoccupati dalle mosse dei

      tribuni che non dall'attacco notturno dei nemici, tennero una seduta del

      senato.

      

      17 Quando arrivò la notizia che gli uomini stavano abbandonando le armi e

      i posti di guardia, Publio Valerio, dopo aver lasciato al collega il

      cómpito di impedire ai senatori di abbandonare la seduta, si precipitò

      fuori dalla curia diretto al luogo dove i tribuni stavano tenendo la loro

      assemblea. E lì disse loro: «Tribuni, cosa significa tutto questo? Avete

      intenzione di mettervi agli ordini di Appio Erdonio e di sovvertire sotto

      la sua guida l'ordine costituito? È riuscito così bene a corrompere voi

      uno che non è stato nemmeno in grado di far sollevare degli schiavi?

      Possibile che col nemico sopra le teste vi venga in mente di buttare le

      armi e di mettervi a proporre leggi?» Poi, rivolgendosi alla folla, disse:

      «Se la situazione in cui versa la vostra città, o Quiriti, non desta in

      voi la benché minima preoccupazione, abbiate almeno rispetto dei vostri

      dèi finiti in mano al nemico! Giove Ottimo Massimo, Giunone Regina e

      Minerva, insieme a tutte le altre divinità, si trovano in stato d'assedio;

      un campo di schiavi circonda i vostri Penati. Vi sembra questa una

      condizione normale per una città? Abbiamo torme di nemici dappertutto: non

      solo all'interno delle mura, ma anche sulla cittadella e al di sopra del

      foro e della curia. Nel frattempo il popolo è riunito in assemblea nel

      foro, mentre nella curia è in corso una seduta del senato: come in pieno

      regime di pace, i senatori stanno esprimendo la loro opinione e gli altri

      Quiriti vanno al voto. Non sarebbe giusto che tutti insieme, patrizi e

      plebei dal primo all'ultimo, e consoli, tribuni, uomini e dèi unissero le

      proprie forze e, una volta armati, corressero in Campidoglio per riportare

      pace e libertà nella venerabile dimora di Giove Ottimo Massimo? O padre

      Romolo, infondi nei tuoi discendenti quell'energia inesauribile con la

      quale un giorno riconquistasti la cittadella finita nelle mani di questi

      stessi Sabini con l'inganno dell'oro! Ordina loro di seguire la via

      percorsa dalle tue truppe con te al comando! Ecco, io che sono il console,

      sarò il primo - per quel poco che un mortale può nell'emulare un dio - a

      seguire te e le tue orme!» Per finire disse che sarebbe andato ad armarsi

      e incitò tutti i Quiriti a fare altrettanto. Se qualcuno avesse opposto

      resistenza, egli non avrebbe più tenuto conto dell'autorità consolare, né

      della potestà tribunizia o delle leggi garantite dai vincoli della

      sacralità: chiunque fosse stato renitente e dovunque si fosse trovato, in

      Campidoglio o nel foro, avrebbe avuto il trattamento riservato ai nemici.

      I tribuni, siccome avevano proibito di attaccare Appio Erdonio,

      ordinassero pure alla plebe di rivolgere le armi contro il console Publio

      Valerio: questi non avrebbe esitato a scagliarsi contro i tribuni, così

      come il capostipite della sua famiglia non aveva esitato a farlo contro i

      re. Era chiaro che presto si sarebbe arrivati all'uso della forza e che i

      Romani avrebbero offerto ai nemici lo spettacolo di uno scontro intestino.

      Così, né fu possibile far passare la legge, né il console riuscì a salire

      sul Campidoglio. La notte pose fine allo scontro. Al calar delle tenebre,

      i tribuni si ritirarono, impauriti dallo schieramento di forze mostrato

      dai consoli. Una volta allontanatisi i veri responsabili della sommossa, i

      senatori si andarono a mischiare alla gente comune e, inserendosi

      all'interno di vari gruppi, si rivolgevano alla gente con toni e parole

      appropriati alla delicatezza della situazione e invitavano gli

      interlocutori a considerare lo stato di estremo pericolo nel quale il loro

      comportamento aveva trascinato l'intero paese. Cercavano di far capire

      loro che non si trattava di uno scontro tra patrizi e plebei, ma che

      patrizi e plebei insieme, la cittadella, i santuari degli dèi, i Penati

      dello Stato e delle case private, tutto rischiava di finire in mano ai

      nemici. Mentre nel foro i senatori si sforzavano di sedare la discordia

      con questi discorsi, i consoli, temendo che Sabini e Veienti si mettessero

      in movimento, erano in giro a ispezionare le porte e le mura.

      

      18 Quella stessa notte anche a Tuscolo arrivò la notizia che la cittadella

      era stata conquistata, che il Campidoglio si trovava in stato d'assedio e

      che nel resto di Roma regnava il disordine. Lucio Mamilio era allora

      dittatore a Tuscolo. Dopo aver immediatamente convocato il senato e aver

      fatto entrare in sala i messaggeri, sostenne con calore che non si doveva

      aspettare l'arrivo da Roma di inviati con richieste d'aiuto: lo esigevano

      la situazione di grave pericolo, le divinità che sancivano il vincolo di

      alleanza e la fedeltà ai patti. Gli dèi non avrebbero più offerto

      un'occasione così propizia di guadagnarsi la gratitudine di una città

      tanto potente e vicina. Si decide quindi di portare aiuto e con questo

      scopo si organizza una leva di giovani e si danno loro delle armi. Quando

      alle prime luci del giorno le truppe di Tuscolo vennero avvistate da

      lontano in assetto di marcia, furono scambiate per contingenti nemici.

      Sembrò che Equi e Volsci stessero arrivando. Una volta però dissipati i

      falsi timori, gli uomini di Mamilio sono accolti in città e incolonnati

      scendono al foro. Qui Publio Valerio, affidato al collega il presidio

      delle porte, stava già schierando le truppe. Con il peso della sua

      autorità, il console aveva convinto il popolo con queste dichiarazioni.

      Una volta riconquistato il Campidoglio e ristabilita la pace in città, se

      solo gli fosse stato concesso di smascherare l'inganno celato nella legge

      proposta dai tribuni, memore dei propri antenati e del soprannome col

      quale essi gli avevano tramandato come in eredità il dovere di

      preoccuparsi del popolo, non avrebbe impedito l'assemblea della plebe.

      Seguendolo quindi come loro comandante, nonostante le vane proteste dei

      tribuni, gli uomini cominciano a salire su per il colle del Campidoglio. A

      loro si aggiunge la legione di Tuscolo. Tra alleati e Romani fu allora una

      vera gara di valore per vedere a chi sarebbe toccato l'onore di

      riconquistare la cittadella. I comandanti dei due schieramenti esortavano

      a gran voce le proprie truppe. In quel momento i nemici si fecero prendere

      dall'affanno perché non potevano contare che sulla posizione occupata.

      Mentre il panico serpeggiava tra le loro file, ecco arrivare l'attacco di

      Romani e alleati. Gli attaccanti erano già penetrati nel vestibolo del

      tempio, quando Publio Valerio rimase ucciso proprio mentre guidava

      l'assalto nelle prime file. L'ex-console Publio Volumnio lo vide cadere.

      Dopo aver ordinato ai suoi di proteggerne il corpo, si butta a occupare la

      posizione tenuta dal console. Nell'ardore dell'impeto i soldati non si

      accorsero nemmeno di un fatto così clamoroso e arrivarono a conquistare la

      vittoria ancor prima di essersi resi conto di combattere ormai privi del

      comandante. Il sangue dei molti esuli massacrati insozzò le pareti dei

      templi: parecchi furono catturati vivi, mentre Erdonio rimase ucciso. Fu

      così che il Campidoglio tornò in mani romane. Quanto ai prigionieri, a

      ciascuno di essi toccò una pena commisurata alla loro condizione, a

      seconda che si trattasse di uomini liberi o di schiavi. I Tuscolani

      vennero ringraziati e il Campidoglio fu purificato con riti espiatori.

      Pare che i plebei andassero a gettare un quadrante a testa nella casa del

      console morto, perché fosse sepolto con esequie più sontuose.

      

      19 Una volta ristabilita la pace, i tribuni cominciarono a incalzare i

      senatori chiedendo loro di mantenere la promessa fatta da Publio Valerio.

      A Gaio Claudio rivolgevano invece l'invito a liberare gli dèi Mani del

      collega dall'ombra dell'inganno, permettendo così di riavviare la

      discussione sulla legge. Ma il console replicò che non avrebbe permesso di

      ricominciare il dibattito sulla legge fino a quando non gli fosse stato

      affiancato un collega regolarmente eletto. Queste schermaglie tennero

      banco fino alle elezioni consolari. A dicembre, grazie allo straordinario

      zelo dimostrato dai senatori, Lucio Quinzio Cincinnato, padre di Cesone,

      viene nominato console ed entra immediatamente in carica. La plebe era

      spaventata all'idea di avere un console accecato dal rancore nei suoi

      confronti, e oltretutto forte del favore senatoriale e del proprio valore,

      nonché di altri tre figli, nessuno dei quali era inferiore a Cesone per

      abnegazione e coraggio, ma tutti superiori a lui nella capacità di usare

      la moderazione e l'assennatezza nelle occasioni in cui erano necessarie.

      Appena entrato in carica, Cincinnato non perdeva occasione di arringare la

      gente dai banchi del tribunale, e mostrava nel reprimere la plebe

      un'energia pari a quella mostrata nel muovere aspre censure al senato. A

      sua detta, proprio a causa dell'apatia dell'ordine senatoriale i tribuni

      della plebe esercitavano ormai una sorta di tirannide permanente, a parole

      e con azioni nefaste, lecita in una casa privata ormai allo sfacelo, ma

      non nella gestione degli affari del popolo romano. Con suo figlio Cesone,

      il coraggio, la forza e tutte le nobili qualità della gioventù in pace e

      in guerra erano state cacciate da Roma e messe in fuga. E invece, dei

      parolai pronti solo a seminare zizzania e sedizioni erano stati eletti

      tribuni per una seconda e una terza volta e vivevano con magnificenza

      regale, grazie alle loro pessime arti. «Aulo Verginio,» disse, «che sul

      Campidoglio non c'era, meritava forse una punizione più lieve di quella

      toccata ad Appio Erdonio? Se si considera attentamente l'andamento dei

      fatti, per Ercole, ne meriterebbe una molto più dura! Erdonio, se non

      altro, professandosi nemico, in qualche modo vi intimò di prendere le

      armi. Costui invece, sostenendo che non ci fosse una guerra in atto, vi

      tolse di mano le armi esponendovi inermi ai vostri schiavi e agli esuli. E

      non è forse vero - sia detto questo con buona pace di Gaio Claudio e del

      defunto Publio Valerio - che vi buttaste all'attacco su per il Campidoglio

      prima di aver liberato il foro dai nemici? Una vergogna di fronte agli dèi

      e agli uomini. Quando sulla cittadella e sul Campidoglio c'erano i nemici

      e il capo degli esuli e degli schiavi si era installato, per colmo di

      profanazione, addirittura nei penetrali del tempio di Giove Ottimo

      Massimo, i Tuscolani avevano preso le armi prima dei Romani. Quanto poi

      alla liberazione della cittadella, si è arrivati a dubitare se essa vada

      attribuita a Lucio Mamilio comandante delle truppe di Tuscolo oppure ai

      consoli Publio Valerio e Gaio Claudio. E noi che prima di quell'episodio

      non avevamo mai permesso ai Latini di mettere le mani sulle armi, neppure

      in caso di autodifesa o di fronte a un'invasione nemica, in quel frangente

      saremmo stati catturati e distrutti se i Latini non fossero intervenuti di

      loro spontanea volontà. Ma è questo, o tribuni, quello che voi chiamate

      soccorrere la plebe, e cioè consegnare della gente inerme in pasto al

      nemico? È ovvio che se il più insignificante membro della vostra plebe -

      cioè di quella porzione di popolazione che voi avete trasformato in una

      vostra patria, in una cosa vostra, dopo averla sradicata dal resto del

      popolo -, se uno di questi individui fosse venuto a riferirvi di avere la

      casa assediata dai propri schiavi armati, voi vi sareste sentiti in dovere

      di intervenire in suo aiuto: ma Giove Ottimo Massimo assediato da una

      banda armata di esuli e schiavi non meritava forse il soccorso degli

      uomini? E costoro pretendono poi di essere considerati sacri e

      inviolabili, quando ai loro occhi neppure gli dèi in persona lo sono! E

      infatti, pur essendovi macchiati di orrende colpe nei confronti di uomini

      e dèi, vi ostinate a ripetere che quest'anno voi farete passare la legge.

      Ma, per Ercole, il giorno che sono stato eletto console diventerà una data

      funesta per il paese, ancor più di quella in cui morì il console Publio

      Valerio, se riuscirete a far passare la legge! Prima di ogni altra cosa,»

      concluse, «io e il mio collega abbiamo in mente di guidare le legioni

      contro Volsci ed Equi. Non so per quale destino il favore degli dèi ci

      arride più quando siamo sul piede di guerra che non in tempo di pace. Il

      pericolo che questi popoli avrebbero potuto rappresentare se fossero

      venuti a sapere dell'assedio del Campidoglio da parte degli esuli è meglio

      cercare di desumerlo dalle esperienze passate piuttosto che sperimentarlo

      dal vivo.»

      

      20 Il discorso del console aveva impressionato la plebe. E i senatori,

      rinfrancati, pensavano che lo Stato fosse tornato alla stabilità di un

      tempo. L'altro console, che per indole era incline più a collaborare con

      passione ad iniziative altrui che a proporne di nuove, pur accettando di

      buon grado che il collega lo avesse preceduto nella presentazione di

      misure così importanti, ciononostante, reclamava per sé, all'atto della

      loro realizzazione pratica, la sua parte di potere consolare. I tribuni

      allora, facendosi beffe del discorso di Quinzio come se le sue fossero

      state parole prive di efficacia, cominciarono ad andare in giro a chiedere

      in che modo i consoli avrebbero messo insieme un esercito da portare in

      guerra, quando a nessuno passava per la testa di permettere loro

      l'effettuazione di una leva. «Non abbiamo bisogno di nessuna leva,» disse

      Quinzio, «perché quando Publio Valerio armò la plebe per riconquistare il

      Campidoglio, tutti giurarono che si sarebbero presentati attenendosi agli

      ordini del console e che senza il suo ordine non se ne sarebbero andati.

      Pertanto le nostre disposizioni sono queste: voi tutti che avete prestato

      giuramento domani trovatevi armati al lago Regillo.» Allora i tribuni,

      volendo liberare il popolo dalla sacralità dell'impegno assunto, trovarono

      dei cavilli; dicevano che Quinzio era un privato cittadino quando essi

      avevano prestato giuramento. Ma allora non si era ancora imposto quel

      disprezzo per gli dèi che domina invece ai giorni nostri e nessuno cercava

      di adattare alle proprie esigenze leggi e giuramenti, ma piuttosto si

      sforzava di conformare a questi ultimi il proprio comportamento. Pertanto

      i tribuni, siccome non c'era nessuna speranza di riuscire a ostacolare

      l'iniziativa, si impegnarono nel tentativo di ritardare la partenza.

      Correva voce che agli àuguri fosse stato ordinato di presentarsi al lago

      Regillo per consacrare uno spazio dove fosse lecito convocare il popolo,

      dopo aver tratto i regolari auspici. Il tutto per far sì che in quel

      contesto potesse essere abrogato dai comizi centuriati tutto ciò che a

      Roma aveva ottenuto l'approvazione per la violenza dei tribuni. Tutti

      dichiararono che si sarebbero conformati alla volontà del console. E

      infatti, trovandosi a più di un miglio di distanza da Roma, non esisteva

      possibilità d'appello e anche i tribuni, qualora si fossero presentati lì,

      sarebbero stati soggetti all'autorità dei consoli come tutti gli altri

      Quiriti. Queste cose facevano paura. Ma quel che spaventava di più gli

      animi era che Quinzio avesse più volte dichiarato di non voler tenere le

      elezioni consolari. La città versava ormai in condizioni così gravi che

      non era possibile pensare di poterla curare ricorrendo ai rimedi consueti:

      la repubblica aveva bisogno di un dittatore, in modo che chiunque si fosse

      mosso per suscitare la rivolta nella città sapesse che la dittatura non

      prevedeva possibilità d'appello.

      

      21 Il senato si trovava in Campidoglio. Qui viene raggiunto dai tribuni e

      dalla plebe in preda all'agitazione. Con un coro di voci disordinate, la

      moltitudine implora la protezione ora dei consoli, ora dei senatori. Ma

      non riuscirono a distogliere il console dal suo fermo proposito, prima che

      i tribuni avessero promesso di sottomettersi in futuro all'autorità dei

      senatori. Dopo che il console ebbe riferito le richieste dei tribuni e

      della plebe, il senato stabilì che i tribuni quell'anno non avrebbero

      ripresentato la legge, e che i consoli non avrebbero guidato un esercito

      fuori dalla città. Inoltre, per quanto concerneva i giorni a venire, il

      senato giudicò dannoso per lo Stato che le magistrature potessero essere

      prolungate nel tempo e che gli stessi tribuni venissero rieletti. I

      consoli si piegarono all'autorità dei senatori, ma i tribuni, nonostante

      le proteste dei consoli, furono rieletti. Anche i patrizi, per non fare

      alcuna concessione alla plebe, desideravano il rinnovo della magistratura

      a Lucio Quinzio, che pronunciò un discorso di una durezza mai dimostrata

      in nessun'altra occasione nell'intero arco dell'anno. «E io dovrei

      stupirmi,» disse Quinzio, «o senatori, se il vostro potere non ha alcuna

      efficacia sulla plebe? Ma se siete voi che lo screditate quando, di fronte

      alla plebe che viola il decreto senatoriale sul prolungamento delle

      magistrature, vi mettete anche voi a violarlo per tener dietro

      all'impudenza della folla, come se l'essere più incostanti o l'agire in

      maniera più arbitraria nei confronti della legge significasse gestire

      maggiore potere all'interno della città. Infatti è certo un comportamento

      più irresponsabile e stupido violare i propri decreti e le proprie

      risoluzioni piuttosto che quelli degli altri. Imitate pure, o senatori, la

      folla inconsulta e, anche se dovreste essere voi d'esempio agli altri,

      continuate a sbagliare adeguandovi all'esempio altrui, invece di far sì

      che gli altri operino rettamente seguendo il vostro. Io però, se non vi

      spiace, non ho intenzione di imitare i tribuni né di farmi rieleggere

      console contro la volontà del senato. Quanto a te, Gaio Claudio, ti esorto

      affinché tu faccia il possibile per liberare il popolo romano dal dilagare

      dell'arbitrio e ti prego di credere che, per quanto mi riguarda, non sei

      stato un ostacolo alla mia carica, ma hai contribuito a incrementare il

      peso del mio rifiuto e che, così facendo, l'impopolarità destinata a

      seguire l'eventuale rinnovo della magistratura ora non rappresenta più un

      rischio.» Quindi, di comune accordo, decretano che nessuno voti Lucio

      Quinzio come console. Se qualcuno l'avesse fatto, non avrebbero tenuto

      conto di quel voto.

      

      22 Vennero eletti consoli Quinto Fabio Vibulano (per la terza volta) e

      Lucio Cornelio Maluginense. Quell'anno venne effettuato un censimento

      della popolazione, ma a causa della presa del Campidoglio e della morte

      del console fu considerato un atto sacrilego il concluderlo con il

      tradizionale rito di purificazione.

      Il consolato di Quinto Fabio e Lucio Cornelio nacque all'insegna del

      disordine: i tribuni istigavano la plebe, mentre Latini ed Ernici

      annunciavano che Volsci ed Equi erano in procinto di lanciare un grande

      attacco e che ad Anzio c'erano già delle legioni di Volsci. Oltretutto era

      diffuso il timore di una defezione da parte della colonia stessa di Anzio

      e con enorme fatica si ottenne dai tribuni che lasciassero la precedenza

      alla guerra. Poi i consoli si spartirono i còmpiti: a Fabio venne dato

      l'incarico di guidare le legioni ad Anzio, mentre a Cornelio venne

      affidato quello di difendere Roma con le armi, per evitare che una parte

      dei nemici - com'era abitudine degli Equi - venisse a saccheggiare. Ad

      Ernici e Latini fu invece dato ordine di fornire dei contingenti armati

      secondo le clausole contenute nel trattato, così che alla fine l'esercito

      risultò formato per due terzi da alleati e per un terzo da cittadini

      romani. Quando il giorno prestabilito arrivarono gli alleati, il console

      decise di accamparsi fuori della porta Capena. Di lì, dopo aver purificato

      l'esercito con un sacrificio rituale, partì alla volta di Anzio e si

      appostò non lontano dalla città e dal quartier generale dei nemici. I

      Volsci in quel momento non osavano affrontare uno scontro perché privi dei

      contingenti degli Equi che non li avevano ancora raggiunti, così cercarono

      di proteggersi restando tranquilli al riparo di una trincea fortificata.

      Il giorno dopo Fabio, invece di mescolare Romani e alleati in un'unica

      schiera, ne piazzò intorno alla trincea nemica tre, rispettivamente

      formate da contingenti dei tre diversi popoli, riservando per se stesso e

      per le legioni romane il centro dello spiegamento. Quindi ordinò loro di

      aspettare il segnale, in maniera tale che alleati e Romani dessero inizio

      in sincronia all'operazione e fossero pronti a ritirarsi insieme, qualora

      venisse suonata la ritirata. Inoltre collocò la cavalleria dietro le prime

      file di ciascuna schiera. Lanciatosi così all'assalto da tre direzioni

      diverse, circondò l'accampamento e, incalzandoli da ogni parte, scacciò

      dalla trincea i Volsci incapaci di sostenere l'urto. Quindi, una volta

      superate le fortificazioni, allontana dall'accampamento la massa

      spaventata dei nemici che ripiega in un'unica direzione. Allora i

      cavalieri, che per la difficoltà di superare la trincea avevano assistito

      da spettatori alla battaglia, non avendo più davanti a sé alcun tipo di

      ostacolo, si conquistarono parte del merito della vittoria abbattendosi

      sui nemici terrorizzati. Il massacro dei fuggitivi fu tremendo sia

      all'interno dell'accampamento che oltre le fortificazioni. Ma ancora più

      grande fu il bottino: i nemici riuscirono a portare con sé a malapena le

      armi. E anche il loro esercito sarebbe stato distrutto se il bosco non

      avesse offerto riparo a chi fuggiva.

      

      23 Mentre ciò accadeva nei pressi di Anzio, gli Equi, mandato avanti il

      meglio dei loro giovani, con un'improvvisa sortita notturna si

      impossessano della cittadella di Tuscolo. Con il resto dell'esercito si

      attestano non lontano dalle mura della città per impegnare su più fronti

      le truppe nemiche. Quando queste notizie - dopo aver velocemente raggiunto

      Roma - arrivarono all'accampamento nei pressi di Anzio, i Romani ne furono

      sconvolti come se fosse stata annunciata l'occupazione del Campidoglio. Il

      ricordo del recente gesto meritorio compiuto dai Tuscolani e l'analoga

      situazione di pericolo esigevano che si contraccambiasse l'aiuto da loro

      prestato. Fabio, mettendo in secondo piano ogni altra cosa, trasporta

      rapidamente il bottino dall'accampamento ad Anzio e, lasciato qui un

      modesto presidio armato, a marce forzate si precipita a Tuscolo. Ai

      soldati non permise di prendere con sé nient'altro che le armi e il cibo

      già pronto e a portata di mano (gli approvvigionamenti li trasportò

      infatti il console Cornelio da Roma). La guerra di Tuscolo durò alcuni

      mesi. Con parte dell'esercito il console assediava l'accampamento degli

      Equi, mentre un'altra parte l'aveva affidata ai Tuscolani per

      riconquistare la cittadella. Ma in questo punto non si riuscì mai a

      entrare con la forza: fu la fame che alla fine scacciò i nemici di là.

      Quando furono allo stremo, i Tuscolani li costrinsero tutti, senza armi e

      nudi, a passare sotto il giogo. E mentre con una fuga vergognosa cercavano

      di riparare in patria, il console romano li intercettò sul monte Algido

      uccidendoli dal primo all'ultimo. Il vincitore, fatto ritirare l'esercito,

      si accampa presso Colume (questo è il nome del luogo). L'altro console,

      dopo che la sconfitta nemica aveva allontanato il pericolo dalle mura di

      Roma, si mise in marcia anche lui dalla città. Così, entrati nei territori

      nemici da due direzioni, i consoli con un'aspra lotta devastarono da una

      parte le terre dei Volsci e dall'altra quelle degli Equi. Presso la

      maggior parte degli autori ho trovato che in quello stesso anno ci fu una

      rivolta degli Anziati; avrebbe condotto la guerra contro di loro e preso

      la città il console Cornelio. Ma a dir la verità non me la sento di

      confermare la notizia perché gli storici più antichi non menzionano

      l'episodio.

      

      24 Appena finita questa guerra, un'altra, suscitata in patria dai tribuni,

      semina il panico tra i patrizi. I tribuni protestavano a gran voce che era

      una truffa tener lontano dalla città l'esercito: quello era un espediente

      per boicottare la legge. Essi si impegnavano a portare a compimento

      l'iniziativa. Ciononostante, il prefetto della città Lucio Lucrezio

      ottenne che i tribuni procrastinassero ogni loro mossa fino all'arrivo dei

      consoli. Era sorta una nuova ragione di discordia: i questori Aulo

      Cornelio e Quinto Servilio avevano citato in giudizio Marco Volscio,

      accusandolo di testimonianza indubbiamente falsa nel processo a carico di

      Cesone. Era emerso da numerose prove che il fratello di Volscio, da quando

      si era ammalato, non soltanto non era mai stato visto in giro, ma non si

      era mai ristabilito e si era spento consumato da un male durato molti

      mesi; e che nei giorni in cui il testimone aveva collocato il delitto,

      Cesone non era stato visto a Roma (come affermavano i suoi commilitoni, i

      quali sostenevano che in quel periodo egli era sempre stato con loro al

      fronte, senza mai beneficiare di licenze). Per provare la veridicità di

      queste affermazioni, molti erano disposti a proporre a Volscio un arbitro

      privato. Ma siccome egli non osava comparire in giudizio, tutti questi

      elementi insieme congiurarono contro di lui, rendendo la condanna di

      Volscio non meno dubbia di quanto lo era stata quella di Cesone dopo la

      testimonianza di Volscio. I tribuni prendevano tempo e dicevano che non

      avrebbero permesso ai questori di tenere comizi sull'accusato se prima non

      si tenevano quelli sulla legge. Così entrambe le questioni vennero

      rinviate fino all'arrivo dei consoli. Quando questi entrarono in città con

      l'esercito vincitore, siccome non si parlava affatto della legge, molta

      gente pensò che i tribuni si fossero dati per vinti. Ma i tribuni, visto

      che l'anno era ormai agli sgoccioli, puntando a essere riconfermati nella

      carica per la quarta volta, avevano concentrato tutti i loro sforzi sui

      comizi elettorali, e nonostante l'accesa opposizione dei consoli - i quali

      si accanivano contro la riconferma dei tribuni con non meno livore di

      quanto ne avrebbero dimostrato se si fosse trattato di una legge volta a

      diminuire la loro autorità -, nello scontro ebbero la meglio i tribuni.

      In quello stesso anno gli Equi chiesero e ottennero la pace. Venne portato

      a termine il censimento iniziato l'anno precedente. Pare che quello fosse

      il decimo sacrificio lustrale compiuto dalla fondazione di Roma. I

      cittadini censiti risultarono essere 117.319. Per i consoli fu un anno di

      grande gloria tanto in politica interna che in àmbito militare: infatti,

      durante il loro mandato, non soltanto si arrivò ad ottenere la pace coi

      popoli confinanti, ma anche in città, pur non arrivando a una perfetta

      armonia tra le parti, ci furono meno tensioni del solito tra le classi.

      

      25 Lucio Minucio e Gaio Nauzio, eletti consoli, ricevettero in eredità le

      due questioni lasciate in sospeso l'anno precedente. Come già successo in

      passato, i consoli cercavano di insabbiare la legge e i tribuni il

      processo a carico di Volscio. Ma i nuovi questori erano uomini di

      tutt'altro temperamento e influenza. Collega del questore Marco Valerio,

      figlio di Manio e nipote di Voleso, era Tito Quinzio Capitolino, già tre

      volte console in passato. Questi, non potendo restituire Cesone alla

      famiglia, né un giovane così eccezionalmente dotato al paese, si era

      impegnato in una guerra giusta e sacrosanta contro il falso testimone che

      aveva impedito a un innocente di perorare la propria causa. Mentre fra i

      tribuni soprattutto Verginio si impegnava di più per quella legge, ai

      consoli vennero dati due mesi di tempo per esaminarla in maniera tale che,

      dopo aver spiegato alla gente quali insidie nascondeva, potessero dare il

      via alle operazioni di voto. La concessione di questo intervallo riportò

      la calma in città. Ma gli Equi non lasciarono che la pace durasse troppo a

      lungo: violando infatti il trattato stipulato coi Romani l'anno

      precedente, affidano il comando a Gracco Clelio, allora la personalità di

      gran lunga più in vista tra gli Equi.

      Guidati da Gracco, invadono e saccheggiano senza pietà prima la zona di

      Labico e quindi quella di Tuscolo, per poi andarsi ad accampare, carichi

      del bottino, sull'Algido. Da Roma giunsero in quel campo in qualità di

      inviati Quinto Fabio, Publio Volumnio e Aulo Postumio per chiedere ragione

      delle offese arrecate e per pretendere, come previsto dal trattato, la

      restituzione di quanto razziato. Ma il comandante degli Equi intimò loro

      di andare a riferire alla quercia qualunque messaggio avessero ricevuto

      dal senato di Roma nel mentre egli si sarebbe occupato d'altro. Un'enorme

      quercia sovrastava il pretorio che aveva sede sotto la sua densa ombra.

      Allora uno dei legati, ormai sul punto di andarsene, disse: «Che questa

      quercia sacra e le presenze divine del luogo - qualunque esse siano -

      sentano che siete stati voi a violare il trattato. Possano essere

      favorevoli ora alle nostre lamentele e presto alle nostre armi, quando

      vendicheremo la vostra contemporanea violazione dei diritti divini e

      umani.» Quando gli ambasciatori rientrarono a Roma, il senato ordinò che

      uno dei consoli guidasse l'esercito sull'Algido, contro Gracco, mentre

      all'altro diede l'incarico di mettere a ferro e fuoco il territorio degli

      Equi. I tribuni, com'era ormai loro abitudine, si misero a ostacolare la

      leva. E questa volta ce l'avrebbero quasi fatta se non fosse sopraggiunto

      all'improvviso un nuovo e inquietante allarme. 26 Ingenti forze sabine si

      spinsero a razziare fin sotto le mura: le campagne vennero devastate e in

      città fu súbito il terrore. Allora la plebe prese di buon grado le armi e,

      tra le vane proteste dei tribuni, vennero arruolati due grandi eserciti.

      Con uno di essi Nauzio attaccò i Sabini. Dopo aver sistemato

      l'accampamento a Ereto, sfruttando per lo più la tecnica delle incursioni

      notturne affidate a pattuglie armate, provocò tali devastazioni nella

      campagna sabina che, al confronto, quella romana sembrava quasi non aver

      risentito della guerra. Minucio non ebbe invece, nel corso della campagna,

      la stessa buona sorte, né dimostrò analogo temperamento. Infatti, dopo

      essersi accampato non lontano dal nemico, pur non avendo subìto alcuna

      grave sconfitta, continuava a rimanere pavidamente all'interno

      dell'accampamento. Quando i nemici se ne resero conto, la loro audacia

      crebbe, come sempre succede, per i timori dell'avversario e, nel cuore

      della notte, assalirono l'accampamento. Fallito però l'attacco diretto, il

      giorno successivo circondano il luogo con fortificazioni. Ma prima che

      queste, erette lungo tutto il perimetro della trincea, potessero

      precludere ogni via d'uscita, cinque cavalieri riuscirono a incunearsi

      attraverso le postazioni nemiche e portarono a Roma la notizia che il

      console e l'esercito eran stretti d'assedio. In quel frangente non poteva

      succedere nulla di più inopinato e imprevedibile. Il panico e lo

      smarrimento furono così grandi, come se i nemici assediassero la città e

      non l'accampamento. Fu richiamato il console Nauzio. Ma siccome la sua

      protezione non sembrava sufficiente e alla gente andava a genio la nomina

      di un dittatore capace di rimediare a una situazione più che critica,

      tutti si trovarono d'accordo sul nome di Lucio Quinzio Cincinnato.

      Quanto segue merita l'attenzione di quelli che, eccetto il denaro,

      disprezzano tutte le cose umane e credono che non ci sia spazio per i

      grandi onori e per le virtù se non dove c'è profusione di ricchezze. Lucio

      Quinzio, unica speranza rimasta al popolo romano per l'affermazione del

      proprio dominio, coltivava un appezzamento di quattro iugeri al di là del

      Tevere (zona oggi nota come Prati Quinzi), proprio di fronte al luogo dove

      adesso ci sono i cantieri navali. E lì fu trovato dagli inviati: se poi

      stesse scavando una fossa piegato sulla pala oppure stesse arando, una

      cosa è certa, e ben nota a tutti: era intento a un lavoro agricolo. Dopo

      uno scambio di saluti, gli venne chiesto di mettersi la toga e di

      ascoltare quello che il senato gli mandava a dire, sperando che ciò si

      risolvesse nel bene suo e in quello della repubblica. Stupito domandò: «Va

      tutto bene, vero?» Quindi ordinò alla moglie Racilia di andare súbito a

      prendere la sua toga dentro la capanna. Ripulitosi dalla polvere e deterso

      il sudore, si fece avanti con la toga addosso. Gli inviati lo salutano

      dittatore, si congratulano, lo invitano a tornare in città e gli

      illustrano l'allarmante situazione in cui versa l'esercito. Ad attenderlo

      era pronta una imbarcazione allestita a spese dello Stato. Dopo aver

      attraversato il fiume, sulla riva opposta gli andarono incontro i tre

      figli, seguiti da altri parenti e amici e poi dalla maggior parte dei

      senatori. Accompagnato da quella folla e preceduto dai littori, venne

      quindi scortato a casa sua. Accorsero numerosi anche i plebei; ma non

      gioirono troppo alla vista di Quinzio, perché ritenevano eccessivo il

      potere dittatoriale, e troppo autoritario l'uomo a cui quel potere era

      stato affidato. E quella notte in città non si fece altro che vegliare.

      

      27 Il giorno successivo il dittatore si presentò nel foro prima dell'alba

      e qui nominò maestro di cavalleria Lucio Tarquinio che, pur vantando

      origini patrizie, a causa della sua povertà aveva militato tra i fanti,

      meritandosi però sul campo la palma del migliore tra la gioventù romana.

      Arrivato in assemblea col suo nuovo maestro di cavalleria, il dittatore

      sospende l'attività giudiziaria, ordina la chiusura di tutte le botteghe

      cittadine e vieta a chiunque di occuparsi di qualsiasi faccenda privata.

      Inoltre tutti coloro che erano in età militare dovevano presentarsi in

      Campo Marzio con viveri per cinque giorni e dodici pioli a testa. A quelli

      che per l'età troppo avanzata non erano in grado di prestare servizio

      militare, ordinò di preparare il rancio caldo ai vicini mobilitati, mentre

      questi ispezionavano le armi e cercavano i pioli. Così i giovani si

      buttarono alla ricerca dei pioli: ciascuno li andò a prendere nel punto

      più vicino, senza mai trovare resistenza nella gente. E tutti furono

      puntualmente a disposizione come richiesto dal dittatore. Così, una volta

      organizzati gli uomini in maniera tale da averli pronti tanto alla marcia

      quanto al combattimento, qualora ce ne fosse stata la necessità, il

      dittatore in persona si mise a capo delle legioni, mentre il maestro di

      cavalleria andò a porsi alla testa dei suoi cavalieri. In entrambi gli

      schieramenti si udivano le incitazioni che le circostanze richiedevano.

      L'ordine era: accelerare il passo; bisognava fare presto per arrivare a

      contatto col nemico entro la notte. Il console e l'esercito romano erano

      intanto circondati dal nemico e ormai si trattava del terzo giorno

      dall'inizio dell'assedio. Cosa ogni giorno e ogni notte portino è

      difficile prevederlo. E il semplice istante rappresenta spesso la svolta

      per eventi di grandissima importanza. Anche i soldati, per compiacere i

      rispettivi comandanti, si gridavano tra di loro frasi come:

      «Portabandiera, accelera!» o «Uomini, seguitemi!». A mezzanotte arrivano

      sull'Algido e, intuendo di essere ormai prossimi al nemico, si fermano.

       

      28 Lì il dittatore andò a ispezionare a cavallo l'estensione e la

      conformazione dell'accampamento, per quanto si poteva vedere di notte.

      Quindi ingiunse ai tribuni militari di far ammassare in un unico punto i

      bagagli e di far ritornare poi gli uomini nei rispettivi ranghi coi

      paletti e le armi. Quando i comandi furono eseguiti, egli, continuando a

      mantenere lo stesso ordine tenuto durante la marcia, con l'intero esercito

      inquadrato in lunghe colonne circonda l'accampamento nemico. Quindi ordina

      che tutti, a un determinato segnale, gridino con quanta voce hanno in gola

      e, dopo aver gridato, scavino un buco di fronte alla propria posizione e

      infine piantino dentro un paletto. All'ordine seguì sùbito il segnale. I

      soldati mettono in atto le parole del dittatore e le loro voci risuonano

      tutt'intorno al nemico, arrivando fino all'accampamento del console, dopo

      aver attraversato quello avversario. L'urlo semina da una parte il

      terrore, mentre dall'altra scatena un'immensa gioia. I Romani assediati,

      rendendosi conto che a gridare erano dei loro concittadini e che quindi

      erano arrivati i soccorsi, si rallegrarono e ricominciarono a spaventare i

      nemici dai posti di guardia e dalle altane. Il console disse che non c'era

      un minuto da perdere: quell'urlo non indicava soltanto l'arrivo dei

      rinforzi, ma anche che questi ultimi avevano iniziato a combattere. Anzi

      sarebbe stato strano se essi non avessero già assalito alle spalle

      l'accampamento nemico. Perciò ordina ai suoi di prendere le armi e di

      seguirlo. Quando si buttarono nella mischia era notte fonda: con un urlo

      fecero capire alle legioni del dittatore che anche da quella parte era

      cominciato lo scontro. Gli Equi si stavano già preparando a impedire

      l'accerchiamento delle fortificazioni, quando si videro investiti dagli

      assediati. Per evitare una sortita attraverso il loro accampamento,

      girarono la schiena a quelli che stavano costruendo la palizzata e si

      concentrarono sull'attacco proveniente dall'interno, lasciando che la

      costruzione procedesse indisturbata per il resto della notte e combattendo

      contro le truppe del console fino alle prime luci dell'alba. Quando fu

      giorno, erano ormai chiusi dal vallo del dittatore e riuscivano a malapena

      a tener testa a un solo esercito. Allora gli uomini di Quinzio, tornati

      rapidamente alle armi dopo aver finito la costruzione, si buttano

      all'assalto della trincea nemica. Qui ci fu una nuova battaglia, mentre

      l'altra cominciata prima continuava a infuriare. E allora i nemici,

      pressati dalla doppia minaccia che incombeva su di loro e passati

      dall'assalto armato alle più disperate implorazioni, supplicavano ora il

      dittatore, ora il console di non trasformare la vittoria in un massacro,

      ma di lasciarli andar via di lì senza le armi. Il console ordinò loro di

      andare dal dittatore che, in un accesso di rabbia, aggiunse condizioni

      infamanti. Cincinnato ordina infatti di condurgli in catene il comandante

      Gracco Clelio e gli altri capi, e di evacuare la città di Corbione. Disse

      che del sangue degli Equi poteva benissimo fare a meno; avrebbe concesso

      loro di andarsene, ma, perché finalmente ammettessero che il loro popolo

      era stato sottomesso e domato, essi avrebbero dovuto passare sotto il

      giogo. Venne allestito un giogo con tre aste, due erano piantate nel

      terreno, mentre la terza era legata di traverso sopra le altre. Sotto a

      questo giogo il dittatore fece passare gli Equi.

      

      29 Dopo essersi impossessato dell'accampamento nemico che straripava

      d'ogni bendidio perché i suoi occupanti ne erano stati cacciati senza

      nulla addosso, Cincinnato divise l'intero bottino esclusivamente tra i

      suoi uomini. Poi, rimproverando l'esercito del console e il console

      stesso, disse: «Voi, o soldati, non parteciperete alla spartizione del

      bottino di quel nemico che per poco non ha fatto di voi la sua preda.

      Quanto a te, Lucio Minucio, finché non comincerai ad avere un animo degno

      di un console, comanderai queste legioni col grado di luogotenente.»

      Minucio rinuncia così al consolato, pur rimanendo con l'esercito in

      ottemperanza all'ordine ricevuto. Ma gli animi erano così pacificamente

      rivolti a obbedire ai comandi del migliore che l'esercito, memore dei

      benefici ricevuti più che dell'umiliazione subita, decretò al dittatore

      una corona d'oro del peso di una libbra: il giorno della sua partenza le

      truppe lo salutarono come loro protettore. A Roma intanto, in una seduta

      convocata dal prefetto della città Quinto Fabio, il senato ordinò a

      Quinzio di fare un ingresso trionfale in città con le sue truppe. Davanti

      al carro vennero fatti avanzare i comandanti nemici e le insegne militari

      conquistate. Dietro li seguiva l'esercito carico di bottino. Stando a

      quanto si dice, di fronte a tutte le case furono imbandite delle tavole e

      i soldati, innalzando l'inno trionfale e scambiandosi le tradizionali

      battute mentre marciavano festosi, seguirono il carro come se fossero in

      piena baldoria. Quel giorno Lucio Mamilio Tuscolano ottenne la

      cittadinanza con l'approvazione di tutti. Il dittatore avrebbe

      immediatamente rinunciato all'incarico, se il processo per falsa

      testimonianza a carico di Marco Volscio non lo avesse costretto a

      rimandare la propria decisione. Il timore del dittatore indusse i tribuni

      a non interferire nella cosa. Volscio fu condannato e andò in esilio a

      Lanuvio. A sedici giorni di distanza dalla nomina, Quinzio rinunciò alla

      dittatura che aveva assunto per un semestre. In quel periodo il console

      Nauzio combatté valorosamente ad Ereto contro i Sabini, così alla

      devastazione dei campi si aggiunse per i Sabini questa sconfitta. Fabio

      venne inviato sull'Algido come successore di Minucio. Verso la fine

      dell'anno ci furono altre agitazioni provocate dai tribuni per la

      questione della legge. Ma data la contemporanea assenza dei due eserciti,

      i senatori ottennero che nessuna proposta venisse portata di fronte al

      popolo. La plebe riuscì invece a far eleggere per la quinta volta gli

      stessi tribuni. Pare che sul Campidoglio furono visti dei lupi inseguiti

      da cani e che per tale prodigio il Campidoglio stesso venne sottoposto a

      un rito di purificazione. Questo è quanto accadde quell'anno.

      

      30 I consoli successivi furono Quinto Minucio e Marco Orazio Pulvillo.

      All'inizio dell'anno, mentre coi paesi stranieri regnava la pace, in

      patria gli stessi tribuni e la stessa legge continuavano invece a causare

      disordini. E si sarebbe arrivati a chissà quali estremi - tanta era

      l'eccitazione degli animi - se, quasi a farlo apposta, non fosse arrivata

      la notizia che il presidio armato di Corbione era finito in mano agli Equi

      a séguito di un assalto notturno. I consoli convocano il senato; fu dato

      loro l'ordine di arruolare un esercito in fretta e furia e di condurlo

      sull'Algido. Accantonato quindi lo scontro sulla legge, ecco saltar fuori

      una nuova contesa sul problema della leva. E l'autorità dei consoli stava

      per avere la peggio per l'intervento dei tribuni, quando si venne ad

      aggiungere un nuovo terrore: un esercito sabino era calato in territorio

      romano per compiervi razzie e di là si dirigeva verso Roma. Questa notizia

      suscitò uno spavento tale che i tribuni permisero l'arruolamento, non

      senza aver prima ottenuto - siccome per cinque anni erano stati presi in

      giro riuscendo così di ben poco aiuto alla plebe - la garanzia che in

      futuro sarebbero stati eletti dieci tribuni. I patrizi furono costretti ad

      accettare, assicurandosi però con una clausola di non rivedere più, da

      quel giorno in poi, gli stessi tribuni. Si passò poi sùbito alla nomina

      dei tribuni, per evitare che quella promessa, come tutte le altre in

      passato, non venisse mantenuta una volta finita la guerra. A 36 anni di

      distanza dai primi, furono allora nominati dieci tribuni, due per ciascuna

      classe, e si stabilì che in futuro l'elezione avrebbe seguito la stessa

      procedura. Una volta effettuata la leva, Minucio marciò contro i Sabini,

      ma non trovò tracce del nemico. Orazio, siccome gli Equi, dopo aver

      eliminato il presidio di Corbione, avevano conquistato anche Ortona, li

      affronta sull'Algido, uccidendone una gran quantità e riuscendo a

      cacciarli non solo dall'Algido ma anche da Corbione e da Ortona. Corbione

      la rase addirittura al suolo per aver consegnato il presidio al nemico.

      

      31 Vennero in séguito eletti consoli Marco Valerio e Spurio Verginio. La

      situazione si mantenne tranquilla in città e all'estero. Ci furono però

      problemi di approvvigionamento alimentare dovuti all'eccesso di piogge.

      Venne approvata una legge sull'apertura dell'Aventino all'insediamento

      privato. I tribuni della plebe furono riconfermati in carica. L'anno

      successivo, sotto il consolato di Tito Romilio e Gaio Veturio, in tutti i

      comizi tenuti non perdevano occasione per riportare il discorso sul tema

      della legge. Dicevano che si sarebbero vergognati dell'aumento di

      effettivi assegnato alla loro magistratura, se la legge durante il biennio

      del mandato avesse continuato a dormire com'era successo nei cinque anni

      precedenti. Mentre perseguivano questo scopo con determinazione, arrivano

      da Tuscolo dei messaggeri che in preda all'agitazione annunciano la

      presenza di Equi nel territorio di Tuscolo. Per le recenti benemerenze di

      quel popolo si ebbe ritegno a ritardare gli aiuti. Inviati entrambi i

      consoli con un esercito, essi trovarono il nemico nel suo solito

      alloggiamento sul monte Algido. Lo scontro avvenne lì. Più di 7.000 nemici

      furono uccisi, gli altri messi in fuga. L'ingente bottino, per le pessime

      condizioni finanziarie del paese, fu posto all'incanto dai consoli. La

      cosa creò tuttavia malcontento nelle file dell'esercito, fornendo così ai

      tribuni materia per accusare i consoli di fronte alla plebe.

      Per questo, quando allo scadere del loro mandato divennero consoli Spurio

      Tarpeio e Aulo Aternio, Romilio e Veturio vennero trascinati in tribunale

      rispettivamente dal tribuno della plebe Gaio Calvio Cicerone e dall'edile

      della plebe Lucio Alieno. Con grande indignazione dei patrizi, furono

      entrambi condannati a pene pecuniarie: Romilio a 10.000 assi e Veturio a

      15.000. La disavventura dei predecessori non aveva comunque affievolito

      l'energia dei nuovi consoli: sostenevano che avrebbero sì potuto subire

      una condanna, ma di certo i tribuni e la plebe non sarebbero riusciti a

      far passare la legge. I tribuni, lasciata da parte la legge che a forza di

      essere presentata aveva ormai perso tutto il suo potere d'urto, adottarono

      maggiore moderazione nei confronti dei patrizi, invitandoli a porre fine

      agli scontri. Se le leggi proposte dai plebei non andavano a genio ai

      patrizi, questi avrebbero dovuto almeno consentire l'elezione collegiale

      di legislatori provenienti sia dalla plebe sia dal patriziato, in maniera

      tale che le proposte risultassero vantaggiose per entrambe le parti e

      assicurassero una pari libertà. I patrizi non disprezzavano l'iniziativa,

      ma sostenevano che le leggi non le poteva presentare nessuno che non fosse

      patrizio. Siccome c'era accordo sulle leggi, ma non su chi doveva

      proporle, vennero inviati ad Atene Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e

      Publio Sulpicio Camerino con l'ordine di trascrivere le celebri leggi di

      Solone e di studiare a fondo le istituzioni, i costumi e i principi

      giuridici delle altre città greche.

      

      32 Se quell'anno non venne turbato da guerre con paesi stranieri, l'anno

      successivo - sotto il consolato di Publio Curiazio e Sesto Quintilio - fu

      ancora più povero di conflitti per il lungo silenzio dei tribuni dovuto

      innanzitutto all'attesa del ritorno dei legati che erano andati ad Atene e

      delle leggi straniere che essi avrebbero portato con sé, e in secondo

      luogo per due atroci calamità abbattutesi contemporaneamente, cioè la fame

      e una pestilenza, funesta tanto per gli uomini quanto per gli animali. Le

      campagne si spopolarono, mentre la città si svuota per i continui

      funerali; molte famose famiglie erano in lutto. Morì il flàmine di Quirino

      Servio Cornelio e l'àugure Gaio Orazio Pulvillo, al cui posto il collegio

      degli àuguri nominò con entusiamo Gaio Veturio perché era stato condannato

      per volere della plebe. Morirono il console Quintilio e quattro tribuni

      della plebe. L'anno fu funestato da molte sciagure ma il nemico rimase

      tranquillo. I consoli successivi furono Gaio Menenio e Publio Sestio

      Capitolino. Neppure quell'anno vi furono guerre con paesi stranieri, ma

      scoppiarono disordini interni. Nel frattempo gli inviati erano tornati con

      le leggi dell'Attica. E proprio per questo i tribuni insistevano con

      sempre maggiore accanimento affinché si arrivasse finalmente a una

      codificazione scritta delle leggi. Si decise di nominare dei decemviri non

      soggetti al diritto d'appello e di non avere quell'anno nessun altro

      magistrato al di fuori di loro. Se i plebei avessero dovuto o meno

      prendere parte alla cosa fu argomento a lungo dibattuto. Alla fine ebbero

      la meglio i patrizi, a patto però che non venissero abrogate la legge

      Icilia riguardante l'Aventino e le altre leggi sacrate.

      

      33 L'anno 302 dalla fondazione segnò per Roma una nuova trasformazione

      dell'assetto costituzionale: il potere supremo passò dai consoli ai

      decemviri, così come in precedenza era passato dai re ai consoli. Non si

      trattò di un cambiamento particolarmente significativo perché fu di breve

      durata. Dopo un felice inizio tale magistratura conobbe degli eccessi e,

      di conseguenza, l'innovazione tramontò rapidamente, ripristinando così

      l'uso di affidare a due uomini il titolo e l'autorità di consoli.

      Decemviri furono eletti Appio Claudio, Tito Genucio, Publio Sestio, Tito

      Veturio, Gaio Giulio, Aulo Manlio, Publio Sulpicio, Publio Curiazio, Tito

      Romilio e Spurio Postumio. A Claudio e a Genucio, dato che erano stati

      eletti consoli per quell'anno, la carica venne assegnata come

      compensazione dell'altra. Sestio, uno dei consoli dell'anno precedente,

      ebbe invece la nomina per aver portato l'iniziativa di fronte al senato

      nonostante l'opposizione del collega. Accanto a essi ebbero il privilegio

      di questa magistratura i tre senatori inviati ad Atene: la loro nomina non

      era soltanto il riconoscimento per una missione in terre tanto lontane, ma

      anche la garanzia che l'approfondimento delle leggi straniere maturato

      laggiù sarebbe stato di grande utilità nell'elaborazione di un nuovo

      sistema giuridico. Gli altri quattro eletti servirono a completare il

      numero. Si dice che le ultime nomine vennero affidate a uomini piuttosto

      anziani perché si opponessero con meno energia alle misure proposte dagli

      altri. Grazie al favore della plebe, il collegio dei decemviri era

      praticamente guidato da Appio: egli aveva mutato il suo carattere così

      nettamente che, dopo un passato da violento e inflessibile avversatore del

      popolo, da un giorno all'altro divenne un fedele amico della plebe,

      attentissimo a captarne gli alterni umori. A turno, ogni dieci giorni,

      ciascun magistrato amministrava la giustizia di fronte al popolo: in quel

      giorno, chi presiedeva la corte aveva diritto ai dodici fasci, mentre a

      ciascuno dei suoi nove colleghi toccava un unico messo. Dalla singolare

      armonia tra loro - accordo che talvolta non è di alcuna utilità per i

      privati cittadini - derivava la loro estrema equità nei confronti degli

      altri. A riprova di questa moderazione, sarà sufficiente citare un unico

      esempio. Pur essendo stati eletti a una magistratura che non prevedeva

      diritto d'appello, quando venne rinvenuto e portato di fronte

      all'assemblea un cadavere sepolto nella casa di Lucio Sestio, un patrizio,

      data l'atrocità manifesta della cosa, il decemviro Gaio Giulio citò Sestio

      in giudizio, accusandolo di fronte al popolo di un reato di cui era

      giudice legittimo, e rinunciò così a un suo diritto, che egli tolse al

      potere del magistrato per accrescere la libertà del popolo.

      

      34 Mentre tutti i cittadini - dal più autorevole al meno in vista e senza

      alcuna parzialità - accoglievano questa giustizia tempestiva e

      incontaminata come se provenisse da un oracolo, i decemviri erano nel

      contempo alle prese con la rifondazione di un nuovo codice. Fra la grande

      attesa della gente, dopo aver esposto dieci tavole, convocarono il popolo

      in assemblea. E, augurandosi che ciò fosse buono e fausto per la

      repubblica, per loro e per i loro figli, ordinarono a tutti di andare a

      consultare di persona le leggi proposte. Per quanto era stato possibile

      alle capacità intellettuali di dieci uomini, dissero di aver messo sullo

      stesso piano i diritti di tutti, dai cittadini più altolocati a quelli

      meno in vista. Certo le menti e le proposte di molti avrebbero sortito

      esiti più efficaci. Che si considerasse dunque ogni singolo punto, se ne

      discutesse e alla fine si venisse a esporre di fronte a tutti gli eccessi

      e le inadeguatezze eventualmente riscontrati nei singoli articoli. Il

      popolo romano doveva avere delle leggi che sembrassero non solo essere

      state approvate, ma addirittura proposte dal consenso unanime della

      comunità.

      Quando sembrò che le leggi avessero subito sufficienti emendamenti alla

      luce delle opinioni espresse dalla gente sulle singole sezioni, i comizi

      centuriati approvarono e adottarono definitivamente le Leggi delle X

      Tavole, che ancor oggi, in questo immenso guazzabuglio di leggi

      accatastate caoticamente l'una sull'altra, restano la fonte di tutto il

      diritto pubblico e privato.

      In séguito cominciò a circolare la voce che mancassero ancora due tavole,

      aggiunte le quali il corpo del diritto romano si sarebbe potuto definire

      realizzato. Con le elezioni ormai alle porte, la speranza di completare le

      leggi fece crescere nella gente il desiderio di eleggere di nuovo dei

      decemviri. La plebe, al di là del fatto che detestava il nome dei consoli

      almeno tanto quanto quello dei re, ormai non andava nemmeno più a cercare

      l'aiuto dei tribuni, visto che in caso di appello i decemviri cedevano

      reciprocamente l'uno nei confronti dell'altro.

      

      35 Ma quando venne annunciato che le elezioni dei decemviri si sarebbero

      tenute il terzo giorno di mercato, si scatenarono a tal punto le ambizioni

      che anche i cittadini più in vista - credo per paura che un simile potere,

      una volta lasciato libero il campo, potesse finire in mani non

      sufficientemente degne - cominciarono a sollecitare gli elettori,

      implorando da quella stessa plebe, con la quale avevano avuto non pochi

      scontri, una carica che avevano avversato con ogni mezzo. La prospettiva

      di dover lasciare in quel momento la posizione raggiunta, alla sua età, e

      dopo le cariche occupate, spronava Appio Claudio. Non si sapeva se

      annoverarlo tra i decemviri o tra i candidati. A volte si comportava come

      un aspirante alla magistratura e non come chi già la deteneva; diffamava

      gli ottimati, portava alle stelle i candidati più insignificanti e di

      bassi natali, andava girando qua e là per il foro in compagnia di

      ex-tribuni, con Duilii e Icilii, facendosi raccomandare da questi ultimi

      alla plebe. Finché anche i colleghi, i quali fino ad allora avevano

      dimostrato una straordinaria devozione nei suoi confronti, cominciarono a

      guardarlo stupiti, domandandosi che cosa gli passasse per la testa. Era

      chiaro che non agiva sinceramente: in un'indole così altezzosa tanta

      affabilità non era di certo senza scopo. Il suo troppo abbassarsi e il

      mescolarsi con privati cittadini non erano tanto gli atteggiamenti di uno

      ansioso di abbandonare una magistratura, quanto di uno che cercasse la

      strada migliore per prorogare la sua carica. Non osando opporsi

      apertamente alla sua sfrenata ambizione, cercano di frenarne gli slanci,

      assecondandolo. Essendo egli il collega più giovane, concordemente gli

      impongono di convocare i comizi. Si trattava di uno stratagemma per

      impedirgli di autoeleggersi, cosa che al di fuori dei tribuni della plebe

      - e questo era di per sé il peggiore dei precedenti - non aveva mai osato

      fare nessuno. Ma Appio, in realtà, pur avendo promesso con una preghiera

      augurale di presiedere le elezioni, riuscì a trasformare un ostacolo in

      un'occasione propizia. In un primo tempo, grazie ad alleanze elettorali,

      mise da parte nella corsa alla candidatura i due Quinzi, Capitolino e

      Cincinnato, suo zio paterno Gaio Claudio, da sempre partigiano della causa

      aristocratica, nonché altri cittadini dello stesso rango. Proclamò

      decemviri invece degli individui che per eccellenza di vita non stavano

      alla pari degli esclusi, e primo se stesso, cosa questa che i cittadini

      onesti disapprovarono: nessuno avrebbe creduto che osasse arrivare a

      tanto. Insieme a lui furono eletti Marco Cornelio Maluginense, Marco

      Sergio, Lucio Minucio, Quinto Fabio Vibulano, Quinto Petilio, Tito Antonio

      Merenda, Cesone Duilio, Spurio Oppio Cornicino e Manio Rabuleio.

      

      36 Fu allora che Appio depose la maschera. Da quel momento in poi

      ricominciò a essere se stesso e a plasmare a sua immagine e somiglianza i

      nuovi colleghi, ancor prima che entrassero in carica. Si incontravano

      tutti i giorni lontano dagli sguardi indiscreti e mettevano a punto

      programmi spregiudicati che maturavano in segreto. Ormai non cercavano

      nemmeno più di nascondere la loro arroganza, si lasciavano avvicinare di

      rado e facevano i difficili con chi rivolgeva loro la parola: così

      continuarono fino alle Idi di maggio. In quel tempo le Idi di maggio erano

      la data tradizionale per l'inizio delle magistrature. Così, appena assunto

      il potere, essi resero memorabile il primo giorno di magistratura con

      un'iniziativa terribilmente minacciosa. Infatti, mentre i predecessori nel

      decemvirato si erano attenuti con scrupolo alla disposizione secondo la

      quale soltanto un membro del collegio aveva diritto a portare i fasci e

      questa insegna regale doveva passare a turno a ciascuno di loro, i nuovi

      eletti si presentarono all'improvviso in pubblico ciascuno con dodici

      fasci. I 120 littori avevano invaso il foro brandendo davanti a sé le

      scuri tenute insieme dai fasci. I decemviri spiegarono che non c'era

      nessuna ragione di rimuovere le scuri perché la magistratura cui erano

      stati nominati non contemplava il diritto d'appello. Sembravano dieci re e

      ciò accrebbe il terrore non solo nei cittadini più umili, ma anche nei

      membri più influenti del senato, i quali sospettavano che i decemviri

      stessero cercando qualche pretesto per procedere a una strage: se qualcuno

      avesse osato, in senato o di fronte al popolo, intervenire in favore della

      libertà, verghe e scuri sarebbero state sciolte, magari solo per

      intimorire il resto della gente. Il popolo non aveva più alcuna garanzia

      dopo la soppressione del diritto d'appello; come se non bastasse,

      all'unanimità i decemviri eliminarono anche il diritto di opposizione

      interna, mentre i predecessori avevano tollerato che le sentenze da loro

      emesse venissero modificate su richiesta di un collega, accettando anche

      che talune cause, apparentemente di stretta competenza dei decemviri,

      venissero portate di fronte al popolo. Per un certo periodo il terrore fu

      uguale per tutti. Poi, a poco a poco, cominciò a concentrarsi interamente

      sulla plebe: i patrizi venivano lasciati in pace; i decemviri infierivano

      sui più umili con arbitraria crudeltà. Era tutta questione di persone, non

      di cause, visto che per quegli individui, invece dell'equità, contava

      l'influenza esercitata dal singolo. Manipolavano in privato le sentenze

      per poi andarle a pronunciare nel foro. Se qualcuno si appellava a uno di

      loro, se ne veniva via da quello a cui si era rivolto, pentendosi di non

      aver accettato la sentenza del primo. Nel frattempo si era anche diffusa

      una diceria di provenienza non accertata, secondo la quale i decemviri non

      si sarebbero limitati a concertare un operato criminoso per la sola durata

      della carica, ma, grazie a un patto giurato in segreto, avrebbero anche

      deciso di non tenere le elezioni e di conservare per sempre il potere

      conquistato una volta per tutte, protraendo così all'infinito il

      decemvirato.

       

      37 Allora i plebei cominciarono a studiare con circospezione i volti dei

      patrizi, cercando di captare un soffio di libertà proprio in quella parte

      di cittadinanza che, per aver fatto loro balenare lo spettro della

      schiavitù, li aveva portati a ridurre il paese in quello stato. I capi

      dell'aristocrazia odiavano sia i decemviri sia la plebe. Non approvavano

      certo quello che si faceva, ma credevano anche che quel che accadeva la

      gente se lo meritasse. Non avevano alcuna intenzione di aiutare quanti,

      lanciati in una corsa dissennata verso la libertà, erano invece scivolati

      nella schiavitù, non volevano nemmeno aggiungere altri soprusi, nella

      speranza che il disgusto per la situazione facesse nascere il desiderio

      del ritorno ai due consoli e allo stato delle cose di un tempo. L'anno era

      ormai quasi alla fine, alle dieci tavole dell'anno precedente se n'erano

      aggiunte altre due, né c'era più alcun bisogno di considerare necessaria

      al paese quella magistratura, specie se quelle stesse leggi venivano

      approvate dai comizi centuriati. Si viveva nell'attesa che venissero

      indette le elezioni dei consoli. La plebe invece aveva un solo pensiero:

      trovare il modo di ristabilire l'autorità dei tribuni, che era la vera

      roccaforte della sua libertà e che in quel periodo era sospesa. Nel

      frattempo non si faceva alcun accenno a possibili elezioni. E i decemviri,

      che all'inizio - per la popolarità di un simile gesto - si erano fatti

      vedere dalla plebe in compagnia di ex-tribuni, ora si circondavano di

      giovani patrizi le cui bande stazionavano di fronte ai tribunali.

      Trattavano con impudenza la plebe e ne saccheggiavano le proprietà, visto

      che era sempre il più forte ad avere ragione, qualunque capriccio gli

      fosse passato per la testa. Ormai non avevano più rispetto nemmeno per le

      persone: si frustava e persino si decapitava. Perché poi la crudeltà non

      fosse fine a se stessa, all'esecuzione del proprietario seguiva la

      confisca dei beni. Corrotti da questi allettamenti, i giovani nobili non

      solo non si opponevano ai soprusi, ma dimostravano di preferire la propria

      sfrenatezza alla libertà di tutti.

      

      38 Le Idi di maggio arrivarono. Senza preoccuparsi di far eleggere altri

      magistrati al loro posto, i decemviri - ora privati cittadini - apparvero

      in pubblico facendo capire di non voler assolutamente rinunciare alla

      gestione del potere, né di volersi privare delle insegne che erano il

      distintivo della carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio

      dispotismo. Si piange la libertà come perduta per sempre; non c'è, e

      sembra che non ci possa essere nemmeno in futuro, chi sappia rivendicarla.

      Non si trattava soltanto di uno scoramento generale della popolazione: i

      paesi dei dintorni avevano infatti cominciato a disprezzare i Romani,

      ritenendo indegno che l'egemonia toccasse a un popolo privo di libertà. I

      Sabini fecero un'incursione in territorio romano con un largo spiegamento

      di truppe. Dopo aver devastato la campagna in lungo e in largo, riuscirono

      a portarsi via il bottino di uomini e bestiame, in tutta sicurezza.

      Quindi, al termine di varie scorrerie nel circondario, si andarono a

      chiudere ad Ereto, dove si accamparono, nella speranza che le discordie a

      Roma ostacolassero l'arruolamento. A creare scompiglio e agitazione non

      contribuivano soltanto i messaggeri in arrivo, ma anche le masse di

      contadini riversatesi in città dalle campagne. I decemviri, abbandonati al

      loro destino dall'odio tanto dei patrizi quanto dei plebei, si interrogano

      sul da farsi. La cattiva sorte aggiunse un altro motivo di terrore: gli

      Equi, provenienti da un'altra direzione, si andarono ad accampare

      sull'Algido e di lì, con rapide incursioni, si misero a devastare la zona

      di Tuscolo. Queste notizie arrivarono a Roma con i messaggeri inviati da

      Tuscolo per implorare aiuto. I decemviri furono così spaventati - due

      guerre contemporaneamente incombevano sulla città - che convocarono il

      senato. Ordinano di far chiamare i senatori nella curia, pur non ignorando

      quale ondata di risentimento covava nei loro confronti: tutti li avrebbero

      ritenuti responsabili delle devastazioni subite dalle campagne e dei

      pericoli che incombevano. Ciò avrebbe portato al tentativo di abolire la

      loro magistratura, se di comune accordo non avessero opposto resistenza e

      se, esercitando pesantemente la loro autorità nei confronti dei pochi

      veramente accaniti, non avessero represso le velleità degli altri. Quando

      nel foro si sentì la voce del banditore convocare i senatori nella curia

      presso i decemviri come se fosse una novità - l'usanza di consultare il

      senato era stata da tempo abbandonata - questo annuncio attirò una folla

      stupita che si domandava cosa mai fosse successo per spingere i decemviri

      a ripristinare una pratica da tempo desueta. Bisognava dire grazie ai

      nemici e alla guerra se succedeva qualcosa di assolutamente normale per

      una città libera. Si guardava in tutte le parti del foro per individuare

      dei senatori, ma raramente se ne vedeva qualcuno. Poi si guardava dentro

      la curia dove i decemviri se ne stavano tutti soli. Si interpretava in

      maniera diversa il fatto che i senatori non si fossero presentati: i

      decemviri sostenevano che ciò dipendesse dall'odio unanime nei confronti

      della loro carica, mentre la plebe sosteneva che i decemviri, essendo dei

      privati cittadini, non avevano il diritto di convocare il senato. Un vero

      passo avanti coloro che rivendicavano la libertà lo avrebbero fatto se la

      plebe avesse collaborato col senato, e se, come i senatori che non si

      erano presentati in senato, pur essendo stati convocati, così la plebe

      avesse rifiutato di arruolarsi. Questo vociferava la gente. Quasi nessuno

      dei senatori era nel foro, pochi erano presenti in città. Indignati per la

      situazione, si erano ritirati in campagna, e si curavano dei loro affari

      privati trascurando invece l'interesse della comunità. I senatori

      pensavano infatti che tanto più sarebbero stati sicuri quanto più avessero

      evitato contatti e rapporti con i tirannici padroni al potere. Quando,

      nonostante la convocazione, essi non si presentarono, vennero inviati alle

      loro case dei pubblici ufficiali con il duplice cómpito di effettuare

      pignoramenti a titolo di sanzione e di chiedere se quelle assenze erano

      deliberate. I messi tornarono riferendo che i senatori erano in campagna.

      I decemviri accolsero la notizia con maggiore piacere di quanto ne

      avrebbero avuto se fosse stato annunciato loro che si trovavano in città,

      ma non avevano intenzione di attenersi alle disposizioni. Ordinano quindi

      una convocazione generale e fissano una seduta del senato per il giorno

      successivo; e i senatori vennero più numerosi di quanto essi non avessero

      sperato. Ma proprio per questo motivo la plebe pensava che la libertà era

      stata tradita dai senatori: essi, come se l'ingiunzione fosse legale,

      avevano obbedito a uomini che non erano più magistrati e che, senza l'uso

      della forza, sarebbero stati dei privati cittadini.

      

      39 Ma l'obbedienza dimostrata nel presentarsi in senato fu, a quanto si

      dice, superiore alla remissività con la quale esposero il proprio punto di

      vista. Si racconta che Lucio Valerio Potito, dopo la proposta avanzata da

      Appio Claudio e prima che i senatori venissero chiamati in successione a

      esporre le proprie opinioni, chiese di essere autorizzato a parlare della

      situazione in cui versava lo Stato. Ma siccome i decemviri cercavano di

      impedirglielo ricorrendo all'intimidazione, Valerio fece scoppiare un

      pandemonio dichiarando di volersi presentare di fronte al popolo. Nel

      dibattito Marco Orazio Barbato non dimostrò minor veemenza: chiamò i

      decemviri dieci Tarquini, ricordando loro che erano stati i Valeri e gli

      Orazi a scacciare i re. E non era stato il nome di re ciò che allora aveva

      disgustato la gente, in quanto proprio con quel nome era consuetudine

      chiamare Giove, così come Romolo, fondatore della città, e in séguito i

      suoi successori, e il nome poi si era mantenuto come titolo solenne in

      àmbito religioso. No, quello che il popolo aveva detestato nelle persone

      dei re erano state l'arroganza e la crudeltà. E se queste caratteristiche

      si erano allora rivelate insopportabili in un re o nel figlio di un re,

      adesso chi le avrebbe potute tollerare in tanti privati cittadini? Che

      stessero quindi bene attenti a non privare della libertà di parola i

      presenti in curia, costringendoli ad alzare la voce fuori dalla curia. E

      poi non riusciva a vedere come fosse meno lecito a lui - un privato

      cittadino - convocare il popolo in assemblea di quanto non lo fosse a loro

      costringere il senato. Avrebbero potuto verificare in qualsiasi momento

      quanto più forte potesse essere l'esasperazione di un uomo chiamato a

      rivendicare la propria libertà rispetto alla smodata ingordigia di chi

      difende un potere fondato sull'ingiustizia. E loro, i decemviri, venivano

      poi a parlare della guerra contro i Sabini, come se per il popolo romano

      qualunque guerra potesse essere più importante di quella da combattersi

      contro coloro che, eletti proprio per proporre delle leggi, non avevano

      lasciato nemmeno le tracce della legalità all'interno del paese, spazzando

      via le regolari assemblee, le magistrature annue, l'avvicendamento del

      potere - unica garanzia di uguale libertà -, arrivando fino a insignirsi

      delle fasce e del potere dei re, pur essendo privati cittadini. Dopo la

      cacciata dei re, c'erano stati dei magistrati patrizi, mentre a séguito

      della secessione della plebe la nomina era toccata anche ai plebei: ma

      loro, i decemviri - si domandava Valerio -, di quale parte erano?

      Popolare? Ma cosa avevano mai fatto per il popolo? O erano forse degli

      aristocratici? Loro che, per quasi un anno, non avevano convocato il

      senato, ora che lo avevano riunito impedivano di dibattere il problema

      dello Stato? Che non ponessero troppa speranza nell'altrui terrore: quello

      di cui ora soffriva sembrava ormai alla gente più gravoso di quello che

      temeva per il futuro.

      

      40 Di fronte all'attacco di Orazio, i decemviri non sapevano se era il

      caso di indignarsi o di lasciar perdere, e non capivano quale piega

      avrebbe preso la cosa. Gaio Claudio, che era lo zio paterno di Appio

      Claudio, pronunciò un discorso più simile a un'implorazione che a una

      requisitoria. In nome dei Mani di suo fratello, padre di Appio, supplicò

      il nipote di ricordarsi del consorzio civile all'interno del quale era

      nato piuttosto che dello scellerato patto stipulato insieme ai colleghi.

      Questa supplica gliela rivolgeva più nel suo interesse che non in quello

      del paese. Perché la repubblica avrebbe rivendicato il proprio diritto

      contro la loro volontà, se i decemviri non erano in grado di garantirlo

      spontaneamente. Ma grandi scontri di solito generano grandi rancori: e

      Claudio ne temeva gli esiti. Benché i decemviri volessero evitare che il

      dibattito si spostasse su temi estranei a quelli posti all'ordine del

      giorno, tuttavia non ebbero il coraggio di interrompere Claudio. Egli

      quindi espresse il parere che il senato non doveva prendere alcuna

      decisione. Così tutti compresero che Claudio riteneva i decemviri privati

      cittadini. E molti degli ex-consoli si dimostrarono d'accordo. Un'altra

      proposta, apparentemente più spregiudicata ma di fatto molto meno drastica

      della precedente, invitava i patrizi a riunirsi per nominare un interré.

      Varando infatti un qualsiasi provvedimento, venivano riconosciuti

      magistrati quelli che avevano convocato il senato, mentre sarebbero

      rimasti privati cittadini se invece si accettava la proposta di chi

      caldeggiava la completa astensione dall'attività. Mentre la posizione dei

      decemviri era sempre più in bilico, Lucio Cornelio Maluginense, fratello

      del decemviro Marco Cornelio, cui era stato intenzionalmente riservato

      l'ultimo intervento nel dibattito, in un primo tempo si mise a difendere

      il fratello e il resto del collegio fingendo di essere in apprensione per

      la guerra, e poi disse di essersi curiosamente domandato in base a quale

      fatalità avesse potuto succedere che contro i decemviri si fossero

      scagliati - soltanto o soprattutto - proprio quelli che avevano puntato al

      decemvirato; e perché mai, mentre nel corso di tutti quei mesi di pace

      interna nessuno di loro aveva posto in discussione la legittimità dei

      magistrati preposti alle più alte cariche, e soltanto adesso, coi nemici

      ormai quasi alle porte, si mettessero ad alimentare dissensi tra i

      cittadini; a meno che non pensassero che in uno stato di confusione i

      reali motivi del loro comportamento si sarebbero rivelati meno perspicui.

      Quanto al resto, non era forse meglio non pregiudicare una questione tanto

      importante quando le menti erano occupate da un pensiero ben più grave?

      Intorno all'accusa mossa da Valerio e Orazio secondo la quale i decemviri

      avrebbero dovuto uscire di carica prima delle Idi di maggio, Cornelio

      disse che a suo parere la questione andava dibattuta in senato, non prima

      però di aver posto fine alle guerre incombenti e di aver riportato la pace

      nello Stato. Appio Claudio si tenesse pronto già fin da allora a rendere

      conto dei comizi per elezioni dei decemviri che egli stesso, un decemviro,

      aveva presieduto: se erano stati nominati per un anno oppure fino a quando

      non fossero state approvate le leggi mancanti. Quanto poi al presente,

      l'opinione di Cornelio era che ci si dovesse occupare esclusivamente della

      guerra. Se poi le voci riguardanti la guerra si dimostravano infondate e i

      senatori ritenevano che non solo i messaggeri romani ma anche gli

      ambasciatori dei Tuscolani avessero riferito delle notizie prive di senso,

      allora - questo quanto lui suggeriva - sarebbe stato necessario inviare

      sul posto delle pattuglie di ricognizione perché riportassero informazioni

      più sicure dopo aver attentamente esaminato la situazione. Se invece si

      prestava fede ai messaggeri romani e agli ambasciatori, si facesse al più

      presto la leva, i decemviri guidassero gli eserciti dove sarebbe parso più

      opportuno a ciascuno di loro; si desse alla guerra la precedenza assoluta

      su ogni altra questione.

      

      41 I giovani senatori erano ormai riusciti a far prevalere questa

      proposta. Allora Valerio e Orazio, con maggior furore, chiesero gridando

      che fosse loro concesso di parlare sulla situazione dello Stato. Avrebbero

      parlato al popolo, se con raggiri non fosse stato loro concesso di farlo

      in senato. Infatti dei privati cittadini non potevano certo opporsi né

      nella curia né nell'assemblea: essi non si sarebbero fermati di fronte ai

      loro fasci che rappresentavano un potere del tutto inesistente. Appio

      allora, pensando che la sua autorità avesse ormai i minuti contati, se non

      reagiva con audacia pari alla loro violenza, disse: «Fareste bene ad

      aprire bocca soltanto sugli argomenti sui quali vi consultiamo!» E siccome

      Valerio sosteneva di non poter essere zittito da un privato cittadino,

      Appio ordinò a un littore di mettersi al suo fianco. E mentre Valerio dal

      fondo della curia implorava l'aiuto dei Quiriti, Lucio Cornelio andò a

      trattenere Appio e, fingendo di intervenire a favore dell'altro, pose fine

      alla contesa. Così, grazie a Cornelio, a Valerio fu concesso di trattare i

      temi che più gli stavano a cuore; ma poiché non ebbe altra libertà che

      quella di parlare, i decemviri ottennero ciò che si erano prefissati.

      Perfino gli ex-consoli e i senatori più anziani, a causa dell'odio che

      continuavano a nutrire nei confronti del potere dei tribuni - a loro detta

      rimpianto dalla plebe più del potere consolare -, preferivano che col

      tempo i decemviri rinunciassero volontariamente alla carica piuttosto che

      il risentimento nei loro confronti portasse a una nuova insurrezione della

      plebe. Se il potere fosse tornato ai consoli gradatamente e senza tumulti

      di piazza, essi, grazie allo scoppio di qualche guerra o in virtù della

      moderazione dimostrata dai consoli nell'esercizio delle proprie funzioni

      di comando, sarebbero riusciti a far dimenticare alla plebe i tribuni.

      Viene bandita la leva senza opposizioni da parte dei senatori. Siccome il

      decemvirato non ammetteva il diritto d'appello, i giovani rispondono alla

      chiamata. Una volta arruolate le legioni, i decemviri si consultano tra di

      loro per decidere chi debba andare in guerra e a chi tocchi il comando

      delle truppe. Tra i decemviri più autorevoli erano Quinto Fabio e Appio

      Claudio. Ma la guerra intestina dava l'impressione di essere più

      preoccupante di quella col nemico. Il carattere impetuoso di Appio sembrò

      loro più adatto a reprimere le sommosse cittadine. L'indole di Fabio era

      invece più incostante nel bene che solerte nel male. E Fabio - distintosi

      in passato tanto per meriti civili quanto militari - era stato trasformato

      in maniera così profonda dalla carica di decemviro e dai colleghi che

      adesso preferiva essere simile ad Appio piuttosto che a se stesso. Gli

      venne affidata la campagna contro i Sabini e come colleghi ebbe Manio

      Rabuleio e Quinto Petelio. Marco Cornelio fu invece inviato sull'Algido

      insieme a Lucio Minucio, Tito Antonio, Cesone Duilio e Marco Sergio. Ad

      Appio Claudio affidarono come aiutante nella difesa di Roma Spurio Oppio,

      conferendo lo stesso potere a tutti i decemviri.

      

      42 Il paese, adesso che era in guerra, non conobbe una gestione migliore

      di quella avuta in tempo di pace. La sola colpa dei comandanti fu quella

      di essersi resi invisi agli occhi dei cittadini. Il resto della

      responsabilità gravava quasi per intero sulle spalle dei soldati i quali,

      volendo evitare che sotto la guida e gli auspici dei decemviri qualunque

      iniziativa avesse esito favorevole, si lasciavano sconfiggere di

      proposito, coprendo di ignominia se stessi e i loro comandanti. Gli

      eserciti vennero così sbaragliati sia dai Sabini a Ereto, sia dagli Equi

      sull'Algido. Da Ereto, fuggendo nel silenzio della notte, si andarono ad

      accampare nei pressi di Roma, in un punto leggermente rialzato a metà

      strada tra Fidene e Crustumeria. Incalzati dai nemici, non si

      avventuravano mai a combattere in campo aperto, ma si facevano difendere

      dalla natura del luogo e dalla trincea, non dal loro valore e dalle armi.

      Sul monte Algido il disonore fu ancora più grande e più grave la

      sconfitta: perduto l'accampamento e privati di tutto l'equipaggiamento, i

      soldati ripararono a Tuscolo, sperando nel sostegno e nella sincera

      compassione degli ospiti che in verità non vennero loro a mancare. A Roma

      erano arrivate notizie così allarmanti che i patrizi, lasciando da parte

      l'odio verso i decemviri, ritennero opportuno disporre delle sentinelle in

      città e ordinare che tutti gli uomini in età di portare le armi andassero

      a proteggere le mura e costituissero posti di guardia in prossimità delle

      porte. Quindi decisero che s'inviassero rinforzi a Tuscolo, che i

      decemviri scendessero dalla cittadella di Tuscolo e trattenessero i

      soldati nell'accampamento, che l'altro campo fosse spostato da Fidene alla

      campagna sabina; il ritorno all'offensiva avrebbe distolto il nemico dal

      proposito di assediare Roma.

      

      43 Ai disastri dovuti al nemico, i decemviri aggiunsero anche due orrendi

      crimini, sul campo di battaglia e in patria. Nelle truppe opposte ai

      Sabini militava Lucio Siccio. Questi, facendo leva sul risentimento nei

      confronti dei decemviri, si sarebbe messo a solleticare la massa dei

      soldati arringandoli in segreto con discorsi sulla necessità di eleggere

      dei tribuni e di ripetere la secessione. Per questo i comandanti lo

      mandarono a cercare un luogo adatto all'accampamento, dando disposizione

      agli uomini scelti per accompagnarlo nella spedizione di eliminarlo non

      appena si fossero trovati in una zona adatta. Ma Siccio non morì senza

      vendicarsi. Infatti, mentre cercava di difendersi battendosi come poteva,

      sul campo rimasero accanto al suo i cadaveri di alcuni dei sicari, perché,

      pur essendo stato circondato, era fortissimo e lottava con un coraggio

      pari alla gagliardia fisica. Gli scampati, al ritorno nell'accampamento,

      riferirono di esser caduti in un'imboscata, sottolineando che Siccio era

      morto combattendo valorosamente e che con lui erano caduti anche altri.

      Sulle prime si credette a questa versione dei fatti. Quando in séguito,

      col permesso dei decemviri, gli uomini di una coorte vennero inviati sul

      luogo dell'imboscata per seppellire i cadaveri, notando che i corpi non

      presentavano tracce di spoliazione e che quello di Siccio giaceva armato

      nel mezzo con tutti gli altri disposti intorno e rivolti verso il suo, e

      vedendo che non c'erano cadaveri di nemici né tracce della loro ritirata,

      ne riportarono indietro la salma, affermando con assoluta certezza che era

      stato ucciso dai suoi stessi compagni. L'indignazione pervase

      l'accampamento: e anche se tutti erano dell'avviso che il corpo di Siccio

      dovesse essere immediatamente portato a Roma, i decemviri si affrettarono

      a far celebrare un funerale militare a spese dello Stato. Siccio venne

      sepolto nel cordoglio generale, e la fama dei decemviri peggiorò agli

      occhi di tutti.

      

      44 A questo orribile episodio ne seguì in città un altro, nato dalla

      libidine. Le conseguenze non furono tuttavia meno disastrose di quelle

      che, a causa dello stupro e del suicidio di Lucrezia, avevano in passato

      portato alla cacciata dei Tarquini dal trono e da Roma. Così non soltanto

      la fine dei decemviri e dei re fu uguale, ma uguale fu anche la causa

      della perdita del potere. Appio Claudio venne preso dalla smania di

      possedere una vergine plebea. Il padre della ragazza, un uomo esemplare in

      pace e in guerra, comandava con onore una centuria sull'Algido. Nello

      stesso modo era stata educata sua moglie e la stessa educazione ricevevano

      i figli. Egli aveva promesso in sposa la figlia all'ex-tribuno Lucio

      Icilio, un uomo risoluto e di provato coraggio nelle lotte a favore della

      plebe. Appio, innamorato pazzo della ragazza - ormai adulta e

      straordinariamente bella - tentò di sedurla con proposte di denaro e con

      promesse. Ma, quando si rese conto che il pudore della ragazza gli

      precludeva ogni via, decise di ricorrere a una crudele e arrogante

      violenza. Diede disposizione a un suo cliente di nome Marco Claudio di

      andare a reclamare la ragazza come sua schiava e di non cedere di fronte a

      chi ne chiedesse la libertà provvisoria, pensando che l'assenza del padre

      fosse una circostanza favorevole a quel sopruso. Così, mentre la ragazza

      si stava recando nel foro - dove, nei padiglioni, avevano sede le scuole -

      il mezzano della libidine del decemviro le mise le mani addosso dicendo

      che era una schiava, figlia di una sua schiava, e le ordinò di seguirlo:

      se avesse opposto resistenza l'avrebbe trascinata via con la forza. La

      ragazza, sbigottita, rimase senza parole, ma le urla della nutrice, che

      implorava a gran voce la protezione dei Quiriti, fecero súbito accorrere

      molta gente. I nomi di Verginio, il padre, e di Icilio, il fidanzato,

      erano sulla bocca di tutti. Per la stima di cui essi godevano presero le

      parti della ragazza i conoscenti, per l'indegnità dell'affronto la folla.

      La ragazza era ormai al sicuro dalla violenza, quando colui che la

      reclamava protestò dicendo che tutta quella gente non aveva alcun motivo

      di agitarsi: egli procedeva legalmente e non con la forza. Quindi citò la

      ragazza in giudizio. Siccome gli astanti che l'avevano aiutata le

      consigliarono di seguirlo, si presentarono tutti di fronte al tribunale di

      Appio. Lì l'accusatore inscenò una commedia ben nota al giudice - proprio

      lui ne aveva congegnato la trama -: la ragazza, nata nella sua casa, era

      in séguito stata rapita e portata in quella di Verginio, al quale era

      stata fatta passare per figlia sua. Diceva di avere le prove e di essere

      in grado di dimostrarlo al giudice, anche se fosse stato Verginio in

      persona, al quale toccava il danno maggiore. Per il momento era giusto che

      la schiava seguisse il padrone. I difensori della ragazza dissero che

      Verginio non era in città perché serviva la repubblica: se fosse stato

      informato, tempo due giorni, si sarebbe presentato. Siccome era ingiusto

      che si trovasse coinvolto in una controversia legata ai figli proprio

      durante la sua assenza, chiesero ad Appio di sospendere il giudizio fino

      al ritorno del padre, in maniera tale che, in base alla legge fatta

      approvare proprio da lui, si garantisse la libertà provvisoria alla

      ragazza, e non si permettesse così che la reputazione di una giovane

      illibata potesse esser messa in pericolo ancor prima che venisse emanato

      un giudizio circa la sua libertà.

      

      45 Appio prima di pronunziarsi sottolineò quanto egli fosse favorevole

      alla libertà: lo dimostrava proprio la legge invocata dagli amici di

      Verginio per sostenere la loro richiesta. Tuttavia tale legge avrebbe

      continuato a essere una garanzia sicura per la libertà, solo a patto che

      non subisse modifiche a seconda delle situazioni e delle persone: infatti

      nei casi di rivendicazione della libertà - visto che chiunque poteva

      intentare una simile azione legale - la libertà provvisoria era un diritto

      garantito. Ma, nel caso di una donna che si trovava sotto l'autorità

      paterna, allora la sola persona a favore della quale il padrone doveva

      rinunciare al possesso era appunto il padre. Di conseguenza sentenziò di

      farlo chiamare. Nel frattempo colui che la rivendicava non avrebbe dovuto

      esser privato del diritto di portarsi a casa la ragazza, promettendo però

      di farla comparire una volta che fosse arrivata la persona che sosteneva

      di esserne il padre.

      Contro l'ingiustizia della decisione si levò un mormorio di

      disapprovazione, senza però che neppure uno osasse opporvisi apertamente.

      A questo punto arrivarono Publio Numitorio, lo zio materno della ragazza,

      e il fidanzato Icilio. La folla fece loro largo poiché pensava che Icilio,

      col suo intervento, potesse opporsi ad Appio; un littore disse che ormai

      il verdetto era stato emesso e allontanò con la forza Icilio che

      protestava a gran voce. Un affronto tanto crudele avrebbe infiammato anche

      un temperamento mite. «Se vuoi cacciarmi via di qua, o Appio, sperando di

      far passare sotto silenzio ciò che non vuoi venga alla luce,» gridò

      Icilio, «dovrai ricorrere alle armi. Questa ragazza diventerà mia moglie e

      per ciò io voglio che sia pura il giorno delle nozze. Dunque chiama pure

      tutti i littori, anche quelli dei colleghi, ordina che si tengano pronti

      con le verghe e con le scuri, ma stai pur sicuro che la promessa sposa di

      Icilio non passerà la notte fuori dalla casa di suo padre. Se siete

      riusciti a togliere alla plebe romana il sostegno dei tribuni e il diritto

      di appello, due baluardi a difesa della libertà, non per questo è stato

      concesso alla vostra lussuria pieno potere sui nostri figli e sulle nostre

      mogli. Infierite pure sulle nostre spalle e sulle nostre teste, ma almeno

      lasciate stare la castità delle donne. Se invece cercherete di violarla

      con l'uso della forza, allora a difesa della mia promessa sposa io

      invocherò l'aiuto dei Quiriti qui presenti, Verginio, per proteggere la

      sua unica figlia, quello dei commilitoni e tutti noi quello degli dèi e

      degli uomini, mentre tu non riuscirai a eseguire questa sentenza senza

      versare il nostro sangue. Io ti chiedo, Appio, di valutare con estrema

      attenzione la strada che hai intenzione di percorrere. Verginio deciderà

      cosa fare per la figlia non appena sarà qui. Ma di una cosa soltanto stai

      pur certo: se si piegherà alle pretese di quest'uomo, dovrà cercare un

      altro marito per la figlia. Quanto a me, nel rivendicare la libertà della

      mia promessa sposa, rinuncerò prima alla vita che alla parola data.» 46 La

      folla era in fermento e sembrava imminente uno scontro. I littori avevano

      circondato Icilio, pur senza spingersi al di là delle minacce, benché

      Appio dicesse che lo scopo di Icilio non era di difendere Verginia ma, da

      uomo turbolento e ribollente di spirito tribunizio, di cercare un pretesto

      per suscitare disordini. Lui, quel giorno, non gliene avrebbe comunque

      fornito l'occasione. Ma sapesse sin da ora che il trattamento di favore

      veniva concesso non alla sua insolenza, ma all'assenza di Verginio, al

      nome di padre e alla libertà. Lui, Appio, quel giorno non avrebbe emanato

      un verdetto né anticipato alcuna decisione; avrebbe chiesto a Marco

      Claudio di rinunciare al suo diritto e di lasciare libera la ragazza fino

      al giorno seguente. Se poi l'indomani il padre non si fosse presentato,

      rendeva noto a Icilio e a quelli come lui che né il legislatore sarebbe

      venuto meno alla propria legge né la fermezza sarebbe venuta meno al

      decemviro. Non avrebbe fatto ricorso ai littori dei colleghi: per domare i

      responsabili dei disordini sarebbero bastati i suoi.

      Dato che il sopruso era stato differito e i difensori della ragazza se ne

      erano andati, si decise che prima di tutto il fratello di Icilio e il

      figlio di Numitorio, due giovani risoluti, si dirigessero in fretta verso

      la porta della città e poi corressero all'accampamento a chiamare

      Verginio. La salvezza della ragazza era legata al suo presentarsi il

      giorno seguente a vendicare il torto subìto. Partiti al galoppo con questa

      missione da compiere, i due giovani riferiscono il messaggio a Verginio.

      Siccome l'individuo che rivendicava la ragazza insisteva perché Icilio ne

      richiedesse la libertà provvisoria e desse dei garanti e Icilio rispondeva

      che stava occupandosi proprio di quello - anche se a dir la verità faceva

      del suo meglio per prendere tempo, in modo tale che i messaggeri inviati

      all'accampamento potessero guadagnare del vantaggio - tra la folla si

      alzarono mani da ogni parte e tutti si dichiararono pronti a farsi

      mallevadori per Icilio. Egli, in preda alla commozione, disse: «Vi sono

      riconoscente: domani ci sarà bisogno del vostro aiuto. Di garanti ora ne

      ho più che a sufficienza.» Così, grazie alla malleveria dei congiunti, a

      Verginia venne garantita la libertà provvisoria. Appio aspettò un poco,

      per non dare l'impressione di essersi seduto solo per quella causa.

      Quindi, visto che non si presentava più nessuno (la gente, avendo

      dimenticato tutto il resto, aveva ormai un solo pensiero per la testa), se

      ne tornò a casa dove scrisse una lettera ai colleghi che si trovavano

      nell'accampamento, pregandoli di non concedere licenze a Verginio e di

      metterlo addirittura agli arresti. Ma il suo piano malvagio venne - come

      giustamente meritava - messo in pratica troppo tardi: Verginio aveva già

      ottenuto il permesso ed era partito all'imbrunire, mentre la lettera che

      gli doveva impedire la partenza fu consegnata inutilmente la mattina

      successiva.

      

      47 A Roma stava albeggiando quando la gente, in piedi in trepida attesa

      nel foro, vide arrivare insieme a una folla di sostenitori Verginio

      vestito a lutto e con al braccio la figlia - anche lei vestita senza la

      minima cura -, e accompagnati da alcune matrone. Lì egli cominciò ad

      andare in giro in mezzo alla folla e a sollecitare i singoli, non

      limitandosi a chiedere aiuto per misericordia, ma esigendolo come cosa

      dovuta. Diceva di essere ogni giorno in prima linea a difesa dei loro

      figli e delle loro mogli, e sosteneva che di nessun altro soldato si

      potevano menzionare gesta più coraggiose e audaci compiute in guerra. A

      cosa giovava se, in una città incolume, i suoi figli dovevano subire gli

      estremi mali che si temono in una città conquistata? Si aggirava tra la

      gente dicendo queste cose come se fosse stato nel pieno di un'arringa.

      Appelli del tutto simili venivano lanciati da Icilio. Ma il pianto

      silenzioso delle donne che li accompagnavano commuoveva più di qualsiasi

      discorso. Di fronte a tutte queste manifestazioni, Appio, con un pensiero

      fisso - tanta era la forza della follia, non dell'amore, che gli aveva

      sconvolto la mente -, salì sul banco del tribunale. E mentre colui che

      rivendicava la ragazza si stava brevemente lamentando perché il giorno

      precedente non gli era stata resa giustizia per brighe illegali, prima

      ancora che avesse completato la richiesta o Verginio avesse avuto

      l'opportunità di ribattere, Appio lo interruppe. Forse qualche versione

      tramandata dagli antichi autori del discorso che egli premise alla

      sentenza risponde al vero. Ma dato che, per l'enormità della sentenza, non

      mi è stato possibile trovarne una che fosse plausibile, mi sembra

      opportuno riferire i nudi fatti riconosciuti da tutti; cioè che Appio

      accordò la schiavitù provvisoria. Dapprima lo stupore destato da una

      simile atrocità paralizzò tutti e per qualche minuto fu il silenzio

      generale. Poi, quando Marco Claudio, che si era fatto largo tra le matrone

      per afferrare la ragazza, venne accolto dal coro di singhiozzi e di

      lacrime delle donne, Verginio, minacciando Appio con il pugno chiuso,

      gridò: «Mia figlia, Appio, l'ho promessa a Icilio e non a te, e l'ho

      allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e

      gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo

      permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che

      possiedono le armi!»

      Quando l'individuo che reclamava la ragazza venne respinto dal gruppo di

      donne e di conoscenti che le stavano attorno, un araldo ordinò di fare

      silenzio. 48 Il decemviro allora, pazzo di libidine, dicendo di non

      basarsi soltanto sugli schiamazzi di Icilio del giorno prima e sulla

      violenza di Verginio (di cui era stato testimone il popolo romano), ma

      avvalendosi anche di certe informazioni avute, affermò di sapere per certo

      che durante tutta la notte si erano tenute in città delle riunioni con

      l'intento di organizzare una rivolta. Essendo quindi al corrente di quel

      progetto bellicoso, era sceso nel foro accompagnato da una scorta armata,

      certo non per usare violenza ai cittadini pacifici, ma, conformandosi alle

      attribuzioni della sua carica, per schiacciare chi turbava la quiete

      pubblica. «Da questo momento in poi, sarà meglio non agitarsi troppo. Vai,

      littore,» gridò quindi, «allontana la folla e lascia libero il passaggio

      al padrone perché possa prendere la sua schiava!» Dopo che Appio ebbe

      rabbiosamente tuonato queste parole, la folla si disperse spontaneamente,

      e la ragazza rimase sola, preda dell'ingiustizia. Allora Verginio,

      rendendosi conto di non poter più contare su alcun sostegno, disse:

      «Innanzitutto, Appio, ti prego di perdonare il dolore di un padre se poco

      fa ho inveito contro di te con molta durezza. In secondo luogo permettimi

      di domandare alla nutrice, qui in presenza della ragazza, come stanno le

      cose, cosicché se mi si è dato del padre e non era vero, almeno io possa

      andarmene con l'animo un po' più sollevato.» Ottenuto il permesso, prese

      con sé figlia e nutrice e le portò presso il tempio di Venere Cloacina,

      vicino alle botteghe che adesso si chiamano Nuove. Lì, dopo aver afferrato

      un coltello da macellaio, disse: «Così, figlia mia, io rivendico la tua

      libertà nell'unico modo a mia disposizione!» Detto questo, trafisse il

      petto della ragazza e quindi, rivolgendo lo sguardo al tribunale, gridò:

      «Con questo sangue, Appio, io consegno te e la tua testa alla vendetta

      degli dèi!» L'urlo che seguì questo atroce episodio attirò l'attenzione di

      Appio il quale ordinò l'arresto di Verginio. Questi però, facendosi largo

      col ferro dovunque passava e con la protezione della folla che gli faceva

      da scorta, riuscì a raggiungere la porta della città. Icilio e Numitorio

      sollevarono il corpo esanime della ragazza e lo mostrarono al popolo,

      lamentando la scelleratezza di Appio, la bellezza funesta di Verginia e la

      necessità che aveva portato il padre a un simile gesto. Dietro di loro le

      urla disperate delle matrone che in lacrime si domandavano se fossero

      quelle le condizioni nelle quali i bambini venivano messi al mondo e se

      fosse quello il premio della castità. E insieme a queste aggiungevano

      altre parole che il dolore infonde nelle donne in simili frangenti, un

      dolore tanto più degno di compassione quanto più emerge triste da un animo

      debole. Gli uomini, invece, e soprattutto Icilio, si richiamavano

      all'autorità tribunizia, al diritto d'appello al popolo, soppresso a

      forza, alle manifestazioni di sdegno pubblico.

      

      49 L'agitazione della folla era dovuta in parte all'atrocità del delitto e

      in parte alla speranza di sfruttare l'occasione per riconquistare la

      libertà. Appio in un primo tempo ordina di far chiamare Icilio, poi, visto

      che questi si opponeva alla convocazione, ingiunge di arrestarlo. Ma alla

      fine, siccome i suoi subalterni non potevano passare, si slancia egli

      stesso in mezzo alla folla alla testa di una schiera di giovani patrizi, e

      ordina di condurlo in prigione. In quel frangente Icilio aveva dalla sua

      parte non solo il popolo, ma anche i suoi capi: Lucio Valerio e Marco

      Orazio, i quali respinsero il littore sostenendo che se Appio agiva nel

      rispetto della legge, essi proteggevano Icilio dalle pretese di un

      privato. Se si ricorreva alla forza, anche in quel caso non sarebbero

      stati da meno. Queste parole fecero scoppiare una rissa tremenda. Il

      littore del decemviro si avventa su Valerio e Orazio, ma la gente fracassa

      i fasci. Appio allora sale sulla tribuna seguito da Valerio e Orazio. La

      folla ascolta questi ultimi, ma disturba le parole del decemviro. E

      Valerio, come se fosse investito del potere, stava ordinando ai littori di

      allontanarsi da un privato cittadino, quando Appio, in preda al panico e

      temendo per la sua vita, si coprì la testa e, senza farsi notare dagli

      avversari, andò a rifugiarsi in una casa vicina al foro. Spurio Oppio, per

      dare aiuto al collega, irruppe nel foro dalla parte opposta, ma si rese

      conto che l'autorità dei decemviri stava soccombendo davanti alla

      violenza. Considerati poi i molti suggerimenti che gli venivano da ogni

      parte e non sapendo a quale affidarsi, finì con l'ordinare la convocazione

      del senato. Questa decisione - giacché l'operato dei decemviri sembrava

      non incontrare il favore di buona parte dei senatori - contribuì a placare

      la folla, facendo balenare la speranza che i senatori ponessero fine a

      quella magistratura. Il senato ritenne opportuno non esasperare la plebe

      ed evitare che il rientro di Verginio provocasse disordini all'interno

      delle truppe. 50 Per questo motivo, vennero inviati all'accampamento,

      situato in quel momento sul monte Vecilio, alcuni giovani senatori, che

      avvertirono i decemviri di impedire a tutti i costi ai soldati di

      sollevarsi.

      Ma lì Verginio fece scoppiare disordini ben più gravi di quelli che aveva

      lasciato a Roma. Non solo era stato visto arrivare con una scorta di 400

      uomini che, indignati per l'ingiustizia, si erano offerti di andare con

      lui, ma con il coltello ancora in mano e gli schizzi di sangue sul corpo,

      e questo aveva attirato l'attenzione dell'intero accampamento. E poi, la

      vista di toghe un po' in tutti i punti del campo aveva fatto apparire il

      numero di civili lì presenti molto più alto di quanto realmente non fosse.

      A chi gli domandava cosa fosse accaduto, Verginio per lungo tempo non

      riuscì a rispondere, soffocato com'era dal pianto. Ma alla fine, quando

      cessò lo scompiglio della folla che a poco a poco si era venuta radunando

      e ci fu silenzio, Verginio raccontò l'accaduto secondo l'ordine dei fatti.

      Poi, alzando le mani al cielo come se stesse pregando, e rivolgendosi ai

      commilitoni, li supplicò di non attribuire a lui il crimine, ma a Appio

      Claudio, e di non respingerlo alla stregua di chi aveva ammazzato i propri

      figli. La vita della figlia gli sarebbe stata più a cuore della sua, se la

      ragazza avesse avuto la possibilità di vivere libera e pura. Ma quando se

      l'era vista portar via come una schiava destinata allo stupro, pensando

      che fosse meglio esser privati dei figli dalla morte piuttosto che

      dall'oltraggio, la compassione lo aveva portato a commettere un atto in

      apparenza crudele. Non sarebbe però sopravvissuto alla figlia, se non

      avesse sperato di poterne vendicare la morte con l'aiuto dei commilitoni.

      Anche loro avevano figlie, sorelle e mogli: la libidine di Appio non si

      era certo spenta insieme con sua figlia, ma sarebbe divenuta più sfrenata

      se non fosse stato punito. La disgrazia toccata a un altro avvertiva

      ognuno di loro che stesse in guardia da un simile sopruso. Quanto poi a

      lui, la moglie gliel'aveva portata via il destino, mentre la figlia, visto

      che non avrebbe più potuto vivere conservando la castità, era andata

      incontro alla morte triste, ma onorata. Nella sua casa non c'era più posto

      per la libidine di Appio: da altre violenze di costui, avrebbe difeso la

      propria persona con lo stesso animo con cui aveva difeso la figlia. Che

      gli altri provvedessero quindi a se stessi e ai propri figli.

      Mentre Verginio urlava queste cose, la folla gridava che non avrebbe

      dimenticato il suo dolore, né mancato di difendere la propria libertà. E i

      civili, mescolati alla massa dei soldati, ripetevano le stesse cose,

      insistendo su quanto più indegni sarebbero loro parsi i fatti se, invece

      di sentirseli raccontare, li avessero visti coi propri occhi, e dicendo

      che a Roma i decemviri avevano ormai le ore contate. Ma nel frattempo

      l'arrivo di altri civili con la notizia che Appio aveva quasi perso la

      vita ed era andato in esilio indusse gli uomini a gridare «Alle armi», a

      prendere le insegne e a partire alla volta di Roma. I decemviri allora,

      turbati non solo da quello che avevano sotto gli occhi ma anche da quanto

      si riferiva fosse successo a Roma, cominciarono a girare per il campo -

      uno da una parte e uno dall'altra - nel tentativo di sedare i disordini

      appena scoppiati. A quelli di loro che agivano con cautela non si

      rispondeva. Se però qualcuno si azzardava a fare ricorso all'autorità, gli

      rispondevano che loro erano uomini e che erano armati. Marciano quindi i

      soldati inquadrati alla volta di Roma e prendono possesso dell'Aventino,

      esortando ogni plebeo che incontravano a riconquistare la libertà e a

      rieleggere i tribuni della plebe. Non si udì in giro nessun'altra proposta

      violenta. Spurio Oppio convoca il senato. Si decide di non usare alcun

      rigore, dato che i responsabili della sommossa erano proprio loro. Tre

      ex-consoli - Spurio Tarpeio, Gaio Giulio e Publio Sulpicio - vengono

      inviati a chiedere a nome del senato per ordine di chi avessero lasciato

      l'accampamento, e che cosa si prefiggessero occupando l'Aventino con le

      armi e abbandonando la guerra contro il nemico per catturare la propria

      patria. Le risposte non mancavano di certo: quel che mancava era chi

      avesse il cómpito di darle, visto che non esisteva ancora un capo vero e

      proprio e i singoli non osavano esporsi a possibili rappresaglie. Ma dalla

      folla si alzò un grido unanime: che fossero mandati Marco Orazio e Lucio

      Valerio; a loro avrebbero dato le loro risposte.

      

      51 Congedati i tre inviati, Verginio fa notare ai soldati che, pur

      essendosi trattato di una questione di importanza non grandissima, poco

      prima c'era stata una gran confusione perché la moltitudine non aveva

      ancora un capo. Anche se poi la risposta data era stata soddisfacente,

      ciononostante si era trattato di un fortuito consenso più che di una

      decisione comune. La sua idea era quella di eleggere dieci uomini da porre

      ai vertici del comando e da insignire del grado militare di tribuni dei

      soldati. Siccome il primo cui si voleva conferire questa carica era

      proprio Verginio, egli disse: «Questi segni di apprezzamento nei miei

      confronti riservateli a tempi migliori per me e per voi. Quanto a me, non

      c'è titolo che possa rendermi felice fino al giorno in cui la morte di mia

      figlia non sarà vendicata. Né può risultare di grande utilità che in

      questo momento di crisi per il paese vi guidino degli individui

      inevitabilmente destinati a essere impopolari. Se posso essere in qualche

      modo utile alla causa comune, non lo sarò certo di meno come privato

      cittadino.» Così nominano dieci tribuni militari.

      Ma neppure in terra sabina l'esercito romano rimase inerte. Anche lì, su

      istigazione di Icilio e Numitorio, scoppiò una rivolta contro i decemviri:

      infiammò gli animi il ricordo dell'assassinio di Siccio, inasprito dalla

      recente notizia della ragazza così vergognosamente disonorata per

      soddisfare la libidine. Quando Icilio venne a sapere che sull'Aventino

      avevano nominato dei tribuni militari, per evitare che le assemblee

      cittadine si allineassero alle scelte di quelle militari, eleggendo

      tribuni della plebe gli stessi uomini, essendo esperto di questioni legate

      al popolo e aspirando egli stesso a quella carica, fece in modo che prima

      di marciare alla volta di Roma i suoi ne eleggessero un ugual numero e con

      uguale potere. Entrati in città dalla porta Collina con le insegne,

      raggiunsero l'Aventino attraversando incolonnati il centro della città.

      Dopo essersi lì ricongiunti con l'altro esercito, affidarono ai venti

      tribuni militari il cómpito di nominarne due all'interno di loro, ai quali

      poi delegare il potere assoluto. La scelta cadde su Marco Oppio e Sesto

      Manilio.

      I senatori, in allarme per la situazione generale, tenevano ogni giorno

      una seduta, ma molto spesso si perdevano in battibecchi invece di

      deliberare. Ai decemviri rinfacciavano l'uccisione di Siccio, la libidine

      di Appio e le disonorevoli azioni militari. Si decideva di inviare Valerio

      e Orazio sull'Aventino, ma essi si rifiutavano, se i decemviri non

      abbandonavano le insegne di quella magistratura dalla quale erano decaduti

      già nel corso dell'anno precedente. I decemviri, lamentandosi di venir

      sottoposti a una vera degradazione, decidevano che non avrebbero

      rinunciato al potere prima dell'approvazione di quelle leggi per redigere

      le quali erano stati eletti.

      

      52 Informata da Marco Duillio, un ex-tribuno della plebe, che dagli

      interminabili battibecchi non veniva fuori nulla, la plebe si spostò

      dall'Aventino sul monte Sacro; lo stesso Duillio affermava che i patrizi

      non si sarebbero preoccupati fino a quando non avessero visto la città

      abbandonata. Il monte Sacro avrebbe ricordato loro quanto incrollabile

      fosse la volontà della plebe, e si sarebbero finalmente resi conto che il

      ritorno alla concordia civile non era possibile se non si ristabiliva

      l'autorità dei tribuni. Partiti lungo la via Nomentana, che allora si

      chiamava Ficulense, si accamparono sul monte Sacro e, imitando la

      moderazione dei loro antenati, evitarono ogni devastazione. All'esercito

      tenne dietro la plebe, e nessuno tra quelli cui l'età lo permetteva si

      rifiutò di andare. Li accompagnarono sino alle porte anche i figli e le

      mogli, che, tra i lamenti, chiedevano a chi avessero lasciato il cómpito

      di difenderli in una città dove ormai neppure la libertà e la castità

      erano sacre.

      A Roma lo spopolamento aveva reso la città una desolazione e nel foro si

      vedeva solo qualche vecchio. Quando, nel corso di una seduta del senato,

      il foro apparve ancora più deserto ai senatori, furono in molti - oltre a

      Orazio e Valerio - a esprimere il proprio malcontento. «Che cosa state

      aspettando, padri coscritti? Se i decemviri persistono nella loro

      ostinazione, intendete tollerare che tutto si deteriori e vada in rovina?

      E che cos'è mai, decemviri, questo potere a cui vi aggrappate tanto?

      Volete dettar legge a tetti e muri? Non vi vergognate vedendo che nel foro

      i vostri littori sono più numerosi degli altri cittadini? Cosa fareste se

      il nemico attaccasse la città? Oppure se tra breve la plebe ci assalisse

      armi alla mano, rendendosi conto che anche con la secessione non riesce a

      ottenere gran che? Volete che il vostro potere finisca col crollo della

      città? Eppure bisogna, o non avere la plebe, o accettare i tribuni della

      plebe. Verranno meno prima a noi i magistrati patrizi che a loro quelli

      plebei. Quando riuscirono a strapparlo con la forza ai nostri padri, il

      tribunato era un potere nuovo e non ancora sperimentato. Ma ora, dopo

      averne assaporato una volta il fascino, sarà ancora più difficile per loro

      non desiderarlo, tanto più che noi non moderiamo il nostro potere, in modo

      che i plebei sentano meno la necessità di un aiuto.» Dato che queste cose

      venivano ripetute da ogni parte, i decemviri, sopraffatti dalla volontà

      comune, affermarono che, se quella era giudicata la soluzione migliore,

      essi si sarebbero assoggettati all'autorità dei senatori. Questa soltanto

      fu la loro richiesta e la loro raccomandazione: essere protetti dal

      risentimento popolare, perché con il loro sangue la plebe non si abituasse

      a punire i senatori.

      

      53 A Valerio e a Orazio venne allora affidato il cómpito di riportare in

      città la plebe alle condizioni che fossero loro parse più opportune,

      nonché quello di rimettere a posto le cose e di proteggere i decemviri

      dalla rabbia e dalla violenza della gente. Partiti alla volta

      dell'accampamento, sono accolti dalla plebe con grandi manifestazioni di

      gioia, come liberatori, sia per aver dato inizio alla rivolta, sia per

      l'esito della stessa. Per questi motivi, non appena misero piede nel

      campo, furono ringraziati. Icilio prese la parola a nome di tutti. Quando

      poi si passò a discutere delle condizioni fissate e gli inviati

      domandarono quali fossero le richieste della plebe, Icilio stesso,

      attenendosi a quanto stabilito di comune accordo prima dell'arrivo dei

      legati, pose i termini della questione in maniera tale da far risultare

      con evidenza che le speranze dei plebei erano riposte molto più

      sull'equità delle proposte che non sul ricorso alle armi. Chiedevano fosse

      ripristinato il potere dei tribuni e il diritto d'appello - cose queste

      che erano state il sostegno della plebe prima dell'elezione dei decemviri.

      E inoltre che a nessuno recasse danno l'aver incitato i soldati o la plebe

      a riconquistarsi, con la secessione, la libertà. Una sola richiesta fu

      durissima: quella riguardante la pena da infliggere ai decemviri. I plebei

      ritenevano infatti giusto che i decemviri venissero loro consegnati e

      minacciavano di bruciarli vivi. I legati allora risposero: «Le vostre

      richieste - dettate certo dal giudizio - sono così ragionevoli che

      avrebbero dovuto già trovare soddisfazione. Perché con queste richieste

      voi esigete delle garanzie di libertà e non l'autorizzazione arbitraria ad

      assalire gli altri. La vostra rabbia deve essere più scusata che

      assecondata: per l'odio della crudeltà precipitate nella crudeltà, e ancor

      prima di essere liberi voi stessi volete già tiranneggiare sugli

      avversari. Ma per la nostra città verrà mai il giorno in cui cesseranno le

      condanne inflitte dai patrizi alla plebe o dalla plebe ai patrizi? Più che

      una spada a voi serve uno scudo. È già abbastanza, o fin troppo, abbassato

      chi vive in una città dove tutti hanno gli stessi diritti, senza subire e

      senza infliggere ingiustizie. E anche se un giorno arriverete a farvi

      temere, quando, dopo aver recuperato le vostre magistrature e le vostre

      leggi, avrete l'autorità di giudicare le nostre persone e i nostri beni,

      allora emetterete i vostri giudizi valutando caso per caso. Ora è

      sufficiente riconquistare la libertà.» 54 Siccome venne loro concesso di

      agire come ritenevano più opportuno, i legati dichiararono che sarebbero

      ritornati dopo aver concluso l'accordo. Quindi partirono ed esposero ai

      senatori le richieste della plebe. Gli altri decemviri, quando si resero

      conto che, al di là di ogni speranza, non si accennava minimamente a

      punizioni nei loro confronti, non fecero alcuna obiezione; ma Appio, che

      era violento di natura e sapeva di essere particolarmente impopolare,

      misurando l'odio degli altri verso di lui dall'odio che egli nutriva nei

      loro riguardi, disse: «Non sono certo ignaro della sorte che mi attende.

      Mi rendo però conto che l'attacco contro di noi sarà ritardato fino al

      momento in cui le armi verranno consegnate ai nostri avversari. L'odio

      vuole il suo sangue. Tuttavia non esiterò neppure io a rinunciare al

      decemvirato.» Il senato approvò quindi un decreto in base al quale i

      decemviri avrebbero dovuto dimettersi al più presto, al pontefice massimo

      Quinto Furio sarebbe toccato il cómpito di nominare i tribuni della plebe

      e nessuno avrebbe dovuto subire delle conseguenze a séguito della

      secessione delle truppe e della plebe.

      Approvati questi decreti e sciolta la seduta, i decemviri si presentano di

      fronte all'assemblea popolare e rinunciano alla propria magistratura fra

      il tripudio generale. La notizia è riferita alla plebe. Tutti quelli che

      erano rimasti in città accompagnano gli inviati. A questa folla andò

      incontro un'altra folla festante che veniva dall'accampamento. Si

      congratularono reciprocamente per il ritorno del paese alla libertà e alla

      concordia. Gli inviati di fronte all'assemblea dissero: «Perché il bene,

      la buona sorte e la felicità possano di nuovo essere con voi e la

      repubblica, tornate in patria, alle vostre case, dalle mogli e dai figli!

      Ma visto che vi siete comportati con moderazione qui, dove nessuna

      proprietà è stata violata nonostante che molte fossero le cose necessarie

      a un così elevato numero di persone, ebbene, portate la stessa moderazione

      in città. Tornate sull'Aventino da dove siete venuti. In quel fausto

      luogo, da dove avete mosso i primi passi verso la libertà, potrete

      nominare dei tribuni della plebe. Per tenere i comizi avrete a

      disposizione il pontefice massimo.» Grande fu il consenso, unanime

      l'entusiasmo. Levano le insegne e partono alla volta di Roma, facendo a

      gara in manifestazioni di allegria con la gente che incontrano. Armati

      attraversano la città e in silenzio raggiungono l'Aventino. Qui, durante i

      comizi sùbito tenuti dal pontefice massimo, elessero i tribuni. Il primo

      degli eletti fu Lucio Verginio, al quale fecero poi séguito Lucio Icilio e

      Publio Numitorio, zio materno di Verginia, cioè i due artefici della

      secessione. Quindi Gaio Sicinio, discendente di quel Sicinio che, stando

      alla tradizione, sarebbe stato il primo a essere eletto tribuno della

      plebe sul monte Sacro, e Marco Duillio, figura di spicco come tribuno

      prima dell'avvento dei decemviri e che non aveva mai abbandonato la plebe

      negli scontri coi decemviri stessi. Infine, non per i meriti ma per quello

      che si sperava da loro, vennero eletti Marco Titinio, Marco Pomponio, Gaio

      Apronio, Appio Villio e Gaio Oppio. Entrato in carica, Icilio propose e

      fece approvare alla plebe che a nessuno fosse imputata come colpa la

      secessione contro i decemviri. Súbito dopo Marco Duillio presentò una

      proposta di legge che prevedeva l'elezione di consoli il cui potere fosse

      limitato dal diritto d'appello. Tutto questo venne portato a termine

      dall'assemblea della plebe tenutasi nei prati Flamini, prati che oggi si

      chiamano Circo Flaminio.

      

      55 Poi, tramite l'interré, vennero eletti consoli Lucio Valerio e Marco

      Orazio che entrarono immediatamente in carica. Il loro consolato, di

      orientamento popolare, non fece alcuna ingiustizia nei riguardi dei

      patrizi, tuttavia provocò il loro malcontento. Infatti, qualunque cosa si

      facesse per la libertà della plebe, essi credevano che diminuisse il loro

      potere. Prima di tutto, poiché era controverso giuridicamente se i

      senatori dovessero attenersi ai decreti della plebe, i consoli

      presentarono nei comizi centuriati una legge in base alla quale ciò che la

      plebe aveva approvato nei comizi tributi vincolava tutta la popolazione.

      Questa legge diede alle richieste dei tribuni un'arma assai temibile.

      Quanto poi all'altra legge - quella cioè relativa al diritto d'appello,

      unica garanzia di libertà abolita dai decemviri -, non solo fu

      ripristinata, ma resa più efficace per il futuro con una nuova legge in

      base alla quale non sarebbe stato più possibile nominare i magistrati non

      soggetti al diritto d'appello. Chiunque avesse violato tale disposizione,

      avrebbe potuto essere ucciso secondo le leggi umane e divine, e per quel

      crimine non vi sarebbe stata la pena di morte. Dopo aver fornito alla

      plebe sufficienti garanzie sia col diritto d'appello sia con l'aiuto dei

      tribuni, i consoli, nell'interesse dei tribuni stessi, ristabilirono il

      principio della loro inviolabilità, cosa di cui ormai si era persa

      memoria, riattivando le cerimonie rituali abbandonate da lungo tempo: li

      resero infatti inviolabili non solo sul piano religioso ma anche con una

      legge, in base alla quale coloro che avessero recato danno ai tribuni

      della plebe, agli edili, e ai giudici decemviri sarebbero stati maledetti

      e affidati alla vendetta di Giove e i loro beni sarebbero stati venduti al

      tempio di Cerere, Libero e Libera.

      Oggi i giuristi sostengono che in base a questa legge nessuno era

      veramente sacro e inviolabile, ma che essa semplicemente sanciva la

      maledizione per chi avesse oltraggiato una delle predette autorità. Un

      edile poteva essere arrestato e imprigionato da magistrati di rango

      superiore. Questa procedura, pur essendo illegittima (infatti danneggiava

      chi, in base a detta legge, non era lecito danneggiare), tuttavia

      costituisce la prova che un edile non era sacro e inviolabile. Invece i

      tribuni lo erano, in base all'antico giuramento fatto dalla plebe quando

      per la prima volta creò quella magistratura. Ma ci fu pure chi argomentò

      che per la stessa legge Orazia anche consoli e pretori godevano della

      medesima protezione, visto che questi ultimi venivano eletti con gli

      stessi auspici consultati per la nomina dei consoli. E infatti un tempo i

      consoli erano chiamati giudici. Tale tesi è però confutata dal fatto che

      in quel periodo non c'era ancora l'abitudine di chiamare giudice il

      console, bensì pretore.

      Furono queste le leggi proposte dai consoli, i quali stabilirono anche che

      i decreti del senato venissero affidati agli edili della plebe nel tempio

      di Cerere, mentre in passato venivano occultati o falsificati secondo

      l'arbitrio dei consoli. In séguito il tribuno della plebe Marco Duillio

      propose alla plebe, e la plebe lo approvò, un provvedimento in base al

      quale chi avesse lasciato la plebe senza tribuni o avesse eletto dei

      magistrati il cui potere non fosse limitato dal diritto d'appello veniva

      condannato alla fustigazione o alla decapitazione. Tutte queste misure,

      pur non avendo ottenuto il consenso dei patrizi, vennero comunque

      approvate senza incontrare opposizione da parte loro, perché fino a quel

      momento non si infieriva ancora contro nessuno in particolare.

      

      56 In séguito, consolidata l'autorità tribunizia e la libertà della plebe,

      i tribuni, pensando che ormai fosse arrivato il tempo di procedere contro

      i singoli senza correre eccessivi rischi, scelsero Verginio come primo

      accusatore e Appio come primo imputato. Verginio citò quindi Appio in

      giudizio. E quando Appio si presentò nel foro scortato da una schiera di

      giovani aristocratici, appena la gente se lo trovò davanti agli occhi

      insieme alle sue guardie del corpo, si rinnovò súbito nella memoria di

      tutti il ricordo di quell'infame potere. Allora Verginio disse:

      «L'oratoria è stata inventata per le cause incerte: perciò, né io starò a

      perdere tempo sciorinandovi le accuse a carico di un uomo dalla cui

      crudeltà vi siete liberati da soli con le armi, né permetterò che costui

      aggiunga agli altri suoi crimini l'impudenza di difendersi. Dunque ti

      faccio grazia, Appio Claudio, di tutte le turpi ed empie nefandezze che,

      una dopo l'altra, hai osato compiere nel corso di due anni. Ma per una

      sola di esse io ordinerò di metterti in prigione, se non sceglierai un

      giudice e gli dimostrerai di aver a buon diritto negata la libertà

      provvisoria a una libera cittadina rivendicata come schiava.» Appio non

      riponeva alcuna speranza né nell'aiuto dei tribuni, né nel verdetto del

      popolo. Ciononostante si appellò ai tribuni e, quando una guardia lo

      afferrò, senza che nessuno si opponesse, Appio disse: «Mi appello al

      popolo.» Quella parola, che da sola garantisce la libertà, uscita dalla

      bocca da cui poco tempo prima era stata pronunciata una sentenza contro la

      libertà, provocò un grande silenzio. Dentro di sé ciascuno mormorava che

      alla fin fine gli dèi esistevano e non trascuravano i casi umani; che,

      anche se in ritardo, tuttavia pene non lievi colpivano l'arroganza e la

      crudeltà; che si appellava colui che l'appello aveva abolito; che invocava

      il popolo colui che aveva privato il popolo di ogni diritto; che era

      incarcerato e privato della libertà colui che aveva condannato alla

      schiavitù una persona libera. Tra il mormorio dell'assemblea si udì la

      voce dello stesso Appio implorare la protezione del popolo romano.

      Ricordava i servigi resi alla patria dai suoi antenati in pace e in

      guerra, la sua sfortunata opera a favore della plebe romana, in

      conseguenza della quale, per rendere le leggi uguali per tutti, aveva

      rinunciato al consolato con grande rammarico dei patrizi, e infine le sue

      leggi, che erano ancora in vigore mentre si conduceva in carcere chi le

      aveva proposte. Quanto poi al bene e al male commessi, Appio disse che li

      avrebbe presi in esame quando gli fosse stata concessa l'opportunità di

      perorare la propria causa. Per il momento, in qualità di cittadino romano,

      secondo il comune diritto di cittadinanza, Appio chiese che, fissata la

      data, gli fosse permesso di parlare in propria difesa per poi affrontare

      il giudizio del popolo romano. Non temeva l'odio nei suoi confronti tanto

      da non riporre più alcuna speranza nell'equità e nella compassione dei

      suoi concittadini. Se invece fosse finito in carcere senza che gli fosse

      accordato di difendersi, allora si sarebbe di nuovo appellato ai tribuni

      della plebe, avvertendoli di non imitare quelli che essi avevano

      detestato. Se poi i tribuni si dicevano obbligati a negargli l'appello in

      base all'accordo che essi rimproveravano ai decemviri di aver preso in

      segreto, allora si sarebbe appellato al popolo, chiamando in causa le

      leggi sul diritto d'appello proposte quello stesso anno sia dai consoli

      che dai tribuni. Chi infatti poteva ricorrere in appello, se questo

      diritto non era concesso a un cittadino che non era ancora stato giudicato

      e del quale non si era sentita la difesa? Quale plebeo, quale modesto

      cittadino avrebbe potuto trovare sostegno nelle leggi, se esse non lo

      garantivano ad Appio Claudio? Il suo caso avrebbe stabilito se con le

      nuove leggi si era consolidata la tirannide oppure la libertà, e se il

      diritto d'appello al popolo e il ricorso contro le ingiustizie dei

      magistrati erano veramente concessi o erano chiacchiere senza fondamento.

      

      57 Ma Verginio replicò che Appio Claudio era l'unico uomo a trovarsi al di

      là della legge e a non avere alcun rapporto col consorzio umano e civile.

      Invitò poi la gente a rivolgere lo sguardo al tribunale, ricettacolo di

      ogni crimine: lì quel decemviro a vita, acerrimo nemico dei cittadini e

      dei loro beni, delle loro persone e del loro sangue, che minacciava tutti

      con verghe e scuri, senza portare alcun rispetto a dèi e uomini.

      Circondato com'era non di littori ma di carnefici, aveva ormai spostato i

      suoi interessi dalle razzie e dagli assassini alla libidine: così, di

      fronte agli occhi di tutto il popolo romano, aveva strappato dalle braccia

      del padre una ragazza di condizione libera e, trattandola alla stregua di

      una prigioniera di guerra, l'aveva data in dono a un cliente che in casa

      sua gli faceva da cameriere. Sui banchi di quel tribunale Appio, con una

      sentenza disumana e un'assegnazione nefanda, aveva armato la mano destra

      di un padre contro la figlia. Sempre in quel tribunale, mentre il

      fidanzato e lo zio sollevavano da terra il corpo esanime della giovane,

      aveva ordinato che fossero imprigionati, infuriato più per l'impedimento

      dello stupro che per l'uccisione della ragazza. Anche per Appio era stato

      costruito quel carcere che lui amava definire residenza del popolo romano.

      Perciò, anche se avesse continuato ad appellarsi all'infinito,

      all'infinito Verginio gli avrebbe intimato di presentarsi di fronte a un

      giudice per dimostrare di non aver pronunciato una sentenza di schiavitù

      provvisoria nei riguardi di una libera cittadina. Se poi Appio non fosse

      comparso di fronte al giudice, allora avrebbe dato ordine di portarlo in

      prigione come se fosse stato condannato. Fu condotto in carcere; anche se

      nessuno si alzò per esprimere disapprovazione, ciononostante grande fu il

      disagio, perché la punizione di una personalità così importante faceva

      sembrare alla plebe eccessiva la sua stessa libertà. Il tribuno aggiornò

      la causa.

      Nel frattempo Latini ed Ernici inviarono a Roma ambasciatori per

      congratularsi dell'accordo tra patrizi e plebei e per questo accordo

      portarono in dono a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio una corona d'oro

      non molto pesante perché non c'erano allora molte ricchezze e le cerimonie

      religiose erano celebrate più con la devozione che con la sontuosità. Da

      questa stessa delegazione si venne a sapere che Equi e Volsci si stavano

      preparando alla guerra con grande impegno. Perciò ai consoli fu ordinato

      di spartirsi gli incarichi: a Orazio toccarono i Sabini, a Valerio gli

      Equi. Quando bandirono la leva in previsione di quei conflitti, fu tanto

      il favore della plebe che, non solo i più giovani, ma anche una grande

      quantità di volontari tra i militari in congedo si misero a disposizione

      dando i propri nomi ai consoli, in modo tale che l'esercito, grazie

      all'immissione dei veterani, si rinforzò sia per il numero, sia per la

      qualità dei soldati. Prima che l'esercito lasciasse la città, furono

      esposte in pubblico, incise sul bronzo, le leggi nate per volontà dei

      decemviri, conosciute come Leggi delle XII Tavole. Alcuni autori scrivono

      che quell'incarico sarebbe toccato agli edili su ordine dei tribuni.

      

      58 Gaio Claudio, aborrendo i crimini dei decemviri e particolarmente

      ostile all'arroganza del nipote, si era ritirato a Regillo, luogo

      d'origine della sua famiglia. Pur essendo ormai avanti negli anni, era

      tornato a Roma per tentare di salvare proprio l'uomo i cui vizi lo avevano

      indotto a fuggire. Accompagnato da familiari e clienti, andando in giro

      per il foro vestito a lutto, fermava uno per uno i cittadini e li

      supplicava di non permettere che alla famiglia Claudia toccasse il marchio

      infamante di aver meritato l'arresto e la detenzione. Un uomo la cui

      immagine sarebbe stata fatta oggetto dei più alti onori da parte delle

      generazioni future, il legislatore e il fondatore del diritto romano, in

      quel momento giaceva incatenato tra ladri notturni e tagliagole comuni.

      Per il momento rivolgessero l'animo dall'ira alla comprensione e alla

      riflessione e, di fronte alle preghiere di tanti Claudi, ne perdonassero

      uno solo, piuttosto che respingere un numero così alto di suppliche,

      esclusivamente per l'odio verso quell'uno. Claudio aggiunse che lui stesso

      compiva quel gesto per il buon nome della famiglia, ma che non si era

      riconciliato con l'uomo al quale cercava di portare soccorso nella mala

      sorte. Col coraggio era stata riconquistata la libertà, con l'indulgenza

      si poteva ristabilire l'armonia tra le classi sociali. Alcuni furono

      toccati più dal suo attaccamento alla famiglia che dalla causa di colui

      per il quale si stava adoperando. Ma Verginio li invitava ad aver

      compassione piuttosto di lui e di sua figlia, pregandoli di dare ascolto

      più che alle suppliche della famiglia Claudia, che si era arrogata il

      diritto di tiranneggiare la plebe, a quelle dei parenti di Verginia, e

      cioè i tre tribuni che, eletti per sostenere la plebe, ora dalla plebe

      imploravano sostegno e protezione. Alla gente sembrò che queste lacrime

      fossero più giuste. Persa quindi ogni speranza, Appio si suicidò prima che

      arrivasse il giorno fissato per il processo.

      Sùbito dopo Publio Numitorio fece arrestare Spurio Oppio, il più odiato

      dei decemviri dopo Appio, perché presente in città quando il collega aveva

      pronunciato l'ingiusta sentenza di schiavitù provvisoria. A dir la verità

      provocarono il risentimento popolare nei confronti di Oppio più i misfatti

      commessi che quelli che non aveva impedito. Venne prodotto un teste che

      passò in rassegna le ventisette campagne militari a cui aveva partecipato

      meritandosi otto volte decorazioni speciali; dopo aver esibito queste

      decorazioni davanti al popolo, si strappò la tunica mostrando la schiena

      straziata dalla frusta e dichiarò che, se l'imputato era in grado di

      menzionare qualche sua colpa, scatenasse di nuovo, benché ora privato

      cittadino, la sua rabbia su di lui. Così anche Oppio finì in carcere, dove

      si tolse la vita prima del giorno del processo. I tribuni confiscarono le

      proprietà di Claudio e di Oppio. Gli ex-colleghi di decemvirato andarono

      in esilio e i loro beni vennero confiscati. Anche Marco Claudio, l'uomo

      che aveva rivendicato la proprietà di Verginia, fu processato e

      condannato. Essendogli stata risparmiata la pena di morte per

      l'intercessione dello stesso Verginio, fu rilasciato e andò in esilio a

      Tivoli. Così i Mani di Verginia - certo più fortunata da morta che da viva

      -, dopo aver vagato tra tante case per chiedere vendetta, ora che nessun

      colpevole era rimasto impunito, ebbero finalmente pace.

      

      59 I patrizi erano ormai in preda al panico e i tribuni cominciavano ad

      assomigliare sempre più ai decemviri, quando il tribuno della plebe Marco

      Duillio decise di porre un salutare freno a quell'eccessivo potere.

      «Accontentiamoci della nostra libertà e delle pene inflitte ai nemici di

      un tempo,» dichiarò Duillio. «Perciò, nel corso di quest'anno, non

      permetterò che alcuno sia citato in giudizio, né che sia incarcerato. Non

      è infatti giusto andare a ricercare vecchie colpe di cui non ci si ricorda

      nemmeno più, dato che i reati recenti sono stati espiati con le condanne

      inflitte ai decemviri, e dato che le energie continuamente profuse da

      entrambi i consoli per proteggere la vostra libertà ci possono garantire

      che non verranno commessi crimini di tale gravità da richiedere

      l'intervento dell'autorità tribunizia.» Questa moderazione da parte del

      tribuno liberò innanzitutto i patrizi dalla paura, ma incrementò anche il

      loro risentimento nei confronti dei consoli, perché avevano dimostrato un

      tale attaccamento alla causa della plebe, che l'incolumità e la libertà

      dei patrizi era stata più a cuore a un magistrato plebeo che a uno

      patrizio; e poi perché i loro nemici si erano saziati di infliggere

      condanne, prima che i consoli avessero dato l'impressione di volersi

      opporre alle loro sfrenatezze. Molti dissero che avevano agito senza il

      necessario rigore perché proprio i senatori avevano votato le leggi

      proposte dai consoli, e non c'era dubbio che, in quel difficile momento in

      cui si era venuta a trovare la repubblica, i senatori si erano piegati

      alle circostanze.

      

      60 Sistemata la situazione in città e consolidata la posizione della

      plebe, i consoli partirono per le rispettive destinazioni. Valerio,

      incaricato di fronteggiare Volsci ed Equi, che nel frattempo avevano già

      unito le proprie truppe sull'Algido, di proposito ritardò l'inizio delle

      ostilità. Se infatti avesse sùbito tentato la sorte, nel diverso stato

      d'animo in cui si trovavano allora i nemici e i Romani, dopo le disastrose

      imprese dei decemviri, non so se il combattimento non si sarebbe risolto

      in una grave sconfitta. Dunque, posto l'accampamento a un miglio di

      distanza dagli avversari, vi trattenne le truppe. I nemici si andarono più

      volte a schierare nello spazio di terra tra i due accampamenti, ma nessuno

      dei Romani raccolse le provocazioni. Alla fine, stanchi di attendere

      invano l'inizio delle ostilità, Equi e Volsci, credendo che i Romani

      avessero quasi quasi rinunziato alla vittoria, se ne andarono a razziare

      parte i territori latini e parte quelli degli Ernici, lasciandosi alle

      spalle un contingente più adatto a presidiare l'accampamento che non a

      sostenere lo scontro. Quando il console se ne rese conto, schierò le

      truppe in ordine di battaglia e prese a provocare i nemici,

      terrorizzandoli come prima era stato terrorizzato lui. Poiché quelli,

      consci di non avere forze sufficienti, evitavano di venire alle armi,

      súbito crebbe il coraggio nei Romani che davano già per vinti i nemici

      rannicchiati dentro il vallo. Dopo esser stati pronti a battersi per tutto

      il giorno, al calar della notte si ritirarono. E mentre da una parte i

      Romani, pieni di speranza, si rifocillavano, dall'altra parte, animati da

      tutt'altro spirito, i nemici preoccupati inviarono messaggeri in varie

      direzioni per richiamare quanti si erano dati alle razzie. Fu possibile

      far tornare chi si trovava nelle vicinanze, ma quelli che erano andati più

      lontano non riuscirono a raggiungerli. Alle prime luci del giorno i Romani

      uscirono dall'accampamento con l'intento di dare l'assalto al vallo, se

      non avessero avuto la possibilità di combattere. Poiché buona parte della

      mattinata se n'era già andata senza che i nemici avessero dato alcun

      segnale di volersi muovere, il console ordinò di avanzare. Quando

      l'esercito si mosse, Equi e Volsci provarono sdegno vedendo che la difesa

      dei loro eserciti vittoriosi era affidata a un vallo e non al coraggio e

      alle armi. Pertanto anch'essi chiesero e ottennero dai loro comandanti il

      segnale di dar battaglia. Parte degli uomini era già uscita dalle porte,

      seguita in ordine dagli altri che andavano a occupare ciascuno la propria

      posizione, quando il console romano, senza aspettare che lo schieramento

      nemico si rafforzasse completando i ranghi, si buttò all'assalto. Avendo

      sferrato l'attacco quando non tutti gli avversari erano ancora usciti e

      quelli che lo avevano già fatto non si erano ancora dispiegati lungo la

      linea, piombò su una massa fluttuante di disperati che correvano in tutte

      le direzioni e si lanciavano l'uno con l'altro occhiate piene di

      sconforto. Le urla e l'impeto dei Romani aggravarono poi la loro

      agitazione. Così, sulle prime, i nemici furono costretti a retrocedere, ma

      dopo, quando ripresero animo e sentirono da ogni parte i comandanti

      inferociti chiedere loro se avessero intenzione di cedere a dei vinti,

      riuscirono a ristabilire le sorti della battaglia.

      

      61 Il console, dall'altra parte, invitava i Romani a ricordarsi che quel

      giorno, per la prima volta, combattevano da liberi per una libera Roma e

      che avrebbero vinto per se stessi, e non per essere, da vincitori, il

      premio dei decemviri. Alla loro testa non c'era Appio, bensì il console

      Valerio, discendente da uomini che avevano liberato Roma e lui stesso

      liberatore. Che dimostrassero quindi come gli insuccessi nelle precedenti

      battaglie fossero dovuti all'imperizia dei comandanti e non a quella dei

      soldati. Sarebbe stato vergognoso aver dimostrato più coraggio contro i

      concittadini che contro il nemico, e aver temuto più la schiavitù interna

      che quella proveniente dall'esterno. In tempo di pace era toccato alla

      sola Verginia veder minacciata la propria castità, così come Appio era

      stato il solo cittadino la cui libidine avesse costituito una minaccia. Se

      però la guerra avesse preso una brutta piega, allora il pericolo per i

      figli di tutti sarebbe venuto da molte migliaia di nemici. Ma non voleva

      presagire cose che né Giove né il padre Marte avrebbero permesso in una

      città fondata con simili auspici. Ricordando loro l'Aventino e il monte

      Sacro, li invitava a riportare intatto il potere là dove pochi mesi prima

      era nata la libertà, a dimostrare che nei soldati romani, dopo la cacciata

      dei decemviri, c'era l'identica tempra di prima che i decemviri venissero

      eletti e, infine, che il valore del popolo romano non era diminuito con

      l'uguaglianza dei diritti. Dopo aver pronunciato queste parole, circondato

      dai vessilli della fanteria, volò verso i cavalieri e disse loro: «Avanti,

      giovani, cercate di superare i fanti in atti di valore, così come già li

      superate nel grado militare e nel ceto sociale. Al primo scontro la

      fanteria ha costretto i nemici a retrocedere. Adesso tocca a voi:

      caricateli coi cavalli e spazzateli via dal campo. Non reggeranno l'urto,

      visto che anche ora temporeggiano più che resistere.» Quelli spronano i

      cavalli, li lanciano contro i nemici, già stravolti dallo scontro con i

      fanti, sfondano le linee e avanzano fino alla retroguardia: una parte di

      loro aggira i nemici in campo aperto, impedisce il ritorno

      all'accampamento al grosso degli Equi e dei Volsci che già fuggiva da ogni

      parte e, cavalcando davanti a loro, li respinge e li tiene lontani. La

      fanteria e il console, con tutte le forze a disposizione, irrompono

      nell'accampamento e lo conquistano, seminando la morte e portandosi via un

      grande bottino.

      La notizia di questa vittoria arrivò non solo a Roma, ma anche all'altro

      esercito impegnato in territorio sabino: in città fu celebrata con

      esplosioni di gioia, nell'accampamento accese gli animi dei soldati,

      spingendoli a emulare quelle gesta gloriose. Orazio, mettendoli alla prova

      con incursioni improvvise e scaramucce di poco peso, li aveva abituati ad

      avere fiducia in se stessi, a dimenticare le ignominie subite sotto il

      comando dei decemviri. E quei piccoli scontri avevano riacceso in loro la

      speranza di avere la meglio nello scontro finale. Ma neppure i Sabini,

      imbaldanziti dal successo dell'anno precedente, lesinavano le provocazioni

      e le minacce. Soprattutto si domandavano perché mai i Romani perdessero

      tutto quel tempo in modeste incursioni e ritirate, degne di ladruncoli, e

      spezzassero tutta la guerra in una serie di scaramucce. Perché non

      scendevano a combattere in campo aperto, lasciando che la sorte decidesse

      una volta per tutte a chi doveva andare la vittoria?

      

      62 Oltre ad aver già recuperato di per sé sufficiente fiducia nei propri

      mezzi, i Romani ardevano anche di sdegno: mentre in quel momento l'altro

      esercito stava rientrando vittorioso a Roma, loro erano ancora lì a farsi

      insultare e sbeffeggiare dal nemico. Ma quando sarebbero stati all'altezza

      dei nemici, se non lo erano allora? Appena il console si rese conto che

      tra gli uomini circolavano questi mormorii, convocò l'adunata e disse:

      «Immagino, soldati, che abbiate sentito come sono andate le cose

      sull'Algido. L'esercito si è comportato come si addice all'esercito di un

      popolo libero. La vittoria è arrivata grazie all'intelligenza del mio

      collega e al valore dei soldati. Quanto a me, la mia strategia e il mio

      coraggio dipenderanno esclusivamente dal vostro comportamento. Si può

      ritardare la guerra con vantaggio o concluderla in fretta. Se si deve

      ritardarla io, continuando con la tattica adottata sinora, farò in modo

      che, giorno dopo giorno, crescano le vostre speranze e il vostro coraggio.

      Ma se invece siete già sufficientemente coraggiosi e volete farla finita

      súbito con questa guerra, allora, a testimonianza della vostra volontà di

      vittoria e del vostro sicuro valore, alzate qui nell'accampamento il grido

      che alzereste sul campo di battaglia.» Sull'onda dell'entusiasmo il grido

      non si fece attendere. Poi il console, augurando il migliore esito

      all'impresa, disse che li avrebbe assecondati e che il giorno successivo

      li avrebbe guidati in battaglia. Il resto della giornata venne impiegato

      nella preparazione delle armi.

      Il giorno dopo, appena i Sabini, che già da molto tempo erano impazienti

      di venire alle armi, videro i Romani schierarsi, uscirono anch'essi allo

      scoperto. Fu una di quelle battaglie in cui si scontrano due eserciti

      animati dalla stessa fiducia nelle proprie capacità: se infatti questo

      poteva vantare un'antica e ininterrotta gloria, quello aveva il morale

      alle stelle per l'ultima, ancora recente vittoria. I Sabini accrebbero la

      loro pericolosità con un ingegnoso stratagemma: dopo aver infatti disposto

      lo schieramento su un fronte che aveva la stessa estensione di quello

      avversario, fecero uscire dai ranghi 2.000 uomini perché, durante la

      battaglia, assalissero il fianco sinistro dell'esercito romano. Ma quando

      con un attacco laterale stavano quasi per accerchiare e sopraffare l'ala

      dell'esercito nemico, i cavalieri di due legioni romane, circa seicento,

      scendono da cavallo e si buttano nelle prime file dove i loro stavano già

      indietreggiando; si oppongono al nemico e nello stesso tempo infiammano

      gli animi dei fanti, prima condividendone il pericolo, poi puntando sul

      sentimento dell'onore. Era infatti vergognoso che il cavaliere combattesse

      la propria e l'altrui battaglia e che il fante non fosse all'altezza

      neppure del cavaliere sceso da cavallo.

      

      63 I fanti ritornano al combattimento che dalla loro parte era stato

      abbandonato e riconquistano la posizione dalla quale si erano ritirati. E

      in un attimo non solo vennero ristabilite le sorti della battaglia, ma

      l'ala sabina fu costretta a ripiegare. I cavalieri, coperti dalle linee

      della fanteria, rimontano a cavallo. Arrivati al galoppo dall'altra parte

      dello schieramento, comunicano ai compagni la notizia della vittoria e nel

      contempo caricano i nemici, già in preda al panico per la rotta della loro

      ala più forte. In quella battaglia nessuno brillò per valore più dei

      cavalieri. Il console pensava a tutto: distribuiva elogi ai forti e urlava

      improperi se in qualche parte la lotta era più fiacca. Gli uomini su cui

      cadeva il suo biasimo sùbito si trasformavano in valorosi, ed erano spinti

      dalla vergogna, quanto gli altri dalle lodi. Dopo aver di nuovo alzato

      tutti insieme il grido di guerra, con uno sforzo comune misero in fuga il

      nemico. E da quel momento in poi non fu più possibile contenere l'impeto

      dei Romani. I Sabini vennero dispersi per le campagne circostanti, e

      lasciarono l'accampamento in preda agli avversari, che lì non

      recuperarono, come sull'Algido, i beni degli alleati, ma si ripresero i

      propri, perduti durante le incursioni nei loro campi.

      Per la doppia vittoria riportata in due battaglie diverse, il senato

      meschinamente decretò soltanto un giorno di ringraziamenti ufficiali in

      nome dei consoli. Ma il popolo, contrariamente a quanto era stato

      disposto, andò in gran numero a pregare anche il giorno successivo. E

      questa spontanea manifestazione di popolo fu, a causa dell'entusiasmo

      generale, quasi più affollata dell'altra. I consoli, di comune accordo,

      rientrarono in città proprio in quei due giorni, e convocarono il senato

      in Campo Marzio. Lì, mentre discutevano delle loro imprese, i senatori più

      autorevoli si lamentarono che il senato fosse stato convocato in mezzo

      alle truppe col preciso intento di spaventarli. I consoli allora, per non

      dare adito ad accuse infondate, spostarono la seduta nei prati Flamini,

      cioè là dove oggi c'è il santuario di Apollo e che era già chiamato

      Apollinare. E qui, poiché i senatori concordi volevano rifiutare il

      trionfo, il tribuno della plebe Lucio Icilio portò di fronte al popolo la

      questione riguardante il trionfo dei consoli, benché molti si facessero

      avanti per dissuaderlo e più di tutti Gaio Claudio. Egli urlava che i

      consoli volevano celebrare un trionfo non sui nemici ma sui patrizi, e

      quello che chiedevano non era un riconoscimento al valore quanto piuttosto

      un favore in cambio di un servizio reso ai tribuni a titolo del tutto

      privato. Mai prima si era discusso del trionfo con il popolo; valutare il

      merito e decretare quell'onore era stato sempre cómpito del senato.

      Neppure i re avevano osato privare di quella prerogativa il più alto

      ordine dello Stato. Che i tribuni non dilatassero l'estensione del proprio

      potere a tal punto da non permettere più l'esistenza di nessuna pubblica

      assemblea. Solo se ciascun ordine avesse mantenuto le prerogative

      garantite dalla legge e la propria autorità, la città sarebbe stata

      finalmente libera e le leggi uguali per tutti. Dopo gli interventi anche

      degli altri senatori più anziani che parlarono prolissamente per sostenere

      la stessa tesi, tutte le tribù votarono per la proposta del tribuno. Fu in

      quell'occasione che un trionfo, pur non avendo avuto l'autorizzazione del

      senato, venne per la prima volta celebrato per volontà del popolo.

      

      64 Questa volta la vittoria conquistata dai tribuni e dalla plebe per poco

      non degenerò in un pericoloso stato di sfrenatezza. Infatti i tribuni

      raggiunsero in segreto un accordo in base al quale i detentori di quella

      magistratura sarebbero stati riconfermati in carica. E inoltre, per

      evitare che la loro sete di potere risultasse evidente, stabilirono di

      rinnovare il mandato anche ai consoli. Il pretesto che veniva addotto era

      l'accordo realizzato dai senatori i quali, con l'offesa arrecata ai

      consoli, avevano attentato ai diritti della plebe. Che cosa sarebbe

      successo se, quando le leggi non erano ancora consolidate, i consoli,

      appoggiati dalla loro fazione, avessero assalito i nuovi tribuni? Perché

      di certo i consoli non sarebbero sempre stati uomini dello stampo di

      Valerio e Orazio, che anteponevano ai propri interessi la libertà della

      plebe! Ma in quella circostanza una fortunata concomitanza di eventi volle

      che a presiedere alle elezioni la sorte chiamasse Marco Duillio, uomo

      prudente e capace di prevedere il risentimento che la rielezione degli

      stessi magistrati avrebbe provocato. Quando Duillio si rifiutò di prendere

      in considerazione la candidatura dei tribuni in carica, i suoi colleghi

      diedero battaglia perché concedesse il voto libero alle singole tribù,

      oppure cedesse l'incarico di presiedere alle elezioni ai colleghi, che le

      avrebbero tenute attenendosi alle leggi e non secondo le indicazioni dei

      senatori. Nell'accesa discussione che seguì, Duillio convocò i consoli

      presso i banchi delle tribune e chiese loro che intenzioni avessero

      riguardo alle elezioni consolari. Siccome essi risposero che avrebbero

      eletto nuovi consoli, Duillio, avendo trovato il sostegno popolare a una

      proposta certo non popolare, si presentò all'assemblea in compagnia dei

      consoli. Lì, quando furono di fronte al popolo, gli venne chiesto come si

      sarebbero comportati se il popolo romano, memore della libertà

      riconquistata in patria grazie a loro nonché dei successi militari, li

      avesse riconfermati in carica. Siccome i consoli risposero che non

      sarebbero tornati sulla propria decisione, Duillio prima li elogiò per la

      fermezza con la quale si erano fino all'ultimo sforzati di non

      assomigliare ai decemviri, e quindi tenne i comizi. Eletti cinque tribuni,

      poiché, per la palese brama a essere rieletti di nove tribuni, nessun

      altro candidato ottenne i voti necessari, Duillio sciolse la seduta, senza

      più riconvocarla per le elezioni. Disse che si era agito nel pieno

      rispetto della legge la quale in nessuna parte definiva il numero,

      prescriveva solo che fossero eletti dei tribuni e imponeva che i neoeletti

      si scegliessero i colleghi. Diede quindi lettura della formula prevista

      dalla legge che diceva: «Se proporrò la nomina di dieci tribuni della

      plebe e se oggi voi qui eleggerete meno di dieci tribuni, quelli che gli

      eletti avranno cooptato come colleghi per questa stessa legge siano

      legittimi tribuni della plebe, così come lo sono quelli che oggi voi

      chiamerete a ricoprire tale carica.» Duillio, sostenendo fino alla fine

      che la repubblica non poteva avere quindici tribuni della plebe, ed

      essendo nel contempo riuscito ad avere ragione dell'ingordigia politica

      dei colleghi, uscì di carica dopo essersi reso gradito tanto ai patrizi

      quanto ai plebei.

      

      65 I nuovi tribuni nella cooptazione dei colleghi assecondarono i desideri

      degli aristocratici; infatti scelsero anche Spurio Tarpeio e Aulo Aternio,

      due nobili che in passato erano stati consoli. Quanto poi ai nuovi

      consoli, Spurio Erminio e Tito Verginio, entrambi privi di particolari

      inclinazioni nei confronti della plebe o del patriziato, mantennero la

      pace in patria e all'estero. Il tribuno della plebe Lucio Trebonio,

      risentito nei confronti dei patrizi perché sosteneva di esser stato da

      loro tratto in inganno e tradito dai colleghi nella cooptazione dei

      tribuni, propose una legge in base alla quale chi avesse convocato la

      plebe romana alle elezioni dei tribuni avrebbe dovuto continuare a

      presiedere la seduta fino a quando non fossero stati eletti i dieci

      tribuni della plebe previsti. Trebonio, per tutta la durata del suo

      mandato, incalzò i patrizi con una tale insistenza che gli fu dato il

      soprannome di Aspro.

      I consoli successivi Marco Geganio Macerino e Gaio Giulio sedarono le

      contese sorte tra i tribuni e i giovani nobili, senza accanirsi contro il

      potere di quei magistrati e conservando il prestigio dei senatori. Per

      evitare poi che la plebe si lasciasse andare a episodi di violenza,

      sospesero la leva militare indetta per la guerra contro Volsci ed Equi,

      affermando che, se in città regnava la pace, anche all'estero tutto

      rimaneva tranquillo, mentre le discordie intestine facevano alzare la

      testa ai popoli vicini. La salvaguardia della pace fu causa anche della

      concordia interna. Ma una delle due classi era sempre pronta a sfruttare

      la moderazione dell'altra. E fu così che, mentre la plebe era quieta, i

      giovani patrizi cominciarono a commettere soprusi. Quando i tribuni

      tentavano di spalleggiare i più deboli, il loro intervento approdava a

      poco. Poi neppure i tribuni riuscivano a sottrarsi alla violenza fisica,

      specie negli ultimi mesi del mandato, perché i più potenti si coalizzavano

      per imporre l'ingiustizia, ma anche perché il potere di ogni magistratura

      verso la fine dell'anno solitamente s'indebolisce. Ormai la plebe poteva

      riporre qualche speranza nel tribunato soltanto a condizione di avere

      tribuni come Icilio, ma negli ultimi due anni si erano avuti solo dei

      tribuni di nome. Dal canto loro, i patrizi più anziani, pur sapendo che i

      loro giovani erano troppo violenti, preferivano che - se da qualche parte

      si doveva superare la misura - gli eccessi di animosità li facessero

      registrare i loro piuttosto che gli avversari. Nella lotta per difendere

      la libertà la moderazione è veramente difficile: infatti, pur ostentando

      di volere una forma di equilibrio, ciascuno tende a innalzare se stesso

      soffocando gli altri. Cercando poi di non essere intimoriti, alla fine gli

      uomini si trasformano nell'oggetto delle altrui paure. E mentre il sopruso

      ci disgusta, come se fosse inevitabile o commetterlo o subirlo, finisce

      che siamo noi a fare dei torti agli altri.

      

      66 Vennero poi eletti consoli Tito Quinzio Capitolino, per la quarta

      volta, e Agrippa Furio. A costoro non toccarono né disordini interni né

      conflitti all'esterno, benché sia gli uni, sia gli altri incombessero.

      Infatti non era più possibile contenere la discordia civile, visto il

      risentimento nutrito da plebe e tribuni nei confronti degli aristocratici,

      e in considerazione del fatto che i processi a carico di questo o di

      quell'altro nobile provocavano sempre nuovi disordini che turbavano le

      assemblee. Non appena si verificarono i primi contrasti, come se fossero

      stati un segnale, Volsci ed Equi presero le armi; i loro comandanti, avidi

      di bottino, li avevano persuasi che a Roma nel biennio precedente non era

      stato possibile indire la leva perché la plebe rifiutava ormai ogni tipo

      di disciplina: per quel motivo non era stato inviato alcun esercito contro

      di loro. La dissolutezza aveva ormai sbriciolato ogni tradizione militare,

      e Roma non era più la patria comune. Tutta la rabbia e il rancore che un

      tempo avevano nei riguardi degli stranieri, ora li riversavano su se

      stessi. Quella era l'occasione per sterminare quei lupi accecati da una

      rabbia che li spingeva l'uno contro l'altro. Così, dopo aver unito i

      propri eserciti, Volsci ed Equi cominciarono col devastare le campagne

      latine. Poi, quando videro che nessuno accorreva in aiuto di quelle

      popolazioni, fra l'esultanza di quanti avevano fomentato la guerra, di

      razzia in razzia, arrivarono fin sotto le mura di Roma in direzione della

      porta Esquilina, e qui cominciarono a sbeffeggiare gli abitanti indicando

      loro le campagne devastate. Dopo che si furono ritirati impuniti

      procedendo a passo di marcia in direzione di Corbione e con il bottino

      bene in vista alla testa dello schieramento, il console Quinzio convocò

      l'assemblea del popolo.

      

      67 Lì - almeno a quanto ho trovato io - parlò in questi termini: «Benché

      io sia conscio di non aver alcuna colpa, o Quiriti, ciononostante è con

      estrema vergogna ch'io mi presento al cospetto di questa assemblea. Voi

      sapete, e un giorno verrà tramandato ai posteri, che, durante il quarto

      consolato di Tito Quinzio, Volsci ed Equi - un tempo appena all'altezza

      degli Ernici - sono giunti impunemente fin sotto le mura di Roma con le

      armi in pugno. Benché ormai da tempo la situazione sia tale da non lasciar

      presagire nulla di buono, ciononostante, se solo avessi saputo che l'anno

      ci riservava un episodio così funesto, avrei evitato questa ignominia,

      anche a costo di andare in esilio o di togliermi la vita, ove non mi

      restassero altri mezzi per sottrarmi a questa carica. Se fossero stati

      uomini degni di questo nome quelli che si sono presentati con le armi in

      pugno di fronte alle nostre porte, Roma avrebbe potuto esser presa sotto

      il mio consolato! Avevo avuto onori a sufficienza e vita a sufficienza,

      anzi fin troppo lunga: avrei dovuto morire durante il mio terzo consolato.

      Ma a chi hanno riservato il loro disprezzo i nostri più vili nemici? A noi

      consoli, oppure a voi, o Quiriti? Se la colpa è nostra, allora privateci

      di un'autorità della quale non siamo degni. E se poi questo non basta,

      aggiungete anche una punizione. Se invece la responsabilità ricade su di

      voi, l'augurio è che né gli dèi né gli uomini vi facciano pagare i vostri

      errori, ma siate soltanto voi stessi a pentirvene. I nemici non hanno

      disprezzato la codardia che è in voi, ma nemmeno riposto eccessiva fiducia

      nel proprio coraggio. A dir la verità è toccato loro molte volte di essere

      sbaragliati e messi in fuga, privati dell'accampamento e di parte del

      territorio, nonché di passare sotto il giogo, e conoscono voi e se stessi!

      No, sono la discordia delle classi e gli eterni contrasti - vero veleno di

      questa città - tra patrizi e plebei, che hanno risollevato il loro animo,

      perché noi non moderiamo il nostro potere e voi la vostra libertà, voi

      siete insofferenti nei confronti dei patrizi e noi nei confronti delle

      magistrature plebee. Ma in nome degli dèi, cosa volete? Morivate dalla

      voglia di avere dei tribuni della plebe, in nome della concordia sociale

      ve li abbiamo concessi. Desideravate i decemviri: ne abbiamo autorizzato

      l'elezione. Vi siete stancati dei decemviri, li abbiamo costretti ad

      abbandonare la carica. Continuavate a odiarli anche quando erano ormai

      tornati dei privati cittadini, abbiamo tollerato che uomini molto nobili e

      onorati venissero condannati a morte e all'esilio. Poi vi è di nuovo

      venuta la voglia di eleggere dei tribuni, li avete eletti, e di nominare

      consoli dei membri della vostra parte e noi, pur sembrandoci ingiusto nei

      confronti dell'aristocrazia, siamo arrivati al punto di vedere quella

      grande magistratura patrizia offerta in dono alla plebe. L'intromissione

      dei tribuni, l'appello di fronte al popolo, i decreti approvati dalla

      plebe e imposti al patriziato, i nostri diritti calpestati in nome

      dell'eguaglianza delle leggi, tutto abbiamo sopportato e sopportiamo. In

      che modo potranno mai avere fine i contrasti? Verrà mai il giorno in cui

      sarà possibile avere una sola città unita e considerarla la patria comune?

      Noi, che ne usciamo sconfitti, accettiamo la situazione con animo più

      sereno di quanto non facciate voi, che pure siete i vincitori. Non vi

      basta che noi dobbiamo temervi? Contro di noi è stato preso l'Aventino,

      contro di noi è stato occupato il monte Sacro. Abbiamo visto l'Esquilino

      quasi preso dal nemico e i Volsci apprestarsi a scalare le mura di Roma:

      nessuno ha avuto il coraggio di andarli a ricacciare indietro. Solo contro

      di noi voi siete dei veri uomini, solo contro di noi impugnate le armi.

      

      68 Forza dunque: visto che siete riusciti ad assediare la curia, a

      trasformare il foro in una tana di insidie e a riempire le patrie prigioni

      di uomini eminenti, dimostrate la stessa audacia, uscite dalla porta

      Esquilina. Ma se non siete neppure all'altezza di un gesto del genere,

      allora andate a vedere dall'alto delle mura i vostri campi messi a ferro e

      fuoco, le vostre cose portate via e il fumo degli incendi che sale qua e

      là nel cielo dalle case in fiamme. Ma voi potreste obiettare che chi sta

      peggio è lo Stato, con le campagne che bruciano, la città assediata e la

      gloria militare lasciata solo ai nemici. E con questo? Credete che i

      vostri interessi privati non si trovino nella stessa situazione? Presto

      dalla campagna arriverà a ciascuno di voi la notizia delle perdite subite.

      Che cosa c'è qui in patria, in grado di risarcirle? Ci penseranno i

      tribuni a restituirvi quel che avete perduto? Vi prodigheranno a sazietà

      parole e chiacchiere, accuse contro cittadini in vista, leggi su leggi e

      concioni. Ma da quelle concioni nessuno di voi è mai tornato a casa più

      ricco di beni e di denaro. O c'è mai stato qualcuno che abbia riportato a

      moglie e figli altro che risentimento, antipatie e gelosie pubbliche e

      private dalle quali siete stati protetti non certo per il vostro valore e

      la vostra integrità, ma per l'aiuto ricevuto da altri? Ma, per Ercole,

      quando eravate al servizio di noi consoli e non dei tribuni, e

      nell'accampamento invece che nel Foro, quando il vostro urlo spaventava il

      nemico in battaglia e non i senatori romani in assemblea, dopo aver fatto

      bottino e dopo aver conquistato terre al nemico, tornavate a casa, ai

      vostri Penati, carichi di preda, coperti di gloria e di successi

      conquistati per la patria e per voi stessi! Ora invece permettete che i

      nemici se ne vadano carichi delle vostre ricchezze. Tenetevele strette le

      vostre assemblee e continuate pure a vivere nel Foro: ma la necessità di

      prendere le armi - da cui rifuggite - vi incalza. Vi pesava marciare

      contro Equi e Volsci? Ora la guerra è alle porte. Se non si riuscirà ad

      allontanarla, presto si trasferirà all'interno delle mura e salirà fino

      alla rocca del Campidoglio, perseguitandovi anche dentro le case. Due anni

      or sono il senato bandì una leva militare e poi diede ordine di condurre

      le truppe sull'Algido: noi ora ce ne stiamo qui oziosi, litigando come

      donnicciole, contenti della pace del momento e incapaci di prevedere che

      da questo breve periodo di tregua la guerra risorgerà mille volte più

      grande. So benissimo che ci sono cose molto più piacevoli a dirsi. Ma a

      parlare di cose vere anziché di gradite, anche se non mi ci inducesse il

      mio carattere, mi obbliga la necessità. Vorrei davvero piacervi, o

      Quiriti, ma preferisco di gran lunga vedervi sani e salvi, qualunque sia

      il sentimento che nutrirete in futuro nei miei confronti. Dalla natura è

      stato disposto così: chi parla in pubblico per interesse personale è più

      gradito di chi ha invece al vertice dei suoi pensieri solo l'interesse

      dell'intera comunità; a meno che per caso non crediate che tutti questi

      adulatori del popolo e questi demagoghi che oggi non vi permettono né di

      combattere né di starvene tranquilli vi incitino e vi stimolino nel vostro

      interesse. La vostra agitazione è per loro titolo di merito o ragione di

      profitto; e siccome quando regna la concordia tra le classi essi sanno di

      non essere nulla, preferiscono mettersi a capo di tumulti e sedizioni,

      preferiscono fare azioni malvage piuttosto che nulla. Se esiste una

      possibilità che alla fine tutto ciò arrivi a disgustarvi e che vogliate

      tornare alle vostre abitudini di un tempo e a quelle dei vostri antenati,

      rinunciando alle funeste innovazioni, vi autorizzo a punirmi se nel giro

      di pochi giorni non sarò riuscito a sbaragliare questi devastatori delle

      nostre campagne dopo averli sradicati dall'accampamento, e a trasferire da

      sotto le nostre mura alle loro città questa paura di un conflitto che ora

      vi paralizza.»

      

      69 Raramente, in altre occasioni, il discorso di un tribuno popolare ebbe

      presso la plebe un'accoglienza più entusiastica di quella toccata allora

      alla durissima requisitoria del console. Perfino i giovani, che in

      situazioni così critiche avevano di solito nella renitenza alla leva

      l'arma più affilata contro il patriziato, guardavano invece con impazienza

      alle armi e alla guerra. E siccome i contadini fuggiti dopo essere stati

      depredati e feriti mentre si trovavano nella campagna riferivano di

      atrocità ben più gravi di quelle che erano sotto gli occhi, un'ondata di

      sdegno travolse l'intera città. Quando si riunì il senato, a dir la verità

      tutti si voltarono verso Quinzio, guardandolo come il solo vendicatore

      della maestà di Roma. I senatori più autorevoli dichiararono che il suo

      discorso era stato all'altezza dell'autorità consolare, degno cioè dei

      molti consolati detenuti in passato e dell'intera sua vita, che era stata

      piena di riconoscimenti a lui spesso tributati e anche più spesso da lui

      meritati. Altri consoli avevano in passato o adulato la plebe tradendo la

      dignità dei senatori oppure, insistendo in un'accanita difesa dei diritti

      della loro classe, avevano esasperato la massa cercando a tutti i costi di

      soggiogarla; nel suo discorso Tito Quinzio aveva tenuto conto della

      dignità dei senatori, della concordia tra le classi e - soprattutto -

      della situazione di fatto. Implorarono lui e il suo collega di prendere in

      mano le redini dello Stato e pregarono i tribuni di predisporsi ad agire

      di conserva con i consoli, nel tentativo di allontanare la guerra dalle

      mura di Roma, supplicandoli anche di fare in modo che in circostanze così

      allarmanti la plebe accettasse di obbedire ai senatori. Dissero inoltre

      che la patria comune, vedendo le devastazioni nelle campagne e la città

      quasi stretta d'assedio, si rivolgeva ai tribuni invocandone l'aiuto.

      All'unanimità venne quindi decretata e sùbito messa in pratica la leva

      militare. Di fronte all'assemblea i consoli proclamarono che non c'era

      tempo per valutare i motivi per esentare dal servizio, e dunque i più

      giovani - nessuno escluso - dovevano presentarsi in campo Marzio all'alba

      del giorno successivo; solo a guerra finita si sarebbe trovato il tempo di

      valutare la giustificazione di chi non era andato ad arruolarsi; e quanti

      avessero addotto delle motivazioni poi giudicate non sufficientemente

      valide avrebbero ricevuto il trattamento riservato ai disertori. Il giorno

      successivo tutti i giovani si presentarono. Ciascuna coorte si scelse

      autonomamente i propri centurioni e due senatori vennero posti al comando

      di ognuna di esse. Ho trovato che questi preparativi furono portati a

      termine così rapidamente che, nel corso di quella stessa giornata, le

      insegne furono prelevate dai questori nell'erario, trasferite in Campo

      Marzio e di là, alla quarta ora del giorno si misero in movimento. E il

      nuovo esercito, scortato volontariamente da poche coorti di veterani, alla

      sera si accampò a dieci miglia da Roma. Il giorno successivo venne

      avvistato il nemico, e gli accampamenti vennero a trovarsi uno a ridosso

      dell'altro, nei pressi di Corbione. Il terzo giorno, dato che i Romani

      erano in preda alla rabbia e gli altri - che si erano già più volte

      ribellati - consci delle proprie colpe e disperati, nessuno tentò di

      ritardare in alcun modo la battaglia.

      

      70 Benché nell'esercito romano i due consoli avessero la stessa autorità,

      tuttavia in quell'occasione Agrippa lasciò il comando supremo al collega,

      il che è molto utile quando si devono prendere decisioni di estrema

      importanza. E il prescelto Tito Quinzio ricambiò il generoso gesto

      comunicando al collega, che si era posto volontariamente in sottordine, i

      propri piani, e condividendone i meriti, e considerandolo a lui pari

      ancorché ormai inferiore di grado. Nello schieramento sul campo Quinzio

      tenne l'ala destra e Agrippa la sinistra. Al luogotenente Spurio Postumio

      Albo fu affidato il centro, a capo della cavalleria fu posto Publio

      Sulpicio, l'altro luogotenente. All'ala destra la fanteria si batté con

      estremo accanimento, ma la resistenza dei Volsci non fu da meno. Publio

      Sulpicio fece breccia con la cavalleria nel centro dello schieramento

      nemico. Avrebbe potuto rientrare nei ranghi dalla stessa parte e prima che

      il nemico avesse avuto il tempo di riformare le linee sconvolte: invece

      ritenne più opportuno prendere i Volsci alle spalle. Caricandoli da dietro

      avrebbe disperso in un attimo i nemici atterriti da due attacchi

      simultanei se i cavalieri dei Volsci e degli Equi, impegnandolo

      separatamente, non lo avessero contenuto per un po'. Ma in quell'istante

      Sulpicio gridò che non c'era più tempo da perdere e che sarebbero stati

      circondati e tagliati fuori dal resto dei compagni, se con tutte le loro

      forze non avessero concluso quello scontro tra cavallerie. Non sarebbe

      stato sufficiente mettere in fuga i nemici permettendo che ne uscissero

      incolumi: dovevano distruggere uomini e cavalli, in maniera tale che

      nessuno potesse rituffarsi nello scontro e dare nuovo vigore alla

      battaglia. I nemici non potevano certo tener loro testa, se prima la

      schiera compatta dei fanti aveva dovuto cedere al loro sfondamento. Non

      aveva parlato a sordi. Con un'unica carica i Romani sbaragliarono l'intera

      cavalleria nemica: dopo avere disarcionato moltissimi cavalieri, li

      trafissero insieme ai cavalli, servendosi delle lance. Fu questa la

      conclusione della battaglia equestre. Dopo essersi sùbito buttati

      all'assalto della fanteria, mandarono dei messaggeri ai consoli per

      riferir loro del successo ottenuto, mentre il fronte nemico già stava per

      cedere. La notizia aumentò l'ardire dei Romani che stavano avendo la

      meglio, e seminò lo scompiglio tra le fila degli Equi in ritirata. La loro

      rotta cominciò nel centro dello schieramento, nel punto in cui l'irruzione

      della cavalleria aveva sconvolto le linee. Poi però anche l'ala sinistra

      cominciò a cedere di fronte al console Quinzio. Sul versante destro lo

      sforzo fu tremendo. Qui il giovane e prestante Agrippa, vedendo che la

      battaglia ovunque aveva esiti migliori che dalla sua parte, strappò le

      insegne ai vessilliferi e cominciò a brandirle lui stesso, gettandone

      anche qualcuna tra le linee compatte dei nemici. Allora i suoi uomini,

      spinti dal timore della vergogna, si rovesciarono sugli avversari, e così

      la vittoria fu uguale in ogni settore. In quel momento arrivò da Quinzio

      la notizia che egli, ormai vincitore, stava già minacciando l'accampamento

      nemico, ma non voleva assaltarlo prima di aver ricevuto la notizia che

      anche all'ala sinistra le cose erano finite per il meglio. Se Agrippa

      aveva già sbaragliato i nemici, allora che andasse ad unire le truppe alle

      sue, perché nel medesimo momento l'intero esercito potesse mettere le mani

      sul bottino. E il vittorioso Agrippa raggiunse il collega vittorioso di

      fronte all'accampamento nemico e lì ci fu uno scambio di congratulazioni.

      Messi in fuga in un baleno i pochi rimasti a presidiare il campo, i due

      consoli senza far uso delle armi irrompono nelle trincee e riconducono in

      patria l'esercito carico di un ingente bottino, e che inoltre aveva

      recuperato i propri beni andati perduti durante il saccheggio delle

      campagne. Da quanto sono riuscito ad appurare, né i consoli richiesero il

      trionfo né il senato lo decretò; non ci viene tramandato il motivo per il

      quale un simile riconoscimento fu dai vincitori disdegnato o non sperato.

      Per quanto posso arguire, dopo così tanto tempo, siccome il trionfo era

      stato negato dal senato ai consoli Valerio e Orazio i quali, oltre ad aver

      sconfitto Volsci ed Equi, si erano coperti di gloria anche nella guerra

      contro i Sabini, Agrippa e Quinzio si vergognarono di chiederlo per

      un'impresa ch'era metà di quella; se lo avessero ottenuto, poteva sembrare

      che si fosse tenuto conto più degli uomini che dei meriti.

      

      71 L'onorevole vittoria conseguita sui nemici fu inquinata a Roma da

      un'infame sentenza del popolo in merito ai territori degli alleati. I

      cittadini di Ardea e di Aricia erano spesso giunti allo scontro per una

      fascia di terra la cui appartenenza era controversa; stanchi delle molte

      reciproche sconfitte, scelsero quale giudice il popolo romano.

      Presentatisi in città per perorare le rispettive cause ed essendo stata

      convocata dai magistrati l'assemblea, si ebbe un'accanita disputa. E

      quando, dopo esser stati prodotti i testimoni, si era ormai prossimi alla

      convocazione delle tribù e al voto da parte del popolo, Publio Scapzio, un

      plebeo piuttosto anziano, si alzò a parlare e disse: «Se mi è concesso, o

      consoli, di parlare nell'interesse del paese, io non permetterò che in

      questa causa il popolo commetta un errore.» I consoli dissero che,

      inattendibile qual era, non c'erano ragioni per ascoltarlo, e dato che

      continuava a sbraitare che si tradiva l'interesse del paese, avevano

      ordinato di allontanarlo. Ma egli si appellò ai tribuni. Questi, abituati

      quasi sempre a essere guidati dalla plebe anziché a guidarla, concessero

      alla folla impaziente di sentire quello che Scapzio aveva in mente di

      dire. Il vecchio cominciò così a parlare dicendo di avere 83 anni e di

      aver militato proprio nella zona che in quel momento era al centro del

      dibattito, e non da giovane, ma come uno che al tempo della campagna di

      Corioli aveva già vent'anni di servizio alle spalle. Per questo si

      riferiva a un episodio che, pur essendo ormai caduto nel dimenticatoio

      perché successo così indietro nel tempo, si era comunque impresso nella

      sua memoria: la terra oggetto della disputa era stata parte del territorio

      dei Coriolani. Poi, una volta presa Corioli, era per diritto di guerra

      diventata proprietà del popolo romano. Si meravigliava quindi moltissimo

      della sfrontatezza con la quale Aricini e Ardeati speravano di togliere al

      popolo romano - trasformandolo da proprietario in giudice - una fascia di

      terra sulla quale essi non avevano mai esercitato alcun tipo di diritto

      quando lo stato di Corioli era ancora indipendente. Gli restava poco da

      vivere, tuttavia non si poteva convincere che, dopo aver fatto la sua

      parte di soldato nel conquistare con le armi quella terra, ora da vecchio

      non dovesse difenderla con la parola, la sola forza rimasta a sua

      disposizione. Perciò invitava vivamente il popolo a non danneggiare la

      propria causa solo per un inutile pudore.

      

      72 Quando i consoli si accorsero che Scapzio non solo era ascoltato in

      silenzio, ma anche otteneva consenso, chiamando a testimoni gli dèi e gli

      uomini che si stava per commettere un'enorme ingiustizia, fecero venire i

      senatori più autorevoli. E andando con loro in giro tra le tribù,

      pregavano che, come giudici, non si macchiassero di una simile infamia e

      non dessero un esempio ancora peggiore risolvendo quella causa a loro

      vantaggio. Ammesso che fosse lecito a un giudice badare al proprio

      interesse, appropriandosi della terra contesa essi non venivano a

      guadagnare più di quanto in realtà perdevano, dato che si sarebbero

      alienati con un sopruso le simpatie degli alleati: la loro reputazione e

      la loro affidabilità avrebbero subito danni ben maggiori del prevedibile.

      Il fatto lo avrebbero riferito in patria gli inviati, si sarebbe

      divulgato, avrebbe raggiunto le orecchie di alleati e nemici, con dolore

      per i primi e gioia per i secondi. Credevano forse che i popoli confinanti

      ne avrebbero ritenuto responsabile Scapzio, un vecchio ciarlatano

      assembleare? Certo per questo aspetto Scapzio sarebbe diventato famoso, ma

      il popolo romano avrebbe fatto la figura del delatore per interesse e del

      rapinatore. E infatti quale giudice, nell'àmbito di una causa privata, era

      mai arrivato ad aggiudicare a se stesso l'oggetto della controversia?

      Neppure Scapzio in persona, pur avendo ormai superato ogni limite di

      decenza, sarebbe stato capace di tanto.

      Queste erano le cose che senatori e consoli si sgolavano a dire, ma

      l'avidità e Scapzio, che tale avidità aveva scatenato, ebbero la meglio.

      Le tribù chiamate al voto decisero che la fascia di terra era pubblica

      proprietà del popolo romano. Non si esclude che l'esito sarebbe stato il

      medesimo se altri fossero stati i giudici. Ma nel presente caso, la bontà

      della causa non attenuò per nulla l'infamia della sentenza, che non sembrò

      meno vergognosa e amara agli Aricini e agli Ardeati di quanto non lo fosse

      stata ai senatori romani. Il resto dell'anno trascorse quieto, senza

      disordini in città e all'esterno.

      

      LIBRO IV

      

      

      

      1 A questi uomini successero i consoli Marco Genucio e Gaio Curzio. Fu un

      anno difficile, sia in patria sia fuori. Infatti, all'inizio dell'anno, il

      tribuno della plebe Gaio Canuleio presentò una proposta di legge sul

      matrimonio tra patrizi e plebei, con la quale i patrizi pensavano si

      contaminasse il loro sangue e si sovvertissero i diritti gentilizi.

      Inoltre, fu suggerita - prima molto cautamente da parte dei tribuni -

      un'altra proposta in base alla quale sarebbe stato lecito che uno dei

      consoli fosse di estrazione plebea. Ma la cosa prese in séguito una tale

      consistenza da spingere ben nove tribuni a presentare una proposta di

      legge che garantiva al popolo la facoltà di nominare i consoli

      scegliendoli sia fra la plebe, sia tra i patrizi. E questi ultimi

      credevano che, se ciò fosse accaduto, non solo alla più alta carica

      avrebbero avuto accesso i più infimi, ma essa sarebbe stata del tutto

      tolta agli aristocratici per affidarla ai plebei. Perciò fu per i patrizi

      un grande sollievo sentire che il popolo di Ardea si era ribellato per

      l'infamia con la quale gli era stata portata via la terra, che i Veienti

      avevano messo a ferro e fuoco le campagne alla frontiera romana e che

      Volsci ed Equi stavano fremendo per la fortezza di Verrugine: i patrizi

      preferivano una guerra dall'esito magari funesto a una pace vergognosa.

      Perciò, esagerando ancor più queste notizie - per far cessare,

      nell'agitazione di tante guerre, le iniziative dei tribuni -, ordinano di

      organizzare le leve e di preparare la guerra e le armi, con il massimo

      impegno e, se possibile, con ancor maggiore sollecitudine di quella con

      cui erano state preparate sotto il console Tito Quinzio. Allora Gaio

      Canuleio, in poche frasi, dice ai senatori che i consoli, continuando a

      spaventare senza motivo, non sarebbero riusciti, né a distogliere la plebe

      dal pensiero delle nuove leggi, né a realizzare, finché lui era vivo, la

      leva militare, almeno non prima che la plebe avesse espresso il proprio

      voto sulle proposte di legge presentate da lui e dai suoi colleghi. Detto

      questo, convocò súbito l'assemblea.

      

      2 Nello stesso tempo i consoli istigavano il senato contro il tribuno, e

      il tribuno il popolo contro i consoli. Questi ultimi sostenevano che non

      era possibile tollerare più a lungo i colpi di testa dei tribuni: si era

      ormai arrivati a toccare il limite estremo e c'erano più focolai di guerra

      all'interno della città che all'esterno. E se adesso le cose stavano così,

      la colpa era tanto della plebe quanto del patriziato e tanto dei tribuni

      quanto dei consoli. In ogni paese si sviluppa col massimo incremento ciò

      che viene ricompensato: così, sia in pace che in guerra, si formano i

      buoni cittadini. Ma a Roma ciò che aveva maggiore successo erano le

      sedizioni: da sempre esse tornavano ad onore sia dei singoli che della

      moltitudine. Che ricordassero la maestà del senato quale l'avevano

      ricevuta dai loro padri e quale l'avrebbero consegnata ai figli, e come

      invece la plebe potesse vantarsi di aver accresciuto la propria autorità e

      importanza. Né si intravedeva una fine a questo, nemmeno per il futuro,

      finché le sedizioni avessero continuato ad aver fortuna e i loro autori

      avessero continuato a ricevere tanti riconoscimenti. Quali iniziative

      aveva preso Gaio Canuleio, e quanto importanti! Cercava di mescolare il

      sangue delle famiglie aristocratiche, di creare confusione negli auspici

      pubblici e privati, perché niente di puro, niente di incontaminato si

      salvasse, così che, soppressa ogni distinzione, nessuno potesse essere in

      grado di riconoscere se stesso e i suoi. Perché quale altro effetto

      possono avere i matrimoni misti, se non la diffusione di accoppiamenti,

      come tra animali, di patrizi e plebei? Così i figli nascendo non avrebbero

      saputo qual era il loro sangue, quale il loro culto; sarebbero stati per

      metà patrizi e per metà plebei, senza trovare accordo neppure dentro di

      loro. Ma che fosse completamente sconvolto l'ordine delle cose divine e di

      quelle umane sembrava ancora poco: i sobillatori del volgo puntavano già

      al consolato. E mentre in un primo tempo avevano cercato di ottenere solo

      coi discorsi che uno dei consoli fosse plebeo, ora presentavano la

      proposta che fosse il popolo a eleggere, a suo piacimento, i consoli tra i

      patrizi o tra i plebei. E senza dubbio avrebbero sempre eletto tra la

      plebe i più facinorosi: dunque sarebbero diventati consoli dei Canulei e

      degli Icili. Ma Giove Ottimo Massimo non avrebbe permesso che una carica

      investita di regale maestà cadesse così in basso. Essi sarebbero morti

      mille volte piuttosto di tollerare che si commettesse una simile infamia.

      Erano sicurissimi che anche i loro antenati, se avessero potuto prevedere

      che, assecondando ogni richiesta della plebe, l'avrebbero resa non più

      mite ma solo più dura, e che alle prime concessioni avrebbero fatto

      séguito nuove e sempre più ingiuste pretese, all'inizio avrebbero

      accettato di affrontare qualsiasi scontro piuttosto che subire

      l'imposizione di quelle leggi. Ma siccome avevano ceduto allora sulla

      questione dei tribuni, si dovette cedere altre volte. I cedimenti non

      potevano aver fine se nella stessa città continuavano a coesistere tribuni

      della plebe e patrizi: bisognava eliminare quella classe o quella

      magistratura; bisognava opporsi - meglio tardi che mai - all'arroganza e

      alla temerarietà. Com'era possibile che, dopo aver fatto scoppiare le

      guerre con i vicini a forza di seminare zizzania, avessero poi impedito

      alla città di armarsi per difendersi dalle guerre che loro avevano fatto

      scoppiare? O ancora che, dopo aver quasi invitato i nemici, in séguito non

      avessero permesso che si arruolassero gli eserciti per affrontarli? E che

      Canuleio fosse così sfrontato da dichiarare in senato che se i patrizi

      avessero impedito l'approvazione delle leggi da lui proposte, come se

      fossero quelle di un trionfatore, avrebbe impedito la realizzazione della

      leva militare? Cos'altro era quella se non la minaccia di tradire il

      proprio paese, accettando che subisse un attacco e finisse in mani

      nemiche? Quelle parole sì sarebbero state un bell'incoraggiamento, ma non

      per la plebe, per Volsci, Equi e Veienti; non avrebbero forse sperato di

      salire fino sul Campidoglio e sulla cittadella con Canuleio alla testa? Se

      insieme ai diritti e alla dignità i tribuni non avevano sottratto ai

      patrizi anche il coraggio, allora i consoli erano pronti a guidare la

      lotta contro le scelleratezze dei concittadini, prima ancora che contro le

      armi dei nemici.

      

      3 Proprio mentre in senato era in pieno svolgimento il dibattito su questi

      temi, Canuleio pronunciò questo discorso in difesa delle sue proposte di

      legge e contro i consoli: «Quanto i patrizi vi odino, o Quiriti, e come vi

      considerino indegni di vivere accanto a loro all'interno delle mura di una

      stessa città, a esser sincero mi sembra di averlo già rilevato più volte

      in passato. E ora più che mai, poiché i patrizi dimostrano un livore senza

      precedenti nei confronti delle nostre proposte di legge; ma noi cosa

      facciamo con esse se non avvertirli che siamo loro concittadini e che, pur

      non avendo pari ricchezze, abitiamo nella medesima patria? Con uno dei

      provvedimenti chiediamo il diritto a quel matrimonio che si suole

      concedere ai popoli confinanti e agli stranieri; noi abbiamo assicurato

      anche ai nemici vinti la cittadinanza, che è ben più del diritto al

      matrimonio. Con il secondo non chiediamo nulla di nuovo, ma ci limitiamo a

      esigere e rivendicare un diritto del popolo, e cioè che il popolo romano

      possa eleggere i candidati che preferisce. Ma allora per quali ragioni i

      patrizi hanno deciso di mettere sottosopra cielo e terra? E perché mai

      poco fa io sono stato quasi assalito in senato? Perché hanno dichiarato di

      non voler limitare il ricorso alla forza, minacciando di violare la nostra

      sacrosanta autorità? Se al popolo romano fosse garantita la libertà di

      voto, così che possa affidare il consolato a chi desidera, e se anche il

      plebeo non fosse privato della speranza di assurgere ai massimi onori -

      qualora ne fosse degno -, credete che la stabilità di questo nostro paese

      risulterebbe compromessa? È la fine per lo Stato romano? Che un plebeo

      possa diventare console, equivale forse a dire che un console diventerà un

      liberto o un servo? Ma vi rendete conto in mezzo a quanto disprezzo

      vivete? Se solo potessero, vi porterebbero via anche parte della luce del

      giorno! Non sopportano che respiriate, che parliate e che abbiate forma

      umana, e arrivano - pensate un po'! - a definire sacrilega l'elezione di

      un console plebeo. Ora, ditemi, anche se noi del popolo non siamo ammessi

      alla consultazione dei Fasti e dei libri tenuti dai pontefici, forse per

      questo ignoriamo quello che anche gli stranieri sanno, e cioè che i

      consoli presero il posto dei re e che non hanno alcun diritto o autorità

      che non siano già stati dei re? Pensate che nessuno abbia sentito parlare

      di Numa Pompilio, che, pur non essendo patrizio e nemmeno cittadino

      romano, fu chiamato dalle campagne della Sabina per volontà del popolo e

      regnò su Roma col beneplacito dell'aristocrazia? Oppure che in séguito

      Lucio Tarquinio, il quale non apparteneva a una stirpe romana né italica,

      figlio di Demarato di Corinto e immigrato da Tarquinia, fu eletto re,

      anche se i figli di Anco erano ancora vivi? O che dopo di lui Servio

      Tullio, figlio di una prigioniera di Cornicolo, di padre ignoto e con una

      schiava per madre, riuscì a reggere il regno grazie soltanto al suo

      ingegno e al suo valore? Per non parlare di Tito Tazio, associato al

      potere da Romolo in persona, il padre di questa città! Quando non si

      disdegnava alcuna stirpe nella quale brillasse qualche virtù, la potenza

      di Roma continuò a crescere. E ora non dovrebbe andarvi a genio un console

      plebeo, quando i nostri antenati non rifiutarono re venuti da fuori e

      neppure dopo la cacciata dei re la città chiuse le porte alla virtù

      straniera? Prendete la famiglia Claudia che veniva dai Sabini: dopo la

      cacciata dei re, non solo l'abbiamo accolta in città, ma l'abbiamo anche

      inclusa nel novero dei patrizi. Dunque uno straniero può diventare prima

      patrizio e poi console, e invece un cittadino romano, se proviene dalla

      plebe, sarà privato della speranza di arrivare al consolato? Dobbiamo

      forse ritenere impossibile che un uomo forte e coraggioso in pace e in

      guerra, simile a Numa, a Lucio Tarquinio e a Servio Tullio, sia di

      estrazione plebea? Oppure, se ve ne fosse uno, gli impediremo di arrivare

      al timone dello Stato e dovremo avere consoli simili ai decemviri - i più

      turpi tra gli uomini, pur provenendo tutti dai patrizi -, invece che

      simili ai migliori tra i re, anche se venuti dal nulla?

      

      4 Ma, in realtà, dai tempi della cacciata dei re nessun plebeo è mai stato

      console. E allora? Non si deve introdurre nessuna novità? E ciò che non è

      ancora stato fatto - e in un paese recente le cose non ancora fatte sono

      certo moltissime - non bisogna farlo nemmeno se è utile? Ai tempi del

      regno di Romolo non esistevano né pontefici né àuguri: fu Pompilio a

      crearli. Non c'era censo né divisione in centurie basata sul censo: li

      introdusse Servio Tullio. Non c'erano mai stati dei consoli: furono creati

      dopo la cacciata dei re. Il nome e il potere del dittatore non c'erano:

      cominciarono a esserci al tempo dei nostri padri. Non esistevano né

      tribuni della plebe né edili, né questori: si stabilì di averne. Nell'arco

      degli ultimi dieci anni, abbiamo eletto decemviri incaricati di redigere

      le leggi e poi li abbiamo allontanati dalla repubblica. Chi potrebbe

      dubitare che, in una città fondata per durare in eterno e che cresce

      smisuratamente, si debbano istituire nuovi poteri, nuovi sacerdoti e nuovi

      diritti delle genti e dei singoli uomini? Questo stesso divieto di

      contrarre matrimoni tra patrizi e plebei non lo introdussero i decemviri

      qualche anno or sono, causando pessimi effetti sulla comunità e

      danneggiando ingiustamente la plebe? Esiste forse affronto più grande e

      infamante di questo che considera una parte della popolazione indegna del

      matrimonio, come se fosse infetta? Che cos'è questa se non una

      segregazione all'interno delle mura della propria città? I patrizi fanno

      di tutto per evitare che intrecciamo rapporti con loro di affinità e di

      parentela, non vogliono che si mescoli il sangue. E che? Se un simile

      contatto è in grado di contaminare questa vostra nobiltà - che la maggior

      parte di voi, date le origini albane e sabine, non possiede per lignaggio

      o per sangue, ma per essere stata cooptata nel patriziato, o scelta dai re

      o per volontà del popolo dopo la cacciata dei re -, non potevate

      mantenerla intatta con accorgimenti privati, non prendendo in moglie donne

      plebee e impedendo che le vostre figlie e sorelle sposassero uomini

      estranei all'aristocrazia? Nessun plebeo violenterebbe mai una ragazza

      patrizia: è una libidine tipica dei nobili. Nessuno costringerebbe un

      altro a stipulare un contratto matrimoniale contro la sua volontà. Ma

      impedire con la legge matrimoni tra patrizi e plebei, annullare quelli già

      celebrati, questo sì che è un vero affronto alla plebe! Perché allora non

      proponete che non ci sia diritto di matrimonio tra poveri e ricchi? Ciò

      che sempre e dovunque si è lasciato alla decisione privata - ossia che una

      donna andasse in sposa nella casa dove si era convenuto e che l'uomo

      potesse prendere moglie dalla casa in cui aveva stretto l'accordo - voi

      volete assoggettarlo ai vincoli di una legge dispotica, per creare una

      frattura all'interno della società, spaccando in due lo Stato. Perché non

      decretate che il plebeo non possa stare accanto al patrizio, non possa

      camminare per la stessa strada, non possa sedersi alla stessa tavola né

      trovarsi nello stesso foro? Che differenza ci può mai essere se un

      patrizio sposa una plebea o un plebeo una patrizia? Contro quale diritto

      si andrebbe? I figli seguono naturalmente i padri. Volendoci unire in

      matrimonio con voi, non chiediamo altro che far parte del consesso umano e

      civile, e voi non avete nessuna buona ragione per impedircelo, a meno che

      vi piaccia gareggiare a chi ci oltraggia e ci umilia di più.

      

      5 Ma infine il supremo potere appartiene al popolo romano o a voi? La

      cacciata dei re ha fruttato la tirannide a voi o un'uguale libertà a

      tutti? Al popolo romano, se questo è il suo desiderio, deve essere

      consentito di votare una legge, oppure, ogni qualvolta verrà presentata

      una nuova proposta, voi per reazione indirete una leva militare? E non

      appena io, in qualità di tribuno, chiamerò le tribù al voto, tu súbito, in

      qualità di console, costringerai i più giovani a prestare il giuramento

      militare e li porterai al campo, distribuendo minacce alla plebe e ai suoi

      tribuni? Che cosa succederebbe se non aveste già sperimentato per ben due

      volte quanto poco valgano queste minacce di fronte al consenso unanime

      della plebe? È - vero che avete evitato di scontrarvi per venire incontro

      alle nostre esigenze, oppure non si è combattuto perché la parte più forte

      era anche la più moderata? Non ci sarà scontro neppure adesso, o Quiriti:

      i patrizi continueranno sempre a saggiare il vostro coraggio, ma non

      arriveranno mai a mettere alla prova la vostra forza. Perciò, o consoli,

      la plebe è pronta ad affrontare queste guerre - vere o false che siano -,

      solo se voi, ripristinato il diritto al matrimonio, finalmente riunirete

      questa città; se i plebei potranno fondersi, unirsi e mescolarsi con voi

      in base a legami privati di parentela; se ad uomini valorosi e forti sarà

      data la speranza di accedere alle cariche pubbliche; se sarà consentito a

      tutti di partecipare alla gestione della cosa pubblica; se, uguali nella

      libertà, si avrà l'opportunità di governare e di obbedire a turno, secondo

      l'avvicendamento annuale delle magistrature. Se qualcuno dovesse

      respingere queste condizioni, voi consoli potrete parlare di guerre e

      moltiplicarle coi vostri discorsi: nessuno di noi andrà a iscriversi,

      nessuno imbraccerà le armi, nessuno combatterà per dei padroni arroganti,

      coi quali non ha nulla in comune: né riconoscimenti nella vita pubblica,

      né matrimoni in quella privata.»

      

      6 Anche i consoli si erano presentati a parlare in assemblea e qui, dopo

      interminabili interventi, il dibattito si trasformò in un alterco. Al

      tribuno che chiedeva perché mai un plebeo non dovesse diventare console,

      Curiazio - forse giustamente, ma poco opportunamente date le circostanze

      -, rispose che nessun plebeo aveva il diritto di prendere gli auspici e

      che per questo i decemviri avevano vietato i matrimoni misti, perché gli

      auspici non fossero turbati in caso di discendenza incerta. Di fronte a

      queste parole, presa da grande indignazione, la plebe s'infiammò, perché

      le si negava la possibilità di trarre gli auspici, come se fosse in odio

      agli dèi immortali. Siccome la plebe, che aveva trovato nel tribuno un

      difensore accanito della causa comune, gareggiava con lui in ostinazione,

      lo scontro si concluse solo quando i patrizi cedettero, accettando

      finalmente una proposta di legge sul diritto di matrimonio; essi erano

      pienamente convinti che in tal modo i tribuni avrebbero abbandonato

      definitivamente la questione dei consoli plebei o almeno l'avrebbero

      rimandata alla fine della guerra, e che la plebe, soddisfatta per il

      diritto di matrimonio, sarebbe stata disposta ad arruolarsi.

      Essendo cresciuto molto il prestigio di Canuleio per la vittoria sui

      patrizi e per il favore della plebe, gli altri tribuni, incoraggiati alla

      lotta, si impegnano con tutte le forze per far passare la loro proposta e

      impediscono la leva, benché ogni giorno di più prendano consistenza le

      voci di guerra. I consoli, non potendo per il veto dei tribuni far

      prendere deliberazioni al senato, tenevano riunioni private con i membri

      più autorevoli. Era chiaro che sarebbe stato inevitabile lasciare la

      vittoria o ai nemici o ai concittadini. Tra gli ex-consoli soltanto

      Valerio e Orazio non prendevano parte a quelle riunioni. Gaio Claudio

      parlava di armare i consoli contro i tribuni, mentre i due Quinzi,

      Cincinnato e Capitolino, erano assolutamente contrari a uccidere e usare

      violenza contro coloro che, in virtù del patto stipulato con la plebe,

      avevano dichiarato sacri e inviolabili. A séguito di queste riunioni si

      arrivò ad accordare l'elezione di tribuni militari con potere consolare,

      da scegliersi indifferentemente tra patrizi e plebei, mentre nulla doveva

      essere mutato per quanto riguardava l'elezione dei consoli. Di questo

      furono contenti i tribuni e la plebe. Vengono quindi indetti i comizi per

      l'elezione di tre tribuni con potere consolare. Non appena ne fu

      annunciata la data, tutti quelli che avevano detto o fatto qualcosa di

      sedizioso (e soprattutto gli ex-tribuni), cominciarono a sollecitare la

      gente e, vestiti col bianco dei candidati, andarono in giro per tutto il

      foro a caccia di voti. E lo fecero per scoraggiare i patrizi che, in primo

      luogo non avevano alcuna speranza di raggiungere quella carica per via

      dell'irritazione della plebe, e poi erano indignati all'idea di dover

      dividere la magistratura con loro. Ma alla fine furono costretti dai loro

      membri più autorevoli a scendere in gara per non dar l'impressione di aver

      rinunciato al controllo della cosa pubblica. L'esito delle elezioni

      dimostrò come sia diverso il comportamento degli uomini quando lottano per

      la libertà e l'onore rispetto a quando giudicano a mente fredda gli

      eventi, una volta deposte le contese. Il popolo infatti elesse tre

      tribuni, tutti patrizi, bastandogli che l'opinione dei plebei fosse stata

      presa in considerazione. Ma oggi dove si potrebbe trovare in un solo

      individuo quel senso di equità, quella moderazione e quella nobiltà

      d'animo che allora erano nell'intera popolazione?

      

      7 Nell'anno 310 dalla fondazione di Roma, per la prima volta, entrano in

      carica, al posto dei consoli, i tribuni militari: si chiamavano Aulo

      Sempronio Atratino, Lucio Atilio e Tito Clelio. Durante il loro mandato,

      la concordia interna garantì la pace anche all'esterno. Alcuni autori,

      sulla base di una guerra con Veio venutasi ad aggiungere a quelle con

      Volsci ed Equi nonché alla ribellione degli Ardeati, sostengono che i tre

      tribuni militari furono eletti proprio perché i due consoli non sarebbero

      stati in grado di far fronte contemporaneamente a tanti conflitti, e non

      fanno alcun accenno alla proposta di legge sull'elezione di consoli

      plebei, pur menzionando però che i tribuni ebbero l'autorità e le insegne

      dei consoli. In ogni caso, la nuova magistratura non poggiava ancora su

      basi sicure perché, a soli tre mesi di distanza dal giorno

      dell'investitura, i tre dovettero rinunciare alla carica per decreto degli

      àuguri, come se la loro nomina non fosse regolare, in quanto Gaio

      Curiazio, che aveva presieduto alle elezioni, non aveva scelto il luogo

      giusto per la tenda augurale.

      Da Ardea arrivarono a Roma ambasciatori per lamentarsi del torto subito;

      facevano però capire che, se fosse stata loro restituita la terra,

      avrebbero continuato a essere alleati e amici dei Romani. Il senato

      rispose loro di non avere la facoltà di abrogare una sentenza del popolo,

      e non soltanto per la mancanza di precedenti e di autorità specifica, ma

      anche a causa dell'armonia tra le classi: se gli Ardeati volevano

      aspettare l'occasione propizia affidando al senato la facoltà di decidere

      il modo con cui ripagarli dell'offesa subita, un giorno si sarebbero

      rallegrati di aver controllato il proprio risentimento e avrebbero capito

      quanto ai senatori stesse a cuore che non si commettesse alcuna

      ingiustizia nei loro confronti, e che quella che già c'era stata non

      durasse a lungo. Così, dopo aver assicurato che avrebbero riferito la cosa

      nei particolari, gli ambasciatori vennero cortesemente congedati.

      Siccome la repubblica era priva di magistrature curuli, i patrizi si

      riunirono e nominarono un interré. L'interregno durò parecchi giorni,

      perché non si riusciva a decidere se si dovessero nominare i consoli o i

      tribuni militari. L'interré e il senato volevano che si eleggessero i

      consoli, e invece i tribuni della plebe e la plebe volevano i tribuni.

      Ebbero la meglio i senatori, sia perché la plebe, che era disposta a dare

      entrambe le cariche ai patrizi, si astenne dall'inutile lotta, sia perché

      i membri più autorevoli della plebe preferivano i comizi dai quali erano

      esclusi come candidati a quelli in cui potevano essere lasciati da parte

      come indegni. Anche i tribuni della plebe abbandonarono una lotta per loro

      inutile per procurarsi un titolo di merito di fronte ai senatori più

      eminenti. L'interré Tito Quinzio Barbato nomina quindi consoli Lucio

      Papirio Mugillano e Lucio Sempronio Atratino. Durante il loro consolato

      venne rinnovato il trattato con gli Ardeati. Proprio questo episodio è

      l'unica prova che essi furono consoli in quell'anno, visto che non se ne

      trova menzione negli antichi annali né nelle liste dei magistrati.

      Personalmente credo che, essendoci i tribuni militari all'inizio

      dell'anno, i nomi dei consoli eletti al loro posto non sono stati

      registrati, come se i tribuni fossero rimasti in carica per l'intera

      durata dell'anno. Licinio Macro attesta che i nomi di quei consoli erano

      sia nel trattato con gli Ardeati sia nei libri lintei conservati nel

      tempio di Giunone Moneta. La situazione rimase tranquilla sia in città che

      all'esterno, nonostante le frequenti minacce delle popolazioni dei

      dintorni.

      

      8 Sia che ci fossero stati solo tribuni, sia che i tribuni fossero stati

      successivamente sostituiti da consoli, a quell'anno ne seguì un altro in

      cui si ebbero i consoli Marco Geganio Macerino, per la seconda volta, e

      Tito Quinzio Capitolino, per la quinta. Quello stesso anno vide l'avvio

      della censura, carica modesta in origine, ma che acquistò in séguito un

      tale prestigio da sottoporre alla propria autorità il controllo dei

      costumi e della condotta dei Romani, così come il giudizio sulla

      rettitudine o meno del senato e delle centurie dei cavalieri. Ma alla

      discrezione di chi deteneva questa carica erano affidati anche il diritto

      decisionale sulle proprietà pubbliche e private e la cura

      dell'approvvigionamento alimentare del popolo romano. La censura si era

      resa necessaria non solo perché non si poteva più rimandare il censimento

      che da anni non veniva più fatto, ma anche perché i consoli, incalzati

      dall'incombere di tante guerre, non avevano il tempo per dedicarsi a

      questo ufficio. Fu presentata in senato una proposta: l'operazione,

      laboriosa e poco pertinente ai consoli, richiedeva una magistratura

      apposita, alla quale affidare i compiti di cancelleria e la custodia dei

      registri e che doveva stabilire le modalità del censimento. E pur

      trattandosi di una carica modesta, i senatori la accolsero contenti perché

      avrebbe incrementato il numero di magistrati patrizi all'interno della

      repubblica e inoltre, com'è mia opinione per altro confermata da quello

      che accadde poi, perché pensavano che in poco tempo il prestigio delle

      persone che la detenevano avrebbe aggiunto alla carica autorità e

      rispettabilità. E anche i tribuni, considerando quella magistratura più

      necessaria che onorifica - come infatti era in quel tempo -, per evitare

      un inopportuno ostruzionismo in questioni di poco conto, non fecero alcuna

      opposizione. Siccome i cittadini più autorevoli disdegnarono la carica, il

      popolo decretò di affidare il censimento a Papirio e a Sempronio (sul

      consolato dei quali persistono dubbi), in maniera tale che con quella

      magistratura potessero integrare un consolato incompleto. Dalla loro

      funzione presero il nome di censori.

      

      9 Mentre a Roma succedevano queste cose, arrivarono da Ardea ambasciatori

      a implorare aiuto per la loro città sull'orlo della rovina, in nome

      dell'antichissima alleanza e del trattato rinnovato di recente. Infatti

      non godevano più della pace, saggiamente mantenuta invece con il popolo

      romano, a causa di una guerra civile originata, per quel che se ne sa,

      dalla rivalità tra le fazioni, che, per buona parte dei popoli, furono e

      saranno ben più esiziali delle guerre esterne, delle carestie, delle

      pestilenze, e di tutte le altre cose, calamità e pubblici disastri che

      vengono attribuiti all'ira divina. Una ragazza di origini plebee, famosa

      per la sua bellezza, aveva due giovani pretendenti: uno era della stessa

      condizione e contava sull'appoggio dei tutori di lei, anch'essi della

      stessa classe, l'altro, nobile, era attratto esclusivamente dalla

      bellezza. La causa di quest'ultimo era appoggiata dal favore degli

      ottimati, e così la lotta tra fazioni entrò anche nella casa della

      ragazza. La madre preferiva il nobile perché voleva per sua figlia il più

      sontuoso dei matrimoni; i tutori, invece, pensando anche in quella

      circostanza in termini di parte, sostenevano il pretendente plebeo.

      Siccome la cosa non poté essere risolta tra le mura domestiche, si ricorse

      al tribunale. Dopo aver ascoltato le ragioni della madre e dei tutori, i

      magistrati stabilirono che spettasse alla madre decidere ciò che riteneva

      più giusto riguardo alle nozze. Ma la violenza ebbe il sopravvento. I

      tutori infatti, dopo aver arringato in pieno foro gli uomini della loro

      parte, mettendo l'accento sull'iniquità del verdetto, formarono un gruppo

      e rapirono la ragazza dalla casa della madre. Contro di loro mosse una

      schiera di patrizi ancora più inferociti e guidati dal giovane fuori di sé

      per l'oltraggio subito. Lo scontro fu durissimo. La plebe respinta - in

      niente simile alla plebe romana - esce armata dalla città, occupa un colle

      e di lì opera incursioni nelle terre dei patrizi, le mette a ferro e

      fuoco. La plebe si prepara ad assediare la città: l'intera corporazione

      degli artigiani, compresi quelli che fino ad allora non avevano preso

      parte agli scontri, era stata richiamata dalla speranza di bottino. E non

      mancava nessuno degli orrori bellici, come se la città fosse stata

      contagiata dalla rabbia dei due giovani che cercavano nozze funeste dalla

      rovina del loro paese. A nessuna delle due parti parve che in patria ci

      fossero già abbastanza armi e guerra: gli ottimati chiamarono i Romani in

      aiuto della città assediata, i plebei si rivolsero ai Volsci per

      conquistare Ardea con il loro sostegno. I Volsci comandati da Equo Cluilio

      arrivarono per primi ad Ardea e costruirono una trincea davanti alle mura

      nemiche. Quando a Roma arrivò la notizia, il console Marco Geganio partì

      immediatamente con l'esercito e, giunto a tre miglia di distanza dal

      nemico, scelse un luogo adatto per porre l'accampamento; poi, siccome

      stava rapidamente calando la notte, diede ordine ai soldati di riposarsi.

      Alle tre di notte, si mise in movimento e, iniziata la costruzione di una

      trincea, la completò così velocemente che al sorgere del sole i Volsci si

      resero conto di essere stati circondati dai Romani con una fortificazione

      più solida di quella da loro costruita intorno alla città. In un settore

      il console aveva poi aggiunto un terrapieno collegato alle mura di Ardea,

      in maniera tale che i suoi potessero andare e venire dalla città al campo.

      

      10 Il comandante dei Volsci, che fino ad allora aveva sfamato i suoi col

      frumento preso giorno per giorno razziando le campagne circostanti e non

      con scorte accumulate in precedenza, quando, circondato dal vallo,

      all'improvviso si trovò del tutto privo di risorse, invitò il console a

      colloquio e gli disse che, se i Romani erano lì per liberare Ardea

      dall'assedio, lui avrebbe portato via i Volsci. Il console replicò che i

      vinti devono subire le condizioni e non dettarle. I Volsci erano venuti ad

      assediare gli alleati del popolo romano di loro spontanea volontà, però

      ora non potevano andarsene nella stessa maniera. Ordinò che consegnassero

      il comandante e che deponessero le armi, dichiarandosi vinti e obbedienti

      ai suoi ordini. In caso contrario lui sarebbe stato un nemico pericoloso

      sia per chi se ne andava, sia per chi rimaneva, deciso com'era a riportare

      a Roma una vittoria sui Volsci piuttosto che una pace incerta. I Volsci,

      non avendo altre vie d'uscita, tentarono l'unica cosa che restava da fare,

      lo scontro armato. Siccome, oltre a tutti gli altri svantaggi, si

      trovavano in un luogo poco adatto al combattimento e ancor meno alla fuga,

      vennero massacrati da ogni parte. Abbandonata la lotta per implorare

      invece salvezza, dopo aver consegnato il comandante e cedute le armi,

      furono fatti passare sotto il giogo e quindi, con addosso un solo

      indumento per ciascuno, rimandati in patria carichi di vergogna per la

      disfatta. Accampatisi non lontano da Tuscolo, inermi com'erano, furono

      sopraffatti dai Tuscolani, che da lungo tempo li odiavano. Così dura fu la

      punizione che quasi non rimasero superstiti a riferire la notizia del

      disastro. Ad Ardea il console romano ristabilì l'ordine sconvolto dalla

      sedizione, facendo decapitare i capi e confiscando i loro beni a beneficio

      dell'erario degli Ardeati. Questi pensavano che il grande servigio

      prestato loro dal popolo romano avesse riparato l'affronto del verdetto

      relativo alla terra contesa; ciò nonostante al senato di Roma sembrava che

      ci fosse ancora qualcosa da fare per cancellare il ricordo di quella

      avidità dello Stato romano. Il console tornò a Roma in trionfo, facendo

      camminare davanti al suo carro il comandante dei Volsci Cluilio e mettendo

      in mostra le spoglie strappate all'esercito nemico che, disarmato, era

      stato da lui costretto a passare sotto il giogo.

      Il console Quinzio, rimasto in patria, riuscì ad eguagliare, cosa non

      facile, i riconoscimenti ottenuti dal collega in campo militare: ebbe cura

      della pace e della concordia interne, regolando i diritti dei cittadini

      dal ceto più umile al più alto in modo tale che i patrizi lo considerarono

      un console energico e i plebei abbastanza moderato. E anche nei rapporti

      coi tribuni ricorse alla sua autorità piuttosto che allo scontro aperto.

      Cinque consolati esercitati sempre nello stesso modo e tutta una vita

      degna di un console facevano sì che l'uomo imponesse maggiore rispetto

      della carica. Perciò, durante quel consolato, non si fece alcun accenno a

      tribuni militari.

      

      11 Furono eletti consoli Marco Fabio Vibulano e Postumio Ebuzio Corniceno.

      Questi due magistrati si rendevano conto di succedere a uomini che si

      erano coperti di gloria con imprese compiute in patria e fuori, e

      soprattutto giudicavano che l'anno trascorso sarebbe rimasto memorabile,

      per i vicini alleati e per i nemici, poiché con tanta sollecitudine si era

      intervenuti in soccorso degli Ardeati in un momento per loro difficile; a

      maggior ragione i due consoli avevano intenzione di impegnarsi per

      cancellare completamente dall'animo degli uomini l'infamia della sentenza

      che aveva tolto agli Ardeati il loro territorio. Proprio per questo fecero

      approvare dal senato un decreto in base al quale, poiché la popolazione di

      Ardea era stata decimata dalla rivolta intestina, sarebbero stati inviati

      dei coloni per difenderla dai Volsci. Questo decreto fu registrato

      pubblicamente affinché al popolo e ai tribuni sfuggisse il piano

      architettato per annullare la sentenza. Ma i senatori avevano tra loro

      convenuto di iscrivere tra i coloni un numero più cospicuo di Rutuli che

      di Romani e di non spartire alcuna terra se non quella già in passato

      sottratta in séguito alla vergognosa decisione. Infine avevano stabilito

      che a nessun romano doveva andare anche una sola zolla, prima che tutti i

      Rutuli avessero avuto quanto spettava loro. Così la terra tornò agli

      Ardeati. In qualità di triumviri preposti alla fondazione della colonia di

      Ardea vennero designati Agrippa Menenio, Tito Cluilio Siculo e Marco

      Ebuzio Elva. Questi, oltre a dover svolgere un cómpito per nulla popolare,

      non solo offesero la plebe assegnando agli alleati la terra che il popolo

      romano aveva già sancito essere di sua proprietà, ma non riuscirono

      nemmeno a incontrare il favore dei patrizi più eminenti perché non avevano

      compiuto favoritismi. E dunque, avendoli i tribuni citati in giudizio di

      fronte al popolo, evitarono queste vessazioni, rimanendo nella colonia che

      rappresentava la migliore testimonianza della loro integrità e della loro

      giustizia.

      

      12 Ci fu pace in città e all'esterno in quell'anno e in quello successivo,

      durante il consolato di Gaio Furio Paculo e di Marco Papirio Crasso. In

      quell'anno furono celebrati i giochi promessi dai decemviri a séguito di

      un decreto del senato, ai tempi della secessione dei plebei dai patrizi.

      Petelio cercò invano di far scoppiare disordini: egli era stato nominato

      di nuovo tribuno della plebe, preannunziando quel minaccioso programma, ma

      non riuscì a ottenere che i consoli in senato proponessero di assegnare le

      terre alla plebe. E quando, dopo uno scontro accesissimo, ottenne che si

      consultassero i senatori per sapere se si dovevano tenere comizi per

      eleggere i consoli o i tribuni, fu deciso di eleggere i consoli. Erano

      oggetto di scherno le minacce del tribuno, di impedire la leva, perché i

      popoli confinanti se ne stavano quieti e non c'era bisogno né di fare la

      guerra, né di prepararla.

      A questo periodo di tranquillità seguì un anno, quello del consolato di

      Proculo Geganio Macerino e di Lucio Menenio Lanato, caratterizzato da

      molte morti e da notevoli pericoli, da rivolte, carestia; allettati da

      elargizioni, quasi si rischiò di finire sotto il giogo della monarchia.

      Mancò solo una guerra esterna: se essa fosse venuta ad aggravare la

      situazione, forse non sarebbe bastato l'aiuto di tutti gli dèi per

      resistere. Tutti i mali cominciarono con una spaventosa carestia, dovuta o

      all'annata poco propizia al raccolto o all'abbandono delle campagne

      avvenuto per l'attrattiva esercitata dalle assemblee e dalla vita

      cittadina: vengono infatti riportate entrambe le cause. I patrizi

      accusavano la plebe d'indolenza, mentre i tribuni della plebe accusavano

      ora di disonestà, ora d'incuria i consoli. Infine, senza incontrare

      l'opposizione del senato, i tribuni spinsero la plebe a eleggere prefetto

      dell'annona Lucio Minucio il quale, in quella magistratura, doveva avere

      più successo nella salvaguardia della libertà che nell'esercizio delle sue

      funzioni, anche se alla fine ottenne gratitudine non immeritata e gloria

      per aver fatto calare il prezzo del grano. Egli, nonostante avesse mandato

      per mare e per terra ambascerie ai paesi confinanti, non era riuscito a

      migliorare la situazione annonaria, fatta eccezione per una modesta

      quantità di frumento giunta dall'Etruria. Perciò era tornato a distribuire

      lo scarso grano di cui disponeva, costringendo la gente a dichiarare le

      scorte di frumento e a vendere la quantità che eccedeva i bisogni di un

      mese. Diminuì la razione giornaliera degli schiavi, incriminò i mercanti

      di frumento, esponendoli alla rabbia popolare. Solo che, con i suoi metodi

      da inquisitore, invece di contenere la carestia, la rivelò a tutti, e il

      risultato fu che molti plebei, perduta ogni speranza, dopo essersi coperti

      il capo, si buttarono nel Tevere piuttosto che soffrire continuando a

      vivere.

      

      13 Allora Spurio Melio, che apparteneva all'ordine equestre ed era molto

      ricco per quei tempi, prese un'iniziativa utile di per sé, ma di pessimo

      esempio e ispirata da un disegno ancora peggiore. Infatti, avendo a sue

      spese comprato grano in Etruria grazie all'interessamento di amici e

      clienti - questa iniziativa credo che abbia ostacolato i tentativi dello

      Stato per alleviare la carestia - ordinò di distribuire frumento

      gratuitamente. Così, ammirato ed esaltato oltre il limite consentito a un

      privato cittadino, ovunque andasse si trascinava dietro la plebe sedotta

      dalla sua generosità; le aspettative e il favore della plebe erano una

      garanzia quasi certa per il conseguimento del consolato. Ma egli - l'animo

      umano non è mai sazio di ciò che la fortuna gli promette - cominciò ad

      aspirare a traguardi ancora più alti e irraggiungibili. Siccome anche il

      consolato avrebbe dovuto strapparlo all'opposizione dei senatori, iniziò a

      pensare al regno: infatti soltanto il trono sarebbe stato una ricompensa

      adeguata alla grandiosità dei suoi progetti e alla dura fatica che avrebbe

      dovuto sostenere. I comizi per l'elezione dei consoli erano ormai alle

      porte e questa scadenza lo sorprese quando i suoi piani non erano ancora

      completi né sufficientemente perfezionati. Fu eletto console per la sesta

      volta Tito Quinzio Capitolino, un uomo davvero poco favorevole a chi aveva

      intenzioni rivoluzionarie. Come collega gli fu assegnato Agrippa Menenio

      detto Lanato. Lucio Minucio fu o rieletto prefetto dell'annona, oppure gli

      venne affidato l'incarico per un periodo indeterminato, fino a quando la

      situazione lo richiedesse. Nient'altro infatti risulta, se non che il suo

      nome è registrato nei libri lintei nella lista dei magistrati, in qualità

      di prefetto dell'annona per entrambi gli anni. Questo Minucio, che

      ufficialmente esercitava le stesse funzioni che Melio esercitava in

      privato (e il medesimo tipo di individui frequentava le case dell'uno e

      dell'altro), denunciò al senato quello che aveva scoperto: che si

      raccoglievano armi a casa di Melio, che egli vi teneva riunioni segrete e

      che sicuramente progettava di restaurare la monarchia. Il momento

      dell'azione non era stato ancora deciso, ma tutto il resto era già stato

      convenuto: col denaro erano stati corrotti i tribuni perché tradissero la

      libertà e cómpiti specifici erano stati assegnati ai capipopolo. Quanto a

      lui, aveva denunciato il complotto forse più tardi di quel che la

      sicurezza avrebbe richiesto, per non dare informazioni approssimative o

      infondate. Dopo aver sentito le parole di Minucio, i senatori più

      influenti rimproverarono i consoli dell'anno precedente per aver tollerato

      quelle elargizioni e quelle riunioni della plebe in abitazioni private; ai

      consoli appena eletti rimproverarono di aver aspettato che una

      macchinazione così preoccupante venisse denunciata al senato dal prefetto

      dell'annona, quando invece sarebbe stato cómpito del console non solo

      denunciarla, ma anche reprimerla. Allora Quinzio replicò che si

      rimproveravano ingiustamente i consoli, i quali, vincolati com'erano dalle

      leggi sul diritto di appello, approvate solo per indebolire la loro

      autorità, non avevano forze adeguate alla loro intenzione di punire quel

      crimine in ragione della sua gravità: c'era bisogno di un uomo non

      soltanto forte, ma anche libero e sciolto dai vincoli delle leggi. Per

      questo avrebbe proposto come dittatore Lucio Quinzio, uomo dotato di un

      temperamento consono a quell'enorme potere. Nonostante tutti approvassero

      la proposta, Quinzio sulle prime rifiutò e chiese come potessero pensare

      di buttarlo, vecchio com'era, in uno scontro così aspro. Ma poi, visto che

      da ogni parte gli dicevano che in quella tempra di vecchio c'era non solo

      più saggezza, ma anche più coraggio che in tutti gli altri, e che lo

      coprivano di elogi non certo immeritati, siccome il console non desisteva,

      alla fine Cincinnato, dopo aver pregato gli dèi immortali che la sua

      vecchiaia non portasse danno e disonore alla repubblica in quelle delicate

      circostanze, fu proclamato dittatore dal console. Cincinnato poi nominò

      maestro della cavalleria Gaio Servilio Aala.

      

      14 Il giorno successivo, dopo aver disposto i presìdi, scese nel foro

      attirandosi gli sguardi della plebe sorpresa e stupita. I seguaci di Melio

      e il loro stesso capo avevano capito che l'onnipotenza di quella

      magistratura era diretta contro di loro, e quelli che erano all'oscuro del

      complotto monarchico, si chiedevano quale disordine, quale improvvisa

      guerra avessero resa necessaria l'autorità di un dittatore o la nomina

      dell'ottantenne Quinzio a reggere la repubblica. Il maestro della

      cavalleria Servilio, mandato dal dittatore, disse a Melio: «Il dittatore

      ti convoca.» Quando Melio, in preda al panico, chiese che cosa volesse da

      lui Cincinnato, Servilio gli rispose che avrebbe dovuto perorare la

      propria causa difendendosi da un'accusa presentata da Minucio di fronte al

      senato. Allora Melio, rifugiatosi nel gruppo dei seguaci, cercò sulle

      prime di prendere tempo guardandosi intorno. Ma poi, quando il littore

      inviato dal maestro della cavalleria stava per condurlo via, fu sottratto

      all'arresto dall'intervento dei suoi. Mentre tentava di scappare, chiedeva

      supplice la protezione del popolo romano, sostenendo di essere vittima di

      una congiura dei patrizi per il bene che aveva fatto alla plebe. Implorò i

      presenti di aiutarlo in quel pericolo estremo e di non permettere che lo

      trucidassero davanti ai loro occhi. E mentre così gridava, Aala Servilio

      lo raggiunse e lo uccise; poi, ancora grondante di sangue e scortato da un

      gruppo di giovani patrizi, riferì al dittatore che Melio, convocato a

      comparire alla sua presenza, aveva respinto il littore e quindi aveva

      avuto la giusta pena mentre tentava di sobillare il popolo. Allora il

      dittatore gli disse: «Gloria a te, Gaio Servilio, perché hai liberato la

      repubblica!»

      

      15 Poi, siccome la folla era in tumulto non sapendo come interpretare

      l'accaduto, Cincinnato ordinò di convocare l'assemblea del popolo. Lì

      dichiarò che l'uccisione di Melio era stata legittima perché, anche se non

      fosse stato colpevole del crimine di aspirare al regno, non si era

      presentato di fronte al dittatore quando era stato convocato dal

      comandante della cavalleria. Disse anche di essersi seduto in tribunale

      per istruire la causa: se il processo avesse avuto luogo, a Melio sarebbe

      toccato un verdetto conforme agli esiti del dibattito. Ma siccome Melio si

      preparava a ricorrere alla violenza per evitare il processo, con la

      violenza era stato punito. E non sarebbe stato giusto trattarlo come un

      cittadino perché, nato in un popolo libero, con diritti e leggi, in una

      città da cui, come lui sapeva benissimo, erano stati cacciati i re e dove,

      nel corso dello stesso anno, essendo stata scoperta una congiura volta a

      riaccogliere in città i re, erano stati fatti decapitare dal padre i figli

      della sorella del re e del console che aveva liberato il paese, dove al

      console Tarquinio Collatino, soltanto per l'odio verso il nome che

      portava, era stato imposto di rinunciare alla magistratura e di andare in

      esilio, e dove, alcuni anni dopo, a Spurio Cassio era stata comminata la

      pena capitale per aver ordito un complotto per diventare re, dove di

      recente ai decemviri era toccata la confisca dei beni, l'esilio e la pena

      di morte per essersi comportati con la tracotanza dei re, Spurio Melio

      aveva nutrito, in quella stessa città, la speranza di salire al trono. Ma

      che uomo era? Anche se nessuna nobiltà, nessuna carica, nessun merito può

      spianare ad alcuno la strada alla tirannide, almeno i Claudi e i Cassi

      avevano concepito ambizioni illecite spinti dai consolati e dai

      decemvirati, dalle cariche ricoperte da loro stessi e dai loro antenati.

      Spurio Melio, un ricco commerciante di grano che avrebbe dovuto desiderare

      il tribunato della plebe più che sperare di ottenerlo, si era illuso di

      aver comprato la libertà dei suoi concittadini con due libbre di farro e

      aveva creduto, dando un po' di cibo, di poter ridurre in schiavitù un

      popolo che aveva sottomesso tutti i vicini. E tutto questo nella speranza

      che un paese, che era riuscito a malapena a digerirlo come senatore, lo

      accettasse come re, investito del potere e delle insegne del fondatore

      Romolo, che discendeva dagli dèi e che agli dèi aveva fatto ritorno. Un

      fatto del genere doveva essere considerato, più che un delitto, una vera

      mostruosità: e il sangue di Melio non sarebbe bastato a espiarlo, se non

      venivano demoliti il tetto e le pareti all'interno delle quali era stato

      concepito un proposito tanto insano e se non si confiscavano quei beni

      contaminati dal denaro speso per comprare il regno. Cincinnato ordinò poi

      ai questori di vendere quei beni e di versare il ricavato nel pubblico

      erario.

      

      16 Poi il dittatore ordinò di radere súbito al suolo la casa di Melio,

      affinché l'area dove sorgeva ricordasse perennemente il fallimento di quel

      nefasto progetto. Quel luogo fu chiamato Equimelio. A Lucio Minucio venne

      donato fuori della porta Trigemina un bue dalle corna dorate e senza che

      la plebe si opponesse, visto che Minucio aveva distribuito ai plebei il

      frumento di Melio al prezzo di un asse per moggio. Presso alcuni autori ho

      trovato che questo Minucio passò dal patriziato alla plebe e che, dopo

      essere stato cooptato come undicesimo tribuno della plebe, placò i

      disordini seguiti all'uccisione di Melio. Ma sembra poco credibile che i

      senatori abbiano concesso di aumentare il numero dei tribuni, che questo

      precedente sia stato introdotto proprio da un patrizio, e che la plebe,

      ottenuta tale concessione, non l'abbia conservata o almeno non abbia fatto

      di tutto per conservarla. Ma la prova più schiacciante contro

      l'autenticità dell'iscrizione posta sotto il suo ritratto è che pochi anni

      prima era stata emanata una legge che vietava ai tribuni di cooptare un

      collega.

      Quinto Cecilio, Quinto Giunio e Sesto Titinio furono gli unici membri del

      collegio dei tribuni a non sostenere la legge sulle onorificenze da

      tributare a Minucio, e ad accusare di fronte alla plebe ora Minucio stesso

      e ora Servilio, senza mai smettere di lamentarsi per l'ingiusta fine di

      Melio. Così riuscirono a ottenere che si tenessero i comizi per l'elezione

      dei tribuni militari invece che per l'elezione dei consoli, sicuri

      com'erano che dei sei posti disponibili - questo era già allora il numero

      consentito - qualcuno sarebbe toccato ai plebei, se avessero promesso di

      vendicare la morte di Melio. La plebe, benché in quell'anno fosse stata

      agitata da molti e vari disordini, non elesse più di tre tribuni militari

      con potere consolare. Tra questi c'era anche Lucio Quinzio, figlio di

      Cincinnato, all'odiata dittatura del quale si faceva risalire la causa dei

      disordini. Quinzio fu preceduto per numero di voti da Mamerco Emilio, un

      uomo di grande prestigio. Terzo fu eletto Lucio Giulio.

      

      17 Durante la loro magistratura, la colonia romana di Fidene passò a Larte

      Tolumnio re dei Veienti. Ma alla defezione si aggiunse un delitto ancora

      peggiore: infatti, su ordine di Tolumnio, furono uccisi gli inviati romani

      Gaio Fulcino, Clelio Tullo, Spurio Aurio e Lucio Roscio, venuti a chiedere

      il motivo di quella strana decisione. Alcuni autori cercano di attenuare

      la responsabilità del re, dicendo che una frase ambigua, da lui

      pronunciata dopo un colpo di dadi fortunato, venne interpretata dai

      Fidenati come l'ordine di ucciderli: questa sarebbe stata la causa della

      morte degli inviati. Ma sembra piuttosto improbabile che all'arrivo dei

      Fidenati, i suoi nuovi alleati venuti a chiedergli lumi su un assassinio

      destinato a infrangere il diritto delle genti, il re non abbia distolto

      l'attenzione dal gioco, e che in séguito non abbia attribuito il delitto a

      un malinteso. È più facile credere che Tolumnio volesse coinvolgere i

      Fidenati nella responsabilità di un crimine tanto atroce in modo che non

      avessero più alcuna speranza di riconciliazione con i Romani. In memoria

      degli inviati uccisi a Fidene lo Stato fece collocare a sue spese delle

      statue nei rostri.

      Con Veienti e Fidenati, non solo per la vicinanza geografica a Roma, ma

      anche per l'atto esecrabile con il quale avevano scatenato la guerra, si

      annunciava uno scontro durissimo. Di conseguenza, poiché nell'interesse

      generale plebe e tribuni rimasero tranquilli, non si ebbe alcuna

      opposizione all'elezione dei consoli Marco Geganio Macrino, al suo terzo

      mandato, e Lucio Sergio Fidenate. Questi fu così soprannominato, credo,

      dalla guerra che in séguito condusse. Fu infatti lui il primo a combattere

      con successo, al di qua dell'Aniene, contro il re dei Veienti, ma si

      trattò di una vittoria cruenta. Così fu più grande il dolore per i

      cittadini caduti che la gioia per i nemici vinti e il senato, com'è

      normale in circostanze difficili, ordinò che Mamerco Emilio fosse nominato

      dittatore. E quest'ultimo nominò maestro della cavalleria Lucio Quinzio

      Cincinnato, giovane degno del padre, che l'anno precedente era stato suo

      collega in qualità di tribuno militare con potere consolare. Alle truppe

      arruolate dai consoli furono aggiunti dei centurioni che erano veterani di

      grande esperienza militare, e furono colmati i vuoti aperti dall'ultima

      battaglia. Il dittatore ordinò a Tito Quinzio Capitolino e a Marco Fabio

      Vibulano di seguirlo in qualità di luogotenenti. Il maggiore potere e il

      prestigio dell'uomo che lo deteneva indussero i nemici a ritirarsi dalla

      campagna romana, al di là dell'Aniene; essi trasferirono il campo sulle

      colline tra Fidene e l'Aniene, e di lì non scesero a valle prima che

      arrivassero le legioni inviate in loro aiuto dai Falisci. Soltanto allora

      gli Etruschi si accamparono di fronte alle mura di Fidene. Anche il

      dittatore romano si accampò nelle immediate vicinanze, sulle rive dove i

      due fiumi confluiscono, in quel punto dove la modesta distanza tra i due

      fiumi gli permise di costruire una fortificazione tra sé e il nemico. Il

      giorno successivo schierò l'esercito in ordine di battaglia.

      

      18 Tra i nemici c'erano punti di vista molto diversi. I Falisci volevano

      súbito lo scontro perché avevano fiducia in se stessi e mal sopportavano

      di combattere lontano da casa. I Veienti e i Fidenati riponevano invece

      maggiori speranze in un prolungamento della guerra. Tolumnio, pur

      condividendo il parere dei suoi uomini, per evitare che i Falisci

      dovessero sobbarcarsi a operazioni destinate ad andare per le lunghe,

      annunciò che avrebbe affrontato il nemico il giorno successivo. Intanto

      era cresciuto il coraggio nel dittatore e nei Romani perché il nemico

      evitava lo scontro. Il giorno dopo, quando i soldati sdegnati già

      minacciavano di assalire l'accampamento e la città se non si offriva

      occasione per battersi, entrambi gli eserciti avanzarono nello spazio di

      terra compreso tra i due accampamenti. Siccome il capo dei Veienti

      disponeva di molti uomini, mandò delle truppe ad aggirare le alture

      perché, nel corso della lotta, prendessero alle spalle il campo romano.

      L'esercito dei tre popoli nemici era schierato in modo che i Veienti

      tenessero l'ala destra, i Falisci la sinistra e i Fidenati il centro. Il

      dittatore mosse sulla destra contro i Falisci, Quinzio Capitolino sulla

      sinistra contro i Veienti. Il maestro della cavalleria si dispose con i

      suoi cavalieri all'attacco del centro. Per qualche tempo vi fu silenzio e

      quiete perché da una parte gli Etruschi non avevano intenzione di

      lanciarsi nella battaglia, se non vi erano costretti, e dall'altra il

      dittatore romano fissava con insistenza la cittadella, da dove gli àuguri

      dovevano inviare il segnale convenuto, non appena i presagi fossero stati

      propizi. Come vide il segnale, levato il grido di guerra, lanciò contro il

      nemico per primi i cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté

      con grande vigore. In nessuna parte le legioni etrusche riuscirono a

      reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace

      e il re in persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri -

      prolungava la lotta avventandosi contro i Romani, mentre questi ultimi si

      sparpagliavano nella foga dell'inseguimento.

      

      19 Vi era allora, tra le fila dei cavalieri, il tribuno militare Aulo

      Cornelio Cosso; la sua straordinaria bellezza era pari al coraggio e alla

      forza. Orgoglioso del nome della sua stirpe, che aveva ereditato già

      insigne, fece in modo che diventasse per i suoi discendenti ancora più

      nobile e glorioso. Essendosi reso conto che Tolumnio, dovunque si buttasse

      all'assalto, seminava lo scompiglio tra gli squadroni romani, e avendolo

      riconosciuto mentre galoppava col suo abito regale su e giù per la linea

      di battaglia, urlò: «È lui che ha violato il patto stipulato tra gli

      uomini e infranto il diritto delle genti? Allora, se gli dèi vogliono che

      su questa terra ci sia ancora qualcosa di sacro, io lo offro come vittima

      sacrificale ai Mani degli ambasciatori uccisi!» E, spronato il cavallo, si

      buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e

      disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E

      mentre il re cercava di rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo

      scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia.

      Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata

      infissa sulla punta dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati

      dall'uccisione del re. Così anche la cavalleria, che da sola aveva reso

      incerte le sorti dello scontro, fu disfatta. Il dittatore si buttò

      all'inseguimento delle legioni in fuga e, dopo averle spinte verso

      l'accampamento, le massacrò. La maggior parte dei Fidenati, conoscendo i

      luoghi, riuscì a fuggire sulle montagne. Cosso attraversò il Tevere con la

      cavalleria, riportando a Roma un ingente bottino razziato nel territorio

      di Veio. Mentre la battaglia era in pieno svolgimento, si combatté anche

      nei pressi dell'accampamento romano, dove ci fu lo scontro con le truppe

      inviate, come già detto, da Tolumnio proprio in quella direzione. Fabio

      Vibulano in un primo tempo difese la trincea disponendo gli uomini a

      semicerchio. Poi, mentre i nemici erano concentrati sul vallo, fece una

      sortita dalla porta principale sulla destra con i triarii e assalì gli

      avversari all'improvviso. Il panico che s'impossessò di loro provocò una

      strage minore che nella battaglia vera e propria perché erano in pochi, ma

      la fuga non fu meno precipitosa.

      

      20 Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del senato e

      per volontà del popolo, il dittatore poté tornare a Roma in trionfo. Ma

      nel trionfo lo spettacolo più grande fu la vista di Cosso che avanzava

      reggendo le spoglie opime del re ucciso; in onore di Cosso i soldati

      cantavano rozzi inni nei quali lo paragonavano a Romolo. Egli, con la

      dedica rituale, appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio,

      accanto a quelle conquistate da Romolo, che erano state le prime, e fino a

      quel momento le uniche, ad essere chiamate opime. Cosso si attirò gli

      sguardi dei cittadini distogliendoli dal cocchio del dittatore, così che

      la gloria di quel giorno fu quasi tutta sua. Per volontà del popolo, il

      dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una

      corona d'oro del peso di una libbra.

      Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo

      Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove

      Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, al di là del fatto che

      opime sono per tradizione soltanto le spoglie strappate da un comandante a

      un altro comandante e che il solo che noi riconosciamo come comandante è

      quello sotto i cui auspici viene condotta una guerra, l'iscrizione stessa

      posta su quelle spoglie confuta la tesi degli altri e la mia, dimostrando

      che Cosso quando le strappò era console. Ma quando ho sentito Cesare

      Augusto, fondatore e restauratore di tutti i nostri templi, raccontare di

      essere entrato nel santuario di Giove Feretrio - da lui fatto ricostruire

      perché in rovina ormai con l'andar del tempo - e di aver letto questa

      iscrizione sulla corazza di lino, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare

      Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio

      colui che fece restaurare il tempio. Dove poi sia l'errore, per quale

      motivo tanto gli annali antichi quanto le liste dei magistrati (quelle

      che, scritte su lino e conservate nel tempio di Giunone Moneta, sono

      continuamente citate da Licinio Macro come fonte) riportino il consolato

      di Aulo Cornelio Cosso insieme a Tito Quinzio solo sei anni dopo, è una

      questione sulla quale è giusto che ciascuno abbia una sua opinione

      personale. Ma un altro valido motivo per non spostare in quell'anno una

      battaglia così famosa è che il consolato di Aulo Cornelio cadde in un

      triennio nel quale non ci fu alcuna guerra, a causa di una pestilenza e di

      una carestia, tanto che alcuni annali riportano solo i nomi dei consoli,

      catalogando l'annata come funesta. Due anni dopo il consolato, Cosso fu

      tribuno militare con potere consolare e nello stesso anno maestro della

      cavalleria, e mentre ricopriva quella carica combatté un'altra celebre

      battaglia equestre. Su questo punto è possibile fare molte congetture,

      anche se a mio parere inutili. Ognuno può credere quello che vuole, fatto

      sta che il vero protagonista del combattimento, dopo aver deposto le

      spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui

      erano state dedicate, e di Romolo - testimoni che l'autore di un falso non

      può certo prendere alla leggera -, si sottoscrisse: Aulo Cornelio Cosso

      console.

      

      21 Durante il consolato di Marco Cornelio Maluginense e Lucio Papirio

      Crasso, gli eserciti romani furono condotti nelle campagne dei Veienti e

      dei Falisci, riportandone un consistente bottino di uomini e di bestiame.

      In quelle zone non riuscirono mai a imbattersi nei nemici e non ci furono

      occasioni di venire alle armi. Tuttavia i centri abitati non vennero

      assediati perché una pestilenza si abbatté sulla popolazione. E poi a Roma

      erano scoppiati dei disordini, privi però di conseguenze: il tribuno della

      plebe Spurio Melio, il quale, per la popolarità del suo nome, pensava di

      poter suscitare sommosse, aveva citato in giudizio Minucio e proposto la

      confisca dei beni di Servilio Aala, sostenendo che Melio era stato vittima

      delle false accuse di Minucio e incolpando Servilio dell'uccisione di un

      cittadino non ancora condannato. Queste accuse ebbero presso il popolo

      minor credito dell'uomo che le lanciava. Erano motivo di ben più grande

      preoccupazione il progressivo aggravarsi dell'epidemia, e alcuni

      inquietanti prodigi, soprattutto perché circolava notizia di case crollate

      nelle campagne per continue scosse di terremoto. Per queste ragioni il

      popolo rivolse una supplica agli dèi secondo la formula suggerita dai

      duumviri.

      L'anno successivo, sotto il consolato di Gaio Giulio, al suo secondo

      mandato, e di Lucio Verginio, la pestilenza si aggravò; tanto fu il

      terrore dello spopolamento da essa creato a Roma e nelle campagne che

      nessuno usciva al di fuori del territorio romano per compiere razzie; né

      patrizi né plebei pensavano a muovere guerre; inoltre, come se non

      bastasse, i Fidenati, rimasti fino a quel momento o sulle montagne o

      all'interno delle loro città fortificate, scesero a saccheggiare il

      territorio romano. Dopo aver fatto venire un esercito da Veio - i Falisci

      non si lasciarono convincere a riprendere le ostilità né dalle calamità

      dei Romani, né dalle pressioni degli alleati -, i due popoli

      attraversarono l'Aniene, avanzando fin quasi sotto la porta Collina. In

      città non meno che nelle campagne fu súbito il panico. Mentre il console

      Giulio dispone i suoi uomini sulla cinta muraria e sul terrapieno,

      Verginio consulta il senato nel tempio di Quirino. Si decide di nominare

      dittatore Quinto Servilio, che alcuni sostengono fosse soprannominato

      Prisco e altri Strutto. Verginio prese tempo per consultarsi col collega,

      e, ottenutone il consenso, ratificò nella notte la nomina del dittatore.

      Questi nominò maestro della cavalleria Postumio Ebuzio Elva.

      

      22 Il dittatore ordinò a tutti di trovarsi fuori dalla porta Collina alle

      prime luci del giorno. Quelli che avevano forze sufficienti per portare

      armi si misero tutti a disposizione. Le insegne vennero prese dall'erario

      e consegnate al dittatore. Mentre si svolgevano tali preparativi, i nemici

      si ritirarono su posizioni più elevate. Il dittatore puntò contro di loro

      con le truppe pronte a dare battaglia e non lontano da Nomento si scontrò

      con le legioni etrusche mettendole in fuga. Di lì le costrinse a riparare

      nella città di Fidene che circondò con un vallo. Ma la città, alta e ben

      fortificata, non poteva essere presa nemmeno con l'uso di scale, e

      l'assedio non serviva a nulla perché il frumento precedentemente raccolto

      non solo bastava alle necessità interne, ma avanzava. Perduta così ogni

      speranza sia di espugnare la città, sia di costringerla alla resa, il

      dittatore - che conosceva benissimo quella zona per la sua vicinanza a

      Roma - ordinò di scavare una galleria verso la cittadella, partendo dalla

      parte opposta della città, che risultava essere la meno vigilata essendo

      già ben protetta dalla sua stessa configurazione naturale. Poi, avanzando

      contro la città da punti diversissimi, dopo aver diviso in quattro gruppi

      le forze a disposizione - in maniera tale che ciascuno di essi potesse

      avvicendare l'altro durante la battaglia -, combattendo ininterrottamente

      giorno e notte il dittatore riuscì a distrarre l'attenzione dei nemici

      dallo scavo. Finché, scavato tutto il monte, fu aperto un passaggio dal

      campo alla cittadella. E mentre gli Etruschi continuavano a concentrarsi

      su vane minacce, senza rendersi conto del vero pericolo, l'urlo dei nemici

      sopra le loro teste fece loro capire che la città era stata presa.

      Quell'anno i censori Gaio Furio Paculo e Marco Geganio Macerino

      collaudarono in Campo Marzio un edificio pubblico nel quale ebbe luogo per

      la prima volta il censimento della popolazione.

      

      23 Presso Licinio Macro ho trovato che l'anno successivo furono rieletti

      gli stessi consoli: Giulio per la terza volta, Verginio per la seconda.

      Valerio Anziate e Quinto Tuberone riportano invece che i consoli di

      quell'anno furono Marco Manlio e Quinto Sulpicio. Però, nonostante la

      discrepanza, sia Tuberone che Macro citano come fonte i libri lintei.

      Inoltre nessuno di questi due autori nasconde che gli antichi scrittori

      parlavano per quell'anno di tribuni militari. Mentre Licinio segue, senza

      alcuna riserva, i libri lintei, Tuberone è incerto su quale sia la verità.

      Perciò, tra le tante questioni rimaste irrisolte, perché riguardano tempi

      lontani, mettiamoci anche questa.

      Dopo la presa di Fidene, l'Etruria viveva in stato d'allarme: infatti, in

      séguito a un tale massacro, erano terrorizzati non soltanto i Veienti, ma

      anche i Falisci, i quali, benché non li avessero sostenuti quando avevano

      ripreso le ostilità, ricordavano di essere stati al loro fianco agli inizi

      della guerra. Così, quando questi due popoli inviarono ambasciatori alle

      dodici città confederate e ottennero che si convocasse un raduno di tutte

      le genti etrusche presso il tempio di Voltumna, il senato, presentendo

      gravi torbidi, ordinò di nominare per la seconda volta dittatore Mamerco

      Emilio. Questi scelse Aulo Postumio Tuberto come maestro della cavalleria.

      Così si diede inizio ai preparativi di guerra con uno sforzo tanto più

      grande della volta precedente, in quanto maggiore era il pericolo

      provenendo dall'intera Etruria e non da due popoli.

      

      24 Ma questa faccenda finì per essere più tranquilla di quanto tutti si

      aspettassero. Alcuni mercanti riferirono che ai Veienti era stato negato

      ogni aiuto e che erano stati invitati a proseguire unicamente con le loro

      forze la guerra che avevano scatenato per iniziativa personale e a non

      cercare nelle avversità come alleati coloro con i quali non avevano voluto

      dividere la speranza, non ancora compromessa, di successo. Di conseguenza

      il dittatore, per dimostrare di non essere stato eletto invano, pur non

      avendo più la possibilità di conquistare gloria in guerra, ma desiderando

      compiere ugualmente in pace qualche impresa che suggellasse per sempre nel

      ricordo la propria dittatura, studiò il modo di indebolire la censura. E

      questo sia perché ne giudicava eccessivo il potere, sia perché era

      infastidito, più ancora che dall'importanza, dalla durata di quella

      carica. Così, dopo aver convocato l'assemblea, disse che gli dèi immortali

      si erano assunti il cómpito di provvedere all'interesse della repubblica

      all'esterno e di rendere tutto sicuro. Quanto a lui, avrebbe fatto il

      necessario all'interno delle mura per salvaguardare la libertà del popolo

      romano. Ora, la maggiore garanzia di libertà era che le cariche più

      importanti non si protraessero troppo a lungo e che si ponesse un limite

      di tempo a quelle magistrature delle quali non si poteva limitare

      l'autorità. Mentre le altre cariche erano annuali, la censura era invece

      quinquennale; era gravoso vivere per tanti anni, per una gran parte

      dell'esistenza, sottoposti alle stesse persone. Per questo egli avrebbe

      presentato una legge che riduceva la durata della censura a non più di un

      anno e mezzo. Il giorno successivo, quando la legge venne approvata col

      consenso quasi unanime del popolo, il dittatore disse: «Perché voi, o

      Quiriti, abbiate la prova di quanto mi siano sgraditi gli incarichi che

      durano troppo a lungo, rinuncio alla dittatura.» Deposta la sua

      magistratura dopo aver fissato un limite a quella altrui, fu

      riaccompagnato a casa tra le dimostrazioni di gioia e il plauso del

      popolo. Ma avendo i censori sopportato di malanimo che Mamerco avesse

      sminuito l'importanza di una magistratura del popolo romano, lo radiarono

      dalla sua tribù e lo iscrissero tra gli erarii, tassandolo per un censo

      otto volte maggiore. Riferiscono che Mamerco abbia sopportato il colpo con

      grande forza d'animo, dando maggiore importanza alla causa di quella

      umiliazione che non all'umiliazione stessa. I capi dei patrizi, benché

      contrari a ridurre il potere della censura, rimasero colpiti da questo

      esempio di durezza censoria, perché ciascuno vedeva che sarebbe stato

      soggetto passivo della censura più spesso e più a lungo che non soggetto

      attivo. Sta di fatto che - almeno stando a quanto si racconta -

      l'indignazione del popolo arrivò a un punto tale che dovette intervenire

      Mamerco, con la sua autorità, per proteggere i censori dalla violenza

      della folla.

      

      25 Continuando a frapporre ostacoli, i tribuni della plebe riuscirono a

      impedire i comizi per le elezioni consolari. E alla fine, quando si era

      ormai prossimi all'interregno, ebbero la meglio ottenendo che si

      eleggessero i tribuni militari con potere consolare. Ma quella vittoria

      non fu premiata, come si sperava, dall'elezione di alcun plebeo: tutti gli

      eletti, Marco Fabio Vibulano, Marco Folio e Lucio Sergio Fidenate, erano

      patrizi. Nel corso di quell'anno una pestilenza distrasse l'attenzione da

      tutti gli altri problemi. Perché la popolazione potesse guarire venne

      fatto voto di erigere un tempio ad Apollo. I duumviri, consultando i libri

      sibillini, tentarono molte vie per placare l'ira degli dèi e per

      allontanare dal popolo le cause dell'epidemia. Ciononostante le perdite

      furono ingentissime in città e nelle campagne, per il flagello che colpiva

      sia gli uomini sia il bestiame. Temendo che all'epidemia seguisse anche la

      fame, visto che i contadini non erano stati risparmiati dal contagio, si

      mandò a cercare frumento in Etruria, nell'agro Pontino, a Cuma e alla fine

      anche in Sicilia. Non ci furono accenni alle elezioni consolari; vennero

      eletti tribuni militari con potere consolare Lucio Pinario Mamerco, Lucio

      Furio Medullino e Spurio Postumio Albo, tutti patrizi. Quell'anno la

      violenza dell'epidemia diminuì e non si rischiò nemmeno di rimanere senza

      frumento, grazie alle precauzioni prese in anticipo. Nelle assemblee dei

      Volsci e degli Equi e in Etruria presso il tempio di Voltumna in Etruria

      si parlò di muovere guerra. Ma in quest'ultimo raduno si decise di

      rinviare le operazioni all'anno successivo e si stabilì, con un decreto,

      di evitare ogni assemblea prima di allora, benché i Veienti si fossero

      lamentati sostenendo che sulla loro città incombeva la stessa sorte della

      distrutta Fidene.

      Nel frattempo a Roma i capi della plebe, che già da tempo nutrivano la

      vana speranza di ottenere cariche più importanti, mentre all'esterno vi

      era pace, cominciarono a organizzare riunioni nelle case dei tribuni. Lì

      discutevano piani segreti e si lamentavano di essere tenuti dalla plebe in

      così poco conto che, pur essendo stati eletti per tanti anni dei tribuni

      militari con potere consolare, nessun plebeo era mai arrivato a ricoprire

      quella carica. I loro antenati avevano visto lontano impedendo ai patrizi

      di accedere alle magistrature plebee, altrimenti si sarebbero trovati dei

      patrizi come tribuni; a tal punto erano disistimati dai loro, ed erano

      disprezzati dalla plebe, non meno che dai patrizi. Alcuni giustificavano

      la plebe scaricando ogni colpa sui patrizi: si doveva ai loro intrighi

      elettorali e ai loro raggiri se alla plebe era preclusa la strada verso

      quella magistratura. Se alla plebe veniva concesso di riprender fiato

      dalle loro preghiere miste a minacce, andando alle urne essa si sarebbe

      ricordata dei propri uomini e, ottenuto il loro sostegno, sarebbe arrivata

      a conquistare anche il potere.

      Così, per eliminare gli intrighi elettorali, si stabilì che i tribuni

      presentassero una legge che vietava ai candidati di indossare vesti

      bianche. Oggi sembrerà una cosa di poco conto e a stento si potrà

      prenderla sul serio. Ma in quei tempi scatenò uno scontro furibondo tra

      patrizi e plebei. Alla fine i tribuni riuscirono a far approvare la legge.

      Ed era evidente che la plebe irritata avrebbe sostenuto i suoi. Ma perché

      non le fosse concesso di agire liberamente, il senato decretò che si

      tenessero i comizi per l'elezione dei consoli.

      

      26 Il pretesto fu la rivolta di Volsci ed Equi, riferita a Roma da Latini

      ed Ernici. Vennero eletti consoli Tito Quinzio Cincinnato, figlio di Lucio

      - lo stesso a cui si aggiunge il soprannome di Peno -, e Gneo Giulio

      Mentone. La guerra e le sue paure non furono rimandate oltre. Fatta la

      leva militare ricorrendo a una legge sacrata - che presso quei popoli era

      lo strumento di gran lunga più efficace per l'arruolamento forzato delle

      truppe -, da entrambi i paesi si misero in marcia due forti eserciti che

      si congiunsero sull'Algido. Qui Equi e Volsci si accamparono in punti

      diversi e i rispettivi comandanti si dedicavano con una meticolosità senza

      precedenti alla costruzione di fortificazioni e all'addestramento degli

      uomini. E quando a Roma arrivarono queste notizie, il panico si fece più

      grande. Il senato decise allora di nominare un dittatore perché quei

      popoli, nonostante le numerose sconfitte, si stavano adesso preparando a

      una nuova guerra con uno spiegamento di mezzi senza precedenti; e poi una

      parte della gioventù romana se l'era portata via la pestilenza. Le cose

      che spaventavano maggiormente erano i difetti dei consoli, il loro

      disaccordo e i contrasti durante tutte le assemblee. Secondo alcuni autori

      la ragione per la quale si nominò un dittatore fu una sconfitta subita

      sull'Algido da quei consoli. Una cosa risulta chiara: nonostante il

      dissenso su altri problemi, su di uno i consoli avevano identiche vedute,

      e cioè nell'opporsi, contro il volere dei senatori, alla nomina del

      dittatore. Ma quando arrivarono notizie, una più terribile dell'altra, e i

      consoli non rispettavano le decisioni del senato, Quinto Servilio Prisco,

      che aveva ricoperto egregiamente le massime cariche, disse: «Data

      l'estrema gravità della situazione, è a voi, o tribuni della plebe, che il

      senato fa appello perché in questo momento così pericoloso per la

      repubblica, usando la vostra autorità, costringiate i consoli a nominare

      un dittatore.» Sentendo queste parole, i tribuni, convinti che si

      presentasse l'occasione per aumentare la loro autorità, dopo essersi

      consultati a parte dichiararono a nome del collegio che i consoli dovevano

      attenersi scrupolosamente alle direttive del senato. Se poi i consoli

      avessero continuato a opporsi alla volontà unanime del più importante tra

      gli ordini sociali, allora ne avrebbero ordinato l'arresto. I consoli

      preferirono cedere ai tribuni piuttosto che al senato. Ricordarono che i

      senatori avevano tradito le prerogative della massima magistratura e che

      il consolato veniva fatto passare sotto il giogo del potere tribunizio,

      dal momento che i consoli potevano subire le imposizioni di un tribuno per

      via del suo potere, e perfino essere condotti in carcere (e c'era forse

      qualcosa che un privato cittadino potesse temere di più?). Siccome i

      colleghi non erano riusciti a intendersi nemmeno su questo, il cómpito di

      nominare un dittatore toccò in sorte a Tito Quinzio. Egli nominò il

      suocero Aulo Postumio Tuberto, un comandante intransigente, il quale a sua

      volta designò come maestro della cavalleria Lucio Giulio. Si ordinò subito

      la leva militare e la sospensione dell'attività giudiziaria, e in città

      non ci si occupò di altro che dei preparativi di guerra. L'esame delle

      richieste di esonero dal servizio militare viene rinviato a dopo la

      guerra. Così anche quelli che erano incerti decidono di arruolarsi. A

      Ernici e Latini fu imposto di fornire soldati ed entrambi i popoli

      obbedirono scrupolosamente al dittatore.

      

      27 Tutti questi preparativi furono portati a termine con estrema rapidità.

      Il console Gneo Giulio venne lasciato a difesa della città. Al maestro

      della cavalleria Lucio Giulio venne invece affidato il cómpito di

      provvedere alle più immediate necessità belliche, in modo che la mancanza

      di qualcosa non costringesse le truppe a rimanere nell'accampamento. Il

      dittatore, ripetendo la formula suggeritagli dal pontefice massimo Aulo

      Cornelio, promise in voto, per la guerra appena scoppiata, di indire

      giochi solenni. Poi, dopo aver diviso le truppe con il console Quinzio,

      lasciò Roma e raggiunse il nemico. Appena videro che i due accampamenti

      dei nemici erano posti a poca distanza l'uno dall'altro, i comandanti

      romani decisero anch'essi di accamparsi a circa un miglio di distanza, il

      dittatore nella zona di Tuscolo e il console verso Lanuvio. Così i quattro

      eserciti e le rispettive fortificazioni avevano nel mezzo una pianura,

      abbastanza vasta non solo per le scaramucce che precedono la battaglia, ma

      anche per lo spiegamento delle schiere da entrambe le parti. Dal momento

      in cui gli accampamenti vennero posti l'uno di fronte all'altro, fu un

      continuo susseguirsi di piccoli scontri; il dittatore era contento che i

      suoi uomini misurassero le loro forze e, sperimentando il successo in

      queste rapide sortite, nutrissero speranze nella vittoria finale. I

      nemici, abbandonata ogni speranza di avere la meglio in una battaglia

      regolare, nella notte assalirono l'accampamento del console, affidandosi

      al caso e al rischio. Il clamore sorto all'improvviso svegliò dal sonno

      non solo le sentinelle del console e tutto il suo esercito, ma anche il

      dittatore. In quell'occasione, in cui le circostanze richiedevano una

      reazione immediata, il console dimostrò di non difettare né di coraggio né

      di accortezza: con parte dei suoi uomini rinsaldò i posti di guardia agli

      ingressi e dispose in cerchio il resto delle truppe a protezione della

      trincea. Nell'altro accampamento, quello del dittatore, essendoci meno

      trambusto, fu più facile considerare il da farsi. Vennero súbito inviati

      rinforzi al campo del console, affidandone il comando al luogotenente

      Spurio Postumio Albo. Il dittatore invece, a capo di un contingente, con

      una breve diversione raggiunge una posizione defilata rispetto al luogo di

      attacco per assalire il nemico di sorpresa. A comandare l'accampamento

      lascia il luogotenente Quinto Sulpicio, mentre all'altro aiutante Marco

      Fabio affida la cavalleria, ordinandogli però di non muoversi prima

      dell'alba, perché sarebbe stato difficile mantenere il controllo di quelle

      truppe nella confusione della notte. Tutte le cose che un capo militare

      saggio e sollecito avrebbe ordinato e messo in pratica in una situazione

      del genere, il dittatore le ordinò e le mise ordinatamente in pratica. Ma

      una singolare prova di coraggio, di accortezza e di qualità non comuni fu

      l'avere mandato Marco Geganio con coorti scelte ad attaccare

      l'accampamento nemico dal quale risultassero usciti i nemici in maggior

      numero. Geganio, assaliti gli uomini rimasti nel campo, mentre intenti a

      seguire la sorte dei compagni in pericolo non si preoccupavano per se

      stessi e avevano trascurato di porre le sentinelle e i posti di guardia,

      conquistò l'accampamento ancora prima che i nemici si rendessero conto

      dell'attacco. Poi, com'era stato convenuto, fu dato il segnale col fumo;

      quando il dittatore lo vide, urlò che l'accampamento nemico era stato

      preso e ordinò di riferire ovunque la notizia.

      

      28 Già albeggiava e tutto era chiaro davanti agli occhi. Fabio si era

      buttato alla carica con la cavalleria e il console aveva fatto una sortita

      dal campo contro i nemici ormai in preda al panico. Il dittatore invece,

      dall'altra parte, assaliti i rinforzi e la seconda linea, aveva opposto

      ovunque al nemico che ripiegava incalzato da grida confuse e attacchi

      improvvisi, la fanteria e la cavalleria vittoriose. Ormai completamente

      circondati, avrebbero tutti pagato, fino all'ultimo uomo, il prezzo della

      nuova aggressione, se non fosse stato per Vezio Messio, un volsco famoso

      più per le sue gesta che per la sua stirpe, il quale rimproverò i suoi

      compagni che già si disponevano a cerchio: «Avete deciso,» gridò, «di

      offrirvi al ferro dei nemici senza difendervi e senza vendicarvi? Ma

      allora perché mai avete preso le armi e fatto scoppiare una guerra senza

      essere provocati, voi che siete turbolenti in tempo di pace e fiacchi sul

      campo di battaglia? In che cosa sperate rimanendo qui fermi? Credete che

      ci penserà qualche dio a proteggervi e a portarvi via da qui? Con la spada

      bisogna aprirci la via. Avanti, guardate dove vado io e seguitemi, se ci

      tenete a rivedere le vostre case, i genitori, le mogli e i figli! Davanti

      non ci sono né muri né fortificazioni, ma solo uomini armati come voi. Per

      coraggio siete pari a loro, ma superiori per la forza della disperazione,

      che è l'ultima e la più potente arma.» Detto questo, mise súbito in

      pratica le sue parole. E i compagni, alzando di nuovo il grido di guerra,

      gli tennero dietro lanciandosi all'attacco là dove Postumio Albo aveva

      schierato le sue coorti. Riuscirono a far arretrare i vincitori fino a

      quando non sopraggiunse il dittatore in aiuto dei suoi che già si

      ritiravano: in quel luogo si concentrò l'intera battaglia. Le sorti del

      nemico sono affidate a un solo uomo: Messio. Da entrambe le parti molte

      sono le ferite, molte le stragi; ormai neanche i comandanti romani

      combattono illesi. Tuttavia solo Postumio, colpito da un sasso, lasciò la

      battaglia con il cranio fratturato. Ad allontanare dalla battaglia così in

      bilico il dittatore non bastò una ferita alla spalla, né furono

      sufficienti a Fabio un femore quasi inchiodato nel fianco del cavallo e al

      console un braccio troncato.

      

      29 Messio, trascinato dallo slancio attraverso i corpi esanimi dei nemici,

      con un gruppo di giovani fortissimi riuscì ad arrivare fino al campo dei

      Volsci che non era ancora stato preso. In quella direzione ripiega tutto

      l'esercito. Il console insegue i nemici mentre fuggono disordinatamente

      fino al vallo e assale il campo stesso e il vallo. Ma anche il dittatore,

      proveniente da un'altra direzione, conduce i suoi uomini in quel punto.

      L'assalto non è meno violento della battaglia. Si tramanda che il console

      abbia scagliato l'insegna dentro al vallo perché i soldati irrompessero

      con più ardore, e che sia stato lanciato il primo assalto per recuperarla.

      Il dittatore, dopo aver fatto breccia nella palizzata, aveva già spostato

      la battaglia all'interno dell'accampamento. Allora i nemici cominciarono

      da tutte le parti a buttare le armi e ad arrendersi. Così alla fine venne

      conquistato anche l'accampamento e tutti i nemici, eccetto i senatori,

      furono venduti come schiavi. Fu restituito a Latini ed Ernici quella parte

      del bottino che riconobbero come loro, l'altra parte il dittatore la

      vendette all'asta. Lasciato il console a capo dell'accampamento, il

      dittatore tornò poi in trionfo a Roma dove rinunciò alla dittatura.

      Rendono triste il ricordo di questa gloriosa dittatura quanti raccontano

      che Aulo Postumio fece decapitare il figlio, pur vincitore, perché,

      attirato dall'occasione di farsi onore combattendo, aveva abbandonato

      senza l'ordine il suo posto. Preferisco non credere a una cosa simile, ed

      è lecito perché diverse sono le versioni tramandate. E c'è un argomento a

      favore: esistono ordini chiamati 'manliani' e non 'postumiani', in quanto

      il primo a dare un esempio così atroce era logicamente destinato a

      ottenere quel terribile titolo di crudeltà. A Manlio fu dato anche il

      soprannome di 'Imperioso', mentre Postumio non è marchiato da nessun

      funesto appellativo.

      Siccome il collega era assente, il console Gneo Giulio inaugurò il tempio

      di Apollo senza ricorrere al sorteggio. Quando, dopo aver congedato

      l'esercito, Quinzio fece ritorno a Roma, prese a male la cosa, ma

      inutilmente si lamentò in senato.

      In quell'anno, rimasto famoso per tali eventi, va aggiunto un episodio che

      in quel tempo sembrò non avere alcuna importanza per la potenza romana: i

      Cartaginesi, destinati a diventare nostri acerrimi nemici, inviarono

      allora per la prima volta un esercito in Sicilia per sostenere una delle

      due fazioni che si affrontavano nelle lotte tra Siculi.

      

      30 A Roma dai tribuni della plebe fu agitata la questione relativa alla

      nomina di tribuni militari con potere consolare, ma senza alcun successo.

      Furono eletti consoli Lucio Papirio Crasso e Lucio Giulio. Gli

      ambasciatori inviati dai Volsci al senato per chiedere un trattato

      d'alleanza, ricevendo in luogo del trattato una proposta di resa, chiesero

      e ottennero una tregua di otto anni. Oltre alla disfatta patita

      sull'Algido, i Volsci erano in quel momento invischiati in uno scontro

      senza fine tra i fautori della pace e i fautori della guerra, che provocò

      disordini e sedizioni: per i Romani ciò significò pace da ogni parte. I

      consoli, venuti a sapere, grazie alla denuncia di uno dei membri del

      collegio dei tribuni, che questi stavano per presentare una legge, molto

      gradita al popolo, sulla determinazione in denaro delle ammende, si

      affrettarono a proporla per primi.

      I consoli successivi furono Lucio Sergio Fidenate, per la seconda volta, e

      Ostio Lucrezio Tricipitino. Durante il loro consolato nulla accadde che

      sia degno di menzione. I successori furono Aulo Cornelio Cosso e Tito

      Quinzio Peno, al secondo mandato. I Veienti fecero delle incursioni in

      territorio romano. Corse voce che a quelle scorrerie avessero preso parte

      alcuni giovani di Fidene, e l'indagine sul fatto venne affidata a Lucio

      Sergio, a Quinto Servilio e a Mamerco Emilio. Alcuni Fidenati furono

      confinati a Ostia perché non era sufficientemente chiaro per qual motivo

      fossero assenti da Fidene proprio in quei giorni. Fu aumentato il numero

      dei coloni ai quali venne assegnata la terra dei caduti in guerra.

      Quell'anno la siccità creò molti disagi e non soltanto vennero a mancare

      le piogge, ma anche la terra, privata della sua naturale umidità, riuscì a

      malapena ad alimentare i fiumi perenni. In alcuni luoghi la mancanza di

      acqua decimò, intorno alle fonti e ai torrenti inariditi, il bestiame che

      moriva di sete. Altri animali furono uccisi dalla scabbia, poi le malattie

      contagiarono gli uomini: prima colpirono la gente di campagna e gli

      schiavi, poi la città ne fu piena. Non soltanto i corpi furono infettati,

      ma anche le menti suggestionate da riti magici di ogni genere di

      provenienza per lo più straniera, perché coloro che speculano sugli animi

      vittime della superstizione, con i loro vaticini riuscivano a introdurre

      nelle case strane cerimonie sacrificali; finché dello scandalo ormai

      pubblico non si resero conto le personalità più autorevoli della città,

      quando videro che in tutti i quartieri e in tutti i tempietti venivano

      offerti dei sacrifici espiatori, forestieri e insoliti, per implorare la

      benevolenza degli dèi. Perciò diedero disposizione agli edili di

      controllare che non si venerassero divinità al di fuori di quelle romane e

      che i riti fossero soltanto quelli tramandati dai padri.

      La vendetta contro i Veienti fu rimandata all'anno successivo, in cui

      furono consoli Gaio Servilio Aala e Lucio Papirio Mugillano. Ma anche

      allora lo scrupolo religioso impedì che si dichiarasse súbito guerra e che

      si inviassero truppe. Si decise di mandare prima i feziali a chiedere

      soddisfazione. Coi Veienti ci si era scontrati poco tempo prima a Nomento

      e Fidene, e a quell'episodio aveva fatto séguito non la pace ma una

      tregua; il termine era ormai scaduto e, prima del termine, quelli avevano

      ripreso le ostilità. Ciononostante vennero inviati i feziali, ma quando

      questi, dopo aver giurato secondo il rito dei padri, chiesero

      soddisfazione, le loro parole non vennero nemmeno ascoltate. Si discusse

      allora se la guerra andava dichiarata su decisione del popolo o se bastava

      un decreto del senato. I tribuni, minacciando di impedire la leva,

      riuscirono a ottenere che il console Quinzio portasse di fronte al popolo

      la questione della guerra. Votarono tutte le centurie. La plebe ebbe la

      meglio anche su di un altro punto: ottenne che non si eleggessero consoli

      per l'anno successivo.

      

      31 Vennero così nominati quattro tribuni militari con potere consolare:

      Tito Quinzio Peno, già console, Gaio Furio, Marco Postumio e Aulo Cornelio

      Cosso. Di loro Cosso ebbe il governo della città, mentre gli altri tre,

      portata a compimento la leva militare, partirono alla volta di Veio e

      dimostrarono quanto in guerra sia dannoso dividere il comando tra più

      persone. Ciascuno prediligeva il proprio piano e siccome ognuno vedeva le

      cose in maniera diversa dagli altri, finirono con l'offrire al nemico

      l'occasione di un colpo di mano. Infatti, mentre le truppe erano

      disorientate perché c'era chi ordinava di dare la carica e chi la

      ritirata, i Veienti li assalirono sfruttando il momento propizio. Fuggendo

      disordinatamente i Romani ripararono nel vicino accampamento: si patì il

      disonore più che la sconfitta. La città, non abituata alle sconfitte,

      piombò nella costernazione; si odiavano i tribuni, si chiedeva un

      dittatore nel quale riporre le speranze di tutto il paese. Poiché anche in

      quella circostanza era di ostacolo lo scrupolo religioso, non potendo il

      dittatore essere nominato se non dal console, si consultarono gli àuguri

      che tolsero quello scrupolo. Aulo Cornelio nominò dittatore Mamerco Emilio

      che a sua volta lo scelse come maestro della cavalleria. Così, quando il

      paese ebbe veramente bisogno di un uomo di qualità superiori, la punizione

      a suo tempo inflitta dai censori non impedì che il timone dello Stato

      fosse affidato a una famiglia ingiustamente bollata di infamia.

      Trascinati dal successo, i Veienti mandarono messaggeri ai popoli

      dell'Etruria ad annunciare pomposamente la loro vittoria su tre comandanti

      romani in una sola battaglia. Pur non essendo riusciti a ottenere alcuna

      alleanza ufficiale dalla confederazione, tuttavia attirarono da ogni parte

      volontari mossi dalla speranza del bottino. Soltanto i Fidenati decisero

      di riaprire le ostilità e, pensando che non fosse lecito iniziare una

      guerra se non con un delitto, come già prima con gli ambasciatori così ora

      macchiarono le loro spade col sangue dei nuovi coloni. Quindi si unirono

      ai Veienti. E poco dopo i capi dei due popoli si consultarono per

      scegliere, tra Veio e Fidene, come teatro di operazioni. Parve più

      opportuna Fidene, e i Veienti, attraversato il Tevere, trasferirono a

      Fidene il loro apparato bellico. A Roma regnava la paura. Richiamato da

      Veio l'esercito demoralizzato per la sconfitta, si pose l'accampamento di

      fronte alla porta Collina, si distribuirono uomini armati sulle mura, si

      sospese l'attività giudiziaria nel foro e si chiusero le botteghe: cose

      queste che dettero a Roma l'aspetto di un campo militare più che di una

      città. 32 E il dittatore, mandati i banditori in giro per i quartieri,

      convocò in assemblea i cittadini smarriti e li rimproverò di essersi persi

      d'animo per un così lieve mutamento della sorte; per aver subito un

      piccolo scacco, oltretutto non dovuto al valore dei nemici o all'ignavia

      dell'esercito romano, ma alla mancanza di intesa tra i generali, avevano

      timore dei Veienti, da loro in passato già sconfitti ben sei volte, e di

      Fidene, città più spesso espugnata che assediata. Sia i Romani che i

      nemici erano gli stessi da molte generazioni: stesso carattere, stessa

      forza fisica, stesse armi. E anche lui era lo stesso dittatore Mamerco

      Emilio che, poco tempo prima, aveva sbaragliato a Nomento gli eserciti di

      Veienti e Fidenati, ai quali si erano uniti i Falisci; come maestro della

      cavalleria in campo di battaglia ci sarebbe stato quello stesso Aulo

      Cornelio che nella guerra precedente, come tribuno militare, aveva ucciso

      davanti a due eserciti il re dei Veienti Larte Tolumnio, e ne aveva

      portato poi le spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio. Prendessero

      quindi le armi, ricordandosi che dalla parte loro c'erano i trionfi, le

      spoglie e la vittoria, mentre da quella del nemico l'orrendo assassinio

      degli ambasciatori uccisi contro il diritto delle genti, il massacro in

      tempo di pace dei coloni di Fidene, la rottura della tregua e la settima

      ribellione destinata a non avere successo. Non appena i due eserciti si

      fossero trovati a contatto, quegli infami nemici non si sarebbero

      rallegrati a lungo, ne era sicuro, dell'umiliazione inflitta all'esercito

      romano e il popolo romano avrebbe capito quanto più meritevoli verso la

      repubblica fossero quelli che lo avevano nominato dittatore per la terza

      volta di coloro che avevano bollato di infamia la sua seconda nomina,

      perché aveva tolto potere ai censori. Quindi parte, dopo aver pronunciato

      solenni voti agli dèi, e si accampa a un miglio e mezzo da Fidene,

      protetto dalle alture a destra e dal fiume Tevere a sinistra. Al suo

      luogotenente Quinzio Peno ordina di occupare i monti e di prendere

      posizione su di un colle situato alle spalle dei nemici e fuori dalla loro

      vista.

      Il mattino dopo, quando gli Etruschi avanzarono in ordine di battaglia,

      resi euforici dal successo del giorno precedente, dovuto più alla fortuna

      che al valore, il dittatore temporeggiò fino a quando le vedette gli

      riferirono che Quinzio aveva raggiunto la sommità del colle vicino alla

      cittadella di Fidene. Allora diede ordine di muoversi, guidando lui stesso

      a passo di carica la fanteria in assetto di guerra contro il nemico. Al

      maestro della cavalleria diede disposizione di combattere solo al suo

      comando: quando avesse avuto bisogno dell'intervento della cavalleria

      avrebbe dato un segnale; allora sì Aulo Cornelio avrebbe dovuto dimostrare

      sul campo di non aver dimenticato la vittoria sul re etrusco, il dono

      opimo, Romolo e Giove Feretrio! Lo scontro tra le due armate fu tremendo.

      Infiammati dall'odio, i Romani chiamano traditori i Fidenati e predoni i

      Veienti; dicono che sono violatori di tregue, macchiati del barbaro

      assassinio degli ambasciatori e con le mani ancora sporche del sangue dei

      loro stessi coloni, alleati infidi e nemici imbelli. Così, con i fatti e

      con le parole, saziano il loro odio.

      

      33 Avevano fatto vacillare la resistenza dei nemici già al primo urto,

      quando all'improvviso si spalancarono le porte di Fidene e dalla città

      fuoriuscì uno strano esercito, inaudito e inusitato fino a quel momento;

      un'immensa moltitudine armata di fuochi, tutta sfavillante di torce

      ardenti che, lanciata in una corsa folle, si riversò sul nemico. Per un

      momento quell'insolito modo di combattere sbigottì i Romani. Allora il

      dittatore chiamò a sé il maestro della cavalleria coi suoi uomini e

      Quinzio dalle alture. Quindi, ravvivando egli stesso la battaglia, si

      precipitò all'ala sinistra che, come se si fosse trovata nel mezzo di un

      incendio più che in un combattimento, aveva cominciato a ripiegare

      terrorizzata dalle fiamme, e gridò: «Vinti dal fumo come uno sciame di

      api, cacciati dalla vostra posizione, cederete a un nemico senz'armi? Non

      volete spegnere il fuoco con la spada? Se c'è da combattere col fuoco e

      non con le armi, perché non andate a strappare tutte quelle torce e non

      attaccate il nemico con le sue stesse armi? Avanti! Memori del nome di

      Roma e del coraggio dei vostri padri e vostro: deviate quest'incendio

      sulla città nemica e distruggete con le sue stesse fiamme Fidene, che con

      i vostri benefici non siete riusciti a placare! Vi spingono a farlo il

      sangue dei vostri ambasciatori e dei coloni e la vostra terra messa a

      ferro e fuoco!» Tutto l'esercito si mise in moto agli ordini del

      dittatore. Raccolsero le torce che erano state lanciate, altre le

      strapparono con la forza ai nemici, così ora entrambi gli eserciti erano

      armati di fuoco. Il maestro della cavalleria da parte sua escogita un

      nuovo tipo di battaglia equestre. Ordina di togliere il morso ai cavalli,

      e per primo, dato di sprone, a briglia sciolta si getta in mezzo alle

      fiamme; e gli altri cavalli, spronati a correre senza più alcun

      impedimento, trascinano i cavalieri contro il nemico. La polvere che si

      alza, mista al fumo delle torce, offusca la vista a uomini e cavalli. Ma

      lo spettacolo inatteso che poco prima aveva atterrito i soldati non

      atterrì i cavalli, così i cavalieri seminarono morte e devastazione

      dovunque passavano. Si udì un nuovo clamore di guerra che attirò

      l'attenzione di entrambi gli eserciti. E il dittatore gridò allora che il

      luogotenente Quinzio aveva attaccato il nemico alle spalle. Poi, lui

      stesso, ripetuto l'urlo di guerra, si butta all'assalto con più

      accanimento. Due eserciti, con due diversi modi di combattere, incalzavano

      e circondavano, di fronte e alle spalle, gli Etruschi, che non avevano

      alcuna possibilità di ritirarsi nell'accampamento o sulle alture, dove era

      spuntato a frapporsi un nuovo contingente nemico. Mentre i cavalli, non

      più trattenuti dal morso, avevano trascinato da ogni parte i cavalieri, la

      maggior parte dei Veienti disordinatamente si dirige verso il Tevere, e i

      Fidenati superstiti cercano di raggiungere la città di Fidene. La fuga

      porta quegli uomini terrorizzati incontro alla morte: alcuni cadono

      trucidati sulle rive del fiume, altri, costretti a buttarsi in acqua,

      vengono travolti dalla corrente. Anche gli esperti nuotatori sono

      sopraffatti dallo sfinimento, dalle ferite e dalla paura. Fra tanti solo

      pochi riescono a raggiungere a nuoto la riva opposta. L'altra parte

      dell'esercito ripara in città passando attraverso l'accampamento.

      Trascinati dall'impeto, anche i Romani si buttano in quella direzione,

      specialmente Quinzio e i soldati che, appena scesi con lui dalle alture,

      sono più freschi e pronti alle fatiche, perché giunti alla fine dello

      scontro.

      

      34 Entrati in città mescolati ai nemici, gli uomini di Quinzio salgono

      sulle mura da dove danno ai compagni il segnale che la città è stata

      presa. Appena il dittatore lo vide - era anche lui già penetrato

      nell'accampamento deserto dei nemici -, conduce verso la porta i soldati

      impazienti di precipitarsi sul bottino, facendo loro balenare la speranza

      di ottenerne molto di più in città. E, accolto all'interno delle mura,

      marcia senza indugi in direzione della cittadella, dove vedeva riversarsi

      la massa scomposta dei fuggitivi. In città il massacro non fu certo minore

      che in battaglia; infine i nemici, gettate le armi, si consegnano al

      dittatore, chiedendo soltanto di aver salva la vita. Città e accampamento

      vengono messi a sacco. Il giorno dopo, tra cavalieri e centurioni venne

      sorteggiato un prigioniero a testa. Due ne toccarono a quanti avevano dato

      prova di grandissimo valore. Il resto dei nemici venne venduto all'asta e

      il dittatore ricondusse in trionfo a Roma l'esercito vincitore e coperto

      di prede. Dopo aver ordinato al maestro della cavalleria di dimettersi

      dalla carica, abdicò anche lui, restituendo dopo quindici giorni in pace,

      quel potere che aveva accettato in guerra, quando la situazione era

      critica. Alcuni nei loro annali hanno riportato che presso Fidene ci fu

      anche una battaglia navale coi Veienti. La cosa è però assai improbabile

      perché neppure oggi il fiume è sufficientemente largo, e allora - come ci

      informano gli antichi - era assai più stretto. A meno che, come spesso

      succede, lo scontro fortuito di alcune navi che cercavano di impedire il

      guado del fiume, non sia stato esagerato per attribuirsi il vanto,

      ingiustificato, di una vittoria navale.

      

      35 L'anno successivo furono tribuni militari con potere consolare Aulo

      Sempronio Atratino, Lucio Quinzio Cincinnato, Lucio Furio Medullino e

      Lucio Orazio Barbato. Ai Veienti fu concessa una tregua di vent'anni, agli

      Equi di tre, anche se la loro richiesta era stata per un periodo più

      lungo; e le lotte interne ebbero tregua.

      L'anno dopo, senza guerre all'esterno né in città, fu reso memorabile dai

      giochi che si era fatto voto di indire durante la guerra, e che furono

      allestiti con straordinario sfarzo dai tribuni militari e richiamarono una

      grande quantità di gente dai paesi vicini. I tribuni militari con potere

      consolare erano Appio Claudio Crasso, Spurio Nauzio Rutilio, Lucio Sergio

      Fidenate e Sesto Giulio Iulo. Per la cortese ospitalità di cui tutti si

      erano fatti carico, la manifestazione riuscì molto gradita ai visitatori.

      A giochi conclusi, i tribuni della plebe organizzarono dei comizi

      turbolenti nel corso dei quali si scagliarono contro la moltitudine

      perché, subendo stupidamente il fascino di coloro che in realtà odiava,

      continuava in eterno a mantenersi schiava, e non solo non osava sperare di

      partecipare al consolato, ma persino quando si trattava di eleggere i

      tribuni militari - magistratura aperta a patrizi e a plebei - dimenticava

      se stessa e i propri candidati. Che smettessero di domandarsi perché mai

      nessuno si preoccupava degli interessi della plebe. Si fatica e si

      affronta il rischio solo quando c'è la speranza di ricavarne vantaggio e

      onore. Non vi è nulla che gli uomini non intraprendano se a chi tenta

      grandi imprese si riservano grandi premi. Ma non si poteva certo

      pretendere, né sperare, che qualche tribuno della plebe si buttasse alla

      cieca, con molto rischio e senza alcun frutto, in scontri che gli

      avrebbero procurato l'implacabile ostilità dei patrizi contro i quali

      lottava, mentre la plebe per la quale combatteva non avrebbe minimamente

      aumentato la considerazione nei suoi riguardi. Solo i grandi onori rendono

      grandi gli animi: nessuno dei plebei avrebbe più disprezzato se stesso, se

      gli altri avessero cessato di disprezzarlo. Con qualcuno bisognava pur

      sperimentare se c'era un plebeo in grado di occupare un'alta carica,

      oppure l'esistenza di un uomo forte e valoroso venuto fuori dalla plebe

      era un prodigio, un miracolo. Con uno sforzo immenso si era arrivati a

      ottenere che i tribuni militari con potere consolare venissero scelti

      anche tra la plebe. Avevano avanzato la propria candidatura uomini di

      provate qualità civili e militari: nei primi anni erano stati derisi,

      respinti e sbeffeggiati dai patrizi. Poi alla fine avevano smesso di

      esporsi agli insulti. Non vedevano perché non si dovesse abrogare quella

      legge che assicurava un diritto che non avrebbe mai potuto realizzarsi.

      Certo per loro sarebbe stato meno vergognoso venir esclusi per

      l'ingiustizia della legge e non perché giudicati indegni.

      

      36 Discorsi di questo genere, ascoltati con viva partecipazione, spinsero

      alcuni a candidarsi al tribunato militare e a promettere che una volta

      eletti avrebbero presentato questa o quella proposta a favore della plebe.

      Si faceva balenare la speranza di distribuire l'agro pubblico, di fondare

      colonie, di erogare per la paga dei soldati una somma ottenuta imponendo

      un tributo ai possessori di terre. I tribuni militari, allora, atteso il

      momento in cui molta gente era via dalla città, dopo aver convocato i

      senatori con un avviso segreto per una data stabilita, in assenza dei

      tribuni della plebe, fecero emanare dal senato un decreto in base al

      quale, giacché circolava voce che i Volsci avevano saccheggiato il

      territorio degli Ernici, i tribuni militari dovevano andare a controllare

      la situazione, e si dovevano tenere i comizi per le elezioni dei consoli.

      I tribuni partirono lasciando come prefetto della città Appio Claudio,

      figlio del decemviro, un uomo molto energico e, fin dalla culla, imbevuto

      di odio verso i tribuni della plebe. Così i tribuni della plebe non

      poterono protestare né contro i promotori del decreto del senato, perché

      erano assenti, né contro Appio, perché ormai la cosa era approvata.

      

      37 Furono eletti consoli Gaio Sempronio Atratino e Quinto Fabio Vibulano.

      In quell'anno, a quanto si dice, accadde un episodio che, pur riguardando

      un paese straniero, merita ugualmente di essere menzionato. Volturno, la

      città etrusca oggi nota come Capua, cadde in mano dei Sanniti e fu

      chiamata Capua dal loro comandante Capi o, com'è più probabile, dal

      terreno pianeggiante in cui si trova. I Sanniti la presero dopo esser

      stati in un primo tempo invitati dagli Etruschi, stremati dalla guerra, a

      dividere con loro i benefici della cittadinanza e la proprietà delle

      terre. Poi, nella notte successiva a un giorno di festa, i nuovi coloni

      assalirono i vecchi abitanti immersi nel sonno dopo le gozzoviglie, e li

      massacrarono.

      I consoli sopra menzionati entrarono in carica alle idi di dicembre, dopo

      che erano avvenuti questi fatti. Ormai, non soltanto gli uomini che erano

      stati inviati per informarsi erano già ritornati con la notizia che i

      Volsci erano sul piede di guerra, ma anche gli ambasciatori di Latini ed

      Ernici riferivano che mai i Volsci, prima di allora, si erano tanto

      impegnati nella scelta dei comandanti e nell'arruolamento di un esercito;

      la gente continuava a dire che bisognava o dimenticare una volta per tutte

      le armi e la guerra sottomettendosi al giogo nemico, oppure non essere

      inferiori per valore, resistenza e disciplina militare a coloro con i

      quali si era in lotta per la supremazia. Le informazioni rispondevano a

      verità, ma i patrizi non le tennero nella dovuta considerazione. E Gaio

      Sempronio, a cui era toccata in sorte quella provincia, confidando nella

      costanza della fortuna, giacché guidava un popolo di vincitori contro dei

      vinti, dimostrò una sconsideratezza e un'incuria tali che vi era più

      disciplina nell'esercito volsco che in quello romano. Come spesso in altre

      occasioni, al valore si accompagnò la fortuna. All'inizio della battaglia,

      affrontata da Sempronio con leggerezza e imprudenza, si andò all'attacco

      senza aver rinforzato lo schieramento con le riserve e senza aver disposto

      opportunamente la cavalleria. Il primo indizio sugli esiti della battaglia

      fu l'urlo di guerra che si levò forte e continuo dalla parte dei nemici,

      confuso, ineguale e ripetuto fiaccamente da parte dei Romani. L'esercito,

      con quell'incerto grido, tradì la paura degli animi. Perciò il nemico si

      buttò all'assalto con ancora più accanimento, premendo con gli scudi e

      facendo lampeggiare le spade. Dall'altra parte, ondeggiano gli elmi dei

      soldati che si guardano attorno, e, non sapendo cosa fare, si agitano, si

      accalcano nel fitto della schiera. Le insegne un po' restano sul posto

      abbandonate dai soldati della prima fila, un po' sono riportate

      nell'interno dei manipoli. Non era ancora una vera fuga, non era ancora

      una vittoria. I Romani, più che combattere, cercavano di proteggersi. I

      Volsci si buttavano all'assalto, premevano contro le truppe romane, ma

      vedevano più nemici morti che in fuga.

      

      38 Ormai si cede da ogni parte. Inutili sono i rimproveri e gli

      incitamenti del console Sempronio. A nulla servivano il potere e

      l'autorità, e presto i suoi uomini avrebbero volto le spalle ai nemici, se

      Sesto Tempanio, un decurione di cavalleria, non fosse intervenuto con

      grande prontezza di spirito quando ormai la situazione stava per

      precipitare. Dopo aver urlato ai cavalieri di scendere da cavallo, se

      volevano salvare la repubblica - e i cavalieri di tutti gli squadroni

      avevano obbedito come a un comando del console -, egli aggiunse: «Se

      questa coorte armata di piccoli scudi non riesce a frenare l'impeto dei

      nemici, è la fine della nostra supremazia. Seguite la punta della mia

      lancia come se fosse un vessillo. Mostrate a Volsci e Romani che non c'è

      cavalleria che possa starvi a pari quando siete in sella, né fanteria

      quando vi trasformate in fanti!» Siccome al suo incitamento seguì un urlo

      di approvazione, Tempanio avanza reggendo alta la punta della lancia.

      Dovunque passano, si fanno breccia con la forza. Proteggendosi con gli

      scudi, accorrono dove vedono i compagni in maggiore difficoltà. Le sorti

      della battaglia si risollevano in tutti i punti dove il loro slancio li

      trascina. E se quel pugno di uomini avesse potuto buttarsi dovunque

      simultaneamente, non c'era dubbio che i nemici si sarebbero dati alla

fuga.

      

      39 Quando ormai da nessuna parte si poteva resistere al loro attacco, il

      comandante dei Volsci ordina di lasciar libero il passo a quella singolare

      coorte di nemici armati di scudi leggeri finché, trascinata dal suo

      impeto, non si trovasse tagliata fuori dai compagni. Allorché l'ordine

      venne eseguito, i cavalieri, intrappolati, non riuscirono più a sfondare

      là dove erano passati, perché i nemici erano andati a serrarsi proprio nel

      punto dove i cavalieri avevano fatto breccia. Così, quando il console e le

      legioni romane non videro più gli uomini che poco prima avevano protetto

      l'intero esercito, tentarono il tutto per tutto per evitare che il nemico

      annientasse, dopo averli intrappolati, tanti valorosi soldati. I Volsci,

      divisi in due fronti, da una parte tenevano testa al console e alle

      legioni e dall'altra incalzavano Tempanio e i suoi cavalieri. Questi

      ultimi, nonostante i ripetuti tentativi, non erano riusciti ad aprirsi un

      varco verso i compagni, e, occupata un'altura, si difendevano disposti in

      cerchio, non senza ribattere colpo su colpo. La battaglia durò fino al

      calar della notte. Anche il console continuò a impegnare il nemico in uno

      scontro senza soste finché rimase un barlume di luce. La notte separò i

      contendenti quando la battaglia era ancora incerta. L'impossibilità di

      prevederne l'esito provocò in entrambi gli accampamenti un tale terrore

      che tutti e due gli eserciti, dopo aver abbandonato i feriti e gran parte

      dei bagagli, ripararono, come se fossero stati vinti, sulle alture vicine.

      Tuttavia la collina fu assediata fino oltre la mezzanotte. Ma quando agli

      assedianti arrivò notizia che il loro accampamento era stato abbandonato,

      pensando che i compagni fossero stati vinti, fuggirono anch'essi nelle

      tenebre, ognuno dove lo portava la paura. Tempanio, temendo un'imboscata,

      tenne fermi i suoi fino all'alba. Poi, sceso in ricognizione con pochi

      uomini, informandosi presso alcuni nemici feriti, venne a sapere che

      l'accampamento dei Volsci era stato abbandonato. Felice per questa

      notizia, gridò ai suoi uomini di scendere dalla collina ed entrò nel campo

      romano. Ma avendo qui trovato tutto deserto, abbandonato e nella stessa

      desolazione dell'accampamento nemico, prima che i Volsci, rendendosi conto

      dell'errore, tornassero indietro, prese con sé i feriti che gli era

      possibile trasportare e, ignorando in che direzione fosse andato il

      console, si avviò per la strada più breve verso la città.

      

      40 Là era già arrivata notizia della sconfitta e dell'abbandono

      dell'accampamento e, più di ogni altra cosa, era stata accolta con

      manifestazioni di lutto pubblico e privato la perdita dei cavalieri. Il

      console Fabio, siccome anche a Roma regnava la paura, stava di guardia

      alle porte; quando in lontananza furono avvistati i cavalieri, ci fu un

      momento di panico perché non si sapeva chi fossero. Ma appena furono

      riconosciuti, trasformarono la paura in una gioia così grande che la città

      tutta si riempì delle grida di chi esultava per il ritorno dei cavalieri

      salvi e vittoriosi. E dalle case che poco prima in lutto avevano pianto la

      morte dei loro, la gente si riversò per le strade; le madri e le mogli

      trepidanti, dimentiche per la gioia del loro decoro, corsero incontro allo

      squadrone e si abbandonarono, con l'anima e col corpo, nelle braccia dei

      congiunti, riuscendo a stento a controllarsi per la felicità. I tribuni

      della plebe, che avevano citato in giudizio Marco Postumio e Tito Quinzio

      ritenendoli responsabili della sconfitta subita presso Veio, colsero al

      volo l'occasione del recente risentimento nei confronti di Sempronio per

      rinfocolare l'odio della gente verso di loro. Così, convocata l'assemblea,

      andavano proclamando che a Veio la repubblica era stata tradita dai suoi

      generali e che in séguito, visto che i generali non erano stati puniti,

      anche il console aveva tradito l'esercito, impegnato a combattere coi

      Volsci, mentre gli eroici cavalieri erano stati esposti al massacro e

      l'accampamento vergognosamente abbandonato. Allora Gaio Giunio ordinò di

      far chiamare il cavaliere Tempanio e, una volta avutolo di fronte, gli

      disse: «Sesto Tempanio, io ti chiedo se pensi che il console Sempronio sia

      entrato in battaglia al momento opportuno, se abbia rinsaldato il suo

      schieramento con le riserve, e se abbia in qualche modo adempiuto ai

      doveri di un buon console; se sei stato proprio tu che, quando le legioni

      romane erano ormai vinte, di tua iniziativa hai appiedato i cavalieri e

      risollevato le sorti della battaglia. E poi, quando tu e i tuoi cavalieri

      siete rimasti tagliati fuori dal resto delle nostre truppe, se il console

      è intervenuto di persona in vostro aiuto o se ha mandato rinforzi. E

      ancora, se il giorno successivo hai infine ricevuto qualche soccorso, o se

      tu e la tua coorte vi siete aperti la strada verso il campo solo con il

      vostro valore. E se nell'accampamento avete trovato traccia del console e

      dell'esercito, o soltanto soldati feriti abbandonati in mezzo alla

      desolazione. Oggi devi dire queste cose, in nome del tuo coraggio e della

      tua lealtà grazie ai quali soltanto in questa guerra la repubblica non è

      crollata. Devi dire dove si trovano adesso Gaio Sempronio e le nostre

      legioni, se sei stato abbandonato o se tu hai abbandonato il console e

      l'esercito; e infine se siamo vinti o vincitori.»

      

      41 In risposta, si racconta, il discorso di Tempanio fu senza fronzoli e

      serio, alla maniera dei militari; senza vane lodi per sé, né compiacimento

      per le altrui colpe. Per quanto riguardava la perizia bellica di Gaio

      Sempronio, disse che non spettava certo a un soldato esprimere un giudizio

      su un generale, ma era spettato al popolo romano quando nei comizi lo

      aveva scelto come console. Perciò non era a lui che si doveva chiedere un

      giudizio sui piani di un comandante o sulle astuzie di un console, cose

      queste che avrebbero richiesto una profonda riflessione anche da parte di

      persone di grande cuore e intelligenza. Ma poteva riferire quello che

      aveva visto. Prima di rimanere isolato dal resto delle truppe, aveva visto

      il console combattere in prima linea, incoraggiare i suoi e aggirarsi tra

      le insegne romane e i dardi nemici. In séguito, tagliato fuori dalla vista

      dei suoi, dallo strepito e dalle urla aveva capito che la battaglia era

      durata fino al calar della notte, e riteneva che, data la gran quantità di

      nemici, non fosse stato possibile sfondare in direzione della collina dove

      lui si era attestato. Ignorava dove si trovasse l'esercito. Ma come nel

      momento critico lui e i compagni erano andati a mettersi al riparo

      sfruttando le difese naturali della posizione, supponeva che anche il

      console, per salvare l'esercito, fosse andato ad accamparsi in un luogo

      più sicuro. A suo parere i Volsci non versavano in condizioni migliori di

      quelle dei Romani. L'oscurità e le circostanze avevano tratto in errore

      entrambi gli eserciti. E avendo infine pregato che non lo trattenessero

      più a lungo, stremato com'era dalla fatica e dalle ferite, fu congedato

      con grandi elogi, non solo per il coraggio, ma anche per la moderazione.

      Nel frattempo il console era già arrivato al tempio della Quiete sulla via

      Labicana. E lì dalla città furono inviati carri e bestie da soma per

      riportare indietro l'esercito sfibrato dalla battaglia e dalla marcia

      notturna. Poco dopo il console entrò in città e si affrettò a ricoprire

      Tempanio di meritate lodi più che a discolpare se stesso. Mentre la città

      era in angustie per l'insuccesso e sdegnata nei confronti dei comandanti,

      Marco Postumio, che a Veio era stato tribuno militare con potere

      consolare, fu offerto come imputato e condannato al pagamento di 10.000

      assi pesanti. Il suo collega Tito Quinzio, che era uscito vincitore sia

      contro i Volsci come console sotto il comando del dittatore Postumio

      Tuberto, sia contro Fidene come luogotenente dell'altro dittatore Mamerco

      Emilio, riversando sul collega già condannato tutta la responsabilità di

      quella giornata, fu assolto da tutte le tribù. Si dice che gli siano stati

      di aiuto il ricordo del padre Cincinnato, uomo degno di grande rispetto, e

      Quinzio Capitolino, allora già molto avanti negli anni, il quale

      supplicava di evitare che proprio a lui, che aveva poco da vivere,

      toccasse riferire a Cincinnato una notizia così triste.

      

      42 Il popolo elesse tribuni della plebe, nonostante fossero assenti, Sesto

      Tempanio, Marco Asellio, Tiberio Antistio e Spurio Pullio, che i

      cavalieri, su proposta di Tempanio, avevano scelto come centurioni. Il

      senato, rendendosi conto che il risentimento nei confronti di Sempronio

      aveva reso detestabile il nome di console, decretò che si eleggessero dei

      tribuni militari con potere consolare. Furono nominati Lucio Manlio

      Capitolino, Quinto Antonio Merenda e Lucio Papirio Mugillano. All'inizio

      dell'anno, il tribuno della plebe Lucio Ortensio citò in giudizio Gaio

      Sempronio, che era stato console l'anno prima. Quattro colleghi lo

      implorarono di fronte a tutto il popolo romano di non infierire sul loro

      incolpevole comandante, al quale non si poteva imputare nulla eccetto la

      cattiva sorte; Ortensio si irritò, pensando che volessero mettere alla

      prova la sua fermezza e che l'imputato confidasse non tanto nelle

      suppliche dei tribuni, ostentate soltanto per salvare le apparenze, quanto

      piuttosto nel loro appoggio legale. E così, rivolgendosi a Sempronio, gli

      chiedeva dove fosse il famoso orgoglio dei patrizi e dove l'animo sicuro e

      convinto della propria innocenza: un ex-console si rifugiava sotto la

      protezione dei tribuni! E rivolgendosi ai colleghi: «Quanto a voi, che

      cosa intendete fare se io proseguo nell'accusa fino alla condanna? Volete

      privare il popolo dei suoi diritti o distruggere il potere dei tribuni?»

      Ma essi ribatterono che il giudizio su Sempronio e su chiunque altro

      spettava all'autorità assoluta del popolo romano, e che essi non volevano

      e non potevano sopprimere il giudizio del popolo. Ma, se le preghiere in

      favore del comandante, che per loro era come un padre, non fossero

      servite, avrebbero indossato con lui la veste da supplici. Allora Ortensio

      disse: «La plebe romana non vedrà i suoi tribuni in gramaglie. Ritiro la

      mia accusa contro Gaio Sempronio, visto che mentre comandava è riuscito a

      farsi amare così tanto dai suoi soldati.» La compassione dei quattro

      tribuni non fu per la plebe e per i senatori meno gradita

      dell'arrendevolezza di Ortensio di fronte a giuste richieste.

      La buona sorte cessò di arridere agli Equi, che avevano salutato come

      propria la dubbia vittoria conseguita dai Volsci. 43 L'anno successivo

      divennero consoli Numerio Fabio Vibulano e Tito Quinzio Capitolino, figlio

      di Capitolino. Sotto il comando di Fabio, cui erano toccate in sorte le

      operazioni contro gli Equi, non ci furono episodi degni di nota. Gli Equi

      erano appena riusciti a mettere in mostra un timido schieramento di

      battaglia che i Romani li sbaragliarono, senza quindi grande gloria per il

      console. Perciò gli venne negato il trionfo, ma per aver cancellato l'onta

      della disfatta subita da Sempronio, gli fu concesso di entrare in città

      con gli onori dell'ovazione.

      Mentre la guerra si era conclusa con uno scontro di dimensioni ridotte

      rispetto a quanto si temeva, in città la calma fu interrotta da contrasti

      di imprevista gravità tra plebei e patrizi, dovuti alla proposta di

      raddoppiare il numero dei questori. Questa proposta, che prevedeva si

      eleggessero, oltre ai due questori urbani, altri due destinati ad

      assistere i consoli nell'amministrazione bellica, era stata avanzata dai

      consoli, e i senatori l'avevano appoggiata con entusiasmo. Ma i tribuni

      della plebe diedero battaglia perché una parte dei nuovi questori, che

      fino a quel giorno erano stati eletti solo fra i patrizi, fosse scelta tra

      la plebe. Sulle prime sia i consoli che i senatori fecero di tutto per

      opporsi a questa rivendicazione. In séguito concessero che, così come

      nell'elezione dei tribuni militari con potere consolare, allo stesso modo

      nella nomina dei questori il popolo avesse libertà assoluta di scelta.

      Poi, vedendo gli scarsi risultati ottenuti, abbandonano del tutto la

      proposta di aumentare il numero dei questori. I tribuni riprendono la

      proposta che era stata abbandonata, e inoltre altre proposte sediziose,

      tra cui anche quella di una legge agraria. A causa di tali contrasti il

      senato preferì eleggere i consoli anziché i tribuni militari. Ma dato che

      l'intervento dei tribuni non permise di emanare un decreto, la repubblica

      passò dal consolato all'interregno. Nemmeno questo fu però esente da gravi

      disordini, perché i tribuni impedivano ai senatori di riunirsi. La maggior

      parte dell'anno successivo si trascinò in scontri tra i nuovi tribuni e

      alcuni interré: a seconda infatti del momento, i tribuni impedivano ai

      senatori di riunirsi per nominare un interré, o all'interré di emanare un

      decreto senatoriale sull'elezione dei consoli. Alla fine fu nominato

      interré Lucio Papirio Mugillano il quale, stigmatizzando sia i senatori,

      sia i tribuni della plebe, ricordava che la repubblica, abbandonata e

      trascurata dagli uomini, ma sostenuta dalla provvidenza e dalla cura degli

      dèi, continuava a reggersi in piedi grazie alla tregua con i Veienti e

      alle esitazioni degli Equi. Tuttavia, se da quella parte fossero arrivati

      allarmanti segnali, erano contenti che la repubblica, priva di magistrati

      patrizi, venisse schiacciata? Che non ci fossero né un esercito né un

      comandante per arruolarlo? O avrebbero respinto una guerra esterna con una

      guerra civile? Se l'una e l'altra fossero esplose insieme, a stento con

      l'aiuto degli dèi si sarebbe potuto evitare che la potenza romana venisse

      travolta. Perché invece, rinunciando ciascuno a una parte dei propri

      diritti, non si sforzavano di trovare un accordo su una posizione

      intermedia, i senatori accettando che al posto dei consoli fossero eletti

      i tribuni militari, e i tribuni della plebe non opponendosi all'elezione

      di quattro questori scelti indistintamente tra patrizi e plebei con il

      libero voto del popolo?

      

      44 Si tennero prima i comizi per l'elezione dei tribuni. Furono eletti

      tribuni con potere consolare Lucio Quinzio Cincinnato, per la terza volta,

      Lucio Furio Medullino, per la seconda, Marco Manlio e Aulo Sempronio

      Atratino, tutti patrizi. Quest'ultimo tenne i comizi per le elezioni dei

      questori. Benché, tra i non pochi plebei, aspirassero alla carica il

      figlio del tribuno della plebe Aulo Antistio e il fratello dell'altro

      tribuno Sesto Pompilio, né l'autorità e né l'appoggio di costoro poterono

      impedire che la gente desse la sua preferenza, per la loro nobiltà, a

      uomini i cui padri e i cui antenati aveva visto consoli. Tutti i tribuni

      erano fuori di sé, e in particolare Pompilio e Antistio, indignati per lo

      scacco subito dai congiunti. Che cosa significava l'accaduto? Com'era

      possibile che i servigi da loro prestati, gli abusi compiuti dai patrizi o

      il piacere di esercitare un diritto che prima non era mai stato concesso,

      non avessero indotto il popolo a eleggere, se non un tribuno militare,

      almeno un solo questore plebeo! Non erano dunque servite a nulla le

      preghiere di un padre per il figlio e di un fratello per il fratello, pur

      essendo entrambi tribuni della plebe, rivestiti di quel sacrosanto potere

      creato per la salvaguardia della libertà. In tutta quella faccenda c'erano

      senz'altro degli imbrogli e Aulo Sempronio nei comizi si era valso più

      dell'astuzia che della lealtà. Sostenevano che i loro congiunti erano

      stati privati della carica per i raggiri di Sempronio. Siccome non

      potevano attaccare lui personalmente, protetto com'era dalla sua fama di

      onestà e dalla magistratura che in quel momento deteneva, rivolsero la

      loro rabbia contro Gaio Sempronio, cugino di Atratino, e, con l'appoggio

      del collega Marco Canuleio, lo citarono in giudizio per l'umiliazione

      subita nella guerra contro i Volsci. In séguito gli stessi tribuni

      portarono in senato la questione della distribuzione delle terre, misura

      alla quale Gaio Sempronio si era sempre opposto con accanimento;

      pensavano, e a ragione, che Sempronio o avrebbe perso credito presso i

      patrizi abbandonando la causa, o continuando a sostenerla fino al giorno

      del processo avrebbe scontentato la plebe. Egli preferì esporsi all'odio e

      nuocere alla propria causa piuttosto che all'interesse del paese, e rimase

      fedele all'opinione che non si dovesse fare alcuna elargizione, perché ciò

      avrebbe solo aumentato la popolarità dei tribuni. Questi ultimi non

      cercavano di ottenere terra per la plebe, ma risentimento contro la sua

      persona. Egli avrebbe affrontato anche quella tempesta con animo forte;

      quanto al senato, non doveva avere, nei confronti suoi o di qualsiasi

      altro cittadino, tanto riguardo da danneggiare la collettività per salvare

      un solo individuo. Con animo non meno deciso, quando venne il giorno del

      processo, perorò di persona la propria causa e, nonostante i molti

      tentativi fatti dai senatori per placare la plebe, Sempronio fu condannato

      a una multa di 15.000 assi.

      Quello stesso anno la vergine Vestale Postumia fu processata per amore

      sacrilego. Pur essendo innocente, attirò su di sé i sospetti della gente

      per il suo modo di vestire troppo raffinato e per il comportamento più

      libero di quanto convenisse a una vergine. La causa fu prima rinviata, poi

      la donna fu assolta, ma il pontefice massimo a nome di tutto il collegio

      le ordinò di astenersi dalle frivolezze e di coltivare più la santità che

      l'eleganza. Nel corso di quello stesso anno, i Campani conquistarono Cuma,

      città che allora era in mano dei Greci.

      L'anno successivo ebbe come tribuni militari con potere consolare Agrippa

      Menenio Lanato, Publio Lucrezio Tricipitino e Spurio Nauzio Rutilio. 45

      Grazie alla fortuna del popolo romano, fu quello un anno memorabile più

      per il grande pericolo corso che per il danno subito. Gli schiavi

      congiurarono di appiccare fuoco alla città in punti tra loro distanti, e

      di occupare in armi la cittadella e il Campidoglio mentre la gente era

      intenta qua e là a portar soccorso alle case. Ma Giove sventò questi piani

      scellerati e, grazie alla delazione di due partecipanti alla congiura, i

      colpevoli vennero arrestati e puniti. I delatori furono ricompensati con

      10.000 assi pesanti pagati dall'erario - una somma allora considerata una

      vera fortuna - e con la concessione della libertà.

      Gli Equi ricominciarono a fare preparativi di guerra e da fonti degne di

      fede arrivò a Roma la notizia che nuovi nemici, i Labicani, si erano

      alleati con quelli di un tempo. All'ostilità degli Equi la città era ormai

      abituata come a un anniversario. Ma, siccome la delegazione inviata a

      Labico era tornata con risposte ambigue, dalle quali si intuiva che non

      preparavano ancora la guerra, ma che la pace non sarebbe durata a lungo, i

      Romani affidarono ai Tuscolani il cómpito di controllare che a Labico non

      sorgessero nuove minacce di guerra.

      I tribuni militari con potere consolare per l'anno successivo, Lucio

      Sergio Fidenate, Marco Papirio Mugilano e Gaio Servilio, figlio di Prisco,

      il dittatore che aveva conquistato Fidene, súbito dopo essere entrati in

      carica, ricevettero la visita di ambasciatori da Tuscolo. Riferivano che i

      Labicani avevano impugnato le armi e si erano accampati sull'Algido, dopo

      aver devastato la campagna di Tuscolo insieme a contingenti di Equi. Fu

      allora dichiarata guerra ai Labicani. Avendo il senato decretato che due

      tribuni partissero per la guerra e che uno rimanesse invece a capo della

      città, súbito scoppiò un litigio fra i tribuni perché ciascuno vantava la

      propria superiorità in campo militare e disprezzava il governo della

      città, considerandolo un compito sgradito e inglorioso. Mentre i senatori

      assistevano sbalorditi a quell'alterco non certo decoroso tra colleghi,

      Quinto Servilio esclamò: «Visto che non avete alcun rispetto né per questo

      consesso né per la repubblica, dirimerà questa contesa l'autorità paterna:

      mio figlio governerà la città senza che si debba ricorrere all'estrazione

      a sorte. Spero soltanto che chi aspira al comando in guerra sappia usare

      maggiore ragionevolezza e concordia nel reggerlo che nel desiderarlo.»

      

      46 Si decise di non organizzare una leva militare che coinvolgesse tutta

      la popolazione; furono estratte a sorte solo dieci tribù, all'interno

      delle quali i due tribuni scelsero i più giovani e li condussero a

      combattere. Gli attriti sorti in città tra i tribuni si riaccesero

      nell'accampamento per la stessa, insaziabile sete di comando. Non erano

      d'accordo su nulla; lottavano per far prevalere la propria opinione;

      ciascuno esigeva che solo i suoi piani e i suoi ordini fossero approvati.

      Si disprezzavano a vicenda. Finché, dopo una reprimenda dei loro

      luogotenenti, decisero di esercitare il supremo comando a giorni alterni.

      Quando queste notizie arrivarono a Roma, si dice che Quinto Servilio,

      ammaestrato dall'età e dall'esperienza, abbia implorato gli dèi immortali

      perché la discordia dei tribuni non fosse tanto dannosa per la repubblica

      quanto lo era stata a Veio. E come se una disfatta imminente fosse ormai

      certa, insistette con il figlio perché arruolasse dei soldati e preparasse

      le armi. Non fu cattivo profeta. Infatti, quando i Romani agli ordini di

      Lucio Sergio, a cui quel giorno toccava il comando, si vennero a trovare

      in una posizione svantaggiosa sotto l'accampamento nemico, dove li aveva

      trascinati la speranza infondata di espugnarlo - visto che gli avversari

      si erano ritirati al di là della palizzata di protezione fingendo di

      essere in preda al panico -, un attacco improvviso degli Equi li ricacciò

      giù lungo il pendio di una valle. Molti furono raggiunti e massacrati

      mentre, più che fuggire, ruzzolavano verso il basso. Quel giorno

      riuscirono a stento a difendere l'accampamento, mentre quello successivo,

      ormai quasi circondati dai nemici, lo abbandonarono fuggendo

      vergognosamente attraverso la porta sul lato opposto. I comandanti con i

      luogotenenti e le forze rimaste abbarbicate alle insegne si diressero a

      Tuscolo. Altri, dopo essersi dispersi per le campagne, per vie diverse

      raggiunsero Roma, portando la notizia di una sconfitta maggiore di quella

      subita. La reazione fu però più contenuta del previsto, giacché tutti

      erano preparati al disastro e le riserve su cui contare in una situazione

      di emergenza erano già state preparate dal tribuno militare. Per

      disposizione di quest'ultimo, i magistrati di rango inferiore riportarono

      l'ordine in città, e gli osservatori mandati in gran fretta tornarono con

      la notizia che i comandanti e l'esercito erano a Tuscolo e che il nemico

      non aveva spostato l'accampamento. Quello che però più di ogni altra cosa

      riuscì a infondere coraggio, fu la nomina a dittatore, per decreto del

      senato, di Quinto Servilio Prisco, uomo di cui il paese aveva potuto

      apprezzare la lungimiranza già in molte altre passate circostanze, ma

      anche in occasione di quella guerra, perché soltanto lui aveva previsto in

      anticipo i pessimi risultati della rivalità tra i tribuni. Dopo aver

      nominato maestro della cavalleria il figlio, dal quale - quando questi era

      tribuno militare - era stato proclamato dittatore (è questa la tesi di

      alcuni storici, altri scrivono che quell'anno fu Servilio Aala maestro

      della cavalleria) Quinto Servilio partì per la guerra con un nuovo

      esercito e, fatti venire gli uomini che si trovavano a Tuscolo, pose il

      campo a due miglia dal nemico.

      

      47 In séguito al successo ottenuto, erano passati agli Equi l'arroganza e

      la negligenza già dei comandanti romani. Così il dittatore, buttatosi

      all'assalto con la cavalleria e avendo scompigliato sin da súbito le prime

      linee dei nemici, ordinò alle legioni di avanzare rapidamente e uccise uno

      dei suoi vessilliferi che esitava. Le truppe si gettarono nella mischia

      con tale accanimento che gli Equi non riuscirono a reggere l'urto, e,

      sconfitti sul campo, si diressero con una fuga disordinata verso

      l'accampamento; questo fu espugnato dai Romani in meno tempo e lotta che

      nella battaglia. Preso e saccheggiato l'accampamento, il dittatore

      concesse il bottino ai soldati. I cavalieri, che avevano inseguito i

      nemici fuggiti dal campo, riferirono che tutti i Labicani vinti e buona

      parte degli Equi si erano rifugiati a Labico. Il giorno dopo l'esercito

      giunse a Labico; la città, circondata, fu presa facendo uso di scale e

      saccheggiata. Il dittatore riportò a Roma l'esercito vincitore e rinunciò

      alla carica otto giorni dopo essere stato eletto. Poi, opportunamente,

      prima che i tribuni della plebe fomentassero disordini per la legge

      agraria proponendo la distribuzione del territorio labicano, il senato, a

      grande maggioranza, stabilì di fondare una colonia a Labico. Mille e

      cinquecento coloni furono inviati da Roma e ciascuno di loro ricevette

      2.000 iugeri di terra.

      Dopo la conquista di Labico si ebbero come tribuni militari con potere

      consolare Agrippa Menenio Lanato, Gaio Servilio Strutto e Publio Lucrezio

      Tricipitino, tutti per la seconda volta, e Spurio Rutilio Crasso; l'anno

      successivo Aulo Sempronio Atratino, per la terza volta, Marco Papirio

      Mugillano e Spurio Nauzio Rutilio, entrambi per la seconda volta. Per due

      anni vi furono rapporti tranquilli con l'esterno e disordini interni

      dovuti alle leggi agrarie. 48 Chi fomentava il volgo erano i tribuni della

      plebe Spurio Mecilio, al quarto mandato, e Marco Metilio, al terzo,

      entrambi eletti pur non essendo a Roma. Essi avevano presentato una

      proposta di legge in base alla quale la terra tolta al nemico doveva

      essere divisa un tanto a testa; questo decreto del popolo avrebbe portato

      alla confisca delle fortune di gran parte dei nobili; infatti, com'era

      normale per una città situata su suolo altrui, non esisteva probabilmente

      un solo palmo di terra che non fosse stato conquistato con le armi e la

      plebe non possedeva altro se non gli appezzamenti venduti o assegnati

      dallo Stato, per questo si profilava uno scontro durissimo tra plebe e

      patrizi. Né in senato, né nelle riunioni private che tenevano con le

      personalità più in vista, i tribuni militari riuscivano a trovare sulla

      questione una via d'uscita. Allora Appio Claudio, nipote dell'Appio

      Claudio che era stato tra i decemviri addetti alla stesura delle leggi,

      pur essendo il più giovane fra i senatori, disse, a quanto si racconta,

      che da casa portava un espediente antico e familiare. Infatti era stato il

      suo bisavolo Appio Claudio a indicare ai patrizi come unico mezzo per

      annientare la potestà tribunizia l'opposizione dei colleghi. Gli uomini

      nuovi alle cariche pubbliche, diceva, facilmente si lasciano indurre a

      cambiar idea dall'autorità dei maggiorenti qualora questi adattino i loro

      discorsi una volta tanto alle circostanze e non alla dignità del loro

      rango. Gli umori di persone come i tribuni mutano secondo la situazione:

      non appena avessero visto come il favore popolare andava tutto a quei

      colleghi che, senza lasciare spazio a loro, promuovevano per primi qualche

      iniziativa, allora avrebbero abbracciato senza alcuna esitazione la causa

      del senato, per guadagnarsi le simpatie dell'intero ordine e soprattutto

      quelle dei senatori più autorevoli. Tutti approvarono e in particolare

      Quinto Servilio Prisco lodò il giovane perché non aveva tralignato dalla

      stirpe dei Claudi. Quindi a ciascuno, per quel che poteva, venne dato

      l'incarico di indurre al veto qualche membro del collegio dei tribuni.

      Tolta la seduta, i senatori cominciarono ad avvicinare i tribuni. Con

      argomenti persuasivi, con esortazioni e con l'assicurazione che il loro

      gesto sarebbe risultato gradito ai singoli e a tutto il senato, riuscirono

      a convincere sei tribuni a porre il veto. Quando il giorno dopo - come

      precedentemente convenuto - si riferì al senato la sedizione fomentata da

      Mecilio e Metilio con la loro deleteria proposta di riforma agraria, il

      tenore dei discorsi pronunciati dai senatori più autorevoli era tale che

      ciascuno, per parte sua, diceva di non saper ormai quale suggerimento dare

      e di non vedere nessun'altra soluzione se non nell'aiuto dei tribuni: la

      repubblica ormai in stato d'assedio si affidava alla loro protezione, come

      un cittadino bisognoso d'aiuto. Era motivo di onore per i tribuni e per la

      loro carica che il tribunato non si opponesse ai colleghi malvagi con

      minore decisione di quanta ne dimostrasse nell'attaccare il senato e nel

      suscitare discordie tra i diversi ordini sociali. Per tutto il senato

      sorse allora un mormorio e da ogni parte della curia si invocavano i

      tribuni. Poi, una volta tornato il silenzio, i tribuni predisposti dalle

      pressioni dei capi patrizi dichiararono di esser pronti a opporre il

      proprio veto alla proposta presentata dai colleghi, proposta che il senato

      riteneva potesse sovvertire la repubblica. Il senato ringraziò coloro che

      avevano opposto il veto. I tribuni che invece avevano presentato la

      proposta di legge, convocata l'assemblea, chiamarono i colleghi traditori

      degli interessi della plebe e servi dei consoli, e, dopo aver inveito

      contro di loro con parole ancora più dure, rinunciarono all'iniziativa.

      

      49 L'anno successivo - durante il quale furono tribuni militari con potere

      consolare Publio Cornelio Cosso, Gaio Valerio Potito, Quinto Quinzio

      Cincinnato e Numerio Fabio Vibulano -, ci sarebbero state due guerre se

      non fosse stata ritardata da uno scrupolo religioso dei loro capi quella

      contro i Veienti, le cui terre furono devastate dallo straripamento del

      Tevere che travolse soprattutto le fattorie nelle campagne. Nello stesso

      periodo, la disfatta subita tre anni prima non consentì agli Equi di

      portare aiuto ai Bolani, una popolazione che apparteneva alla loro stirpe.

      Costoro avevano fatto delle incursioni nel limitrofo territorio di Labico

      e attaccato i nuovi coloni. Ma, mentre avevano sperato che tutti gli Equi

      approvassero e difendessero quel misfatto, abbandonati dai loro, persero

      terre e città in una guerra che non merita neppure di essere descritta

      perché si ridusse a un assedio da nulla e a una sola battaglia. Il

      tentativo del tribuno della plebe Lucio Decio di far passare una legge in

      base alla quale anche a Bola - come già a Labico - si sarebbero inviati

      dei coloni, fallì per l'opposizione dei colleghi, i quali dichiararono che

      non avrebbero permesso il passaggio di alcun decreto del popolo privo

      dell'autorizzazione del senato.

      L'anno seguente gli Equi riconquistarono Bola e, dopo avervi mandato

      coloni, la protessero con nuove forze, mentre a Roma erano tribuni

      militari con potere consolare Gneo Cornelio Cosso, Lucio Valerio Potito,

      Quinto Fabio Vibulano, per la seconda volta, e Marco Postumio Regillense.

      La campagna contro gli Equi fu affidata a quest'ultimo, uomo di indole

      malvagia, anche se essa si manifestò più nell'ora della vittoria che

      durante la guerra. Arruolato tempestivamente un esercito, egli lo condusse

      a Bola e, dopo aver fiaccato con scaramucce la baldanza degli Equi, fece

      irruzione nella città. Quindi spostò la lotta dai nemici contro i

      concittadini e, sebbene durante l'assedio avesse dichiarato che il bottino

      sarebbe stato dei soldati, una volta conquistata la città mancò di parola.

      Per quanto mi riguarda credo che fu proprio questa la causa del

      risentimento delle truppe, e non la scarsità, rispetto alle promesse del

      tribuno, del bottino trovato in una città saccheggiata poco tempo prima e

      aperta di recente a nuovi coloni. L'irritazione crebbe quando Postumio

      rientrò a Roma richiamato dai colleghi a causa dei disordini provocati dai

      tribuni, e pronunciò in assemblea una frase stupida e insensata: mentre il

      tribuno della plebe Marco Sestio, che proponeva una legge agraria, disse

      che nel contempo avrebbe avanzato anche la proposta di inviare coloni a

      Bola - perché era giusto che la città e le terre di Bola andassero a chi

      le aveva conquistate con le armi -, Postumio esclamò: «Guai ai miei

      soldati se non staranno tranquilli!» Questa frase irritò i senatori non

      meno dei partecipanti all'assemblea. Il tribuno della plebe, uomo energico

      e non privo di eloquenza, avendo trovato un avversario dal carattere

      arrogante e dalla lingua sfrenata, che, aizzato e punzecchiato, avrebbe

      finito per usare espressioni tali da rendere odiose non solo la sua

      persona, ma anche la sua causa e l'intera classe patrizia, cercava di

      trascinare a discutere Postumio più di ogni altro membro del collegio dei

      tribuni militari. Quando ebbe udito quella frase brutale e spietata,

      subito Marco Sestio esclamò: «Ma lo sentite, o Quiriti, che minaccia di

      punire i suoi soldati come se fossero schiavi? E tuttavia questa belva vi

      sembrerà più degna di alti onori di quelli che vi regalano terre e città,

      vi aprono colonie, vi procurano una casa per la vecchiaia, e per fare i

      vostri interessi combattono contro nemici tanto feroci e arroganti?

      Cominciate a domandarvi perché pochi ormai abbracciano la vostra causa. E

      cosa dovrebbero aspettarsi da voi? Forse le cariche che preferite affidare

      ai vostri avversari, piuttosto che ai difensori del popolo romano? Poco fa

      vi ha ferito sentire le parole di costui. Ma ciò ha importanza? Se doveste

      votare ora, preferireste costui, che minaccia di punirvi, a quanti

      vogliono assicurarvi terre, case e patrimoni.»

      

      50 Quando la frase di Postumio arrivò alle orecchie dei soldati, suscitò

      nell'accampamento un'indignazione ancora più grande: l'uomo che era

      ricorso alla frode per togliere il bottino alle sue truppe, ora minacciava

      anche di punirle? Poiché si mormorava apertamente, il questore Publio

      Sestio, pensando che quella sedizione potesse essere repressa con la

      stessa violenza con la quale era scoppiata, inviò un littore ad arrestare

      un soldato che sbraitava. Allora si sentirono urla e ingiurie; il

      questore, colpito da un sasso, dovette allontanarsi dalla mischia, mentre

      l'uomo che lo aveva colpito gridava che al questore era toccata la

      punizione che il comandante aveva minacciato di infliggere ai soldati.

      Richiamato da questo tumulto, Postumio aggravò la situazione con duri

      interrogatori e crudeli punizioni. Quando le urla di quelli che erano

      stati condannati a morte con il graticcio richiamarono una gran folla,

      egli, non riuscendo a frenare la collera, corse giù come un forsennato dai

      banchi del tribunale verso coloro che protestavano contro la pena. Non

      appena littori e centurioni si buttarono sulla folla cercando di

      disperderla, la rabbia proruppe a tal punto che il tribuno militare venne

      lapidato dalle sue truppe. Quando a Roma arrivò la notizia di questo

      terribile episodio, i tribuni militari proposero di aprire un'inchiesta

      senatoriale sulla morte del collega, ma i tribuni della plebe si opposero.

      Lo scontro però aveva un'altra origine: i patrizi, temendo che la plebe,

      spaventata dall'inchiesta e accecata dalla rabbia, volesse nominare

      tribuni militari appartenenti alla propria classe, facevano il possibile

      perché venissero eletti i consoli. Dato che i tribuni della plebe non

      permettevano al senato di emanare il decreto sull'inchiesta e opponevano

      il proprio veto ai comizi per le elezioni consolari, si tornò

      all'interregno. Ma alla fine la vittoria fu dei patrizi. 51 Nei comizi

      tenuti dall'interré Quinto Fabio Vibulano furono eletti consoli Aulo

      Cornelio Cosso e Lucio Furio Medullino.

      Durante il loro mandato, all'inizio dell'anno si approvò un decreto del

      senato in base al quale i tribuni avrebbero dovuto portare al più presto

      di fronte al popolo la questione dell'omicidio di Postumio e la plebe

      avrebbe potuto far condurre l'inchiesta da chi voleva. La plebe decise

      all'unanimità di affidare l'incarico ai consoli. Ed essi, dimostrando

      particolare moderazione e clemenza, mandarono a morte soltanto pochi che,

      com'è opinione diffusa, si suicidarono; ma non riuscirono a evitare che la

      plebe si indignasse per il loro operato: infatti i plebei si lamentavano

      che le proposte avanzate nel loro interesse giacevano a lungo senza

      ricevere attenzione, mentre la legge promulgata per spargere sangue e

      morte tra la plebe era stata applicata in fretta e con tanta energia. Ora

      che i responsabili dei disordini erano stati puniti, ai patrizi si

      presentava un'occasione molto propizia per placare gli animi: la

      spartizione delle terre di Bola; in questo modo avrebbero diminuito il

      desiderio della legge agraria, destinata a privare i patrizi dell'agro

      pubblico ingiustamente posseduto. Quello che tormentava gli animi era

      proprio questa ingiustizia: che i nobili non solo si tenessero le terre

      pubbliche occupate con la forza, ma si rifiutassero anche di distribuire

      alla plebe la terra ancora da assegnare, strappata da poco al nemico e che

      presto sarebbe divenuta - come tutto il resto - preda di pochi.

      Quello stesso anno il console Furio guidò le legioni contro i Volsci che

      razziavano il territorio degli Ernici. Ma, non avendo trovato in quella

      zona il nemico, prese Ferentino, dove si era radunato un gran numero di

      Volsci. Il bottino fu minore di quanto ci si aspettava perché i Volsci,

      avendo poche speranze di difendere la città, durante la notte

      l'abbandonarono dopo aver portato via ogni cosa. Il giorno dopo, quando i

      Romani la occuparono, era un deserto. La città e le terre circostanti

      furono date in dono agli Ernici.

      

      52 A un anno trascorso in pace grazie alla moderazione dei tribuni fece

      séguito il tribunato della plebe di Lucio Icilio, sotto il consolato di

      Quinto Fabio Ambusto e Gaio Furio Paculo. Mentre sin dai primi giorni

      dell'anno Icilio, proponendo leggi agrarie, fomentava disordini, come se

      fosse un suo dovere, per il nome che portava e per la famiglia cui

      apparteneva, scoppiò una pestilenza non tanto grave quanto minacciosa, che

      distolse le menti degli uomini dal foro e dalle lotte politiche per

      rivolgerle alla cura delle case e dei corpi. Qualcuno pensa che la

      pestilenza fu meno dannosa dei disordini che sarebbero potuti scoppiare.

      Alla pestilenza di quell'anno, dalla quale la città uscì con molti

      ammalati ma pochissimi morti, sotto il consolato di Marco Papirio Atratino

      e Gaio Nauzio Rutilio, seguì, come spesso accade, una carestia, dovuta al

      fatto che si era trascurata la coltivazione dei campi. La fame avrebbe

      avuto conseguenze ben più disastrose della pestilenza, se non si fosse

      provveduto all'approvvigionamento di viveri inviando delegati presso tutti

      i popoli che vivevano lungo il mare etrusco e le rive del Tevere, per

      comprare frumento. I Sanniti che occupavano Cuma e Capua, con insolenza,

      impedirono l'acquisto del grano agli inviati. I tiranni della Sicilia,

      invece, generosamente li aiutarono. Ma la parte più consistente di derrate

      alimentari fu trasportata lungo il Tevere grazie alla buona disposizione

      dei popoli etruschi. I consoli si resero conto di come si fosse spopolata

      la città per il morbo, quando non trovarono che un solo senatore per ogni

      ambasceria e furono costretti ad aggiungervi due cavalieri. Se si

      eccettuano la pestilenza e la carestia, nel corso di quei due anni non ci

      furono altri problemi, né in città né fuori. Ma non appena queste

      preoccupazioni scomparvero si manifestarono nuovamente i mali che da

      sempre turbavano la città: la discordia interna e la guerra con l'esterno.

      

      53 Durante il consolato di Marco Emilio e Gaio Valerio Potito gli Equi

      stavano preparando una guerra e i Volsci, pur non avendo preso le armi in

      maniera ufficiale, partecipavano alla campagna come mercenari. Saputo che

      i nemici erano già entrati nei territori dei Latini e degli Ernici, il

      console Valerio cercò di organizzare il reclutamento, ma il tribuno della

      plebe Marco Menenio, autore di un progetto di legge agraria, cercava di

      impedirglielo e per l'appoggio del tribuno nessuno poteva venir costretto

      a prestare giuramento. Ma all'improvviso arrivò la notizia che la

      cittadella di Carvento era caduta in mano ai nemici. Quest'umiliante

      episodio non solo rese odioso ai senatori Menenio, ma offrì anche al resto

      dei tribuni - per altro già convinti a opporsi col veto alla legge agraria

      - un motivo più giusto per fare resistenza al collega. Di discussione in

      discussione, la disputa andò per le lunghe. I consoli chiamarono a

      testimoni dèi e uomini che la colpa per la vergogna di qualunque

      sconfitta, già subita o incombente da parte dei nemici, sarebbe ricaduta

      soltanto su Menenio che impediva la leva; mentre Menenio, a sua volta,

      protestava a gran voce che avrebbe smesso di ostacolare la leva soltanto

      se i proprietari avessero rinunciato al possesso illegittimo dell'agro

      pubblico. A questo punto gli altri nove tribuni posero fine allo scontro

      con un decreto e dichiararono, a nome del collegio, che si sarebbero

      schierati con il console Gaio Valerio se egli, nella realizzazione della

      leva, avesse fatto ricorso, contro il veto del loro collega, a sanzioni

      pecuniarie o ad altre forme di coercizione nei confronti dei renitenti.

      Forte di questo decreto, il console fece prendere per il collo quei pochi

      che si appellavano al tribuno, e allora tutti gli altri, intimoriti,

      prestarono giuramento. L'esercito venne condotto sotto la cittadella di

      Carvento. Qui, pur essendoci odio tra console e soldati, i Romani al primo

      assalto scacciarono di slancio la guarnigione posta a difesa e ripresero

      la cittadella; l'occasione per attaccarla era stata offerta dalla

      negligenza dei nemici che avevano abbandonato il presidio per darsi alle

      razzie. Il bottino non fu trascurabile, perché il frutto delle frequenti

      incursioni era stato tutto quanto ammassato in quel luogo considerato

      sicuro. Il console ordinò ai questori di metterlo all'incanto e di

      versarne il ricavato nelle casse dello Stato, dichiarando che gli uomini

      avrebbero partecipato alla spartizione del bottino quando non si fossero

      rifiutati di prestare servizio militare. Per questo si accrebbe il

      risentimento della plebe e dei soldati verso il console. Così, quando

      quest'ultimo fece ingresso a Roma con l'onore dell'ovazione decretata dal

      senato, i soldati, con la licenza consueta in tali occasioni, intonarono

      rozzi canti nei quali alternavano salaci frecciate al console ad aperte

      lodi a Menenio, e ogni volta che veniva fatto il nome del tribuno, la

      gente accalcata lungo la strada gareggiava in acclamazioni e applausi con

      i canti dei soldati. Questo preoccupò i patrizi più della sfrenatezza dei

      soldati nei confronti del console, che era un'usanza ormai quasi

      consolidata. E, sembrando certo che Menenio sarebbe stato eletto tribuno

      militare qualora avesse presentato la sua candidatura, per escluderlo

      furono convocati i comizi consolari.

      

      54 Vennero eletti consoli Gneo Cornelio Cosso e, per la seconda volta,

      Lucio Furio Medullino. Prima di allora la plebe non si era mai indignata

      tanto perché non le erano stati affidati i comizi per l'elezione dei

      tribuni militari. Mostrò di lì a poco il suo sdegno vendicandosi nei

      comizi per l'elezione dei questori, quando per la prima volta furono

      nominati a questa magistratura dei plebei. Infatti, su quattro posti

      disponibili, uno solo toccò a un patrizio, Cesone Fabio Ambusto, mentre a

      giovani di famiglie nobilissime furono preferiti tre plebei: Quinto Silio,

      Publio Elio e Gaio Papio. Ho trovato che chi spinse il popolo a esprimere

      un voto così libero furono gli Icili: tre membri di quella famiglia tanto

      ostile al patriziato erano stati eletti tribuni della plebe per l'anno in

      corso. Essi avevano promesso una grande quantità di cose di cui il popolo

      era avidissimo, ma anche dichiarato che non avrebbero preso iniziative se

      almeno nell'elezione dei questori - la sola carica lasciata aperta dal

      senato sia a patrizi, sia a plebei - il popolo non avesse avuto

      sufficiente coraggio per realizzare quanto aveva così a lungo desiderato e

      che era consentito dalle leggi.

      Agli occhi della plebe la cosa sembrò un grande successo: non veniva presa

      in considerazione la questura solo in base alla sua importanza, ma si

      credeva che la strada verso i consolati e i trionfi fosse stata finalmente

      aperta a uomini nuovi. I patrizi invece scalpitavano come se quelle

      cariche pubbliche non le condividessero con i plebei, ma le avessero perse

      per sempre. Dicevano che, in una situazione del genere, non valeva la pena

      di allevare dei figli i quali, scacciati dal posto degli avi e costretti a

      vedere altri in possesso delle loro cariche, si sarebbero ridotti a fare i

      Salii o i Flàmini e a celebrare sacrifici pubblici senza più autorità e

      potere. Da entrambe le parti gli animi erano irritati. Mentre la plebe

      aveva preso coraggio perché ora aveva tre uomini illustri a sostenere la

      causa del popolo, i patrizi, rendendosi conto che tutte le elezioni nelle

      quali la plebe avrebbe potuto scegliere i candidati dell'una e dell'altra

      parte sarebbero state molto simili a quella dei questori, cercavano di

      arrivare alle elezioni consolari che non erano ancora aperte a entrambe le

      classi sociali. Gli Icili, al contrario, sostenevano che si dovessero

      nominare dei tribuni militari e dicevano che alla plebe toccava finalmente

      accedere alle cariche. 55 Tra le iniziative dei consoli non ce n'era

      nemmeno una che i tribuni potessero bloccare per realizzare ciò che

      desideravano. Ma all'improvviso, per uno straordinario colpo di fortuna,

      arrivò la notizia che Volsci ed Equi avevano sconfinato in territorio

      latino ed ernico per compiervi razzie. Quando, per decreto senatoriale, i

      consoli avviarono le operazioni di arruolamento in vista della guerra, i

      tribuni si opposero con tutte le proprie forze, dicendo che quello era un

      colpo di fortuna per loro e per la plebe. Erano tutti e tre uomini

      agguerriti e ormai di stirpe nobile, benché appartenessero alla plebe. Due

      di loro si assunsero il còmpito di tenere sotto costante controllo i

      consoli, uno per ciascuno. Al terzo venne affidato l'incarico di

      trattenere o di aizzare la plebe a seconda delle circostanze. Così né i

      consoli riuscivano a realizzare la leva, né i tribuni a ottenere le

      elezioni desiderate. E quando ormai la fortuna stava pendendo dalla parte

      della plebe, arrivarono messaggeri ad annunciare che, mentre i soldati di

      presidio alla cittadella di Carvento si erano disseminati a far prede nei

      dintorni, gli Equi avevano conquistato la rocca dopo aver eliminato i

      pochi uomini rimasti di guardia; alcuni poi erano stati uccisi mentre

      rientravano nella fortezza, altri ancora dispersi nelle campagne. La

      sciagura toccata alla città aggiunse forza all'azione dei tribuni.

      Infatti, inutilmente pregati di cessare la loro opposizione alla guerra,

      non cedettero né di fronte al pericolo che minacciava il paese, né di

      fronte all'odio che si attiravano, così ottennero che il senato decretasse

      l'elezione di tribuni militari, con la condizione che non venissero

      computati i voti dati a chi in quell'anno era tribuno della plebe e che

      nessun tribuno della plebe fosse riconfermato per l'anno seguente. Era

      evidente che in tal modo il senato voleva prendere di mira gli Icili,

      accusati di aspirare al consolato come ricompensa per il loro sedizioso

      tribunato. Allora, con il consenso di tutti gli ordini si dette inizio

      alla leva e ai preparativi bellici. Non è chiaro, e fonti discordano, se

      entrambi i consoli partirono per la rocca di Carvento, oppure se uno

      rimase per presiedere ai comizi. Di una cosa si può essere sicuri, perché

      non esiste voce di dissenso: dopo un lungo e inutile assedio, ci si ritirò

      dalla rocca di Carvento e con lo stesso esercito si riconquistò Verrugine

      nel territorio dei Volsci, e poi vennero devastate le campagne degli Equi

      e dei Volsci.

      

      56 A Roma, la vittoria della plebe era consistita nell'ottenere le

      elezioni che preferiva, ma da queste elezioni uscirono vincitori i

      patrizi. Infatti, contrariamente a ogni previsione, furono eletti tribuni

      militari con potere consolare Gaio Giulio Iulo, Publio Cornelio Cosso e

      Gaio Servilio Aala, tutti e tre patrizi. Pare che i patrizi fossero

      ricorsi a un espediente del quale già allora gli Icili li accusavano:

      mescolando a quelli degni molti candidati indegni avrebbero finito per

      allontanare dai candidati plebei il popolo, disgustato dalle infamanti

      bassezze di alcuni di loro. In séguito si diffuse la notizia che Volsci ed

      Equi - vuoi indotti a sperare dall'efficace difesa di Carvento, vuoi

      infuriati per la perdita del presidio armato di Verrugine - si stavano

      impegnando con tutte le forze alla guerra. A capo della coalizione armata

      c'erano gli Anziati; i loro ambasciatori avevano fatto la spola tra i

      popoli di entrambe le nazioni, rinfacciando loro la viltà dell'anno

      precedente, quando, rinchiusi fra le mura, avevano permesso che i Romani

      scorrazzassero per le campagne a far razzie e che fosse annientato il

      presidio di Verrugine. Ora, dicevano, non solo i Romani mandavano truppe

      in armi nei loro territori ma perfino coloni. E i Romani non solo si

      tenevano, dopo averlo spartito, quanto era di loro proprietà, ma avevano

      anche regalato Ferentino agli Ernici, dopo averla strappata ai Volsci.

      Siccome questi discorsi accendevano gli animi, là dove arrivavano gli

      inviati moltissimi giovani si arruolavano. La gioventù di tutti quei

      popoli si radunò ad Anzio, dove venne posto l'accampamento in attesa che

      arrivasse il nemico. Quando queste notizie giunsero a Roma, suscitando più

      allarme del dovuto, il senato súbito ordinò di nominare un dittatore,

      misura estrema alla quale si ricorreva in circostanze critiche. Dicono che

      Giulio e Cornelio abbiano sopportato di mal animo questa decisione; la

      cosa fu discussa animatamente: i patrizi più autorevoli, dopo essersi

      invano lamentati perché i tribuni militari non si assoggettavano

      all'autorità del senato, alla fine fecero appello ai tribuni della plebe,

      ricordando che in casi analoghi la loro autorità aveva frenato l'ardore

      dei consoli. I tribuni, felici della discordia tra i senatori, dicevano di

      non avere alcun aiuto da dare a chi non li considerava nel novero dei

      cittadini, né in quello degli uomini. Se un giorno le magistrature fossero

      state aperte a tutti, garantendo così anche ai plebei di partecipare alla

      cosa pubblica, allora avrebbero vigilato perché i decreti senatoriali non

      divenissero vani per la prepotenza dei magistrati. Nel frattempo i

      patrizi, liberi dal rispetto per le leggi e i magistrati, esercitassero da

      soli anche il potere tribunizio.

      

      57 Questa disputa, sorta nel momento meno opportuno, mentre era in corso

      una guerra importante, aveva occupato i pensieri della gente. Ma quando

      Giulio e Cornelio a turno ebbero ripetutamente sostenuto che non era

      giusto che li si privasse del mandato affidato loro dal popolo, essendo

      sufficientemente idonei a condurre quella guerra, il tribuno militare

      Servilio Aala disse di aver taciuto per tanto tempo non perché non avesse

      una opinione ben ferma (e infatti quale buon cittadino separava il proprio

      interesse privato da quello pubblico?), ma piuttosto perché avrebbe

      preferito che i suoi colleghi cedessero spontaneamente all'autorità del

      senato, invece di tollerare che si invocasse contro di loro la potestà

      tribunizia. Anche allora, se la situazione lo avesse permesso, avrebbe

      dato ai colleghi il tempo per recedere da quell'ostinata presa di

      posizione. Ma, siccome le necessità della guerra non aspettano le

      decisioni degli uomini, egli avrebbe anteposto il pubblico interesse al

      favore dei colleghi; se il senato non cambiava idea, la notte successiva

      avrebbe nominato un dittatore. Se poi qualcuno si fosse opposto al decreto

      del senato, lui si sarebbe attenuto alla semplice volontà del senato.

      Avendo con ciò ottenuto elogi non immeritati e riconoscenza da parte di

      tutti, nominò dittatore Publio Cornelio, dal quale venne a sua volta

      scelto quale maestro della cavalleria; fornì così un esempio, a chi

      considerava il suo caso e quello dei colleghi, di come spesso popolarità e

      successo arridano più facilmente a chi non li ricerca ansiosamente. La

      guerra non fu memorabile: in un'unica e per di più facile battaglia i

      nemici furono sbaragliati nei pressi di Anzio. L'esercito vincitore

      devastò il territorio dei Volsci ed espugnò una fortezza situata vicino al

      lago Fucino, dove furono catturati 3.000 nemici, mentre i Volsci

      superstiti, ricacciati all'interno delle mura, non poterono difendere le

      campagne. Il dittatore, dopo aver condotto la guerra in maniera tale da

      dar l'impressione di aver semplicemente usufruito dell'occasione propizia,

      tornò in città famoso per la sua fortuna più che per la sua gloria, e

      quindi depose la magistratura. I tribuni militari, senza fare alcun

      accenno ai comizi per le elezioni dei consoli, irritati, credo, per la

      nomina del dittatore, indissero invece i comizi per l'elezione dei tribuni

      militari. Allora una più grave preoccupazione si insinuò nei patrizi, che

      vedevano la propria causa tradita dai loro. Così come l'anno prima,

      candidando i peggiori, erano riusciti a scatenare il disgusto nei

      confronti di tutti i plebei, anche i più degni, ora, presentando i patrizi

      più autorevoli e che godevano del favore popolare, si assicurarono tutti i

      posti, senza che ai plebei ne toccasse neanche uno. Furono eletti quattro

      che già avevano detenuto quella magistratura: Lucio Furio Medullino, Gaio

      Valerio Potito, Numerio Fabio Vibulano e Gaio Servilio Aala. Quest'ultimo

      fu riconfermato in carica, oltre che per le altre sue qualità, per la

      popolarità che si era di recente conquistata grazie alla sua singolare

      moderazione.

      

      58 In quell'anno, poiché era scaduto il termine della tregua col popolo

      dei Veienti, si chiese soddisfazione tramite gli ambasciatori e i feziali.

      Quando questi arrivarono al confine, andò loro incontro una delegazione di

      Veienti. Costoro chiesero che non si andasse a Veio prima che essi si

      fossero presentati di fronte al senato romano. E il senato, poiché scontri

      intestini travagliavano i Veienti, concesse che non si richiedesse loro

      alcun risarcimento: tanto si era lontani dal profittare delle disgrazie

      altrui. Ma nel paese dei Volsci i Romani subirono una sconfitta: la

      perdita del presidio di Verrugine. In quell'occasione ebbe un peso

      decisivo la mancanza di tempestività: si sarebbero potute aiutare le

      truppe che, assediate dai Volsci, chiedevano soccorso, se si fosse

      intervenuti in fretta; l'esercito inviato a dare manforte arrivò giusto in

      tempo per sorprendere i nemici sparpagliati a raccogliere prede, a

      massacro già concluso. Responsabili del ritardo furono, più che il senato,

      i tribuni: essendo stato loro riferito che gli assediati resistevano

      strenuamente, non tennero presente che non esiste valore capace di andare

      oltre il limite della resistenza umana. Ma quegli eroici combattenti non

      rimasero invendicati, né da vivi né dopo la morte.

      L'anno successivo, che vide come tribuni militari con potere consolare

      Publio e Gneo Cornelio Cosso, Numerio Fabio Ambusto e Lucio Valerio

      Potito, venne dichiarata guerra a Veio, a séguito dell'arrogante risposta

      data dal senato di quella città, il quale, agli ambasciatori che

      chiedevano soddisfazione, ordinò di rispondere che, se i Romani non se ne

      fossero andati al più presto dalla città e dal territorio di Veio,

      avrebbero dato loro ciò che Larte Tolumnio aveva già dato ai loro

      predecessori. I senatori si indignarono e ingiunsero ai tribuni militari

      di proporre al più presto al popolo di dichiarare guerra ai Veienti.

      Appena la proposta fu resa nota, i giovani cominciarono a mormorare,

      lamentandosi che la guerra con i Volsci non era ancora finita; che pochi

      giorni prima erano stati annientati due presidi, mentre gli altri venivano

      mantenuti ancora, ma a prezzo di continui rischi; che non c'era anno in

      cui non si dovesse scendere in campo, e, come se non fossero bastati i

      problemi già esistenti, ecco che si dava inizio a una nuova guerra con uno

      dei popoli più potenti dei dintorni, che sicuramente avrebbe aizzato

      contro di loro l'intera Etruria.

      I tribuni della plebe esasperarono ancor più la tensione sorta

      spontaneamente: essi andavano dicendo che la guerra più grande era quella

      condotta dai patrizi contro la plebe, a bella posta vessata dal servizio

      militare e esposta a farsi trucidare dal nemico; la tenevano lontana da

      Roma, per evitare che nella pace, memore della libertà e delle colonie, si

      agitasse pensando all'agro pubblico e a libere elezioni. Prendendo i

      veterani, enumeravano le campagne militari, le ferite e le cicatrici di

      ciascuno di loro, domandando quale parte del corpo era ancora integra per

      ricevere nuove ferite e quanto sangue potessero ancora versare per la

      repubblica. Poiché, con questi argomenti, ripetuti nei loro discorsi e nei

      loro comizi, i tribuni erano riusciti a dissuadere la plebe

      dall'intraprendere un nuovo conflitto, la proposta di legge sull'entrata

      in guerra fu rinviata, perché sembrava destinata a essere respinta se

      fosse stata esposta all'ostilità popolare.

      

      59 Nel frattempo fu deciso che i tribuni militari conducessero l'esercito

      in territorio volsco. A Roma fu lasciato soltanto Gneo Cornelio. I tre

      tribuni, quando risultò evidente che i Volsci non erano accampati da

      nessuna parte e che non avrebbero affrontato il rischio di una battaglia,

      divisero in tre l'esercito e quindi si sparsero a devastare la zona.

      Valerio si diresse su Anzio, Cornelio su Ecetra: dovunque passavano,

      saccheggiavano campi e abitazioni in lungo e in largo, per tenere divise

      le forze dei Volsci. Fabio, senza compiere alcun saccheggio, andò ad

      assediare Anxur, che era l'obiettivo principale della campagna. Anxur,

      l'attuale Terracina, era una città declinante verso un terreno paludoso.

      Fabio simulò un attacco da quella parte; le quattro coorti affidate a

      Servilio Aala con l'ordine di aggirare la zona si impossessarono di una

      collina che dominava la città. Quindi, da questa posizione sovrastante, in

      un settore dove non vi era alcun presidio, tra tumulto e alte grida

      assalirono le mura. Quelli che difendevano la parte più bassa della città

      contro Fabio, sorpresi da quell'offensiva repentina, lasciarono agli

      attaccanti il tempo per accostare le scale alle mura. Sùbito la città si

      riempì di nemici; a lungo durò la terribile strage, sia di chi fuggiva,

      sia di chi cercava di resistere, di armati e di inermi. I vinti furono

      costretti a partecipare alla lotta, perché non vi era speranza per chi si

      ritirava. Ma all'improvviso venne dato l'ordine di risparmiare chi non era

      armato e allora tutti i superstiti deposero volontariamente le armi; così

      circa 2.500 furono catturati vivi. Fabio impedì ai suoi uomini di mettere

      le mani sul bottino finché non fossero arrivati i colleghi, dicendo che

      Anxur era stata presa anche da quegli eserciti, perché non avevano

      permesso agli altri Volsci di proteggere quella posizione. Quando i

      colleghi arrivarono, i tre eserciti saccheggiarono la città, che era molto

      ricca perché aveva goduto di un lungo periodo di prosperità. Quel gesto

      magnanimo da parte dei comandanti fu il primo segnale di riconciliazione

      tra plebei e patrizi. Si aggiunse poi un dono che fu il più opportuno di

      tutti quelli fatti dai maggiorenti al popolo: prima che la plebe e i

      tribuni vi facessero accenno, il senato decretò che i soldati venissero

      pagati attingendo direttamente alle casse dello Stato, mentre fino a quel

      giorno ciascun soldato prestava servizio a proprie spese.

      

      60 Si tramanda che mai nessuna concessione fu accolta dalla plebe con

      tanto entusiasmo. Una gran folla si riunì davanti alla curia, afferrando

      le mani di coloro che uscivano e chiamandoli veri 'Padri', dichiarando che

      di conseguenza per una patria tanto generosa nessuno avrebbe esitato a

      dare il proprio corpo, il proprio sangue, finché gli fosse rimasto un

      briciolo di forze. Se da una parte si presentava il lieto vantaggio che il

      patrimonio di ciascuno era al sicuro nel periodo in cui la persona era

      consacrata al servizio del paese, dall'altra il fatto che quella

      concessione fosse stata spontanea - non rivendicata dai tribuni, né

      richiesta con insistenza nei comizi - moltiplicava la soddisfazione e

      accresceva la riconoscenza per quel gesto. I tribuni della plebe, i soli a

      non partecipare alla gioia e all'armonia che in quei giorni accomunavano i

      due ordini, sostenevano che una tale misura non sarebbe stata tanto

      gradita ai patrizi, né tanto favorevole per l'intera cittadinanza, come

      tutti credevano; si trattava di una decisione che a prima vista sembrava

      migliore di quanto l'esperienza avrebbe dimostrato. E infatti, il denaro

      necessario come avrebbe potuto essere messo insieme, se non imponendo un

      nuovo tributo al popolo? I senatori avevano elargito a terzi il denaro

      altrui. E anche se tutti i cittadini avessero accettato, i veterani ormai

      in congedo non avrebbero tollerato che altri prestassero il servizio

      militare in condizioni migliori di quelle toccate a loro, né che gli

      stessi che avevano già pagato per il proprio servizio militare pagassero

      anche per quello di altri. Facendo leva su questi argomenti, riuscirono a

      influenzare parte della plebe. Quando poi il tributo fu fissato, i tribuni

      della plebe dichiararono che avrebbero offerto il loro appoggio a chiunque

      si fosse rifiutato di versare il tributo per la paga dei soldati. I

      patrizi continuarono a sostenere la loro fortunata iniziativa,

      contribuendo per primi al pagamento del tributo. Dato che non si coniavano

      ancora monete d'argento, alcuni fecero portare all'erario carri pieni di

      assi di una libbra, rendendo così più appariscente la loro contribuzione.

      Dopo che i membri del senato ebbero scrupolosamente contribuito secondo il

      censo, anche i plebei più in vista, essendo amici dei nobili, cominciarono

      a versare la propria quota, com'era stato convenuto. Quando la folla vide

      che questi uomini venivano elogiati dai patrizi e considerati probi

      cittadini da quanti erano in età militare, rifiutato l'appoggio dei

      tribuni, fece a gara per pagare. Venne poi approvata la legge sulla

      dichiarazione di guerra ai Veienti e i nuovi tribuni militari con potere

      consolare condussero a Veio un esercito composto in gran parte di

      volontari.

      

      61 I tribuni erano Tito Quinzio Capitolino, Quinto Quinzio Cincinnato,

      Gaio Giulio Iulo, al secondo mandato, Aulo Manlio, Lucio Furio Medullino,

      al terzo, e Manio Emilio Mamerco. Furono loro i primi ad assediare Veio.

      All'inizio di questo assedio gli Etruschi tennero un'affollata assemblea

      presso il tempio di Voltumna, ma non riuscirono a decidere se tutte le

      genti etrusche dovessero entrare in guerra accanto ai Veienti. Nell'anno

      successivo l'assedio divenne più fiacco perché parte dei tribuni e

      dell'esercito venne richiamata dalla guerra contro i Volsci. Quell'anno

      ebbe come tribuni militari con potere consolare Gaio Valerio Potito, per

      la terza volta, Manio Sergio Fidenate, Publio Cornelio Maluginense, Gneo

      Cornelio Cosso, Gaio Fabio Ambusto e Spurio Nauzio Rutilio, al suo secondo

      mandato. Coi Volsci ci fu una battaglia campale presso Ferentino ed

      Ecetra, nella quale i Romani ebbero la meglio. Poi i tribuni cominciarono

      ad assediare Artena, città dei Volsci. Quindi, ricacciato in città il

      nemico che tentava una sortita, i Romani ebbero l'opportunità di fare

      irruzione e occuparono tutto, tranne la rocca. In essa, trattandosi di una

      fortificazione naturale, si era asserragliato un gruppo di armati, mentre

      in basso molti furono uccisi o fatti prigionieri. Ebbe inizio l'assedio,

      ma non si poteva espugnarla perché il presidio era più che sufficiente,

      data la ristrettezza del luogo; né si poteva sperare nella resa, visto che

      l'intera scorta pubblica di grano era stata portata all'interno della

      rocca prima che la città cadesse. Stanchi di non venirne a capo, i Romani

      avrebbero rinunciato, se un servo traditore non avesse consegnato loro la

      fortezza. Questi fece infatti entrare da un passaggio scosceso i soldati

      che la conquistarono. Dopo che le sentinelle caddero sotto i colpi, tutti

      gli altri, in preda al panico, si arresero. Rase al suolo la città e la

      rocca di Artena, le legioni furono richiamate dal territorio dei Volsci e

      tutte le forze romane furono concentrate su Veio. Allo schiavo traditore,

      oltre alla libertà, furono dati in premio i beni di due famiglie e gli fu

      attribuito il nome di Servio Romano. Alcuni sostengono che Artena

      appartenesse ai Veienti e non ai Volsci. L'errore è dovuto al fatto che

      tra Cere e Veio esisteva una città con lo stesso nome. Solo che

      quell'Artena, che poi era dei Ceretani e non dei Veienti, l'avevano già

      distrutta i re romani; quest'altra con lo stesso nome, della cui

      distruzione si è appena detto, si trovava nel territorio dei Volsci.

 


Libri 5-6: Sacco di Roma e lotte per il Consolato

 

       

       

      LIBRO V

      

      

      

      1 Dopo essersi assicurati la pace sugli altri fronti, Romani e Veienti

      erano pronti allo scontro con un accanimento e un odio reciproco tali che

      era chiaro sarebbe stata la fine per chi ne fosse uscito sconfitto. I due

      popoli tennero i comizi in maniera del tutto diversa. I Romani aumentarono

      il numero dei tribuni militari con potere consolare. Ne vennero eletti

      otto, cosa che non aveva precedenti in passato: Manio Emilio Mamerco,

      Lucio Valerio Potito (rispettivamente per la seconda e la terza volta),

      Appio Claudio Crasso, Marco Quintilio Varo, Lucio Giulio Iulo, Marco

      Postumio, Marco Furio Camillo e Marco Postumio Albino. I Veienti, invece,

      nauseati com'erano dal ripetersi anno per anno delle beghe elettorali che

      nel frattempo erano state causa di discordie interne, nominarono un re.

      Questo provvedimento indispettì le popolazioni etrusche, meno per

      risentimento verso la monarchia che non per antipatia nei confronti della

      persona scelta come sovrano eletto. Questi infatti era già in precedenza

      risultato odioso al mondo etrusco a causa della sua ricchezza e

      dell'arroganza, perché aveva interrotto con la violenza i giochi solenni,

      che era considerato sacrilego sospendere. Sdegnato per la sconfitta

      elettorale - i rappresentanti dei dodici popoli etruschi gli avevano

      infatti preferito un altro candidato per la carica di sacerdote -, nel

      pieno svolgimento dello spettacolo, aveva fatto trascinare via

      all'improvviso gli attori, gran parte dei quali erano suoi servi. Pertanto

      le popolazioni di ceppo etrusco, dedite quanto nessun'altra alle pratiche

      religiose (poiché primeggiavano nell'arte di celebrarle), decretarono che

      non sarebbero intervenute in aiuto dei Veienti fino a quando questi ultimi

      fossero stati sottoposti a un re. A Veio la notizia di tale decisione

      venne passata sotto silenzio per paura del re, il quale avrebbe

      considerato non solo responsabile di false informazioni ma anche promotore

      di sedizioni chi gli avesse riferito una qualunque diceria di quel tipo.

      Anche se i Romani venivano informati che in Etruria la situazione era

      tranquilla, ciò non ostante - visto che a quanto si riferiva la cosa era

      il tema centrale di tutte le assemblee - costruivano delle fortificazioni

      tali da garantire una protezione sui due lati: da una parte verso la città

      e contro eventuali sortite degli assediati, dall'altro in direzione

      dell'Etruria per tagliare la strada ai rinforzi, nel caso ne fossero

      arrivati da quella parte.

      

      2 Siccome i comandanti romani riponevano maggiori speranze di successo

      nell'assedio piuttosto che nell'assalto, venne iniziata la costruzione

      addirittura di baraccamenti invernali (cosa del tutto ignota ai soldati

      romani), e si decise di continuare la guerra rimanendo nei quartieri

      invernali. Quando la notizia arrivò a Roma alle orecchie dei tribuni della

      plebe - i quali ormai da tempo non avevano più alcuna occasione per

      suscitare disordini -, si precipitano nell'assemblea e iniziano a

      sobillare gli animi della massa, continuando a ripetere che era quello il

      motivo per il quale si era assegnato uno stipendio ai soldati, e che essi

      non si erano sbagliati pensando che quel dono dei loro avversari si

      sarebbe intinto di veleno. Era stata messa in vendita la libertà della

      plebe: i giovani, tenuti in continuazione lontani dalla città ed esclusi

      dalla partecipazione alla vita politica, ormai non si ritiravano più

      nemmeno di fronte all'inverno e alla cattiva stagione, né tornavano a

      vedere le proprie abitazioni e i propri averi. Quale pensavano fosse la

      causa di un servizio militare che durava all'infinito? Certo non ne

      avrebbero trovata nessun'altra al di fuori di questa: e cioè per evitare

      che si discutessero, grazie alla massiccia presenza di quei giovani nei

      quali erano riposte tutte le forze della plebe, le questioni relative ai

      loro interessi. Inoltre essi subivano un trattamento ben peggiore di

      quello riservato ai Veienti: mentre infatti questi ultimi trascorrevano

      l'inverno al riparo delle loro case, difendendo una città protetta da mura

      formidabili e dalla posizione naturale, i soldati romani, oppressi dalla

      neve e dal gelo, dovevano resistere nella faticosa costruzione di

      fortificazioni, riparandosi sotto tende fatte di pelli, senza deporre le

      armi neppure in quella fase dell'anno - e cioè l'inverno - che costituisce

      un'interruzione naturale a tutte le guerre per terra e per mare. Una

      schiavitù come quella che li costringeva a prestare servizio militare

      tutto l'anno non avevano osato imporla né i re, né quei consoli arroganti

      che avevano preceduto la creazione del tribunato, né l'odioso potere del

      dittatore, né tantomeno la crudeltà dei decemviri. Il fatto era che i

      tribuni militari tiranneggiavano la plebe romana. Che cosa avrebbero mai

      potuto fare in qualità di consoli o di dittatori, quegli individui che

      avevano reso tanto odiosa e crudele una semplice parvenza di potere

      consolare? Ma tutto ciò accadeva non certo senza ragione: nemmeno su otto

      tribuni della plebe si era trovato spazio per un plebeo. Prima i patrizi

      riuscivano di solito a occupare tre posti con estrema fatica: adesso

      salivano al potere a colpi di otto per volta e neppure in quella folla

      aveva trovato posto un qualche plebeo che, se non altro, ricordasse ai

      colleghi che a prestare servizio militare non erano degli schiavi ma degli

      uomini liberi loro concittadini, che almeno in pieno inverno era doveroso

      far rientrare nelle rispettive case e dimore, permettendo loro - in un

      certo periodo dell'anno - di tornare a rivedere genitori, figli e

      consorti, di godere della propria libertà e di eleggere i magistrati.

      Mentre protestavano urlando queste cose, i tribuni trovarono in Appio

      Claudio, lasciato dai colleghi in città con il còmpito di reprimere i

      disordini causati dai tribuni, un avversario alla loro altezza. Cresciuto

      nell'abitudine allo scontro diretto con i plebei, Appio era un uomo che

      alcuni anni prima - come è stato da me ricordato - aveva escogitato l'idea

      di piegare il potere dei tribuni ricorrendo al veto dei loro colleghi.

      

      3 E in quella circostanza Appio Claudio, non solo pronto d'ingegno ma

      anche ricco di esperienza, pronunciò un discorso di questo tenore: «Se si

      è mai dubitato, o Quiriti, che i tribuni della plebe abbiano scatenato

      disordini in nome dei vostri o dei loro interessi, io ho la certezza che

      quest'anno abbiamo smesso di nutrire perplessità del genere. E se da un

      lato mi compiaccio che abbiate posto fine a un errore durato tanto a

      lungo, dall'altro, siccome si è arrivati a eliminarlo in un momento che vi

      è particolarmente propizio, mi congratulo anche con voi e grazie a voi con

      la repubblica. Oppure c'è qualcuno che potrebbe dubitare che i tribuni

      della plebe non siano mai stati tanto in fermento e tanto sdegnati da

      ingiustizie commesse nei vostri confronti - se mai ne sono state commesse

      - quanto della liberalità dei patrizi verso la plebe il giorno in cui

      venne concesso uno stipendio fisso ai soldati? Cos'altro credete che i

      tribuni temessero allora o intendano oggi sconvolgere se non l'armonia tra

      le classi, che essi ritengono serva soprattutto ad abbattere il potere

      tribunizio? Così, per Ercole, come se fossero dei medici da strapazzo,

      costoro vanno in giro a cercare lavoro, vogliono che nel paese ci sia

      sempre qualche malanno, perché voi li facciate intervenire nella speranza

      di trovarne la cura. Ma voi tribuni la plebe la difendete o la osteggiate?

      Siete contro i soldati o ne sostenete la causa? A meno che non diciate:

      "qualunque cosa facciano i patrizi, non è di vostro gradimento, sia che la

      facciano a favore o contro la plebe", e come i padroni impediscono ai

      propri schiavi di avere rapporti con estranei e ritengono giusto evitare

      nei loro confronti tanto di fare del bene quanto del male, allo stesso

      modo voi impediate ai patrizi di avere rapporti con la plebe, per evitare

      che noi nobili se ne possa guadagnare il consenso con la liberalità e la

      munificenza, e che la plebe si dimostri arrendevole o obbediente alle

      nostre parole. E infine, se in voi ci fosse non dico del senso civico, ma

      un briciolo di umanità, non sarebbe stato meglio favorire e, per quanto vi

      è possibile, assecondare la liberalità dei patrizi e l'obbedienza della

      plebe? Se la concordia durasse in eterno, chi non se la sentirebbe di

      garantire che questo paese diventerà in breve tempo il più potente tra

      quelli dei dintorni?

      

      4 Quanto poi non solo utile ma anche inevitabile sia stata la decisione

      presa dai miei colleghi di non ritirare le truppe da Veio senza prima aver

      portato a termine l'impresa, ve lo spiegherò più avanti: adesso preferisco

      soffermarmi proprio sulle condizioni in cui versano i soldati. Se questo

      discorso lo si pronunciasse non soltanto di fronte a voi ma nel bel mezzo

      dell'accampamento e se la questione venisse sottoposta al giudizio

      dell'esercito stesso, credo che le mie parole darebbero l'impressione di

      essere più che ragionevoli. E se durante la mia allocuzione non mi venisse

      in mente nulla da dire, mi basterebbero le affermazioni degli avversari.

      Poco tempo fa essi sostenevano che non si deve dare la paga ai soldati,

      perché non la si era mai data. Ma allora come possono adesso indignarsi se

      quelli che hanno avuto una concessione si son visti imporre come

      contropartita anche un nuovo onere? Non si verifica mai il caso di un

      servizio prestato cui non corrisponda un pagamento, né quello di un

      pagamento cui non corrisponda una regolare prestazione d'opera. La fatica

      e il piacere, pur essendo diversissimi per natura, sono reciprocamente

      legati da un qualche vincolo naturale. In passato i soldati mal

      tolleravano di dover pagare a proprie spese il servizio prestato allo

      Stato. Ciò non ostante erano felici di coltivare il proprio appezzamento

      di terra, ricavandone il sostentamento per se stessi e per i famigliari

      tanto in tempo di pace quanto in guerra. Ora sono felici che lo Stato sia

      per loro motivo di guadagno e per questo ricevono con gioia la paga.

      Sopportino dunque serenamente di stare lontani un po' più a lungo dai

      propri beni, su cui non grava più spesa alcuna. Se lo Stato li dovesse

      chiamare alla resa dei conti, non avrebbe tutte le ragioni per dire:

      "Ricevete una paga annua? Allora prestate servizio per tutto l'arco

      dell'anno; oppure ritenete giusto ricevere l'intera paga per sei mesi solo

      di servizio?". Su questo punto del mio discorso mi soffermo a malincuore,

      o Quiriti, perché così dovrebbero esprimersi quanti utilizzano milizie

      mercenarie. Ma noi vogliamo trattare come si tratta con dei cittadini e

      riteniamo giusto che si tratti con noi come si tratta con la patria. O non

      bisognava iniziare la guerra, oppure la si deve gestire in maniera

      conforme alla dignità del popolo romano e portarla a termine quanto prima

      possibile. E la porteremo a termine se non daremo tregua agli assediati, e

      se non ci ritiriamo prima di aver coronato le nostre speranze con la presa

      di Veio. Qualora, per Ercole, non ci fosse nessun'altra ragione, dovrebbe

      bastare l'indignazione da sola a imporci la perseveranza! Un tempo

      l'intera Grecia assediò per dieci anni una città a causa di una sola

      donna: ma quanto distava dalla patria quella città? Quante terre e quanti

      mari c'erano di mezzo? A noi dà invece fastidio reggere un anno d'assedio

      sotto una città che dista venti miglia dalla nostra e che quasi la si vede

      da Roma. È chiaro: perché il motivo che ha scatenato la guerra è

      insignificante e il risentimento che proviamo non basta a farci

      perseverare. Sette volte hanno riaperto le ostilità. In tempo di pace non

      sono mai stati leali. Hanno devastato migliaia di volte le nostre

      campagne. Hanno spinto alla defezione gli abitanti di Fidene, uccidendo i

      nostri coloni che risiedevano in quella città. Contro il diritto

      costituito si sono macchiati dell'orribile strage dei nostri ambasciatori.

      Volevano scatenarci contro l'intera Etruria (mossa che oggi tentano di

      ripetere), e poco è mancato che facessero violenza ai nostri ambasciatori

      inviati a chiedere soddisfazione.

      

      5 Con nemici simili dovremmo gestire la guerra dimostrandoci privi di

      determinazione e accettando di trascinarla per le lunghe? Se non ci spinge

      un risentimento tanto giustificato, allora, dico io, non basteranno

      nemmeno le cose che sto per dirvi? La città è stata circondata da

      imponenti opere di fortificazione che costringono il nemico all'interno

      delle mura, impedendogli così di coltivare la terra, che, là dove

      coltivata, ha subìto le devastazioni della guerra. Se ritiriamo le truppe,

      chi potrebbe dubitare che i Veienti, spinti non solo dal desiderio di

      vendicarsi ma anche dalla necessità stringente di razziare le campagne

      altrui dopo aver perso le proprie, non invaderanno il nostro territorio?

      Se ascoltiamo i tribuni, la guerra non la posticipiamo, ma ce la portiamo

      dritta in casa. Quanto poi ai soldati, cui la bontà dei tribuni della

      plebe voleva poco fa togliere lo stipendio del quale adesso, con

      un'improvvisa sterzata, esige invece l'erogazione, in che situazione

      versano? Hanno scavato per un lungo tratto un fossato e una trincea,

      faticando in maniera improba nella realizzazione dell'una e dell'altra

      cosa. Hanno costruito dei fortini, prima pochi e poi, con l'aumentare

      degli effettivi in zona, moltissimi. Hanno realizzato opere di

      fortificazione non solo in direzione della città, ma anche verso

      l'Etruria, per controllare l'eventuale invio di rinforzi da quella parte.

      Che cosa dovrei dire poi delle torri, delle "vigne", delle "testuggini" e

      di tutti gli altri dispositivi utilizzati nell'assedio di città? Adesso

      che questo immane lavoro di fortificazione è stato realizzato e lo si è

      ormai portato a compimento, volete abbandonare tutto in maniera tale che

      poi l'estate prossima si debba di nuovo sudare per ricostruire ogni cosa

      da capo? Non costerebbe meno conservare quanto già realizzato e insistere

      con perseveranza per togliersi il pensiero della guerra? Sarebbe davvero

      questione di poco, se scegliessimo di agire con continuità e se non

      fossimo noi stessi a rallentare la realizzazione delle nostre speranze con

      queste continue interruzioni e dilazioni. Parlo dello spreco di tempo e di

      fatica. Ma che dire del pericolo cui andiamo incontro ritardando la

      guerra? Ce lo fanno forse dimenticare le continue assemblee nelle quali i

      popoli dell'Etruria discutono sull'invio di rinforzi a Veio? Attualmente

      sono ancora irritati nei loro confronti: li odiano e dicono che di aiuti

      non gliene manderanno. Per quel che dipende da loro, nulla ci impedisce di

      catturare Veio. Ma chi può garantire che manterrebbero la stessa

      disposizione d'animo, se la guerra dovesse andare per le lunghe? Se

      infatti permetteremo ai Veienti di tirare il fiato, essi invieranno sùbito

      ambascerie più numerose e importanti, e ciò che al momento rappresenta un

      ostacolo nei rapporti con gli Etruschi (ossia il re sul trono di Veio),

      potrebbe col tempo trasformarsi, o per decisione unanime di tutta la

      cittadinanza per riconciliarsi così con gli Etruschi, oppure per volontà

      del re in persona, deciso a non ostacolare la sopravvivenza dei

      concittadini con la propria permanenza sul trono. Considerate poi quante

      spiacevoli conseguenze comporterebbe quel tipo di politica: la perdita di

      opere di fortificazione realizzate a costo di tanta fatica, l'imminente

      devastazione del nostro territorio, lo scoppio della guerra contro

      l'intera Etruria anziché con Veio. Le vostre idee in proposito, o tribuni,

      sono queste: assomigliano, per Ercole, a quelle di chi, di fronte a un

      malato sottoposto a cura energica e avviato a pronta guarigione, ne renda

      la malattia lunga e probabilmente incurabile assecondandone l'immediato

      desiderio di cibo e di bevande.

      

      6 Se anche, parola mia, non avesse nulla a che vedere con questa guerra,

      sarebbe certo molto utile per la disciplina militare abituare i nostri

      soldati non soltanto ad approfittare di una vittoria a portata di mano, ma

      ugualmente (nel caso di campagne prolungate) a sopportarne la noia, ad

      aspettare che si concretizzino le speranze anche nel caso debbano tardare

      a realizzarsi, e ancora ad attendere l'inverno qualora la guerra non venga

      portata a compimento entro l'estate e a non cercare sùbito un riparo e un

      nido, come fanno gli uccelli di passo quando arriva l'autunno. Chiedo a

      voi, di grazia: la passione per la caccia e il piacere che ne deriva

      trascinano gli uomini sui monti e nei boschi coperti di neve e ghiaccio.

      Possibile che nelle necessità della guerra non si riesca a ricorrere a

      quella capacità di sopportazione che perfino il puro divertimento e il

      piacere riescono a suscitare? Dunque riteniamo i fisici dei nostri soldati

      così delicati e i loro animi così deboli da non essere in grado di

      resistere a un solo inverno in un accampamento, alla lontananza dalla

      famiglia? O crediamo che si regolino come se si trattasse di una guerra

      per mare, spiando le condizioni atmosferiche e facendo attenzione alla

      stagione propizia, visto che non riescono a sopportare né il caldo né il

      freddo? Arrossirebbero di sicuro se qualcuno rinfacciasse loro queste cose

      e protesterebbero dicendo di avere doti di sopportazione fisica e mentale

      degne di veri uomini, di poter combattere tanto d'estate quanto d'inverno,

      di non aver affidato ai tribuni l'incarico di difendere il loro lassismo e

      la loro pigrizia, e di ricordarsi benissimo che i loro padri avevano

      creato quello stesso potere tribunizio non certo all'ombra o al riparo

      delle pareti domestiche. Degno della virtù dei vostri soldati e del nome

      di Roma è invece il non guardare esclusivamente a Veio e a questa guerra

      che incalza, ma puntare a una fama che duri nei giorni a venire per altre

      guerre e presso gli altri popoli. Credete forse che da questa impresa

      nascerà una differenza trascurabile di stima nei nostri confronti, se le

      genti confinanti giudicheranno il carattere del popolo romano tale che una

      qualche città, dopo averne sostenuto il primo e brevissimo assalto, non

      abbia più nulla da temere, o se, invece, il nostro nome incuterà terrore,

      nella convinzione che l'esercito romano non abbandona l'assedio di una

      città né per il lungo trascinarsi dell'assedio stesso né per l'infuriare

      dell'inverno, e non conosce altro modo di porre fine a una guerra se non

      con la vittoria e combatte con tenacia non inferiore allo slancio?

      Caratteristiche queste che risultano necessarie in ogni tipo di campagna

      militare e in particolare negli assedi delle città, che essendo nella

      maggior parte dei casi inespugnabili per la posizione naturale in cui si

      trovano e per le opere di fortificazione, di solito vengono vinte o

      espugnate dal tempo con la fame e con la sete - e il tempo espugnerà anche

      Veio, se i tribuni della plebe non si metteranno dalla parte dei nemici, e

      se i Veienti non troveranno a Roma quegli appoggi che invano cercano in

      Etruria. O forse potrebbe succedere qualcosa di più gradito ai Veienti che

      il diffondersi di una serie di disordini scoppiati prima a Roma e quindi

      diffusi a mo' di contagio all'interno dell'accampamento? Ma, per Ercole,

      presso i nostri nemici regna un tale senso di disciplina che né la

      stanchezza per l'assedio in corso, né l'insofferenza nei confronti della

      monarchia li hanno spinti ad introdurre delle innovazioni, né tantomeno il

      mancato invio di rinforzi da parte degli Etruschi ne ha irritato gli

      animi. Infatti presso i Veienti viene immediatamente condannato a morte

      chiunque si faccia promotore di disordini e non è concesso a nessuno dire

      quelle cose che presso di voi si dicono con la massima impunità. A chi

      diserta o lascia il campo viene inflitta la pena di morte a bastonate.

      Costoro che invece istigano non uno o due soldati, ma eserciti interi a

      disertare e a lasciare il campo vengono ascoltati liberamente in

      assemblea. A tal punto, o Quiriti, siete avvezzi a dare ascolto a

      qualunque cosa dica un tribuno della plebe - anche se incita a tradire la

      patria e a distruggere la repubblica -, e affascinati come siete da

      quell'autorità permettete che qualunque misfatto si nasconda al riparo del

      suo potere. Ormai non resta loro altro che diffondere tra i soldati e

      nell'accampamento le stesse cose che blaterano qui, e mettersi a

      corrompere le truppe impedendo loro di obbedire ai capi, visto che a Roma

      - ora come ora - libertà significa non avere alcun rispetto per il Senato,

      per i magistrati, per le leggi, per le tradizioni degli avi, per le

      istituzioni dei padri e per la disciplina militare».

      

      7 Ormai Appio teneva testa ai tribuni della plebe anche nelle assemblee

      popolari, quando all'improvviso un disastro subìto dall'esercito nei

      pressi di Veio (cioè da quella zona dove meno lo si sarebbe previsto) fece

      prevalere la causa di Appio, consolidando la concordia tra le classi e

      rinfocolando l'ardore degli animi nel proposito di proseguire l'assedio di

      Veio con maggiore tenacia. Il terrapieno costruito dai Romani era ormai

      vicinissimo alla città e ormai restava soltanto da accostare le 'vigne'

      alle mura. Ma siccome l'impegno profuso nei lavori era superiore a quello

      dedicato alla vigilanza notturna, all'improvviso si spalancò una porta

      della città e ne fuoriuscì una massa enorme di nemici armati soprattutto

      di torce accese, e nello spazio di un'ora un incendio divorò

      contemporaneamente il terrapieno e le vigne, costruite a prezzo di lunghi

      e spossanti sforzi. E lì molti soldati che cercavano inutilmente di

      portare aiuto vennero uccisi dal fuoco o dalle spade nemiche. Quando la

      notizia dell'incendio arrivò a Roma, fu la costernazione generale. In

      Senato provocò invece grande apprensione perché tutti temevano di non

      riuscire più a scongiurare il pericolo di disordini tanto in città quanto

      nell'accampamento e di non poter impedire ai tribuni della plebe di farsi

      beffe della repubblica come se questa fosse stata vinta da loro stessi. Ma

      all'improvviso i cittadini di rango equestre, cui non era stato assegnato

      un cavallo a spese dello Stato, dopo essersi preventivamente riuniti in

      assemblea, si presentarono in Senato e, una volta ottenuta la parola,

      dichiararono che avrebbero prestato servizio militare con cavalli comprati

      a proprie spese. Il Senato li ringraziò con parole sentite e la notizia di

      quel gesto cominciò a diffondersi nel foro e per le vie della città.

      Súbito dopo una folla di plebei si accalcò di fronte alla curia, dicendo

      che adesso toccava all'ordine della fanteria offrire un servizio

      straordinario alla repubblica, sia che li si volesse impiegare a Veio sia

      su qualunque altro fronte. Sostenevano anche che, se fossero stati

      condotti a Veio, non avrebbero abbandonato la zona prima di aver

      conquistato la città nemica. Allora si riuscì a malapena a contenere

      l'esplosione di giubilo: il senato infatti non diede ordine ai magistrati,

      così come aveva fatto con i cavalieri, di elogiarli, né di convocarli

      all'interno della curia per dar loro una risposta, e non rimase nemmeno

      all'interno della curia. Ma ciascun senatore dall'alto della scala

      dimostrava con gesti e parole la pubblica gioia alla folla in piedi in

      mezzo al comizio, e diceva che proprio grazie a quell'armonia tra le

      classi Roma era felice, invincibile ed eterna, lodava plebe e cavalieri,

      celebrava quella giornata e sosteneva che la generosità e la liberalità

      del senato erano state superate. Plebei e senatori facevano a gara nel

      versare lacrime di gioia. Poi i senatori, richiamati nella curia

      decretarono che i tribuni militari, dopo aver convocato l'assemblea

      plenaria, ringraziassero ufficialmente fanti e cavalieri e dichiarassero

      che il Senato non avrebbe dimenticato in futuro l'attaccamento alla patria

      dimostrato da quei due ordini. In base allo stesso decreto, tutti coloro

      che avevano promesso di prestare volontariamente quel servizio militare

      straordinario avrebbero continuato a percepire la paga, mentre anche ai

      cavalieri venne garantita una determinata somma di denaro. Fu quella la

      prima volta che i cavalieri prestarono servizio con cavalli di loro

      proprietà. Le truppe di volontari condotti nella zona di Veio non si

      limitarono a ricostruire le opere di fortificazione appena distrutte, ma

      ne eressero anche di nuove. Da Roma si provvide al trasporto di

      rifornimenti con maggiore cura di quanta non ne fosse stata impiegata in

      precedenza, per evitare che a quell'esercito così meritevole non venisse a

      mancare nulla di necessario.

      

      8 I tribuni militari con potestà consolare dell'anno successivo furono

      Gaio Servilio Aala (per la terza volta), Quinto Servilio, Lucio Verginio,

      Quinto Sulpicio, Aulo Manlio e Manio Sergio (entrambi per la seconda

      volta). Durante il loro mandato, mentre l'attenzione di tutti era rivolta

      alla guerra con Veio, il presidio armato di Anxur - negletto sia per le

      continue licenze concesse ai soldati di stanza sia per l'abitudine ormai

      invalsa di accogliere mercanti volsci - venne a tradimento sopraffatto in

      seguito a un improvviso attacco alle sentinelle delle porte. Le perdite

      tra i soldati non furono gravissime perché, fatta eccezione per gli

      ammalati, tutti i membri del contingente erano in giro per le campagne e

      le città dei dintorni, impegnati in traffici commerciali alla stregua di

      vivandieri. Ma neppure a Veio, che costituiva in quel momento il centro

      delle preoccupazioni pubbliche, le cose andarono meglio. Infatti i

      comandanti romani dimostravano di avere più risentimento reciproco che

      coraggio contro i nemici, e le proporzioni del conflitto vennero

      modificate dall'intervento improvviso dei Capenati e dei Falisci. Questi

      due popoli dell'Etruria, essendo i più vicini della zona, e credendo che

      una volta caduta Veio sarebbero stati i più esposti alla minaccia di

      un'aggressione armata da parte di Roma (e in particolar modo i Falisci, si

      sentivano in pericolo per aver partecipato alla guerra dei Fidenati), dopo

      essersi scambiati ambascerie e aver cementato col giuramento il vincolo

      che li legava, si presentarono all'improvviso a Veio con gli eserciti. Per

      caso assalirono l'accampamento nella zona comandata dal tribuno militare

      Manio Sergio e vi seminarono il terrore, facendo credere ai Romani che

      l'intera Etruria, trascinata dalle sue sedi, fosse scesa in campo con gran

      spiegamento di forze. La stessa idea infiammò i Veienti chiusi in città.

      Così l'accampamento romano era attaccato su due fronti: e pur trasferendo

      con corse disperate le varie unità da una parte e dall'altra, non

      riuscivano né a contenere in maniera sufficiente i Veienti nell'interno

      delle loro fortificazioni, né a respingere l'assalto portato alle proprie

      difese e a resistere al nemico esterno. La sola speranza era che

      arrivassero rinforzi dall'accampamento centrale, in modo tale che le

      legioni, schierate su fronti diversi, potessero le une combattere contro

      Capenati e Falisci e le altre arginare la sortita degli assediati. Ma a

      capo dell'accampamento c'era Verginio che per ragioni personali detestava

      e odiava Sergio. Verginio, non ostante fosse arrivata la notizia che buona

      parte dei fortini era stata assalita, che i dispositivi di difesa erano

      stati scavalcati e che i nemici si stavano riversando nell'accampamento da

      una parte e dall'altra, trattenne gli uomini con le armi in pugno,

      sostenendo che se il collega avesse avuto bisogno di aiuto gliene avrebbe

      fatto richiesta. L'arroganza di Verginio era pari all'ostinazione di

      Sergio, il quale, per non dare l'impressione di chiedere aiuto al suo

      avversario, preferì lasciarsi vincere dal nemico piuttosto che vincere

      grazie all'intervento di un concittadino. Il massacro dei soldati romani

      presi nel mezzo durò a lungo. Alla fine, quando ormai i dispositivi di

      difesa erano stati abbandonati, in pochissimi ripararono nell'accampamento

      centrale, mentre la maggior parte dei superstiti e lo stesso Sergio si

      diressero verso Roma. E lì, dato che Sergio attribuiva al collega l'intera

      responsabilità del disastro, venne stabilito di convocare Verginio

      dall'accampamento e di affidare il comando ai suoi luogotenenti. La cosa

      venne poi discussa in senato e tra i due colleghi fu una gara a base di

      insulti. Tra i senatori furono in pochi a prendere le parti della

      repubblica. La maggior parte di essi parteggiò invece o per l'uno o per

      l'altro, a seconda delle simpatie o dei legami privati.

      

      9 Sia che quel vergognoso massacro fosse dovuto alla precisa

      responsabilità dei comandanti, sia che andasse imputato alla loro cattiva

      stella, i senatori più influenti stabilirono di non aspettare la data

      prevista per le elezioni, ma di nominare súbito dei nuovi tribuni della

      plebe che entrassero in carica alle calende di ottobre. Quando si passò

      alla votazione di questa proposta, gli altri tribuni militari non ebbero

      alcuna obiezione da presentare. Ma a dir la verità Sergio e Verginio, i

      quali erano stati la causa palese del malcontento del senato nei confronti

      dei magistrati di quell'anno, in un primo tempo cercarono con preghiere di

      scongiurare la grave onta, poi tentarono di opporsi al decreto del senato,

      dichiarando che prima delle idi di dicembre, data ufficiale per l'inizio

      delle varie magistrature, non avrebbero rinunciato alla propria carica.

      Nel frattempo i tribuni della plebe, rimasti anche se controvoglia in

      silenzio fino a quando in città c'era stata concordia tra le classi e le

      cose erano andate per il meglio, all'improvviso si scagliarono con estremo

      accanimento contro i tribuni militari, minacciando di farli arrestare se

      non si fossero piegati all'autorità del senato. Fu allora che il tribuno

      militare Gaio Servilio Aala disse: «Per quel che riguarda voi, o tribuni

      della plebe, e le vostre minacce, io vorrei davvero dimostrare come né

      esse sono basate sul diritto né voi avreste il coraggio di metterle in

      pratica. Ma opporsi all'autorità del senato, ecco qual è il sacrilegio. Di

      conseguenza, voi smettete di cercare nei nostri scontri un pretesto per i

      vostri abusi, e i miei due colleghi o faranno ciò che il senato ha deciso,

      oppure, se continueranno testardamente a opporsi, io nominerò

      immediatamente un dittatore che li obblighi a dimettersi.» Siccome questo

      discorso riscosse l'approvazione generale, e i senatori si rallegravano

      che senza dover ricorrere allo spauracchio della potestà tribunizia si

      fosse trovato uno strumento ancora più efficace nell'opera di coercizione

      dei magistrati, questi ultimi, cedendo al consenso generale, organizzarono

      le elezioni dei tribuni militari che sarebbero entrati in servizio alle

      calende di ottobre, e rinunciarono alla propria carica prima ancora di

      quella data.

      

      10 L'anno in cui furono tribuni militari con potere consolare Lucio

      Valerio Potito (per la quarta volta), Marco Furio Camillo (per la seconda

      volta), Manio Emilio Mamerco (per la terza volta), Gneo Cornelio Cosso

      (per la seconda volta), Cesone Fabio Ambusto e Lucio Giulio Iulo si

      verificarono episodi notevoli tanto a Roma quanto sul fronte bellico.

      Nello stesso lasso di tempo ci fu infatti una guerra su più fronti - e

      cioè contro Veio, Capena, Faleri e i Volsci - per recuperare la

      piazzaforte di Anxur caduta in mani nemiche, e contemporaneamente a Roma

      si ebbero difficoltà tanto per la realizzazione della leva militare quanto

      per il pagamento di un tributo; inoltre ci si scontrò sull'eventuale

      cooptazione di tribuni della plebe e notevole agitazione venne suscitata

      da due processi intentati contro coloro che poco tempo prima avevano

      detenuto il potere consolare. Innanzi tutto i tribuni si occuparono della

      leva militare: vennero arruolati non solo i più giovani ma anche i più

      anziani furono costretti ad iscriversi per prestare servizio di vigilanza

      in città. Però quanto più aumentava il numero degli effettivi, tanto

      maggiore diventava la somma necessaria per il pagamento degli stipendi. E

      questo denaro i tribuni cercarono di rastrellarlo con l'imposizione di una

      tassa che i cittadini rimasti a Roma pagarono malvolentieri perché,

      dovendo già proteggere la città, avevano anche il compito di sopportare le

      fatiche militari e servire la causa del paese. Perché questa

      contribuzione, già di per sé gravosa, sembrasse ancora più vergognosa, i

      tribuni della plebe pronunciarono dei discorsi faziosi nei quali

      sostenevano che l'idea di corrispondere una paga ai soldati avesse come

      unica motivazione il desiderio di danneggiare parte della plebe inviandola

      al fronte e stremarne il resto con l'imposizione di quella tassa. Ora era

      il terzo anno che trascinavano avanti un'unica guerra, gestendola apposta

      nella peggiore delle maniere solo per farla durare più a lungo. E ancora:

      con un'unica leva militare avevano arruolato eserciti per quattro guerre,

      portandosi via anche vecchi e bambini. Ormai non c'era più alcuna

      differenza tra estate e inverno, perché la misera plebe non avesse più

      requie e adesso, come ultima trovata, le si imponeva anche una tassa.

      Tutto in maniera tale che, una volta riusciti a riportare a casa i corpi

      stremati dalla fatica, dalle ferite e infine dall'età avanzata, i plebei

      trovassero i propri campi nello squallore per la prolungata assenza dei

      proprietari e dovessero pagare una tassa facendo ricorso ai loro patrimoni

      ormai dissanguati, restituendo così più e più volte allo Stato, come se

      fossero stati ottenuti a usura, gli stipendi guadagnati durante il

      servizio militare.

      Occupati com'erano tutti dalla leva, dal problema della tassa e da altre

      questioni di ben diversa importanza, il giorno delle elezioni non si

      riuscì a completare il numero dei tribuni della plebe. Per questo motivo

      ci fu poi uno scontro sull'eventuale cooptazione di patrizi nei ruoli

      rimasti vacanti. Fallito però questo tentativo, tuttavia, giusto per far

      cadere la legge, si arrivò al punto di cooptare, in qualità di tribuni

      della plebe, Gaio Lacerio e Marco Acuzio, senza dubbio per via della

      grande influenza politica esercitata dal patriziato.

      

      11 Il caso volle che uno dei tribuni della plebe di quell'anno fosse Gneo

      Trebonio che, per rispetto del nome portato e della famiglia alla quale

      apparteneva, sembrava dovesse difendere per forza la legge Treboniana.

      Dopo aver dichiarato che i tribuni militari avevano alla fine estorto ciò

      che i senatori non erano riusciti a conseguire con il loro tentativo di

      poco tempo prima, urlò che la legge Treboniana era stata scavalcata e che

      i tribuni della plebe erano stati cooptati non in base ai voti espressi

      dal popolo ma per ordine tassativo dei patrizi. E poi si era arrivati a un

      punto tale che ormai i tribuni della plebe dovevano essere di estrazione

      patrizia o almeno provenienti dal séguito dei patrizi. Le loro leggi sacre

      erano state spazzate via e la potestà tribunizia gli era stata strappata

      dalle mani. A tutto questo - tuonò Trebonio - si era arrivati grazie ai

      raggiri dei patrizi e al tradimento vergognoso dei suoi colleghi.

      Siccome un'ondata di acceso risentimento si abbatté non solo sui patrizi

      ma anche sui tribuni della plebe (sia quelli che erano stati cooptati sia

      quelli che li avevano cooptati), ecco che tre membri del collegio, e cioè

      Publio Curiazio, Marco Metilio e Marco Minucio, allarmati dalla situazione

      in cui si erano venuti a trovare, si scatenarono contro Sergio e Verginio,

      tribuni militari dell' anno precedente: dopo averli citati in giudizio,

      riuscirono a convogliare sui due ex-magistrati la rabbia e il rancore che

      la plebe aveva maturato nei loro stessi confronti. A coloro i quali

      avevano subìto il peso della leva o della tassa, o che avevano dovuto

      sopportare un servizio militare interminabile nonché il protrarsi della

      guerra, a coloro i quali avevano sofferto per la disfatta di Veio e a

      quelli le cui case erano in lutto per la perdita di figli, fratelli,

      parenti e congiunti, a tutte queste persone i tre tribuni della plebe

      ricordavano di aver dato loro il diritto e la facoltà di vendicare sulle

      teste dei due imputati il proprio dolore privato e le pene sofferte dal

      paese. Perché Sergio e Verginio erano la causa di tutti i mali. E questo

      più che sostenerlo gli accusatori, lo confessavano apertamente gli

      imputati i quali, essendo colpevoli in uguale maniera, si accusavano a

      vicenda, Verginio rinfacciando a Sergio l'episodio della vergognosa fuga,

      e Sergio lamentando il tradimento di Verginio. Il loro comportamento era

      stato così inverosimilmente folle che sarebbe stato molto più plausibile

      credere che avessero agito di conserva con i senatori attenendosi a un

      preciso accordo preso in partenza. Erano stati proprio questi ultimi, solo

      per tirare per le lunghe la guerra, a dare prima ai Volsci l'opportunità

      di incendiare i dispositivi d'assedio costruiti e poi a tradire l'esercito

      e a consegnare in mano ai Falisci l'accampamento romano. Tutto questo

      perché i giovani si logorassero sotto le mura di Veio e per impedire che i

      tribuni presentassero al popolo proposte di legge agraria e altre

      questioni relative agli interessi della plebe, evitando che esponessero le

      loro iniziative di fronte ad assemblee affollate e potessero così opporsi

      alla cospirazione ordita dai patrizi. Contro gli imputati avevano già

      espresso in anticipo il loro giudizio negativo tanto il senato quanto il

      popolo e i loro stessi colleghi. Il senato li aveva rimossi con un decreto

      dalla carica. I colleghi invece, vedendo che essi non avevano alcuna

      intenzione di rinunziarvi, li avevano costretti a farlo minacciandoli di

      nominare un dittatore. Il popolo romano, a sua volta, aveva eletto dei

      tribuni destinati a entrare in servizio non alle idi di dicembre (cioè la

      data tradizionale), ma sùbito alle calende di ottobre, nella ferma

      convinzione che il paese non potesse reggere più a lungo con gente del

      genere ancora in carica. Ciò non ostante, questi uomini, pur essendo già

      stati colpiti e affossati da un numero così elevato di verdetti contrari,

      si presentarono in giudizio di fronte al popolo con l'illusione di essere

      già stati penalizzati in maniera più che sufficiente con il ritorno nella

      condizione di privati cittadini con due mesi di anticipo, senza però

      rendersi conto di esser stati in realtà privati della facoltà di provocare

      ulteriori danni e non colpiti da una qualche condanna. Prova ne sia che

      anche i loro colleghi erano stati destituiti, pur non essendosi macchiati

      di alcun misfatto. Che i Quiriti rispolverassero quella risolutezza

      dimostrata dopo la recente disfatta, quando avevano visto l'esercito

      sconfitto rientrare in città attraverso le porte, smarrito per la fuga,

      coperto di ferite e pieno di terrore, e accusare non la cattiva sorte o

      qualche divinità, ma i comandanti della spedizione (i quali adesso

      sedevano sul banco degli imputati). E di sicuro in quell'assemblea non

      c'era nessuno che in quel preciso giorno non avesse maledetto ed esecrato

      le vite, le case e le fortune di Lucio Verginio e di Manio Sergio. Non era

      quindi ragionevole che ciascuno degli ascoltatori, godendo del diritto e

      del dovere morale di farlo, non esercitasse il proprio potere nei

      confronti di quei due uomini contro i quali aveva invocato l'ira

      vendicatrice degli dèi. Solo che gli dèi non castigano mai direttamente i

      colpevoli: gli basta armare gli offesi con l'occasione buona per la

      vendetta.

      

      12 La plebe, infervorata da questi discorsi, condannò ciascuno degli

      imputati a un'ammenda di 10.000 assi pesanti. E a poco valse che Sergio

      accusasse contro la sorte e l'incerto destino delle armi, e che Verginio

      implorasse di poter essere meno sfortunato in patria di quanto non lo

      fosse stato al fronte. La rabbia del popolo si riversò contro quei due e

      gli episodi della cooptazione dei tribuni e della violazione della legge

      Trebonia furono quasi del tutto dimenticati.

      I tribuni usciti vittoriosi dal processo, perché la plebe avesse un

      riconoscimento immediato al giudizio espresso, proposero una legge agraria

      e si opposero al pagamento dei tributi di guerra, proprio mentre c'era

      immediato bisogno di retribuire il numero elevatissimo degli uomini

      arruolati e le campagne militari in svolgimento andavano così bene da non

      lasciar prevedere per nessuna di esse il risultato sperato. Sul fronte di

      Veio i Romani avevano infatti recuperato l'accampamento perduto

      rinforzandolo con nuove fortificazioni e presidi armati agli ordini dei

      tribuni militari Manio Emilio e Cesone Fabio. Siccome Marco Furio e Gneo

      Cornelio non trovarono tracce di nemici fuori dalle mura rispettivamente

      nel territorio dei Falisci e nella campagna di Capena, fecero del bottino

      qua e là incendiando fattorie e devastando i raccolti, le città vennero

      assalite, ma non assediate. Nel territorio dei Volsci, invece, dopo aver

      saccheggiato le campagne, tentarono di espugnare Anxur che era situata su

      una collina. Quando però si resero conto dell'inefficacia dell'azione di

      forza, guidati da Valerio Potito cui era toccato in sorte il comando

      dell'operazione, cominciarono ad assediare la città costruendo un fossato

      e una trincea di protezione. Mentre le operazioni sul fronte si trovavano

      a questo punto, a Roma scoppiarono dei disordini ben più gravi delle

      guerre in corso. E visto che i tribuni non permettevano di incassare il

      tributo militare e ai comandanti non arrivava denaro per pagare gli uomini

      che reclamavano con impazienza le proprie paghe, poco ci mancò che anche

      l'accampamento venisse contagiato dai torbidi scoppiati in città. Nel

      pieno di questo risentimento della plebe nei confronti dei senatori, anche

      se i tribuni dicevano che era ormai tempo di consolidare la libertà e di

      trasferire a rappresentanti del popolo energici e valorosi gli alti onori

      toccati a gente come Sergio e Verginio, tuttavia - solo per esercitare il

      diritto di cui godevano - non si andò più in là dell'elezione a tribuno

      militare con poteri consolari di un unico plebeo di nome Publio Licinio

      Calvo. Gli altri eletti erano patrizi e si trattava di Publio Manlio,

      Lucio Titinio, Publio Melio, Lucio Furio Medullino e Lucio Publilio

      Volsco. La plebe stessa si stupì di aver ottenuto un tale successo, non

      meno dell'eletto in persona, uomo privo in precedenza di cariche, semplice

      senatore anziano e già piuttosto avanti con gli anni. Non si conosce con

      certezza il motivo per il quale fosse toccato proprio a lui l'onore di

      godere per primo dell'ebbrezza di quel nuovo incarico. Alcuni storici

      ritengono che tale privilegio fosse dovuto al fratellastro Gneo Cornelio

      il quale l'anno precedente era stato tribuno militare e aveva distribuito

      ai cavalieri il triplo della paga abituale, mentre altri sostengono

      dipendesse da un discorso tenuto con tempestività da Licinio sulla

      concordia delle classi sociali e risultato di gradimento tanto alla plebe

      quanto ai patrizi. Esultanti per il trionfo ottenuto nelle elezioni, i

      tribuni della plebe cedettero sulla questione del tributo militare, che

      per il governo rappresentava l'ostacolo più grosso. L'importo previsto

      venne così pagato senza alcuna opposizione e quindi inviato all'esercito.

      

      13 La città di Anxur nel territorio dei Volsci venne riconquistata quando,

      durante un giorno di festa, le sentinelle allentarono la sorveglianza.

      Quell'anno rimase memorabile per l'inverno che fu così gelido e nevoso da

      bloccare le strade e impedire la navigazione sul Tevere. Ma il prezzo dei

      generi alimentari non aumentò grazie alla grande quantità di provviste

      fatta prima della cattiva stagione. E dato che Publio Licinio esercitò la

      sua carica come l'aveva ottenuta, senza che si scatenassero disordini e

      riuscendo a entusiasmare la plebe più di quanto non avesse creato

      malcontento tra i patrizi, ecco che il popolo venne preso dal desiderio di

      nominare altri plebei alle successive elezioni di tribuni militari. Marco

      Veturio fu l'unico candidato patrizio a riuscire: le centurie, quasi

      all'unanimità, scelsero gli altri tribuni militari con potere consolare

      tra i plebei: Marco Pomponio, Gneo Duillio, Volerone Publilio, Gneo

      Genucio e Lucio Atilio.

      A quell'inverno così rigido tenne dietro - vuoi per il repentino

      cambiamento di clima passato dal gelo al suo estremo opposto, vuoi per

      qualche altro motivo - un'estate opprimente e pestilenziale per uomini e

      animali. Siccome risultò impossibile risalire alle cause di questo

      insanabile flagello (o almeno a trovare una via d'uscita), per decreto del

      senato vennero consultati i libri sibillini. Allora, per la prima volta

      nella storia di Roma, i duumviri preposti ai riti sacri celebrarono il

      rito del lettisternio e per otto giorni cercarono di riconciliarsi il

      favore di Apollo, Latona, Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno imbandendo tre

      letti con il massimo di sontuosità possibile per l'epoca. Questo rito fu

      celebrato anche privatamente. In tutta la città le porte rimasero aperte,

      nei cortili delle case vennero collocati tavoli con ogni genere di vivande

      destinate a chiunque passasse, gli estranei, noti e ignoti, erano (stando

      a quanto si racconta) dovunque i benvenuti, la gente scambiava parole

      cortesi anche con i nemici personali e ci si astenne dalle liti e dai

      diverbi. In quei giorni vennero tolte le catene ai prigionieri e in

      séguito ci si fece scrupolo di rimetterle a coloro a cui gli dèi avevano

      concesso quell'aiuto.

      Ma nel frattempo a Veio si moltiplicarono gli allarmi dovuti a tre guerre

      contemporanee confluite in un unico conflitto generale. Com'era infatti

      già successo in precedenza, Capenati e Falisci arrivarono all'improvviso a

      dare manforte ai Veienti e così i Romani combatterono con esito incerto,

      intorno alle fortificazioni, contro tre eserciti contemporaneamente. Più

      di ogni altra cosa giovò il ricordo della condanna inflitta a Sergio e a

      Verginio. Così, dall'accampamento principale (proprio dove nella

      precedente occasione si era verificato il fatale ritardo) vennero inviati

      dei rinforzi che, con una rapida manovra di accerchiamento, aggredirono

      alle spalle i Capenati schierati di fronte alla trincea dei Romani.

      L'inizio della battaglia da quel punto seminò il panico anche tra i

      Falisci e bastò una sortita tempestiva dall'accampamento per metterli in

      fuga nel pieno dello spavento. E mentre si ritiravano, vennero raggiunti

      dai vincitori che li massacrarono senza pietà. Poco tempo dopo, i Romani

      che stavano devastando il territorio di Capena si imbatterono quasi per

      caso nei superstiti sbandati e li sterminarono. Quanto ai Veienti, molti

      tentarono di rifugiarsi in città, ma vennero uccisi davanti alle porte

      quando, per paura che i Romani potessero riversarsi all'interno insieme a

      loro, da dentro sbarrarono gli ingressi tagliando così fuori i compagni

      rimasti più indietro.

      

      14 Ecco gli avvenimenti di quell'anno. Le elezioni dei tribuni militari

      intanto erano ormai alle porte e i patrizi se ne preoccupavano più di

      quanto non facessero per la guerra perché si rendevano conto che le

      massime cariche del paese non erano state soltanto divise con i plebei ma

      ormai quasi del tutto perse. Perciò i patrizi, pur avendo di comune

      accordo deciso di presentare i membri più insigni della loro classe -

      uomini che a loro detta era impossibile non venissero presi in

      considerazione dall'elettorato -, ciò non ostante essi stessi, senza

      lasciare nulla di intentato e come se fossero tutti candidati, fecero

      intervenire non solo gli uomini ma anche gli dèi, cercando di gettare

      l'ombra del sacrilegio sulle elezioni di due anni prima. Dicevano che

      l'anno precedente l'inverno era stato così rigido da sembrare un vero

      monito degli dèi e che il successivo non aveva avuto semplici avvisaglie

      prodigiose ma vere realtà di fatto: la pestilenza abbattutasi sulle

      campagne e sulla città era senza dubbio il prodotto dell'ira degli dèi,

      che - come era emerso dalla consultazione dei libri sibillini - andava

      placata per interrompere l'imperversare dell'epidemia. Nelle elezioni

      tenute sotto i regolari auspici, agli dèi era sembrato indegno che le

      cariche più importanti venissero aperte a tutti e che non ci fosse più

      alcuna distinzione tra le famiglie. Così, non solo per il grande prestigio

      dei candidati in lizza, ma anche per gli scrupoli religiosi, la gente

      elesse tribuni militari con potere consolare tutti patrizi, buona parte

      dei quali risultavano essere tra i più illustri della classe. Si trattava

      infatti di Lucio Valerio Potito (per la quinta volta), di Marco Valerio

      Massimo, di Marco Furio Camillo (per la seconda volta), di Lucio Furio

      Medullino (per la terza volta), di Quinto Servilio Fidenate e di Quinto

      Sulpicio Camerino (entrambi alla loro seconda esperienza). Durante il loro

      mandato, sotto le mura di Veio non ci furono iniziative degne di essere

      menzionate. L'intero spiegamento di forze venne impiegato in saccheggi. I

      due comandanti in capo delle operazioni, Potito e Camillo, portarono via

      rispettivamente da Faleri e da Capena un enorme bottino, senza lasciare

      intatto nulla che potesse esser distrutto dal ferro o dal fuoco.

      

      15 Nel frattempo vennero annunciati molti eventi prodigiosi, la maggior

      parte dei quali erano disprezzati e tenuti in scarsissimo conto

      innanzitutto per il fatto che ciascun fenomeno riportato vantava un unico

      testimone e poi, essendo in quel frangente gli Etruschi dei nemici, perché

      a Roma c'era grande penuria di aruspici, che di solito venivano impiegati

      per scongiurare i cattivi presagi. Il solo fatto che destò preoccupazione

      fu l'inusuale innalzamento del livello del lago situato all'interno del

      bosco Albano, fenomeno questo dovuto non a normali precipitazioni

      atmosferiche o a qualche altra causa che potesse escluderne l'origine

      miracolosa. Per scoprire cosa gli dèi volessero preannunciare con

      quell'evento prodigioso, vennero inviati degli ambasciatori all'oracolo di

      Delfi. Ma un interprete più vicino venne offerto dal fato nella persona di

      un vecchio di Veio: costui, mentre i soldati romani e quelli etruschi si

      prendevano in giro dai posti di guardia e dalle garitte, annunziò in tono

      da vaticinio che i Romani non si sarebbero mai impadroniti di Veio prima

      che le acque del lago Albano fossero tornate al livello di sempre. Sulle

      prime le parole del vecchio vennero catalogate con disprezzo come una

      battuta gettata lì e priva di fondamento. Poi però si cominciò a

      discuterne, fino a quando un romano in servizio presso uno dei posti di

      guardia domandò al Veiente che gli stava più a portata di mano (la guerra

      durava ormai da così tanto tempo che assediatori e assediati si parlavano

      a distanza) chi fosse mai quell'uomo che osava proferire sentenze

      sibilline sul lago Albano. Quando si sentì rispondere che si trattava di

      un aruspice, poiché egli stesso era sensibile allo scrupolo religioso,

      adducendo come pretesto di volerlo consultare - se gli era possibile - per

      una cerimonia purificatoria circa un fatto prodigioso di natura privata,

      riuscì a indurre il vate a un colloquio. E quando i due, disarmati e senza

      alcun timore, si furono allontanati un po' a piedi dai rispettivi

      compagni, ecco che il romano, più giovane e robusto, afferrò il vecchio

      debole davanti agli occhi di tutti e, tra le vane e rabbiose proteste

      degli Etruschi, lo trascinò via verso i propri commilitoni. Una volta

      portato di fronte al comandante, venne da quest'ultimo inviato a Roma. E

      qui, ai senatori che gli domandavano che cosa avesse voluto dire con

      quella frase sul lago Albano, egli rispose che quel giorno gli dèi

      dovevano di certo essere infuriati con il popolo di Veio perché avevano

      deciso di indurlo a rivelare il tragico destino di distruzione riservato

      alla sua patria. Pertanto ciò che in quell'occasione egli aveva vaticinato

      sull'onda dell'ispirazione divina ora non poteva certo ritirarlo come se

      non fosse stato detto. E poi, tacendo una cosa che gli dèi volevano fosse

      risaputa, probabilmente avrebbe commesso un'empietà non meno che se avesse

      rivelato a viva voce ciò che era destinato a rimanere nascosto. Così era

      scritto nei loro libri dei fati e così era stato tramandato dall'arte

      divinatoria degli Etruschi: quando le acque del lago Albano tracimassero,

      i Romani avrebbero avuto la meglio sui Veienti se in quella precisa

      occasione avessero fatto defluire le acque secondo la procedura rituale.

      Finché però non si fosse verificato tutto questo, gli dèi non avrebbero

      abbandonato le mura di Veio. Il vecchio passò poi a spiegare in che cosa

      consistesse lo scarico rituale dell'acqua. Ma i senatori, dando scarso

      credito all'autorità di quell'uomo e non considerandolo sufficientemente

      affidabile per una questione di tale importanza, decisero di aspettare gli

      ambasciatori di ritorno da Delfi con il responso della Pizia.

      

      16 Prima che questi inviati fossero rientrati a Roma e fosse stato trovato

      il modo di placare gli dèi per il prodigio del lago Albano, entrarono in

      carica dei nuovi tribuni militari con potere consolare, i cui nomi erano

      Lucio Giulio Iulo, Lucio Furio Medullino (per la quarta volta), Lucio

      Sergio Fidenate, Aulo Postumio Regillense, Publio Cornelio Maluginense e

      Aulo Manlio. In quell'anno spuntarono all'orizzonte dei nuovi nemici: si

      trattava degli abitanti di Tarquinia. Essi, vedendo che i Romani erano

      impegnati contemporaneamente su più fronti di guerra (con i Volsci che

      stavano assediando il presidio armato di Anxur, con gli Equi che avevano

      attaccato la colonia romana di Labico e ancora con i Veienti, i Capenati e

      i Falisci), e constatando che all'interno delle mura cittadine la

      situazione non era certo più tranquilla a causa degli scontri tra patrizi

      e plebei, convinti che in mezzo a tutti quei problemi ci fosse spazio per

      un'azione di disturbo, inviarono delle truppe armate alla leggera a fare

      razzie nella campagna romana. I Tarquinensi ritenevano che i Romani

      avrebbero incassato il colpo senza tentare la vendetta per evitare il peso

      di un ulteriore fronte bellico, oppure sarebbero scesi in campo con poche

      forze e perciò non all'altezza della situazione. E invece i Romani, più

      che preoccuparsi dell'incursione fatta dai Tarquinensi, reagirono

      indignandosi, senza perciò fare grossi preparativi né tuttavia lasciare

      che la cosa andasse troppo per le lunghe. Aulo Postumio e Lucio Giulio,

      non potendo ricorrere a una regolare leva militare per la ferma

      opposizione dei tribuni della plebe, e facendo ricorso a un contingente di

      uomini costituito quasi solo da volontari raccolti a forza di appelli e

      accalorati proclami, marciarono per scorciatoie attraverso la campagna di

      Cere e sorpresero i Tarquinensi che stavano ritornando alla base carichi

      di bottino. Molti li massacrarono. Ma a tutti tolsero il bagaglio, e

      rientrarono in città riportando ciò che era stato depredato dalle loro

      campagne. Chi era stato derubato ebbe tempo due giorni per identificare le

      sue proprietà. Tutti gli oggetti che il terzo giorno non avevano trovato

      un padrone - si trattava per lo più di roba dei nemici - venne venduto

      all'asta e il ricavato diviso tra i soldati.

      Le altre guerre, e soprattutto quella contro Veio, erano ancora in una

      fase di stallo. E mentre i Romani, disperando ormai nell'aiuto che poteva

      arrivare dagli uomini, guardavano al destino e agli dèi, gli inviati

      tornarono da Delfi con un responso che coincideva con le parole

      dell'aruspice prigioniero: «O Romano, non lasciare che l'acqua rimanga

      all'interno del lago Albano o che finisca in mare seguendo un suo canale

      naturale. La farai defluire nei campi e la disperderai dividendola in

      ruscelli. Fatto ciò, incalza con forza e coraggio le mura nemiche,

      ricordandoti che dal destino che oggi ti è stato rivelato ti sarà concessa

      la vittoria su quella città da te assediata per così tanti anni. Una volta

      conclusa la guerra da vincitore, porta al mio tempio un ricco dono, e i

      riti sacri della patria, che sono stati negletti, rinnovali e ripetili

      secondo la tradizione di un tempo.»

      

      17 Da quel momento l'aruspice prigioniero cominciò a essere tenuto in

      grande considerazione e i tribuni militari Cornelio e Postumio iniziarono

      a servirsi di lui sia in vista della purificazione per il prodigio del

      lago Albano sia per ingraziarsi il favore degli dèi attenendosi alla

      liturgia prestabilita. E finalmente si scoprì in quale punto gli dèi

      ritenessero trascurate le cerimonie o quale rito solenne non fosse stato

      celebrato. Si trattava di nient'altro che questo: i magistrati eletti con

      qualche vizio di procedura non si erano attenuti scrupolosamente alle

      procedure nel bandire le Ferie latine e il sacrificio sul monte Albano. Il

      rimedio contro questa duplice violazione era uno solo: i tribuni militari

      dovevano rinunciare all'incarico, gli auspici andavano ricominciati da

      capo e era necessario un periodo di interregno. Questi provvedimenti

      vennero messi in pratica a séguito di un decreto del senato. I tre interré

      che si succedettero furono Lucio Valerio, Quinto Servilio Fidenate e Marco

      Furio Camillo. Durante tutto quel periodo si passò da un disordine

      all'altro perché i tribuni della plebe impedirono lo svolgimento delle

      elezioni sostenendo che avrebbero mantenuto il blocco fino a quando non ci

      si accordasse circa i tribuni militari: la maggior parte di essi doveva

      venir scelta all'interno della plebe.

      Mentre a Roma succedevano questi fatti, le genti di ceppo etrusco si

      riunirono in assemblea plenaria presso il tempio di Voltumna. Durante la

      seduta, Falisci e Capenati proposero che tutti i popoli etruschi unissero

      forze e strategie per liberare Veio dall'assedio. I convenuti risposero

      però che una collaborazione del genere in passato non era stata concessa

      ai Veienti, solo perché questi ultimi non avevano il diritto di chiedere

      aiuto dopo aver rifiutato di chiedere consigli su una questione di tale

      importanza. E adesso la penosa situazione in cui versava l'Etruria era un

      argomento sufficiente per dire di no. Infatti in quella parte dell'Etruria

      era adesso stanziata una stirpe mai vista prima, dei nuovi vicini, i

      Galli, con i quali non c'erano né pace sicura né guerra aperta. Ciò non

      ostante, dati i pericoli in vista e i legami di parentela e di nome con i

      propri consanguinei, se c'era qualche giovane tra di loro che voleva

      prendere spontaneamente parte a quel conflitto, nessuno glielo avrebbe

      impedito. A Roma giunse la notizia che quei nemici erano arrivati in gran

      numero. Perciò, come spesso succede in simili stati di allarme per tutta

      la comunità, le discordie civili cominciarono a mitigarsi.

      

      18 E così non fu certo un dispiacere per i patrizi quando la centuria

      prerogativa, senza che egli avesse posto la sua candidatura, elesse

      tribuno militare Publio Licinio Calvo, uomo che aveva già dato prova di

      grande moderazione durante il suo precedente mandato, ma che in quel

      periodo era ormai piuttosto avanti negli anni. Ed era chiaro che tutti i

      suoi colleghi in carica quello stesso anno - e cioè Lucio Titinio, Publio

      Menio, Gneo Genucio e Lucio Atilio - sarebbero stati riconfermati. Ma

      prima che venisse annunciata la loro elezione da parte delle tribù

      chiamate a votare di diritto, Publio Licinio Calvo chiese il permesso

      all'interré e rivolse loro queste parole: «Mi rendo conto, o Quiriti, che

      voi state cercando di raggiungere con questi vostri voti segnati dal

      ricordo della nostra precedente magistratura un vero augurio di concordia

      per il prossimo anno. E la concordia è la cosa più utile che ci sia in

      tempi come questi. Se però con i miei colleghi voi scegliete gli stessi

      uomini di allora trovandoli ancora migliorati grazie al peso

      dell'esperienza, in me invece non potrete più avere lo stesso Publio

      Licinio di una volta perché di quell'uomo adesso sono rimasti solo l'ombra

      e il nome. Il fisico non ha più forza, vista e udito si sono indeboliti,

      la memoria vacilla e la lucidità mentale si è affievolita». Poi,

      stringendo a sé il figlio, aggiunse: «Eccovi un giovane che è il perfetto

      ritratto dell'uomo che tempo fa voi avete voluto fosse il primo plebeo a

      ricoprire la carica di tribuno militare. Questo giovane che io ho

      cresciuto secondo i miei princìpi di vita lo offro e lo consacro al paese

      come mio legittimo sostituto e supplico voi, o Quiriti, affinché affidiate

      a lui che la richiede e per il quale io aggiungo le mie raccomandazioni

      questa carica che mi è stata offerta senza che io la sollecitassi». Il

      caloroso invito del padre venne accolto e così il figlio Publio Licinio fu

      nominato tribuno militare con potere consolare insieme a quelli prima

      menzionati.

      I tribuni militari Titinio e Genucio marciarono contro i Falisci e i

      Capenati, ma la loro condotta di guerra fatta più di facili entusiasmi che

      di vera strategia militare li fece finire in un'imboscata. Genucio,

      scontando con una morte onorevole l'eccesso di imprudenza, cadde in prima

      linea davanti alle insegne. Titinio invece, riuscì a riunire su un'altura

      i suoi uomini sparpagliatisi in preda al panico e riordinò le file, ma non

      osò affrontare il nemico in campo aperto. Più che una sconfitta si era

      subìto uno smacco, che per poco non si trasformò in un grave disastro,

      tanto fu il panico diffusosi non solo a Roma (dove erano arrivate le

      notizie più disparate), ma anche nell'accampamento di fronte a Veio. Lì i

      comandanti riuscirono a malapena a trattenere i soldati dalla fuga, perché

      si era sparsa in giro la voce che Capenati, Falisci e tutta la gioventù

      etrusca, reduci dall'aver massacrato l'esercito e i generali romani, non

      erano molto lontani. A Roma erano arrivate notizie ancora più allarmanti:

      l'accampamento di fronte a Veio era già in stato d'assedio e colonne di

      nemici pronte a battersi stavano ormai marciando alla volta di Roma. Ci fu

      un accorrere scomposto di gente sulle mura. Le matrone, richiamate fuori

      dalle case dalla paura generale, si riversarono nei templi a rivolgere

      preghiere e suppliche agli dèi: promettendo di ripristinare i riti sacri

      com'era prescritto, di scongiurare i prodigi, esse imploravano le divinità

      di risparmiare le case, i templi e le mura di Roma dalla distruzione e di

      scatenare contro i Volsci quell'ondata di terrore.

      

      19 Ormai i giochi e le feste latine erano stati riorganizzati, l'acqua in

      eccesso era stata fatta defluire dal lago Albano e il giorno fatale della

      fine di Veio era sempre più vicino. E fu così che il generale chiamato dal

      destino a distruggere quella città e a salvare il proprio paese, e cioè

      Marco Furio Camillo, venne eletto dittatore e a sua volta nominò maestro

      della cavalleria Publio Cornelio Scipione. Il cambio alla testa

      dell'esercito modificò in maniera repentina ogni cosa: erano riapparsi la

      speranza e lo spirito di un tempo e persino la fortuna di Roma sembrava

      diversa e rinnovata. Innanzitutto, il dittatore si occupò di quei soldati

      che erano fuggiti da Veio nel pieno del panico: punendoli con la severità

      prevista dal codice militare, fece capire ai propri uomini come il nemico

      non fosse il peggiore spauracchio in guerra. Poi, dopo aver indetto la

      leva militare per un giorno determinato, nell'intervallo di tempo che lo

      separava da quella data corse a Veio per incoraggiare le truppe. Quindi

      tornò a Roma dove arruolò un nuovo esercito senza dover affrontare alcun

      caso di renitenza alla leva. Addirittura, da fuori, dai Latini e dagli

      Ernici, si presentarono contingenti di giovani e offersero il proprio

      contributo per quel conflitto: il dittatore li ringraziò di fronte al

      Senato. E siccome tutto era pronto in vista della guerra, in conformità a

      un decreto del Senato, Camillo promise in maniera solenne che, qualora

      Veio fosse caduta in mano dei Romani, avrebbe celebrato i Ludi Magni,

      restaurato e riconsacrato il tempio della Madre Matuta, un tempo già

      consacrato dal re Servio Tullio. Quando lasciò Roma alla testa

      dell'esercito, le aspettative della gente superavano addirittura le

      speranze. Giunto nel territorio di Nepi, il suo primo scontro armato fu

      con Falisci e Capenati. In quell'occasione, come spesso succede, la sua

      condotta, strategicamente perfetta sotto ogni aspetto, venne accompagnata

      anche dalla fortuna. Camillo non si limitò però a sbaragliare i nemici in

      battaglia, ma li privò anche dell'accampamento impadronendosi di un enorme

      bottino, la maggior parte del quale venne consegnato al questore,

      lasciando così ben poca roba ai soldati. Di lì guidò quindi l'esercito

      alla volta di Veio dove incrementò le opere di fortificazione impiegandovi

      i soldati, ai quali vietò di combattere senza ordini precisi, ponendo così

      termine alle frequentissime scaramucce che si verificavano nello spazio

      compreso tra il muro della città e il fossato dell'accampamento. Dette,

      poi, inizio a un lavoro molto più importante e faticoso di tutti gli

      altri: un cunicolo sotterraneo diretto verso la cittadella. Per evitare

      interruzioni nella costruzione ed eccessi di fatiche sobbarcate sotto

      terra sempre dagli stessi uomini, il dittatore li divise in sei squadre,

      ciascuna con un turno di sei ore. Si poté così procedere in maniera

      incessante giorno e notte, fino a quando il camminamento non ebbe

      raggiunto la cittadella nemica.

      

      20 Il dittatore si rese conto che ormai la vittoria era a portata di mano:

      una città ricchissima stava per essere conquistata e la preda sarebbe

      stata enorme, quale non avevano dato tutte le guerre precedenti messe

      insieme. Di conseguenza, per evitare di incappare nel risentimento dei

      soldati per una spartizione taccagna del bottino o di suscitare il

      malcontento dei senatori con una divisione eccessivamente prodiga, scrisse

      una lettera al Senato nella quale diceva che grazie al favore degli dèi

      immortali, alla sua condotta strategica, alla costanza dello sforzo da

      parte delle truppe la città di Veio sarebbe presto finita in mano al

      popolo romano. Che cosa ritenevano si dovesse fare con il bottino? Il

      senato era diviso tra due diverse risoluzioni. La prima, avanzata

      dall'anziano Publio Licinio (che, stando alla tradizione, sarebbe stato il

      primo a parlare su richiesta del figlio), suggeriva di proclamare

      pubblicamente al popolo che chi avesse voluto partecipare alla spartizione

      del bottino si sarebbe dovuto recare all'accampamento sotto Veio. L'altra

      fu sostenuta da Appio Claudio: considerando quell'inedita elargizione

      eccessiva, avventata, e ineguale, egli riteneva che, se il versare nelle

      casse dello Stato stremate dalle guerre il denaro sottratto ai nemici

      veniva considerato un delitto, sarebbe stato consigliabile utilizzare

      quella enorme somma per il pagamento degli stipendi ai soldati, in maniera

      tale da alleviare in parte la plebe dalla contribuzione di quella tassa.

      Con questo sistema tutte le famiglie avrebbero risentito in maniera uguale

      del beneficio di quell'elargizione, evitando così che gli sfaccendati

      della città, abituati com'erano al saccheggio, mettessero le grinfie sui

      premi destinati ai combattenti valorosi (poiché succede sempre che chi di

      solito cerca la parte più rilevante di pericoli e fatiche poi risulta più

      lento quando si tratta di mettere le mani sulla preda). Licinio sosteneva

      invece che quel denaro sarebbe sempre stato motivo di sospetti e gelosie,

      offrendo così il destro per accuse di fronte alla plebe, disordini e leggi

      rivoluzionarie. Sarebbe stato di gran lunga preferibile riconciliarsi con

      quell'elargizione la simpatia dei plebei, venendo loro in aiuto nello

      stato di prostrazione e miseria nella quale erano stati trascinati da anni

      di tassazioni belliche, e offrendo così nel contempo l'opportunità di

      godere del frutto del bottino fatto in una guerra che li aveva visti quasi

      diventar vecchi. Per tutti sarebbe stata una gioia ben più forte

      riportarsi a casa ciò che ciascuno di essi aveva strappato con le proprie

      mani al nemico, piuttosto che ottenere un premio molto più grande ad

      arbitrio di altri. Oltretutto anche il dittatore avrebbe evitato il

      malcontento e le accuse che ne sarebbero derivate. E per questo aveva

      rimesso al Senato la decisione. Quindi anche il Senato doveva delegare

      alla plebe la risoluzione che gli era stata addossata, lasciando così che

      a ciascun combattente restasse ciò che le sorti della guerra potevano aver

      dato. Questo suggerimento sembrò il più sicuro in quanto avrebbe reso

      popolare il Senato. Perciò venne annunciato che chi avesse voluto prendere

      parte alla spartizione del bottino di Veio avrebbe dovuto recarsi

      all'accampamento del dittatore.

      

      21 Un'enorme massa di persone si mise in movimento e andò a riversarsi

      nell'accampamento. Il dittatore allora, dopo aver tratto gli auspici, uscì

      dalla tenda e diede ordine alle truppe di armarsi. «Sotto il tuo comando -

      disse poi -, o Apollo Pizio, e ispirato al tuo volere, mi accingo a

      distruggere la città di Veio e a te dedico la decima parte del bottino che

      ne verrà tratto. Ma nello stesso tempo imploro te, o Giunone Regina, che

      adesso dimori a Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città presto

      destinata a diventare anche la tua, dove ti accoglierà un tempio degno

      della tua grandezza». Dopo aver innalzato queste preghiere, il dittatore,

      forte di un numero soverchiante di uomini, si buttò all'assalto della

      città aggredendola da ogni parte, in maniera tale che gli abitanti si

      rendessero conto il meno possibile del pericolo che incombeva sulle loro

      teste dalla galleria sotterranea. I Veienti, non sapendo che tanto i vati

      di casa quanto gli oracoli stranieri li davano già per spacciati e che

      alcune divinità erano già state chiamate a dividere le loro spoglie,

      mentre altre, invitate con suppliche ad abbandonare Veio, stavano già

      cominciando a vedere nei santuari dei nemici le loro nuove dimore, e

      ignorando che quello era destinato ad essere il loro estremo giorno di

      vita, siccome l'ultima cosa di cui potevano aver paura erano l'idea di un

      cunicolo scavato sotto le fortificazioni e l'immagine della cittadella

      ormai piena di nemici, si armarono ciascuno per proprio conto e si

      andarono a riversare sulle mura. E si chiedevano con meraviglia come mai,

      mentre per tanti giorni non c'era stato un solo Romano che si fosse mosso

      dai posti di guardia, adesso, come spinti da un furore improvviso, si

      riversassero in massa alla cieca contro le mura.

      A questo punto si inserisce una leggenda: mentre il re dei Veienti era

      intento a celebrare un sacrificio, nella galleria si sarebbe udita la voce

      dell'aruspice dire che la vittoria avrebbe premiato chi fosse riuscito a

      tagliare le viscere di quella vittima. Questa voce avrebbe spinto i

      soldati romani a sfondare l'ingresso della galleria e a impossessarsi

      delle viscere riportandole al dittatore. Trattandosi di vicende così

      antiche sarei già contento se il verosimile fosse accettato come vero: ma

      racconti come questo sembrano adatti al palcoscenico di un teatro (dove

      c'è l'abitudine a compiacersi del meraviglioso) più che alla credibilità

      di un'opera storica, e non vale la pena né di rifiutarli in blocco né di

      accettarli passivamente.

      La galleria, piena com'era in quel momento di truppe scelte,

      all'improvviso riversò il suo carico di armati all'interno del tempio di

      Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle

      i nemici piazzati sulle mura, parte andò a svellere dai cardini le sbarre

      che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai

      cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole.

      Dappertutto echeggiavano clamori: alle urla minacciose degli aggressori

      miste ai suoni spaventati degli assaliti si univano le lacrime delle donne

      e dei bambini. In un attimo tutti gli uomini armati vennero scaraventati

      giù dai vari punti delle mura e le porte si spalancarono, permettendo così

      a parte dei Romani di riversarsi all'interno in formazione compatta e ad

      altri di scalare le mura ormai prive di difesa. La città straripava di

      nemici. Si combatteva dovunque. Poi, quando il massacro era già arrivato

      all'estremo, la battaglia cominciò a perdere d'intensità e il dittatore

      attraverso gli araldi ordinò agli uomini di risparmiare chi non era

      armato. Questa mossa pose fine alla carneficina. Quanti non portavano armi

      iniziarono allora a consegnarsi spontaneamente, mentre i soldati romani

      ottennero dal dittatore via libera al saccheggio. Poiché gli oggetti

      accatastati di fronte ai suoi occhi si rivelarono più numerosi e preziosi

      di quanto non fosse dato sperare o supporre, si racconta che il dittatore

      innalzò questa preghiera con le mani levate al cielo: se la fortuna sua e

      del popolo romano sembrava eccessiva a qualcuno tra gli dèi e tra gli

      uomini, che almeno quella gelosia potesse venir placata con il minor danno

      per sé e per il popolo romano. Pare che mentre si girava nel corso della

      preghiera agli dèi Camillo scivolasse e perdesse l'equilibrio finendo a

      terra. Quando a fatti compiuti si cominciò a congetturare sull'episodio,

      sembrò che quel sinistro presagio dovesse esser messo in relazione tanto

      alla condanna inflitta in séguito a Camillo, quanto alla catastrofica

      caduta di Roma avvenuta pochi anni dopo. Nell'arco di quell'intera

      giornata, i Romani non fecero altro che massacrare i nemici e saccheggiare

      le ricchezze infinite di quella città.

      

      22 Il giorno dopo il dittatore vendette come schiavi tutti gli abitanti di

      condizione libera. La somma che se ne ricavò fu il solo denaro finito nel

      tesoro dello Stato, non senza ira della plebe. Quanto poi al bottino che i

      soldati riuscirono a portarsi a casa, dissero di non doverlo né al

      comandante, reo di aver rimesso al senato una decisione di sua competenza,

      per trovare dei responsabili per la sua avara distribuzione, né tantomeno

      al senato, bensì soltanto alla famiglia Licinia, tra i cui membri c'era

      stato un figlio relatore al senato di una legge così favorevole al popolo

      e proposta dal padre.

      Quando i beni privati erano già stati asportati da Veio, i vincitori

      cominciarono a portarsi via anche i tesori degli dèi e gli dèi stessi, pur

      facendolo però con spirito di autentica devozione e non con foga da

      razziatori. Infatti all'interno di tutto l'esercito vennero scelti dei

      giovani che, dopo essersi lavati accuratamente e aver indossato una veste

      bianca, ebbero l'incarico di trasferire a Roma Giunone Regina. Una volta

      entrati nel tempio pieni di reverenza, essi in un primo tempo accostarono

      piamente le mani al simulacro della dea perché secondo la tradizione

      etrusca quell'immagine non doveva esser toccata se non da un sacerdote

      proveniente da una certa famiglia. Poi, quando uno di essi, vuoi per

      ispirazione divina, vuoi per celia giovanile, disse, rivolto al simulacro:

      «Vuoi venire a Roma, Giunone?», tutti gli altri gridarono festanti che la

      dea aveva fatto un cenno di assenso con la testa. In séguito alla storia

      venne anche aggiunto il particolare che era stata udita la voce della dea

      rispondere di sì. Di certo però sappiamo che (come se la statua avesse

      voluto seguire volontariamente quel gruppo di giovani) non ci vollero

      grossi sforzi di macchine per rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera

      a trasportarsi, la dea approdò integra sull'Aventino, in quella zona cioè

      che le preghiere del dittatore avevano invocato come la sede naturale a

      lei destinata per l'eternità e dove in séguito Camillo le dedicò il tempio

      da lui stesso promesso nel pieno della guerra. Questa fu la fine di Veio,

      la città più ricca di tutto il mondo etrusco e capace di dare prova della

      propria grandezza anche nel momento estremo della disfatta: dopo un

      assedio durato dieci estati e altrettanti inverni durante i quali aveva

      inflitto perdite ben più gravose di quante non ne avesse subite, alla

      fine, anche se incalzata ormai anche dal destino avverso, ciò non ostante

      fu espugnata grazie all'ingegneria militare e non alla forza vera e

      propria.

      

      23 Quando a Roma arrivò la notizia della caduta di Veio, anche se i

      prodigi erano stati espiati e tutti ormai erano a conoscenza dei responsi

      degli aruspici e dell'oracolo della Pizia, e per quanto i Romani,

      scegliendosi come comandante il più grande generale che ci fosse in

      circolazione (e cioè Furio Camillo), avessero fatto tutto quello che era

      in loro potere per sostenere la causa comune, ciò non ostante - visto che

      la guerra si era trascinata con alterne fortune per così tanti anni e le

      disfatte subite non erano state certo poche - in città l'esplosione di

      gioia fu incontenibile come se quell'esito fosse insperato. E prima ancora

      che il senato lo decretasse, i templi tutti si riempirono di matrone

      romane che rendevano grazie agli dèi. Il senato stabilì che le feste di

      ringraziamento durassero per quattro giorni di séguito, cosa che non era

      mai successa in nessuna delle guerre combattute in passato. Quando il

      dittatore rientrò in città, venne anche a lui riservata un'accoglienza

      senza precedenti per il numero di persone di ogni ordine sociale che gli

      andarono incontro riversandosi per le strade. E per il trionfo fu la

      stessa cosa: gli onori riservati di solito in simili occasioni superarono

      di gran lunga le proporzioni abituali. Il dittatore, all'atto di fare il

      suo ingresso in città a bordo di un cocchio trainato da cavalli bianchi,

      divenne l'elemento più in vista di tutto il corteo, cosa questa che diede

      l'impressione di essere eccessiva non solo per un cittadino ma anche per

      un semplice mortale, perché la gente riteneva sacrilego il fatto che il

      dittatore, avendo utilizzato quel tipo di cavalli, fosse stato messo sullo

      stesso piano di Giove e del Sole. E fu soprattutto per questa ragione se

      il trionfo raccolse più ammirazione per la magnificenza dell'apparato che

      ampiezza di consensi. Camillo, poi, fece erigere un tempio a Giunone

      Regina sull'Aventino e ne dedicò uno alla Madre Matuta. Adempiuti questi

      impegni di natura cultuale e materiale, abbandonò spontaneamente la carica

      di dittatore.

      La questione della quale si dibatté sùbito dopo fu il dono promesso ad

      Apollo. Camillo aveva dichiarato di avergli promesso in voto la decima

      parte del bottino fatto a Veio e i pontefici dicevano che il popolo doveva

      onorare quest'obbligo religioso ma non era facile trovare come imporre

      alla gente di restituire il bottino, per prelevarne la parte destinata e

      dovuta agli scopi sacri. Alla fine si arrivò al rimedio più blando:

      chiunque avesse voluto, a nome proprio e della propria casa, liberarsi

      dall'obbligo religioso, avrebbe dovuto prima effettuare una valutazione

      del bottino toccatogli e quindi versarne un decimo nel tesoro di Stato, in

      maniera tale da trasformare quella contribuzione in un dono in oro degno

      della magnificenza del tempio e della grandezza della divinità e in

      perfetta sintonia con la dignità del popolo romano. Ma, anche così, la

      contribuzione alienò a Camillo le simpatie della plebe. Nel frattempo

      Volsci ed Equi inviarono dei delegati a intavolare trattative di pace: e

      se essa venne concessa, non fu tanto perché ne fossero degni coloro che la

      richiedevano, quanto piuttosto perché il paese avesse modo di riprendere

      fiato stremato com'era dopo una guerra così lunga.

      

      24 Nell'anno successivo alla presa di Veio i tribuni militari eletti

      furono sei. Si trattava dei due Publii Cornelii, cioè Cosso e Scipione, di

      Marco Valerio Massimo (per la seconda volta), di Cesone Fabio Ambusto (per

      la terza), di Lucio Furio Medullino (per la quinta volta) e di Quinto

      Servilio (per la terza volta). Il sorteggio assegnò ai due Cornelii la

      guerra contro i Falisci, mentre a Valerio e a Servilio riservò la campagna

      contro i Capenati. Essi non tentarono l'assedio o l'attacco diretto ad

      alcuna città, preferendo invece devastare la campagna dei dintorni e

      razziare i prodotti agricoli: non rimasero in piedi nella zona alberi da

      frutta, non rimase intatto alcun terreno coltivato: l'operazione piegò la

      resistenza dei Capenati. La loro richiesta di pace venne sùbito accolta.

      Nel territorio dei Falisci invece si combatteva ancora.

      A Roma erano nel frattempo scoppiati disordini di vario genere: per

      sedarli si era deciso di dedurre una colonia in territorio volsco dove si

      potevano inviare tremila cittadini romani, a ciascuno dei quali i

      triumviri preposti al cómpito avevano deciso di assegnare tre iugeri e

      sette dodicesimi di terra. Ma la gente cominciò a guardare con disprezzo a

      questa donazione, considerandola come un semplice contentino concesso al

      popolo per evitare che nutrisse la speranza di raggiungere qualche

      traguardo più ambizioso. Perché mai infatti relegare la plebe nel

      territorio dei Volsci, quando lì davanti agli occhi c'erano la bellissima

      città di Veio e tutta la campagna circostante (ben più fertile e grande di

      quella romana)? Arrivavano addirittura - vuoi per la posizione in cui si

      trovava, vuoi per la sontuosità degli edifici pubblici e privati e per la

      bellezza dei luoghi - a preferire la città stessa a Roma. Anzi si

      cominciava già ad avanzare la proposta, divenuta ben più popolare quando

      anni dopo Roma finì in mano ai Galli, di trasferire la popolazione a Veio.

      L'idea era che una parte della plebe e un certo numero di senatori

      andassero a vivere a Veio, ritenendo realizzabile l'ipotesi che il popolo

      romano potesse abitare in due diverse città pur rimanendo unito lo Stato.

      Ma i patrizi si opposero a questa proposta in maniera risoluta,

      dichiarandosi pronti a morire al cospetto del popolo romano piuttosto che

      accettare la votazione di una qualsiasi idea di quel genere. Se in una

      sola città c'erano infatti già così tanti dissensi, che cosa sarebbe

      successo in due? Com'era possibile che la gente preferisse una città vinta

      alla patria vittoriosa e accettasse che Veio, una volta presa, avesse

      maggiore fortuna che non quando era intatta? Insomma, essi avrebbero anche

      potuto essere abbandonati in patria dai concittadini. Ma nessun atto di

      forza li avrebbe mai costretti ad abbandonare la patria e i concittadini,

      seguendo a Veio Tito Sicinio, il 'fondatore' (era infatti stato lui, tra i

      tribuni della plebe, l'autore di quella proposta), dopo aver abbandonato

      il dio Romolo, figlio di un dio, padre e fondatore della città di Roma.

      

      25 Siccome il dibattito sulla questione procedeva facendo registrare liti

      incresciose (i patrizi, infatti, erano riusciti a trascinare dalla propria

      parte anche qualche tribuno della plebe), la sola cosa che frenasse la

      plebe dal ricorso alla forza bruta era il fatto che, ogni qualvolta

      qualcuno alzava la voce per far scoppiare una rissa, gli esponenti più in

      vista del Senato andavano per primi incontro alla folla, e la invitavano a

      attaccarli, ferirli, ucciderli. Così, mentre ci si asteneva dal mancare di

      rispetto alla loro età veneranda, alla loro dignità e al loro prestigio

      politico, un senso di ritegno impediva che si arrivasse ad altri tentativi

      di violenza in tutto simili.

      Nei discorsi che ripeteva di continuo e dovunque alla gente, Camillo

      diceva che non era poi tanto strano se si abbandonasse a tali eccessi una

      città che, pur essendo legata al compimento di un voto, faceva di tutto

      tranne che preoccuparsi di liberarsi dal vincolo religioso. All'offerta in

      denaro (che a essere sinceri era un'elemosina più che una decima) non

      accennava mai, perché ciascuno si era assunto l'impegno per la propria

      parte e il popolo non aveva quindi alcun obbligo. La sua coscienza non era

      però disposta a passare sotto silenzio un'unica cosa: e cioè che di tutto

      il bottino razziato a Veio si calcolasse la decima parte riferendosi ai

      soli beni mobili e non si menzionassero invece per nulla la città e il

      territorio circostante, entrambi sottratti al nemico e inclusi a pieno

      titolo nel voto. Visto che la controversia parve al senato di difficile

      soluzione, la si demandò ai pontefici i quali, dopo aver sentito Camillo,

      deliberarono che avrebbe dovuto essere consacrata ad Apollo la decima

      parte di tutto ciò che prima della pronuncia del voto era appartenuto ai

      Veienti e che dopo il voto era passato nelle mani dei Romani. Così anche

      la città e la terra dei dintorni vennero incluse nella stima. Dall'erario

      venne prelevato del denaro e ai tribuni militari di rango consolare fu

      affidato il cómpito di acquistare dell'oro con quella somma. Siccome non

      ce n'era a sufficienza per soddisfare la richiesta, le matrone, dopo

      essersi riunite in privato per consultarsi sulla questione, decisero di

      comune accordo di fornire l'oro ai tribuni, e per questo consegnarono al

      tesoro di Stato tutti i gioielli di loro proprietà. Quel gesto fu gradito

      dal Senato più di ogni altro in passato e per onorare tanta generosità

      d'animo - si dice - venne stabilito che le matrone avrebbero potuto

      recarsi alle cerimonie cultuali e ai giochi pubblici su una carrozza a

      quattro ruote, e girare su un cocchio a due ruote tanto nei giorni festivi

      quanto in quelli feriali. Dopo che dell'oro offerto dalle singole matrone

      venne fatta la dovuta stima per stabilire l'equivalente in denaro, si

      decise di ricavarne un cratere d'oro da portare in dono ad Apollo al

      santuario di Delfi.

      Non appena le menti si furono liberate dallo scrupolo religioso, i tribuni

      della plebe ricominciarono a fomentare i disordini interni, aizzando la

      popolazione contro tutto il patriziato e in particolare contro la persona

      di Camillo, che essi ritenevano colpevole di aver ridotto a una miseria

      tutto il bottino finito per sua iniziativa nelle casse dello Stato e

      devoluto a opere religiose. Quando i patrizi erano assenti, li attaccavano

      con estrema virulenza, mentre in loro presenza, dovendone affrontare

      spontaneamente le ire, si trattenevano. Non appena ci si rese conto che la

      questione si sarebbe trascinata ben oltre la fine dell'anno, il popolo

      rielesse per quello successivo gli stessi tribuni della plebe che avevano

      presentato la proposta di legge. Ma anche i patrizi si adoperarono per

      mantenere in carica gli uomini che vi si erano opposti. I tribuni della

      plebe eletti furono così per buona parte gli stessi dell'anno precedente.

      

      26 Quando arrivò il giorno delle elezioni dei tribuni, i senatori

      riuscirono, anche se con uno sforzo enorme, a ottenere la nomina di Marco

      Furio Camillo, adducendo come pretesto la necessità di avere un comandante

      per le guerre (mentre in realtà cercavano un uomo adatto a contrastare la

      prodigalità eccessiva dei tribuni). Insieme a Camillo ottennero la carica

      di tribuni militari con potere consolare Lucio Furio Medullino (per la

      sesta volta), Gaio Emilio, Lucio Valerio Publicola, Spurio Postumio e

      Publio Cornelio (per la seconda volta). All'inizio dell'anno i tribuni

      della plebe non presero alcuna iniziativa, nell'attesa che Furio Camillo -

      cui era toccato il comando delle operazioni - marciasse contro i Falisci.

      Poi, a forza di rinvii, la lotta cominciò a perdere mordente, proprio

      mentre la figura di Camillo, di gran lunga l'avversario più temibile per i

      tribuni, riacquistava prestigio grazie alle gloriose imprese compiute

      contro i Falisci. All'inizio delle operazioni, i nemici si erano

      asserragliati all'interno della cerchia muraria, ritenendo questa tattica

      il sistema di difesa più sicuro. Ma Camillo, dopo aver devastato le

      campagne dei dintorni e incendiato delle fattorie, li costrinse ad uscire

      dalla città. Bloccati però dal timore di sbilanciarsi troppo in avanti, i

      Falisci si andarono ad accampare a circa un miglio di distanza dalla

      città, confidando come unica risorsa nella difficoltà di raggiungere quel

      punto che si trovava in mezzo ad aspri dirupi cui si poteva accedere

      tramite strade che erano o ripide o strette. Ma Camillo, impiegando come

      guida un prigioniero che era proprio di quelle parti, si mise in marcia

      nel cuore della notte e alle prime luci del giorno apparve in un punto ben

      più alto. I Romani, divisi in tre gruppi, cominciarono la costruzione di

      una trincea, mentre il resto dell'esercito non impegnato nei lavori venne

      piazzato in posizione di combattimento. E lì, quando i nemici tentarono di

      ostacolare la costruzione, vennero sbaragliati e messi in fuga. Il panico

      dei Falisci in rotta disordinata fu tale da spingerli a superare di

      slancio l'accampamento che era là a due passi e a rifugiarsi in città.

      Molti di essi, in preda com'erano della paura, vennero uccisi o feriti

      prima di esser riusciti a raggiungere le porte. L'accampamento venne

      conquistato e il bottino consegnato ai questori, anche se con grande ira

      dei soldati che, piegati dalla durezza dell'ordine impartito, non poterono

      non ammirare e detestare nel contempo la probità del loro comandante. Di

      lì a poco ebbe inizio l'assedio della città con tanto di macchine, e di

      tanto in tanto, non appena se ne presentava l'occasione, i Falisci

      facevano delle sortite contro i posti di guardia romani, dando vita a

      brevi scaramucce. Il tempo passava senza che le sorti della guerra

      pendessero verso l'uno e l'altro contendente, perché le scorte di grano e

      le altre provviste accumulate dai Falisci prima della guerra erano più

      sostanziose di quelle in possesso dei Romani. Ormai si aveva l'impressione

      che l'assedio fosse destinato a durare quanto quello sostenuto sotto Veio.

      E così sarebbe stato se la fortuna non avesse concesso al generale romano

      l'opportunità di offrire una dimostrazione delle sue ben note capacità in

      materia di strategia militare e contemporaneamente un'immediata vittoria.

      

      27 Presso i Falisci c'era l'abitudine di servirsi della stessa persona in

      qualità di maestro e di accompagnatore dei figli, così che, come ancora

      oggi si verifica in Grecia, più ragazzi venivano affidati alle cure di un

      solo individuo. Il cómpito di istruire i rampolli delle famiglie più in

      vista era assegnato, come di solito succede, a un uomo che aveva fama di

      essere superiore a tutti per profondità di dottrina. In tempo di pace

      questo maestro aveva preso l'abitudine di portare i ragazzi a giocare e a

      fare ginnastica fuori dalla cerchia delle mura, senza poi modificare in

      nulla questa abitudine una volta scoppiato il conflitto. Siccome

      continuava a passeggiare coi suoi discepoli in punti più o meno lontani

      dalle porte coinvolgendoli in giochi e racconti sempre diversi, un giorno

      in cui la passeggiata si era spinta più in là del solito, il maestro colse

      al volo l'opportunità di portare i ragazzi in mezzo ai posti di guardia

      del nemico e di lì, una volta attraversato l'accampamento romano, di

      arrivare fino alla tenda di Camillo. E lì, aggiungendo un discorso ancor

      più efferato a un gesto che lo era già di per sé, disse di aver consegnato

      la città di Faleri in mano ai Romani poiché quei ragazzi erano i figli

      degli uomini che detenevano il potere supremo in città. Al sentire quelle

      parole, Camillo disse: «Il popolo e il comandante presso il quale tu,

      razza di scellerato, ti sei presentato col tuo dono da scellerato, sappi

      che non ti assomigliano in nulla. Tra noi e i Falisci non c'è alcun

      vincolo fondato su patti stipulati dagli uomini, ma esiste e sempre

      esisterà per l'una e l'altra parte quello voluto dalla natura. Anche la

      guerra, come la pace, ha le sue leggi e noi abbiamo imparato a osservarle

      ricorrendo alla giustizia non meno che al coraggio. Noi non usiamo le armi

      contro quell'età inerme che viene risparmiata anche nelle città

      conquistate, ma contro chi si presenta a sua volta armato e colpisce, come

      quelli che attaccarono l'accampamento romano a Veio, pur senza esser stati

      né offesi né tantomeno provocati da noi. Uomini di quella tacca tu li hai

      superati con un crimine che non ha precedenti: io li vincerò alla maniera

      romana, usando, come successo con Veio, solo il coraggio, le opere

      d'assedio e le armi.» Dopo aver fatto spogliare il maestro, ordinò di

      legargli le mani dietro la schiena e quindi lo affidò ai ragazzi perché lo

      riportassero indietro a Faleri e diede loro delle verghe invitandoli a

      frustarlo durante il percorso dall'accampamento alla città. L'insolito

      spettacolo richiamò sulle prime una gran folla. Poi, durante una seduta

      dal senato convocata dai magistrati per discutere del singolare episodio

      successo, lo stato d'animo dell'intera popolazione subì un cambiamento

      così netto che a quegli stessi uomini che poco prima, sull'onda della

      rabbia e dell'odio, avevano dichiarato di preferire la fine di Veio al

      trattato stipulato dai Capenati, adesso l'intera città chiedeva a gran

      voce la pace. Nel foro e nella curia tutti celebravano l'onestà romana e

      il senso di giustizia del generale. Poi, col consenso generale, vennero

      inviati degli ambasciatori a Camillo che dall'accampamento diede loro il

      permesso di recarsi a Roma, al senato, dove, una volta introdotti, pare

      pronunciassero le seguenti parole: «O padri coscritti, poiché voi e il

      vostro comandante avete ottenuto su di noi una vittoria per la quale

      nessun uomo e nessun dio potrà mai provare del risentimento, ci rimettiamo

      nelle vostre mani, convinti (niente può essere per il vincitore motivo

      maggiore di gloria) di poter vivere meglio sotto la vostra autorità che

      sotto le nostre leggi. L'esito di questo conflitto ha offerto all'umanità

      due esempi più che utili: voi avete anteposto la lealtà in guerra alla

      vittoria immediata; noi, sfidati da questa prova di lealtà, vi abbiamo

      offerto liberamente la vittoria. Ci rimettiamo nelle vostre mani: mandate

      pure degli uomini a prendere le nostre armi, gli ostaggi e la città le cui

      porte sono già aperte. Voi non avrete rimostranze circa la nostra lealtà

      così come noi non ne avremo riguardo il vostro dominio.» Camillo venne

      ringraziato tanto dai nemici quanto dai concittadini. Ai Falisci venne

      ordinato di provvedere alle paghe militari di quell'anno, onde alleviare

      così il popolo romano dal versamento di quella tassa. E una volta concessa

      la pace, l'esercito venne ricondotto a Roma.

      

      28 Camillo, dopo aver vinto i nemici grazie al suo senso di equità e di

      lealtà, ritornò a Roma salutato da consensi ben più calorosi di quanti non

      gliene fossero stati tributati quando era passato in trionfo attraverso la

      città su un cocchio trainato da cavalli bianchi. E il senato, pur non

      avendo sentito da parte di Camillo alcun accenno alla cosa, volle che

      venisse affrancato, senza ulteriori indugi, dal voto fatto. E così a Lucio

      Valerio, Lucio Sergio e Aulo Manlio venne affidato il cómpito di portare a

      Delfi il cratere d'oro destinato in dono ad Apollo. Ma siccome viaggiavano

      su una sola nave da guerra, i tre inviati vennero catturati da pirati di

      Lipari nei pressi dello stretto di Messina e quindi tradotti a Lipari.

      Sull'isola c'era l'abitudine di dividere il bottino fatto, come se la

      pirateria fosse una sorta di attività pubblica. Ma per puro caso la carica

      più importante del paese era affidata quell'anno a un certo Timasiteo,

      uomo affine più ai Romani che non ai propri conterranei. Pieno di rispetto

      per il titolo di ambasciatore, per il dono che i tre stavano portando, ma

      anche per il dio cui esso era destinato e le ragioni che ne motivavano

      l'invio, riuscì a trasferire anche nel popolo, che di solito somiglia

      sempre moltissimo agli individui da cui è governato, un giusto scrupolo di

      natura religiosa. E dopo aver offerto pubblica ospitalità agli

      ambasciatori, organizzò anche una scorta navale per accompagnarli a Delfi,

      da dove poi li fece riportare a Roma sani e salvi. Un decreto del Senato

      sancì l'istituzione di un vincolo di ospitalità con Timasiteo, cui vennero

      anche inviati dei doni a nome dello Stato.

      Quello stesso anno si combatté contro gli Equi: l'esito della guerra fu

      però così incerto che tanto a Roma quanto presso gli eserciti stessi

      rimase il dubbio se si fosse avuta la meglio o meno. I comandanti in capo

      della spedizione erano due tribuni militari, e cioè Gaio Emilio e Spurio

      Postumio. All'inizio delle operazioni agirono di conserva. Una volta

      sbaragliati i nemici in battaglia, decisero invece che Emilio avrebbe

      presidiato Verrugine e Postumio messo a ferro e fuoco le campagne dei

      dintorni. Mentre, nell'euforia del recente successo, trascurava le

      precauzioni e lasciava che le truppe marciassero in disordine, fu assalito

      dagli Equi che gettarono il panico tra i suoi uomini costringendoli a

      riparare sulle colline più vicine. Di lì lo stato di allarme si diffuse

      arrivando a contagiare anche la guarnigione rimasta a Verrugine. Postumio,

      dopo aver guidato i suoi uomini in un punto sicuro, convocò l'adunata

      generale e quando li ebbe tutti di fronte a sé li rimproverò severamente

      per il panico dal quale si erano lasciati prendere e per la fuga,

      rimproverandoli di essersi fatti sbaragliare da un nemico di scarsissimo

      valore e sempre pronto a darsela a gambe. La risposta dell'esercito

      echeggiò unanime: tutti gli uomini ammisero di essersi meritati quei

      rimproveri, di essersi macchiati di un'infamia, ma promisero anche che si

      sarebbero rifatti e che la gioia del nemico non sarebbe durata a lungo.

      Chiedendo poi con insistenza di essere guidati all'attacco

      dell'accampamento nemico (visibile da quel punto perché piazzato nella

      piana sottostante la collina), dichiararono che avrebbero accettato

      qualsiasi tipo di castigo se non fossero riusciti a conquistarlo prima del

      tramonto. Dopo averli elogiati, Postumio li invitò a riposare e a farsi

      trovare pronti prima dell'alba. Anche i nemici, per impedire che durante

      la notte i Romani - dall'altura su cui si erano attestati - tentassero la

      fuga per la strada diretta a Verrugine, andarono loro incontro e la

      battaglia ebbe luogo prima del sorgere del sole (ma quella notte c'era la

      luna piena e così si poté combattere come se fosse stato di giorno). Il

      frastuono della battaglia arrivato fino a Verrugine indusse i soldati a

      pensare che l'accampamento romano fosse in balìa di un attacco nemico: ne

      seguì un tale scompiglio che gli uomini, non ostante i reiterati tentativi

      di Emilio per mantenerne il controllo, fuggirono disperdendosi in

      direzione di Tuscolo. Di lì fu portata a Roma la notizia che Postumio e il

      suo esercito erano stati massacrati. E invece Postumio, quando le prime

      luci del giorno ebbero dissipato ogni dubbio circa eventuali imboscate nel

      caso di un inseguimento disordinato, attraversando a cavallo le linee dei

      suoi e ricordando loro la promessa fatta, infuse una tale carica che gli

      Equi non riuscirono a reggere più a lungo l'attacco. L'uccisione dei

      nemici in fuga - come sempre succede quando si combatte spinti dall'ira

      più che dal valor militare - si concluse con uno sterminio. Alla triste

      notizia che da Tuscolo aveva raggiunto Roma precipitandone gli abitanti in

      un inutile panico fece séguito una lettera ornata d'oro inviata da

      Postumio nella quale il generale annunciava la vittoria del popolo romano

      e la disfatta dell'esercito degli Equi.

      

      29 Siccome la proposta avanzata dai tribuni della plebe non aveva ancora

      avuto una realizzazione pratica, i plebei fecero di tutto per prolungare

      la magistratura ai sostenitori di quell'iniziativa, mentre i patrizi si

      adoperarono per rieleggere quegli stessi uomini che avevano cercato di

      ostacolarla. Ma la plebe nei suoi comizi ebbe la meglio, cosa dolorosa, di

      cui i patrizi si vendicarono súbito facendo votare in senato un decreto

      che prevedeva l'elezione di consoli, cioè una magistratura da sempre in

      odio ai plebei. Così, dopo un intermezzo di quindici anni vennero eletti

      consoli Lucio Lucrezio Flavo e Servio Sulpicio Camerino. All'inizio

      dell'anno, mentre i tribuni della plebe davano battaglia tutti insieme con

      estremo accanimento per far passare la legge (approfittando del fatto che

      nessun membro del loro collegio era intenzionato a opporsi con l'esercizio

      del veto), per lo stesso motivo i consoli dimostravano non minore

      accanimento nell'opporsi al passaggio della proposta. Così, mentre

      l'intera città era concentrata su quell'unica questione, gli Equi si

      impadronirono della colonia romana di Vitellia, situata nel loro

      territorio. La maggior parte dei coloni riparò sana e salva a Roma grazie

      al fatto che, essendo stata la fortezza presa durante la notte per

      tradimento, riuscirono a fuggire dalla parte opposta dell'abitato. Il

      comando delle operazioni toccò al console Lucio Lucrezio che partì a capo

      di un esercito e sbaragliò i nemici in battaglia. Quindi rientrò da

      vincitore a Roma, dove lo attendeva uno scontro ben più grave. Aulo

      Verginio e Quinto Pomponio, tribuni della plebe dell'anno precedente,

      erano stati citati in giudizio e per volontà unanime dei patrizi era per

      il senato motivo di onore accollarsene la difesa. Infatti contro i due

      ex-magistrati non c'era alcuna altra imputazione relativa a reati commessi

      nella vita privata o durante l'esercizio delle proprie funzioni, se non

      quella di aver esercitato il proprio diritto di veto contro la legge

      proposta dai tribuni e di averlo fatto solo per compiacere i senatori. Ciò

      non ostante il risentimento della plebe ebbe la meglio sull'influenza

      politica dei senatori e così, con un pessimo precedente per gli anni a

      venire, degli innocenti vennero condannati al pagamento di un'ammenda di

      2.000 assi. Il verdetto suscitò l'indignazione dei senatori. Camillo

      accusava apertamente la plebe di aver commesso un delitto perché,

      essendosi ormai rivolta contro i suoi stessi rappresentanti, non capiva di

      aver soppresso, grazie a quella sentenza vergognosa contro i tribuni, il

      diritto di veto, e con la soppressione del diritto di veto di aver

      abbattuto il potere tribunizio. Perché se pensavano che i senatori

      avrebbero tollerato gli eccessi sfrenati di quella magistratura, si

      sbagliavano di grosso. Se la prepotenza dei tribuni non la si poteva

      impedire facendo ricorso all'intervento dei tribuni stessi, allora i

      senatori avrebbero escogitato qualche altro sistema per combatterla.

      Camillo rimproverava anche i consoli di aver accettato senza protestare il

      fatto che fosse venuta meno la protezione a quei tribuni che si erano

      attenuti all'autorità del Senato. Continuando a esprimere questi concetti

      in pubblico, Camillo incrementava ogni giorno di più l'esasperazione della

      gente.

      

      30 Quanto poi al Senato, non cessava di incitarne i componenti a opporsi

      alla legge: nel giorno destinato alla votazione di quella proposta,

      discendessero nel foro con un solo pensiero, e cioè ricordandosi di dover

      combattere per gli altari, i focolari, i templi degli dèi e la terra nella

      quale erano nati. Per ciò che invece lo riguardava personalmente - se mai

      era lecito chiamare in causa la propria gloria nel momento in cui si

      affrontava una battaglia per la patria -, sarebbe stato motivo di onore

      per lui vedere piena di gente la città che aveva conquistata, godere ogni

      giorno ciò che testimoniava la sua gloria, avere davanti agli occhi una

      città la cui immagine era stata portata durante il suo trionfo, e rendersi

      conto che tutti camminavano sui luoghi che recavano le tracce delle sue

      imprese illustri. Ma riteneva un delitto che si andasse a abitare una

      città abbandonata dagli dèi immortali, che il popolo romano si scegliesse

      per dimora una terra conquistata, dopo aver accettato di sostituire alla

      patria vittoriosa una vinta.

      Trascinati da queste esortazioni, i senatori più autorevoli, giovani e

      vecchi, quando la legge venne sottoposta al voto, si presentarono

      inquadrati nel foro e, dopo essersi divisi tra le singole tribù di

      appartenenza, ciascuno di essi cominciò ad abbracciare i propri compagni

      di tribù, a scongiurarli piangendo di non abbandonare la patria per la

      quale loro e i loro padri avevano combattuto così strenuamente e con tanto

      successo. Mostravano il Campidoglio, il santuario di Vesta e tutti gli

      altri templi degli dèi lì intorno, pregandoli di non permettere che il

      popolo romano diventasse un esule ramingo costretto a vivere in una città

      di nemici lontano dalla terra natale e dagli dèi penati. Li imploravano di

      non spingere le cose al punto tale da rimpiangere la caduta di Veio, se

      costava lo spopolamento di Roma. Siccome i patrizi non facevano ricorso

      alla coercizione ma si limitavano alle suppliche infarcendole di accenni

      agli dèi, la maggioranza risentì dello scrupolo religioso e così la legge

      venne respinta per un solo voto di differenza tra le tribù che ne

      caldeggiavano il passaggio e quelle che invece la osteggiavano. Quella

      vittoria fu così gradita ai patrizi che il giorno dopo, su proposta dei

      consoli, il Se nato varò un decreto in base al quale a ciascun plebeo

      venivano assegnati sette iugeri della terra di Veio, e non solo ai

      capifamiglia, ma calcolando anche tutti gli uomini liberi di ogni casa, in

      modo da accrescere il desiderio di allevare figli.

      

      31 Siccome la plebe era stata placata da quella donazione, non ci furono

      più scontri vòlti a ostacolare le elezioni consolari che videro la nomina

      di Lucio Valerio Potito e di Marco Manlio, in séguito soprannominato

      Capitolino. Questi due consoli celebrarono i Ludi Magni, conforme al voto

      del dittatore Furio Camillo durante la guerra contro Veio. Nel corso dello

      stesso anno venne anche consacrato a Giunone Regina il tempio promesso

      dallo stesso dittatore e nella stessa guerra, e si racconta che la

      consacrazione venne celebrata con grande fervore dalle matrone. La guerra

      combattuta contro gli Equi sull'Algido non fece registrare nulla di

      memorabile perché i nemici vennero sbaragliati prima ancora che le

      ostilità vere e proprie avessero avuto inizio. A Valerio venne concesso il

      trionfo per aver dimostrato grande accanimento nel fare a pezzi i nemici

      in fuga, mentre a Manlio fu concesso l'onore dell'ovazione all'ingresso in

      città. Quello stesso anno scoppiò una nuova guerra: si trattava degli

      abitanti di Volsinii. Ma la carestia e l'epidemia che colpirono le

      campagne romane a causa della siccità e delle temperature eccessivamente

      elevate non permisero l'invio di un esercito sul luogo del conflitto.

      Queste calamità fecero ringalluzzire ancora di più i Volsiniesi che,

      grazie anche all'appoggio dei Sapienati, fecero un'incursione in

      territorio romano. A quel punto venne dichiarata guerra a entrambi i

      popoli. Morì il censore Gaio Giulio e il suo posto venne preso da Marco

      Cornelio, cosa questa che in séguito venne interpretata come un'offesa

      alla divinità perché Roma fu presa proprio nell'arco di quel lustro. E da

      quel giorno non c'è più stato nemmeno un caso di censori nominati al posto

      di colleghi morti. Siccome anche i consoli vennero colpiti dal contagio,

      si deliberò di rinnovare gli auspici con il ritorno all'interregno. E

      così, una volta che i consoli ebbero rinunciato alla carica in

      ottemperanza al decreto del Senato, venne eletto interré Marco Furio

      Camillo il quale scelse come proprio successore Publio Cornelio Scipione

      che, a sua volta, passò la carica a Lucio Valerio Potito. Quest'ultimo

      nominò sei tribuni militari con potere consolare per evitare che lo Stato

      rimanesse a corto di magistrati anche nel caso in cui qualcuno dei

      neoeletti si fosse ammalato.

      

      32 Alle calende di luglio entrarono in carica i tribuni appena eletti, e

      cioè Lucio Lucrezio, Servio Sulpicio, Marco Emilio, Lucio Furio Medullino

      (per la settima volta), Agrippa Furio e Gaio Emilio (per la seconda

      volta). Tra di essi, a Lucio Lucrezio e a Gaio Emilio venne affidata la

      campagna contro i Volsiniesi, mentre ad Agrippa Furio e a Servio Sulpicio

      toccarono i Sapienati. Si combatté prima con i Volsinensi, in una guerra

      che pur risultando notevole per spiegamento di nemici in campo, non certo

      dura militarmente. Infatti l'esercito nemico venne sbaragliato al primo

      assalto e messo in fuga. Durante la ritirata precipitosa, otto mila fanti,

      tagliati fuori dalla cavalleria romana, gettarono le armi e si arresero.

      La notizia di quel combattimento indusse i Sapienati a non rischiare lo

      scontro in campo aperto: e si andarono a mettere al sicuro, pronti a

      difendersi al riparo delle loro fortificazioni. I Romani, senza trovare

      alcuna resistenza alle proprie scorrerie, razziarono qua e là tanto il

      territorio dei Sapienati quanto quello dei Volsiniesi, finché questi

      ultimi non si stancarono della guerra e ottennero una tregua ventennale a

      patto di restituire al popolo romano quanto sottratto e di corrispondere

      ai soldati le paghe di quell'anno.

      Nel corso di quello stesso anno, un plebeo di nome Marco Cedicio riferì ai

      tribuni di aver sentito nel cuore della notte, mentre si trovava nella Via

      Nuova (dove oggi c'è un tempietto al di sopra del tempio di Vesta), una

      voce ben più squillante di una voce umana ordinargli di comunicare ai

      magistrati che i Galli si stavano avvicinando a Roma. L'informazione data

      da Cedicio, come sempre succede, non venne tenuta in alcuna considerazione

      a causa della bassa estrazione dell'uomo che l'aveva riferita, e anche

      perché quella popolazione viveva troppo lontano e proprio per questo non

      era gran che conosciuta. Così, mentre il destino incombeva ormai

      minaccioso sul loro futuro, i Romani non si limitarono a disprezzare i

      moniti provenienti dal cielo, ma allontanarono anche dalla città il solo

      aiuto umano su cui potessero contare, e cioè Marco Furio. Citato in

      giudizio dal tribuno della plebe Lucio Apuleio in relazione al bottino di

      Veio e privato proprio in quello stesso periodo di un figlio in tenera

      età, Camillo convocò a casa sua tutti i compagni di tribù e i clienti (che

      per la maggior parte erano plebei) e ne sondò gli animi. Siccome essi gli

      risposero che avrebbero raccolto la somma necessaria per pagare

      l'eventuale ammenda comminatagli, ma che non potevano assolverlo dalla

      colpa, egli partì alla volta dell'esilio pregando gli dèi immortali che,

      se doveva subire, innocente, quell'ingiustizia, i suoi ingrati cittadini

      sentissero al più presto il desiderio di riaverlo tra loro. Fu condannato

      in contumacia a un'ammenda di 15.000 assi.

      

      33 Una volta espulso quel cittadino la cui presenza, se qualcosa di questa

      vita può mai dirsi certo, avrebbe impedito la presa di Roma, proprio

      mentre il giorno della catastrofe si faceva sempre più vicino, da Chiusi

      arrivarono degli ambasciatori a chiedere aiuti contro i Galli. Tradizione

      vuole che questa gente, attratta dalla dolcezza delle messi e soprattutto

      del vino - di cui allora non conoscevano il piacere -, abbia attraversato

      le Alpi e si sia stanziata nelle terre un tempo coltivate dagli Etruschi.

      A inviare quel vino in Gallia sarebbe stato Arrunte di Chiusi col preciso

      intento di attirarne la popolazione per vendicarsi di Lucumone che gli

      aveva sedotto la moglie, non ostante ne fosse stato il tutore. E Lucumone

      era un giovane così potente che costringerlo a pagare per le sue colpe era

      impossibile senza ricorrere a un aiuto esterno. Pare quindi che fu Arrunte

      a guidare i Galli attraverso le Alpi e a suggerire loro di attaccare

      Chiusi. Io non voglio certo negare che i Galli siano stati portati a

      Chiusi da Arrunte o da qualche suo concittadino: ma è ormai assodato che i

      primi a valicare le Alpi non furono quei Galli protagonisti dell'assedio

      di Chiusi. Infatti i Galli erano scesi in Italia duecento anni prima

      dell'assedio di Chiusi e della presa di Roma e non furono gli abitanti di

      Chiusi i primi Etruschi contro i quali i Galli combatterono, perché molto

      tempo prima i loro eserciti si scontrarono numerose volte con gli Etruschi

      che abitavano tra le Alpi e gli Appennini.

      Prima dell'egemonia romana, la potenza etrusca si estendeva largamente per

      terra e per mare. Per comprendere le reali dimensioni di questo dominio

      sui due mari che cingono a nord e a sud l'Italia rendendola simile a

      un'isola, basta guardare ai nomi con i quali li si designa: le popolazioni

      italiche, infatti, chiamarono l'uno Mare Etrusco e l'altro Atriatico dalla

      colonia etrusca di Atria. I Greci li chiamano invece Tirreno e Adriatico.

      Gli Etruschi si stabilirono nelle terre situate lungo i litorali di

      entrambi i mari in gruppi di dodici città, prima al di qua dell'Appennino

      verso il Mare Tirreno, poi mandando oltre l'Appennino altrettante colonie

      quante erano i ceppi d'origine, ed esse andarono ad occupare tutta la zona

      situata al di là del Po fino alle Alpi, eccetto l'angolo di costa

      adriatica abitato dai Veneti. Anche alcune popolazioni alpine sono di

      origine etrusca, soprattutto i Reti che, inselvatichitisi per la natura

      stessa dei luoghi, non hanno conservato quasi nessuna delle

      caratteristiche antiche, salvo forse l'inflessione della parlata, e

      neppure questa priva di contaminazioni.

      

      34 Le notizie che abbiamo circa la migrazione dei Galli in Italia sono

      queste. Durante il regno di Tarquinio Prisco a Roma, i Celti - che sono

      uno dei tre ceppi etnici della Gallia - si trovavano sotto il dominio dei

      Biturigi i quali fornivano un re al popolo celtico. In quel tempo il re in

      carica era Ambigato, uomo potentissimo per valore e ricchezza tanto

      personale quanto dell'intero paese, perché sotto il suo regno la Gallia

      raggiunse un tale livello di abbondanza agricola e di popolosità da

      sembrare che una tale massa di individui la si potesse governare a mala

      pena. E siccome Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava

      alleviare il proprio regno da quell'eccesso di presenze, annunciò che

      avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua

      sorella, a trovare quelle sedi che gli dèi, per mezzo degli augùrii,

      avrebbero loro indicato come appropriate. Erano autorizzati a convocare

      tutti gli uomini che ritenevano necessari all'operazione, in maniera tale

      che nessuna tribù potesse impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto.

      La sorte assegnò allora a Segoveso la regione della selva Ercinia, mentre

      a Belloveso gli dèi concedevano un percorso ben più piacevole, e cioè la

      strada verso l'Italia. Prendendo con sé gli uomini che risultavano in

      eccesso tra le tribù dei Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui,

      degli Ambarri, dei Carnuti e degli Aulerci, Belloveso si mise in marcia

      con un ingente schieramento di fanti e cavalieri ed entrò nel territorio

      dei Tricastini. Lì si trovarono di fronte le Alpi: e non c'è affatto da

      stupirsi che apparissero invalicabili, visto che fino ad allora non

      c'erano valichi che ne permettessero l'attraversamento (stando almeno alla

      tradizione storica e se non si vuole credere alle leggende relative alle

      imprese di Ercole). Lì, mentre i Galli, quasi rinserrati tra le alte

      montagne, si guardavano intorno domandandosi dove mai sarebbero riusciti a

      passare in un altro mondo al di là di quelle cime che arrivavano a toccare

      la volta del cielo, vennero trattenuti anche da uno scrupolo religioso

      perché arrivò la notizia che degli stranieri alla ricerca di terre erano

      stati attaccati dai Salluvi. Si trattava dei Massiliesi, partiti via mare

      da Focea. I Galli allora, ritenendolo un buon auspicio per il proprio

      futuro, li aiutarono, senza trovare resistenza nei Salluvi, a fortificare

      il luogo in cui si erano attestati sùbito dopo lo sbarco. Attraversarono

      quindi il territorio dei Taurini e valicarono le Alpi nella zona della

      Dora. Poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano

      dal fiume Ticino, e saputo che il punto in cui si erano accampati si

      chiamava "territorio degli Insubri" (nome identico a quello del cantone

      abitato dagli Edui), considerarono questa coincidenza un segno

      beneaugurale del destino e fondarono in quel luogo una città che

      chiamarono Mediolano.

      

      35 Súbito dopo, un'altra ondata di Galli - questa volta Cenomani guidati

      da Etitovio - seguì le orme dei predecessori e, dopo aver valicato le Alpi

      nello stesso punto con l'appoggio di Belloveso, si andò a stanziare là

      dove oggi si trovano le città di Brescia e Verona. Dopo di loro, Libui e

      Salluvi si stabilirono presso l'antico popolo dei Liguri Levi che vive

      nelle vicinanze del fiume Ticino. Quando poi Boi e Lingoni superarono le

      Alpi Pennine e trovarono che tutte le terre comprese tra il Po e le Alpi

      stesse erano già state occupate, attraversarono il Po a bordo di zattere e

      scacciarono dalle loro terre non solo gli Etruschi ma anche gli Umbri,

      senza però spingersi al di là degli Appennini. Fu allora che i Senoni, gli

      ultimi Galli a invadere la penisola, occuparono la zona compresa tra i

      fiumi Montone ed Esino. E stando a quanto mi risulta, fu proprio questa la

      popolazione gallica che si riversò su Chiusi e di lì su Roma. Rimane

      incerto se fossero soli oppure ebbero aiuti da tutte le tribù della Gallia

      Cisalpina.

      Gli abitanti di Chiusi, atterriti da questo strano conflitto, quando si

      trovarono di fronte quella massa di uomini dalle caratteristiche somatiche

      e dalle armi mai viste prima, sentendosi ripetere che quelle stesse orde

      avevano già più volte sbaragliato le legioni etrusche da una parte e

      dall'altra del Po, pur non avendo coi Romani alcun vincolo di alleanza e

      di amicizia (salvo forse il fatto di non essere intervenuti a fianco dei

      consanguinei di Veio nella lotta contro il popolo romano), inviarono

      ambasciatori a Roma per chiedere aiuto al senato. Non riuscirono a

      ottenere nessun aiuto, ma i tre figli di Marco Fabio Ambusto vennero

      inviati in qualità di ambasciatori per trattare coi Galli, a nome del

      senato e del popolo romano, affinché questi ultimi non attaccassero gli

      alleati e gli amici del popolo romano, dai quali non avevano ricevuto

      alcun torto. Se le circostanze lo richiedevano, i Romani erano pronti a

      difendere gli alleati e amici, anche a costo di affrontare un conflitto.

      Ma siccome era parso più opportuno evitare, se possibile, la guerra, Roma

      avrebbe preferito fare la conoscenza di quel nuovo popolo - cioè i Galli -

      in una maniera pacifica piuttosto che col ricorso alle armi.

      

      36 Il messaggio aveva un tono conciliante, ma era affidato ad ambasciatori

      arroganti e più simili a Galli che a Romani. Quando i Galli li ebbero

      uditi esporre le loro disposizioni in mezzo all'assemblea, risposero che,

      pur non avendo mai sentito prima il nome dei Romani, li ritenevano dei

      guerrieri valorosi perché gli abitanti di Chiusi ne avevano invocato

      l'intervento nel pieno dell'emergenza. E, siccome i Romani avevano scelto

      di difendere i propri alleati attraverso un'ambasceria piuttosto che con

      la spada, non avrebbero disprezzato la pace offerta dai legati, a patto

      che gli abitanti di Chiusi - i quali possedevano più terra di quanta non

      ne coltivassero effettivamente - ne avessero ceduta una parte ai Galli che

      invece ne avevano bisogno. Diversamente, la pace non poteva essere

      ottenuta. Aggiunsero che desideravano una risposta in presenza dei Romani

      perché, se veniva loro negata la concessione di appezzamenti di terra,

      avrebbero combattuto sotto gli occhi dei Romani stessi, affinché potessero

      tornare in patria a raccontare quanto i Galli fossero superiori per valore

      a tutti gli altri esseri umani. E quando i Romani chiesero che razza di

      diritto desse ai Galli l'arbitrio di esigere la terra dai legittimi

      proprietari ricorrendo alle minacce di guerra e che cosa avessero essi a

      che fare con l'Etruria, i Galli replicarono brutalmente che il loro

      diritto risiedeva nella spada e che tutto apparteneva a chi aveva la

      forza. Così, essendosi inaspriti gli animi da entrambe le parti, si passò

      alle armi e fu sùbito battaglia. E mentre ormai si avvicinava inesorabile

      il giorno fatale di Roma, gli ambasciatori presero le armi contravvenendo

      al diritto delle genti. La cosa non poté certo passare inosservata perché

      quei tre dei più nobili e coraggiosi giovani che Roma potesse vantare

      combattevano tra le prime linee etrusche: a tal punto rifulgeva il loro

      valore. Anzi, Quinto Fabio, spintosi al galoppo al di là delle prime

      linee, uccise trafiggendolo nel fianco con l'asta il comandante dei Galli

      che si stava lanciando impetuosamente contro le schiere etrusche. Mentre

      Fabio raccoglieva le spoglie del nemico abbattuto, i Galli lo riconobbero

      e la notizia che si trattava dell'ambasciatore romano fece il giro delle

      truppe. Lasciata da parte l'ira contro gli abitanti di Chiusi, i Galli

      fecero suonare la ritirata, proferendo minacce all'indirizzo dei Romani.

      Alcuni erano dell'avviso di marciare immediatamente contro Roma. Ma

      prevalse la tesi dei più anziani di mandare prima degli ambasciatori a

      Roma col cómpito di protestare per le offese subite e di chiedere la

      consegna dei Fabii in quanto colpevoli di aver violato il diritto delle

      genti. Quando gli inviati dei Galli ebbero esposto le proprie rimostranze

      secondo le istruzioni ricevute, il senato si trovò a disapprovare la

      condotta dei Fabii e riteneva che le richieste avanzate dai barbari

      fossero un loro pieno diritto. Ma il desiderio di non dispiacere a una

      famiglia di alta nobiltà impedì che si propendesse per la decisione che

      era parsa più opportuna. Così, per evitare che la responsabilità di

      un'eventuale sconfitta nella guerra contro i Galli potesse ricadere su

      loro stessi, i senatori affidarono al popolo il giudizio sulle richieste

      dei Galli. E in quella sede l'influenza dei Fabi e le loro ricchezze

      ebbero tanto peso che gli uomini di cui si discuteva l'eventuale punizione

      vennero eletti tribuni militari con potere consolare per l'anno

      successivo. Di fronte a questo verdetto, i Galli, com'era più che giusto,

      tornarono inferociti dai compagni lanciando esplicite minacce di guerra. I

      tribuni militari eletti insieme ai tre Fabii furono Quinto Sulpicio Longo,

      Quinto Servilio (per la quarta volta) e Publio Cornelio Maluginense.

      

      37 Incombeva un disastro di enormi proporzioni. Eppure (a tal punto la

      Fortuna arriva ad accecare le menti dei mortali quando non vuole

      resistenze ai suoi violenti colpi), la città che contro Fidenati e Veienti

      e altri popoli dei dintorni in molte occasioni era ricorsa alla nomina di

      un dittatore, ora, contro un nemico mai visto e sentito nominare prima,

      che le muoveva guerra dagli angoli più remoti della terra e dall'Oceano,

      quella stessa città non si cercò un comandante, un aiuto eccezionale. Chi

      dirigeva le operazioni erano quei tribuni per la cui temerarietà si era

      arrivati allo scontro armato: alla leva militare essi dedicarono

      l'attenzione che di solito era tipica delle campagne di ordinaria

      amministrazione, arrivando addirittura a ridimensionare la gravità del

      conflitto. Nel frattempo i Galli, non appena saputo che agli uomini

      responsabili di aver violato il diritto delle genti erano toccate cariche

      pubbliche e che l'ambasceria inviata era stata presa in giro, infiammati

      dall'ira (sentimento che quel popolo non riesce assolutamente a dominare),

      tolsero immediatamente il campo e si misero in marcia a tappe forzate.

      Siccome la loro avanzata velocissima e tumultuante faceva correre alle

      armi le città atterrite e costringeva alla fuga gli abitanti delle

      campagne, dovunque passavano i Galli gridavano a gran voce che loro

      marciavano contro Roma: con i cavalli e con le schiere di fanti spiegate

      sul terreno arrivavano a coprire immensi spazi in lungo e in largo. Il

      celere sopraggiungere dei nemici, pur essendo stata preceduta da voci e

      dai messaggeri prima da Chiusi e poi dalle altre città, gettò Roma in un

      terrore così forte che ad affrontare i Galli venne inviato ad appena

      undici miglia dalla città - là dove il fiume Allia, scendendo dai monti

      Crustumini in una gola profonda, si getta nel Tevere poco sotto la strada

      - un esercito più o meno improvvisato e raccolto in fretta e furia. Ogni

      punto di quella zona straripava ormai di nemici che, essendo inclini per

      natura a schiamazzi inutili, con urla spaventose e versi di vario genere

      riempivano l'atmosfera di un orrendo frastuono.

      

      38 Lì i tribuni militari, senza aver scelto in anticipo uno spazio per il

      campo e senza aver allestito una trincea che potesse fungere da riparo in

      caso di ritirata, dimentichi, per non dire degli uomini, anche degli dèi,

      non essendosi minimamente preoccupati di trarre i dovuti auspici e di

      offrire sacrifici augurali, schierarono l'esercito scegliendo una

      disposizione ad ali molto allargate per evitare di essere circondati dalla

      massa dei nemici. Ciò non ostante il fronte non raggiunse l'estensione di

      quello avversario, mentre l'assottigliarsi dei ranghi nella parte centrale

      dell'esercito rese debole e poco compatto quel settore. Sulla destra c'era

      un piccolo rilievo del terreno: i Romani decisero di occuparlo con truppe

      di riserva, manovra questa che segnò l'inizio del panico e della fuga e

      insieme costituì l'unica salvezza per i fuggitivi. Infatti Brenno, il capo

      dei Galli, temendo che l'esiguo manipolo di nemici mascherasse uno

      stratagemma, e pensando che i Romani avessero occupato quell'altura per

      permettere ai contingenti di riservisti di assalire il nemico al fianco e

      alle spalle non appena i Galli avessero attaccato frontalmente lo

      schieramento romano, operò una conversione e si diresse contro i

      riservisti. Era sicuro che, se fosse riuscito a sloggiarli dalla posizione

      occupata, lo strapotere numerico dei suoi effettivi non avrebbe avuto

      difficoltà a ottenere la vittoria nello scontro in pianura. A tal punto

      dalla parte dei barbari c'era non solo la buona sorte ma anche la tattica

      militare. Dall'altra parte dello schieramento non c'era nulla che

      assomigliasse a un esercito romano, né a livello di comandanti né a

      livello di soldati. Il terrore e il pensiero della fuga uniti alla totale

      dimenticanza di ogni cosa ne avevano ormai pervaso gli animi a tal punto

      che la maggior parte delle truppe, non ostante l'ostacolo costituito dal

      Tevere, si precipitò a Veio (una città nemica) anziché fuggire

      direttamente a Roma tra le braccia di mogli e figli. L'altura protesse per

      un po' di tempo i riservisti. Ma nel resto dello schieramento, non appena

      l'urlo dei Galli arrivò dal fianco alle orecchie dei più vicini e da

      dietro ai più lontani, i Romani, quasi ancor prima di vedere quel nemico

      mai incontrato in precedenza e senza non dico tentare la lotta, ma

      addirittura senza far eco al grido di battaglia, si diedero alla fuga

      integri di forze e illesi. In battaglia non ci furono vittime. Gli uomini

      delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nel disordine

      della fuga, si intralciarono reciprocamente combattendo gli uni contro gli

      altri. Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra

      dopo essersi liberati delle armi, ci fu un immenso massacro: moltissimi,

      non sapendo nuotare o stremati, gravati dal peso delle corazze e dal resto

      dell'armamento, annegarono nella corrente. Il grosso dell'esercito riuscì

      invece a riparare sano e salvo a Veio. E di lì non solo non furono inviati

      rinforzi a Roma, ma nemmeno la notizia della disfatta. Gli uomini

      schierati all'ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un

      punto più vicino alle pendici del monte, si diressero in massa a Roma e

      lì, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere le porte, ripararono nella

      cittadella.

      

      39 Ma anche i Galli, attoniti di fronte a quella vittoria miracolosa

      ottenuta in maniera così repentina, rimasero sulle prime immobili per lo

      sbigottimento, come se non riuscissero a capacitarsi di quanto era

      successo. Poi cominciarono a temere l'eventualità di un'imboscata. E

      infine si misero a spogliare i caduti, accatastando, com'era loro

      abitudine, le armi che trovavano. Alla fine, dopo aver rilevato che negli

      immediati dintorni non c'erano tracce del nemico, si misero in marcia e

      poco prima del tramonto raggiunsero la periferia di Roma. E quando i

      cavalieri inviati in avanscoperta tornarono dicendo che le porte non erano

      chiuse, che davanti alle porte non stazionavano sentinelle e che le mura

      non erano difese da armati, un nuovo stupore simile a quello provato poco

      prima li trattenne. Temendo la notte e la zona in cui si trovava quella

      città sconosciuta, si attestarono tra Roma e l'Aniene e di lì inviarono

      lungo le mura e le altre porte dei distaccamenti di ricognizione con il

      còmpito di scoprire quali fossero i piani del nemico in quella situazione

      ormai disperata. Siccome tra i Romani quelli che dal campo di battaglia

      erano riparati a Veio erano ben più numerosi di quelli rientrati a Roma,

      in città si pensava che gli unici superstiti fossero proprio quelli che si

      erano rifugiati a Roma e per questo tutti piansero ugualmente tanto i vivi

      quanto i morti, riempiendo di lamenti quasi tutta la città. Quando poi

      arrivò la notizia che i nemici erano alle porte, il pericolo comune fece

      passare in secondo piano il dolore dei lutti privati. E già si potevano

      sentire le urla e i canti stonati dei barbari che vagavano a torme lungo

      le mura. Per tutto il tempo intercorso da quel momento al sorgere del

      giorno successivo la gente all'interno rimase in uno stato di ansia tale

      da attendersi più volte imminente l'attacco nemico. Prima, quando i Galli

      apparvero all'orizzonte (visto che erano arrivati a pochi passi dalla

      città): se infatti non avessero avuto intenzione di buttarsi all'assalto,

      sarebbero certo rimasti sull'Allia. Poi, verso il tramonto, siccome

      restava ormai ben poca luce, si pensò che avrebbero attaccato prima del

      calar della notte. In séguito, si affacciò l'idea che l'azione fosse stata

      spostata nel corso della notte per incutere maggior terrore. Infine, le

      prime luci dell'alba gettarono tutti nella costernazione. Quando le truppe

      nemiche varcarono le porte, alle paure continue tenne dietro la cruda

      realtà dei fatti. Tuttavia, né nel corso della notte né tantomeno durante

      la giornata che seguì, i cittadini si comportarono come i protagonisti

      della tanto vergognosa fuga nei pressi dell'Allia. Infatti, visto che non

      avevano la benché minima speranza di difendere la città con l'esiguo

      contingente rimasto, si decise che i giovani in età militare e i senatori

      ancora in forze si rifugiassero sulla cittadella e sul Campidoglio insieme

      a mogli e figli, trasportandovi armi e vettovaglie per poi difendere da

      quel punto fortificato gli dèi, gli uomini e il nome di Roma. Si stabilì

      anche che il flamine e che le sacerdotesse di Vesta portassero lontano dai

      luoghi presto teatro di massacri e incendi gli oggetti sacri relativi ai

      riti pubblici, e che non se ne abbandonasse il culto finché rimaneva in

      vista chi potesse celebrarlo. Se la cittadella e il Campidoglio, sedi

      demandate degli dèi, se il senato, vertice sommo della direzione del

      paese, se la gioventù in età militare fossero sopravvissuti al disastro

      che ormai incombeva su Roma, la morte dei moltissimi anziani rimasti in

      città - i quali erano comunque destinati a morire - sarebbe stata una

      perdita di minimo conto. E per ottenere che la gran massa dei plebei in

      età avanzata sopportasse con maggior rassegnazione la decisione presa, i

      vecchi che avevano avuto l'onore del trionfo e che erano stati consoli in

      passato affermarono di essere pronti a morire al loro fianco e di non

      voler ridurre ulteriormente i viveri già scarsi per quelli che

      combattevano consumandone le scorte con quei loro corpi ormai incapaci di

      reggere il peso delle armi e di difendere la patria.

      

      40 Così gli anziani destinati a morire cercavano di consolarsi gli uni con

      gli altri. Ma poi, rivolgendo le loro esortazioni alla schiera di giovani

      che accompagnavano al Campidoglio e nella rocca, affidarono al valore e

      alla vigoria giovanile di quei ragazzi qualsiasi residuo di buona sorte

      riservato ancora a una città che nell'arco di trecento sessant'anni era

      uscita vincitrice da ogni guerra combattuta. Il distacco tra chi portava

      con sé ogni speranza di aiuto e chi invece aveva spontaneamente deciso di

      non sopravvivere al crollo della città, era già di per sé uno spettacolo

      miserando: il pianto delle donne, poi, e il loro correre disordinato

      dietro ora a questi ora a quelli domandando a figli e a mariti a quale

      destino le stessero abbandonando aggiunse l'ultimo tocco a quel quadro

      completo di umana sventura. Ciò non ostante, molte di esse seguirono i

      propri congiunti fin nella cittadella, senza che nessuno le incoraggiasse

      o impedisse loro di farlo perché ciò che avrebbe aiutato gli assediati a

      ridurre il numero dei non combattenti sarebbe stato nello stesso tempo un

      gesto inumano. Un'altra massa di persone - composta per lo più da plebei

      -, non potendo trovare posto nell'area tanto ridotta del colle e non

      potendo essere sfamata in quel regime di così grave penuria alimentare,

      sciamò disordinatamente fuori dalla città e, dopo aver formato una sorta

      di linea continua, si incamminò verso il Gianicolo. Di lì parte si

      disperse per le campagne, mentre parte riparò nelle città dei dintorni,

      senza un capo o un piano concertato: ognuno seguiva le proprie speranze e

      i propri progetti disperando della sorte comune. Nel frattempo il flamine

      di Quirino e le vergini Vestali, dimentichi delle proprie cose, si

      consultarono su quali oggetti sacri fossero da portar via, quali fossero

      invece da abbandonare (non avendo essi materialmente le energie necessarie

      per prendere ogni cosa), e in che luogo quegli oggetti sarebbero stati più

      al sicuro. Alla fine decisero che la soluzione migliore fosse quella di

      metterli dentro a piccole botti da sotterrare poi nel santuario accanto

      all'abitazione del flamine di Quirino, là dove oggi è considerato

      sacrilegio sputare. Il resto degli oggetti, dividendosene il carico, li

      portarono via per la strada che conduce dal ponte Sublicio al Gianicolo.

      Le vi de mentre salivano il colle un plebeo di nome Lucio Albinio il quale

      stava portando via da Roma su un carro la moglie e i figli in mezzo alla

      massa che lasciava la città perché inutile alla causa della guerra. E

      siccome quell'individuo - osservando la distinzione tra le cose divine e

      umane anche nel pieno della tragica situazione -, riteneva fosse un

      sacrilegio che le sacerdotesse di Stato andassero a piedi portando i sacri

      arredi del popolo romano mentre lui e i suoi se ne stavano sul carro sotto

      gli occhi di tutti, ordinò a moglie e figli di scendere e dopo aver fatto

      salire le vergini con gli oggetti sacri le accompagnò fino a Cere, dove le

      sacerdotesse erano dirette.

      

      41 A Roma nel frattempo, mentre ormai ogni cosa era pronta per la difesa

      della cittadella (almeno per quel che era possibile in un simile

      frangente), i moltissimi anziani fecero ritorno alle proprie case ad

      attendere l'arrivo del nemico, con animo deciso alla morte. Quanti tra

      essi erano stati detentori di magistrature curuli, volendo morire con

      addosso le insegne dell'antica fortuna, degli oneri e dei meriti,

      indossarono la veste augustissima riservata a chi guida i carri sacri o

      celebra un trionfo, e si assisero su seggiole d'avorio al centro delle

      loro case. Alcuni storici tramandano che il pontefice massimo Marco Folio

      li guidò nella recita di un voto solenne con il quale essi si offrirono in

      sacrificio per la patria e per i cittadini Romani. I Galli, sia perché la

      notte precedente ne aveva raffreddato gli ardori di guerra, sia perché né

      in battaglia avevano dovuto affrontare momenti critici né adesso erano

      costretti all'uso della forza per impossessarsi della città, senza rabbia

      e senza particolare accanimento il giorno successivo entrarono a Roma

      attraverso i battenti spalancati della porta Collina e si diressero verso

      il foro, volgendo gli sguardi in direzione dei templi degli dèi e della

      cittadella che era l'unico punto che desse ancora l'idea della guerra in

      corso. Poi, dopo aver lasciato di guardia un modesto contingente al fine

      di evitare attacchi a sorpresa dalla cittadella e dal Campidoglio mentre

      erano dispersi qua e là, si buttarono alla caccia di bottino per le strade

      deserte dove nessuno andò a sbarrargli il cammino. Parte di essi irruppe

      nelle abitazioni più vicine, gli altri si spinsero fino alle case più

      lontane, come se soltanto quelle fossero intatte e piene di preda da

      portar via. Ma poi, di nuovo spaventati dalla solitudine che ugualmente vi

      regnava, temendo che qualche agguato nemico li sorprendesse così

      sparpagliati, tornavano a riunirsi nel foro e negli immediati dintorni. E

      qui, avendo trovato sprangate le porte delle case plebee e spalancati gli

      atrii dei palazzi patrizi, esitarono quasi di più a penetrare nelle

      abitazioni aperte che in quelle chiuse. Tale era il sentimento non diverso

      dalla venerazione provato da essi al vedere seduti nei vestiboli delle

      case uomini in tutto simili a dèi non solo per gli abiti e gli ornamenti

      più sontuosi di quelli in uso tra i mortali, ma anche per la maestà che

      spirava dai loro volti e la gravità dell'espressione. Mentre i Galli li

      fissavano assorti come se fossero statue, pare che uno di essi, Marco

      Papirio, quando uno dei barbari gli si avvicinò per accarezzargli la barba

      (lunga come era d'uso in quel tempo), ne scatenò la reazione rabbiosa

      colpendolo sulla testa con il bastone d'avorio e diede così il via al

      massacro. Gli altri furono trucidati sui loro seggi. Una volta completata

      la carneficina dei nobili, non ci fu più pietà per nessuno: le abitazioni

      vennero saccheggiate e date alle fiamme dopo esser state svuotate da cima

      a fondo.

      

      42 Sia che non tutti i Galli avessero voglia di distruggere la città, sia

      che i loro capi intendessero, con lo spettacolo di qualche incendio,

      spaventare gli assediati e spingerli così alla resa per l'attaccamento

      alle proprie dimore, e avessero deciso di risparmiare qualche edificio,

      per conservare quanto restava in piedi della città come ostaggio destinato

      a piegare la resistenza dei nemici, comunque fossero andate le cose, il

      primo giorno il fuoco non si propagò dappertutto o per ampie estensioni di

      spazio come di solito succede in una città conquistata. I Romani, vedendo

      dall'alto della rocca la città pullulare di nemici lanciati all'impazzata

      per le strade, mentre ora da una parte e ora dall'altra si succedevano

      sempre nuovi disastri, non solo non riuscivano a capacitarsene, ma neanche

      più a credere alle proprie orecchie e alla propria vista. Volgevano lo

      sguardo e l'animo dovunque li richiamasse il clamore dei nemici, il pianto

      di donne e bambini, il crepitare delle fiamme e il fragore degli edifici

      che crollavano, essi, atterriti da tutto, come se il destino li avesse

      piazzati lì, spettatori del crollo della patria, costringendoli, dopo

      averli privati di tutti gli altri beni, a non poter difendere nient'altro

      che le loro stesse persone fisiche, tanto più degni di compassione di

      chiunque altro avesse subito assedi: infatti i Romani, assediati fuori

      della patria, vedevano ogni loro cosa in balìa delle mani nemiche. A un

      giorno così orribile tenne dietro una notte che non fu certo più serena.

      Alla notte fece poi séguito un giorno all'insegna dell'angoscia, durante

      il quale non ci fu un solo attimo privo del sinistro spettacolo di

      disastri senza tregua. Tuttavia, pur essendo così gravati e schiacciati

      dall'imperversare delle sventure, nulla riuscì a piegare la risolutezza

      dei loro caratteri: pur vedendo tutto raso al suolo dall'azione delle

      fiamme e dai crolli, continuavano a difendere gagliardamente come estremo

      baluardo di libertà il colle su cui si erano rifugiati, per quanto fosse

      piccolo e povero. E siccome ogni giorno si ripetevano le stesse identiche

      scene, come se fossero avvezzi ormai alla disgrazia, i Romani erano

      divenuti insensibili alla perdita dei loro beni: e guardavano solo, come

      estremi brandelli di speranza, agli scudi e alle spade impugnate nelle

      destre.

      

      43 Da parte loro i Galli, dopo essersi per giorni accaniti contro gli

      edifici della città senza ottenere alcun risultato, quando si resero conto

      che in mezzo alle macerie sopravvissute agli incendi non restavano altro

      che nemici armati fino ai denti (i quali, per nulla terrorizzati da tanti

      disastri, davano l'impressione di non poter essere piegati se non col

      ricorso alla forza), optarono per la risoluzione estrema di un attacco

      alla cittadella. Così, quando alle prime luci del giorno venne dato il

      segnale, l'intera massa dei Galli si schierò nel foro con una formazione a

      testuggine e, dopo aver alzato il grido di guerra, mosse all'attacco. Per

      contrastarli, i Romani attestati sull'alto evitarono di lasciarsi prendere

      dall' avventatezza e dalla precipitazione. Rinforzarono i posti di guardia

      in prossimità di tutti gli accessi e là dove vedevano i nemici avanzare

      opposero i loro uomini più validi, permettendo ai Galli di progredire

      nell'ascesa, convinti che sarebbe stato tanto più facile respingerli giù

      dal pendio quanto più essi si fossero spinti verso la cima. Così,

      attestandosi più o meno a metà dell'erta, i Romani, dopo aver lanciato

      l'attacco da quella posizione sopraelevata che quasi di per se stessa

      sembrava proiettarli contro il nemico, sbaragliarono i Galli in maniera

      così netta e schiacciante da convincerli a non ripetere quel tipo di

      attacco né con una parte né con l'intero schieramento di forze a

      disposizione. Avendo quindi abbandonato ogni speranza residua di salire

      sulla cittadella col ricorso alla forza delle armi, i Galli si prepararono

      a cingerla d'assedio. Ma, non avendo fino a quel preciso momento pensato a

      una simile soluzione, con gli incendi appiccati all'interno della città

      avevano distrutto tutto il frumento che vi si trovava in deposito, mentre

      quello che c'era ancora nei campi i Romani l'avevano trasportato in fretta

      a Veio in quei giorni. Così, dopo aver diviso l'esercito in due, decisero

      di affidare a una parte il còmpito di razziare le terre dei popoli

      confinanti, impiegando il resto delle truppe nell'assedio della

      cittadella, in maniera tale che gli uomini impegnati nei saccheggi

      potessero provvedere all'approvvigionamento degli assedianti.

      Quando i Galli partirono da Roma, la mano del destino volle indirizzarli

      su Ardea (luogo dell'esilio di Camillo), a far la prova delle virtù del

      popolo romano. In quella città Camillo - afflitto più per i tristi casi

      della terra d'origine che per le proprie sventure - stava consumando il

      meglio dei propri anni inveendo contro uomini e dèi e domandandosi con

      sdegno stupito dove fossero finiti gli uomini che insieme a lui avevano

      conquistato Veio e Faleri e che avevano condotto altre guerre più con il

      proprio valore che con l'appoggio della fortuna. Lì Camillo venne a sapere

      all'improvviso che l'esercito dei Galli era alle porte e che gli abitanti

      di Ardea stavano deliberando in preda al panico sul come affrontare la

      situazione. Spinto da un'ispirazione non meno che divina, Camillo si

      presentò nel bel mezzo dell'assemblea (lui che in precedenza si era sempre

      tenuto alla larga da quel tipo di riunioni) e lì pronunciò questo

discorso:

      

      44 «Uomini di Ardea, miei vecchi amici e ora anche miei nuovi concittadini

      (perché questo ha concesso la vostra bontà e voluto la mia disgrazia),

      nessuno di voi pensi ch'io mi sia presentato qui a parlare dimentico della

      condizione in cui verso. Ma le circostanze e il pericolo comune chiamano

      ciascuno di noi, in questo frangente, a mettere a disposizione di tutti

      l'aiuto che è in grado di portare. E quando vi potrei ringraziare per i

      benefici di cui mi avete colmato, se adesso mi tirassi indietro? Oppure

      quando potrei esservi utile, se non in guerra? È proprio quest'arte che in

      patria è stata la mia fortuna. E pur non avendo mai patito sconfitte in

      guerra, in tempo di pace venni cacciato dall'ingratitudine dei

      concittadini. Ma voi, o uomini di Ardea, adesso avete l'opportunità di

      ricompensare il popolo romano per i suoi favori, tanto grandi quanto voi

      stessi li ricordate (e non vale di sicuro la pena rinfacciarli a chi se li

      rammenta benissimo), mentre la vostra città ha nel contempo la possibilità

      di un'eccezionale fama in campo militare. Quello che si sta avvicinando in

      formazione disordinata è un popolo che ha avuto in dono dalla natura corpi

      e animi più grandi che saldi: proprio per tale ragione essi in ogni

      conflitto portano più terrore che effettiva forza. Prova ne sia la

      disfatta inflitta ai Romani: quel popolo ha conquistato una città con le

      porte spalancate; ma basta un modesto contingente arroccato sulla

      cittadella e sul Campidoglio per tenerli a bada. Ma ormai sopraffatti

      dalla noia dell'assedio se ne stanno andando, disperdendosi per le

      campagne senza una meta precisa. Dopo essersi riempiti di cibo e di vino

      ingurgitato d'un fiato, quando scende la notte si coricano a terra qua e

      là come bestie selvagge accanto a qualche corso d'acqua, senza mai

      preoccuparsi di costruire recinti fortificati o di proteggersi con posti

      di guardia e sentinelle. E ora, dopo la recente vittoria, sono ancora più

      incauti del solito. Se quindi avete intenzione di difendere le vostre mura

      e di evitare che tutto questo paese diventi Gallia, al primo turno di

      guardia prendete le armi in massa e seguitemi per quello che dev'essere un

      massacro e non una semplice battaglia. Se non ve li consegnerò immersi nel

      sonno da scannare come bestie, sono pronto a subire ad Ardea la stessa

      sorte che mi è toccata a Roma.»

      

      45 Tanto i sostenitori quanto i detrattori erano persuasi che in quel

      periodo non c'era in circolazione un uomo tanto dotato nell'arte della

      guerra. Sciolta l'assemblea, gli Ardeati si rifocillarono, attendendo con

      impazienza il segnale. E non appena quest'ultimo venne dato nel cuore

      della notte, si misero a disposizione di Camillo in prossimità delle

      porte. Quando si trovavano a poca distanza dalla città - così come Camillo

      aveva previsto - si imbatterono nell'accampamento dei Galli: avendolo

      trovato privo di difese, e totalmente all'aperto, lo assaltarono al grido

      di guerra. Non ci fu resistenza alcuna, ma dovunque strage di corpi inermi

      trucidati nel sonno. I più lontani, tuttavia, svegliatisi di soprassalto

      nei loro giacigli improvvisati, atterriti e incapaci di capire la natura o

      l'origine dell'attacco in corso, si diedero alla fuga disordinata. Alcuni

      di essi andarono a finire incautamente dritti tra le braccia dei nemici;

      molti capitarono nella campagna di Anzio, dove vagarono senza meta fino a

      quando vennero sopraffatti da una sortita organizzata dagli abitanti della

      città.

      Nel territorio di Veio ci fu una strage della stessa portata ma a danno di

      Etruschi. Questi ultimi, per una città che era loro vicina da ormai quasi

      quattrocento anni e che aveva subìto l'attacco di un nemico mai visto e

      sentito prima avevano provato così poca pietà da scegliere proprio quella

      precisa circostanza per effettuare delle incursioni in territorio romano e

      per progettare, carichi di bottino razziato, un attacco alla guarnigione

      di Veio, ultima speranza rimasta al popolo romano. I soldati romani li

      avevano visti prima rovesciarsi per le campagne e poi a file serrate

      spingere innanzi le prede, e potevano scorgerne l'accampamento piantato

      non lontano da Veio. Sulle prime i Romani provarono pietà per se stessi.

      Poi subentrò lo sdegno che alla fine lasciò spazio alla rabbia: possibile

      che anche gli Etruschi, che essi avevano salvato dal furore bellico dei

      Galli a proprio scapito, si prendessero gioco delle loro disfatte? La

      tentazione di attaccarli lì sul momento venne contenuta a fatica. Frenati

      dal centurione Quinto Cedicio, l'uomo che si erano scelti come capo,

      rinviarono l'azione al calar delle tenebre. La sola cosa che mancò fu una

      personalità del livello di Camillo: tutto il resto venne eseguito con lo

      stesso ordine e coronato dallo stesso successo. Anzi, sotto la guida di

      alcuni prigionieri sopravvissuti al massacro notturno, i Romani mossero

      contro un altro contingente di Etruschi nella zona delle saline: li

      assalirono di sorpresa nella notte successiva, ne trucidarono un numero

      ancora più grande, tornandosene a Veio esultanti per la duplice vittoria.

      

      46 Nel frattempo a Roma l'assedio si trascinava stancamente e da entrambe

      le parti regnava il silenzio: e mentre l'unica preoccupazione dei Galli

      era di evitare fughe di nemici attraverso le proprie linee, ecco che

      all'improvviso un giovane romano riuscì ad attirare su di sé l'attenzione

      dei concittadini e dei nemici. La famiglia dei Fabii aveva l'obbligo

      annuale di offrire un sacrificio sul colle Quirinale. Per celebrarlo, Gaio

      Fabio Dorsuone, con la toga stretta in vita alla maniera di Gabi e

      reggendo in mano i sacri arredi, scese dal Campidoglio, attraversò i posti

      di guardia del nemico e raggiunse il Quirinale senza dare il minimo peso

      alle urla minacciose. Lì, dopo aver devotamente compiuto tutti i riti

      previsti, tornò indietro seguendo il percorso dell'andata con la stessa

      imperturbabilità di espressione e con la stessa fermezza di passo,

      assolutamente sicuro di godere del favore di quegli dèi dal cui culto

      nemmeno il terrore della morte era riuscito a distoglierlo. Fece così

      ritorno incolume sul Campidoglio in mezzo ai compagni, sia che i Galli

      rimanessero bloccati per la straordinaria temerarietà del suo gesto o che

      li trattenesse lo scrupolo religioso, sentimento questo che non lascia

      certo indifferente quella gente.

      A Veio nel frattempo crescevano giorno dopo giorno non soltanto il

      coraggio ma anche le forze: e visto che dalle campagne affluivano in città

      sia i Romani che avevano vagato senza meta dal giorno della sconfitta

      presso l'Allia o dopo la caduta di Roma, sia dei volontari arrivati dal

      Lazio nel desiderio di unirsi alla spartizione del bottino, sembrò allora

      giunto il momento per riconquistare la patria perduta strappandola alle

      mani del nemico. Ma a quel corpo in perfetta salute mancava una testa. Gli

      stessi luoghi richiamavano alla memoria della gente la persona di Camillo,

      e buona parte dei soldati avevano combattuto con successo sotto il suo

      comando e i suoi auspici. Oltre a questo Cedicio dichiarò che non avrebbe

      offerto il destro a nessuno tra gli dèi o tra gli uomini di togliergli il

      comando, piuttosto che chiedere lui stesso - memore com'era del proprio

      grado militare -, la nomina di un generale. Fu così deciso all'unanimità

      di far venire Camillo da Ardea, ma non prima di aver consultato il senato

      che si trovava a Roma. Tale era il rispetto per la legge e la distinzione

      dei poteri anche in quel frangente quasi disperato. Per superare i posti

      di guardia nemici bisognava affrontare dei rischi enormi. Per questa

      missione si offrì Ponzio Comino, un giovane coraggioso, il quale, disteso

      su un tronco di sughero, sfruttando la corrente favorevole del Tevere

      raggiunse Roma. Lì, passando nel punto meno distante dalla riva, salì sul

      Campidoglio lungo un tratto così ripido che i nemici l'avevano lasciato

      incustodito e, portato di fronte ai magistrati, consegnò loro il messaggio

      dell'esercito. Poi, ricevuto il decreto del senato (secondo il quale i

      comizi curiati avrebbero dovuto immediatamente richiamare Camillo

      dall'esilio, consentendo ai soldati di scegliersi come comandante l'uomo

      che preferivano), Ponzio Comino raggiunse Veio seguendo lo stesso percorso

      dell'andata. Di lì vennero mandati degli ambasciatori ad Ardea per

      riportare Camillo a Veio, o piuttosto - come io sono più propenso a

      credere, egli non lasciò Ardea prima di aver appreso che la legge era

      stata votata, perché non poteva mutare residenza senza un preciso ordine

      del popolo né trarre gli auspici nell'esercito prima di essere nominato

      dittatore -. La legge fu approvata nei comizi curiati ed egli fu eletto

      dittatore pur non essendo presente.

      

      47 Mentre a Veio succedevano queste cose, nel frattempo la cittadella di

      Roma e il Campidoglio corsero un gravissimo pericolo. Infatti i Galli, o

      perché avevano notato orme umane nel punto in cui era passato il

      messaggero giunto da Veio, o perché si erano resi conto da soli che l'erta

      nei pressi del tempio di Carmenta poteva essere superata senza difficoltà,

      una notte debolmente rischiarata inviarono prima in avanscoperta un uomo

      disarmato per accertare che il passaggio fosse praticabile; poi,

      passandosi le armi nei punti più difficili, appoggiandosi a vicenda e

      spingendosi verso l'alto gli uni con gli altri a seconda della natura del

      terreno, raggiunsero la cima in un tale silenzio che non solo riuscirono a

      passare inosservati alle sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani che

      invece sono animali sensibilissimi ai rumori notturni. Non sfuggirono però

      alla vigilanza delle oche che, non ostante la grande penuria di viveri,

      erano state risparmiate perché sacre a Giunone. E questo fatto salvò i

      Romani. Svegliato infatti dal verso e dallo starnazzare delle oche, Marco

      Manlio, che era stato console tre anni prima e si era sempre distinto in

      campo militare, afferrando le armi e insieme chiamando gli altri a

      imitarlo, si fece avanti e mentre i suoi compagni correvano in disordine a

      armarsi, con un colpo di scudo ricacciò giù dal pendio un Gallo che era

      già riuscito a raggiungere la sommità dell'erta. Ma siccome la sua caduta

      travolse quelli che gli venivano dietro, altri Galli, colti dal panico,

      nel tentativo di aggrapparsi con le mani alle rocce alle quali aderivano

      con il corpo, lasciarono cadere le armi e finirono sotto i colpi di

      Manlio. Essendosi nel frattempo aggiunti anche altri Romani, i nemici

      vennero ricacciati dalle rocce con lancio di frecce e di pietre, così che

      l'intero contingente di Galli fu respinto con successo franando

      rovinosamente giù dal precipizio. Tornata la calma, per quanto era

      consentito a menti sconvolte dal ricordo del pericolo anche se ormai

      passato, il resto della notte venne dedicato al riposo. Alle prime luci

      del giorno, il suono delle trombe chiamò i soldati all'adunata di fronte

      ai tribuni. E siccome era necessario ricompensare chi aveva fatto il

      proprio dovere e punire chi invece non era stato all'altezza, prima di

      ogni altra cosa Manlio venne elogiato per il suo coraggio e premiato non

      solo dai tribuni dei soldati ma anche all'unanimità dai soldati, ciascuno

      dei quali portò mezza libbra di grano e un quarto di vino alla sua casa

      sulla cittadella: ricompensa modesta, a parole, ma che in quella

      situazione di grave penuria era prova di enorme affetto, in quanto ogni

      soldato, per onorare quell'unico uomo, si privava di viveri, li sottraeva

      alla propria persona e necessità. Poi vennero chiamati in giudizio le

      sentinelle di guardia nel punto in cui i nemici erano riusciti a salire

      senza che nessuno se ne accorgesse. Il tribuno Quinto Sulpicio annunciò di

      volerli punire tutti in base alla legge marziale: ma trattenuto dalle

      concordi grida dei soldati che addossavano la responsabilità dell'accaduto

      su un'unica sentinella, risparmiò gli altri, e, col consenso di tutti,

      fece scaraventare dalla rupe Tarpea l'uomo che senza dubbio era il

      responsabile di quella colpa. Da quel momento in poi da entrambe le parti

      la vigilanza fu più accurata: sia presso i Galli che erano venuti a sapere

      dell'avvenuto passaggio di messaggieri tra Roma e Veio, sia presso i

      Romani, memori del pericolo corso quella notte.

      

      48 Ma più che da tutti i mali dell'assedio e della guerra, entrambi gli

      eserciti erano tormentati dalla fame e i Galli anche da un'epidemia dovuta

      al fatto che il loro accampamento si trovava in un punto depresso in mezzo

      alle alture, bruciato dagli incendi e pieno di esalazioni, dove bastava un

      alito di vento per sollevare polvere e cenere. I Galli, non riuscendo a

      sopportare quelle esalazioni proprio perché erano un popolo abituato al

      freddo e all'umidità, morivano soffocati dal grande calore mentre il

      contagio si diffondeva come se si fosse trattato di bestiame, per pigrizia

      di seppellire i cadaveri ad uno ad uno li bruciavano a mucchi accatastati

      alla rinfusa, rendendo così in séguito famoso quel luogo col nome di Tombe

      dei Galli. Venne poi stipulata una tregua con i Romani e, con

      l'autorizzazione dei comandanti, si iniziarono colloqui. Ma dato che

      durante queste conversazioni i Galli non perdevano occasione per

      rinfacciare agli avversari la fame che pativano e li invitavano ad

      arrendersi piegandosi a questa necessità, pare che per far loro cambiare

      idea a tale riguardo venne gettato giù da molti punti del Campidoglio del

      pane in direzione dei posti di guardia nemici. Soltanto che ormai la fame

      non poteva più né essere dissimulata né tollerata a lungo. E così, mentre

      il dittatore era impegnato a realizzare di persona una leva militare ad

      Ardea, e dopo aver ordinato al maestro di cavalleria Lucio Valerio di

      marciare da Veio a capo di un esercito disponeva e preparava le truppe per

      affrontare i nemici in condizioni di parità, nel frattempo gli uomini

      attestati sul Campidoglio, stremati dai turni di guardia e dai picchetti

      armati, non riuscivano a superare quell'unico ostacolo, la fame. La natura

      non permetteva di averne ragione non ostante avessero già affrontato con

      successo tutti i mali che possono capitare a degli esseri umani, spiavano

      di giorno in giorno se apparisse un qualche aiuto da parte del dittatore;

      alla fine, quando ormai non solo il cibo ma anche la speranza era venuta a

      mancare e i loro corpi indeboliti erano quasi schiacciati dal peso delle

      armi nell'incalzare dei turni di guardia, il dittatore ordinò loro di

      chiedere la resa e il riscatto a qualunque condizione, anche perché i

      Galli avevano fatto sapere in maniera più che chiara di essere disposti a

      togliere l'assedio a un prezzo per nulla esorbitante. Allora si tenne una

      seduta del senato nella quale venne dato ai tribuni militari l'incarico di

      definire i termini dell'accordo. La questione venne regolata in un

      colloquio tra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli

      Brenno: il prezzo pattuito per un popolo presto destinato a regnare sul

      mondo fu di mille libbre d'oro. A questa trattativa già di per sé

      infamante venne aggiunto anche un oltraggio: i Galli portarono dei pesi

      tarati in maniera disonesta e siccome il tribuno protestò, l'insolente

      comandante dei Galli aggiunse al peso la propria spada, pronunciando una

      frase insopportabile per le orecchie dei Romani: «Guai ai vinti!».

      

      49 Ma né gli dèi né gli uomini tollerarono che i Romani sopravvivessero a

      prezzo di un riscatto. Infatti, per una sorte provvidenziale, prima ancora

      che il vergognoso mercato fosse concluso, mentre si era nel pieno delle

      trattative e l'oro non era stato pesato del tutto, sopraggiunse il

      dittatore che ordinò di far sparire l'oro e ingiunse ai Galli di

      andarsene. Siccome questi ultimi si rifiutavano sostenendo di aver

      stipulato un accordo, Camillo disse che non poteva avere validità un patto

      siglato, senza sua autorizzazione, dopo che era stato nominato dittatore,

      da un magistrato di rango inferiore, e intimò ai Galli di prepararsi alla

      battaglia. Ai suoi uomini diede disposizione di accatastare i bagagli, di

      preparare le armi per riconquistare la propria terra a colpi di spada e

      non al prezzo dell'oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dèi, le

      mogli e figli nonché il suolo della patria segnato dalle atrocità della

      guerra e tutto ciò che era sacro dovere riconquistare, difendere e

      vendicare. Poi schierò le truppe in ordine di battaglia come la natura del

      suolo permetteva sul terreno di per sé accidentato della ormai

      semidistrutta Roma, e prese tutte quelle misure che l'arte militare

      permetteva di scegliere e di predisporre in favore dei suoi uomini.

      Disorientati da questa iniziativa, i Galli prendono le armi e si buttano

      all'assalto dei Romani più con rabbia che con raziocinio. Ma ormai la

      sorte era cambiata e la potenza divina e la saggezza umana erano dalla

      parte di Roma. Così, al primo scontro, i Galli vennero sbaragliati con

      minore sforzo di quanto essi ne avessero impiegato nella vittoria presso

      il fiume Allia. Poco dopo, in una seconda e più regolare battaglia a otto

      miglia da Roma sulla Via Gabinia, dove si erano raccolti dopo la fuga,

      vennero di nuovo sconfitti sempre sotto il comando e gli auspici di

      Camillo. Lì il massacro non ebbe limiti: venne preso l'accampamento e non

      fu lasciato in vita nemmeno un messaggero che tornasse indietro a riferire

      della disfatta. Dopo aver recuperato la patria strappandola al nemico, il

      dittatore tornò in trionfo a Roma e, in mezzo ai lazzi grossolani

      improvvisati in quelle occasioni dai soldati, con lodi non certo

      immeritate venne salutato come Romolo, padre della patria e secondo

      fondatore di Roma.

      Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria

      città quando, in tempo di pace, impedì un'emigrazione in massa a Veio, non

      ostante i tribuni - ora che Roma era un cumulo di cenere - fossero più che

      mai accaniti in quest'iniziativa e la plebe la appoggiasse già di per sé

      in maniera ancora più netta. Fu questo il motivo per il quale egli non

      rinunciò alla dittatura dopo la celebrazione del trionfo, visto che il

      senato lo implorava di non abbandonare il paese in quel frangente così

      delicato.

      

      50 Prima d'ogni altra cosa, scrupoloso com'era nei confronti della sfera

      religiosa, Camillo fece discutere dal senato i provvedimenti riguardanti

      gli dèi immortali e ottenne l'emanazione del seguente decreto. Tutti i

      santuari, per il fatto di essere caduti in mano nemica, avrebbero dovuto

      esser ricostruiti, ridelimitati nei loro perimetri sacri e purificati; i

      duumviri avrebbero dovuto ricercare nei libri sibillini le formule

      appropriate per questo rituale di purificazione; inoltre lo Stato avrebbe

      stretto un vincolo di pubblica ospitalità con gli abitanti di Cere che

      avevano accolto gli oggetti sacri e i sacerdoti del popolo, e grazie ai

      cui buoni offici il culto degli dèi immortali non aveva subìto

      interruzioni; si sarebbero tenuti i Ludi Capitolini perché Giove Ottimo

      Massimo aveva protetto la propria dimora e la cittadella del popolo romano

      in quel grave frangente; per questa iniziativa il dittatore Marco Furio

      avrebbe dovuto nominare un collegio composto da cittadini residenti sulla

      cittadella e sul Campidoglio. Venne anche ricordata la necessità di

      espiare il prodigio di quella voce notturna che si era sentita annunciare

      la disfatta prima della guerra coi Galli ma che non era stata presa in

      considerazione, e fu ordinata l'edificazione di un tempio dedicato ad Aio

      Locuzio sulla Via Nuova. L'oro che era stato sottratto ai Galli e quello

      che in tutta fretta era stato raccolto dagli altri santuari e convogliato

      nella cella del tempio di Giove, visto che non ci si ricordava con

      certezza dove lo si sarebbe dovuto riportare, venne ritenuto sacro e si

      ordinò di collocarlo sotto il trono di Giove. Già in precedenza la

      cittadinanza aveva dato prova di grande scrupolo religioso: quando infatti

      l'oro nelle casse dello Stato si era dimostrato insufficiente per

      raggiungere la somma pattuita coi Galli come riscatto, le autorità

      accettarono l'oro messo insieme dalle matrone per evitare che venissero

      messe le mani su quello sacro. Le matrone vennero ringraziate e in più fu

      loro garantito, come agli uomini, l'onore dell'elogio solenne dopo la

      morte. Una volta prese queste misure relative al culto degli dèi, che

      erano di competenza del senato, soltanto allora Camillo, dato che i

      tribuni della plebe tenevano in agitazione i plebei cercando di

      convincerli con continue assemblee ad abbandonare le rovine di Roma per

      trasferirsi in una città pronta ad accoglierli (e cioè Veio), egli,

      scortato dall'intero senato, si presentò di fronte all'assemblea e lì

      pronunciò questo discorso:

      

      51 «Gli scontri con i tribuni della plebe sono per me, o Quiriti, così

      dolorosi che durante il mio tristissimo esilio l'unico motivo di sollievo,

      per tutto il tempo che ho vissuto ad Ardea, era l'essere lontano da queste

      controversie, che sono poi il motivo per il quale io non sarei mai

      ritornato nemmeno se voi mi aveste richiamato migliaia di volte con una

      delibera del senato o con il consenso unanime del popolo. Ciò che adesso

      mi ha indotto a ritornare non è stato un cambiamento del mio stato

      d'animo, ma il mutamento della vostra sorte. Poiché proprio di questo si

      trattava, che la patria rimanesse nella sua sede e non che io ad ogni

      costo vivessi in patria. E adesso me ne starei ugualmente al mio posto e

      tacerei volentieri, se anche questa non fosse una battaglia a favore della

      patria. Se il non prendervi parte finché c'è vita sarebbe per altri una

      vergogna, per Camillo è un gesto sacrilego. Ma allora perché abbiamo

      cercato di riprenderci la patria, perché l'abbiamo strappata dalle mani

      del nemico quand'era in stato d'assedio, se, dopo averla recuperata, siamo

      noi ad abbandonarla di nostra spontanea volontà? Quando i Galli vincitori

      avevano occupato l'intera città, ciò non ostante la cittadella e il

      Campidoglio erano in mano degli dèi e degli uomini romani, ora che sono i

      romani ad avere la meglio e la città è ritornata interamente nostra,

      verranno abbandonati anche la cittadella e il Campidoglio, e la nostra

      buona sorte regalerà a questa città più desolazione di quanta non ne abbia

      portata la cattiva? Certo è che se non avessimo degli obblighi religiosi

      nati insieme alla fondazione di Roma e tramandati di mano in mano nel

      corso dei secoli, tuttavia in quest'occasione l'appoggio degli dèi alla

      causa romana è stato così evidente da farmi credere inammissibile per gli

      uomini ogni forma di incuria nei confronti del culto degli dèi.

      Considerate infatti uno dopo l'altro gli avvenimenti positivi e negativi

      di questi ultimi anni: vi renderete conto che tutto il bene è venuto

      finché ci siamo lasciati guidare dagli dèi, il male invece quando li

      abbiamo trascurati. Prendiamo prima di tutto la guerra contro Veio (per

      quanti anni si è trascinata e con quanta sofferenza!): non se ne venne a

      capo fino a quando non drenammo, su invito degli dèi, il lago Albano. Che

      dire poi del disastro senza precedenti toccato di recente alla nostra

      città? È forse successa prima che noi trascurassimo quella voce

      proveniente dal cielo che annunciava l'arrivo dei Galli, o prima che il

      diritto delle genti venisse violato dai nostri ambasciatori, o ancora

      prima che noi, invece di punire tale violazione, la passassimo sotto

      silenzio sempre per quella stessa trascuratezza nei confronti degli dèi?

      Perciò, vinti, fatti prigionieri e riscattati a peso d'oro, siamo stati

      puniti dagli dèi e dagli uomini in maniera così severa da servire

      d'esempio a tutto il mondo. In séguito le avversità ci hanno richiamato

      agli obblighi religiosi. Siamo andati a rifugiarci sul Campidoglio presso

      gli dèi, nella sede di Giove Ottimo Massimo. Degli oggetti sacri, alcuni,

      quando la nostra situazione era precipitata, li abbiamo nascosti sotto

      terra, altri, dopo averli rimossi, li abbiamo trasferiti in città vicine

      perché fossero lontani dagli occhi dei nemici. Pur essendo stati

      abbandonati dagli dèi e dagli uomini, ciò non ostante non abbiamo mai

      tralasciato il culto degli dèi. Per questo essi ci hanno restituito la

      patria, la vittoria e l'antico splendore militare che avevamo perduto. E

      contro i nemici, rei - perché accecati dall'avidità - di avere violato il

      trattato e la parola data pesando l'oro, gli dèi hanno rivolto la paura,

      la fuga e la disfatta.

       

      52 Vedendo queste testimonianze di quanto valga nelle cose umane seguire

      la divinità o trascurarla, non cominciate, o Quiriti, a intuire che

      empietà ci avviamo a commettere pur essendo appena scampati dal naufragio

      di una sconfitta che è la conseguenza della nostra colpa? Abbiamo una

      città fondata secondo i dovuti auspici ed augùri. In essa non vi è un solo

      angolo che non sia permeato dall'idea di religione e dalla presenza

      divina. Per i sacrifici solenni sono fissi non meno dei giorni i luoghi

      nei quali devono essere offerti. Avete dunque, o Quiriti, intenzione di

      abbandonare tutte queste divinità tanto dello stato quanto delle famiglie?

      Come può esserci una qualche somiglianza tra la vostra condotta e quella

      del nobile giovane di nome Gaio Fabio che durante il recente assedio è

      stata ammirata non meno dai nemici che da voi, quando scendendo dalla

      cittadella tra le armi dei Galli si recò a compiere il rito prescritto

      alla famiglia Fabia sul colle Quirinale? Siete disposti a non trascurare

      gli atti di culto gentilizi nemmeno in tempo di guerra, e a abbandonare

      quelli di stato e gli dèi romani anche in tempo di pace? Accettereste che

      i pontefici e i flamini abbiano per i culti di stato minor cura di quanta

      non ne abbia avuta un privato cittadino per un rito della propria

      famiglia? Qualcuno potrebbe forse dire che questi culti li praticheremo a

      Veio oppure che di là invieremo qui a Roma dei nostri sacerdoti col

      cómpito di praticarli. Nessuna delle due soluzioni rispetta il rituale. E

      senza enumerare le singole cerimonie e divinità, sarebbe possibile che

      durante il banchetto in onore di Giove il lettisternio venga allestito in

      un altro punto al di fuori del Campidoglio? Che dire poi del fuoco eterno

      di Vesta o della statua conservata all'interno del suo tempio come pegno

      del nostro potere? Che dire dei vostri scudi sacri, o Marte Gradivo, o tu,

      padre Quirino? Sareste dunque disposti ad abbandonare su suolo non

      consacrato tutti questi oggetti che sono coevi alla città e che in alcuni

      casi ri sultano ancora più antichi della sua stessa origine?

      Considerate quale sia la differenza tra noi e i nostri antenati: essi ci

      hanno tramandato alcuni riti da compiere sul monte Albano e a Lavinio. Ma

      se essi considerarono sacrilego trasferire dei riti da città straniere qui

      da noi a Roma, sarà mai possibile trasferirli di qui in una città nemica,

      senza che se ne debba pagare le conseguenze? Cercate, ve ne prego, di

      ricordare quante volte si sono rinnovate le cerimonie perché qualcosa del

      rito dei padri, vuoi per incuria o vuoi per fattori accidentali, era stato

      omesso. Poco tempo fa, dopo il prodigio del lago Albano, cosa fu d'aiuto

      alla città travagliata dalla guerra contro Veio se non il ripristino dei

      riti sacri e il rinnovamento degli auspici? Ma oltre a ciò, dimostrandoci

      memori del passato fervore religioso, non solo abbiamo introdotto a Roma

      delle divinità straniere, ma ne abbiamo anche istituito delle nuove. A

      Giunone Regina, trasferita di recente da Veio sull'Aventino, con che

      grandiosa magnificenza è stato dedicato un tempio grazie alla cura zelante

      delle matrone! Abbiamo ordinato di costruire un tempio in onore di Aio

      Locuzio per la voce udita nella Via Nuova e proveniente dal cielo. Abbiamo

      aggiunto i Ludi Capitolini alle altre manifestazioni solenni e per volere

      del senato abbiamo costituito a tal fine un collegio speciale. Che bisogno

      c'era di introdurre queste novità, se avevamo intenzione di abbandonare

      Roma insieme ai Galli, e se non per nostra volontà siamo rimasti sul

      Campidoglio per tanti mesi d'assedio, ma perché trattenuti dai nemici con

      la paura? Parliamo di riti e di templi. Ma che dire dei sacerdoti? Non

      pensate mai al grave sacrilegio che si commetterebbe? Per le Vestali non

      c'è che un'unica sede, e niente le ha mai costrette ad abbandonarla se non

      la presa della città; per il flamine Diale è un sacrilegio trascorrere

      anche una sola notte fuori da Roma; e voi avete intenzione di far

      diventare questi sacerdoti Veienti anziché Romani? Possibile che le tue

      Vestali vogliano, o Vesta, abbandonarti, e che il flamine, abitando

      lontano da Roma, attiri notte dopo notte su se stesso e sulla repubblica

      una simile empietà? Che dire poi di tutti gli altri atti che di norma

      realizziamo quasi integralmente all'interno del pomerio dopo aver preso

      gli auspici? A quale sorta di oblio o di incuria li abbandoniamo? I comizi

      curiati che si occupano delle questioni militari, e i comizi centuriati

      nei quali eleggete i consoli e i tribuni militari, dove si possono tenere,

      in maniera conforme agli auspici, se non nei luoghi tradizionali delle

      sedute? Li trasferiremo a Veio? Oppure il popolo, in occasione dei comizi,

      si radunerà con grande disagio in questa città abbandonata dagli dèi e

      dagli uomini?

      

      53 Ma, voi mi direte, così facendo tutto risulterebbe contaminato senza

      alcuna possibilità di purificazione; tuttavia lo stato delle cose in sé e

      per sé ci obbliga ad abbandonare una città trasformata in un deserto dagli

      incendi e dalle rovine, e a trasferirci a Veio dove tutto è intatto,

      evitando così di vessare la povera plebe con la ricostruzione qui della

      città. Eppure che questo sia un semplice pretesto più che il motivo reale

      credo vi sia chiaro, o Quiriti, senza che debba venirvelo a dire io; vi

      ricordate infatti benissimo di come, prima dell'arrivo dei Galli (quando

      cioè gli edifici pubblici e privati erano intatti e la nostra città era

      sana e salva), era già stata discussa questa stessa proposta di

      trasferirci a Veio. E considerate quale sia il divario tra il mio e il

      vostro modo di vedere le cose. Voi ritenete che anche se allora la cosa

      non doveva essere messa in pratica, adesso lo dev'essere comunque. Io al

      contrario - e non meravigliatevi delle mie parole prima di averne colto il

      significato -, anche se allora fosse stato giusto emigrare quando Roma era

      intatta, penso che adesso non dovremmo abbandonare queste rovine. Perché

      allora la vittoria sarebbe stata per noi e per i nostri discendenti un

      motivo glorioso per emigrare in una città conquistata, mentre adesso

      questa emigrazione risulterebbe per noi una umiliante vergogna, e una

      ragione di vanto per i Galli. Sembrerà infatti non che abbiamo abbandonato

      il nostro paese da vincitori, ma che l'abbiamo perduto da vinti; che la

      rotta presso l'Allia, la presa di Roma e l'assedio del Campidoglio ci

      abbiano imposto di abbandonare i nostri penati, condannandoci

      volontariamente all'esilio e alla fuga da quella terra che non eravamo in

      grado di difendere. Bisognerà lasciar credere che i Galli siano riusciti a

      distruggere Roma e che i Romani non siano stati capaci di ricostruirla? E

      cosa vi resta da fare, qualora debbano ripresentarsi con nuove truppe - si

      sa che il loro numero è sterminato - e decidano di stabilirsi in questa

      città conquistata da loro e da voi abbandonata, se non rassegnarvi? Se

      invece non i Galli ma i vostri nemici di un tempo, Equi e Volsci,

      dovessero emigrare a Roma, vi piacerebbe che essi diventassero Romani e

      voi Veienti? Oppure non preferite che questo sia un deserto vostro

      piuttosto che una città dei nemici? Non vedo cosa possa esserci di più

      abominevole. E voi sareste disposti a tollerare queste scelleratezze e

      queste vergogne solo perché vi infastidisce mettervi a ricostruire? Se in

      tutta la città non si riuscirà a tirare su nessuna casa che sia più bella

      o più ampia della famosa capanna del nostro fondatore, non sarebbe meglio

      abitare in capanne alla maniera di pastori e contadini, ma in mezzo ai

      nostri penati e ai nostri riti piuttosto che andare in esilio tutti

      insieme di comune accordo? I nostri antenati, degli stranieri, dei

      pastori, anche se da queste parti c'erano solo foreste e paludi,

      edificarono una città dal nulla in pochissimo tempo. E a noi, anche se il

      Campidoglio e la cittadella sono intatte e i templi degli dèi ancora in

      piedi, dà fastidio ricostruire ciò che è stato distrutto dagli incendi? E

      ciò che ciascuno di noi avrebbe fatto se fosse bruciata la sua casa, ci

      rifiutiamo di farlo insieme in questo incendio che ha coinvolto tutti?

      

      54 Un'altra cosa. Se per motivi dolosi o per circostanze fortuite

      scoppiasse un incendio a Veio e le fiamme portate dal vento dovessero,

      come facilmente succede, divorare buona parte dell'abitato, emigreremo di

      lì a Fidene o a Gabi o in un'altra qualsiasi città? Siamo dunque così poco

      attaccati al suolo della nostra patria e a questa terra che chiamiamo

      madre, e il nostro amore verso la patria si riduce alle travi e ai tetti?

      E ve lo confesso in tutta sincerità - anche se non fa bene richiamare alla

      memoria il male che mi avete fatto -, ma quando ero lontano, ogni volta

      che andavo col pensiero alla mia terra, mi venivano in mente tutte queste

      cose: i colli, le campagne, il Tevere, la regione familiare alla vista e

      questo cielo sotto il quale ero nato e cresciuto. E vorrei, o Quiriti, che

      queste cose vi spingessero adesso, per il loro potere affettivo, a

      rimanere nella vostra terra, piuttosto che tormentarvi in futuro col

      desiderio nostalgico, quando le avrete abbandonate. Non senza una ragione

      gli dèi e gli uomini scelsero questo luogo per fondare la città: colli più

      che salubri, un fiume adatto per trasportare il frumento dalle regioni

      dell'entroterra e per ricevere i prodotti da quelle costiere, un mare

      vicino quanto basta per goderne i vantaggi e nel contempo non esposto, per

      eccesso di contiguità, al pericolo di flotte nemiche, una posizione nel

      centro dell'Italia, insomma un luogo destinato esclusivamente allo

      sviluppo della città. Cosa questa di cui fanno fede le dimensioni stesse

      di un centro tanto recente. Siamo adesso, o Quiriti, nel

      trecentosessantacinquesimo anno di vita della città. Voi è da moltissimo

      tempo che combattete in mezzo a popoli antichissimi: eppure, in tutto

      questo periodo (per non parlare delle singole città), né i Volsci insieme

      agli Equi, con tutte le loro formidabili fortezze, né l'intera Etruria

      potente com'è per mare e per terra e pur estendendosi per tutta l'ampiezza

      dell'Italia tra i due mari, riescono a tenervi testa in guerra. Siccome le

      cose stanno in questi termini, quale ragione vi spinge, dico io, dopo

      esperienze di tal genere, a cercarne altre, dato che, se anche il vostro

      valore potrà essere trasferito altrove, certo non lo potrà la fortuna di

      questo luogo? Il Campidoglio è qui, dove un tempo, quando venne ritrovato

      un cranio umano, gli indovini vaticinarono che sarebbe sorta la capitale

      del mondo e il comando supremo. Qui, quando il Campidoglio doveva essere

      liberato dagli altri culti secondo quanto stabilito dai riti augurali,

      Iuventa e Termine, con grandissima gioia dei vostri antenati, non

      permisero di essere rimossi. Qui c'è il fuoco sacro di Vesta, qui ci sono

      gli scudi mandati dal cielo, qui abitano tutti gli dèi a voi propizi se

      decidete di rimanere.»

      

      55 Pare che il discorso di Camillo, sia nell'insieme, sia soprattutto

      nella parte attinente alla sfera religiosa, suscitasse grande commozione.

      A dissipare ogni dubbio residuo furono però delle parole pronunciate in

      maniera tempestiva: mentre, poco dopo, il senato era riunito nella curia

      Ostilia per deliberare circa questo problema, e alcune coorti, di ritorno

      dai posti di guardia, attraversavano per puro caso a passo di marcia il

      foro, un centurione gridò nella piazza del comizio: «O alfiere, pianta

      l'insegna: qui staremo benissimo.» Udita questa frase, i senatori uscirono

      dalla curia e gridarono all'unisono di voler accettare l'augurio e la

      plebe, accorsa tutta intorno, approvò. Respinta quindi la proposta di

      legge, si iniziò a riedificare la città senza un preciso progetto. Le

      tegole per i tetti vennero fornite a spese dello stato. Ognuno venne

      autorizzato a prender pietre e tagliar legname dovunque avesse voluto, a

      patto però di completare gli edifici entro la fine dell'anno. La fretta

      liberò dalla preoccupazione di tracciare vie diritte, e tutti, non

      essendoci più alcuna distinzione tra le proprie e le altrui proprietà,

      costruivano là dove trovavano spazi liberi. Ecco la ragione per cui le

      vecchie cloache, un tempo condotte sotto le pubbliche vie, oggi passano in

      più punti sotto le case private, e la pianta di Roma somiglia a quella di

      una città nella quale il terreno sia stato occupato a casaccio più che

      diviso secondo un piano determinato.

      

      LIBRO VI

      

      

      

      1 Ho esposto in cinque libri le gesta che i Romani hanno compiuto, dai

      tempi della fondazione della loro città fino alla sua presa, prima sotto i

      re e poi sotto consoli e dittatori, decemviri e tribuni consolari, nonché

      le guerre esterne e gli scontri interni. Si tratta di vicende poco chiare

      non soltanto per il fatto di essere successe in tempi antichissimi (e

      quindi simili a quegli oggetti che si riescono a malapena a distinguere

      per la grande distanza a cui si trovano), ma anche perché in quei tempi

      era raro e limitato l'uso della scrittura, il solo sistema affidabile per

      conservare il ricordo degli eventi passati, e anche perché, pur

      trovandosene accenni nei registri dei pontefici e in altri tipi di

      documenti pubblici e privati, la maggior parte dei dati esistenti andò

      distrutta nell'incendio di Roma. Da questo punto in avanti, verranno

      esposti avvenimenti più chiari e certi relativi alla storia civile e

      militare di Roma, che, dal momento in cui nacque per la seconda volta, fu

      come se fosse risorta più fiorente e rigogliosa dalle sue antiche radici.

      Ora Roma si resse in un primo tempo su quello stesso supporto che le aveva

      permesso di rialzare la testa, e cioè su Marco Furio, il suo cittadino più

      in vista, cui la gente non permise di abdicare dalla dittatura se non allo

      scadere dell'anno. Il fatto che presiedessero le elezioni per l'anno

      successivo quei tribuni sotto la cui magistratura la città era stata presa

      non sembrò cosa molto saggia: si tornò così all'interregno. Mentre la

      cittadinanza era occupata nelle incessanti e faticose opere di

      ricostruzione della città, Quinto Fabio, non appena uscito di carica,

      venne citato in giudizio dal tribuno della plebe Gneo Marcio con l'accusa

      di aver violato il diritto delle genti per aver combattuto contro i Galli

      ai quali era stato inviato in qualità di ambasciatore; la morte gli fece

      evitare però il processo e fu così tempestiva da far pensare alla maggior

      parte della gente che si fosse trattato di suicidio. L'interregno

      cominciò: interrè fu Publio Cornelio Scipione e dopo di lui Marco Furio

      Camillo. Questi nominò tribuni militari con potere consolare Lucio Valerio

      Publicola (per la seconda volta), Lucio Verginio, Publio Cornelio, Aulo

      Manlio, Lucio Emilio e Lucio Postumio.

      Entrati in carica immediatamente dopo l'interregno, essi diedero la

      precedenza assoluta alla discussione in senato delle questioni di natura

      religiosa. Uno dei primi provvedimenti presi fu quello di ordinare la

      raccolta dei trattati e delle leggi (quelle, cioè, delle dodici tavole e

      alcune leggi di età monarchica) ancora reperibili. Alcune di esse vennero

      rese accessibili anche al pubblico: quelle che però riguardavano la sfera

      cultuale furono tenute segrete dai pontefici, più che altro per soggiogare

      l'animo della massa con i vincoli religiosi. Poi si iniziò a discutere dei

      giorni nefasti. Il 18 luglio, giorno famigerato per una duplice sciagura,

      ossia il massacro dei Fabi presso il Cremera e il disastro militare

      dell'Allia con la conseguente distruzione di Roma, da quest'ultima

      disfatta venne chiamato Alliense e †distinto dagli altri come non adatto

      allo svolgimento di ogni tipo di attività pubblica e privata†. Ma siccome

      il giorno successivo alle Idi di giugno il tribuno militare Sulpicio non

      aveva offerto adeguati sacrifici e tre giorni dopo l'esercito romano era

      stato opposto al nemico senza aver ottenuto l' approvazione divina, alcuni

      ritengono che per questo motivo venne imposto di tralasciare i riti

      religiosi anche il giorno successivo alle Idi. Di lì si ritiene che

      divenne patrimonio tradizionale osservare lo stesso divieto anche nei

      giorni successivi alle Calende e alle None.

      

      2 Ma ai Romani non venne concesso di riflettere a lungo con serenità sui

      progetti di ricostruzione del paese dopo un disastro tanto grave. Da una

      parte i Volsci, nemici di vecchia data, avevano infatti preso le armi

      determinati a cancellare dalla faccia della terra il nome di Roma.

      Dall'altra, stando a quanto riferivano certi mercanti, i capi di tutti i

      popoli dell'Etruria si erano riuniti presso il santuario di Voltumna e

      avevano stretto un patto di guerra. Un nuovo motivo di allarme venne poi

      aggiunto dalla defezione di Latini ed Ernici, che per quasi cent'anni,

      cioè dai tempi della battaglia combattuta presso il lago Regillo, avevano

      mantenuto sempre una leale amicizia con il popolo romano. Così, visto il

      gran numero di minacce provenienti da ogni dove, ed essendo chiaro a tutti

      che ormai il nome di Roma non era soltanto oggetto di odio da parte dei

      nemici, ma anche di disprezzo da parte degli alleati, si decise di

      difendere il paese sotto gli auspici dello stesso personaggio che ne aveva

      propiziato la riconquista, e di nominare perciò dittatore Marco Furio

      Camillo. Questi, nella sua veste di dittatore, scelse come proprio maestro

      di cavalleria Gaio Servilio Aala e, dopo aver proclamato la sospensione

      dell'attività giudiziaria, organizzò una leva militare di giovani, facendo

      in modo però di distribuire in centurie, dopo un giuramento di obbedienza,

      anche i veterani dotati di un certo vigore fisico.

      Dopo aver così arruolato ed armato l'esercito, lo suddivise in tre parti.

      La prima, la stanziò nel territorio di Veio col cómpito di fronteggiare

      gli Etruschi. Alla seconda diede ordine di accamparsi di fronte a Roma, e

      ne affidò il comando al tribuno militare Aulo Manlio, mentre pose a capo

      delle truppe inviate contro gli Etruschi Lucio Emilio. La terza parte

      dell'esercitò la guidò lui in persona contro i Volsci e poco distante da

      Lanuvio - in un punto che si chiama Mecio - ne attaccò l'accampamento. I

      Volsci, che si erano buttati nella guerra spinti dal disprezzo e dalla

      convinzione che quasi tutta la gioventù romana fosse stata distrutta dai

      Galli, non appena seppero che il comandante era Camillo, si spaventarono a

      tal punto da proteggere se stessi con una palizzata e la palizzata con una

      barriera di tronchi d'albero, in maniera che il nemico non potesse

      penetrare da nessuna parte all'interno dei loro dispositivi di difesa.

      Quando Camillo se ne rese conto, ordinò ai suoi uomini di dar fuoco allo

      sbarramento di tronchi. Si era levato, per caso, un forte vento in

      direzione dei nemici, ed esso non solo aprì la strada all'incendio, ma

      spingendo verso le tende le fiamme miste al vapore, al fumo e al crepitio

      del legno verde che bruciava spaventò a tal punto i nemici che i soldati

      romani trovarono minore difficoltà nel superare la trincea fortificata dei

      Volsci di quanta non ne avessero avuta nell'attraversare la barriera

      divorata dal fuoco. Sbaragliati e fatti a pezzi i nemici, dopo aver

      assaltato vittoriosamente l'accampamento, il dittatore concesse il bottino

      ai soldati, cosa che risultò tanto più gradita alle truppe quanto meno

      attesa giunse, vista la scarsa abitudine del comandante a tali largizioni.

      Quindi, dopo aver dato la caccia ai fuggitivi devastando nel contempo

      l'intera campagna volsca, Camillo costrinse finalmente i Volsci alla resa

      dopo settant'anni di guerra. Vittorioso sui Volsci, Camillo si rivolse

      contro gli Equi che erano ugualmente impegnati in preparativi di guerra.

      Piombò a sorpresa sul loro esercito nei pressi di Bola e al primo assalto

      ne catturò non solo l'accampamento ma anche la città.

      

      3 Mentre le cose andavano più che bene in quel settore dove c'era Camillo,

      pilastro dello Stato romano, un altro settore era minacciato da un grosso

      pericolo. Quasi l'intera Etruria in armi assediava Sutri, città alleata

      del popolo romano. Ambasciatori di Sutri si erano presentati di fronte al

      senato con la richiesta d'aiuto in un momento tanto critico, e si era

      decretato che il dittatore intervenisse al più presto in loro soccorso. Ma

      gli assediati versavano in tali condizioni da non poter attendere che

      questa speranza si realizzasse e i pochi difensori erano ormai esausti per

      la fatica, per i turni di guardia e per le ferite che toccavano sempre

      agli stessi uomini; così, patteggiata la resa, avevano consegnato la città

      ai nemici, e stavano abbandonando disarmati le loro case in una colonna

      straziante ciascuno con il solo vestito che indossava. Proprio in quel

      momento, per puro caso arrivò Camillo con l'esercito romano. Quella triste

      massa di profughi gli si gettò ai piedi e i personaggi più influenti della

      città gli rivolsero parole di supplica dettate dall'amara necessità e

      accompagnate dal pianto delle donne e dei bambini che essi si trascinavano

      dietro come compagni del proprio esilio, Camillo ordinò ai Sutrini di

      smettere di lamentarsi, dicendo che erano gli Etruschi quelli a cui egli

      era venuto a portare lacrime e lutti. Ordinò ai suoi di deporre i bagagli,

      ai Sutrini di fermarsi lì, sotto la protezione di un modesto presidio,

      alle proprie truppe di portare con sé le sole armi. Così, con l'esercito

      libero da impacci, partì alla volta di Sutri dove trovò ciò che aveva

      supposto e cioè tutto incustodito, come di solito accade dopo un successo:

      nessun uomo di guardia davanti alle mura, le porte aperte, e i vincitori

      dispersi alla caccia di bottino nelle case. Pertanto Sutri venne presa per

      la seconda volta nel corso di quello stesso giorno. Gli Etruschi vincitori

      vennero trucidati qua e là dal nuovo nemico, senza che venisse loro dato

      il tempo di inquadrarsi e di raccogliere le forze o di prendere le armi.

      Quando tentarono, ciascuno per conto proprio, di raggiungere le porte per

      vedere se mai riuscissero a fuggire per i campi, le trovarono sbarrate

      (era stato quello il primo ordine di Camillo). Così alcuni afferrarono le

      armi, mentre altri, casualmente sorpresi dall'attacco improvviso con

      ancora le armi addosso, cercarono di chiamare a raccolta i propri compagni

      per combattere. E lo scontro sarebbe stato anche accanito vista la

      disperazione dei nemici, se degli araldi inviati in giro per la città non

      avessero ingiunto di deporre le armi e di risparmiare quelli che erano

      disarmati: nessuno, salvo quelli con le armi addosso, doveva subire alcuna

      violenza. E allora, anche quanti avevano deciso come estrema prospettiva

      di lottare sino alla morte, ora che veniva loro offerta la speranza di

      salvarsi la vita, buttarono le armi dove capitava e si presentavano

      disarmati al nemico (perché la sorte volle fosse questa la soluzione meno

      pericolosa). Una grande quantità di prigionieri venne distribuita tra i

      diversi posti di guardia. Prima del calar della notte la città venne

      restituita ai Sutrini, intatta e del tutto priva di tracce di guerra,

      perché non era stata presa con la forza ma aveva capitolato.

      

      4 Camillo tornò a Roma in trionfo per le sue vittorie in tre guerre

      simultanee. La stragrande maggioranza di prigionieri che fece marciare

      davanti al proprio carro erano etruschi. Dalla loro vendita all'asta venne

      ricavata una tale quantità di denaro che, dopo aver ripagato le matrone

      per l'oro offerto allo Stato, quanto restava bastò per la costruzione di

      tre coppe d'oro sulle quali - come è noto a tutti - venne inciso il nome

      di Camillo e che fino all'incendio del Campidoglio furono conservate nella

      cella del tempio di Giove ai piedi della statua di Giunone.

      Nel corso di quell'anno fu concessa la cittadinanza a quanti, tra i

      Veienti, i Capenati e i Falisci, erano passati dalla parte dei Romani

      durante quelle guerre e a questi nuovi cittadini furono assegnati degli

      appezzamenti di terra. Con un decreto del senato vennero richiamati in

      città anche coloro che, essendo troppo pigri per ricostruire in Roma, si

      erano trasferiti a Veio andando ad occupare delle case trovate vuote.

      Dapprima si levarono gli strepiti di chi respingeva l'ingiunzione. Ma poi

      la designazione di una data precisa e la minaccia di pena di morte per chi

      si fosse rifiutato di rientrare a Roma piegò all'obbedienza, uno per uno,

      i recalcitranti in massa, non appena ciascuno di essi cominciò a temere

      per se stesso. E non solo Roma cresceva in numero di abitanti, ma dovunque

      sorgevano contemporaneamente nuovi edifici: lo Stato contribuiva a coprire

      le spese di costruzione, mentre gli edili sovrintendevano alle costruzioni

      come se si fosse trattato di lavori pubblici e i privati cittadimi stessi

      - spinti dal desiderio di farne uso - si sbrigavano a portare a termine

      l'opera. Così nell'arco di un anno, venne tirata su una nuova città.

      A fine anno si tennero le elezioni di tribuni militari con potestà

      consolare. L'incarico lo ottennero Tito Quinzio Cincinnato, Quinto

      Servilio Fidenate (per la quinta volta), Lucio Giulio Iulo, Lucio Aquilio

      Corvo, Lucio Lucrezio Tricipitino e Servio Sulpicio Rufo. Essi guidarono

      un esercito contro gli Equi, non con intenzioni belliche - gli Equi si

      definivano vinti -, ma spinti dall'odio a devastarne il territorio per non

      lasciar loro alcuni risorsa da impiegare in nuovi progetti di guerra. Con

      un secondo esercito, invasero invece il territorio di Tarquinia, dove

      presero con la forza le città etrusche di Cortuosa e Contenebra. A

      Cortuosa non vi fu lotta: con un attacco a sorpresa la presero al primo

      urlo di guerra e al primo assalto, per poi saccheggiarla e quindi darla

      alle fiamme. Contenebra resse invece l'assedio per alcuni giorni, ma

      l'incessante impegno armato, giorno e notte, senza alcuna tregua ebbe

      ragione dei suoi abitanti. Siccome l'esercito romano era stato diviso in

      sei contingenti ciascuno dei quali combatteva per sei ore a turno mentre

      gli assediati erano così pochi che toccava sempre agli stessi uomini

      stremati il cómpito di opporsi a forze sempre fresche, alla fine questi

      ultimi cedettero, e i Romani furono in grado di irrompere in città.

      L'intezione dei tribuni sarebbe stata quella di destinare il bottino alle

      casse dello stato, ma furono meno pronti nell'impartire gli ordini che nel

      decidere: mentre tardavano, il bottino era già in mano ai soldati e non

      poteva più esser loro sottratto se non suscitandone il risentimento.

      Quello stesso anno, per evitare che Roma crescesse soltanto nell'edilizia

      privata, il Campidoglio venne munito di una sottostruttura di blocchi

      squadrati, un'opera che merita di essere vista anche in mezzo agli attuali

      splendori della città.

      

      5 Mentre la popolazione era impegnata nelle opere di ricostruzione, i

      tribuni della plebe cercavano di attirare quanta più gente possibile alle

      loro riunioni puntando sulle proposte di leggi agrarie. Facevano balenare

      la speranza di avere l'agro pontino, del quale allora - dopo cioè la

      vittoria di Camillo sui Volsci - Roma ebbe per la prima volta pieno e

      indiscusso possesso. I tribuni formulavano l'accusa che quelle terre erano

      minacciate dai nobili più di quanto non lo fossero state dai Volsci.

      Questi ultimi, infatti, finché avevano avuto forze e armi, si erano

      limitati a compiervi delle incursioni, mentre i nobili anelavano al

      possesso dell'agro pubblico e, a meno che le terre non venissero divise in

      lotti prima dell'occupazione da parte degli ottimati, lì non ci sarebbe

      stato spazio per i plebei. Non riuscirono però a fare grande presa sulla

      plebe perché essa non era molto numerosa nel foro a causa delle

      preoccupazioni edilizie, sia perché era schiacciata dalle spese di

      costruzione, e perciò non stava a pensare alla terra, mancandole i mezzi

      per dotarla delle attrezzature necessarie.

      La città era piena di scrupoli religiosi. Ma in quel periodo, complice la

      recente sconfitta, essi si comunicarono anche ai più alti magistrati e

      così si tornò all'interregno per rinnovare gli auspici. La carica toccò in

      successione a Marco Manlio Capitolino, a Servio Sulpicio Camerino e a

      Lucio Valerio Potito. Quest'ultimo, alla fine, tenne i comizi per le

      elezioni di tribuni militari con potere consolare. Furono eletti Lucio

      Papirio, Gaio Cornelio, Gneo Sergio, Lucio Emilio (per la terza volta),

      Licinio Menenio e Lucio Valerio Publicola (per la terza volta). Questi

      uomini entrarono in carica alla fine dell'interregno. Nel corso di

      quell'anno il duumviro addetto ai riti sacri Tito Quinzio consacrò il

      tempio promesso a Marte durante la guerra contro i Galli. Vennero create

      quattro nuove tribù formate coi nuovi cittadini: la Stellatina, la

      Tromentina, la Sabatina e la Arniense, grazie alle quali il numero totale

      delle tribù raggiunse la quota di venticinque.

      

      6 La questione dell'agro Pontino venne riproposta dal tribuno della plebe

      Lucio Sicinio al popolo ormai più numeroso nelle assemblee e sempre più

      pronto che in precedenza a cedere al desiderio di possedere la terra. In

      senato si accennò a una guerra contro Ernici e Latini, ma la

      preoccupazione di un conflitto di ben altre proporzioni (gli Etruschi

      erano infatti in armi) fecero differire l'iniziativa.

      La faccenda fu di nuovo rimessa a Camillo, tribuno militare con potestà

      consolare. Gli vennero assegnati cinque colleghi: Servio Cornelio

      Maluginense, Quinto Servilio Fidenate (per la sesta volta tribuno

      militare), Lucio Quinzio Cincinnato, Lucio Orazio Pulvillo e Publio

      Valerio. All'inizio dell'anno l'attenzione di tutti venne distolta dalla

      guerra con gli Etruschi perché una turba di gente fuggita dall'agro

      Pontino arrivò all'improvviso in città riferendo che gli Anziati erano in

      armi e che le comunità latine avevano inviato i propri giovani a questa

      guerra, negando però che l'iniziativa fosse il prodotto di una decisione

      ufficiale, visto che si erano limitati a non impedire ai volontari di

      militare dove volevano. Ma i Romani avevano ormai smesso di prendere alla

      leggera qualunque guerra. Così i senatori ringraziarono gli dèi per il

      fatto che Camillo fosse in quel momento in carica: in caso contrario, se

      cioè fosse stato un privato cittadino, avrebbero dovuto nominarlo

      dittatore. I suoi colleghi riconoscevano che, nel caso di una qualche

      incombente minaccia di guerra, la guida dello Stato toccava a un uomo

      solo: si dicevano quindi pronti a sottomettere il loro potere a quello di

      Camillo e ritenevano che qualunque concessione avessero dovuto fare

      all'autorità di quell'uomo non sarebbe stata una riduzione della propria.

      I senatori elogiarono i tribuni e Camillo stesso, profondamente commosso,

      ebbe parole di ringraziamento per loro. Poi disse che eleggendolo per la

      quarta volta il popolo romano lo aveva gravato di un'enorme

      responsabilità. E se da parte del senato, con il suo lusinghiero giudizio,

      si trattava di una grossa responsabilità, grossissima lo era per la

      deferenza manifestata verso di lui da colleghi così degni di stima. Di

      conseguenza, se gli era possibile aggiungere ancora altre fatiche e altre

      veglie, avrebbe gareggiato con se stesso per conservare stabilmente

      l'altissima stima che i suoi concittadini, unanimi, avevano dimostrato di

      possedere nei suoi riguardi. Quanto alla guerra con gli abitanti di Anzio,

      a sua detta si trattava più di minacce che di reali pericoli. Tuttavia,

      pur consigliando di non temere nulla, invitava anche a non prendere nulla

      alla leggera. La città di Roma era circondata dall'invidia e dal

      risentimento dei suoi vicini. Pertanto lo Stato aveva bisogno dell'opera

      di più generali e di più eserciti. «Il mio volere», disse, «è che tu,

      Publio Valerio, divida con me l'autorità e le decisioni e mi affianchi

      alla guida dell'esercito contro gli Anziati; quanto a te, Quinto Servilio,

      desidero che tu organizzi e tenga pronto un secondo esercito, e che ti

      accampi vicino a Roma, stando continuamente allerta, nel caso ci siano nel

      contempo dei movimenti sia da parte dell'Etruria, come è successo poto

      tempo fa, sia dalla zona di questo nuovo allarme, cioè Latini ed Ernici.

      Sono certo che condurrai l'operazione in maniera degna di tuo padre, di

      tuo nonno, di te stesso e dei tuoi sei tribunati. Lucio Quinzio arruoli

      poi un terzo esercito, composto di riformati e veterani, col cómpito di

      presidiare la città e le mura. Lucio Orazio si occupi invece di provvedere

      ad armi, proiettili, viveri e a tutto quanto si richiede in tempo di

      guerra. Quanto a te, Servio Cornelio, io e i tuoi colleghi ti preponiamo a

      questo consiglio di Stato, ti nominiamo custode dei riti religiosi, delle

      elezioni, delle leggi e di tutte le questioni relative alla città».

      Dopo che tutti ebbero garantito lealmente di fare del proprio meglio nei

      rispettivi incarichi assegnati, Valerio, che era stato associato al

      comando supremo, aggiunse che avrebbe considerato Marco Furio in qualità

      di dittatore e che per quest'ultimo egli stesso sarebbe stato alla stregua

      di un maestro di cavalleria. Di conseguenza le speranze di vincere la

      guerra avrebbero dovuto essere in proporzione alla fiducia nutrita nei

      confronti di quell'unico comandante. A quel pun to i senatori, al colmo

      dell'entusiasmo, dichiararono di avere la massima fiducia circa l'esito

      della guerra, la pace e il benessere dell'intera comunità, aggiungendo che

      il paese non avrebbe avuto più bisogno di un dittatore se le magistrature

      avessero continuato a detenerle personalità di quel calibro, unite in un

      accordo armonioso di intenti, pronte tanto ad obbedire quanto a comandare,

      e capaci di riferire gli elogi alla collettività piuttosto che a sottrarli

      a quest'ultima per attribuirli a se stesse.

      

      7 Dopo aver proclamato la sospensione di ogni attività giudiziaria e

      indetto una leva militare, Furio e Valerio partirono alla volta di

      Satrico, dove gli Anziati avevano raccolto non soltanto la gioventù dei

      Volsci, tratta dalla nuova generazione, ma anche un massiccio contingente

      di Latini ed Ernici, popoli pieni di vigore per via della lunga pace. Di

      conseguenza, l'aggiungersi di questo nuovo nemico a quelli di un tempo fu

      motivo di apprensione per i soldati romani. Quando i centurioni si

      presentarono a Camillo che stava già schierando le truppe in ordine di

      battaglia riferendogli che gli uomini erano demoralizzati, che avevano

      preso le armi senza entusiasmo, che erano usciti dal campo esitanti e

      riluttanti, e che anzi si era anche sentito qualcuno dire che in battaglia

      sarebbero stati uno contro cento e che una massa simile di nemici la si

      sarebbe potuta a stento contenere se disarmata e figurarsi con le armi in

      pugno, Camillo balzò in sella e cavalcando in mezzo alle file davanti alle

      insegne si rivolse ai suoi uomini in questi termini: «Che cosa significano

      queste facce tetre e questa insolita titubanza? Non conoscete il nemico, o

      me, o voi stessi? I nemici che altro sono per voi se non fonte

      inesauribile di gloria e di valore sul campo? Lasciamo da parte la

      conquista di Faleri e di Veio, il massacro inflitto alle legioni dei Galli

      quando Roma era in loro mano: sotto il mio comando, voi avete poco tempo

      fa celebratoun triplice trionfo per tre vittorie contemporanee ottenute su

      questi stessi Volsci ed Equi e sull'Etruria. O forse non mi riconoscete

      come vostro comandante solo perché non vi ho dato il segnale di battaglia

      in qualità di dittatore ma di tribuno? Ma io non desidero avere la massima

      autorità su di voi, Nè voi dovreste vedere nella mia persona nient'altro

      che me stesso. E infatti non è mai stata la dittatura a infordermi

      coraggio, come non me l'ha tolto l'esilio. Noi siamo quelli di prima,

      tutti, e siccome in questa guerra impiegheremo le stesse qualità

      utilizzate nelle precedenti campagne, dobbiamo attenderci gli stessi

      risultati. Non appena vi butterete all'assalto, ciascuno di voi farà ciò

      che ha imparato ed è abituato a fare: voi vincerete e loro si daranno alla

      fuga.»

      

      8 Dopo aver quindi suonato la carica, scese da cavallo e prendendo per

      mano l'alfiere più vicino lo trascinò con sé verso il nemico gridando:

      «Avanti l'insegna, o soldato!». Quando gli uomini videro Camillo in

      persona, ormai inabile alle fatiche per l'età avanzata, procedere verso il

      nemico levarono l'urlo di guerra e si buttarono all'assalto tutti insieme,

      ciascuno gridando per proprio conto «Seguite il generale!». Si racconta

      anche che Camillo ordinò di lanciare un'insegna tra le linee nemiche, e

      che gli antesignani furono incitati a riprenderla. Allora gli Anziati

      cominciarono a ripiegare e il panico non si diffuse soltanto tra le prime

      linee, ma anche tra le truppe di riserva. Ciò che li turbava non era

      unicamente l'impeto dei Romani accresciuto nella sua violenza dalla

      presenza del comandante, ma il fatto che per i Volsci non c'era niente di

      più inquietante dell'apparire qua e là di Camillo in persona. E per questo

      dovunque egli si rivolgeva, portava con sé la vittoria sicura. Ciò fu

      chiaro soprattutto quando, essendo l'ala sinistra ormai prossima a cadere,

      egli afferrò all'improvviso un cavallo e dirigendosi al galoppo in quella

      direzione armato di uno scudo da fanteria, ristabilì le sorti della

      battaglia con la sua sola presenza, mostrando che il resto dell'esercito

      stava avendo la meglio. L'esito della battaglia era già scontato, ma la

      grande massa dei nemici rappresentava di per sé un ostacolo alla fuga e i

      Romani, stremati dalla fatica, avrebbero dovuto compiere un lungo massacro

      per sterminare una simile moltitudine, quando all'improvviso i rovesci

      d'acqua di una violentissima tempesta interruppero quella che più di una

      semplice battaglia era ormai una vittoria sicura. Venne quindi dato il

      segnale della ritirata e la notte che seguì fu per i Romani immersi nel

      sonno la fine della campagna. Infatti Latini ed Ernici abbondonarono i

      Volsci e se ne tornarono nei rispettivi paesi, conseguendo un risultato

      all'altezza dei loro perfidi progetti. E i Volsci, quando si resero conto

      di essere stati abbandonati da coloro che li avevano indotti a ribellarsi

      e sui quali contavano, sgombrarono l'accampamento e si andarono a

      barricare all'interno delle mura di Satrico. Camillo sulle prime li fece

      isolare con la costruzione di una palizzata e di un fossato, pensando di

      cingerli d'assedio. Quando però vide che dall'interno non veniva

      effettuata alcuna sortita per impedire la costruzione in atto, pensando

      che il nemico fosse così scoraggiato da non giustificare una vittoria

      procrastinata nel tempo, esortò i suoi uomini a non sprecare troppe

      energie in lunghi lavori di fortificazione come se si fosse trattato

      dell'assedio di Veio, dato che ormai avevano in mano la vittoria; grazie

      infatti all'enorme ardore dei soldati, assalì le mura da ogni direzione e

      con l'uso di scale riuscì a catturare la città. I Volsci gettarono le armi

      e si arresero.

      

      9 Ma i pensieri del comandante erano rivolti a una questione di ben altre

      proporzioni, e cioè ad Anzio, capitale dei Volsci, e causa della recente

      guerra. Ma siccome una città tanto potente non la si poteva prendere se

      non con l'impiego di un massiccio spiegamento di macchine da guerra e di

      ordigni da lancio, Camillo, dopo aver lasciato il comando dell'esercito al

      collega, partì alla volta di Roma per spingere il senato a distruggere

      Anzio. Mentre egli stava parlando - ho l'impressione che agli dèi stesse a

      cuore che la potenza di Anzio durasse più a lungo -, da Nepi e da Sutri

      arrivarono ambasciatori per chiedere aiuto contro gli Etruschi, insistendo

      sull'urgenza del soccorso. Così la sorte rivolse in quella direzione la

      forza di Camillo allontanandola da Anzio. Siccome quelle due città si

      trovavano sul confine con l'Etruria e ne costituivano, per così dire, la

      chiave e le porte, gli Etruschi facevano di tutto per occuparle, quando

      macchinavano qualcosa di nuovo, mentre i Romani si preoccupavano di

      riprenderle e proteggerle. Pertanto il senato decise di convincere Camillo

      a lasciar perdere Anzio e ad occuparsi della guerra contro gli Etruschi,

      assegnandogli quelle legioni urbane che erano state agli ordini di

      Quinzio. Camillo avrebbe preferito l'esercito esperto e abituato al suo

      comando che al momento si trovava nel territorio dei Volsci, ciò non

      ostante non fece alcuna obiezione, chiedendo soltanto che gli venisse

      associato al comando Valerio. Quinzio e Orazio vennero inviati a

      sostituire Valerio nella campagna contro i Volsci.

      Partiti da Roma alla volta di Sutri, Furio e Valerio trovarono però che

      parte della città era già finita in mano degli Etruschi, e che nell'altra

      parte gli abitanti, dopo aver sbarrato tutte le vie d'accesso, riuscivano

      a stento a contenere gli assalti del nemico. L'arrivo di aiuti da Roma e

      in particolare la grandissima fama di cui Camillo godeva presso nemici e

      alleati permisero di ristabilire momentaneamente la situazione già

      compromessa e concessero il tempo necessario per organizzare il soccorso.

      Diviso in due l'esercito, Camillo diede disposizione al collega di operare

      una manovra di accerchiamento e di dare l'assalto alle mura nel settore

      occupato dai nemici. La sua speranza non era tanto di poter prendere la

      città con l'uso di scale, quanto di richiamare i nemici in quel punto

      (concedendo così agli abitanti, ormai stremati dal continuo combattere, un

      attimo di tregua), e di avere l'opportunità di entrare in città senza

      combattere. Entrambe le operazioni vennero messe in pratica

      simultaneamente: gli Etruschi sentendosi minacciati da ambo le parti e

      vedendo che le mura erano attaccate con estrema violenza e che i nemici

      erano ormai in città, colti da terrore si gettarono in massa fuori dalla

      sola porta che casualmente non era assediata. La fuga nei campi e

      all'interno della città finì comunque in un bagno di sangue. La maggior

      parte di essi venne fatta a pezzi dai soldati di Furio all'interno delle

      mura. Gli uomini di Valerio furono più veloci nell'inseguimento e posero

      fine al massacro solo quando il calar della notte tolse la visibilità.

      Dopo aver riconquistato e riconsegnato Sutri agli alleati, l'esercito

      marciò alla volta di Nepi, che essendosi ormai arresa era ora in completa

      balìa degli Etruschi.

      

      10 La riconquista di quella città sembrava fatica molto più dura, e non

      solo perché era interamente in mano nemica, ma anche perché una fazione di

      Nepesini aveva tradito il proprio paese pattuendo la capitolazione. Si

      decise comunque di mandare a dire alle autorità cittadine di staccarsi

      dagli Etruschi e di dar prova di quella stessa lealtà che avevano

      implorato dai Romani. Quando essi risposero dicendo che non potevano far

      nulla, perché gli Etruschi controllavano le mura e vigilavano alle porte,

      in un primo tempo i Romani misero a ferro e fuoco le campagne per

      terrorizzare la gente in città. Poi, quando fu evidente che la resa era

      per loro un legame più vincolante di quanto non fosse l'alleanza, dopo

      aver raccolto nei campi dei rami secchi e averne fatto fascine, le truppe

      romane vennero condotte sotto le mura e lì, una volta riempiti i fossati,

      vi appoggiarono le scale e presero la città alla prima carica sostenuta

      dal grido di guerra. Agli abitanti di Nepi venne ingiunto di deporre le

      armi, e ai soldati di risparmiare quelli che erano disarmati. Per gli

      Etruschi non furono fatte differenze: vennero massacrati sia che fossero

      armati sia che non lo fossero. I Nepesini responsabili della capitolazione

      vennero giustiziati: la popolazione che non aveva colpe da scontare ebbe

      indietro le proprie cose, mentre in città venne lasciato un presidio

      armato. Così, dopo aver ritolte al nemico due città alleate, i tribuni

      ricondussero a Roma con grande gloria l'esercito vincitore.

      Nel corso di quello stesso anno vennero avanzate richieste di riparazione

      a Latini ed Ernici e fu loro domandato per quale ragione, negli ultimi

      anni, essi non avessero fornito i contingenti armati contemplati dai

      patti. L'assemblea plenaria di entrambi i popoli fece sapere che lo stato

      non aveva colpe né responsabilità attive nel fatto che alcuni dei loro

      giovani avessero militato nelle file dei Volsci. Comunque, quei ragazzi

      avevano scontato caramente la loro pessima iniziativa e nessuno di essi

      era tornato indietro. Quanto poi al non aver fornito soldati, questo era

      dovuto alla costante paura nutrita nei confronti dei Volsci (una

      maledizione sempre così alle calcagna da non essere riusciti a liberarsene

      nemmeno con quella continua successione di guerre). Questa risposta fu

      riferita ai senatori: e sembrò ad essi che offrisse sì un motivo, ma non

      l'opportunità per scatenare un conflitto.

      

      11 L'anno successivo, quando cioè erano tribuni militari con potere

      consolare Aulo Manlio, Publio Cornelio, Tito e Lucio Quinzio Capitolino,

      Lucio Papirio Cursore e Gneo Sergio (entrambi alla loro seconda

      esperienza), ci furono all'esterno una guerra di una certa gravità e in

      patria dei disordini ben più gravi. Alla guerra scatenata dai Volsci si

      aggiunse la defezione di Latini ed Ernici; mentre i disordini scoppiarono

      là dove meno lo si sarebbe previsto, e il responsabile fu Marco Manlio

      Capitolino, un patrizio che godeva di larga rinomanza. Pieno di superbia,

      disprezzava il resto dei capi e ne invidiava uno solo, Marco Furio,

      insigne per onori e meriti. Egli non riusciva a tollerare che Camillo

      avesse raggiunto tanto tra i magistrati quanto presso gli eserciti un tale

      grado di assoluta preminenza da considerare al rango di servitori e non di

      colleghi quelli che erano stati eletti sotto i suoi stessi auspici, quando

      - se uno avesse considerato la questione in maniera obiettiva - Marco

      Furio non avrebbe mai potuto strappare la patria dall'assedio nemico, se

      lui, Manlio, non avesse prima salvato il Campidoglio e la rocca. Mentre

      Camillo aveva attaccato i Galli nel momento in cui ricevevano l'oro e non

      stavano in guardia, pensando alla pace, lui invece li aveva respinti

      quando armi in pugno erano sul punto di impossessarsi della rocca. Buona

      parte della gloria di Camillo apparteneva ai soldati che avevano

      conquistato la vittoria insieme a lui, mentre tutti sapevano che Manlio

      non doveva dividere con nessun essere mortale la propria vittoria.

      Imbaldanzito da queste idee ed essendo anche impetuoso e violento di

      carattere, quando si rese conto di non riuscire a emergere tra i senatori

      come egli riteneva di meritare, fu il primo tra tutti i patrizi a passare

      dalla parte del popolo e ad accordarsi coi magistrati plebei. Lanciando

      accuse ai senatori e cercando di attirarsi il favore della plebe, non si

      lasciava più guidare dal raziocinio ma dall'umore incostante della massa,

      e preferiva che la sua fama fosse grande piuttosto che buona. E non

      contento delle leggi agrarie che ai tribuni della plebe avevano sempre

      fornito materia per scatenare disordini, cominciò un attacco sul pubblico

      credito: a suo dire i debiti erano un tormento ben più fastidioso perché

      facevano rischiare non soltanto la povertà e il disonore, ma

      terrorizzavano gli uomini di condizione libera col pensiero della frusta e

      delle catene. E infatti c'era stato un grande accumulo di debiti contratti

      con le opere di ricostruzione, che anche ai ricchi avevano procurato

      enorme danno. E così la guerra contro i Volsci, già di per sé preoccupante

      ma resa ancora più preoccupante dalla defezione di Latini ed Ernici, venne

      utilizzata allo scopo di ottenere maggiore potere. Ma soprattutto le

      rivoluzionarie idee di Manlio furono la causa principale della nomina,

      voluta dal senato, di un dittatore. Venne scelto per l'incarico Aulo

      Cornelio Cosso, il quale nominò maestro di cavalleria Tito Quinzio

      Capitolino.

      

      12 Pur rendendosi conto che la minaccia di uno scontro interno era ben più

      preoccupante di quella proveniente dall'estero, ciò non ostante il

      dittatore - sia perché la guerra esigeva tempestività e sia perché pensava

      che con una vittoria e un conseguente trionfo avrebbe potuto rinforzare la

      propria dittatura, appena effettuata la leva militare, partì alla volta

      dell'agro Pontino, dove, stando alle informazioni ricevute, i Volsci

      avevano concentrato l'esercito. A forza di leggere in questi libri di

      tutte le guerre combattute in continuazione con i Volsci, sono sicuro che

      i lettori - noia a parte - si domanderanno meravigliati (com'è successo a

      me quando esaminavo le opere degli storici più vicini ai tempi di questi

      avvenimenti) dove mai Volsci ed Equi, che subivano una sconfitta dietro

      l'altra, trovassero i rimpiazzi per le file dei loro eserciti. Ma visto

      che gli antichi hanno passato la questione sotto silenzio, posso avanzare

      soltanto una semplice opinione personale, alla quale ciascuno può arrivare

      per congettura? È probabile sia che negli intervalli tra i vari conflitti

      essi utilizzassero per riprendere le guerre sempre nuove generazioni di

      giovani - come oggi si verifica nelle leve militari qui a Roma -; oppure

      non arruolavano gli eserciti attingendo sempre alle stesse genti, anche se

      poi il popolo che faceva la guerra risultava sempre lo stesso; o ancora

      non è escluso che la quantità di uomini liberi fosse estremamente elevata

      in zone che oggi non hanno più alcun peso quale vivaio militare e solo

      grazie agli schiavi romani non sono ridotte a deserti. Di certo è che

      tutti gli storici concordano nel definire enorme l'esercito dei Volsci,

      non ostante avesse poco tempo prima subìto un notevole ridimensionamento

      numerico sotto il comando e gli auspici di Camillo. A questa forza si

      erano aggiunti Latini ed Ernici, un certo numero di abitanti di Circei e

      alcuni coloni romani provenienti da Velletri. Quel giorno il dittatore si

      accampò. Il successivo, dopo aver tratto gli auspici, uscì dalla tenda

      augurale e invocò il favore degli dèi con l'offerta di una vittima

      sacrificale. Quindi si presentò con volto lieto ai soldati che alle prime

      luci del giorno si stavano già armando, come era stato loro ordinato di

      fare non appena avessero visto il segnale convenuto per la battaglia. «O

      soldati», disse, «la vittoria è nelle nostre mani, se gli dèi e i loro

      interpreti profetici sanno leggere nel futuro. Perciò, come si conviene a

      uomini che sono sul punto di affrontare con sicura fiducia nei propri

      mezzi degli avversari di forza impari, deponiamo i giavellotti e armiamoci

      soltanto con le spade. Vorrei che nessuno uscisse dai ranghi, ma che

      sosteneste l'impeto dei nemici resistendo a pie' fermo. Quando i loro

      colpi saranno andati a vuoto ed essi si getteranno in disordine contro di

      voi ben attestati al vostro posto, allora brillino le spade e ciascuno si

      ricordi che gli dèi stanno dalla parte dei Romani, e che sono stati gli

      dèi a mandarci in battaglia con auspici favorevoli. Tu, Tito Quinzio, bada

      a tener ferma la cavalleria e aspetta che inizi lo scontro. Quando vedrai

      le due schiere già impegnate nel corpo a corpo, allora con i cavalieri

      aggiungi nuovo terrore alla paura che già possiede i nemici e caricandoli

      semina lo scompiglio tra le loro fila.» Tanto i cavalieri quanto i fanti

      combatterono com'era stato loro ordinato. Né il generale venne meno alle

      sue legioni, né la fortuna al generale.

      

      13 La massa dei nemici, confidando esclusivamente nel numero e valutando a

      occhio entrambi gli schieramenti, si buttò alla cieca in battaglia e alla

      cieca ne uscì. Esaurita la loro irruenza nell'urlo di battaglia, nel

      lancio di proiettili e nel primo urto, essi non riuscirono a sostenere le

      spade, lo scontro corpo a corpo e gli sguardi dei nemici nei quali

      brillava l'ardore di autentici guerrieri. La loro linea frontale venne

      sùbito sgranata e lo scompiglio andò a ripercuotersi sulle retrovie. Anche

      i cavalieri fecero la loro parte nel terrorizzare i nemici. Le file

      vennero sbaragliate in molti punti, tutto era in movimento e l'intero

      schieramento somigliava a un fluttuare di onde. Poi quando, caduti i

      soldati della prima fila, ciascuno si rese conto che la morte non avrebbe

      tardato a raggiungerlo, fu una fuga generale. I Romani incalzavano. Finché

      i nemici indietreggiavano con le armi in pugno e in file serrate,

      l'inseguimento venne affidato alla fanteria. Ma quando si vide che

      buttavano le armi dove capitava e che l'esercito si disperdeva per i campi

      cercando la fuga, allora venne dato il via libera agli squadroni di

      cavalleria con l'ordine di non indugiare nell'eliminazione dei singoli,

      per non offrire al grosso delle forze nemiche il modo di evitare il

      massacro. Già solo lanciando proiettili li avrebbero terrorizzati

      ostacolandone la corsa: poi, cavalcandogli intorno, li avrebbero potuti

      tenere sotto controllo, fino a quando non fossero sopraggiunti i fanti a

      completare l'annientamento. La fuga e l'inseguimento proseguirono fino al

      calar della notte. Dopo aver catturato e distrutto quello stesso giorno

      l'accampamento dei Volsci, ai soldati venne concesso tutto il bottino

      tranne gli uomini di condizione libera. La maggior parte dei prigionieri

      erano Latini ed Ernici, e non tutti di estrazione plebea (che si poteva

      credere avessero combattuto in qualità di mercenari), ma vi si trovarono

      anche dei giovani delle famiglie più illustri, prova questa che i

      rispettivi paesi avevano ufficialmente supportato il nemico volsco. Alcuni

      vennero invece riconosciuti come provenienti da Circei e dalla colonia di

      Velletri. Furono tutti inviati a Roma e lì, ai senatori più eminenti che

      li interrogavano, rivelarono apertamente le stesse cose già dette al

      dittatore, e cioè la defezione dei rispettivi popoli.

      

      14 Il dittatore teneva i suoi uomini nell'accampamento, non nutrendo il

      minimo dubbio sul fatto che i senatori avrebbero dichiarato guerra a

      questi popoli, quando in patria una questione di ben altra gravità li

      costrinse a richiamarlo a Roma, mentre la gravità dei disordini cresceva

      di giorno in giorno, e chi ne era responsabile rendeva la cosa più

      preoccupante del solito. Infatti ormai non solo i discorsi, ma anche le

      azioni di Marco Manlio, all'apparenza volte ad appoggiare il popolo, erano

      in realtà sediziose se si considerava quale ne era il principio

      ispiratore. Vedendo che stavano portando via un centurione, famoso per le

      sue prodezze di soldato, ma condannato per debiti, Manlio si precipitò in

      pieno foro con la sua banda di sostenitori. Lì, dopo averlo afferrato con

      le mani per riscattarlo, ed essersi messo a urlare frasi sull'arroganza

      dei patrizi, sulla crudeltà degli usurai, sulle sofferenze della plebe e

      sulle qualità e sulle disgrazie di quell'uomo, disse: «Allora non è

      proprio servito a nulla per me aver salvato la rocca e il Campidoglio con

      questa destra, se adesso devo vedere un mio concittadino e commilitone

      messo in catene e ridotto in schiavitù come se fosse prigioniero dei Galli

      vincitori!». Poi pagò davanti a tutti la somma dovuta al creditore,

      restituì la libertà al commilitone riscattato, il quale implorava gli dèi

      e gli uomini affinché ringraziassero Marco Manlio, suo liberatore e padre

      della plebe romana. Accolto immediatamente in mezzo a quella massa

      turbolenta di gente, il commilitone contribuiva di suo ad aumentare il

      disordine mostrando le cicatrici delle ferite riportate nella guerra

      contro Veio, in quella contro i Galli e nelle successive. Mentre stava

      combattendo, mentre era impegnato nella ricostruzione della sua casa

      ridotta in macerie, era stato schiacciato dall'usura, perché, pur avendo

      già più volte risarcito il debito, gli interessi continuavano a divorarsi

      il capitale di partenza. Se ora vedeva la luce, il foro e i volti dei

      concittadini, lo doveva all'intervento generoso di Marco Manlio. Da lui

      aveva anche sperimentato tutto il bene che può provenire dai genitori, a

      lui consacrava quanto gli restava di forza, di vita e di sangue. Tutti i

      vincoli che lo legavano alla patria e agli dèi Penati pubblici e privati,

      ora lo avrebbero legato a un uomo solo. Infiammati da queste parole, i

      plebei pendevano dalle labbra di un unico individuo, quand'ecco che Manlio

      tirò fuori un'altra iniziativa studiata in maniera ancora più mirata al

      fine di creare disordine generale. Mise infatti all'asta un fondo che egli

      possedeva nella zona di Veio e che rappresentava la parte più consistente

      del suo patrimonio. Accompagnò il gesto con questa frase: «Perché io non

      debba vedere che qualcuno di voi, o Quiriti, finché mi resti qualcosa di

      mio, sia condannato come debitore insolvente e ridotto alla condizione di

      schiavo!». Queste parole infiammarono gli animi a tal punto da sembrare

      evidente che essi avrebbero seguito il difensore della loro libertà in

      qualunque impresa, lecita o illecita che fosse.

      Al di là di questo, Manlio teneva a casa sua dei discorsi molto simili a

      comizi politici, pieni di accuse ai danni dei patrizi. Tra l'altro, senza

      però curarsi minimamente se si trattasse di affermazioni vere o false,

      egli insinuò il sospetto che i patrizi tenessero nascosto l'oro dei Galli

      e che non contenti di possedere l'agro pubblico, miravano a utilizzare a

      loro profitto il denaro delle casse statali. Se la cosa fosse venuta alla

      luce, con quel denaro si sarebbe potuta affrancare la plebe dai debiti

      contratti. Non appena venne fatta balenare questa speranza, sembrò una

      vera vergogna il fatto che, quando si era dovuto raccogliere oro per

      riscattare Roma presso i Galli, lo si fosse messo insieme imponendo un

      tributo a tutti. E adesso quell'oro, una volta sottratto ai nemici, era

      diventato preda di pochi. Per questo essi non smettevano di chiedere dove

      fosse nascosta una così grande refurtiva. Ma siccome Manlio rimandava

      sempre e diceva che l'avrebbe rivelato a tempo debito, i patrizi lasciando

      da parte ogni altro pensiero, la gente era concentrata esclusivamente su

      quella questione, ed era evidente che, a seconda della fondatezza o meno

      della sua accusa, Manlio si sarebbe guadagnato enorme riconoscenza o non

      minore risentimento.

      

      15 Siccome la situazione era così critica, il dittatore venne richiamato

      dal fronte e arrivò a Roma. Il giorno successivo convocò una seduta del

      senato. Qui, dopo aver ben saggiato lo stato d'animo generale, e dopo aver

      ingiunto ai senatori di non allontanarsi, attorniato da un gran numero di

      essi, sistemò la sua sedia curule nel comizio e inviò un messo a Marco

      Manlio. Questi, convocato dal dittatore, dopo aver fatto segno ai suoi che

      lo scontro era imminente, si presentò in tribunale accompagnato da un

      codazzo di sostenitori. Schierati come su un campo di battaglia, il senato

      da una parte e la plebe dall'altra tenevano gli occhi puntati sui

      rispettivi capi. Allora il dittatore, dopo aver intimato il silenzio,

      disse: «Magari io e i senatori romani riuscissimo a trovare un accordo con

      la plebe su tutte le altre questioni, così come sono sicuro che ci

      accorderemo per quanto ti riguarda e per la richiesta che sto per

      rivolgerti. So che tu hai fatto sperare alla cittadinanza di poter pagare

      i debiti, senza attentare ai contratti, attingendo a quei tesori dei Galli

      che alcuni tra i patrizi più in vista starebbero nascondendo. Sono così

      lontano dall'ostacolare questa proposta che ti esorto, o Marco Manlio, a

      liberare dall'usura la plebe romana e a smascherare quelli che covano i

      tesori dello Stato, strappando loro la preda nascosta. Se non lo farai, o

      perché hai tu stesso parte alla rapina o perché la tua denuncia non ha

      alcun fondamento, io darò ordine di arrestarti e non permetterò che tu

      possa sobillare più a lungo la massa con false promesse.»

      A queste parole Manlio rispose che non gli era sfuggito come il dittatore

      fosse stato nominato non tanto contro i Volsci, considerati nemici ogni

      qualvolta conveniva ai patrizi, né contro Latini ed Ernici, che con false

      accuse i nobili stavano spingendo ad entrare in guerra, quanto piuttosto

      contro la propria persona e contro la plebe romana. Ormai essi, dopo aver

      messo da parte il conflitto che era stato un semplice pretesto, si

      accingevano ad attaccare lui: il dittatore si professava già apertamente

      difensore degli usurai contro la plebe e già si cercava di trovare nel

      favore popolare un motivo di accusa per rovinare lui. «A te, o Aulo

      Cornelio, e a voi, o senatori», disse, «dà forse fastidio la massa di

      persone che mi circonda? Perché non la allontanate da me facendo del bene

      a ciascuno di essi, intervenendo a favore dei debitori, sciogliendo i

      vostri concittadini dai ceppi, impedendo che essi vengano processati e

      ridotti in schiavitù o impiegando il superfluo delle vostre sostanze per

      venire incontro alle necessità altrui? Ma perché chiedervi di spendere del

      vostro denaro? Accontentatevi di quanto resta del debito, scalando dal

      capitale di partenza ciò che è già stato interamente pagato in interessi,

      e vedrete che il mio seguito non darà nell'occhio più di quanto non faccia

      quello di chiunque altro. Ma perché io sono l'unico che si prende a cuore

      la sorte dei concittadini? La mia risposta sarebbe identica a quella che

      darei se mi si domandasse perché sono stato il solo a salvare il

      Campidoglio e la rocca. E come allora ho fatto del mio meglio per aiutare

      tutta la comunità, così adesso cercherò di aiutare dei singoli individui.

      Per quel che riguarda poi il tesoro dei Galli, si tratta di una questione

      di per sé semplice ma resa difficile dalle tue domande. Perché chiedete di

      una cosa che già sapete? Perché ci ordinate di strapparvelo dalle tasche,

      invece di tirarlo fuori spontaneamente, se non c'è sotto qualche inganno?

      Quanto più voi ci imponete di smascherare i vostri giochi di prestigio,

      tanto più temo che vogliate cavare gli occhi a chi vi osserva. Dunque non

      sono io che devo denunciare a voi le vostre appropriazioni, ma siete voi

      che dovete renderle di pubblico dominio.»

      

      16 Il dittatore gli ordinò allora di lasciar da parte i giri di parole e

      lo costrinse o ad attribuire un fondamento di verità alla sua denuncia

      oppure ad ammettere di aver accusato il senato con una falsa imputazione e

      di avergli addossato l'odiosità di un furto inesistente. Ma siccome Manlio

      disse che non avrebbe parlato ad arbitrio dei propri avversari, il

      dittatore ordinò di arrestarlo. Mentre veniva trascinato in prigione

      dall'ufficiale di servizio «Giove Ottimo Massimo», disse, «e tu Giunone

      Regina e Minerva e voi, gli altri dèi e dee che abitate sul Campidoglio e

      sulla rocca, dunque permettete che il vostro campione e difensore sia così

      maltrattato dai suoi avversari? Questa destra, con la quale ho cacciato i

      Galli dai vostri santuari, sarà dunque stretta in ceppi e catene?».

      Quell'infame spettacolo era intollerabile per le orecchie e gli occhi di

      ognuno. Ma c'erano certe regole che i cittadini, profondamente sottomessi

      alla legittima autorità, consideravano intoccabili. E né i tribuni della

      plebe, né la plebe stessa osavano alzare gli occhi o proferire verbo di

      fronte all'autorità del dittatore. Tuttavia, dopo che Manlio venne messo

      in carcere - lo si sa con certezza - buona parte dei plebei si vestirono a

      lutto, molti uomini si lasciarono crescere barba e capelli e una mesta

      folla cominciò ad aggirarsi di fronte all'entrata della prigione.

      Il dittatore celebrò il trionfo sui Volsci, ma il trionfo gli procurò più

      odio che gloria: la gente infatti mormorava che egli l'aveva conquistato

      non sul campo di battaglia ma in patria e non contro un nemico ma contro

      un cittadino. Una sola cosa gli era venuta a mancare in quell'eccesso di

      superbia: Marco Manlio non era stato fatto marciare davanti al suo carro.

      Ormai la situazione stava per degenerare in una sommossa: per placare gli

      animi, senza però che nessuno ne avesse fatto richiesta, il senato divenne

      all'improvviso generoso e ordinò che due mila coloni romani fondassero una

      colonia a Satrico. A ciascuno di essi vennero assegnati due iugeri e mezzo

      di terra. Ma siccome il gesto venne interpretato come una donazione

      limitata in quantità e ristretta a un àmbito di pochi e come ricompensa

      per l'abbandono di Marco Manlio, il rimedio non fece che aggravare la

      tensione in atto. I sostenitori di Manlio si facevano notare ancora più di

      prima per gli abiti a lutto e per l'aspetto che assumevano di imputati,

      mentre la gente, liberata dalla paura da quando il dittatore aveva

      rinunciato alla carica súbito dopo il trionfo, si era rinfrancata

      nell'animo e nel dire.

      

      17 Di conseguenza si cominciarono a sentire le opinioni di chi criticava

      apertamente la massa poiché riteneva che il favore popolare innalzasse i

      suoi campioni fino a vertici inauditi, ma che poi, nel momento critico, li

      abbandonasse al loro destino. Così era successo con Spurio Cassio (che

      aveva invitato la plebe a prender possesso dei campi), con Spurio Mecilio

      (che tentava di allontanare a proprie spese la fame dalla bocca dei

      concittadini) e ora succedeva con Marco Manlio, consegnato agli avversari

      dopo essersi prodigato nel tentativo di portare alla luce della libertà

      quella parte di cittadinanza sommersa e schiacciata dai debiti. La plebe

      ingrassava i suoi campioni perché finissero al macello. Era dunque questo

      che toccava a un ex - console se non rispondeva a un cenno del dittatore?

      Supponessero pure che aveva mentito in precedenza e che proprio per questo

      non sapesse poi cosa rispondere: quale schiavo era mai stato condannato

      alla prigione per una bugia? Non se la ricordavano quella notte che per

      poco non era stata l'ultima, eterna notte del nome di Roma? Non era ancora

      vivo in loro il ricordo delle schiere dei Galli che saliva su per la rupe

      Tarpea? Non quello dello stesso Marco Manlio, così come l'avevano visto,

      quando armi in pugno, coperto di sudore e di sangue aveva strappato Giove

      stesso, per così dire, dalle mani dei nemici? Si era ringraziato il

      salvatore della patria con mezza libbra di farro? Avevano intenzione di

      permettere che l'uomo da loro innalzato a rango quasi divino e reso,

      almeno nel soprannome, pari a Giove Capitolino, incatenato in carcere

      trascinasse i suoi giorni al buio in balia di un carnefice? Lui, da solo,

      aveva aiutato tutti: e ora in tanti non sapevano soccorrere lui solo?

      Ormai la folla non si allontanava da quel luogo nemmeno di notte e anzi

      minacciava di voler forzare le porte della prigione, quando

      all'improvviso, concedendo ciò che essi stavano per strappare a forza, il

      senato decretò che Manlio venisse rimesso in libertà (iniziativa questa

      che non pose certo fine alla sedizione, ma fornì un capo ai sediziosi).

      In quegli stessi giorni arrivarono Latini ed Ernici, insieme ai coloni di

      Circei e di Velletri, a discolparsi dall'accusa di essersi associati in

      guerra coi Volsci e a chiedere la consegna dei prigionieri per poterli

      punire con le proprie leggi. Le risposte furono dure, specialmente per i

      coloni in quanto, pur essendo cittadini romani, avevano preso la decisione

      di combattere contro la patria. Perciò non fu loro soltanto negata la

      restituzione dei prigionieri, ma - misura risparmiata agli alleati - il

      senato ingiunse loro di allontanarsi al più presto dalla città, dalla

      vista e dagli occhi del popolo romano, per timore che non trovassero

      protezione nelle prerogative concesse agli ambasciatori, prerogative

      previste per gli stranieri e non per i cittadini.

      

      18 Mentre i disordini causati da Manlio si stavano aggravando, verso la

      fine dell'anno ci furono delle elezioni nelle quali risultarono eletti

      tribuni militari con potere consolare Servio Cornelio Maluginense, Publio

      Valerio Potito, Servio Sulpicio Rufo, Gaio Papirio Crasso, Tito Quinzio

      Cincinnato (tutti per la seconda volta) e Marco Furio Camillo (per la

      quinta). La pace esterna della quale si godette all'inizio di quell'anno

      fu estremamente vantaggiosa sia per la plebe che per la nobiltà. E se per

      i plebei lo fu perché, non dovendo prestare servizio militare, finché

      avevano dalla loro un capo prestigioso come Marco Manlio, nutrivano la

      speranza di eliminare i debiti, per i patrizi lo fu in quanto non

      desideravano che preoccupazioni provenienti dall'esterno distogliessero

      gli animi dal pensiero di risanare i mali interni. E così, visto che

      entrambe le parti si erano buttate nella contesa con maggiore accanimento,

      l'ora dello scontro era ormai vicina. Manlio invitava i plebei a casa sua

      e discuteva coi loro capi giorno e notte progetti rivoluzionari, era più

      arrogante e irato di quanto non fosse stato prima. L'umiliazione subìta di

      recente aveva infiammato la rabbia in un animo non abituato agli affronti:

      il suo orgoglio era risvegliato dal fatto che il dittatore non aveva osato

      agire nei suoi confronti come Quinzio Cincinnato aveva agito contro Spurio

      Melio, e che non solo il dittatore con la rinuncia alla dittatura si era

      voluto sottrarre all'ondata di sdegno suscitata dal suo arresto, ma anche

      che neppure il senato aveva potuto sostenerla. Nel contempo infiammato ed

      esacerbato da questi pensieri, Manlio istigava gli animi già di per sé

      eccitati della plebe.

      «Fino a quando», chiedeva, «continuerete a ignorare la vostra forza, cosa

      che la natura non consente nemmeno alle fiere di ignorare? Fate almeno il

      conto del vostro numero e del numero dei vostri avversari. Infatti quanti

      eravate in qualità di clienti intorno a un solo patrono, altrettanti

      adesso sarete contro un solo nemico. Se doveste affrontarli uno contro

      uno, anche così credo che combattereste con maggiore accanimento voi per

      la libertà di quanto non farebbero loro per il potere. Minacciate la

      guerra e avrete la pace. Fatevi vedere che siete pronti a ricorrere alla

      forza, essi rinunceranno ai loro diritti. Bisogna osare qualcosa tutti

      insieme. Oppure dovrete a uno a uno sopportare tutto. Fino a quando

      starete a guardare me? Lo sapete benissimo, io non abbandonerò mai nessuno

      di voi. Ma badate che la buona sorte non abbandoni me. Io, il vostro

      difensore, quando è parso opportuno ai miei nemici, sono stato annientato

      all'improvviso. E voi tutti avete visto trascinare in prigione l'uomo che

      aveva allontanato le catene da ciascuno di voi. Che cosa potrei sperare,

      se i nemici osassero di più nei miei confronti? Una fine come quella di

      Cassio e di Melio? Fate bene a pronunziare scongiuri. «Gli dèi non lo

      permetteranno!». Ma per me non scenderanno mai dall'alto del cielo. Devono

      infondere a voi il coraggio di impedirlo, così come a me hanno dato, in

      pace e in guerra, il coraggio necessario per difendervi dalla barbarie dei

      nemici e dall'arroganza dei concittadini. Questo grande popolo ha così

      poco carattere che per contrastare i vostri nemici continuate ancora ad

      accontentarvi del diritto di ausilio e non conoscete nessun altro tipo di

      lotta contro i patrizi, se non in quali limiti permettere che

      spadroneggino su di voi? Anche questa non è in voi una caratteristica

      congenita, ma vi lasciate dominare per abitudine. Perché, vi domando, con

      i popoli stranieri combattete con tanta animosità da ritenere giusto di

      ridurli in vostro potere? Perché con loro siete abituati da sempre a

      combattere per la supremazia, mentre contro i senatori siete avvezzi a

      combattere più per cercare di ottenere la libertà che per difenderla.

      Tuttavia, qualunque sia stato il valore specifico vostro e degli uomini

      che vi hanno guidato, fino a oggi avete ottenuto, vuoi con la violenza,

      vuoi con l'aiuto della vostra buona stella, tutto ciò che avete voluto. Ma

      ora è tempo di aspirare anche a qualcosa di più grande. Mettete solo alla

      prova la vostra buona sorte e me (che, lo spero, avete già messo alla

      prova con esiti felici). Vi costerà meno fatica imporre ai patrizi

      qualcuno che li comandi di quanta non ve ne sia costata l'imporre qualcuno

      che si opponesse al loro potere. Bisogna fare tabula rasa del consolato e

      della dittatura, perché la plebe di Roma possa alzare la testa. Perciò

      siate pronti: impedite che si pronuncino le sentenze nelle cause per

      debiti. Io mi dichiaro protettore della plebe, titolo del quale sono stato

      investito per il mio zelo e il mio leale attaccamento alla causa: se voi

      deciderete di attribuirne al vostro capo uno più prestigioso per autorità

      e dignità, egli avrà maggiore potere per ottenere ciò che volete.» Fu

      allora, pare, che si cominciò a parlare di monarchia. Ma dalla tradizione

      non risulta molto chiaro né chi fosse implicato nel complotto, né fino a

      che stadio esso fosse stato portato avanti.

      

      19 Dall'altra parte i senatori stavano discutendo di quelle riunioni

      segrete della plebe in una casa privata (una casa che, per puro caso, si

      trovava anche sulla rocca) e del grave pericolo che minacciava la libertà.

      La maggior parte di essi gridava che c'era bisogno di un Servilio Aala,

      che non esasperasse i nemici pubblici mettendoli in prigione, ma che con

      la soppressione di un solo cittadino ponesse fine alla guerra civile. Si

      ricorse tuttavia a una decisione che, pur risultando nei fatti ugualmente

      energica, dava l'impressione di essere più moderata: venne ordinato ai

      magistrati di provvedere che la repubblica non subisse alcun danno dai

      perniciosi progetti di Marco Manlio. Allora i tribuni con potestà

      consolare e i tribuni della plebe (messisi anch'essi a disposizione del

      senato in quanto consci del fatto che la fine della libertà di tutti

      avrebbe coinciso con la fine del loro potere) si consultarono

      collegialmente sulle misure da prendere. Siccome nessuno era in grado di

      suggerire soluzioni che non prevedessero il ricorso alla violenza e al

      sangue - il che avrebbe comportato, evidentemente, uno scontro durissimo

      -, allora i tribuni della plebe Marco Menenio e Quinto Publilio dissero:

      «Perché mai dobbiamo trasformare in uno scontro tra patrizi e plebei

      quello che dovrebbe essere una lotta tra la città e un solo, pericoloso

      cittadino? Perché lo affrontiamo spalleggiati dalla plebe, quando sarebbe

      più sicuro attaccarlo servendoci della plebe stessa per farlo crollare

      schiacciato dalle sue stesse forze? Non c'è nulla di meno popolare che la

      monarchia. Non appena tutta quella gente si renderà conto che non si

      combatte contro di loro, da sostenitori si trasformeranno in giudici:

      quando l'accusa sarà sostenuta da plebei contro un imputato patrizio, e ci

      sarà di mezzo il reato di voler restaurare la monarchia, la plebe penserà

      prima di tutto a difendere la propria libertà.»

      

      20 Tutti approvarono all'unanimità la proposta e decisero di citare Manlio

      in giudizio. L'applicazione di questo provvedimento suscitò commozione tra

      i plebei, specialmente quando essi videro che Manlio era in gramaglie e

      che ad accompagnarlo non solo non c'era nemmeno un senatore ma mancavano

      tanto i parenti e i congiunti quanto addirittura i fratelli Aulo e Tito

      Manlio: non era mai accaduto fino a allora che in simili circostanze i

      parenti più stretti non vestissero a lutto. Quando era finito in carcere

      Appio Claudio, Gaio Claudio, che pure gli era ostile, e tutta la famiglia

      Claudia si erano messi in lutto. C'era, dunque, un accordo per schiacciare

      l'amico del popolo, perché era stato il primo patrizio a passare dalla

      parte della plebe.

      Arrivò il giorno del processo, ma non ho trovato in nessun autore quali

      accuse gli siano state mosse in diretta connessione al reato di tentata

      restaurazione della monarchia, se si eccettuano le riunioni di massa, i

      discorsi sediziosi, le sue elargizioni di denaro e la falsa denunzia.

      Comunque non doveva trattarsi di cose di poco peso, perché la plebe tardò

      a condannarlo non tanto per motivi riguardanti la causa, quanto per il

      luogo dove si teneva il processo. È un particolare che mi sembra degno di

      essere menzionato, perché la gente sappia quali e quanto grandi meriti

      siano diventati odiosi e spregevoli a causa di una vergognosa brama del

      regno. Si dice che Manlio portò di fronte alla corte circa quattrocento

      individui ai quali egli aveva prestato denaro senza pretendere interessi,

      salvando così i loro beni dalla vendita all'asta, e le loro persone dalla

      schiavitù. Inoltre, Manlio non si limitò a richiamare alla memoria le

      proprie glorie militari, ma ne produsse l'evidenza di fronte agli occhi di

      tutti, mostrando addirittura le spoglie di trenta nemici uccisi, e

      quaranta decorazioni ottenute da generali, tra le quali spiccavano due

      corone murali e otto civiche. Come se non bastasse, Manlio avrebbe poi

      citato i concittadini da lui salvati, menzionando all'interno di essi il

      nome del maestro di cavalleria Gaio Servilio che però non era presente al

      processo. E dopo aver ripercorso le proprie gesta militari con un discorso

      magnifico, degno dell'altezza dell'impresa, ponendo sullo stesso piano i

      fatti e le parole, si sarebbe denudato il petto segnato dalle cicatrici

      ricevute in battaglia; poi, guardando fisso il Campidoglio e invocando

      Giove e gli altri dèi, li avrebbe pregati di intervenire in suo aiuto e di

      ispirare - in quel momento tanto critico - nel popolo romano quella stessa

      disposizione d'animo che essi avevano ispirato in lui quando aveva difeso

      la cittadella e il Campidoglio per la salvezza del popolo romano; infine

      si sarebbe rivolto ai singoli e alla comunità tutta, chiedendo loro di

      fissare lo sguardo in direzione del Campidoglio e della rocca e di

      giudicare il suo caso con il pensiero rivolto agli dèi immortali.

      Mentre nel campo Marzio il popolo veniva chiamato a votare per centurie e

      l'imputato, con le mani tese verso il Campidoglio, stava rivolgendo le sue

      preghiere agli dèi dopo averle rivolte agli uomini, ai tribuni apparve

      chiaro che, se non avessero allontanato dagli occhi della gente il ricordo

      di una gloria così grande, le giuste accuse rivolte contro Manlio non

      avrebbero mai fatto presa in animi riconoscenti per il bene ricevuto in

      passato. Così, dopo aver aggiornato la seduta, essi convocarono

      un'assemblea del popolo nel bosco Petelino, fuori dalla porta Flumentana,

      da dove non era possibile vedere il Campidoglio. Lì le accuse risultarono

      efficaci e, facendo forza a se stessi, i cittadini pronunciarono una

      sentenza che risultò dura e dolorosa anche per chi l'aveva emessa. Alcuni

      autori sostengono che Manlio venne condannato da una commissione di

      duumviri nominata per far luce sul reato di alto tradimento. I tribuni lo

      fecero gettare giù dalla rupe Tarpea, e così lo stesso luogo fu per uno

      stesso uomo il ricordo perenne di una straordinaria fama e dell'estremo

      supplizio. Dopo la sua morte, gli furono inflitti due marchi di infamia:

      uno di natura pubblica, perché, siccome la sua casa era dove adesso

      sorgono il tempio e la zecca di Giunone Moneta, fu presentata al popolo

      una legge in base alla quale nessun patrizio potesse più andare ad abitare

      sulla rocca o sul Campidoglio; l'altro fu invece di natura gentilizia,

      perché i membri della famiglia Manlia decretarono che in futuro nessuno

      portasse più il nome di Marco Manlio. Fu questa la fine di un uomo che, se

      non fosse nato in una città libera, avrebbe lasciato traccia duratura di

      sé. E in breve tempo il popolo - dato che adesso Manlio non era più una

      fonte di pericolo - cominciò a rimpiangerlo ricordandone soltanto le

      qualità. Poco dopo scoppiò una pestilenza che causò un numero massiccio di

      decessi per i quali non si riuscivano a trovare ragioni plausibili e che

      alla maggior parte della gente sembravano una conseguenza dell'esecuzione

      di Manlio: si pensava infatti che il Campidoglio fosse stato contaminato

      dal sangue del suo salvatore e che gli dèi non avessero gradito che fosse

      stato punito quasi di fronte ai loro stessi occhi l'uomo che aveva

      strappato i loro templi dalle mani del nemico.

      

      21 Alla pestilenza tenne dietro una carestia di frumento e - quando, nel

      corso dell'anno successivo, si diffuse la notizia delle due calamità

      abbattutesi su Roma - scoppiò una serie di guerre. I tribuni militari con

      potere consolare erano Lucio Valerio (per la quarta volta), Aulo Manlio,

      Servio Sulpicio, Lucio Emilio (tutti e tre per la terza volta), Lucio

      Lucrezio e Marco Trebonio. Fatta eccezione per i Volsci, che parevano

      destinati dalla sorte a tenere in costante attività l'esercito romano,

      oltre le colonie di Circei e di Velletri che stavano ormai da tempo

      meditando la ribellione, e il Lazio di cui si sospettava, si levarono

      all'improvviso come nemici i Lanuvini, che fino a quel momento avevano

      dato prove di assoluta fedeltà. Ritenendo che il motivo di questo

      comportamento fosse il disprezzo (dovuto al fatto che il tradimento dei

      loro concittadini di Velletri era rimasto tanto a lungo impunito), i

      senatori decisero di presentare di fronte al popolo, alla prima occasione

      possibile, la proposta di dichiarare guerra a Lanuvio. Perché la plebe

      fosse meglio disposta nei confronti di questa campagna, essi affidarono a

      cinque commissari il cómpito di dividere l'agro Pontino e ad altri tre

      quello di fondare una colonia a Nepi. Poi venne chiesto al popolo di

      dichiarare la guerra e fu vana l'opposizione da parte dei tribuni: tutte

      le tribù votarono a favore. La guerra venne preparata nel corso di

      quell'anno, ma a causa della pestilenza le truppe non lasciarono Roma.

      Questo ritardo avrebbe così concesso ai coloni l'opportunità di supplicare

      il senato di desistere. Buona parte di essi era favorevole all'invio di

      una delegazione a Roma con il cómpito di implorare il perdono del senato:

      ma, come succede di solito, il pericolo cui erano esposti pochi,

      personalmente, coinvolse la comunità: i responsabili della rivolta -

      spaventati all'idea di risultare gli unici colpevoli e di venir consegnati

      come capro espiatorio all'ira dei Romani - convinsero i coloni ad

      abbandonare il progetto di pace. E non si limitarono esclusivamente ad

      opporsi nel loro senato all'idea della delegazione, ma incitarono buona

      parte del popolo a uscire dalla città e ad andare a razziare le campagne

      romane. Questo nuovo affronto fece cadere ogni speranza di pace. Nel corso

      di quell'anno cominciarono ad arrivare voci di una ribellione da parte

      degli abitanti di Preneste. Non ostante Tuscolani, Gabini e Labicani, i

      cui territori erano stato invasi dai Prenestini, li accusassero

      apertamente, la reazione del senato fu così moderata da far pensare che si

      credeva poco a simili accuse e non si voleva ritenerle vere.

      

      22 L'anno seguente i nuovi tribuni militari con potestà consolare Spurio e

      Lucio Papirio guidarono le legioni contro Velletri, mentre i loro quattro

      colleghi Servio Cornelio Maluginense (eletto per la terza volta), Quinto

      Servilio, Gaio Sulpicio e Lucio Emilio (per la terza volta) rimasero a

      difendere la città, pronti all'eventualità che nuovi movimenti venissero

      segnalati dall'Etruria, zona dove ormai tutto era sospetto. Nei pressi di

      Velletri i Romani affrontarono, con successo, truppe ausiliarie mandate

      dai Prenestini, il numero delle quali quasi era superiore a quello degli

      stessi coloni. La vicinanza della città fu la causa di una più rapida fuga

      dei nemici e fu per loro l'unico riparo. I tribuni decisero di evitare

      l'assedio della piazzaforte sia per l'incertezza dell'esito sia nella

      convinzione che non fosse giusto mirare alla distruzione di una colonia.

      Nella lettera che fecero pervenire al senato per annunciare la vittoria,

      essi usarono espressioni di maggiore durezza nei confronti dei Prenestini

      che dei Veliterni. Così, per decreto del senato e per ordine del popolo,

      venne dichiarata guerra ai Prenestini. Questi ultimi, alleatisi l'anno

      successivo con i Volsci, attaccarono Satrico, colonia del popolo romano,

      e, dopo averla espugnata con la forza non ostante la strenua resistenza

      degli abitanti, abusarono della vittoria comportandosi indegnamente nei

      confronti dei prigionieri. La cosa indignò i Romani che decisero di

      nominare per la sesta volta tribuno militare Marco Furio Camillo, cui

      vennero assegnati come colleghi Aulo e Lucio Postumio Regillense, Lucio

      Furio, Lucio Lucrezio e Marco Fabio Ambusto. Senza rispettare la regola,

      la guerra contro i Volsci venne affidata con procedura straordinaria a

      Marco Furio, cui fu assegnato come aiutante - estratto a sorte tra gli

      altri tribuni - Lucio Furio, non tanto per il bene del paese quanto

      piuttosto perché potesse essere origine di ogni tipo di elogio per il

      collega sia dal punto di vista pubblico, visto che riuscì a rimettere in

      piedi la situazione compromessa dalla temerarietà dell'altro, che da

      quello privato, perché utilizzò l'errore di Lucio per ottenerne la

      riconoscenza piuttosto che procurarsi della gloria per se stesso. Camillo,

      ormai avanti negli anni, era pronto, al momento dell'elezione, a giurare

      secondo le formule di rito che ragioni di salute lo obbligavano a

      rifiutare la carica: ma il popolo, unanimemente, si oppose. In quel petto

      fervido albergava un carattere energico e le sue facoltà vitali erano

      perfettamente intatte. Oltretutto, pur non occupandosi più molto di

      politica, le cose della guerra lo infiammavano ancora. Così, dopo aver

      arruolato quattro legioni di quattromila uomini ciascuna, le convocò per

      il giorno successivo presso la porta Esquilina e quindi partì alla volta

      di Satrico. Lì quelli che avevano espugnato la colonia lo stavano

      aspettando senza il minimo timore reverenziale, fiduciosi com'erano nella

      netta superiorità numerica che vantavano. Non appena videro i Romani

      avanzare verso di loro, si schierarono súbito in assetto di battaglia,

      decisi a non rimandare più oltre uno scontro decisivo. Così facendo essi

      ritenevano che il numero ridotto dei nemici non avrebbe trovato alcun

      supporto nell'abilità militare del loro generale, che al momento ne

      rappresentava il solo punto di forza.

      

      23 Lo stesso ardore animava l'esercito romano e il secondo comandante, e

      le sole cose che ritardassero il rischio di uno scontro immediato erano

      l'assennatezza e l'autorità di un unico uomo, che, sforzandosi di

      prolungare la campagna, cercava l'occasione per supplire all'inferiorità

      delle forze con qualche mossa tattica. Per questo il nemico aumentava

      ancora di più la pressione e non si limitava soltanto a spiegare le truppe

      di fronte all'accampamento, ma avanzava anche in mezzo alla pianura e si

      spingeva quasi fino sotto il terrapieno dei romani, ostentando

      un'orgogliosa fiducia nelle proprie forze. I soldati romani mal

      tolleravano queste esibizioni, ma la cosa costava ancora più fatica al

      secondo comandante, Lucio Furio, uomo impetuoso per ragioni di età e di

      carattere, ed esaltato dalla speranza della massa, cui la grande

      incertezza della situazione infondeva coraggio. Anche se i soldati erano

      già di per sé infiammati, egli li sobillava screditando il prestigio del

      collega nell'unico modo possibile, e cioè sul piano dell'età. Continuava

      infatti a ripetere che le guerre sono fatte per i giovani e che gli animi

      prendono vigore e sfioriscono con il corpo. Il più accanito dei

      combattenti si stava trasformando in un temporeggiatore, uno solito in

      passato a impadronirsi al primo assalto degli accampamenti e delle città

      presso le quali arrivava, adesso se ne stava a perder tempo, inerte,

      dentro al vallo. Cosa sperava? Di accrescere le proprie forze o che

      diminuissero quelle nemiche? Quale occasione propizia, quale momento

      favorevole stava attendendo, e quale imboscata stava preparando? Le idee

      del vecchio erano fredde e lente. Camillo aveva avuto lunga vita e gloria:

      ma allora perché permettere che le forze di un paese destinato

      all'immortalità deperissero insieme col corpo mortale di un unico uomo?

      Dopo essersi conquistato con discorsi di questo tipo la simpatia di tutto

      l'accampamento, e poiché da ogni parte si invocava la battaglia, Lucio

      Furio aggiunse: «Non possiamo, o Marco Furio, frenare più a lungo

      l'entusiasmo dei soldati, mentre il nemico, di cui abbiamo incrementato il

      coraggio a forza di indugiare, ormai ci offende con un'intollerabile

      arroganza. Fatti da parte, visto che sei solo contro tutti, e lasciati

      vincere dal buon senso, in modo da vincere più rapidamente in guerra.» A

      queste parole Camillo replicò che nelle guerre combattute fino a quel

      giorno sotto i suoi soli auspici, né il popolo romano né lui stesso si

      erano mai pentiti delle sue risoluzioni o della sua buona sorte; sapeva di

      avere ora un collega con pari diritti e autorità, ma superiore per il

      vigore dovuto alla giovane età. Perciò, pur essendo abituato - almeno in

      ciò che riguardava l'esercito - a comandare e non a essere comandato, non

      aveva il potere di ostacolare l'autorità del collega. Agisse, dunque, con

      l'aiuto degli dèi, come riteneva più vantaggioso per la repubblica: egli,

      per parte sua, domandava di non andare in prima linea in considerazione

      dell'età, garantendo però che non sarebbe venuto meno agli obblighi di un

      anziano in guerra. Agli dèi immortali chiedeva solo questo: che un

      disgraziato caso non facesse rimpiangere i suoi piani.

      Ma né gli uomini dettero ascolto a queste parole di salvezza, né gli dèi

      esaudirono una preghiera così pia. Il fautore dello scontro schierò la

      prima linea, mentre Camillo assicurò la copertura delle retrovie,

      disponendo un solido contingente di fronte all'accampamento. Poi si andò a

      piazzare su un'altura, osservando con attenzione i risultati dell'altrui

      strategia.

      

      24 Appena risuonarono al primo scontro le armi, i nemici indietreggiarono,

      non tanto per paura quanto per una calcolata astuzia. Alle loro spalle

      c'era un lieve rialzo del terreno tra il campo di battaglia e

      l'accampamento. Siccome avevano uomini in eccesso, avevano schierato nell'

      accampamento alcune coorti armate, il cui cómpito sarebbe stato quello di

      uscire allo scoperto nel caso in cui, a battaglia già in pieno

      svolgimento, i nemici si fossero avvicinati alla trincea. I Romani,

      essendosi buttati in maniera disordinata all'inseguimento dei nemici in

      ritirata, vennero attirati in una posizione svantaggiosa, esponendosi così

      a quel tipo di sortita. Il terrore investì chi si credeva vincitore: sia

      per la comparsa del nuovo nemico, sia per il declivio del fondovalle, la

      schiera romana cominciò a cedere, incalzata dalle forze fresche dei Volsci

      che avevano operato la sortita, alle quali si andarono ad aggiungere di

      rincalzo anche gli altri che si erano ritirati simulando la fuga. I

      soldati romani non riuscivano più a riprendersi. Dimentichi della baldanza

      di poco prima e delle antiche glorie, volgevano le spalle da ogni parte e

      correvano all'impazzata in direzione dell'accampamento. In quel preciso

      istante Camillo, fattosi mettere in sella da quelli che gli stavano

      intorno, dopo aver buttato frettolosamente nella mischia i riservisti ai

      suoi ordini: «È questo,» gridò, «soldati, il tipo di battaglia che

      volevate? C'è qualcuno tra gli uomini, tra gli dèi che ora possiate

      accusare? Vostra è stata la temerarietà di prima, così come vostra è

      adesso la viltà. Avete seguito un altro comandante: ora seguite Camillo e,

      com'è vostra abitudine quando sono io al comando, vincete. Perché fissate

      la trincea e l'accampamento? Nessuno di voi ci entrerà, se non da

      vincitore.»

      Prima la vergogna arrestò le truppe in fuga. Poi, quando videro che gli

      stendardi si rivolgevano in avanti e che le schiere puntavano contro il

      nemico, e che il loro comandante, famoso per i molti trionfi ottenuti e

      venerando per età, si esponeva al pericolo in mezzo ai vessilliferi, cioè

      là dove il rischio e l'intensità della battaglia erano elevatissimi,

      cominciarono a incitarsi reciprocamente, e il grido di mutuo

      incoraggiamento si diffuse per tutto l'esercito con animoso clamore. Non

      venne a mancare l'apporto neppure dell'altro tribuno. Anzi, inviato a

      incitare la cavalleria dal collega impegnato nel frattempo a riordinare la

      fanteria, Lucio Furio, senza ricorrere ai rimproveri - visto che la sua

      corresponsabilità nella loro colpa avrebbe privato di efficacia un

      atteggiamento di quel tipo -, ma passando dagli ordini alle preghiere, li

      scongiurò uno per uno e tutti insieme di evitargli l'incriminazione come

      responsabile dell'infausta sorte di quel giorno. «Non ostante», disse,

      «l'opposizione e la resistenza del mio collega, ho preferito associarmi

      all'imprudenza di tutti piuttosto che all'assennatezza di un solo uomo.

      Camillo, qualunque sia l'esito della vostra battaglia, ne avrà gloria. Io

      invece, se la situazione non si ristabilisce, avrò modo di sperimentare

      quanto di più infelice vi può essere, e cioè dividere con voi tutti la

      sconfitta, ma subire da solo il peso dell'infamia.» Siccome la linea del

      fronte ondeggiava, sembrò che la cosa più opportuna fosse abbandonare i

      cavalli e attaccare il nemico a piedi. Rifulgendo per le armi e il

      coraggio, i cavalieri appiedati si diressero dove le schiere di fanti

      erano sottoposte alla massima pressione. Né i comandanti né i soldati si

      concessero un attimo di tregua in quello scontro durissimo, e l'apporto

      offerto dai loro sforzi valorosi si fece sentire nell'esito finale. I

      Volsci vennero sbaragliati e costretti a una vera fuga in quel punto dove

      prima avevano finto di ritirarsi per paura. Gran parte di essi fu uccisa

      sia nel corso della battaglia, sia durante la successiva fuga. Gli altri

      vennero ammazzati nell'accampamento, conquistato a séguito di quella

      stessa carica. Tuttavia il numero dei prigionieri superò quello dei

caduti.

      

      25 Durante la rassegna alcuni prigionieri vennero riconosciuti come

      Tuscolani: furono separati dagli altri e condotti di fronte ai tribuni,

      alle cui domande risposero di aver preso parte a quella guerra a séguito

      di una deliberazione pubblica. Preoccupato da una guerra con una

      popolazione così vicina, Camillo dichiarò che avrebbe immediatamente

      portato i prigionieri a Roma, affinché i senatori venissero informati che

      i Tuscolani avevano rotto l'alleanza. Nel frattempo il collega, se non

      aveva nulla in contrario, assumesse il comando dell'accampamento e

      dell'esercito. Un solo giorno era bastato per insegnare a Lucio Furio a

      non anteporre la propria decisione a progetti più assennati. Tuttavia né

      lui né nessun altro all'interno dell'esercito supponeva che Camillo gli

      avrebbe tranquillamente lasciato passare l'errore per cui il paese si era

      trovato in una situazione tanto disperata. E non solo nell'esercito, ma

      anche a Roma tutti erano d'accordo nell'affermare che, nella varia fortuna

      dell'azione contro i Volsci, la colpa dell'insuccesso momentaneo e della

      fuga era di Lucio Furio, mentre l'intero merito per la vittoria toccava a

      Camillo. Ma quando i prigionieri vennero introdotti in senato e i

      senatori, dopo aver deciso di punire i Tuscolani con la guerra, ne

      affidarono il comando a Camillo, questi chiese di poter avere un

      collaboratore per quell'impresa, ed essendogli stato concesso di scegliere

      il collega che preferiva, contro le previsioni di tutti egli optò per

      Lucio Furio. E se con questo gesto di moderazione Camillo cancellò il

      disonore del collega, nel contempo procurò a se stesso grande gloria.

      Ma coi Tuscolani non si arrivò alla guerra: grazie a una condotta

      stabilmente pacifica, essi evitarono la violenza dei Romani a cui non

      avrebbero potuto resistere con le armi. Quando i Romani fecero ingresso

      nel loro territorio, essi non fuggirono dalle zone vicine alla direzione

      di marcia, non interruppero i lavori nei campi, e lasciando aperte le

      porte della città, andarono incontro ai comandanti in gran folla e vestiti

      in abiti civili. Dalla città e dalle campagne vennero generosamente

      portati nell'accampamento viveri per l'esercito. Posto il campo di fronte

      alle porte, Camillo, desiderando sapere se anche all'interno delle mura

      appariva la stessa aria di pace che si ostentava nelle campagne, entrò in

      città. Lì vide le porte delle case spalancate, le botteghe aperte, con

      tutta la mercanzia bene in vista, gli artigiani impegnati ciascuno nel

      proprio lavoro, le scuole che risuonavano per le voci degli scolari, le

      strade piene di gente con donne e bambini mescolati tra la folla e diretti

      là dove i rispettivi impegni li chiamavano, il tutto senza avvertire da

      nessuna parte non solo alcun segno di paura ma nemmeno di stupore. Camillo

      si guardava intorno con attenzione, cercando di scoprire le tracce

      tangibili di una guerra imminente. Ma non c'era alcun segno di cose

      spostate o preparate per l'occasione. Anzi tutto era così immerso in una

      quiete pacifica e costante, che sembrava impossibile vi fosse anche solo

      arrivata una qualche notizia della guerra.

      

      26 Vinto così dall'atteggiamento passivo dei nemici, ordinò che venisse

      convocata una seduta del loro senato. «Cittadini di Tuscolo,» disse, «fino

      a oggi voi siete stati i soli ad aver scoperto quali siano le vere armi e

      le vere risorse con cui proteggere le vostre cose dall'ira dei Romani.

      Andate a Roma e presentatevi al senato: i senatori valuteranno se abbiate

      meritato più la punizione in passato che non il perdono adesso. Io non

      voglio anticipare un beneficio che dev'essere concesso dallo Stato. Ciò

      che potrete avere da me è l'opportunità di chiedere perdono al senato, che

      si riserverà di esaudire le vostre preghiere nella maniera che gli

      sembrerà più opportuna.»

      Quando i Tuscolani arrivarono a Roma e i senatori di un popolo un tempo

      alleato fedele si presentarono mesti nell'ingresso della curia, i membri

      del senato, colpiti da quella vista, ordinarono di farli entrare

      immediatamente più come ospiti che come nemici. Il dittatore di Tuscolo si

      rivolse a loro con queste parole: «Noi, ai quali voi avete dichiarato e

      portato guerra, o padri coscritti, siamo andati incontro alle vostre

      legioni e ai vostri comandanti con le stesse armi e la stessa preparazione

      con le quali adesso ci vedete qui in piedi nel vestibolo della vostra

      curia. Questa è sempre stata e continuerà a essere la caratteristica

      nostra e del nostro popolo, salvo i casi in cui si prendano le armi su

      vostra richiesta e in vostra difesa. Ringraziamo i vostri comandanti e le

      vostre truppe per essersi fidati più degli occhi che delle orecchie, e per

      non aver dimostrato ostilità là dove non ce n'era nei loro stessi

      confronti. A voi chiediamo quella pace di cui noi abbiamo dato prova. La

      guerra vi preghiamo di rivolgerla là dove ci sia. Se è destino che a noi

      tocchi sperimentare ciò di cui sono capaci le vostre armi, allora lo

      sperimenteremo da disarmati. Queste sono le nostre intenzioni, e vogliano

      gli dèi ch'esse siano tanto fortunate quanto sincere. Per quel che poi

      concerne le accuse che vi hanno spinto a dichiararci guerra, pur non

      servendo a nulla confutare a parole ciò che i fatti hanno già smentito,

      tuttavia, anche se fossero state vere, siamo dell'avviso che, di fronte a

      un pentimento tanto evidente quanto il nostro, non sarebbe pericoloso

      dichiararsi colpevoli. Si commettano pure delle mancanze nei vostri

      confronti, purché continuate a esser degni di ricevere richieste di

      perdono quali la nostra.» Il discorso dei Tuscolani fu più o meno di

      questo tenore. Per il momento venne loro garantita la pace, mentre non

      molto tempo dopo ottennero anche la cittadinanza. Le legioni vennero

      richiamate da Tuscolo.

      

      27 Camillo, copertosi di gloria sia per il coraggio e il senno dimostrati

      nella guerra contro i Volsci nonché il fortunato esito della spedizione

      contro Tuscolo, sia per l'indulgenza e la moderazione avute nei confronti

      del collega in entrambe le occasioni, abbandonò la propria carica quando

      vennero eletti tribuni militari per l'anno successivo Lucio e Publio

      Valerio (il primo per la quinta e il secondo per la terza volta), Gneo

      Sergio (per la terza volta), Licinio Menenio, Publio Papirio e Servio

      Cornelio Maluginense. Quell'anno si rese anche necessaria l'opera dei

      censori, soprattutto sulla base di incerte voci circolanti sull'entità dei

      debiti, con i tribuni della plebe che esageravano per accrescere il

      malcontento, mentre la sminuiva chi aveva interesse a far sembrare la

      concessione di prestiti messa in pericolo più dalla scarsa affidabilità

      dei debitori che dalla loro indigenza. Vennero eletti censori Gaio

      Sulpicio Camerino e Spurio Postumio Regillense, ma il censimento già

      iniziato venne interrotto per la morte di Postumio, perché gli scrupoli

      religiosi vietavano di nominare un collega in sostituzione. Così, avendo

      Sulpicio rinunziato alla carica, vennero eletti dei nuovi censori, ma

      essendoci un vizio nell'elezione, non entrarono in funzione. Gli scrupoli

      religiosi, fondati sulla convinzione che gli dèi non volessero la censura

      per quell'anno, impedirono una terza elezione. Ma i tribuni della plebe

      sostenevano di non poter tollerare che li si prendesse in giro in quella

      maniera. A loro detta, il senato voleva evitare che le tavole esposte in

      pubblico documentassero il censo individuale, per impedire così che si

      venisse a conoscenza dell'ammontare del debito, cosa questa destinata a

      dimostrare come metà del paese fosse stata affossata dall'altra metà,

      mentre la plebe oberata dai debiti veniva nel frattempo mandata allo

      sbaraglio contro un nemico dopo l'altro. Ormai non c'era più alcun limite

      nel ricercare focolai di guerra dappertutto: da Anzio le legioni erano

      state condotte a Satrico, da Satrico a Velletri e di lì a Tuscolo. Adesso

      minacciavano di guerra i Latini, gli Ernici e i Prenestini più per odio

      verso i cittadini romani che verso i nemici, nell'intento di logorare i

      plebei con campagne militari impedendo loro di tirare il fiato in città o

      di pensare con calma alla libertà, o ancora di partecipare alle assemblee

      popolari, dove ogni tanto potessero sentire la voce dei tribuni che

      reclamavano l'abolizione dell'usura e la fine delle altre ingiustizie

      perpetrate nei loro confronti. Ma se i plebei fossero stati in grado di

      ricordarsi della libertà dei padri, non avrebbero permesso che alcun

      cittadino romano fosse aggiudicato come schiavo per motivi di denaro preso

      in prestito, né che venissero organizzate leve militari fino a quando,

      accertato l'importo dei debiti e adottato qualche criterio per diminuirlo,

      ciascuno non sapesse cosa apparteneva a lui e cosa agli altri, e se la sua

      persona era ancora libera o se anche essa risultava destinata al carcere.

      Il premio proposto per i disordini li fece scoppiare immediatamente.

      Infatti, mentre erano molti i debitori assegnati come schiavi, e mentre i

      senatori avevano votato l'arruolamento di nuove legioni sulla base di voci

      circa una guerra da parte di Preneste, si cercò di ostacolare

      contemporaneamente questi due provvedimenti con l'aiuto dei tribuni e il

      consenso della plebe: i tribuni infatti non permettevano che i debitori

      insolventi venissero trascinati via, e i più giovani non andavano a

      arruolarsi. Anche se i senatori si preoccupavano per il momento meno di

      far valere la legge sul debito che non della leva militare - e non a

      torto, visto che stando alle notizie pervenute i nemici erano già partiti

      da Preneste e si erano accampati nel territorio di Gabi -, questa stessa

      voce era stata per i tribuni della plebe più un incentivo per la lotta

      intrapresa che un vero deterrente; perché i disordini scoppiati in città

      si placassero fu necessario che la guerra arrivasse a pochi passi dalle

      mura stesse di Roma.

      

      28 Non appena i Prenestini vennero informati che a Roma non era stato

      arruolato alcun esercito, che non era stato designato un comandante e che

      patrizi e plebei erano in lotta gli uni contro gli altri, i loro capi ne

      dedussero che si trattava dell'occasione buona e, dopo aver messo

      rapidamente in movimento le truppe, devastarono le campagne incontrate

      durante la marcia di avvicinamento e avanzarono fino alla porta Collina.

      Grande fu il panico in città. Venne dato l'allarme e si corse verso le

      mura e le porte. Poi, passati finalmente dai disordini interni ad

      occuparsi della guerra, elessero dittatore Tito Quinzio Cincinnato, che

      scelse come maestro di cavalleria Aulo Sempronio Atratino. Appena la

      notizia si diffuse - tanto era il terrore che questa magistratura riusciva

      a incutere -, immediatamente i nemici si allontanarono dalle mura e i

      giovani romani in età militare risposero alla leva senza più opporre

      resistenza.

      Mentre a Roma veniva arruolato l'esercito, i nemici si andarono ad

      accampare non lontano dal fiume Allia. Da quel punto saccheggiando in

      lungo e in largo le campagne dei dintorni, si vantavano fra di loro di

      aver occupato una posizione fatale alla città di Roma: a loro detta lì ci

      sarebbe stata un'altra rotta spaventosa, simile a quella verificatasi

      durante la guerra contro i Galli. Se infatti i Romani temevano quel giorno

      maledetto e reso celebre dal nome della località, quanto più del giorno

      Alliense avrebbero essi temuto l'Allia stesso, che era il ricordo

      tangibile di una così grande disfatta? Erano sicuri che in quel luogo i

      Romani si sarebbero visti davanti agli occhi i volti truci dei Galli e ne

      avrebbero riudito le urla con le orecchie. A forza di perdersi in queste

      vacue riflessioni su vacui argomenti, i Prenestini avevano riposto ogni

      loro speranza nella fortuna del luogo. I Romani al contrario avevano

      l'assoluta certezza che, dovunque si trovasse il nemico latino, si

      trattava pur sempre di quello stesso nemico battuto presso il lago Regillo

      e costretto a una disonorevole pace per un periodo di cent'anni. Un luogo

      la cui fama era legata al ricordo di una disfatta li avrebbe stimolati a

      cancellare la memoria di quella vergogna, piuttosto che a temere

      l'esistenza di un qualche infausto terreno che negava la vittoria ai

      Romani. Non c'erano dubbi: se anche i Galli stessi si fossero presentati

      lì, avrebbero combattuto come quando avevano combattuto a Roma per

      riconquistare la patria o come il giorno successivo a Gabi, quando avevano

      fatto in modo che nessun nemico entrato all'interno delle mura di Roma

      potesse riportare in patria la notizia della buona e della cattiva sorte.

      

      29 Gli stati d'animo delle due parti erano questi, quando si giunse

      all'Allia. Il dittatore romano, non appena apparvero alla vista i nemici

      inquadrati in ordine di battaglia e pronti a combattere, disse: «Non vedi,

      Aulo Sempronio, che si sono fermati lungo l'Allia riponendo ogni loro

      speranza nella fortuna del luogo? Ma gli dèi immortali non concedano loro

      nessun altro più sicuro motivo di sicurezza né un aiuto più valido di

      questo! Tu confida invece nelle armi e nel valore, e carica con la

      cavalleria il centro del loro schieramento. Quanto a me, li attaccherò

      quando saranno sconvolti e spaventati. O dèi, testimoni dei patti,

      assisteteci e fate scontare la pena dovuta a coloro che hanno offeso

      empiamente voi e ingannato noi nel vostro sacro nome.» I Prenestini non

      riuscirono a reggere l'urto né della cavalleria né della fanteria. Le loro

      file vennero sbaragliate al primo scontro accompagnato dall'urlo di

      guerra. Poi, visto che il loro schieramento cedeva in ogni punto, si

      voltarono dandosi alla fuga. Nello scompiglio lo spavento li spinse a

      superare addirittura l'accampamento e non riuscirono a frenare la loro

      corsa disordinata se non quando giunsero alla vista di Preneste. Lì i

      resti sparpagliati della rotta occuparono una posizione con l'intento di

      fortificarla in fretta e furia, per evitare che, andandosi a barricare

      all'interno delle mura, le campagne venissero messe a ferro e fuoco e che

      dopo aver devastato ogni cosa, i Romani assediassero la città. Ma appena

      apparvero i Romani reduci dalla distruzione dell'accampamento nemico

      presso l'Allia, i Prenestini abbandonarono anche quella posizione e,

      convinti che le mura garantissero ben poca protezione, si barricarono

      all'interno della cittadella. Altre otto città si trovavano sotto il

      dominio di Preneste. I Romani allargarono la guerra contro questi centri

      e, dopo averli conquistati uno dopo l'altro senza eccessivi sforzi,

      marciarono contro Velletri e la conquistarono nella stessa maniera. Fu

      allora che tornarono a Preneste, vero centro del conflitto, conquistandola

      però non con la forza ma a séguito di volontaria capitolazione. Tito

      Quinzio, dopo aver trionfato in una battaglia campale, catturato due

      accampamenti nemici, conquistato con la forza nove città, e accettato la

      resa di Preneste, ritornò a Roma, dove portò in trionfo sul Campidoglio la

      statua di Giove Imperatore da lui sottratta a Preneste e che fu collocata

      all'interno del tempio, tra le celle di Giove e di Minerva. Al di sotto

      della statua venne poi affissa una tavoletta che a commemorazione delle

      sue gesta recava un'iscrizione contenente più o meno queste parole: «Giove

      e tutti gli altri dèi concessero al dittatore Tito Quinzio di conquistare

      nove città». A venti giorni di distanza dall'elezione, egli rinunciò alla

      dittatura.

      

      30 Si tennero poi le elezioni dei tribuni militari con potestà consolare,

      nelle quali patrizi e plebei ebbero un numero uguale di eletti. Tra i

      patrizi ottennero la nomina Publio e Gaio Manlio insieme a Lucio Giulio;

      la plebe fornì invece come magistrati Gaio Sestilio, Marco Albinio e Lucio

      Antistio. I due Manli erano superiori ai colleghi plebei per nobiltà di

      natali e a Lucio Giulio per autorevolezza. Così, con una procedura

      straordinaria, venne loro affidata la campagna contro i Volsci, senza fare

      ricorso al sorteggio o all'accordo preventivo tra i colleghi (assegnazione

      questa di cui in séguito si dovettero pentire sia loro stessi sia i

      senatori che l'avevano concessa). Essi inviarono delle coorti a fare

      rifornimento di foraggio senza però aver prima effettuato delle

      ricognizioni. Giunta la falsa notizia che le coorti erano state

      accerchiate, si affrettarono a portare loro aiuto, e, senza nemmeno tener

      sotto sorveglianza l'informatore (si trattava di un nemico latino che li

      aveva ingannati facendosi passare per un soldato romano), caddero in

      un'imboscata. Mentre lì, resistendo, anche se attestati in una posizione

      svantaggiosa, grazie al solo coraggio degli uomini, subivano grosse

      perdite ma ne infliggevano altrettante, dalla parte opposta i nemici

      attaccarono l'accampamento romano situato in pianura. Nell'uno e

      nell'altro episodio, la causa romana venne tradita dall'avventatezza e

      dall'inesperienza dei comandanti. Ciò che restava della buona sorte del

      popolo romano, venne salvato dal sicuro valore dei soldati che

      continuavano a battersi non ostante fossero privi di una guida. Non appena

      giunse a Roma la notizia di questi avvenimenti, la prima reazione fu

      quella di nominare un dittatore. Poi però, quando si venne a sapere che

      nel territorio dei Volsci la situazione era sotto controllo e risultò

      evidente che il nemico non aveva saputo sfruttare la vittoria e

      l'occasione favorevole, vennero richiamate le truppe e i comandanti che si

      trovavano in quella zona e da qual momento in poi non ci furono più

      problemi almeno per quel che riguardava i Volsci. L'unico motivo di

      allarme - verso la fine dell'anno - fu rappresentato da una ribellione dei

      Prenestini che spinsero i popoli latini alla rivolta.

      Nel corso di quello stesso anno vennero iscritti dei nuovi coloni per la

      città di Sezia, visto che i suoi abitanti si lamentavano della penuria di

      popolazione. Gli insuccessi in campo militare vennero compensati dalla

      pace interna, ottenuta grazie all'influenza e al prestigio di cui i

      tribuni militari plebei godevano presso la plebe.

      

      31 All'inizio dell'anno successivo, sotto il tribunato militare di Spurio

      Furio, Quinto Servilio (per la seconda volta), Lucio Menenio (per la

      terza), Publio Clelio, Marco Orazio e Lucio Geganio, scoppiarono gravi

      disordini, il cui oggetto e la cui causa erano rappresentati dai debiti.

      Spurio Servilio Prisco e Quinto Clelio Siculo vennero nominati censori per

      poterne accertare l'entità, ma la guerra impedì loro di accingersi al

      cómpito. Infatti prima dei messaggeri spaventati, poi i villici in fuga

      dalle campagne riferirono che le legioni dei Volsci avevano superato il

      confine e stavano dovunque mettendo a ferro e fuoco la campagna romana.

      Non ostante questa situazione d'allarme, la minaccia proveniente

      dall'esterno fu tanto lontana dal frenare gli scontri interni, che al

      contrario i tribuni della plebe ostacolarono la leva con ancora maggiore

      determinazione, fino a quando furono imposte ai patrizi queste condizioni,

      che per tutta la durata del conflitto nessuno avrebbe pagato il tributo di

      guerra né avrebbe potuto essere processato per questioni di debiti

      contratti. Dopo aver ottenuto per la plebe queste concessioni, cessò

      l'ostruzionismo alla leva. Una volta arruolate le nuove legioni, si decise

      di inviare due eserciti nel territorio dei Volsci, dividendo però le

      forze: Spurio Furio e Marco Orazio marciarono verso destra, in direzione

      della costa e di Anzio, mentre Quinto Servilio e Lucio Geganio si

      portarono a sinistra, verso le montagne ed Ecetra. In nessuna delle due

      parti il nemico si fece incontro. Pertanto si buttarono a saccheggiare le

      campagne, ma non in fretta e disordinatamente, da banditi, come avevano

      fatto i Volsci, i quali contavano sulle discordie degli avversari, ma ne

      temevano il valore, bensì come un esercito legittimo, mosso da ira

      legittima e più devastante negli effetti per il fatto di impiegare più

      tempo nell'operazione. Infatti i Volsci avevano fatto scorrerie al limite

      estremo del territorio romano, per paura che nel frattempo l'esercito

      avversario potesse uscire da Roma. Al contrario i Romani si trattenevano

      in territorio nemico per attirare i Volsci allo scontro. Così, dopo aver

      incendiato tutte le fattorie sparse nei campi e anche alcuni villaggi,

      senza lasciare in piedi nemmeno un albero da frutto e distruggendo i

      seminati che ancora potessero far sperare nel raccolto, i due eserciti si

      portarono via come bottino tutti gli uomini e gli animali catturati al di

      fuori delle mura e quindi tornarono a Roma.

      

      32 Ai debitori era stato dato un po' di tempo per tirare il fiato. Ma non

      appena cessarono le ostilità, i tribunali cominciarono di nuovo a

      funzionare a pieno ritmo, e la speranza di essere alleggeriti dai vecchi

      debiti era così lontana che se ne dovettero contrarre di nuovi per pagare

      una tassa imposta per la costruzione di un muro di blocchi squadrati,

      opera appaltata dai censori. La plebe fu costretta a piegarsi a questo

      onere fiscale perché i tribuni non avevano alcuna leva militare da

      ostacolare. I nobili, grazie ai loro potenti mezzi, riuscirono a

      costringere il popolo a eleggere tribuni militari tutti patrizi. I loro

      nomi erano: Lucio Emilio, Publio Valerio (eletto per la quarta volta),

      Gaio Veturio, Servio Sulpicio, Lucio e Gaio Quinzio Cincinnato. Sempre

      grazie ai loro mezzi, i patrizi riuscirono - senza che nessuno si

      opponesse - a far prestare giuramento a tutti i giovani in età militare e

      ad arruolare così tre eserciti da opporre a Latini e Volsci che avevano

      unito le proprie truppe e si erano accampati nei pressi di Satrico. Un

      esercito era destinato alla difesa della città. Il secondo doveva tenersi

      pronto per ogni improvvisa emergenza di guerra, nel caso si fossero

      verificati da qualche parte dei movimenti ostili. Il terzo, che era di

      gran lunga il più forte, fu fatto marciare alla volta di Satrico agli

      ordini di Publio Valerio e di Lucio Emilio. Avendo lì trovato il nemico

      schierato a battaglia in un luogo pianeggiante, si venne súbito alle armi.

      E anche se la vittoria non era ancora sicura, ciò non ostante lo scontro

      faceva nutrire buone speranze, quando venne interrotto da violenti scrosci

      di pioggia scatenatisi a séguito di un grosso temporale. Venne ripreso il

      giorno dopo e per qualche tempo soprattutto le legioni latine, abituate

      dalla lunga alleanza alla tecnica militare romana, riuscirono a resistere

      con pari coraggio e fortuna. Ma l'arrivo della cavalleria gettò lo

      scompiglio tra le file nemiche, e nel pieno del disordine ci fu l'attacco

      della fanteria. Non appena le sorti della lotta volsero in loro favore,

      l'impeto dei Romani divenne insostenibile. I nemici, una volta

      sbaragliati, invece di ritirarsi nell'accampamento, cercarono di

      raggiungere Satrico, che distava due miglia da quel punto, e vennero

      massacrati soprattutto dai cavalieri. Il loro accampamento fu preso e

      saccheggiato. Nel corso della notte successiva alla battaglia, i nemici

      raggiunsero Anzio da Satrico con una marcia che assomigliava molto a una

      fuga. E non ostante l'esercito romano seguisse da vicino le loro tracce,

      la paura dimostrò di essere più veloce dell'ira. Così i nemici riuscirono

      a entrare all'interno delle mura prima che i Romani potessero agganciare o

      bloccare la loro retroguardia. Alcuni giorni furono poi dedicati al

      saccheggio delle campagne dei dintorni, perché i Romani non erano

      sufficientemente equipaggiati per attaccare le mura e i nemici per

      affrontare il rischio di una battaglia.

      

      33 Allora tra Anziati e Latini sorse una contesa, perché i primi,

      schiacciati dalle proprie disgrazie e logorati da una guerra che li aveva

      visti nascere e invecchiare, aspiravano alla resa, mentre i secondi,

      ribellatisi di recente dopo un lungo periodo di pace e interiormente

      ancora pieni di energie, erano quanto mai decisi a continuare la guerra

      con accanimento. La contesa terminò quando entrambe le parti si resero

      conto che nessuna delle due parti poteva impedire in alcun modo all'altra

      di attuare le proprie decisioni. I Latini se ne andarono, evitando di

      partecipare a quella che consideravano una pace vergognosa. Gli Anziati,

      invece, una volta liberati da scomodi arbitri dei loro salutari progetti,

      consegnarono la città e le campagne ai Romani. La rabbia e il risentimento

      dei Latini, che non erano riusciti né a danneggiare i Romani con la guerra

      né a convincere i Volsci a restare in armi, esplosero con tale violenza da

      dare alle fiamme Satrico, la città che era stata il loro primo rifugio

      dopo la sconfitta. Siccome lanciarono le loro torce incendiarie senza

      distinzione alcuna tanto sugli edifici profani quanto su quelli sacri, la

      sola costruzione di Satrico che rimase in piedi fu il tempio della Madre

      Matuta. Stando alla leggenda, ciò che li tenne lontani da questo edificio

      non fu né lo scrupolo religioso né la reverenza nei confronti degli dèi,

      ma una voce spaventosa uscita dal tempio che li minacciava di funeste

      conseguenze, nel caso in cui non avessero tenuto il fuoco sacrilego a

      debita distanza dal santuario. Accesi da quella feroce rabbia, i Latini

      rivolsero la propria furia contro Tuscolo e i suoi abitanti, perché dopo

      aver abbandonato la comune unione dei Latini, avevano accettato non solo

      di essere alleati, ma anche cittadini di Roma. Trattandosi di un attacco

      del tutto imprevisto, le porte erano aperte e così, al primo urlo di

      battaglia, la città venne conquistata interamente, tranne la rocca. Lì si

      andarono a rifugiare i cittadini con mogli e figli e di lì inviarono a

      Roma dei messaggeri per informare il senato della loro situazione. Con una

      tempestività degna della lealtà del popolo romano, venne inviato a Tuscolo

      un esercito agli ordini dei tribuni militari Lucio Quinzio e Servio

      Sulpicio. Essi trovarono le porte di Tuscolo chiuse e i Latini

      contemporaneamente nello stato d'animo sia di assediati che di assedianti:

      da un lato proteggevano le mura della città, dall'altro ne assediavano la

      rocca, e insieme minacciavano e temevano. L'arrivo dei Romani aveva

      modificato l'umore di entrambe le parti: i Tuscolani erano passati dalla

      disperazione più totale al culmine della gioia, i Latini, dalla certezza

      quasi assoluta di prender presto la rocca, in quanto si erano già

      impadroniti della città, a una ben scarsa speranza di salvare se stessi.

      Dalla rocca i Tuscolani alzarono un grido di guerra cui fece eco uno

      ancora più forte da parte dell'esercito romano. Pressati da entrambe le

      parti, i Latini non riuscirono né a sostenere la carica dei Tuscolani che

      si abbatterono su di loro calando dall'alto della rocca, né a resistere ai

      Romani che stavano invece scalando le mura e cercando di sfondare le porte

      sbarrate. Prima furono prese le mura, con l'ausilio di scale. Poi furono

      spezzate le sbarre delle porte. Siccome i Latini erano pressati sia alle

      spalle che di fronte e non avevano più forza per combattere né spazio per

      darsi alla fuga, vennero presi nel mezzo e massacrati dal primo

      all'ultimo. Dopo aver strappato Tuscolo al nemico, l'esercito venne

      ricondotto a Roma.

      

      34 Quanto più l'esito favorevole delle guerre di quell'anno aveva

      assicurato la tranquillità esterna, tanto più aumentavano in città giorno

      dopo giorno la violenza dei patrizi e le sofferenze della plebe, poiché

      proprio l'obbligo di pagare i debiti alla scadenza rendeva ancora più

      difficile la possibilità di estinguerli. E così, siccome la gente non

      poteva più far fronte ai pagamenti ricorrendo al proprio patrimonio, i

      debitori dichiarati colpevoli e assegnati ai creditori come schiavi

      soddisfacevano i creditori con la perdita dell'onore e della libertà, e la

      pena aveva rimpiazzato il pagamento. Di conseguenza, non solo le persone

      più umili, ma anche i capi erano così abbattuti e sottomessi che tra di

      loro non c'era più un solo uomo che avesse la determinazione e

      l'intraprendenza necessarie non solo per contendere il tribunato militare

      ai patrizi (privilegio questo per il quale avevano lottato con così tanto

      accanimento), ma anche per aspirare alle magistrature plebee ed esigerle.

      Sembrava che i patrizi avessero ripreso per sempre possesso di una carica

      detenuta dai plebei soltanto per qualche anno.

      Ma a non permettere che esultasse troppo una sola delle due parti, un

      motivo da nulla, come spesso succede, ingenerò conseguenze di grossa

      portata. Le due figlie di Marco Fabio Ambusto, uomo di notevole influenza

      non solo all'interno del proprio gruppo ma anche presso la plebe (i cui

      membri non lo consideravano assolutamente uno che li disprezzava), erano

      andate in moglie la maggiore a Servio Sulpicio, mentre la minore a Gaio

      Licinio Stolone, personaggio molto in vista anche se di estrazione plebea.

      E il fatto stesso che Fabio non avesse disdegnato questa parentela gli

      aveva acquisito il favore del popolo. Per puro caso successe che, mentre

      le sorelle Fabie si trovavano in casa di Servio Sulpicio allora tribuno

      militare e stavano chiacchierando, come spesso succede alle donne, per far

      passare il tempo, un littore di Sulpicio, tornando a casa dal foro, bussò

      alla porta - secondo l'usanza - con la sua verga. Fabia, la minore, che

      non era abituata a quest'usanza, si spaventò, e la sorella scoppiò a

      ridere, sorpresa di questa ignoranza. Ma quella risata, dato che gli stati

      d'animo delle donne si lasciano influenzare da cose da nulla, punse al

      vivo la giovane. Ma forse anche la grande folla che accompagnava il

      tribuno e gli domandava se avesse qualche ordine da dare le fece sembrare

      felice il matrimonio della sorella, portandola a sentirsi scontenta del

      suo, per quell'insana voglia per cui nessuno accetta di essere sorpassato

      dai propri parenti. Un giorno che lei era ancora tormentata per la recente

      offesa al suo orgoglio, il padre che la incontrò per caso le chiese se

      andasse tutto bene. Ma non ostante la ragazza cercasse di nascondere il

      vero motivo del proprio risentimento, considerandolo poco affettuoso nei

      confronti della sorella e non troppo onorevole verso il marito, il padre,

      insistendo con dolcezza, riuscì a farle confessare la causa del suo

      cruccio: essere unita a un uomo di condizione inferiore alla sua, e di

      essersi sposata in una casa dove non potevano entrare né gli onori né il

      prestigio. Cercando di consolare la figlia, Ambusto le consigliò di stare

      di buon animo, garantendole che di lì a poco avrebbe visto nella propria

      casa quegli stessi onori che vedeva dalla sorella. Da quel momento in poi

      cominciò a fare progetti con il genero, introducendo nelle loro riunioni

      anche Lucio Sestio, un giovane di valore le cui aspirazioni erano tarpate

      soltanto dalla mancanza di sangue patrizio.

      

      35 Un'occasione per un rivolgimento politico sembrava rappresentata

      dall'enorme carico di debiti, dal quale la plebe non poteva sperare di

      essere alleviata se non arrivando a collocare suoi rappresentanti nelle

      cariche di massimo prestigio. Era quindi necessario rivolgere i propri

      sforzi in quella direzione. Grazie ai continui sforzi e alle agitazioni, i

      plebei erano già arrivati così in alto che, se solo avessero continuato a

      impegnarsi, potevano raggiungere il vertice ed uguagliare i patrizi sul

      piano degli onori e del potere. Per il momento si decise di eleggere i

      tribuni della plebe, magistratura che avrebbe loro permesso di arrivare

      anche alle altre cariche. Vennero eletti Gaio Licinio e Lucio Sestio, i

      quali proposero solo leggi volte a contrastare l'influenza dei patrizi e a

      favorire gli interessi della plebe. Uno di questi provvedimenti aveva a

      che fare con il problema dei debiti e prescriveva che la somma pagata come

      interesse fosse scalata dal capitale di partenza e che il resto venisse

      saldato in tre rate annuali di uguale entità. Un'altra proposta riguardava

      la limitazione della proprietà terriera, e prevedeva che non si potessero

      possedere più di 500 iugeri pro capite. Una terza proponeva che non si

      eleggessero più tribuni militari e che uno dei due consoli fosse comunque

      eletto dalla plebe. Si trattava, in ciascuno dei casi, di questioni di

      estrema importanza e sarebbe stato difficile ottenere il passaggio di

      leggi del genere senza uno scontro durissimo.

      Siccome tutte le cose che gli esseri umani desiderano nella maniera più

      smodata - e cioè le proprietà terriere, il denaro e il successo politico -

      erano state messe simultaneamente in pericolo, i senatori erano

      allarmatissimi. E dato che nel corso di affannose riunioni pubbliche e

      private non si era arrivati a escogitare nessun altro rimedio al di fuori

      dell'esercizio del veto già sperimentato in molti altri scontri del

      passato, i senatori si assicurarono degli appoggi tra i tribuni, in

      maniera tale che opponessero il loro veto alle proposte dei colleghi.

      Quando questi ultimi videro che Licinio e Sestio chiamavano le tribù al

      voto, protetti dalle guardie del corpo dei patrizi, impedirono sia la

      lettura delle proposte sia lo svolgimento di qualunque altra formalità

      prevista per consultare il volere della plebe. E dopo una serie di inutili

      convocazioni dell'assemblea, essendo praticamente già state respinte le

      proposte avanzate, Sestio disse: «D'accordo. Visto che volete che il

      diritto di veto abbia così tanto potere, sarà proprio quella l'arma che

      noi useremo per difendere la plebe. Avanti, o senatori, bandite pure le

      elezioni per la nomina di tribuni militari: farò in modo che non sia

      motivo di gioia alcuna questa parola "veto" che ora vi dà così tanta

      soddisfazione ascoltare dal coro concorde dei nostri colleghi.» Queste sue

      minacce non furono vane: fatta eccezione per edili e tribuni della plebe,

      non si tenne alcuna elezione. Licinio e Sestio vennero rieletti tribuni

      della plebe e non permisero la nomina di alcun magistrato curule. Questa

      carenza di magistrati andò avanti per cinque anni, poiché la plebe

      continuava a rieleggere i due tribuni e questi ultimi a impedire

      l'elezione di tribuni militari.

      

      36 Fortunatamente non scoppiarono altre guerre. Ma i coloni di Velletri

      sempre più imbaldanziti ora che c'era la pace e non vi era alcun esercito

      romano, effettuarono qualche scorreria nel territorio di Roma, e si

      accinsero ad assediare Tuscolo. Questa circostanza colpì nel vivo non solo

      i patrizi ma anche la plebe, che non se la sentirono di respingere la

      richiesta d'aiuto presentata dai Tuscolani, loro alleati di antica data e

      da poco concittadini. Venuta quindi meno l'opposizione dei tribuni della

      plebe, un interrè presiedette le elezioni, a séguito delle quali

      risultarono nominati tribuni militari Lucio Furio, Aulo Manlio, Servio

      Sulpicio, Servio Cornelio, Publio e Gaio Valerio. Essi trovarono la plebe

      molto meno disponibile nei confronti della leva militare di quanto non

      fosse stata rispetto alle elezioni. Messo insieme un esercito con molte

      difficoltà, partiti da Roma non si limitarono ad allontanare i nemici da

      Tuscolo, ma li costrinsero addirittura a barricarsi all'interno delle

      proprie mura, e Velletri subì un assedio molto più duro di quello toccato

      a Tuscolo. Tuttavia la città non venne espugnata da quegli uomini che ne

      avevano cominciato l'assedio: furono prima eletti dei nuovi tribuni

      militari (e cioè Quinto Servilio, Gaio Veturio, Aulo e Marco Cornelio,

      Quinto Quinzio e Marco Fabio), i quali, a loro volta, non riuscirono a

      compiere nulla di memorabile intorno a Velletri.

      In città la situazione era più critica. Infatti, oltre a Sestio e Licinio

      che avevano avanzato le proposte di legge e che erano in carica per

      l'ottava volta, anche il tribuno militare Fabio, suocero di Stolone,

      sosteneva in maniera accanita quei provvedimenti di cui era stato

      promotore. E anche se all'inizio otto membri del collegio dei tribuni

      della plebe si erano opposti alle proposte di legge, ora erano rimasti

      soltanto in cinque. E questi ultimi, confusi e disorientati come di solito

      succede a chi abbandona la propria fazione, facendosi eco di voci altrui

      giustificavano il proprio veto solo con quanto gli era stato in privato

      imposto di dire: e cioè che gran parte della plebe era assente da Roma

      perché impegnata a Velletri con l'esercito, e che bisognava rinviare le

      assemblee al ritorno dei soldati, in maniera tale che tutta la plebe

      potesse votare in questioni che la riguardavano da vicino. Sesto e

      Licinio, insieme ad alcuni colleghi e al solo Fabio tra i tribuni

      militari, esperti com'erano - dopo tanti anni di pratica - nell'arte di

      manipolare gli animi della plebe, dopo aver chiamato in pubblico i membri

      più eminenti dell'aristocrazia, li assillavano con domande sulle singole

      proposte presentate al popolo: avevano il coraggio di pretendere, quando

      la terra veniva assegnata alla plebe in una proporzione di due iugeri a

      testa, l'autorizzazione a possederne loro stessi più di cinquecento, e che

      a uno solo di loro toccasse la terra di quasi trecento cittadini, mentre a

      un plebeo spettava un appezzamento in cui c'era spazio a malapena per la

      casa o per la tomba? Oppure volevano che i plebei, schiacciati dall'usura,

      abbandonassero i propri corpi alla prigione e alla tortura, invece di

      pagare il debito, e che ogni giorno frotte di debitori condannati alla

      schiavitù venissero trascinate via dal foro, riempiendo così di

      prigionieri in catene le case dei nobili, e trasformando in carcere

      privato ogni dimora patrizia?

      

      37 Dopo aver riprovato questi vergognosi e miserabili soprusi suscitando

      più indignazione in chi li ascoltava (preoccupato per la propria stessa

      sorte) di quanta non ne avessero provata loro parlando, affermavano che i

      patrizi non avrebbero mai smesso di appropriarsi della terra e di

      taglieggiare il popolo con l'usura, se la plebe non nominava un console

      plebeo, che ne tutelasse la libertà. Ormai i tribuni erano disprezzati

      perché con l'arma del veto indebolivano da sé medesimi il proprio potere.

      Non si poteva parlare di uguali diritti là dove gli altri detenevano il

      potere, mentre loro stessi avevano a disposizione soltanto la facoltà di

      opporsi. Fino a quando la plebe non prendeva parte al governo, non avrebbe

      mai goduto di alcun peso nella vita politica. E nessuno poteva ritenere

      sufficiente il fatto che i plebei fossero ammessi come candidati nelle

      elezioni consolari: nessuno di essi avrebbe mai ottenuto la nomina fino a

      quando non fosse stato stabilito per legge che uno dei due consoli dovesse

      comunque essere plebeo. O forse si erano già dimenticati che la nomina dei

      tribuni militari in luogo dei consoli era stata decisa proprio perché

      fosse accessibile anche ai plebei la più alta carica del paese, ma che per

      quarantaquattro anni nessun plebeo era mai stato eletto tribuno militare?

      Come potevano credere che, con due posti a disposizione, i patrizi

      avrebbero ora accettato volentieri di condividere quella carica con la

      plebe, quando, all'atto di eleggere i tribuni militari, essi avevano

      abitualmente preteso otto posti per volta? Come potevano credere che i

      patrizi avrebbero loro concesso via libera al consolato, quando avevano

      bloccato per così tanto tempo la strada del tribunato? Bisognava ottenere

      con la legge quello che non era possibile raggiungere nelle elezioni solo

      grazie al favore, e metter fuori discussione che una delle due cariche

      consolari venisse destinata alla plebe (perché, lasciandola nella

      competizione, avrebbe continuato a essere appannaggio del più potente). Né

      ormai si poteva più sostenere - come in passato i patrizi avevano avuto

      l'abitudine di fare - che tra i plebei non ci fossero uomini degni delle

      magistrature curuli. Forse che la gestione dello stato era stata più

      fiacca e trascurata dopo il tribunato di Publio Licinio Calvo (primo

      plebeo ad aver ottenuto quell'incarico), di quanto non fosse stata in

      tutti quegli anni nei quali tribuni militari erano stati soltanto dei

      patrizi? Invece ad avere riportato condanne dopo il tribunato erano stati

      parecchi patrizi, ma nemmeno un plebeo. Come i tribuni militari, anche i

      questori si era iniziato non molti anni prima a eleggerli tra i plebei, e

      di nessuno di essi il popolo romano si era dovuto pentire. Ai plebei

      mancava unicamente il consolato: ed era questa carica che rappresentava il

      baluardo della libertà, il suo sostegno. Se essi avessero raggiunto

      quell'obiettivo, solo allora il popolo romano avrebbe potuto convincersi

      di aver cacciato i re da Roma e trovato un sicuro fondamento per la

      propria libertà. Perché da quel giorno anche alla plebe sarebbero toccati

      tutti i vantaggi per cui ora i patrizi eccellevano: il potere e gli onori,

      la gloria in campo militare, il lignaggio della stirpe, beni grandi di cui

      beneficiare di persona, ma ancora più grandi da trasmettere ai propri

      figli. Rendendosi conto che discorsi di questo tenore venivano accolti con

      grande favore, essi presentarono una nuova proposta di legge, in base alla

      quale al posto dei duumviri responsabili dei riti sacri si sarebbero

      dovuti eleggere dei decemviri dei quali metà fossero plebei e metà

      patrizi. Il voto relativo a tutte queste proposte di legge venne però

      rimandato fino al ritorno dell'esercito impegnato nell'assedio di

Velletri.

      

      38 Passò un anno prima che le legioni venissero richiamate da Velletri. Di

      conseguenza la questione delle leggi rimasta in sospeso fu rimandata fino

      alla nomina di nuovi tribuni militari. Quanto poi ai tribuni della plebe,

      il popolo rieleggeva sempre gli stessi uomini, e in ogni caso i due che

      avevano presentato i disegni di legge. Tribuni militari vennero eletti

      Tito Quinzio, Servio Cornelio, Servio Sulpicio, Spurio Servilio, Lucio

      Papirio e Lucio Veturio. Nei primi giorni dell'anno si arrivò súbito a uno

      scontro decisivo sulla questione delle leggi. E dato che le tribù erano

      giù state chiamate a votare e il veto dei colleghi non ostacolava più i

      promotori delle leggi, i patrizi allarmati ricorsero ai due estremi

      rimedi: la più alta delle cariche e il cittadino al di sopra di ogni

      altro. Decisero di nominare un dittatore. La scelta cadde su Marco Furio

      Camillo, che scelse Lucio Emilio come maestro di cavalleria. In

      opposizione a questo atto di forza effettuato dagli avversari, anche gli

      stessi autori delle proposte sostennero la causa della plebe proteggendola

      con il loro grande coraggio, e dopo aver convocato un'assemblea della

      plebe chiamarono le tribù al voto.

      Quando il dittatore, scortato da un drappello di patrizi e carico di

      rabbia e minacce, prese posto, si incominciò la discussione con l'ormai

      abituale dibattito tra i tribuni che presentavano la legge e quelli che vi

      si opponevano esercitando il loro diritto di veto. E non ostante il veto

      valesse di più sul piano del diritto, esso stava soccombendo schiacciato

      dalla popolarità delle leggi e degli uomini che le avevano presentate, e

      le prime tribù chiamate al voto stavano dicendo: «come proponi». Allora

      Camillo disse: «O Quiriti, visto che adesso siete influenzati non dal

      potere dei tribuni ma dal loro sfrenato arbitrio e che vanificate il

      diritto di veto (conquistato in passato a séguito della secessione della

      plebe) con quella stessa violenza con la quale lo avete ottenuto, io, in

      qualità di dittatore, non tanto per l'interesse dello Stato quanto per il

      vostro bene, interverrò a favore del veto e tutelerò con la mia autorità

      questo sostegno che viene demolito. Perciò, se Gaio Licinio e Lucio Sestio

      si piegheranno al veto dei loro colleghi, non vi sarà la ben che minima

      intromissione di un magistrato patrizio all'interno di un'assemblea del

      popolo. Ma se invece tenteranno, calpestando il diritto di veto, di

      imporre le loro proposte come a un paese conquistato, io non permetterò

      che il potere tribunizio si distrugga con le sue stesse mani.» Poiché i

      tribuni, a dispetto di questi avvertimenti, continuavano imperterriti a

      procedere nell'azione intrapresa, allora Camillo, colmo d'ira, mandò i

      suoi littori a disperdere la plebe, minacciando di far prestare giuramento

      a tutti i giovani in età militare e di condurre súbito l'esercito fuori di

      Roma, nel caso di ulteriori resistenze. I plebei si spaventarono

      moltissimo: ma nei loro capi il discorso di Camillo accrebbe lo spirito

      combattivo invece di spegnerlo. Tuttavia, prima ancora che la contesa

      avesse designato un vincitore tra le due parti in causa, Camillo rinunciò

      al proprio incarico, sia perché - come hanno scritto alcuni autori - la

      sua elezione non era stata regolare, sia perché i tribuni della plebe

      proposero e la plebe si disse d'accordo che, qualora Marco Furio avesse

      preso qualche iniziativa in qualità di dittatore, gli sarebbe stata

      inflitta un'ammenda di 500.000 assi. Che delle sue dimissioni siano

      responsabili gli auspici più che un provvedimento privo di precedenti, me

      lo fa credere sia la natura stessa dell'uomo, sia il fatto che Publio

      Manlio venne immediatamente nominato dittatore al suo posto (che vantaggi

      avrebbe infatti portato questa nomina in una lotta nella quale era uscito

      sconfitto Marco Furio?). Ma anche perché l'anno successivo era di nuovo

      dittatore lo stesso Marco Furio, per il quale sarebbe certamente stata una

      vergogna il riassumere una carica che si era infranta l'anno precedente

      nella sua persona. Senza contare che, nel periodo in cui, a quanto si

      dice, venne avanzata la proposta di infliggergli un'ammenda, Camillo

      avrebbe potuto opporsi a una rogazione che palesemente lo privava di ogni

      suo potere, oppure non sarebbe stato nemmeno in grado di impedire

      l'approvazione delle leggi in difesa delle quali era stato escogitato il

      provvedimento di ammenda. E poi, a nostra memoria, gli scontri sono sempre

      avvenuti tra potere tribunizio e autorità consolare, ma la dittatura ne è

      rimasta al di sopra.

      

      39 Nell'intervallo tra la rinuncia alla prima dittatura e l'inizio di

      quella di Manlio, i tribuni - come se si fosse trattato di un interregno -

      convocarono un'assemblea del popolo che mise in luce immediatamente quali

      delle misure proposte risultavano più gradite alla plebe e quali ai

      promotori. Infatti le tribù avevano intenzione di approvare i disegni di

      legge relativi ai debiti e alla terra, e di respingere quello concernente

      l'elezione di un console plebeo. Ed entrambe le questioni si sarebbero

      risolte così, se i tribuni non avessero dichiarato di voler consultare la

      plebe sull'intero pacchetto di proposte. Quando poi Publio Manlio divenne

      dittatore, impose alla questione una piega favorevole alla plebe perché

      nominò maestro di cavalleria Gaio Licinio che era stato tribuno militare

      ed era di origine plebea. Questa nomina - a quanto ho trovato - disturbò i

      patrizi, ma il dittatore si scusava abitualmente presso di loro adducendo

      come pretesto la propria parentela con Licinio, e insieme affermando che

      il potere del maestro di cavalleria non era superiore a quello di un

      tribuno consolare.

      Licinio e Sestio, quando vennero bandite le elezioni per la nomina dei

      tribuni della plebe, pur dichiarando di non voler essere rieletti, si

      comportarono in modo da accendere fieramente la plebe a offrir loro ciò

      che essi fingevano di non volere. Dicevano che ormai da nove anni

      continuavano a essere come in prima linea contro i patrizi, con grossi

      rischi personali e scarsi vantaggi per la comunità. E insieme a loro erano

      ormai invecchiate sia le proposte presentate che l'intera forza d'urto del

      tribunato stesso. In un primo tempo ci si era serviti del veto dei

      colleghi contro quelle leggi, poi della relegazione dei giovani al fronte

      di Velletri: infine, erano stati essi stessi minacciati dai fulmini del

      dittatore. Ma adesso non costituivano più un ostacolo né i colleghi, né la

      guerra né il dittatore, perché quest'ultimo, nominando maestro di

      cavalleria un plebeo, aveva fornito un presagio augurale per l'elezione di

      un console plebeo. No, era la plebe che adesso ostacolava se stessa e i

      suoi interessi. Se solo il popolo avesse voluto, avrebbe potuto avere

      immediatamente la città e il foro liberi dai creditori e le terre libere

      da abusi di proprietà. Ma quando mai i plebei avrebbero apprezzato tutti

      questi servizi con sufficiente gratitudine, se nel momento in cui

      approvavano le proposte volte a tutelare i loro interessi toglievano ogni

      speranza di riconoscimenti politici agli uomini che ne erano stati i

      promotori? Non era in linea con il senso di equità del popolo romano

      chiedere di essere alleviato dai debiti e reinsediato nelle terre

      ingiustamente possedute dai nobili, lasciando che i tribuni, grazie ai

      quali essi avevano ottenuto quegli obiettivi, invecchiassero non soltanto

      senza onori ma anche senza la speranza di riceverli. Perciò cominciassero

      con lo stabilire con fermezza quali fossero i loro desideri e quindi li

      rendessero noti in occasione dell'elezione dei tribuni. Se volevano che i

      disegni di legge presentati dai tribuni venissero votati nella loro

      integralità, allora c'erano delle buone ragioni per rieleggerli tribuni

      della plebe (permettendo così loro di far approvare le proposte che

      avevano avanzato); se invece volevano veder accettati soltanto quei

      provvedimenti che favorivano gli interessi privati dei singoli, allora non

      c'era nessun motivo valido per prolungare un incarico così inviso. In tal

      caso, essi avrebbero fatto a meno del tribunato e il popolo delle riforme

      proposte.

      

      40 Sentendo i tribuni pronunciare questo discorso tanto risoluto, mentre

      il resto dei patrizi, indignati per quanto stava succedendo, era piombato

      da quel momento in un silenzio pieno di stupore, si racconta che Appio

      Claudio Crasso, nipote del decemviro, mosso più dallo sdegno e dalla

      rabbia che non dalla speranza, si fece avanti per dissuaderli e si rivolse

      loro più o meno in questi termini: «Non sarebbe né strano né sorprendente,

      o Quiriti, se anch'io ora dovessi udire quello che la demagogia dei

      tribuni ha sempre rimproverato alla mia famiglia, e cioè che la stirpe

      Claudia, sin dalle sue origini, nell'ordinamento dello Stato nulla ha

      ritenuto più importante dell'autorità dei patrizi, e si è sempre schierata

      contro gli interessi della plebe. Per quanto riguarda la prima delle

      accuse, io non nego né rifiuto di riconoscere che noi, fino dal momento in

      cui fummo accolti come cittadini e patrizi, per quello che era in nostro

      potere, abbiamo moltiplicato gli sforzi perché si potesse veramente

      affermare che l'autorità di quelle famiglie nel cui novero avete voluto

      inserirci venisse accresciuta piuttosto che diminuita attraverso il nostro

      operato. Quanto poi alla seconda accusa, parlando per me e per i miei

      antenati, a meno che uno sostenga che tutto il bene fatto per l'intero

      paese sia in netto contrasto con gli interessi della plebe (come se i suoi

      membri fossero gli abitanti di un'altra città), oserei affermare che noi

      non abbiamo mai fatto nulla, né da privati cittadini né da magistrati, che

      volontariamente danneggiasse la plebe, e che non si può citare nessuna

      nostra azione o nostra parola contraria al vostro vantaggio, anche se

      alcuni di essi andavano contro ai vostri desideri. Ma se io non fossi un

      membro della famiglia Claudia e non avessi sangue patrizio nelle vene, ma

      fossi uno qualsiasi dei Quiriti, che sappia soltanto di essere nato da due

      genitori liberi e di vivere in un paese libero, potrei passare sotto

      silenzio che questi vostri Lucio Sestio e Gaio Licinio, tribuni della

      plebe a vita (se così vogliono gli dèi), nei nove anni del loro regno si

      sono arrogati una licenza tale da affermare che non vi consentiranno di

      esercitare il vostro diritto di voto né in sede elettorale né

      nell'approvazione delle leggi?

      "Ci rieleggerete - dice uno di loro - tribuni per la decima volta, ma a un

      patto." Il che significa: "L'onore che gli altri cercano di raggiungere

      noi lo disdegniamo a tal punto che non lo accetteremo se non dietro una

      grossa ricompensa." Ma alla fin fine qual è il prezzo per continuare ad

      avervi come tribuni della plebe? "Che accettiate in blocco tutte le nostre

      proposte di legge, che vi piacciano o no, utili o dannose che siano." Vi

      scongiuro, voi tribuni della plebe, novelli Tarquini, fate conto che io

      sia un cittadino qualunque che gridi dal centro dell'assemblea

      "Permetteteci, con buona pace, di scegliere, all'interno delle proposte

      presentate, soltanto quelle che riteniamo vantaggiose per noi, e di

      respingere le altre." "Tu - risponderebbe uno di loro - vorresti approvare

      le misure che si riferiscono alla questione dei debiti e della terra e che

      riguardano voi tutti, e non vorresti invece che a Roma si verifichi la

      mostruosità di vedere consoli Lucio Sestio e il qui presente Gaio Licinio

      (cosa questa da te ritenuta indegna e abominevole). O accetti tutto,

      oppure io non presento nessuna proposta." Come se a un affamato qualcuno

      mettesse del veleno nel cibo e poi gli ordinasse di rinunciare a ciò che

      gli ridarebbe vita oppure di mescolare la parte letale a quella in grado

      di rimetterlo in forze. Perciò, se questa fosse una città libera, non ti

      avrebbero già gridato in tantissimi nel pieno dell'assemblea: "Vattene di

      qua coi tuoi tribunati e le tue proposte di legge?". Cosa? Se tu non

      proporrai ciò che il popolo ha interesse di accettare, non ci sarà nessun

      altro in grado di farlo? Se un qualche patrizio, se un qualche Claudio

      (cosa che a Sestio e Licinio risulterebbe essere ancora più sgradita)

      dovesse dire "O accettate tutto, oppure non proporrò nulla", chi di voi, o

      Quiriti, lo tollererebbe? Non vi deciderete mai a guardare alla sostanza

      piuttosto che alle persone, e accoglierete sempre con favore ciò che dice

      quel magistrato, e con prevenzione ciò che dice uno di noi?

      Ma, per Ercole, ecco un discorso indegno di un buon cittadino! E che tipo

      di proposta è quella per la quale si sdegnerebbero se voi la respingeste?

      Assomiglia moltissimo al discorso in questione, o Quiriti. "Propongo -

      dice uno di loro - che non vi sia lecito eleggere i consoli che

      preferite." E non chiede la stessa cosa chi pretende che uno dei due

      consoli sia comunque plebeo e non vi lascia la possibilità di scegliere

      due patrizi? Se oggi dovesse scoppiare una guerra del genere di quella

      combattuta contro gli Etruschi quando Porsenna si impadronì del Gianicolo,

      o di quella recente contro i Galli, durante la quale, salvo il Campidoglio

      e la rocca, tutto era in mano al nemico, e un Lucio Sestio si candidasse

      al consolato insieme al qui presente Marco Furio o a qualche altro

      patrizio, potreste tollerare che Lucio Sestio fosse, senza discussione,

      console, e che Marco Furio corresse il rischio di una sconfitta? È questo

      che voi chiamate avere gli onori in comune? Che cioè venga autorizzata

      l'elezione di due plebei, e vietata la scelta di due patrizi? Che uno dei

      due consoli debba per forza essere plebeo, e che sia possibile escludere

      da entrambi i posti il candidato patrizio? Che razza di comunanza, che

      razza di associazione è mai questa? È poco aver parte di un diritto dal

      quale eravate esclusi in precedenza, e chiedendo una parte volete avere

      tutto? "Ho paura - replicherebbe uno di loro - che, se sarà permesso

      eleggere due patrizi, voi non eleggerete nessun plebeo." Il che equivale a

      dire: "Dato che non eleggerete mai di vostra spontanea volontà individui

      che non siano all'altezza, io vi imporrò di eleggere i candidati che non

      sono di vostro gradimento." Cosa ne conseguirebbe, salvo il fatto che non

      avrà obblighi di riconoscenza nei confronti del popolo un plebeo che si

      candidi da solo insieme a due patrizi, e potrà dichiarare di essere stato

      eletto non a séguito del voto ma in base alla legge?

      

      41 Cercano il modo non di ottenere, ma di estorcere le cariche. Così si

      sforzano di raggiungere le più alte in maniera tale da non avere il benché

      minimo dovere di riconoscenza per le minori. Preferiscono cioè inseguire

      le cariche basandosi sulle circostanze piuttosto che sui valori effettivi.

      C'è qualcuno che prova fastidio a essere tenuto sotto controllo e a subire

      una qualche valutazione, che ritiene giusto il fatto di essere il solo ad

      avere la sicurezza dell'elezione fra i vari in lizza per le cariche, che

      si sottrae al vostro giudizio, o ancora che rende il vostro voto da

      facoltativo a obbligatorio, trasformandolo da libero in servile. Non parlo

      di Licinio e di Sestio, i cui anni di continuo potere voi già contate come

      quelli dei re sul Campidoglio. Chi c'è oggi di così bassa condizione tra i

      cittadini al quale questa legge non conceda di accedere al consolato in

      maniera più agevole di quanto non offra a noi e ai nostri figli, se

      davvero non potrete eleggerci anche quando lo vorrete, mentre queste

      persone sarete costretti ad eleggerle anche se non lo desidererete?

      Dell'indegna bassezza di questa cosa si è detto abbastanza. Ma agli uomini

      si addice la dignità: che cosa dovrei dire dei riti religiosi e degli

      auspici, disprezzando i quali si offendono e si oltraggiano gli dèi

      immortali? Chi mai ignora che questa città è stata fondata in base a degli

      auspici e che in base a degli auspici si è sempre presa ogni decisione, in

      guerra e in pace, in patria e sul suolo di battaglia? Ebbene? A chi

      spettano gli auspici in base alla tradizione dei nostri padri? Ai patrizi,

      evidentemente. Infatti nessun magistrato plebeo viene eletto dopo aver

      preso gli auspici. E gli auspici ci appartengono in maniera così esclusiva

      che non solo i magistrati patrizi eletti dal popolo possono essere eletti

      solo dopo aver preso gli auspici, ma siamo sempre noi che, pur senza il

      voto del popolo, nominiamo l'interré in base agli auspici e anche in

      qualità di privati cittadini abbiamo il diritto di trarre gli auspici, dal

      quale costoro sono invece esclusi addirittura nella loro veste di

      magistrati. Di conseguenza, chi pretende di eleggere dei consoli plebei

      privando così degli auspici i patrizi che sono gli unici ad avere il

      diritto di trarli, che altro fa se non privarne l'intero paese? Se lo

      vogliono, adesso possono farsi beffe degli scrupoli religiosi e dire: "Che

      cosa importa se i polli non mangiano, se escono più lentamente dal pollaio

      o se un uccello emette un verso di malaugurio?". Ma queste sono cose da

      poco: eppure, è proprio perché i vostri antenati non hanno disprezzato

      cose da poco come queste se sono riusciti a fare grande questo paese. E

      ora noi, come se non avessimo più bisogno del favore degli dèi, stiamo

      profanando tutte le cerimonie. Allora lasciamo pure che pontefici, àuguri

      e re dei sacrifici vengano eletti a casaccio. Mettiamo pure sulla testa

      del primo venuto il copricapo del flamine Diale, purché si tratti di un

      uomo, affidiamo pure gli scudi sacri, i santuari, gli dèi e il loro culto

      a coloro cui non è lecito affidare tutto ciò. Lasciamo che le leggi

      vengano approvate e i magistrati eletti senza prima trarre gli auspici, e

      che tanto i comizi centuriati quanto quelli curiati non abbiano

      l'approvazione dei senatori. Lasciamo che Sestio e Licinio regnino a Roma

      come Romolo e Tazio, visto che vogliono regalare il denaro e le proprietà

      altrui. È dunque così forte la voglia di razziare i patrimoni degli altri?

      Non viene loro in mente che una delle leggi presentate, cacciando i

      padroni dalle terre di loro proprietà, creerà vasti deserti nelle

      campagne, e che l'altra eliminerà la fiducia nella parola data e insieme

      ad essa ogni possibile rapporto tra gli esseri umani? Per tutti questi

      motivi ritengo sia vostro dovere respingere queste proposte. E possano gli

      dèi rendere propizio ciò che farete.»

      

      42 Il discorso di Appio riuscì soltanto a ritardare il passaggio delle

      proposte di legge. Eletti per la decima volta tribuni, Sestio e Licinio

      fecero approvare la legge sulla nomina dei decemviri preposti ai riti

      sacri da scegliersi in parte tra i plebei. Avendo nominato cinque patrizi

      e cinque plebei, il popolo ebbe l'impressione che con questo passo la via

      al consolato fosse ormai aperta. Soddisfatti per questo successo, i

      plebei, abbandonando per il momento la discussione relativa al problema

      del consolato, concessero ai patrizi di eleggere dei tribuni militari

      nelle persone di Aulo e Marco Cornelio (per la seconda volta), di Marco

      Geganio, di Publio Manlio, di Lucio Veturio e di Publio Valerio (per la

      sesta volta).

      Salvo l'assedio di Velletri - il cui esito favorevole, anche se assai

      ritardato nel tempo, non poteva essere messo in dubbio -, all'estero la

      situazione era tranquilla, l'improvvisa notizia di una guerra da parte dei

      Galli portò il paese a eleggere per la quinta volta dittatore Marco Furio.

      Questi scelse come maestro di cavalleria Tito Quinzio Peno. Claudio

      riporta che nel corso di quell'anno si combattè coi Galli nei pressi del

      fiume Aniene, e che ci fu il famoso duello sul ponte, durante il quale

      Tito Manlio - sotto gli occhi dei due eserciti - uccise un Gallo che lo

      aveva sfidato a duello e ne spogliò il cadavere della collana. Ma io sono

      più propenso a credere, con la maggior parte delle fonti, che questo

      episodio ebbe luogo non meno di dieci anni più tardi, e che nell'anno del

      quale mi sto occupando il dittatore Marco Furio affrontò i Galli nel

      territorio albano. E non ostante l'enorme spavento ingenerato dai Galli e

      dal ricordo della vecchia disfatta, i Romani conquistarono una vittoria

      che non fu né difficile né mai in bilico. Molte migliaia di barbari

      vennero uccise nel corso della battaglia e molte altre dopo la presa

      dell'accampamento. I sopravvissuti, dispersi, ripararono soprattutto in

      Puglia, riuscendo a evitare i Romani sia per la grande distanza della

      fuga, sia per il fatto di essersi sparpagliati in preda al panico. Al

      dittatore venne concesso il trionfo per volontà unanime del senato e della

      plebe.

      Camillo aveva appena portato a termine quella guerra che in patria

      esplosero lotte più violente. Dopo aspri conflitti, senato e dittatore

      ebbero la peggio, così che le misure proposte dai tribuni furono

      approvate. Non ostante l'opposizione dei patrizi, si tennero elezioni

      consolari nelle quali Lucio Sestio fu il primo plebeo a essere eletto

      console. Ma neppure questa vittoria pose fine ai contrasti. I patrizi

      dichiararono che non avrebbero ratificato l'elezione e gli scontri

      intestini arrivarono molto vicino alla nuova secessione della plebe e a

      nuove terribili minacce, quando alla fine il dittatore riuscì a sedare i

      disordini con una soluzione di compromesso: i patrizi diedero via libera

      alla plebe sulla questione del console plebeo, mentre i plebei concessero

      ai patrizi di nominare pretore un loro membro col cómpito di amministrare

      la giustizia in città. Tornata così finalmente la concordia tra le classi

      dopo tutti quegli anni di ira, il senato ritenne che quell'evento fosse

      un'occasione appropriata per onorare gli dèi - cui spettava di pieno

      diritto in quel frangente, se mai altre volte lo era stato - con la

      celebrazione dei Ludi Massimi e l'aggiunta di un giorno ai tre previsti

      dalla tradizione. Dato che gli edili della plebe rifiutarono quel cómpito,

      i giovani patrizi dichiararono che se ne sarebbero occupati loro di buon

      grado per onorare gli dèi immortali. Siccome tutta la popolazione dimostrò

      gratitudine nei loro confronti, il senato emise un decreto in base al

      quale il dittatore avrebbe dovuto chiedere al popolo l'elezione di due

      edili patrizi e i senatori ratificare tutte le elezioni di quell'anno.

 


Libri 7-8: Il conflitto con i Sanniti

 

       

      

      LIBRO VII

      

      

      

      1 Questo anno verrà ricordato per il consolato raggiunto da un 'uomo

      nuovo' e per la creazione di due nuove magistrature, la pretura e

      l'edilità curule. Cariche, queste, che i patrizi pretesero per sé a

      risarcimento del console concesso alla plebe. Quest'ultima assegnò il

      consolato a Lucio Sestio, grazie alla cui legge esso era stato

      conquistato. I patrizi invece, in virtù dell'influenza che vantavano in

      Campo Marzio, ottennero la pretura per Spurio Furio Camillo, figlio di

      Marco, e l'edilizia per Gneo Quinzio Capitolino e Publio Cornelio

      Scipione, uomini appartenenti a famiglie della loro classe. In qualità di

      collega di Lucio Sestio venne scelto dai patrizi Lucio Emilio Mamerco.

      All'inizio dell'anno cominciarono a circolare voci circa i Galli (che, in

      un primo tempo dispersi in Apulia, pareva si stessero riorganizzando in

      gruppi) e una defezione da parte degli Ernici. Visto che i patrizi

      cercavano a bella posta di rimandare ogni iniziativa per evitare che il

      console plebeo entrasse in azione, la calma generale dette l'impressione

      che fosse stata proclamata la sospensione dell'attività giudiziaria;

      senonché i tribuni non erano disposti a tollerare in silenzio che i

      nobili, a fronte di un unico console plebeo, si fossero assicurati tre

      magistrati patrizi che indossavano la pretesta e sedevano sugli scanni

      curuli quasi fossero consoli, e che il pretore amministrasse addirittura

      la giustizia e fosse stato eletto alla stregua di un collega dei consoli,

      con i medesimi auspici: per cui il senato non se la sentì di ordinare che

      gli edili venissero scelti tra i patrizi. Così, in un primo tempo, si

      concordò di nominare, ad anni alterni, edili di provenienza plebea. In

      séguito l'elezione avvenne senza distinzioni.

      Il consolato successivo toccò a Lucio Genucio e Quinto Servilio. La pace

      non era minacciata né da scontri tra fazioni né da guerre. Ma, come se i

      Romani non potessero mai essere liberi da paure e da minacce incombenti,

      ecco che scoppiò una terribile pestilenza. Le fonti riferiscono che

      morirono un censore, un edile curule e tre tribuni della plebe, e che il

      numero delle vittime nel resto della popolazione fu analogamente elevato.

      Ma ciò che rese degna di menzione quella pestilenza fu la morte di Marco

      Furio, dolorosissima per tutti non ostante lo avesse raggiunto in età

      molto avanzata. Egli fu infatti uomo assolutamente impareggiabile in

      qualunque circostanza della vita. Eccezionale tanto in pace quanto in

      guerra prima di essere bandito da Roma, si distinse ancor più nei giorni

      dell'esilio: lo testimoniano sia il rimpianto di un'intera città che, una

      volta caduta in mani nemiche, ne implorò l'intervento mentre era assente,

      sia il trionfo con il quale, riammesso in patria, ristabilì nel contempo

      le proprie sorti e il destino della patria stessa. Mantenutosi poi per

      venticinque anni - quanti ancora ne visse da quel giorno - all'altezza di

      una simile fama, fu ritenuto degno di essere nominato secondo fondatore di

      Roma dopo Romolo.

      

      2 La pestilenza infuriò tanto in questo quanto nell'anno successivo,

      durante il consolato di Gaio Sulpicio Petico e Gaio Licinio Stolone. Di

      conseguenza non accadde nulla che sia degno di essere menzionato, se non

      il fatto che, proprio per placare l'ira degli dèi, venne celebrato un

      lettisternio, il terzo dalla fondazione di Roma. Ma siccome non c'erano

      iniziative umane né aiuti divini che riuscissero a frenare la violenza

      dell'epidemia, mentre già gli animi erano in preda alla superstizione, si

      dice che tra i tanti tentativi fatti per placare l'ira dei celesti vennero

      anche istituiti degli spettacoli teatrali, fatto del tutto nuovo per un

      popolo di guerrieri i cui unici intrattenimenti erano stati fino ad allora

      i giochi del circo. Ma a dir la verità si trattò anche di una cosa

      modesta, come per lo più accade all'inizio di ogni attività, e per giunta

      importata dall'esterno. Senza parti in poesia, senza gesti che

      riproducessero i canti, degli istrioni fatti venire dall'Etruria danzavano

      al ritmo del flauto, con movenze non scomposte e caratteristiche del mondo

      etrusco. In séguito i giovani cominciarono a imitarli, lanciandosi nel

      contempo delle battute reciproche con versi rozzi e muovendosi in accordo

      con le parole. Quel divertimento entrò così nell'uso, e fu praticato

      sempre più frequentemente. Agli attori professionisti nati a Roma venne

      dato il nome di istrioni, da ister che in lingua etrusca vuol dire attore.

      Essi non si scambiavano più, come un tempo, versi rozzi e improvvisati

      simili al Fescennino, ma rappresentavano satire ricche di vari metri,

      eseguendo melodie scritte ora per l'accompagnamento del flauto e compiendo

      gesti appropriati.

      Livio fu il primo, alcuni anni dopo, ad abbandonare la satira e ad

      avventurarsi nella composizione di un'opera dotata di trama unitaria.

      Attore egli stesso delle proprie opere - come allora erano tutti -, pare

      che, colpito da un abbassamento di voce per le ripetute chiamate in scena,

      dopo aver chiesto e ottenuto di far cantare un ragazzo davanti al

      flautista, eseguì la sua monodia con gesti di gran lunga più espressivi

      proprio perché non era impedito dal dover usare la voce. Da allora gli

      attori cominciarono ad accompagnare le parti cantate con gesti, riservando

      all'uso della voce soltanto le parti dialogate. Ma quando, grazie a questo

      tipo di messe in scena, la rappresentazione si scostò dallo scherzo

      spontaneo e dal lazzo gratuito e il teatro si trasformò a poco a poco in

      una manifestazione artistica, la gioventù abbandonò le recite agli attori

      di professione e riprese l'abitudine di un tempo scambiando rozze battute

      in versi. Di qui nacquero quelle che in séguito vennero chiamate farse

      finali e per lo più aggiunte alle Atellane. Queste ultime, un tipo di

      rappresentazione importato dagli Osci, i giovani romani le tennero per sé

      e non permisero che fossero contaminate dagli attori professionisti. Di

      qui la norma per cui gli attori di Atellane non possono essere rimossi

      dalla tribù di appartenenza e prestano servizio militare, come se non

      avessero rapporti con il mondo della scena. Tra gli inizi modesti di molte

      altre cose è parso opportuno collocare anche i primi passi del teatro,

      perché si potesse vedere quanto fossero sobri i primordi di un'arte che al

      giorno d'oggi ha raggiunto tali vertici di scostumatezza da essere a

      malapena tollerata anche in regni ricchissimi.

      

      3 Tuttavia neppure l'introduzione degli spettacoli teatrali destinata a

      placare l'ira degli dèi riuscì a liberare le menti dalla superstizione o i

      corpi dal contagio. Tutt'altro. Proprio mentre gli spettacoli erano in

      pieno svolgimento, uno straripamento del Tevere rese impraticabile il

      Circo Massimo, il che causò il panico, come se gli dèi avessero ormai

      voltato le spalle e disprezzassero i tentativi fatti per placare la loro

      ira. E così, durante il consolato di Gneo Genucio e di Lucio Emilio

      Mamerco (entrambi eletti per la seconda volta), dato che la ricerca di

      rimedi praticabili preoccupava le menti più di quanto la pestilenza non

      stremasse i corpi, si dice che i cittadini più anziani richiamassero alla

      memoria il fatto di una pestilenza un tempo placata da un chiodo infisso

      dal dittatore. E il senato, spinto da questa credenza, ordinò di nominare

      un dittatore al fine di piantare il chiodo. La scelta cadde su Lucio

      Manlio Imperioso il quale si scelse come maestro di cavalleria Lucio

      Pinario.

      C'è un'antica legge, scritta con parole e caratteri arcaici, la quale

      stabilisce che il più alto magistrato in carica pianti un chiodo alle idi

      di Settembre. Questa legge era affissa sul lato destro del tempio di Giove

      Ottimo Massimo, nel punto in cui c'è il santuario di Minerva. Data la

      rarità della scrittura in quei tempi, pare che il chiodo servisse per

      segnare il numero degli anni e che la legge fosse stata consacrata nel

      santuario di Minerva perché il numero è un'invenzione della dea. Lo

      storico Cincio, attento studioso di quel tipo di testimonianze, afferma

      che anche a Volsinii nel tempio della dea etrusca Nortia si possono ancora

      vedere dei chiodi piantati per indicare il numero degli anni. Il console

      Marco Orazio, attenendosi a quella legge, consacrò il tempio di Giove

      Ottimo Massimo l'anno successivo alla cacciata dei re. In séguito la

      cerimonia solenne del piantare il chiodo passò dai consoli ai dittatori,

      in quanto rappresentavano un'autorità più alta. Col passare del tempo

      l'usanza era stata abbandonata. Ciò non ostante in quel periodo sembrò

      essere di per se stessa motivo sufficiente per la nomina di un dittatore.

      Per tale ragione venne eletto Lucio Manlio il quale, come se fosse stato

      nominato per condurre una guerra e non per assecondare una semplice

      superstizione, aspirando a portare guerra agli Ernici, suscitò il

      malcontento dei giovani bandendo una leva che non ammetteva esclusioni. Ma

      alla fine, quando tutti i tribuni della plebe insorsero uniti contro di

      lui, si lasciò piegare dalla forza o dalla vergogna e rinunciò alla

      dittatura.

      

      4 Tuttavia, all'inizio dell'anno seguente, durante il consolato di Quinto

      Servilio Aala e di Lucio Genucio, il tribuno della plebe Marco Pomponio

      non ebbe esitazioni a citare in giudizio Lucio Manlio. Il risentimento nei

      suoi confronti era dovuto alla severità dimostrata nella leva, per la

      quale i cittadini avevano subito non solo ammende pecuniarie ma anche

      violenze fisiche, alcuni essendo stati frustati per non aver risposto alla

      chiamata, altri essendo stati gettati in carcere. Ma ciò che più irritava

      erano la crudeltà del carattere e il suo soprannome, Imperioso: era

      offensivo per un paese libero ed era stato assunto come ostentazione della

      ferocia da lui mostrata tanto nei confronti di estranei quanto verso gli

      amici più cari e i membri della sua stessa famiglia. Tra le altre

      imputazioni il tribuno lo accusava del comportamento tenuto nei riguardi

      del figlio: quest'ultimo, benché non fosse stato riconosciuto colpevole di

      alcun reato, era stato bandito da Roma, dalla casa paterna e dai penati;

      Manlio lo aveva allontanato dal foro, privato della luce del giorno e

      della compagnia dei coetanei, costretto a un lavoro da schiavo, come in un

      carcere, in un ergastolo, dove un giovane di nobili natali e figlio di un

      dittatore potesse apprendere dalla quotidiana sofferenza quanto fosse

      veramente imperioso il padre che l'aveva generato. E quale era stata la

      sua colpa? La scarsa eloquenza e prontezza di lingua. Ma non sarebbe stato

      cómpito del padre, se in lui ci fosse stato qualcosa di umano, correggere

      questo difetto di natura invece di peggiorarlo con punizioni e tormenti?

      Perfino gli animali allo stato brado, se uno dei loro piccoli è meno

      fortunato, non di meno continuano a nutrirlo e a curarsi di lui. Ma, per

      Ercole, Lucio Manlio il male che affliggeva il figlio lo aumentava

      facendogli del male, e in più soffocandone lo sviluppo dell'indole già

      poco pronta. E se poi in lui restava qualcosa della naturale vitalità,

      Manlio la spegneva costringendo il giovane a vivere in maniera selvaggia e

      a crescere tra le bestie.

       

      5 Queste accuse suscitarono l'indignazione di tutti, salvo che del giovane

      stesso, il quale invece soffriva al pensiero di essere causa di ulteriore

      risentimento e accuse nei confronti del padre. E perché tutti in cielo e

      in terra sapessero che egli aveva preferito aiutare il padre piuttosto che

      i nemici del padre, organizzò un piano che, pur frutto di un'indole rozza

      e selvaggia e ben lontano dal risultare un esempio di condotta civica, era

      tuttavia elogiabile per l'attaccamento dimostrato al padre. Senza che

      nessuno lo sapesse, alle prime luci del giorno venne in città armato di

      coltello e dalla porta raggiunse in un attimo la casa del tribuno Marco

      Pomponio. Al portinaio disse di dover vedere immediatamente il suo padrone

      e lo pregò di riferire che si trattava di Tito Manlio, il figlio di Lucio.

      Fatto entrare senza esitazione - Marco sperava che a spingerlo fosse la

      rabbia nei confronti del padre o che fosse venuto a riferire qualche nuova

      accusa o a suggerire un piano -, dopo un reciproco scambio di saluti, il

      giovane disse che c'erano degli argomenti di cui voleva discutere con lui

      lontano da occhi indiscreti. Dopo che a tutti i presenti venne ordinato di

      allontanarsi dalla stanza, afferrò il coltello e, fermo in piedi sopra il

      letto del tribuno con in mano l'arma pronta a colpire, minacciò di

      pugnalarlo lì sul momento, se Pomponio non avesse giurato, nei termini che

      egli stesso avrebbe imposto, di non aver alcuna intenzione di convocare

      un'assemblea popolare per mettere suo padre sotto accusa. Il tribuno, in

      preda al panico, vedendo il bagliore della lama davanti agli occhi e

      rendendosi conto di essere da solo e disarmato di fronte a un giovane nel

      pieno delle forze e - cosa questa non meno preoccupante - brutalmente

      imbaldanzito dalla consapevolezza della propria forza, giurò secondo la

      formula che gli era stata dettata. In séguito dichiarò pubblicamente di

      essere stato costretto da quell'atto di forza ad abbandonare l'azione

      intrapresa. La plebe avrebbe preferito che le fosse concessa l'opportunità

      di esprimere il proprio voto circa un imputato tanto crudele e arrogante.

      Tuttavia non disapprovò che un figlio avesse osato quel gesto in difesa

      del padre. Gesto tanto più degno di elogi per il fatto che la severità

      esagerata del padre non aveva diminuito nel giovane l'amore per il

      genitore. Perciò non solo venne ritirata l'accusa nei confronti del padre,

      ma l'intera faccenda fu per il ragazzo addirittura motivo di onore. Dato

      che quell'anno si stabilì per la prima volta di assegnare i tribuni

      militari a capo delle legioni con una regolare votazione - fino ad allora

      a nominarli erano i generali in persona, come oggi avviene con quelli

      chiamati Rufuli - egli fu il secondo a essere eletto su sei posti

      disponibili, pur non avendo compiuto, in pace o in guerra, nulla che

      giustificasse tale popolarità, come per altro è naturale per uno che abbia

      trascorso la giovinezza in campagna e lontano dal consesso civile.

      

      6 Nel corso di quello stesso anno, fosse per un terremoto o per un'altra

      forza della natura, si dice che nel centro del foro il suolo franò fino a

      profondità incommensurabili, lasciandovi un'ampia voragine. Non ostante

      tutti vi gettassero della terra, non si riuscì a riempirla, fino a quando,

      su preciso monito degli dèi, la gente cominciò a domandarsi quale fosse

      l'elemento principale della forza del popolo romano. Questo era quanto gli

      indovini sostenevano si dovesse consacrare a quel luogo, se si voleva che

      la repubblica romana durasse in eterno. Allora, stando a quanto si narra,

      Marco Curzio, un giovane distintosi in guerra, rimproverò i concittadini

      per essersi domandati se esistesse qualcosa di più romano del valore

      militare. Poi, calato il silenzio, con gli occhi rivolti al Campidoglio e

      ai templi degli dèi immortali che sovrastano il foro, tendendo le mani ora

      verso il cielo ora verso la voragine spalancata e verso gli dèi Mani, si

      offrì in voto ad essi. Quindi, montò in groppa a un cavallo bardato nella

      maniera più splendida possibile e si gettò armato nella voragine: e una

      folla di uomini e donne gli lanciò dietro frutti e offerte votive. Fu lui

      a dare al lago il nome di Curzio e non Curzio Mezio, soldato di Tito Tazio

      in tempi remoti. Certo non sarebbe mancata la ricerca meticolosa, se fosse

      esistita qualche via per raggiungere la verità; ma allo stato presente

      bisogna attenersi alla tradizione, visto che l'antichità dell'episodio non

      permette di essere molto precisi. E il nome del lago risulta maggiormente

      glorioso se connesso a questa leggenda più recente.

      Una volta espiato quel prodigio così straordinario, nel corso dello stesso

      anno il senato decise di occuparsi della questione degli Ernici. Ma

      siccome l'invio di feziali con la richiesta di riparazioni belliche non

      diede risultati, il senato stabilì di presentare al popolo, quanto prima

      possibile, la proposta di dichiarare guerra agli Ernici. Nel corso di

      un'assemblea affollatissima, il popolo votò a favore della guerra e al

      console Lucio Genucio toccò in sorte il cómpito di occuparsi della

      spedizione. L'attesa dei cittadini era grande: Genucio sarebbe stato il

      primo console plebeo a gestire una guerra sotto i suoi stessi auspici, ed

      essi avrebbero giudicato dagli esiti della campagna se avessero fatto bene

      o meno a rendere accessibili a tutti le magistrature. Ma il caso volle che

      Genucio, partito alla volta del nemico con un grande schieramento di

      forze, finisse vittima di un'imboscata: le legioni, colte improvvisamente

      dal panico, vennero sbaragliate, mentre il console venne circondato e

      ucciso da uomini che non lo avevano riconosciuto. Non appena la notizia

      arrivò a Roma, lo sdegno dei patrizi, per nulla afflitti dalla disfatta

      dello Stato, quanto piuttosto imbaldanziti dall'infelice esito del comando

      affidato a un console plebeo, riempì la città. Andassero pure a scegliersi

      i consoli in mezzo ai plebei! Trasferissero pure gli auspici là dove la

      legge divina lo vietava! Con un plebiscito sarebbero stati in grado di

      tener lontani i patrizi dalle loro magistrature: ma una legge approvata

      senza i regolari auspici avrebbe mai avuto valore per gli dèi immortali?

      Gli dèi in persona avevano rivendicato la loro autorità divina e i loro

      auspici: non appena essi erano stati toccati da chi era privo del diritto

      umano e divino di farlo, esercito e generale erano stati sbaragliati come

      monito a che in futuro non si tenessero più elezioni in violazione dei

      diritti delle genti patrizie. Curia e foro rimbombavano al suono di queste

      parole. Appio Claudio, il quale si era opposto al passaggio della legge,

      godeva adesso di maggiore autorità perché denunciava i risultati di una

      politica che aveva attaccato in precedenza. Con il consenso dei patrizi,

      il console Servilio lo nominò di conseguenza dittatore, bandendo poi una

      leva militare e proclamando la sospensione dell'attività giudiziaria.

      

      7 Prima che il dittatore e le nuove legioni arruolate arrivassero nel

      territorio degli Ernici, il luogotenente Gaio Sulpicio, approfittando di

      un'occasione favorevole, aveva ottenuto brillanti risultati nella

      campagna. Gli Ernici, resi tracotanti dalla morte del console, si

      avvicinavano all'accampamento romano convinti di poterlo espugnare. Ma le

      esortazioni del luogotenente e gli animi dei soldati pieni di rabbia e di

      vergogna resero possibile una sortita. E gli Ernici, che avevano sperato

      di avvicinarsi alla trincea, dovettero invece ritirarsi nello scompiglio

      generale. Poi, con l'arrivo del dittatore, il nuovo esercito venne ad

      aggiungersi a quello vecchio e il numero degli effettivi raddoppiò. Il

      dittatore, parlando alle truppe in adunata, elogiò il luogotenente e i

      soldati il cui valore era stato un sicuro baluardo per l'accampamento.

      Così Appio riuscì nello stesso tempo a risollevare quanti si sentivano

      rivolgere quei meritati elogi, e a stimolare i nuovi arrivati a emularne

      l'eroismo. I nemici, da parte loro, si preparavano alla guerra con non

      minore scrupolo: memori com'erano della gloria conquistata in precedenza,

      ma consapevoli del fatto che le truppe nemiche erano state rinforzate,

      aumentarono anche i propri contingenti. Tutte le genti erniche, tutti

      coloro che erano in età militare vennero convocati e furono così arruolate

      otto coorti, ciascuna delle quali formata da 400 uomini selezionati.

      Colmarono di speranze e di vigore queste truppe scelte decretando che

      fosse loro concesso il doppio dello stipendio. I soldati erano addirittura

      esentati dai lavori di natura militare in modo che, essendo destinati al

      solo sforzo della battaglia, fossero consapevoli di dover chiedere a se

      stessi un impegno superiore a quello di un uomo comune. Come ultimo

      privilegio venne loro assegnato un posto al di fuori dello schieramento,

      in maniera tale che il loro valore fosse ancora più in evidenza.

      Gli accampamenti di Romani ed Ernici erano separati da una pianura lunga

      due miglia. La battaglia fu combattuta in mezzo a quella pianura, in un

      punto più o meno equidistante dai due accampamenti. Sulle prime l'esito

      della battaglia rimase incerto e a poco valsero i ripetuti tentativi fatti

      dalla cavalleria romana di rompere la linea nemica. Quando i cavalieri si

      resero conto che la battaglia equestre, nonostante i loro sforzi, non dava

      risultati, consultarono prima il dittatore e poi, ricevuta da lui

      l'autorizzazione, lasciarono i cavalli e si buttarono con grande clamore

      al di là delle insegne, portando nuovo slancio alla battaglia. Il loro

      attacco sarebbe risultato incontenibile, se non si gli si fossero parate

      innanzi le coorti speciali che li affrontarono con uguale coraggio e forza

      fisica.

      

      8 In quel momento le sorti della battaglia erano affidate agli uomini più

      valenti dei due popoli. E qualunque fosse stata l'entità delle perdite

      inflitte dai casi della guerra all'una e all'altra parte, il danno avrebbe

      sicuramente superato di gran lunga il loro numero effettivo. La massa dei

      soldati semplici, come se avessero delegato a loro campioni il cómpito di

      combattere, affidavano il proprio destino al valore di altri. Da entrambe

      le parti ci furono moltissime perdite, anche se il numero dei feriti

      risultò ancora più alto. Alla fine i cavalieri, rimproverandosi l'uno con

      l'altro, si domandavano che altro restasse loro da fare, visto che non

      erano riusciti a sbaragliare il nemico quando erano in sella ai cavalli né

      avevano ottenuto grandi risultati quando avevano combattuto da terra.

      Stavano forse aspettando un terzo tipo di combattimento? Ma quale? Che

      cosa avevano combinato di buono lanciandosi baldanzosi al di là delle

      insegne e combattendo in un posto che non era il loro? Incitati da questi

      scambi di rimproveri, i cavalieri alzarono di nuovo il grido di battaglia

      e si gettarono all'assalto. Sulle prime riuscirono a far ripiegare il

      nemico, poi lo spinsero indietro e infine lo costrinsero apertamente alla

      fuga. Non è facile dire cosa avesse loro permesso di prevalere in uno

      scontro di forze così equilibrate, se non il fatto che la sorte, dopo aver

      sostenuto con costanza entrambi gli schieramenti, riuscì ad esaltare gli

      animi degli uni e a deprimere gli altri. I Romani inseguirono gli Ernici

      in fuga fino all'accampamento, ma non tentarono di conquistarlo perché era

      ormai tardi. Il dittatore non aveva infatti dato il segnale di battaglia

      prima di mezzogiorno perché era stato trattenuto dalla prolungata

      difficoltà di ottenere buoni auspici nel sacrificio: e per questo il

      combattimento si era trascinato fino al calare della notte. Il giorno dopo

      l'accampamento era deserto: gli Ernici erano fuggiti lasciando indietro

      soltanto qualche ferito. Mentre la colonna dei fuggitivi stava passando

      sotto le mura di Signia, i cittadini, scorti i reparti decimati,

      piombarono su di loro sbaragliandoli e disperdendoli in una fuga affannosa

      per le campagne. Per i Romani non fu però una vittoria priva di perdite:

      il numero delle vittime corrispondeva a un quarto degli effettivi e -

      danno non minore - ad alcuni elementi della cavalleria.

      

      9 L'anno successivo i consoli Gaio Sulpicio e Gaio Licinio Calvo guidarono

      l'esercito contro gli Ernici. Ma non avendo trovato nemici in campo

      aperto, espugnarono la città ernica di Ferentino. Mentre però stavano

      tornando, i Tiburtini chiusero loro le porte in faccia. In passato, da

      entrambe le parti, c'erano state numerose lamentele. Quello però fu il

      motivo che spinse i Romani a dichiarare guerra ai Tiburtini dopo aver

      inviato loro i feziali con le richieste di riparazione.

      Le fonti concordano nell'affermare che quell'anno vennero nominati

      dittatore Tito Quinzio Peno e maestro di cavalleria Servio Cornelio

      Maluginense. Licinio Macro sostiene che tale nomina fosse dovuta alla

      necessità di tenere delle elezioni e che l'avesse effettuata il console

      Licinio. Questi, vedendo che il suo collega si affrettava a tenere le

      elezioni prima dell'inizio della campagna per poter ottenere la proroga

      del consolato, si sentì in dovere di opporsi a quel progetto criminoso. Ma

      il tentativo fatto da Licinio di mettere in buona luce la propria famiglia

      rende meno attendibile la sua versione dei fatti. Dato che negli annali

      più antichi non ho trovato traccia dell'episodio, sono più propenso a

      credere che il dittatore sia stato nominato in occasione di una guerra

      contro i Galli. In ogni caso, fu proprio in quell'anno che i Galli si

      accamparono a tre miglia da Roma, sulla via Salaria, al di là del ponte

      sull'Aniene.

      Il dittatore, proclamata la sospensione dell'attività giudiziaria a

      séguito dell'incombente minaccia costituita dai Galli, mobilitò tutti i

      giovani in età militare. Partito da Roma con un esercito di ragguardevoli

      proporzioni, si accampò sulla riva meridionale dell'Aniene. Tra i due

      eserciti c'era il ponte, ma nessuno osava abbatterlo per non dare

      l'impressione di avere paura. C'erano frequenti scaramucce per occupare il

      ponte, ma le forze erano così equilibrate che non si poteva stabilire chi

      ne avesse il controllo. Fu allora che un soldato gallico dal fisico

      possente si fece avanti sul ponte deserto e urlò con quanta voce aveva in

      gola: «Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c'è adesso

      a Roma, così che l'esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli

      è superiore in guerra».

      

      10 Tra i giovani patrizi romani ci fu un lungo silenzio dovuto alla

      vergogna di non poter raccogliere la sfida e alla paura di offrirsi

      volontari per una missione tanto rischiosa. Allora Tito Manlio, figlio di

      Lucio, il giovane che aveva salvato il padre dalle accuse del tribuno,

      lasciò la sua posizione e si avviò verso il dittatore. «Senza un tuo

      ordine, o comandante», disse «non combatterei mai fuori dal mio posto,

      neppure se vedessi che la vittoria è sicura. Se tu me lo concedi, a quella

      bestia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei

      dare la prova di discendere da quella famiglia che cacciò giù dalla rupe

      Tarpea le schiere dei Galli». Allora il dittatore rispose: «Onore e gloria

      al tuo coraggio e al tuo attaccamento al padre e alla patria, o Tito

      Manlio. Vai e con l'aiuto degli dèi dài prova che il nome di Roma è

      invincibile». Poi i compagni lo aiutarono ad armarsi: prese uno scudo da

      fante e si cinse in vita una spada ispanica, più adatta per lo scontro

      ravvicinato. Dopo averlo armato di tutto punto, lo accompagnarono verso il

      soldato gallico che stava stolidamente esultando e che (particolare anche

      questo ritenuto degno di menzione da parte degli antichi) si faceva beffe

      di lui tirando fuori la lingua dalla bocca. Poi rientrarono ai loro posti,

      mentre i due uomini armati restarono soli in mezzo al ponte, più simili in

      verità a gladiatori che a soldati regolari. Nulla li rendeva pari, almeno

      a giudicare dall'aspetto esterno: l'uno aveva un fisico di straordinaria

      prestanza, portava vesti sgargianti e rifulgeva di armi cesellate in oro.

      L'altro era un soldato di media statura e portava armi più maneggevoli che

      belle: non cantava, non gesticolava con tracotanza né faceva vana

      esibizione delle proprie armi, ma aveva il petto che fremeva di palpiti di

      coraggio e di rabbia repressa e riservava tutta la sua aggressività per il

      culmine dello scontro. Quando essi presero posizione tra i due eserciti,

      mentre intorno i cuori di tutti i soldati erano sospesi tra la speranza e

      la paura, il campione dei Galli, la cui massa imponente sovrastava

      dall'alto l'avversario, avanzando con lo scudo proteso al braccio

      sinistro, sferrò un fendente di taglio sull'armatura del Romano che gli

      veniva incontro, ma lo mancò, con un grande rimbombo. Il Romano, tenendo

      alta la punta della spada, colpì col proprio scudo la parte bassa di

      quello dell'avversario; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di

      quest'ultimo in modo tale da non correre il rischio di essere ferito, con

      due colpi sferrati uno dopo l'altro gli trapassò il ventre e l'inguine

      facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Tito Manlio

      si astenne dall'infierire sul corpo del nemico crollato al suolo,

      limitandosi a spogliarlo della sola collana, che indossò a sua volta,

      coperta com'era di sangue. I Galli erano paralizzati dalla paura mista

      all'ammirazione. I Romani, invece, abbandonando la posizione, corsero

      festanti incontro al loro commilitone e lo portarono dal dittatore, tra

      congratulazioni ed elogi. Tra le rozze battute che i soldati inserivano

      nei loro cori più o meno simili a versi si sentì anche l'appellativo di

      Torquato, soprannome che in séguito rimase famoso e fu anche motivo di

      onore per i discendenti della sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono

      una corona d'oro e di fronte alle truppe in adunata celebrò con le lodi

      più alte quel combattimento.

      

      11 E per Ercole quel duello fu così determinante nello svolgimento

      dell'intera guerra che l'esercito dei Galli la notte successiva lasciò

      l'accampamento in fretta e furia e si diresse nel territorio dei

      Tiburtini. Di lì, stipulato un trattato di alleanza con i Tiburtini e

      ricevuti da loro generosi rifornimenti, partirono sùbito alla volta della

      Campania. Fu per questa ragione che l'anno dopo il popolo volle assegnare

      al console Gaio Petelio Balbo il cómpito di guidare una spedizione contro

      i Tiburtini, mentre al suo collega Marco Fabio Ambusto era toccata la

      campagna contro gli Ernici. I Galli tornarono indietro dalla Campania per

      intervenire in loro aiuto e le tremende devastazioni registrate nei

      territori di Labico, Tuscolo e Alba Longa avvennero senza alcun dubbio per

      istigazione dei Tiburtini. Mentre lo Stato era soddisfatto del comando

      affidato al console nella campagna contro i Tiburtini, la minaccia dei

      Galli rese necessaria la nomina di un dittatore. La scelta cadde su Quinto

      Servilio Aala che come maestro di cavalleria scelse Tito Quinzio e che, su

      consiglio del senato, fece voto di celebrare dei grandi giochi nel caso in

      cui la guerra si fosse conclusa positivamente. Il dittatore, dopo aver

      ordinato all'esercito del console di rimanere dov'era in modo da impedire

      ai Tiburtini di intervenire in conflitti che non li riguardavano, fece

      prestare giuramento a tutti i giovani in età militare, senza che nessuno

      di essi cercasse di tirarsi indietro. La battaglia venne combattuta non

      lontano dalla porta Collina. I cittadini impiegarono tutte le loro forze

      combattendo al cospetto di genitori, mogli e figli: se questi erano già un

      incentivo fortissimo anche lontani dalla vista, ora, posti di fronte agli

      occhi, infiammarono gli animi dei soldati toccandone il senso dell'onore e

      l'amore verso la famiglia. Le perdite furono numerosissime da entrambe le

      parti, ma alla fine l'esercito dei Galli venne respinto. Messi in fuga, i

      Galli si diressero verso Tivoli, come se questa fosse la piazzaforte della

      loro guerra. Nella loro rotta disordinata vennero intercettati dal console

      Petelio: quando però i Tiburtini uscirono dalla città per portare aiuto, i

      Galli vennero respinti a forza dentro le mura. La campagna venne condotta

      in maniera impeccabile tanto dal dittatore quanto dal console. Fabio,

      l'altro console, prima in battaglie di scarsa importanza e alla fine in

      uno scontro campale nel quale il nemico aveva schierato tutte le sue

      forze, piegò la resistenza degli Ernici. Il dittatore ebbe parole di

      straordinario elogio, in senato e di fronte al popolo, per i due consoli

      cui attribuì il merito anche delle proprie imprese. Quindi rinunciò alla

      dittatura. Petilio celebrò un doppio trionfo per le vittorie su Galli e

      Tiburtini. Quanto a Fabio, invece, sembrò sufficiente concedergli di

      rientrare in città con l'onore dell'ovazione.

      I Tiburtini si facevano beffe del trionfo di Petilio: quando mai aveva

      combattuto con loro? Un pugno di uomini era uscito dalle porte per

      assistere alla fuga e al panico dei Galli: poi, vedendo che anche loro

      venivano attaccati e che quanti si imbattevano nei Romani venivano fatti a

      pezzi, si erano ritirati all'interno delle mura. Era questa la grande

      impresa che agli occhi dei Romani era parsa degna di un trionfo! Perché

      non considerassero cosa troppo straordinaria e valorosa il fare rumore

      davanti alle porte dei nemici, i Romani avrebbero dovuto assistere a

      qualcosa di ben più tremendo di fronte alle loro porte.

      

      12 Così, l'anno successivo, quando i consoli in carica erano Marco Popilio

      Lenate e Gneo Manlio, una spedizione partì da Tivoli con intenti bellicosi

      e raggiunse Roma ai primi silenzi della notte. L'evento improvviso e

      l'allarme notturno terrorizzarono la popolazione immersa nel sonno; e

      ulteriore paura aggiunse il fatto che molti non sapevano chi fossero e da

      dove venissero i nemici. Ciò non ostante l'ordine di correre alle armi

      venne dato immediatamente, mentre in prossimità delle porte e dei muri

      vennero piazzate sentinelle e corpi di guardia. Ma quando le prime luci

      del giorno permisero di capire che la massa degli assalitori non era

      consistente e che non vi erano altri nemici salvo i Tiburtini, i consoli,

      usciti da due delle porte, piombarono loro addosso dai fianchi mentre si

      stavano già avvicinando alle mura; e fu chiaro che la loro spedizione era

      fondata più sulla sorpresa che sul vero valore: riuscirono appena a

      sostenere il primo assalto romano. Quell'assalto, risultò chiaro, era

      stato un bene per i Romani perché la paura provocata da una guerra così

      vicina aveva represso sul nascere uno scontro tra patrizi e plebei.

      Un'altra incursione ostile fu invece, per le campagne, più preoccupante: i

      Tarquiniesi penetrarono in territorio romano, devastandolo soprattutto nei

      pressi del confine con l'Etruria. E siccome le richieste di riparazione

      non ebbero séguito, i nuovi consoli Gaio Fabio e Gaio Plauzio dichiararono

      loro guerra per ordine del popolo. A Fabio toccò quella campagna, mentre a

      Plauzio andarono gli Ernici.

      Inoltre si facevano sempre più frequenti le voci circa una guerra

      scatenata dai Galli. Ma in mezzo a tutte quelle preoccupazioni fu motivo

      di consolazione il concedere la pace ai Latini che erano venuti a

      domandarla, e che inviarono un massiccio contingente di rinforzi (come

      previsto dalle clausole di un antico trattato cui quel popolo non si era

      attenuto per molti anni). Grazie all'invio di queste nuove forze, i Romani

      reagirono meglio all'arrivo della notizia che i Galli erano arrivati a

      Preneste e di lì si erano accampati nei pressi di Pedo. Fu deciso di

      nominare dittatore Gaio Sulpicio e il console Gaio Plauzio venne

      richiamato apposta per farlo. Al dittatore venne affiancato come maestro

      di cavalleria Marco Valerio. Questi uomini marciarono contro i Galli, dopo

      aver selezionato il meglio dei due eserciti consolari. Ma la guerra si

      trascinò molto più a lungo di quanto entrambe le parti desiderassero.

      Mentre all'inizio solo i Galli erano ansiosi di arrivare allo scontro, in

      séguito i Romani ne superarono di gran lunga l'irruenza, desiderosi

      com'erano di correre alle armi e di combattere. Ma il dittatore, non

      essendo forzato dalle circostanze, non aveva alcuna intenzione di buttarsi

      allo sbaraglio contro un nemico che il tempo rendeva giorno dopo giorno

      sempre meno preoccupante, in zone poco favorevoli, senza adeguate

      provviste di viveri. E a tutto questo si aggiungeva il fatto che la forza

      e il valore del nemico consisteva interamente nella capacità di attacco,

      mentre diventava poca cosa non appena le operazioni rallentavano anche di

      un nonnulla.

      Fondandosi su queste considerazioni, il dittatore cercava di tirare la

      guerra per le lunghe, minacciando pene gravissime per chi avesse osato

      aprire le ostilità senza il suo ordine. Gli uomini, che non vedevano di

      buon occhio questa tattica, sulle prime cominciarono a sparlare del

      dittatore durante i servizi di guardia e talora si recavano in gruppo dai

      senatori rimproverandoli di non aver affidato la guerra ai consoli: il

      comandante supremo da loro scelto era un grandissimo stratega, uno che

      credeva che la vittoria gli sarebbe caduta tra le braccia dal cielo senza

      dover alzare un dito. Ma in séguito i soldati iniziarono a parlare alla

      luce del sole e a dire apertamente cose ancora più gravi: non avrebbero

      più aspettato l'ordine del comandante: avrebbero combattuto oppure

      sarebbero rientrati a Roma in schiera compatta. Ai soldati cominciarono a

      unirsi i centurioni e le lamentele non erano più limitate a piccoli

      crocchi: nella piazza principale del campo e di fronte alla tenda del

      dittatore era ormai un solo coro di proteste. La massa degli scontenti

      aumentò poi nell'assemblea del popolo e da tutte le parti si sentiva la

      gente gridare che era venuto il momento di andare dal dittatore. Il

      portavoce delle truppe avrebbe dovuto essere Sesto Tullio, come si

      conveniva alla sua statura di soldato.

      

      13 In quella campagna Tullio serviva per la settima volta come centurione

      primipilo e in tutto l'esercito non c'era nessun altro - almeno

      all'interno della fanteria - che si fosse distinto quanto lui per i

      servizi prestati. Marciando in testa alle truppe, Tullio salì sulla

      tribuna e si avvicinò a Sulpicio che era sbalordito non tanto al vedersi

      davanti quella massa di soldati, quanto piuttosto al fatto che a guidarla

      fosse Tullio, un soldato assolutamente ligio alla gerarchia militare. «Se

      mi è concesso, o dittatore», disse «l'intero esercito, sentendosi

      condannato alla viltà dal tuo comportamento e quasi privato delle armi per

      ignominia, mi ha pregato di venire a perorare la sua causa presso di te. A

      dir la verità, se noi potessimo essere accusati di aver in qualche luogo

      ceduto la posizione, di aver voltato le spalle ai nemici o di aver

      abbandonato vergognosamente le insegne, ciò non ostante continuerei a

      pensare che sia giusto chiederti di offrirci l'opportunità di riparare

      alla nostra colpa con una prova di valore e di conquistare nuova gloria

      cancellando il ricordo del nostro disonore. Anche le legioni che furono

      messe in fuga all'Allia partirono poi alla volta di Veio e riconquistarono

      con il valore quella stessa patria che avevano perduto per codardia.

      Quanto a noi, per la benevolenza degli dèi e la fortuna che arride a te e

      al popolo romano, la nostra causa e la nostra gloria sono ancora intatte.

      Anche se della gloria sarei meno sicuro, visto che i nemici ci hanno

      insultato in tutti i modi possibili, come fossimo donnicciole nascoste al

      riparo della trincea, e tu, il nostro comandante - cosa questa ben più

      difficile da sopportare - ci consideri un esercito privo di nerbo, di armi

      e di mani e prima ancora di averci messo alla prova hai disperato di noi a

      tal punto da ritenerti il comandante di un'armata di invalidi e di storpi.

      Perché in quale altro modo potremmo spiegarci che un generale esperto e

      temerario quale tu sei se ne stia, come si suole dire, con le mani in

      mano? Comunque stiano le cose, è più ragionevole che tu dia l'impressione

      di avere dei dubbi circa il nostro valore piuttosto che ad avere dubbi sul

      tuo siamo noi soldati. Ma se invece questa tattica non dipende da te ma ti

      è imposta dallo Stato, e se a tenerci lontano da Roma è qualche accordo

      stretto dai senatori e non la guerra contro i Galli, allora io ti prego di

      ascoltare le parole che sto per dirti non come se fossero rivolte dalla

      truppa al comandante, ma come se a parlare fosse la plebe ai patrizi (e

      visto che voi patrizi avete i vostri piani, chi potrebbe prendersela coi

      plebei se anche loro decidessero di averne?): noi siamo soldati, non

      vostri servi; siamo stati inviati a combattere una guerra e non mandati in

      esilio. Se qualcuno vorrà dare il segnale e guidarci in battaglia, noi

      saremo pronti a combattere come si conviene a degli uomini e a dei Romani.

      Ma se non c'è bisogno delle armi, allora preferiamo riposarci a Roma

      piuttosto che dentro un accampamento. Ai patrizi è questo che mandiamo a

      dire. Ma a te, o comandante, noi che siamo i tuoi soldati chiediamo

      imploranti di concederci l'opportunità di combattere. Non abbiamo voglia

      soltanto di vincere: vogliamo vincere sotto il tuo comando, conquistare

      per te l'alloro prestigioso, entrare con te in trionfo a Roma e

      accompagnare con ovazioni e ringraziamenti il tuo carro trionfale fino al

      tempio di Giove Ottimo Massimo». Il discorso di Tullio venne sostenuto

      dalle invocazioni della folla, mentre da ogni parte si udivano voci che

      chiedevano a tutta forza di dare il segnale di battaglia e l'ordine di

      prendere le armi.

      

      14 Pur pensando che l'iniziativa, di per sé ottima, fosse stata condotta

      in maniera non certo esemplare, ciò non ostante il dittatore decise di

      seguire la volontà della truppa, e in privato domandò a Tullio che cosa

      significasse quel gesto e sulla base di quale precedente egli avesse

      agito. Tullio pregò il dittatore di non credere che egli si fosse

      dimenticato della disciplina militare, né della propria posizione né

      tantomeno dell'autorità del comandante: siccome la massa è in genere della

      stessa stoffa dei suoi capi, egli non aveva rifiutato di esserne il

      portavoce, per evitare che saltasse fuori qualcun altro simile a quelli

      che di solito la massa in fermento suole scegliere come propri

      rappresentanti. Ma a essere sincero, non avrebbe fatto nulla senza

      l'approvazione del suo comandante, il quale doveva del resto guardarsi

      bene dal lasciarsi sfuggire di mano il controllo dell'esercito, visto che

      in quello stato di eccitazione rimandare la soluzione del problema non

      sarebbe servito a molto. Se infatti l'ordine non fosse venuto dal

      comandante, avrebbero scelto da soli luogo e tempo per entrare in

      battaglia. Mentre questo colloquio era in pieno svolgimento, uno dei Galli

      tentò di portar via degli animali che si trovavano a pascolare al di là

      della palizzata, ma se li vide strappare da due Romani, contro i quali i

      Galli presero a scagliare sassi. Dalla postazione romana si levò allora

      l'allarme e da entrambe le parti gli uomini si mossero allo scontro. E

      ormai la scaramuccia stava per trasformarsi in una battaglia vera e

      propria, se i centurioni non avessero prontamente diviso i contendenti.

      Questo incidente persuase il dittatore sul realismo delle parole di

      Tullio: dato che la situazione non ammetteva ulteriori dilazioni, annunciò

      che il giorno successivo si sarebbe combattuto in campo aperto.

      Ma il dittatore, scendendo in campo convinto più del temperamento che non

      della forza della sue truppe, cominciò a guardarsi intorno e a studiare

      qualche stratagemma per spaventare il nemico. Grazie alla sua abilità

      tattica, escogitò un nuovo espediente, di cui si servirono in séguito

      molti comandanti romani e di altre genti (alcuni anche ai nostri giorni):

      ordinò ai palafrenieri di togliere le selle ai muli, lasciando solo un

      paio di coperte e disse loro di montarli vestendosi parte con le armi dei

      prigionieri e parte con quelle degli ammalati. Dopo averne messi insieme

      circa mille, vi mescolò un centinaio di cavalieri e ordinò loro di

      piazzarsi al calar della notte sulle montagne che sovrastavano

      l'accampamento e di non muoversi di lì finché non avessero ricevuto il

      segnale. Quanto al dittatore, non appena fece giorno, cominciò a

      organizzare con estrema cura la sua linea di battaglia alle pendici delle

      alture, in maniera che i nemici andassero a piazzarsi di fronte alle

      montagne dove era stato allestito per spaventarli un espediente che, pur

      non avendo nulla di concreto al di là delle apparenze, fu per i Romani

      quasi più utile della loro stessa forza. Sulle prime i comandanti dei

      Galli supposero che i Romani non sarebbero scesi in pianura. Ma poi,

      quando li videro iniziare di colpo la discesa, impazienti com'erano di

      venire allo scontro, si buttarono a testa bassa e la battaglia ebbe inizio

      prima ancora che i rispettivi comandanti avessero dato il segnale

d'inizio.

      

      15 L'ala destra dei Galli attaccò in maniera ancora più poderosa: e per i

      Romani non sarebbe stato possibile resistere, se il dittatore non si fosse

      trovato per puro caso da quella parte. Chiamando per nome Sesto Tullio,

      gli domandò se fosse quello il modo di combattere da lui promesso a nome

      dei soldati. Dov'erano finite le urla di quelli che chiedevano di poter

      correre alle armi, dove le minacce di entrare in battaglia senza l'ordine

      del comandante? Ecco, ora il loro comandante li spronava a gran voce alla

      battaglia e ad avanzare con la spada in pugno al di là delle insegne!

      Possibile che tra quanti poco prima erano pronti a dare ordini non ce ne

      fosse uno disposto a seguirlo, loro che nell'accampamento ostentavano

      baldanza e poi diventavano codardi in battaglia? Le parole del comandante

      corrispondevano a verità: e la vergogna provata fu uno stimolo tanto forte

      da far sì che si lanciassero contro i proiettili nemici dimentichi del

      pericolo. Questo assalto quasi da forsennati gettò lo scompiglio tra gli

      avversari, che vennero poi messi in rotta da un attacco della cavalleria

      ancor prima di potersi riprendere dalla confusione. Il dittatore stesso,

      non appena si rese conto che una parte dello schieramento stava perdendo

      colpi, diresse l'attacco verso il fianco sinistro dei Galli (nel punto in

      cui le loro fila apparivano più compatte), e diede il segnale convenuto

      agli uomini appostati sulle alture. E quando anch'essi alzarono un nuovo

      grido di guerra e i Galli li videro scendere lungo le pendici del monte in

      direzione del loro accampamento, temendo di rimanere tagliati fuori,

      abbandonarono la battaglia e fuggirono disordinatamente verso

      l'accampamento stesso. Lì però vennero intercettati dal maestro di

      cavalleria Marco Valerio, il quale, dopo averne disperso il fianco

      sinistro, stava già cavalcando di fronte ai dispositivi di difesa. Allora

      i fuggiaschi cambiarono direzione puntando verso i monti e i boschi, dove

      però la maggior parte di essi venne fronteggiata dai palafrenieri

      travestiti da cavalieri. Quelli che erano stati spinti dal panico verso i

      boschi furono massacrati senza pietà a battaglia già conclusa. Dai tempi

      di Marco Furio, nessuno meritò più di Gaio Sulpicio di celebrare un

      trionfo sui Galli. Egli raccolse dalle spoglie dei Galli una notevole

      quantità d'oro che consacrò agli dèi in Campidoglio facendola interrare in

      una cella sotterranea.

      Nel corso di quello stesso anno anche i consoli combatterono, pur se con

      esiti diversi. Gaio Plauzio infatti vinse e sottomise gli Ernici. Il suo

      collega Fabio combatté invece contro i Tarquiniesi, dimostrando però di

      non possedere né prudenza né senso tattico. In quella campagna non furono

      tanto gravi le perdite patite sul campo, quanto piuttosto il fatto che i

      Tarquiniesi uccisero trecento sette soldati romani fatti prigionieri. Atto

      questo di barbara crudeltà che rese ancora più clamorosa l'umiliazione del

      popolo romano. A quella disfatta si andarono ad aggiungere anche le

      devastazioni compiute in séguito da Privernati e Veliterni con una

      improvvisa incursione in territorio romano. Quello stesso anno vennero

      aggiunte due nuove tribù, la Pontina e la Publilia, e si celebrarono i

      giochi promessi in voto dal dittatore Marco Furio. Su iniziativa del

      senato, per la prima volta nella storia di Roma, il tribuno della plebe

      Gaio Petilio presentò al popolo un disegno di legge sulla corruzione

      elettorale. Con questa misura si sperava di eliminare l'abitudine di

      brigare a caccia di voti, specialmente da parte degli uomini nuovi, i

      quali erano soliti andare in giro per piazze e mercati.

      

      16 Fu invece meno gradita ai senatori una proposta di legge presentata

      l'anno successivo durante il consolato di Gaio Marcio e Gneo Manlio. Gli

      autori della proposta - accolta con ben altro favore dalla plebe e volta a

      limitare il tasso di interesse annuo all'uno per cento - furono i tribuni

      della plebe Marco Duilio e Lucio Menenio.

      Alle guerre già decise l'anno precedente, venne ad aggiungersene una con i

      Falisci. A questo popolo venivano imputate due colpe, e cioè il fatto che

      alcuni loro giovani avessero militato nelle file dei Tarquiniesi e il non

      aver riconsegnato ai feziali che li reclamavano i Romani rifugiatisi a

      Faleri dopo la rotta. La campagna toccò a Gneo Manlio. Marcio guidò invece

      un esercito nel territorio dei Privernati (rimasto intatto per il lungo

      periodo di pace intercorso), e riempì le truppe di bottino. Alla grande

      razzia il console aggiunse anche la propria generosità, perché non fece

      accantonare nulla per le casse dello Stato, favorendo l'utile personale

      dei soldati. Dato che i Privernati si erano accampati di fronte alle mura

      della loro città proteggendosi con massicce opere di fortificazione, egli

      convocò l'adunata e rivolse alle sue truppe queste parole: «L'accampamento

      e la città dei nemici ve li concedo fin da adesso come vostro bottino, a

      patto che mi garantiate di svolgere il vostro cómpito con valore, pensando

      più alla battaglia che al bottino». I soldati chiesero allora a gran voce

      che venisse dato loro il segnale e si gettarono con ardore in battaglia,

      rincuorati da una sicurezza che non ammetteva dubbi. Fu allora che Sesto

      Tullio (di cui abbiamo parlato prima), davanti alle insegne, gridò:

      «Guarda, comandante, come il tuo esercito mantiene la promessa fatta!».

      Poi, lasciata l'asta, impugnò la spada e si gettò all'assalto del nemico.

      I soldati della prima linea lo seguirono in massa e, messi in fuga i

      nemici al primo urto, li inseguirono fino in città. E lì, quando i Romani

      stavano ormai accostando le scale ai muri, la città si arrese. La vittoria

      sui Privernati venne celebrata con un trionfo.

      L'altro console non fece nulla che valga la pena di menzionare, se si

      esclude che, nel suo accampamento presso Sutri, facendo votare gli uomini

      per tribù (una prassi senza precedenti), riuscì a far approvare una legge

      in base alla quale le affrancazioni di schiavi venivano tassate del cinque

      per cento. Il senato approvò la legge, perché essa garantiva un gettito di

      denaro non trascurabile per l'erario in grave crisi. Ma i tribuni della

      plebe, preoccupati più dal precedente stabilito che dalla legge in sé,

      ottennero che venisse sancita la pena di morte per chiunque avesse in

      séguito osato convocare l'assemblea del popolo lontano da Roma. Infatti,

      se ciò fosse stato concesso, qualunque cosa, per quanto dannosa per il

      popolo, avrebbe potuto essere approvata attraverso il voto dei soldati

      vincolati dal giuramento di obbedienza al console.

      Nel corso di quel medesimo anno, Gaio Licinio Stolone venne condannato,

      sulla base della sua stessa legge, a un'ammenda di diecimila assi, per il

      fatto che, possedendo insieme col figlio mille iugeri di terra, aveva

      tentato di aggirare la legge dichiarando il figlio indipendente dalla

      patria potestà.

      

      17 In séguito i due nuovi consoli, Marco Fabio Ambusto e Marco Popilio

      Lenate (entrambi eletti per la seconda volta), combatterono due guerre. La

      prima, contro i Tiburtini, non presentò problemi perché Marco Popilio,

      dopo aver costretto i nemici all'interno della città, ne devastò le

      campagne. Nella seconda Falisci e Tarquiniesi sbaragliarono l'altro

      console al primo urto. Il panico fu dovuto soprattutto a questo: i

      sacerdoti dei due popoli, reggendo nelle mani fiaccole accese e serpenti,

      si avventarono come furie sui Romani, che si lasciarono spaventare da

      quell'insolito spettacolo. Sulle prime, come se avessero perso l'uso della

      ragione, ruppero le righe e corsero a rifugiarsi all'interno delle

      fortificazioni. Ma poi, quando i consoli, i luogotenenti e i tribuni li

      dileggiarono rimproverandoli di essersi spaventati come bambini di fronte

      a un insulso trucco, la vergogna mutò il loro atteggiamento, spingendoli a

      gettarsi con cieco furore contro quegli stessi che li avevano

      terrorizzati. Così, dopo aver disperso quel falso apparato nemico, si

      lanciarono contro gli uomini realmente armati, mettendo in fuga l'intera

      armata nemica e conquistandone quello stesso giorno anche l'accampamento:

      tornando vincitori con l'enorme bottino razziato, i soldati deridevano con

      lazzi militareschi non solo la messa in scena allestita dai nemici ma

      anche la propria paura. In séguito tutti i popoli etruschi entrarono in

      guerra, dirigendosi verso le Saline, agli ordini dei comandanti di

      Tarquinia e di Faleri. Per fronteggiare quella minaccia, venne eletto

      dittatore Gaio Marcio Rutulo - il primo plebeo a occupare tale

      magistratura -, che scelse come maestro di cavalleria un altro plebeo,

      Gaio Plauzio. Ma i patrizi ritennero fosse una vergogna il dividere con i

      plebei anche la dittatura. Perciò esercitarono tutta la loro influenza per

      evitare che venissero approvati decreti o fatti i preparativi necessari al

      dittatore per condurre quella guerra. Tanto più prontamente il popolo votò

      tutte le proposte avanzate dal dittatore. Partito da Roma, il dittatore,

      servendosi di zattere, dispose le sue truppe su entrambe le rive del

      Tevere, dovunque veniva a sapere che si trovavano i nemici, e sorprese

      molti che vagavano saccheggiando le campagne. Con un attacco a sorpresa

      catturò poi anche l'accampamento nemico insieme con ottomila uomini. I

      restanti vennero massacrati o allontanati dal territorio romano; al

      dittatore il popolo tributò il trionfo, senza però che questo venisse

      autorizzato dal senato.

      Siccome i patrizi non permettevano che né il dittatore plebeo né il

      console presiedessero le elezioni consolari e l'altro console, Marco Fabio

      Ambusto, era trattenuto dalla guerra, la situazione sfociò in un

      interregno. La carica venne detenuta successivamente da Quinto Servilio

      Aala, Marco Fabio, Gneo Manlio, Gaio Fabio, Gaio Sulpicio, Lucio Emilio,

      Quinto Servilio e Marco Fabio Ambusto. Durante il secondo interregno ci fu

      un contrasto dovuto al fatto che stavano per essere eletti consoli due

      patrizi: ma avendo i tribuni opposto il loro veto, l'interré Fabio

      sosteneva che, giusta una legge delle XII Tavole, qualunque cosa il popolo

      avesse decretata per ultima aveva valore di norma e doveva essere

      ratificata; inoltre anche il voto del popolo doveva considerarsi una

      deliberazione. Ma siccome il ricorso al veto da parte dei tribuni non

      portò ad altro che a differire la data delle elezioni, vennero eletti

      consoli due patrizi, Gaio Sulpicio Petico (al terzo consolato) e Marco

      Valerio Publicola, i quali entrarono in carica lo stesso giorno.

      

      18 A quattrocento anni dalla fondazione di Roma e a trentacinque da quando

      venne ripresa ai Galli, i plebei vennero privati del consolato cui avevano

      avuto accesso per dieci anni [a entrare in carica dopo l'interregno furono

      due patrizi, Gaio Sulpicio Petico (al terzo consolato) e Marco Valerio

      Publicola]. Quell'anno la città di Empoli venne tolta ai Tiburtini senza

      che si dovesse ricorrere a battaglie degne di essere menzionate. E questo

      o perché quella campagna venne condotta sotto gli auspici dei due consoli,

      come è scritto in alcune fonti, oppure perché il territorio di Tarquinia

      venne messo a ferro e fuoco dal console Sulpicio proprio nello stesso

      momento in cui Valerio guidò le sue legioni contro i Tiburtini.

      I consoli ebbero vita ben più difficile in patria, opposti com'erano a

      plebe e tribuni. I nobili ritenevano che il senso dell'onore e il

      riconoscimento dei loro meriti ormai rendevano imprescindibile che, come

      due patrizi avevano ottenuto il consolato, così essi dovessero tramandarlo

      a successori che fossero entrambi patrizi: anzi, sostenevano che

      bisognasse o rinunciare del tutto a quella carica, e far diventare il

      consolato una magistratura plebea, oppure mantenere intatto quel possesso

      che essi avevano ereditato integro dai loro padri. Dall'altra parte i

      plebei erano in fermento: che senso aveva vivere, che senso aveva essere

      considerati parte dello Stato, se poi non erano in grado di mantenere,

      tutti insieme, ciò che il coraggio di due soli uomini, Lucio Sestio e Gaio

      Licinio, aveva ottenuto per loro? Meglio dover accettare i re o i

      decemviri o qualunque altra peggior forma di governo, piuttosto che vedere

      entrambi i consoli patrizi, senza alternanza nell'obbedire e nel

      comandare, con una parte della cittadinanza che si riteneva investita per

      sempre dell'autorità e considerava la plebe come nata per nient'altro che

      la servitù. Tribuni che agitassero le acque certo non mancavano, ma in

      quella situazione che vedeva tutti già di per sé eccitati i capi

      emergevano a stento. Dopo alcune inutili discese del popolo nel Campo

      Marzio e molti giorni dedicati alle assemblee e finiti in scontri, la

      perseveranza dei consoli ebbe alla fine la meglio: i plebei arrivarono a

      un punto tale di esasperazione da seguire mestamente i loro tribuni i

      quali andavano gridando che la libertà era ormai perduta e che bisognava

      abbandonare non solo il Campo Marzio, ma anche Roma stessa, a sua volta

      prigioniera e oppressa dalla tirannide patrizia. Ma i consoli, abbandonati

      da una parte della popolazione, non ostante l'esiguo numero di votanti,

      portarono a termine le elezioni con pari determinazione. I consoli eletti,

      Marco Fabio Ambusto e Tito Quinzio (al terzo consolato), erano entrambi

      patrizi. In alcuni annali come console ho trovato Marco Popilio al posto

      di Tito Quinzio.

      

      19 Le due guerre combattute quell'anno ebbero esito positivo. Tarquiniesi

      e Tiburtini vennero costretti alla resa. Ai Tiburtini fu strappata

      Sassula. Le altre città avrebbero fatto la sua stessa fine, se l'intero

      popolo non avesse abbandonato le armi, consegnandosi a discrezione del

      console. Per la sconfitta dei Tiburtini venne celebrato un trionfo. Ma la

      clemenza prevalse negli altri aspetti della vittoria. Per la gente di

      Tarquinia non ci fu invece nessuna pietà: molti di essi vennero uccisi in

      battaglia, e dei moltissimi prigionieri catturati ne vennero scelti

      trecento cinquantotto - il fiore della nobiltà - per essere inviati a

      Roma, mentre il resto della popolazione venne passato per le armi. Quanto

      al popolo, non fu molto più clemente con quelli che erano stati inviati a

      Roma: vennero frustati e decapitati al centro del foro. Fu quello il modo

      per vendicarsi dei nemici per i Romani massacrati nel foro di Tarquinia.

      Il successo in questa guerra fece sì che anche i Sanniti venissero a

      chiedere la pace. Il senato ebbe per i loro ambasciatori una risposta

      amichevole e concesse loro un trattato di alleanza.

      Ma la plebe di Roma non coglieva in patria gli stessi successi che le

      toccavano in campo militare. Infatti, anche se l'adozione del tasso di

      interesse dell'uno per cento sui prestiti li aveva liberati dall'usura, i

      più poveri erano ugualmente schiacciati dal peso del capitale da

      restituire e finivano con l'essere ridotti in schiavitù. E per questo né

      la presenza di due consoli patrizi, né la preoccupazione per le elezioni o

      per la politica riusciva a distrarre l'attenzione dei plebei dalle

      vicissitudini private. Di conseguenza entrambi i consoli continuarono a

      essere patrizi e vennero eletti Gaio Sulpicio Petico (al quarto consolato)

      e Marco Valerio Publicola (al secondo).

      Mentre la gente aveva pensieri solo per la guerra contro il popolo etrusco

      (poiché circolava voce che gli abitanti di Cere, presi da compassione per

      i loro consanguinei di Tarquinia, avrebbero fatto causa comune con questi

      ultimi), arrivarono ambasciatori latini a stornare l'attenzione verso i

      Volsci: riferirono che questi avevano arruolato e armato un esercito con

      il quale stavano già minacciando il territorio latino, per poi passare di

      lì a devastare quello romano. Il senato ritenne opportuno non trascurare

      nessuno dei due pericoli, e ordinò di arruolare legioni per entrambe le

      campagne, lasciando che i consoli dividessero tra loro i cómpiti con un

      sorteggio. Ma il fronte etrusco divenne in séguito la preoccupazione

      maggiore, quando cioè tramite una lettera del console Sulpicio, cui era

      toccata la campagna contro Tarquinia, si venne a sapere che la zona nei

      pressi delle Saline romane era stata messa a ferro e fuoco, che parte del

      bottino era stata portata nel territorio di Cere e che tra i responsabili

      del saccheggio c'erano sicuramente giovani provenienti da quella città.

      Pertanto il senato, dopo aver richiamato il console Valerio, che era

      impegnato contro i Volsci e stava accampato nel territorio di Tuscolo, gli

      ordinò di nominare un dittatore. La scelta cadde su Tito Manlio, il figlio

      di Lucio. Questi, dopo essersi scelto come maestro di cavalleria Aulo

      Cornelio Cosso, si limitò a chiedere un esercito consolare e quindi, con

      l'autorizzazione del senato e per volontà del popolo, dichiarò guerra agli

      abitanti di Cere.

      

      20 Fu in quel momento che gli abitanti di Cere, come se nelle parole dei

      nemici ci fossero più minacce di guerra che non nelle provocazioni e nelle

      devastazioni da loro inflitte ai Romani, vennero presi per la prima volta

      dal terrore di dover affrontare lo scontro e cominciarono a rendersi conto

      dell'inadeguatezza delle loro forze a quel genere di conflitto. Così si

      pentivano dei saccheggi compiuti e maledicevano i Tarquiniesi per averli

      trascinati alla defezione. Non c'era un solo cittadino che si armasse o

      facesse preparativi di guerra, ma tutti chiedevano di inviare ambasciatori

      a chiedere perdono dell'errore commesso. Quando gli ambasciatori si

      presentarono al senato, i senatori li mandarono di fronte al popolo. Lì,

      invocando gli dèi, i cui oggetti sacri essi avevano conservato durante la

      guerra con i Galli proteggendoli secondo le prescrizioni rituali, gli

      ambasciatori implorarono i celesti di ispirare a un popolo romano ora

      florido e potente quella stessa compassione che la gente di Cere aveva

      avuto per Roma sull'orlo della disfatta. Poi, rivoltisi verso il santuario

      di Vesta, implorarono il collegio dei flamini e le Vestali, cui essi

      avevano offerto ospitalità con religiosa devozione. Chi poteva credere che

      gente comportatasi in maniera così meritoria nei confronti dei Romani

      potesse essersi ora trasformata in nemica senza averne alcun motivo? O che

      se anche avesse commesso qualche gesto ostile, ciò non fosse dovuto a un

      momento di follia ma costituisse un atto premeditato, mirato a guastare

      con misfatti recenti i benefici conquistati in passato e collocati per di

      più presso uomini tanto riconoscenti, a trasformare in nemico di un popolo

      romano ora nel pieno del benessere e della potenza militare chi gli era

      stato amico nell'ora delle difficoltà? Non chiamassero 'premeditazione'

      ciò che andava invece chiamato 'forza e necessità'! I Tarquiniesi,

      attraversando in assetto di guerra il loro territorio, avevano chiesto

      solo il permesso di passare: poi però si erano trascinati dietro gente dei

      campi che aveva preso parte ai saccheggi, e questi venivano adesso

      imputati agli abitanti di Cere. Se i Romani desideravano che quegli uomini

      fossero consegnati, erano disposti a farlo; se invece desideravano che li

      si punisse, non avrebbero esitato a metterli a morte. Ma Cere, vero

      santuario del popolo romano, asilo per i sacerdoti e rifugio per gli

      oggetti sacri dei Romani, fosse lasciata intatta e immune dall'accusa di

      voler muovere guerra, in nome dell'ospitalità offerta alle Vestali e della

      reverenza dimostrata nei confronti delle divinità. Ciò che commosse il

      popolo non fu tanto la causa perorata in quel momento, quanto piuttosto il

      ricordo dei meriti conquistati in passato: così fu portato a scegliere di

      dimenticare un'offesa piuttosto che un beneficio. Pertanto agli abitanti

      di Cere venne concessa la pace, e si decise di proclamare una tregua di

      cento anni, sancendola con un senatoconsulto. La violenza della guerra

      venne rivolta contro i Falisci, sui quali pendeva lo stesso tipo di

      imputazione. Ma non si trovarono tracce del nemico. Dopo aver devastato le

      campagne nella loro estensione, i Romani si astennero dall'assediare i

      centri abitati. Una volta ricondotte a Roma le legioni, il resto dell'anno

      venne impiegato nella riparazione di mura e torri, e ci fu la

      consacrazione di un tempio ad Apollo.

      

      21 Verso la fine dell'anno, la frizione tra patrizi e plebei impedì lo

      svolgimento delle elezioni consolari: mentre i tribuni della plebe

      sostenevano che avrebbero permesso di convocare l'assemblea soltanto se lo

      si fosse fatto in conformità alla legge Licinia, dall'altra parte il

      dittatore insisteva con ostinazione che si dovesse eliminare del tutto il

      consolato dalle istituzioni statali, piuttosto che avere una magistratura

      aperta, senza alcuna distinzione, a patrizi e plebei. Mentre la

      convocazione dell'assemblea veniva di continuo rinviata, il dittatore

      completò il proprio mandato e si arrivò così a un interregno. Ma dato che

      gli interré continuavano a constatare nella plebe una profonda ostilità

      verso i patrizi, gli scontri tra le due classi proseguirono fino

      all'undicesimo interré. I tribuni si vantavano di proteggere la legge

      Licinia: la plebe, invece, era toccata più da vicino dal continuo aumento

      dei debiti e le preoccupazioni private si scaricavano nelle contese di

      natura pubblica. Infastiditi dalla situazione, i patrizi ordinarono

      all'interré Lucio Cornelio Scipione di far sì che in occasione delle

      elezioni consolari ci si attenesse alla legge Licinia in nome della

      concordia interna. Venne eletto Publio Valerio Publicola, cui fu affidato

      un collega di estrazione plebea, Gaio Marcio Rutulo. Ora che gli animi

      inclinavano alla concordia, i nuovi consoli tentarono di trovare una

      soluzione anche al problema dell'usura, che a quel punto sembrava essere

      il solo ostacolo all'armonia interna. Per loro intervento fu lo Stato ad

      occuparsi del problema dei debiti: furono nominati cinque commissari, che

      ebbero il nome di banchieri per la facoltà a essi assegnata di dispensare

      denaro. Questi uomini operarono in maniera così equilibrata e scrupolosa

      da essere poi menzionati in tutti gli annali: si trattava di Gaio Duilio,

      Publio Decio Mure, Marco Papirio, Quinto Publilio e Tito Emilio.

      Nell'assolvere un cómpito quanto mai delicato, con il solito rischio di

      scontentare l'una e l'altra parte o almeno di alienarsi il consenso di una

      delle due, essi dimostrarono grande equità e soprattutto seppero fare in

      modo che un onere per lo Stato non si trasformasse in un disastro

      finanziario. Infatti i debiti arretrati, dovuti più all'incuria dei

      debitori che alla reale mancanza di fondi, l'erario li pagò in contanti,

      previo però il versamento di una cauzione, tramite le banche piazzate

      appositamente nel foro, oppure li estingueva con beni valutati a prezzi

      equi. Il risultato dell'operazione fu che una grande quantità di debiti

      venne cancellata non solo senza commettere ingiustizie, ma riuscendo anche

      a evitare lamentele da entrambe le parti in causa.

      In séguito un falso allarme relativo a una guerra contro gli Etruschi -

      allarme dovuto a una notizia infondata secondo cui i dodici popoli

      etruschi avrebbero costituito una coalizione -, indusse a nominare un

      dittatore. La nomina venne fatta nell'accampamento perché fu lì inviata ai

      consoli la disposizione votata dal senato e la scelta cadde su Gaio Giulio

      cui venne associato come maestro di cavalleria Lucio Emilio. Per il resto

      dell'anno non ci furono dall'esterno motivi di allarme.

      

      22 In patria, invece, il dittatore tentò di far eleggere due consoli

      patrizi. Ma la cosa portò all'interregno. I due interré che si

      succedettero, Gaio Sulpicio e Marco Fabio, riuscirono a realizzare quanto

      il dittatore aveva tentato invano: la plebe, riconoscente per essere stata

      liberata dal peso del debito, concesse che entrambi i consoli fossero

      patrizi. Si trattava dello stesso Gaio Sulpicio Petico, il primo dei due

      interré, e di Tito Quinzio Peno (il cui prenome, stando ad alcuni storici,

      sarebbe stato Cesone, mentre altri riportano Gaio). Partiti entrambi per

      la guerra, Quinzio per la campagna contro i Falisci, Sulpicio per quella

      contro i Tarquiniesi, i due consoli non si scontrarono mai in campo aperto

      col nemico, ma bersagliarono più le campagne che gli esseri umani,

      devastando e bruciando i terreni. Quando questa forma di lenta consunzione

      ebbe la meglio sull'ostinazione di entrambi i popoli, i nemici prima

      chiesero ai consoli una tregua, poi la ottennero dal senato, con

      l'approvazione consolare, per una durata di quarant'anni.

      Visto che la preoccupazione legata ai due conflitti in atto era in questo

      modo cessata, non essendovi altra minaccia di guerra in vista, si decise

      di effettuare un censimento, perché l'eliminazione dei debiti aveva fatto

      cambiare padrone a molte proprietà. Senonché, quando vennero bandite le

      elezioni per la nomina dei censori, l'armonia tra le classi venne turbata

      dall'annuncio di Gaio Marcio Rufulo (il primo plebeo a essere nominato

      dittatore), il quale dichiarò di volersi candidare per quella carica. Era

      evidente che il momento non risultava favorevole per una simile

      iniziativa, perché in quella congiuntura entrambi i consoli erano patrizi:

      e infatti dichiararono che non avrebbero minimamente tenuto conto di

      quella candidatura. Ma Rufulo perseverò nella sua azione e i tribuni

      fecero di tutto per aiutarlo, nella speranza di poter recuperare quanto

      avevano perduto nelle elezioni consolari. E poi non era soltanto il

      prestigio stesso dell'uomo a essere superiore a qualunque carica (per

      quanto elevata potesse essere), ma erano anche i plebei a desiderare una

      partecipazione alla censura nella persona di quello stesso cittadino che

      aveva loro aperto le porte della dittatura. Nel corso dell'assemblea

      elettorale le posizioni non cambiarono: Marcio venne eletto censore

      insieme a Manlio Nevio.

      Quell'anno si ebbe anche un dittatore nella persona di Marco Fabio, ma non

      per una qualche minaccia di guerra, bensì per evitare che ci si attenesse

      alla legge Licinia nell'elezione dei consoli. Al dittatore venne

      affiancato in qualità di maestro di cavalleria Quinto Servilio. Tuttavia

      la dittatura non riuscì a rendere quell'unanime consenso dei patrizi più

      potente nelle elezioni consolari di quanto non fosse stato in quelle dei

      censori.

      

      23 Marco Popilio Lenate fu il console plebeo, Lucio Cornelio Scipione il

      patrizio.

      Anche la sorte volle rendere più illustre il console plebeo. Infatti,

      quando arrivò la notizia che un poderoso esercito di Galli si era

      accampato in territorio latino, il console Scipione era gravemente malato:

      fu così che il comando delle operazioni venne assegnato a Popilio con un

      provvedimento straordinario. Egli, arruolato senza indugi un esercito,

      dato a tutti l'ordine di trovarsi in armi al tempio di Marte fuori della

      porta Capena, e ai questori di trasportare lì le insegne dall'erario,

      completò quattro legioni e affidò il numero di uomini in eccesso al

      pretore Publio Valerio Publicola, sollecitando il senato ad arruolare un

      secondo esercito che facesse da riserva in previsione di eventuali

      emergenze belliche. Poi, una volta esauriti di persona tutti i

      preparativi, partì alla volta del nemico. E per conoscere l'entità delle

      forze nemiche prima di doverle saggiare nel corso di uno scontro decisivo,

      occupò la collina più vicina all'accampamento dei Galli e cominciò a

      scavarvi una trincea. I Galli, bellicosi e per natura sempre smaniosi di

      arrivare allo scontro armato, non appena videro in lontananza le insegne

      romane, si schierarono sùbito in assetto di guerra come se avessero dovuto

      immediatamente ingaggiare battaglia. Ma poi, rendendosi conto che i Romani

      non accennavano a scendere in pianura bensì cercavano di proteggersi non

      solo sfruttando la posizione elevata ma anche con l'ausilio di una

      trincea, supposero che i nemici fossero in preda al panico e, nel

      contempo, che risultassero ancor più vulnerabili proprio perché impegnati

      nella costruzione. Per questo attaccarono con urla spaventose. I Romani,

      senza interrompere il lavoro (nel quale erano occupati solo i triarii),

      cominciarono a combattere con le file degli hastati e dei principes,

      piazzate all'erta con le armi in pugno, davanti ai compagni impegnati nei

      lavori. Al di là dell'effettivo valore, ciò che li aiutò fu anche la

      posizione sopraelevata: le loro aste e i loro giavellotti, invece di

      andare a vuoto come spesso succede quando vengono lanciati su un terreno

      pianeggiante, centravano sempre il bersaglio, per il peso stesso che li

      portava a conficcarsi. E i Galli, schiacciati dai proiettili che li

      raggiungevano passandoli da parte a parte, oppure si conficcavano negli

      scudi appesantendoli, dopo essere avanzati di corsa lungo l'erta del

      monte, in un primo tempo si fermarono, disorientati; poi - quella semplice

      esitazione aveva ridotto il loro slancio e dato animo agli avversari -

      ricacciati indietro, presero a ruzzolare l'uno sull'altro, e questo

      provocò un massacro ancora più cruento di quello inferto dai colpi nemici.

      Furono più gli uomini calpestati dalla massa che rovinava verso la pianura

      dei compagni caduti in combattimento.

      

      24 Eppure i Romani non erano ancora sicuri di aver vinto: una volta scesi

      sul pianoro, c'era ad aspettarli un nuovo scontro. Infatti la grande massa

      dei Galli, assorbito un simile colpo, si risollevò come fosse stata

      un'armata fresca, incitando gli uomini integri a lanciarsi contro il

      nemico vittorioso. I Romani rallentarono la corsa e si fermarono, perché

      erano costretti ad affrontare una nuova battaglia allo stremo delle

      energie, e per il fatto che il console, essendosi incautamente esposto in

      mezzo alle prime file, era stato colpito: un giavellotto gli aveva quasi

      trapassato la spalla, costringendolo a ritirarsi momentaneamente dalla

      battaglia. E già per quella pausa la vittoria stava per sfumare,

      quand'ecco che il console, tornato in prima linea con la ferita bendata,

      disse: «Perché state fermi, soldati? Il nemico con cui avete a che fare

      non sono né i Latini né i Sabini, popoli che voi avete superato in guerra

      trasformandoli da nemici in alleati; è contro belve feroci che abbiamo

      sguainato le spade: dobbiamo versare il loro sangue o essere pronti a dare

      il nostro. Li avete respinti dal vostro accampamento e ricacciati giù

      lungo le pendici scoscese del monte; state camminando sui loro cadaveri:

      riempite allora anche la pianura con lo stesso tappeto di morti che avete

      disseminato sul monte. Non aspettate che i Galli vi sfuggano mentre voi

      restate fermi. È tempo di andare all'assalto e di gettarsi addosso al

      nemico». A questo incitamento, i Romani si levarono insieme e fecero

      indietreggiare i primi manipoli dei Galli. Poi, in formazioni a cuneo,

      irruppero nel centro dello schieramento. E i barbari, dispersi da

      quell'urto, privi com'erano di ordini precisi e di comandanti, mutarono

      direzione, verso i loro compagni. Sparsi per le campagne e spinti dalla

      fuga fino oltre il loro accampamento, si diressero verso la rocca di Alba,

      che tra le colline appariva loro come il luogo più alto. Il console non li

      inseguì oltre l'accampamento: il peso della ferita cominciava a farsi

      sentire ed egli non voleva esporre le truppe sotto quelle colline occupate

      dal nemico. Dopo aver concesso ai suoi uomini l'intero bottino razziato

      nell'accampamento, ricondusse a Roma l'esercito vincitore, carico delle

      ricche spoglie sottratte ai Galli. La ferita del console ne ritardò il

      trionfo, suggerendo anche al senato l'idea di un dittatore, perché vi

      fosse qualcuno in grado di presiedere delle elezioni durante

      l'indisposizione dei consoli. Dittatore venne eletto Lucio Furio Camillo,

      cui fu affiancato in qualità di maestro di cavalleria Publio Cornelio

      Scipione; Camillo restituì ai patrizi il controllo totale che anticamente

      i suoi membri avevano sul consolato. In segno di riconoscenza, fu proprio

      Camillo a essere nominato console grazie al massiccio appoggio dei

      patrizi: a sua volta egli annunciò che avrebbe avuto come collega Appio

      Claudio Crasso.

      

      25 Prima che i nuovi consoli entrassero in carica, Popilio celebrò il

      trionfo sui Galli con entusiasmo da parte dei plebei che, mormorando tra

      loro, domandavano se qualcuno rimpiangesse la nomina di quel console

      plebeo. Nel contempo però si lamentavano di Camillo cui rimproveravano di

      essersi fatto nominare console quando era ancora dittatore,

      conquistandosi, in spregio alla legge Licinia, un premio più infamante per

      la sua avidità personale che per il danno dello Stato. Quell'anno rimase

      nella storia per molti e svariati sommovimenti. I Galli, non essendo in

      grado di sopportare i rigori dell'inverno, erano scesi dai monti Albani

      disperdendosi a razziare le campagne e i litorali. Il mare, così come la

      costa di fronte ad Anzio e la zona di Laurento, erano infestati da flotte

      greche, al punto che una volta pirati di mare e predoni di terra si

      scontrarono in una battaglia dall'esito incerto, al termine della quale i

      Galli rientrarono all'accampamento e i Greci fecero ritorno alle navi,

      senza poter stabilire né gli uni né gli altri se fossero usciti vinti o

      vincitori. Ma l'allarme di gran lunga più preoccupante fu causato dalle

      assemblee che le tribù latine tenevano nel bosco di Ferentina e dalla

      risposta data dalle stesse a una richiesta di truppe ausiliarie avanzata

      dai Romani. I Latini mandarono a dire di non dare più ordini ai popoli del

      cui aiuto i Romani avevano bisogno: quanto a loro, avrebbero imbracciato

      le armi in difesa della propria libertà piuttosto che per sostenere una

      dominazione straniera. Con lo Stato contemporaneamente coinvolto in due

      guerre esterne e, in più, con la preoccupazione che veniva dalla defezione

      degli alleati, il senato, rendendosi conto di dover ricorrere

      all'intimidazione per tenere a freno chi non aveva osservato gli accordi,

      ordinò ai consoli di ricorrere a tutti i poteri in loro possesso per

      effettuare una leva militare, poiché la diserzione degli alleati rendeva

      necessario il ricorso a un esercito di cittadini. Stando alle fonti,

      vennero arruolati giovani non solo in città ma anche nelle campagne, coi

      quali vennero formate dieci legioni di 4200 fanti e di 300 cavalieri

      ciascuna, un esercito quale le attuali forze del popolo romano (cui appena

      basta lo spazio del mondo intero), se si presentasse una minaccia

      dall'esterno, non riuscirebbero facilmente ad allestire nemmeno se

      raccolte tutte insieme. A tal punto siamo riusciti a migliorare solo nei

      mali che ci affliggono, e cioè il lusso e la ricchezza.

      Tra i molti altri eventi che funestarono l'anno, ci fu la morte di Appio

      Claudio, uno dei due consoli, nel pieno dei preparativi di guerra. Il

      potere passò allora a Camillo, cui, in qualità di console unico - sia per

      l'alta considerazione di cui egli godeva e che non si riteneva

      subordinabile all'autorità di un dittatore, sia per il felice augurio

      costituito dal suo soprannome in relazione all'attacco dei Galli - i

      senatori non ritennero conveniente affiancare un dittatore. Il console

      assegnò due legioni alla difesa della città e divise le altre otto con il

      pretore Lucio Pinario. Memore del valore dimostrato dal padre, si accollò

      il comando della spedizione contro i Galli senza ricorrere al sorteggio,

      ordinando al pretore di salvaguardare il litora-le e di impedire ai Greci

      di sbarcare. Disceso quindi nell'agro Pontino, non volendo affrontare il

      nemico in pianura se non per assoluta necessità, convinto di poter

      adeguatamente domare i Galli impedendo loro le razzie (cui i barbari erano

      costretti per sopravvivere), scelse un luogo adatto per porre un

      accampamento fisso.

      

      26 Mentre i Romani ingannavano tranquillamente il tempo in servizi di

      guardia, si fece avanti un Gallo, di notevole prestanza fisica e

      armamento. Ottenuto il silenzio con un colpo di asta sullo scudo, il

      barbaro, con l'aiuto di un interprete, sfidò i Romani a scegliere un uomo

      che si battesse con lui. C'era un giovane tribuno dei soldati di nome

      Marco Valerio il quale, non ritenendosi meno degno di ottenere quell'onore

      di quanto lo fosse stato Tito Manlio, chiese l'autorizzazione al console,

      e, prese le armi, avanzò nel mezzo. Ma un intervento degli dèi tolse

      valore a quello scontro tra uomini. Mentre il Romano stava già per

      lanciarsi all'assalto, un corvo improvvisamente andò a posarglisi

      sull'elmo, rivolgendosi verso il nemico. Sùbito il tribuno accolse con

      gioia l'evento, come un segno augurale inviato dal cielo, poi pregò che

      chiunque - dio o dea - gli avesse mandato quel buon augurio, lo assistesse

      col proprio favore e la propria protezione. Incredibile a dirsi, l'uccello

      non solo mantenne la posizione occupata inizialmente, ma ogni qualvolta i

      duellanti arrivavano a distanza ravvicinata si levava in volo andando a

      colpire con il becco e gli artigli la bocca e gli occhi dell'avversario.

      Fino a quando il soldato gallico, terrorizzato alla vista di un simile

      prodigio che gli offuscava insieme la mente e gli occhi, venne colpito a

      morte da Valerio, mentre il corvo volò via verso oriente scomparendo alla

      vista. Fino a quel momento le due parti avevano assistito al duello in

      silenzio. Ma non appena il tribuno cominciò a spogliare il corpo del

      nemico ucciso, i Galli non rimasero più dov'erano e i Romani furono ancora

      più veloci nel correre verso il vincitore. Si formò una mischia intorno al

      cadavere del campione gallico e scoppiò una battaglia furibonda che non

      rimase circoscritta ai manipoli dei più vicini posti di guardia, ma fu

      combattuta dalle legioni riversatesi nella zona da entrambi le parti. Ai

      soldati felici per la vittoria del tribuno ma anche per il sostegno

      fornito in quel momento dagli dèi Camillo diede allora ordine di gettarsi

      all'assalto. E indicando il tribuno, che indossava le spoglie del nemico,

      disse: «Imitatelo, soldati, fate strage dei Galli, a mucchi intorno al

      loro comandante!». A quella battaglia presero parte uomini e dèi, e il

      combattimento non lasciava dubbi sulla vittoria finale, tanto il risultato

      del duello aveva indicato ad ambedue le parti l'esito della battaglia.

      Tremendo fu l'urto di quelli che dettero inizio allo scontro,

      trascinandosi dietro gli altri. Il resto dei Galli si diede alla fuga

      prima di arrivare a tiro. Dispersi in un primo tempo nel territorio dei

      Volsci e per l'agro Falerno, i fuggitivi si diressero poi verso l'Apulia e

      il mare Tirreno.

      Convocati i suoi uomini, il console elogiò il tribuno e gli fece dono di

      dieci buoi e di una corona d'oro. Poi, per ordine del senato, Camillo andò

      a occuparsi della guerra sul litorale, unendo le proprie forze a quelle

      del pretore. Ma siccome là sembrava che la campagna andasse per le lunghe,

      con i Greci che non avevano intenzione di affrontare uno scontro aperto,

      il senato autorizzò il console a nominare dittatore Tito Manlio Torquato,

      in modo che si potessero tenere le elezioni. E il dittatore, nominato

      maestro di cavalleria Aulo Cornelio Cosso, presiedette le elezioni

      consolari e annunciò, tra l'entusiasmo del popolo, che la scelta era

      caduta su un giovane di trentatré anni, quel Marco Valerio Corvo (dopo il

      duello portava ormai questo soprannome) che, in sua assenza, ne aveva

      emulato le gesta gloriose. Come collega di Corvo venne nominato il plebeo

      Marco Popilio Lenate, destinato a rivestire la carica per la quarta volta.

      Contro i Greci Camillo non fece nulla che sia degno di essere ricordato:

      non erano un popolo che prediligesse il combattimento sulla terraferma,

      così come i Romani non amavano quello in mare aperto. Ma alla fine,

      rimasti senz'acqua e senza il necessario per la prolungata assenza da

      terra, i Greci abbandonarono l'Italia. Non è chiaro a quale popolo e a

      quale razza appartenesse quella flotta. Personalmente sarei portato a

      credere che fosse dei tiranni siculi, perché in quel tempo la Grecia vera

      e propria, travagliata da lotte intestine, era già minacciata dalla

      potenza macedone.

      

      27 Una volta congedati gli eserciti, mentre all'esterno regnava la pace e

      in patria si viveva sereni per la concordia tra le classi, a impedire

      un'eccessiva felicità dei cittadini, una pestilenza colpì Roma

      costringendo il senato a ordinare ai decemviri di consultare i libri

      sibillini. Su loro consiglio si tenne un lettisternio. Quello stesso anno

      gli Anziati fondarono una colonia a Satrico, che fu così ricostruita dopo

      essere stata distrutta dai Latini. Venne inoltre stipulato un trattato con

      i Cartaginesi, i quali avevano inviato a Roma degli ambasciatori con la

      richiesta di stabilire legami di alleanza e di amicizia.

      Sotto il consolato di Tito Manlio Torquato e di Gaio Plauzio in patria e

      all'estero si mantennero le stesse condizioni di stabilità. Il tasso di

      interesse, che era all'uno per cento, venne dimezzato, mentre il pagamento

      dei debiti fu articolato in modo che se ne pagasse un quarto sùbito e il

      resto in rate triennali. Anche così parte della plebe ne ebbe a soffrire,

      ma il senato non poté dedicare ai casi dei singoli l'attenzione richiesta

      dal credito pubblico. Ciò che soprattutto permise alla gente di tirare il

      fiato fu la soppressione della tassa di guerra e della leva.

      Tre anni dopo che Satrico era stata ricostruita dai Volsci, Marco Valerio

      Corvo venne eletto console per la seconda volta insieme a Gaio Petelio.

      Quando dal Lazio arrivò la notizia che ambasciatori di Anzio andavano tra

      le tribù latine con l'intento di scatenare una guerra, Valerio ricevette

      l'ordine di affrontare i Volsci prima che si sollevassero altri nemici e

      marciò alla volta di Satrico con un esercito in assetto di guerra. Là gli

      Anziati e altre genti dei Volsci gli andarono incontro con forze già

      predisposte per un'eventuale sortita romana: tra i due popoli vi era un

      odio antico, e la battaglia iniziò senza indugi. I Volsci, gente portata

      più a prendere le armi per rivoltarsi che a condurre una guerra vera e

      propria, furono sconfitti sul campo e si rintanarono dentro le mura di

      Satrico con una fuga disordinata. Ma nemmeno le mura garantivano loro la

      sicurezza, e così, quando la città circondata dalle truppe nemiche era

      ormai sul punto di essere conquistata con le scale da assedio, si arrese

      un numero di uomini che, a prescindere dai civili, ammontava a circa

      quattro mila unità. La città venne rasa al suolo e data alle fiamme. Il

      solo edificio a non essere incendiato fu il tempio della Madre Matuta. Il

      bottino fu integralmente assegnato agli uomini. I quattro mila soldati che

      si erano arresi non vennero inclusi nel bottino: il console li fece

      camminare incatenati di fronte al proprio carro durante il trionfo.

      Venduti in séguito all'asta, essi apportarono una grande quantità di

      denaro alle casse dello Stato. Alcuni storici sostengono che questa massa

      di prigionieri fosse costituita da schiavi, cosa ben più credibile di

      quanto non sia la notizia di uomini arresisi e poi venduti all'asta.

      

      28 A questi consoli successero Marco Fabio Dorsuone e Servio Sulpicio

      Camerino. Un'improvvisa incursione degli Aurunci diede origine a una

      guerra. Temendo che quel gesto fosse il frutto di un piano organizzato

      dall'intera nazione latina (anche se l'incursione era stata effettuata da

      un solo popolo), come se ormai si trattasse di fronteggiare il Lazio in

      armi, venne nominato dittatore Lucio Furio, il quale scelse come maestro

      di cavalleria Gneo Manlio Capitolino. Dopo aver bandito una leva militare

      nella quale non furono ammesse eccezioni - come di solito succedeva nei

      casi di assoluta emergenza -, il dittatore proclamò la sospensione

      dell'attività giudiziaria e quindi si mise a capo delle legioni per

      raggiungere quanto prima il territorio degli Aurunci. Lì comprese che

      quella gente aveva indole di predoni più che di guerrieri: e così concluse

      la guerra al primo scontro. Ma il dittatore, considerando che ad aggredire

      erano stati gli Aurunci, i quali si lanciavano nel combattimento senza

      esitazione, ritenne necessario invocare anche l'aiuto degli dèi e per

      questo, mentre lo scontro era nella fase più calda, fece voto di dedicare

      un tempio a Giunone Moneta. Tornato a Roma vincitore, adempì il voto; poi

      si dimise dalla dittatura. Il senato diede ordine di eleggere due

      commissari con il cómpito di far costruire un tempio degno della grandezza

      del popolo romano. All'edificio fu riservata un'area sulla cittadella, nel

      punto in cui un tempo si trovava la casa di Marco Manlio Capitolino.

      Utilizzando l'esercito del dittatore per fare guerra ai Volsci, i consoli

      li attaccarono di sorpresa e strapparono loro la città di Sora.

      Il tempio di Giunone Moneta venne consacrato un anno dopo che era stato

      promesso in voto, durante il consolato di Gaio Marcio Rutulo e Tito Manlio

      Torquato (eletti rispettivamente per la terza e la seconda volta).

      Immediatamente dopo la cerimonia di inaugurazione si verificò un evento

      prodigioso, simile a quello avvenuto sul monte Albano in tempi remoti.

      Cadde infatti una pioggia di pietre e in pieno giorno si fece notte. Dopo

      la consultazione dei libri sibillini, la città fu invasa dalla

      superstizione, così che il senato decise di nominare un dittatore per

      stabilire un calendario di cerimonie religiose. La nomina cadde su Publio

      Valerio Publicola al quale venne assegnato come maestro di cavalleria

      Quinto Fabio Ambusto. Essi stabilirono che a rivolgere suppliche fossero

      non solo le tribù ma anche i popoli confinanti; fu fissato un ordine che

      assegnava una data alle suppliche di ogni singola gente. A quanto si

      racconta, nel corso di quell'anno il popolo emise severe sentenze ai danni

      di alcuni usurai citati in giudizio dagli edili. Si ritornò poi a un

      periodo di interregno, senza però una giustificazione di particolare

      rilievo. E dopo l'interregno ci fu - in modo che potesse sembrarne il

      motivo - l'elezione a consoli di due patrizi, Marco Valerio Corvo (eletto

      per la terza volta) e Aulo Cornelio Cosso.

      

      29 Da questo momento bisogna parlare di conflitti di ben altre proporzioni

      sia per le forze messe in campo dai nemici sia per la lontananza della

      loro terra di provenienza e per la durata di quelle guerre. Nel corso

      dell'anno si presero infatti le armi contro i Sanniti, un popolo potente

      per risorse e per dotazioni militari. Dopo la guerra, dall'esito incerto,

      con i Sanniti, si combatté contro Pirro e dopo di lui fu la volta dei

      Cartaginesi. Quale serie di formidabili eventi! Quante volte i Romani

      giunsero a rischiare il massimo perché lo Stato potesse essere innalzato

      alla grandezza che ora a stento si regge! E pensare che la causa della

      guerra tra Sanniti e Romani - due popoli uniti in passato da legami di

      alleanza e amicizia - fu un motivo esterno di cui essi non furono

      responsabili. Poiché i Sanniti avevano ingiustamente attaccato i Sidicini

      profittando della loro superiorità, i Sidicini, costretti nella condizione

      di inferiori a chiedere aiuto a un popolo con maggiori risorse, si

      rivolsero ai Campani. Ma questi ultimi fornirono agli alleati un aiuto più

      nominale che reale: abituati com'erano a una molle vita di agiatezze, i

      Campani vennero battuti nel territorio dei Sidicini da una popolazione

      indurita dall'uso delle armi e si videro precipitare addosso l'intero peso

      della guerra. E infatti i Sanniti, senza più dare alcuna importanza ai

      Sidicini, assalirono i Campani, cioè la vera roccaforte dei loro vicini,

      sui quali avrebbero ottenuto una facile vittoria, con un bottino più ricco

      e maggior gloria: dopo aver occupato le alture del Tifata (situate proprio

      sopra Capua) lasciandovi un agguerrito presidio, di lì si riversarono in

      assetto di battaglia nella pianura che si trova tra Capua e il Tifata. Fu

      in quel punto che si combatté una seconda battaglia: sconfitti e

      ricacciati all'interno delle mura, i Campani, dopo che il fiore delle loro

      truppe era stato fatto a pezzi e avevano ormai perso ogni speranza, furono

      costretti a chiedere aiuto ai Romani.

      

      30 Gli ambasciatori dei Campani introdotti al cospetto del senato,

      pronunciarono un discorso di questo tenore: «Il popolo campano ci ha

      inviati a voi, senatori, come ambasciatori, per chiedervi di concederci la

      vostra eterna amicizia e un aiuto nella circostanza presente. Se ve

      l'avessimo chiesto in un momento di prosperità, voi ce l'avreste concesso

      ben più rapidamente, fondandovi però su vincoli meno saldi. In tal caso,

      memori di essere entrati in rapporti amichevoli con voi su un piano di

      assoluta parità, forse saremmo stati vostri amici come lo siamo adesso, ma

      meno vincolati e sottomessi a voi. Ma ora, conquistati dalla vostra

      umanità nei nostri confronti e protetti dal vostro aiuto in questa

      difficile congiuntura, dobbiamo rendere il giusto onore anche al beneficio

      ottenuto, per non dare l'impressione di essere ingrati e indegni di ogni

      soccorso divino e umano. Ma non pensiamo neppure, per Ercole, che il fatto

      che i Sanniti siano diventati vostri amici e alleati prima di noi, possa

      costituire un ostacolo all'essere accolti nel novero dei vostri amici,

      quanto piuttosto che la cosa porti quel popolo ad avere su di noi un

      vantaggio in relazione alla priorità e al grado di onore. E infatti nel

      vostro trattato con i Sanniti non c'erano clausole che impedissero la

      stipulazione di altri trattati.

      Un motivo sufficientemente giusto per stringere legami di amicizia voi

      avete sempre ritenuto fosse il desiderare che entrassero nel novero dei

      vostri amici quanti si rivolgevano a voi: noi Campani, anche se la

      disgrazia presente non ci consente un linguaggio troppo altezzoso, non

      essendo secondi a nessuno - salvo che a voi - per lo splendore delle città

      e per la fertilità dei campi, ora che ci associamo a voi, apportiamo, come

      è nostra opinione, un incremento non trascurabile al vostro benessere.

      Ogni qual volta Equi e Volsci, eterni nemici di questa città, si

      muoveranno, noi li incalzeremo alle spalle. E ciò che voi avrete fatto per

      primi per la nostra sopravvivenza, noi lo faremo sempre per la vostra

      potenza e la vostra gloria. Non appena avrete assoggettato i popoli

      stanziati tra i nostri e i vostri territori - il vostro valore e la vostra

      buona sorte garantiscono che presto avverrà -, il vostro potere si

      estenderà senza interruzioni fino alla nostra terra. È triste e penoso ciò

      che la nostra disgrazia ci costringe ad ammettere: la situazione,

      senatori, è a una svolta: noi Campani finiremo nella mani di nemici oppure

      di amici. Se ci proteggerete, saremo vostri; se invece ci abbandonerete,

      saremo dei Sanniti. Considerate dunque se è meglio che Capua e l'intera

      Campania vadano ad accrescere il potere di Roma oppure quello dei Sanniti.

      È giusto che la vostra misericordia e la vostra disponibilità ad aiutare

      siano aperte a tutti, ma in special modo a quanti, per aver offerto aiuto

      superiore alle proprie forze ad altri che lo imploravano, si sono venuti a

      trovare essi stessi nella medesima necessità. E anche se apparentemente

      abbiamo combattuto per i Sidicini, mentre in realtà combattevamo per noi,

      lo abbiamo fatto vedendo un popolo limitrofo crudelmente assalito dal

      brigantaggio dei Sanniti, e sentendoci minacciati da quell'incendio non

      appena la conflagrazione avesse inghiottito i Sidicini. E infatti i

      Sanniti sono venuti ad attaccarci proprio in questo momento non per il

      risentimento suscitato da un'offesa, quanto piuttosto per la gioia che sia

      stato loro offerto un pretesto per farlo. Altrimenti, se questa fosse solo

      una vendetta e non un'occasione buona per placare la loro bramosia, non

      sarebbe stato sufficiente ai Sanniti aver decimato le nostre legioni una

      prima volta nel territorio dei Sidicini e poi in Campania? Quale furia è

      mai questa, se non basta il sangue versato da due eserciti per placarla? A

      tutto questo aggiungete poi le razzie nei campi, il bottino in uomini e

      animali, gli incendi e le distruzioni delle fattorie e la devastazione

      seminata ovunque. Possibile che tutto questo non abbia soddisfatto la loro

      ira? Ma è la loro bramosia che va saziata! È quel sentimento che li spinge

      a occupare Capua, e a desiderare che la più bella delle città vada in

      rovina o finisca in mano loro. Conquistatela voi, o Romani, con la vostra

      generosità, piuttosto che permettere a quella gente di impossessarsene con

      l'inganno. Non ci rivolgiamo a un popolo abituato a rifiutare le guerre

      quando sono giuste. Tuttavia, se solo metterete in campo il vostro aiuto,

      pensiamo che non avrete nemmeno bisogno di ricorrere alle armi. Il nostro

      risentimento nei confronti dei Sanniti ha raggiunto un punto oltre il

      quale non può andare: per questo, anche solo l'ombra del vostro aiuto, o

      Romani, è in grado di proteggerci e qualunque cosa d'ora in poi avremo,

      qualunque cosa diventeremo, noi la considereremo interamente vostra. Le

      terre della Campania verranno arate per voi, e per voi si affolleranno le

      strade di Capua. E voi sarete per noi i fondatori, i genitori, gli dèi

      immortali. Nessuna vostra colonia ci saprà superare quanto a obbedienza e

      lealtà.

      Acconsentite, senatori, col vostro cenno e la vostra volontà invitta alle

      preghiere dei Campani, dateci la speranza che la nostra città possa avere

      un domani. Forse non immaginate quale folla, di ogni genere, abbia

      accompagnato la nostra partenza; come l'abbiamo lasciata, a piangere e

      pregare; in quale ansia siano adesso il senato, il popolo campano, le

      nostre mogli e i nostri figli! Saranno tutti in piedi, certamente, intorno

      alle porte, con gli occhi fissi verso la strada che porta a Roma! Che

      messaggio ci ordinate, senatori, di portare a quegli animi in preda al

      dubbio e all'incertezza? Una risposta è salvezza, vittoria, luce e

      libertà. L'altra... fa orrore il solo pensiero di ciò che potrebbe

      portare. Perciò prendete una decisione sulla nostra sorte, tenendo

      presente che o saremo vostri alleati e amici, o non esisteremo più del

      tutto».

      

      31 Agli ambasciatori fu chiesto di ritirarsi, mentre il senato si riuniva

      per considerare la loro richiesta. Anche se la maggior parte dei senatori

      pensava che la più grande e ricca città dell'Italia, con le sue campagne

      fertilissime e prospicienti al mare, avrebbe potuto essere - in periodi di

      carestia - un granaio per il popolo romano, ciò non ostante si diede più

      peso alla lealtà che alla considerazione dell'utile, così che il senato

      affidò al console il cómpito di rispondere agli ambasciatori in questi

      termini: «Il senato ritiene, o Campani, che siate degni di ottenere aiuto.

      Ma stringere rapporti di amicizia con voi non deve significare la

      violazione di amicizie e alleanze precedentemente contratte. I Sanniti

      sono legati a noi da un trattato: per questo non siamo in grado di

      intervenire militarmente al vostro fianco impugnando contro i Sanniti

      quelle armi che sarebbero un'offesa prima ancora agli dèi che agli uomini.

      Com'è però giusto e sacrosanto, invieremo degli ambasciatori ai nostri

      amici ed alleati con il cómpito di invitarli a non farvi alcun male». A

      queste parole i capi della delegazione campana risposero attenendosi alle

      istruzioni ricevute in patria e replicarono così: «Visto che rifiutate di

      far ricorso a un legittimo uso della forza per opporvi alla violenza e

      all'ingiustizia perpetrate nei confronti di ciò che ci appartiene,

      proteggerete almeno quanto appartiene a voi. Di conseguenza noi affidiamo

      alla vostra autorità e a quella del popolo romano il popolo della Campania

      e la città di Capua, le campagne, i santuari degli dèi e tutte le cose

      sacre e profane: qualunque cosa affronteremo da questo momento in poi, la

      affronteremo come vostri sudditi».

      Pronunciando queste parole, con le mani tese verso il console e il volto

      rigato dalle lacrime, si prostrarono a terra nel vestibolo della curia. I

      senatori rimasero colpiti dalle vicissitudini delle sorti umane, al vedere

      che quel popolo ricco e grandioso, conosciuto ovunque per il fasto e la

      superbia, a cui poco prima i vicini avevano chiesto aiuto, adesso era

      abbattuto al punto di consegnare se stesso con tutti i propri averi

      all'autorità di altri. Decisero che era ormai una questione d'onore non

      tradire chi si era consegnato in loro potere. E non ritenevano sarebbe

      stata cosa giusta se i Sanniti avessero attaccato un territorio e una

      città che, con una vera e propria resa, erano diventati proprietà del

      popolo romano. Perciò si decise di inviare immediatamente ai Sanniti degli

      ambasciatori, ai quali fu data istruzione di riferire la richiesta fatta

      dai Campani, la risposta del senato, non immemore dell'amicizia coi

      Sanniti stessi, infine l'avvenuta resa. Sarebbe stato poi loro cómpito

      chiedere, in nome dell'amicizia e dell'alleanza che univa i due popoli, di

      risparmiare quella gente volontariamente sottomessasi a Roma e di

      astenersi dall'effettuare incursioni armate in quel territorio che ora

      apparteneva al popolo romano. Se questa cauta condotta non avesse sortito

      risultato, gli ambasciatori avrebbero dovuto intimare ai Sanniti - a nome

      del senato e del popolo romano - di stare lontani da Capua e dal

      territorio della Campania. Ma i Sanniti, dopo aver sentito gli inviati

      esporre queste richieste di fronte all'assemblea, furono così arroganti

      che non soltanto risposero di essere determinati a condurre quella guerra,

      ma i loro magistrati uscirono dalla curia mentre gli ambasciatori erano

      ancora lì in piedi e convocarono i prefetti delle coorti ordinando loro ad

      alta voce di prepararsi a effettuare immediatamente un'incursione nel

      territorio dei Campani.

      

      32 Quando la delegazione tornò a Roma riferendo l'accaduto, i senatori,

      passando in secondo piano tutti gli altri affari di Stato, inviarono i

      feziali per chiedere riparazione. Ma siccome questi ultimi non riuscirono

      a ottenere quanto preteso, il senato fece dichiarare guerra ai Sanniti

      secondo la formula di rito, stabilendo anche di far ratificare quanto

      prima dal popolo questo provvedimento. E avendo ricevuto l'approvazione, i

      consoli partirono alla testa di due eserciti, Valerio diretto in Campania

      e Cornelio nel Sannio; il primo si accampò nei pressi del monte Gauro, il

      secondo vicino a Saticola. Le legioni dei Sanniti si rivolsero prima

      contro Valerio, perché pensavano che in quella direzione si sarebbe

      concentrato il grosso delle operazioni. Ma nel contempo erano spinti dal

      risentimento nei confronti dei Campani, i quali erano stati così solleciti

      prima a portare aiuto, poi a chiederlo contro di loro. Non appena

      avvistarono l'accampamento romano, non ci fu Sannita che non chiedesse

      baldanzosamente agli ufficiali di dare il segnale di battaglia. La loro

      convinzione era che l'intervento dei Romani a fianco dei Campani avrebbe

      avuto lo stesso successo di quello dei Campani a sostegno dei Sidicini.

      Valerio, avendo indugiato solo qualche giorno per saggiare la consistenza

      del nemico in scaramucce di poco conto, diede il segnale di battaglia, non

      senza aver esortato con poche parole i suoi a non lasciarsi intimorire da

      quella nuova guerra combattuta contro nuovi nemici. Quanto più le loro

      armi si allontanavano da Roma, tanto più imbelli erano le popolazioni che

      avrebbero incontrato. Non giudicassero il valore dei Sanniti in base alle

      disfatte inflitte a Sidicini e Campani. Quali che fossero i valori in

      campo, era inevitabile che una delle due parti dovesse soccombere. Quanto

      ai Campani, non c'erano dubbi che essi fossero stati vinti più per

      l'eccessiva dissolutezza e mollezza della vita che conducevano piuttosto

      che per la forza del nemico. E poi che cos'erano mai le due guerre vinte

      dai Sanniti in tanti secoli a confronto delle tante gesta gloriose del

      popolo romano, il cui numero di trionfi in guerra era quasi pari a quello

      degli anni trascorsi dalla fondazione di Roma? Il popolo romano che aveva

      soggiogato con le armi tutte le popolazioni stanziate nelle zone

      circostanti - Sabini, Etruschi, Latini, Ernici, Equi, Volsci, Aurunci -, e

      che dopo aver battuto i Galli in tante battaglie di terra, alla fine li

      aveva costretti a fuggire verso il mare alle loro navi? Ora che stavano

      per gettarsi nella mischia, ciascuno degli uomini avrebbe dovuto farlo

      fidando non solo sulla propria capacità militare e sulla gloria del

      passato, ma anche ricordandosi sotto il comando e gli auspici di quale

      soldato stavano per affrontare la battaglia, e chiedersi se quell'uomo

      fosse uno che meritava di essere ascoltato soltanto perché era un valido

      oratore, uno bellicoso a parole ma senza esperienza militare, oppure uno

      che sapeva maneggiare le armi di persona, era in grado di avanzare oltre

      la linea degli antesignani e di stare nel pieno della mischia. «Voglio, o

      soldati, che seguiate le mie azioni», disse, «non le mie parole, e che a

      me chiediate non soltanto ordini, ma anche l'esempio. Non è stato grazie

      ai giochi politici e ai complotti tanto abituali tra i nobili, ma con

      questa mano destra che io sono riuscito a conquistarmi tre consolati e i

      più alti elogi. Ci fu un tempo in cui si sarebbe potuto dire: «Tu eri

      patrizio e discendevi dai liberatori della patria, e la tua famiglia ebbe

      il consolato lo stesso anno in cui la città vide l'istituzione di quella

      magistratura!». Ma oggi il consolato è aperto tanto a noi patrizi quanto a

      voi plebei, ed è ormai un riconoscimento dato al valore e non più, come in

      passato, alla stirpe. Di conseguenza, o soldati, mirate in ogni

      circostanza a onori sempre più alti. Anche se mi avete voluto dare - con

      l'approvazione degli dèi - questo soprannome di Corvino, tuttavia non mi

      sono dimenticato di quello di Publicola attribuito in passato alla mia

      famiglia: tanto in patria quanto in guerra, da privato cittadino così come

      nelle magistrature importanti e in quelle di minor conto, sia da tribuno

      che da console, senza mai allontanarmi dalla stessa linea di comportamento

      durante i successivi consolati, io ho sempre rispettato e tuttora rispetto

      la plebe romana. Ma adesso, poiché il momento lo esige, con l'aiuto degli

      dèi cercate insieme a me di ottenere sui Sanniti un trionfo nuovo e mai

      conquistato prima».

      

      33 Mai nessun comandante era stato tanto vicino alla truppa, arrivando a

      condividere il peso del servizio con i soldati semplici. Inoltre,

      partecipava in maniera cameratesca ai giochi militari, cimentandosi nelle

      gare di velocità e di forza tra coetanei: la vittoria e la sconfitta le

      salutava con la stessa espressione del volto, né mai disdegnava di

      misurarsi con chiunque lo sfidasse. Il suo comportamento era affabile

      quanto lo richiedevano le circostanze, nei discorsi aveva sempre lo stesso

      riguardo per la libertà altrui e per la propria dignità. E infine, qualità

      questa che lo rendeva ancor più popolare, conduceva le magistrature con

      gli stessi principi con i quali le aveva ottenute. Fu perciò con

      incredibile prontezza che l'intero esercito accolse le esortazioni del

      comandante e marciò fuori dall'accampamento.

      Iniziò una battaglia che, più di ogni altra precedente, vedeva pari

      speranze e pari forze dalle due parti, e una fiducia in se stessi che non

      cedeva al disprezzo del nemico. La bellicosità dei Sanniti era accresciuta

      dalle gesta recenti e dalla doppia vittoria conquistata pochi giorni

      prima, mentre dalla parte dei Romani stavano quattrocento anni di gloria e

      una storia trionfale che risaliva ai giorni della fondazione. Ciò non

      ostante entrambi gli eserciti erano in ansia all'idea di affrontare un

      nemico mai visto prima. La battaglia provò quanto essi fossero risoluti,

      perché combatterono in modo così accanito che per qualche tempo nessuno

      dei due schieramenti cedette. Allora il console, per incutere paura a un

      nemico che non riusciva a far indietreggiare con la forza, tentò di

      gettare lo scompiglio nelle prime file avversarie con una carica di

      cavalleria. Ma quando si rese conto che l'agitarsi confuso delle schiere

      impegnate a manovrare in uno spazio ristretto non portava a risultati e

      non gli permetteva di aprire una breccia tra i nemici, tornato dai soldati

      della prima linea, scese da cavallo e disse loro: «C'è bisogno di noi

      fanti, o soldati, per questa manovra! Avanti, quando mi vedrete farmi

      strada a colpi di spada, in qualunque punto della linea nemica io mi

      lancerò all'assalto, allo stesso modo ciascuno di voi abbatta tutti quelli

      che gli si pareranno di fronte. Tutte le lance che ora vedete brillare

      diritte, saranno distese a terra in una immane carneficina». Aveva appena

      finito di dire queste cose, che i cavalieri, ottemperando all'ordine del

      console, si gettarono a briglia sciolta verso le ali, aprendo così la via

      alle legioni nella parte centrale dello schieramento avversario. Il

      console fu il primo a lanciarsi contro il nemico, uccidendo il soldato che

      gli aveva sbarrato il passo. Esaltati a questa vista, i Romani schierati

      all'ala destra e alla sinistra - ciascuno per se stesso - accesero una

      mischia memorabile. I Sanniti resistevano, subendo però più colpi di

      quanti non ne riuscissero a dare.

      La battaglia infuriava già da tempo: intorno alle insegne dei Sanniti il

      massacro era spaventoso, ma nessuno dei reparti accennava alla fuga, tanto

      erano determinati a non farsi sopraffare se non dalla morte. E così i

      Romani, rendendosi conto che le forze stavano scemando per la stanchezza e

      che ormai restava ben poca luce, si gettarono contro il nemico carichi di

      rabbia. Allora ci furono i primi segni di cedimento e le avvisaglie di una

      rotta imminente; i Sanniti vennero catturati, uccisi (e non ne sarebbero

      sopravvissuti molti, se la notte non avesse interrotto quella che era una

      vittoria più che una battaglia). I Romani ammettevano di non aver mai

      combattuto con un nemico più tenace, mentre i Sanniti, essendo loro stato

      domandato che cosa li avesse spinti, nella loro determinazione, alla fuga,

      dicevano di aver visto il fuoco negli occhi dei Romani, e un folle furore

      nei loro sguardi. Era stato questo, più di ogni altra cosa, a

      terrorizzarli. E quel panico essi ammisero di averlo provato non solo

      nelle fasi conclusive della battaglia, ma anche nella fuga che seguì

      durante la notte. Il giorno seguente i Romani presero l'accampamento

      deserto, dove si andò a riversare l'intera popolazione di Capua per

      congratularsi della vittoria.

      

      34 Ma poco mancò che questa gioia venisse guastata da una grave disfatta

      subita nel Sannio. Partito infatti da Saticola, il console Cornelio ebbe

      l'incauta idea di portare il suo esercito in una valle incassata e gremita

      di nemici su entrambi i versanti, senza accorgersi della loro presenza

      sulle alture prima che i suoi uomini non potessero più mettersi al riparo

      in sicurezza. Mentre i Sanniti indugiavano nell'attesa che l'intero

      esercito fosse sceso fino al fondo della valle, il tribuno dei soldati

      Publio Decio individuò una vetta che dominava sulla gola sovrastando

      l'accampamento dei nemici, e che pur essendo quasi impraticabile per un

      esercito impedito dall'equipaggiamento, non presentava invece difficoltà

      per dei fanti armati alla leggera. Perciò, rivolgendosi al console che era

      in preda alla paura, Decio gli disse: «Aulo Cornelio, vedi quella cima

      sopra il nemico? Può essere il baluardo della nostra speranza e della

      nostra salvezza, se non indugiamo ad occuparla, visto che i Sanniti sono

      stati così ciechi da abbandonarla. Dammi soltanto la prima e la seconda

      linea di una legione. Quando avrò raggiunto la cima alla testa di quegli

      uomini, mettiti in marcia senza paura, preoccupandoti di te e

      dell'esercito. È certo che il nemico, esposto come sarà a tutti i nostri

      colpi, non potrà muoversi senza gravi perdite. Quanto a noi, la buona

      sorte del popolo romano o il nostro valore ci metterà in salvo». Il

      console lodò il piano e Decio, presi con sé gli uomini che aveva

      richiesto, si avviò su per la gola senza farsi vedere. E i nemici non lo

      individuarono prima che egli fosse riuscito a raggiungere il punto

      desiderato. Avendo quindi attirato su di sé l'attenzione di tutti i nemici

      che si erano voltati in preda a stupore e preoccupazione, Decio diede al

      console l'opportunità di portare l'esercito in un punto più favorevole e

      si andò a piazzare in cima all'altura. I Sanniti, dirigendosi ora da una

      parte ora dall'altra, fallirono entrambe le opportunità: non riuscirono né

      a inseguire il console (se non per quella stessa valle infossata nella

      quale lo avevano poco prima tenuto sotto la minaccia delle loro lance), né

      a far salire gli uomini sulla cima che li sovrastava e che era stata

      occupata da Decio. A spronarli all'attacco non era soltanto il

      risentimento nei confronti di quanti avevano loro tolto la possibilità di

      sfruttare un'ottima occasione, ma anche la vicinanza della cima e il

      numero esiguo di soldati che la stavano difendendo. Mentre sulle prime

      avrebbero voluto circondare il colle con le loro truppe, tagliando quindi

      i collegamenti tra Decio e il console, sùbito dopo la loro intenzione

      sarebbe stata quella di lasciargli via libera per poi assalirli una volta

      scesi nella valle. La notte li sorprese mentre stavano ancora decidendo

      sul da farsi.

      Sulle prime Decio sperò di poter combattere da una posizione elevata

      mentre i Sanniti cercavano di salire sulla cima. Poi si stupì nel vedere

      che i nemici non attaccavano e che, se a distoglierli da quel proposito

      era la posizione sfavorevole, non tentassero neppure di accerchiare i

      Romani con una trincea e uno steccato. Chiamati quindi a sé i centurioni,

      disse loro: «Quale inettitudine militare, quale pigrizia! Come avranno

      potuto vincere con Sidicini e Campani? Li avete visti muoversi su e giù,

      ora separando ora riunendo le loro forze, senza che a nessuno venisse in

      mente di costruire fortificazioni, mentre ormai avremmo già potuto essere

      circondati da una palizzata. Faremo come loro, se ci fermeremo quassù più

      di quanto ci convenga. Avanti dunque, finché resta ancora un po' di luce,

      venite con me, e cerchiamo di scoprire dove stiano piazzando gli uomini di

      guardia e se esista la possibilità di uscire di qui». Con un mantello da

      semplice soldato, accompagnato dai suoi centurioni anch'essi in tenuta da

      fanti ordinari (per evitare così che il nemico si rendesse conto che il

      comandante in persona compiva un giro di esplorazione), Decio andò a

      verificare le due cose.

      

      35 Poi, disposte le sentinelle, ordinò di passare parola al resto dei suoi

      uomini: non appena avessero sentito la tromba suonare il segnale del

      secondo turno di guardia, avrebbero dovuto armarsi in silenzio e

      presentarsi da lui. Una volta radunatisi in silenzio come era stato loro

      ordinato, il tribuno disse: «Soldati, dovete mantenere il silenzio e

      ascoltarmi senza reagire con le solite urla di assenso. Quando avrò finito

      di esporvi il mio piano, quelli che lo approveranno si metteranno alla mia

      destra, senza dir nulla. Il gruppo più numeroso imporrà la sua decisione.

      Adesso ascoltate quello che ho in mente. Il nemico non vi ha costretti qua

      come se foste stati dispersi da una rotta o rimasti indietro per colpa

      della vostra indolenza: è con il coraggio che avete occupato questa

      posizione, e dev'essere il coraggio a darvi una via d'uscita. Salendo qui

      avete salvato un esercito formidabile per il popolo romano: aprendo un

      varco salverete voi stessi. È motivo di onore per un così esiguo manipolo

      aver portato aiuto a molti e non aver avuto bisogno del sostegno di

      nessuno. Avete di fronte un nemico che, pur avendo avuto ieri

      l'opportunità di distruggere un'intera armata, se l'è lasciata sfuggire

      per pura indolenza; un nemico che, non ostante avesse sopra la testa

      questa cima strategica, si è accorto della sua esistenza soltanto dopo

      averla vista finire in mano nostra, e che, pur essendo noi pochissimi

      contro migliaia di uomini, non ci ha impedito la salita né ha tentato di

      accerchiarci con una palizzata quando ormai ci eravamo impossessati della

      cima e restava ben poca luce. Se lo avete eluso mentre era sveglio e

      all'erta, ora che dorme potete, anzi dovete beffarlo. Ci troviamo infatti

      in una situazione tale che io mi limito a indicarvi la via obbligata

      piuttosto che proporvi un piano. Perché non si tratta di decidere se

      rimanere qua o andarsene, visto che la sorte non vi ha lasciato

      nient'altro che le armi e la capacità di usarle, e siamo destinati a

      morire o di fame o di sete, se ci lasciamo intimorire dalle spade nemiche

      più di quanto non si addica a chi è uomo e Romano. Dunque la nostra unica

      speranza di salvezza è aprirci un varco e fuggire: possiamo tentare di

      giorno o nel cuore della notte. Ma qui, lo vedete bene, lo spazio di

      scelta è ancora minore: perché se aspettassimo l'alba, che speranze

      avremmo di non essere circondati dal nemico con un fossato e una palizzata

      senza varchi, visto che, come vedete, ora ci ha già attorniato con tutti i

      suoi uomini schierati sotto di noi? Ora, se - come in effetti è - indicata

      per una sortita è la notte, questo è certamente il momento più adatto

      della notte. Siete venuti qua al segnale del secondo turno di guardia,

      quando cioè per gli esseri umani il sonno è più profondo: avanzate in

      mezzo ai corpi assopiti, in silenzio insinuandovi tra uomini indifesi, ma

      pronti a terrorizzarli con un urlo improvviso se dovessero sentirvi.

      Seguitemi soltanto, come avete fatto in passato: io vi guiderò con lo

      stesso successo che ci ha accompagnato fino qua. Quelli cui il mio piano

      sembra garantire la salvezza, avanti, facciano un passo sulla destra».

      

      36 Passarono tutti, seguendo Decio che avanzava tra gli spazi lasciati

      incustoditi. Avevano già attraversato metà dell'accampamento, quando un

      soldato, scavalcando i corpi dei nemici addormentati, urtò uno scudo e

      fece rumore, svegliando una sentinella. Questi, dopo aver scrollato il

      compagno più vicino, si alzò e insieme con lui diede l'allarme a tutti gli

      altri, non sapendo però se si trattasse di amici o di nemici, se il

      manipolo di armati sulla cima stava tentando una sortita oppure se il

      console aveva catturato l'accampamento. Decio, vedendo che erano stati

      scoperti, diede ordine ai suoi di urlare così forte da aggiungere lo

      spavento al torpore del risveglio, impedendo ai nemici di armarsi

      velocemente e di opporre resistenza ai Romani per poi inseguirli. Con i

      Sanniti in preda al panico e alla confusione, il manipolo di Romani

      massacrò le sentinelle che gli si paravano innanzi e riuscì a fare breccia

      arrivando fino all'accampamento del console.

      L'alba era ancora lontana ed essi erano ormai convinti di essere al

      sicuro, quando Decio disse: «Onore al vostro coraggio, o Romani: la vostra

      azione per rientrare al campo sarà celebrata per sempre. Ma perché

      quest'impresa tanto valorosa possa essere apprezzata in tutta la sua

      pienezza ci vuole la luce del giorno, e il vostro glorioso rientro

      all'accampamento non merita di essere accompagnato dal silenzio della

      notte. Aspettiamo qui tranquilli che arrivi l'alba». I soldati obbedirono.

      Alle prime luci del giorno venne inviato un messaggero al console e

      l'accampamento esultò. Quando passò di bocca in bocca la notizia che erano

      tornati sani e salvi gli uomini che avevano rischiato la vita esponendosi

      a sicuri pericoli pur di garantire la salvezza comune, tutti si

      riversarono loro incontro per lodarli, ringraziarli, invocarli uno per uno

      con il nome di salvatori, levando grazie e lodi agli dèi mentre esaltavano

      Decio. A questi fu concesso il trionfo all'interno dell'accampamento:

      marciando alla testa del suo manipolo in armi, egli attraversò il campo:

      tutti gli sguardi dei soldati erano per lui, tutti rendevano al tribuno un

      omaggio degno di un console. Quando la sfilata giunse di fronte al

      pretorio, il console ordinò al trombettiere di suonare l'adunata. Aveva

      cominciato a tessere le più che meritate lodi di Decio, ma questi,

      interrompendolo, lo indusse a rinviare l'adunata. Sostenendo infatti che

      tutto il resto avrebbe potuto essere rimandato a un momento più opportuno,

      Decio convinse il console ad attaccare i nemici frastornati dallo spavento

      di quella notte e dispersi intorno alla cima in squadre separate,

      aggiungendo di essere convinto che alcuni di essi fossero stati inviati

      sulle loro tracce e adesso stessero vagando per la gola. Alle legioni

      venne dato ordine di armarsi. Uscite dall'accampamento, marciarono in

      direzione del nemico per una via più aperta (grazie agli esploratori, la

      foresta ora era meglio conosciuta). Piombarono sul nemico con un attacco a

      sorpresa: i Sanniti si erano disseminati nella zona, per lo più privi di

      armi e perciò impossibilitati tanto a inquadrarsi in formazione compatta

      quanto ad armarsi e a trovare riparo all'interno del fossato, e i Romani

      prima li costrinsero a rifugiarsi terrorizzati nell'accampamento, poi lo

      espugnarono seminando il panico tra i corpi di guardia. Le urla si

      sentivano intorno a tutto il colle, e fecero fuggire i soldati dai

      rispettivi presidi. Gran parte dei Sanniti riuscì a fuggire senza venire a

      contatto con il nemico. Quelli che invece si erano rifugiati all'interno

      dell'accampamento - si trattava di circa trentamila uomini - furono uccisi

      dal primo all'ultimo, mentre l'accampamento venne distrutto.

      

      37 Portata a termine la battaglia in questo modo, il console convocò

      l'adunata, durante la quale esaltò Publio Decio, aggiungendo alle

      congratulazioni dovute alle gesta passate quelle legate ai fatti del

      giorno, e gli fece dono - in aggiunta ad altri riconoscimenti militari -

      di una corona d'oro e di cento buoi, cui ne aggiunse uno bianco ben

      pasciuto e con corna dorate. Ai soldati che erano nel suo drappello

      concesse invece una doppia razione di frumento per il resto della vita, e

      un bue e due tuniche per il presente. Dopo i riconoscimenti dati dal

      console, le legioni, tra urla di giubilo, posero sul capo di Decio la

      corona di gramigna riservata a quanti liberano da un assedio. Un'altra

      corona, segno di analogo onore, gli venne poi imposta dagli uomini del suo

      drappello. Adorno di tutti i riconoscimenti ottenuti, Decio immolò a Marte

      il bue più grosso, regalando invece gli altri cento ai soldati che avevano

      preso parte con lui alla spedizione. A quegli stessi uomini le truppe

      offrirono poi una libbra di farro e mezzo litro di vino. Tutte queste

      manifestazioni avvennero in un clima di entusiasmo collettivo, a

      testimonianza dell'approvazione generale.

      Una terza battaglia venne combattuta nei pressi di Suessula, perché i

      Sanniti, dopo il disastro subito per mano di Marco Valerio, avevano

      chiamato dalla patria tutti i giovani in età di portare le armi, tentando

      il tutto per tutto. Da Suessula questa allarmante notizia giunse a Capua,

      da dove partirono messaggeri a cavallo con una richiesta di aiuto da

      rivolgere al console Valerio. Le truppe vennero immediatamente mobilitate

      e, deposto l'equipaggiamento pesante e lasciata una valida guarnigione a

      presidiare l'accampamento, si misero in marcia. Giunte a breve distanza

      dal nemico, si accamparono in una striscia di terra ridottissima, non

      avendo con sé, eccetto i cavalli, né animali né la massa dei palafrenieri.

      I Sanniti, convinti che la battaglia sarebbe iniziata di lì a poco, si

      schierarono in ordine di battaglia. Poi, dato che nessuno andava loro

      incontro, avanzarono minacciosi verso l'accampamento nemico. Quando videro

      i soldati sulla palizzata e i ricognitori inviati a perlustrare i lati

      dell'accampamento tornarono riferendone le modeste dimensioni - di qui si

      deduceva l'esiguo numero dei nemici -, l'intero esercito cominciò a

      mormorare impaziente che si doveva riempire il fossato, schiantare la

      palizzata e irrompere nell'accampamento. Un gesto tanto audace avrebbe

      posto fine alla guerra sul nascere, se i comandanti non avessero

      trattenuto l'animosità dei soldati. Ma poi, dato che era gravoso rifornire

      quella massa di effettivi e visto che, causa prima il lungo periodo di

      inoperosità trascorso sotto le mura di Suessula e poi il ritardo con cui

      le operazioni erano incominciate, la truppa aveva ormai pressoché bisogno

      di tutto, si decise di inviare dei soldati a rifornirsi di frumento nei

      campi, mentre il nemico, impaurito, restava barricato nell'accampamento.

      Nel frattempo i Romani, rimanendo inoperosi, si sarebbero trovati nella

      stessa situazione di necessità generale, perché si erano presentati

      provvisti di un equipaggiamento leggero, con il solo frumento che erano

      stati in grado di trasportare insieme alle armi.

      Vedendo i nemici disseminati per le campagne e i loro posti di guardia

      sguarniti, il console rivolse qualche parola di incoraggiamento ai suoi

      uomini e li guidò all'assalto dell'accampamento. Catturatolo alla prima

      carica, dopo aver ucciso più uomini dentro le rispettive tende che davanti

      alle porte e sulla palizzata, ordinò di ammassare le insegne nemiche in un

      unico punto. Lasciate due legioni con il cómpito di vigilare e presidiare

      il campo e ammoniti severamente gli uomini di astenersi dalle razzie di

      bottino almeno finché non fosse ritornato, partì con l'esercito schierato

      in ordine di battaglia. Poi, dopo aver mandato avanti la cavalleria ad

      accerchiare i Sanniti dispersi, come in una battuta di caccia, ne massacrò

      un numero enorme, perché i nemici, in preda al panico, non trovarono

      un'insegna sotto cui raccogliersi e non capivano se avessero dovuto

      rifugiarsi nell'accampamento oppure scegliere di fuggire verso qualche

      località più lontana. L'ansia della fuga e il terrore furono così grandi

      che i Romani consegnarono al console circa quarantamila scudi - ma le

      vittime furono molto meno numerose - e centosettanta insegne militari, tra

      le quali c'erano anche quelle catturate all'interno dell'accampamento. Ai

      soldati vincitori tornati al campo venne concesso l'intero bottino.

      

      38 L'esito favorevole di quella guerra indusse non solo i Falisci, con i

      quali era in atto una tregua, a chiedere un trattato al senato, ma spinse

      anche i Latini, le cui truppe erano già pronte alla battaglia, a spostare

      il loro attacco dai Romani contro i Peligni. La fama di questo trionfo non

      rimase confinata alla sola Italia: anche i Cartaginesi inviarono degli

      ambasciatori per congratularsi coi Romani e per offrire loro in dono una

      corona d'oro del peso di venticinque libbre da collocare nella cella del

      tempio di Giove sul Campidoglio. A entrambi i consoli venne accordato il

      trionfo sui Sanniti e dietro di loro nella sfilata veniva Decio, coperto

      di decorazioni e onusto di gloria: i soldati, nei loro rozzi cori, ne

      citarono il nome un numero non inferiore di volte rispetto a quello del

      console.

      In séguito vennero ascoltate le delegazioni dei Campani e degli abitanti

      di Suessula: la loro richiesta, accolta positivamente da Roma, era di

      ottenere una guarnigione armata che potesse stare con loro per la durata

      dell'inverno al fine di proteggerli da eventuali incursioni dei Sanniti.

      Già allora Capua non era affatto un luogo ideale per la disciplina

      militare: centro di ogni piacevole attrattiva, esercitò sugli animi dei

      soldati un'influenza tale da indurli, mentre erano negli accampamenti

      invernali, a progettare di togliere Capua ai Campani, con quella stessa

      scelleratezza con cui questi l'avevano strappata ai suoi antichi abitanti:

      pensavano che non sarebbe stato ingiusto rivolgere contro di loro

      l'esempio dato. E poi, perché mai la terra più fertile d'Italia e una

      città degna di quella terra dovevano restare in mano ai Campani che non

      erano in grado di proteggere né se stessi né i loro possedimenti, invece

      di passare a un esercito vincitore che col suo sangue e il suo sudore

      aveva scacciato di lì i Sanniti? O era forse giusto che chi si era

      consegnato a Roma godesse di tutta quella bellezza e di quella fertilità,

      mentre loro, esausti per le continue campagne, lottavano in una terra

      arida e malsana intorno a Roma, oppure dovevano sopportare il peso

      dell'usura che attanagliava la città e che cresceva giorno dopo giorno?

      Questi progetti, discussi in riunioni segrete e non ancora comunicati al

      resto della truppa, furono scoperti dal nuovo console Gaio Marcio Rutulo,

      cui la sorte aveva affidato il cómpito di occuparsi della Campania, mentre

      il collega Quinto Servilio era rimasto a Roma. Perciò, venuto a

      conoscenza, tramite i tribuni, dell'esatto svolgimento dei fatti,

      assennato com'era per l'età avanzata e le passate esperienze (era quello

      il suo quarto consolato, dopo una dittatura e una censura), pensò che la

      cosa migliore fosse placare l'irruenza di quei giovani, incoraggiandone la

      speranza di poter realizzare il loro piano in qualunque momento avessero

      voluto. Perciò fece diffondere la voce che anche l'anno successivo le

      guarnigioni armate avrebbero trascorso l'inverno nelle stesse città (le

      truppe infatti erano state distribuite tra le varie città della Campania,

      e da Capua i progetti di occupazione si erano diffusi in tutto

      l'esercito). Questo provvedimento appagò i congiurati, facendo sì che la

      rivolta rimanesse al momento allo stato di idea.

      

      39 Condotti i suoi uomini nell'accampamento estivo, il console - visto che

      i Sanniti si mantenevano tranquilli - decise di epurare i ranghi

      dell'esercito allontanando gli elementi più turbolenti: di alcuni disse

      che avevano concluso il periodo di ferma, di altri sostenne che si

      trattava di soggetti ormai troppo avanti con gli anni oppure non

      sufficientemente forti. Alcuni uomini vennero inviati in licenza: in un

      primo tempo vennero fatti partire alla spicciolata, poi fu la volta di

      intere coorti, allontanate col pretesto che avevano trascorso l'inverno

      lontano dalla loro case e dai loro interessi. Buona parte venne congedata

      con il pretesto di impieghi militari: furono inviati chi in una zona, chi

      in un'altra. L'altro console e il pretore trattennero a Roma tutta questa

      massa di soldati, spiegando la manovra con una serie di motivazioni sempre

      nuove. E sulle prime, non nutrendo alcun sospetto, i congedati non erano

      affatto dispiaciuti all'idea di rivedere le loro case. Ma poi, quando si

      resero conto che i primi di loro ad esser stati allontanati non facevano

      più ritorno ai reparti e che gli unici a risultare congedati erano quanti

      avevano svernato in Campania e, tra di essi, in particolar modo quelli che

      avevano fomentato la rivolta, sulle prime si meravigliarono, e poi

      iniziarono a temere senza più margini di dubbio che i loro piani fossero

      stati scoperti. Presto ci sarebbero state inchieste, sarebbero iniziate le

      delazioni e li avrebbero puniti in segreto uno per uno, costringendoli a

      provare sulla loro pelle il crudele dispotismo dei consoli e dei patrizi.

      Erano questi i discorsi che facevano in segreto i soldati rimasti

      nell'accampamento, comprendendo che l'abilità del console aveva stroncato

      l'anima della congiura.

      Una coorte che si trovava non lontano da Anxur si andò ad accampare nei

      pressi di Lautule, in uno stretto passo tra mare e monti, dove sarebbe

      stato possibile intercettare gli uomini che il console con vari pretesti

      stava congedando. Ben presto si formò un reparto di ragguardevoli

      proporzioni, cui non mancava altro che un comandante per costituire un

      esercito vero e proprio. Così, privi di ordini com'erano e affidandosi a

      razzie, arrivarono nel territorio albano e si accamparono sotto i monti di

      Alba Longa cingendo il campo di un fossato. Ultimata la costruzione,

      passarono il resto della giornata a discutere sulla scelta di un

      comandante (nessuno dei presenti godeva di sufficiente fiducia). Ma chi

      potevano far venire da Roma? Chi tra i patrizi o tra i plebei si sarebbe

      offerto di affrontare consapevolmente un pericolo tanto grande? A chi

      poteva essere affidata senza rischi la causa di un esercito esasperato

      dall'offesa patita? Il giorno dopo, mentre ancora continuavano a

      discutere, alcuni dei razziatori che si aggiravano nei dintorni riferirono

      di aver sentito dire che Tito Quinzio si dedicava ai suoi campi nei pressi

      di Tuscolo, senza più preoccuparsi di Roma e della sua vita pubblica.

      Quest'uomo, che apparteneva a una famiglia patrizia, dopo aver ottenuto

      grandi riconoscimenti in campo militare, si era visto stroncare la

      carriera da una ferita che lo aveva menomato rendendolo zoppo, e si era

      ritirato in campagna lontano dal foro e dalla politica. Non appena udirono

      il suo nome, lo riconobbero e lo fecero chiamare nella speranza che le

      cose potessero prendere una buona piega. Ma siccome le speranze che

      quell'uomo scegliesse spontaneamente di aiutarli erano assai ridotte,

      decisero di ricorrere alla forza e all'intimidazione. Giunti così nel

      cuore della notte alla sua fattoria, gli incaricati della missione

      sorpresero Quinzio immerso nel sonno. Non gli offrirono alternativa: o

      avrebbe accettato la carica e il comando, oppure, se avesse rifiutato di

      seguirli, lo avrebbero ucciso. Così, lo trascinarono nell'accampamento.

      Non appena vi mise piede, lo nominarono comandante, gli conferirono le

      insegne del grado e gli chiesero di condurli a Roma. Messisi poi in marcia

      più per loro iniziativa che per decisione del comandante, arrivarono in

      assetto di guerra a otto miglia da Roma, su quella che oggi è la via

      Appia. E di lì avrebbero immediatamente puntato sulla città, se non

      avessero sentito che un esercito muoveva ad affrontarli agli ordini di

      Marco Valerio, che era stato nominato dittatore con Lucio Emilio Mamerco

      in qualità di maestro di cavalleria.

      

      40 Non appena i due schieramenti giunsero l'uno in vista dell'altro e

      riconobbero le rispettive armi e insegne, a tutti venne sùbito in mente la

      patria e quel ricordo placò la loro ira. Gli uomini non erano ancora così

      duri da spargere il sangue dei concittadini; non avevano conosciuto

      nient'altro che guerre con popoli stranieri e la secessione dal resto

      della cittadinanza era considerata l'apice di ogni rabbiosa reazione.

      Così, da entrambe le parti, tanto i comandanti quanto i soldati semplici

      cercavano il modo per incontrarsi e trattare: tanto Quinzio, che era sazio

      anche di guerre in difesa della patria (immaginiamoci poi di guerre contro

      di essa), quanto Corvino che voleva bene a tutti i concittadini, in

      particolar modo ai soldati e al di sopra di ogni altro al suo stesso

      esercito. Fu lui a farsi avanti per avviare le trattative. Non appena lo

      riconobbero, calò sùbito il silenzio e gli avversari mostrarono di avere

      per lui non meno rispetto di quanto ne avessero i suoi uomini.

      «Soldati», cominciò Corvino, «mentre mi accingevo a uscire da Roma, ho

      rivolto una preghiera agli dèi immortali vostri e miei, chiedendo loro

      supplichevolmente di concedermi l'onore non tanto di avere la meglio su di

      voi quanto di ottenere la vostra riconciliazione. Le varie guerre hanno

      già offerto abbastanza occasioni di gloria, e altre ne offriranno. Ora

      bisogna adoperarsi per arrivare alla pace. Le richieste che ho fatto agli

      dèi immortali con la mia preghiera, voi potreste da soli realizzarle, se

      soltanto voleste ricordare di aver posto il vostro accampamento in

      territorio romano e non nel Sannio o nella terra dei Volsci, se vi venisse

      in mente che i colli che vedete si trovano nel vostro paese natale, che

      questo esercito è fatto di vostri concittadini e che io sono il vostro

      console, quello sotto i cui auspici e il cui comando avete per due volte

      sbaragliato le legioni dei Sanniti, per due volte conquistato il loro

      accampamento. Soldati, io sono Marco Valerio Corvo, il cui sangue patrizio

      conoscete per i benefici ricevuti e non per le ingiustizie perpetrate nei

      vostri confronti: sono un uomo che non ha mai proposto né leggi

      irriguardose né ha mai votato decisioni del senato crudeli verso di voi,

      risultando in tutte le posizioni di potere da lui occupate sempre più

      rigido con se stesso che con voi. Ma se le origini, il valore personale,

      la dignità e i riconoscimenti hanno mai suscitato in qualcuno l'arroganza,

      ebbene io per nascita mi trovavo in quella condizione: avevo dato una tale

      prova delle mie capacità, ero arrivato alla più alta carica della

      repubblica in età così giovane che, console a ventitré anni, avrei potuto

      essere sprezzante anche nei confronti dei patrizi, e non solo della plebe.

      Ma quando ero console ho forse detto e fatto qualcosa di meno accettabile

      rispetto a quando ero tribuno? Ho retto due consolati consecutivi

      comportandomi nella stessa maniera: nel condurre questa dittatura che mi

      conferisce poteri assoluti mi atterrò agli stessi principi: non mi

      comporterò, nei confronti di questi miei uomini e dei soldati della mia

      gente, in maniera più mite di quanto non facciano i nemici - e al solo

      pronunciare questa parola rabbrividisco - nei vostri confronti. Perciò

      sguainerete la spada prima voi contro di me che non io contro di voi.

      Dunque le trombe suonino il segnale di battaglia dalla vostra parte,

      l'urlo di guerra e l'assalto partano dalla vostra parte, se davvero si

      deve combattere. Osate pure quello che i vostri padri e i vostri antenati

      non osarono, e non ebbero il coraggio di mettere in pratica né i plebei

      che si ritirarono sul monte Sacro, né quelli che poi si ritirarono

      sull'Aventino. Aspettate fino a quando a ciascuno di voi - come successe

      in passato a Coriolano - verranno incontro le madri e le mogli coi capelli

      sciolti! Fu allora che le legioni dei Volsci, siccome avevano un

      comandante romano, cessarono di combattere. Volete non astenervi dal

      combattere una guerra scellerata voi che siete un esercito romano? Tito

      Quinzio, qualunque sia la tua posizione in quello schieramento - che tu

      l'abbia cioè occupata di spontanea volontà o sia stato forzato a farlo -,

      se si tratterà di combattere, allora ritìrati in mezzo alla retroguardia:

      per te sarà meno vergognoso fuggire e dare le spalle a dei concittadini

      piuttosto che combattere contro la patria. Ma ora che si deve arrivare

      alla pace, è giusto e doveroso che tu stia qua in prima fila e agisca nel

      supremo interesse delle due parti. Se le vostre richieste sono

      ragionevoli, verranno accolte; ma è preferibile accordarci anche a

      condizioni inique piuttosto che versare sangue in uno scontro empio».

      Tito Quinzio, voltandosi con le lacrime agli occhi verso i suoi uomini,

      disse loro: «Se, soldati, io sono di qualche utilità, posso essere per voi

      una guida migliore verso la pace che verso la guerra. Quelle parole non le

      ha pronunciate un Volsco o un Sannita, ma un Romano, il vostro console, o

      soldati, il vostro comandante: i suoi auspici li avete sperimentati in

      vostro favore, non cercate quindi di metterne alla prova l'efficacia

      contro di voi. Il senato aveva a disposizione anche altri comandanti in

      grado di affrontarvi in maniera ben più drastica: eppure ha scelto l'uomo

      che avrebbe trattato con voi - i suoi uomini - con maggior comprensione, e

      nel quale, come vostro comandante, avreste potuto riporre il massimo della

      fiducia. La pace è l'obiettivo anche di chi è in grado di dominare: che

      cosa dovremmo dunque desiderare noi? Lasciamo da parte l'ira e la

      speranza, falsi consiglieri e affidiamo noi stessi e la nostra causa a un

      uomo la cui lealtà è conosciuta da tutti».

      

      41 Poiché tutti approvavano a gran voce, Tito Quinzio avanzò oltre le

      insegne e annunciò che i suoi uomini si sarebbero rimessi all'autorità del

      dittatore, che egli implorò di sostenere la causa di quei disgraziati

      concittadini e, accettato tale cómpito, di proteggerne gli interessi con

      lo stesso scrupolo con cui era solito amministrare le cose di pubblico

      interesse. Quanto alla sua personale situazione, Tito Quinzio dichiarò di

      non voler nessuna garanzia in quanto non intendeva far affidamento su

      altro che sulla propria innocenza. Ai soldati, invece, come già in passato

      alla plebe al tempo degli avi e poi in séguito alle legioni, avrebbe

      dovuto essere assicurato che la secessione non li avrebbe fatti incorrere

      in punizioni.

      Elogiato Tito Quinzio e invitato il resto della truppa a ben sperare, il

      dittatore tornò al galoppo in città dove, dopo aver ottenuto

      l'autorizzazione del senato, fece approvare dal popolo riunito nel bosco

      Petelino una legge in virtù della quale nessun soldato avrebbe potuto

      esser perseguito a causa della secessione. Li pregò poi, in qualità di

      cittadini romani, di evitargli generosamente che quell'incidente

      diventasse per qualcuno motivo di biasimo, reale o per celia. Venne anche

      approvata una legge sacrata militare in base alla quale non avrebbe potuto

      essere cancellato dai ranghi il nome di alcun soldato arruolato, a meno

      che lo stesso ne avesse fatto richiesta; alla legge venne aggiunta una

      clausola che impediva a chiunque di comandare una centuria nei quadri di

      una legione nella quale era stato tribuno. I protagonisti della

      insurrezione militare chiesero di applicare questo provvedimento ai danni

      di Publio Salonio, il quale era stato con regolare alternanza un anno

      tribuno dei soldati e l'anno dopo primo centurione (grado che oggi è

      conosciuto come centurione primipilo). Gli uomini erano ostili nei suoi

      confronti perché Salonio si era sempre opposto ai loro progetti di

      ammutinamento ed era fuggito da Lautule per evitare coinvolgimenti nella

      rivolta. E così, dato che il senato non voleva cedere su quest'unico punto

      per riguardo nei confronti di Salonio, fu Salonio stesso che, implorando i

      senatori di non anteporre la sua onorabilità alla concordia civile, li

      spinse a cedere anche in quel caso. Ugualmente sfrontata fu la richiesta

      di ridurre lo stipendio dei cavalieri - che allora guadagnavano tre volte

      la paga dei fanti -, per il semplice fatto che essi si erano opposti

      all'ammutinamento.

      

      42 Oltre a questi provvedimenti, ho trovato presso alcune fonti che il

      tribuno della plebe Lucio Genucio propose alla plebe di dichiarare

      illegale il prestito a interesse. E che con altri plebisciti venne

      stabilito che nessuno avrebbe potuto detenere la stessa magistratura

      nell'arco di dieci anni, né una doppia magistratura nel corso di un unico

      anno, e che fosse possibile eleggere due consoli di estrazione plebea. Se

      al popolo furono concessi tutti questi privilegi, allora è evidente che

      quell'ammutinamento militare aveva avuto non poca forza. Altri annalisti

      riportano invece che Valerio non fu eletto dittatore, che l'intera

      questione venne condotta dai consoli, che la massa di rivoltosi venne

      piegata con le armi, e inoltre che l'attacco notturno non venne portato

      alla fattoria di Tito Quinzio, bensì alla casa di Gaio Manlio, il quale

      venne catturato dai ribelli e costretto a divenirne il comandante. Secondo

      queste fonti, sarebbero partiti di lì per andarsi ad accampare a quattro

      miglia da Roma, in un luogo fortificato. I comandanti non avrebbero fatto

      accenni alla concordia, ma all'improvviso, quando i due schieramenti erano

      ormai di fronte in armi, si sarebbero scambiati il saluto militare, mentre

      i soldati, mescolandosi gli uni con gli altri, avrebbero cominciato a

      stringersi la mano e ad abbracciarsi piangendo. E i consoli, vedendo che

      gli uomini non erano nella disposizione di combattere, si sarebbero visti

      costretti a proporre al senato di ristabilire l'armonia tra le parti in

      causa. Così gli storici del passato sono d'accordo soltanto sul fatto che

      l'insurrezione armata sia avvenuta e che sia stata poi ricomposta.

      La notizia di questo ammutinamento unita alla difficile guerra iniziata

      coi Sanniti spinse alcuni popoli a rinunciare all'alleanza con Roma: a

      parte i Latini, che già da tempo erano alleati inaffidabili, i Privernati

      devastarono con un'improvvisa incursione anche le colonie romane di Norba

      e Sezia.

       

      LIBRO VIII

      

      

      

      1 Erano già consoli Gaio Plauzio (per la seconda volta) e Lucio Emilio

      Mamerco, quando gli abitanti di Sezia e di Norba vennero a Roma per

      riferire che i Privernati si erano ribellati, e per lamentarsi delle

      devastazioni subite. Si apprese anche che un esercito di Volsci, alla cui

      testa erano gli Anziati, si era accampato nei pressi di Satrico. Entrambe

      le guerre toccarono in sorte a Plauzio. Come prima cosa marciò contro

      Priverno, venendo immediatamente allo scontro armato. Sconfitti i nemici

      senza eccessivi sforzi, catturò la città, cui impose una massiccia

      guarnigione, e la restituì agli abitanti, privandola però di due terzi

      della terra. Di lì l'esercito vincitore venne condotto a Satrico per

      affrontare gli Anziati. La battaglia combattuta nei pressi di quella città

      fu tremenda e costò a entrambe le parti ingenti perdite; un temporale la

      interruppe quando non era ancora chiaro a quale dei due schieramenti

      sarebbe andata la vittoria, e i Romani, per nulla scoraggiati da uno

      scontro così incerto, si prepararono a gettarsi di nuovo nella mischia il

      giorno successivo. Ma i Volsci, una volta passati in rassegna gli uomini

      per calcolare il numero dei caduti, non avevano più alcuna intenzione di

      esporsi una seconda volta allo stesso pericolo. La notte, come fossero

      stati sconfitti, abbandonarono sul posto i feriti e parte dei bagagli, e

      marciarono impauriti alla volta di Anzio. Una grande quantità di armi

      venne allora rinvenuta, non soltanto in mezzo ai corpi dei caduti, ma

      anche nell'accampamento nemico. Dopo aver dichiarato che avrebbe

      consegnato quelle spoglie alla Madre Lua, il console devastò il territorio

      nemico fino alla costa.

      L'altro console, Emilio, entrò nel territorio sabellico, ma non trovò né

      l'accampamento dei Sanniti né tracce del nemico. Mentre era impegnato a

      devastare le campagne, fu raggiunto da inviati dei Sanniti che recavano

      richieste di pace. Inviati dal console al senato, essi ottennero la

      possibilità di parlare: abbandonata l'arroganza di sempre, pregarono i

      Romani di concedere loro la pace e il diritto di portare guerra ai

      Sidicini; queste richieste parevano loro più che giustificate, in quanto

      erano diventati amici dei Romani in un periodo più favorevole (e non, come

      i Campani, nel pieno dei rovesci), e inoltre avevano preso le armi contro

      i Sidicini, loro nemici di sempre, e mai amici dei Romani; infatti i

      Sidicini non avevano mai, come i Sanniti, richiesto l'amicizia in tempo di

      pace, né, come i Campani, assistenza in tempo di guerra, e tantomeno si

      trovavano sotto la protezione del popolo romano cui non erano sottomessi.

      

      2 Il pretore Tito Emilio consultò il senato riguardo le richieste dei

      Sanniti, e avendo i senatori deciso di rinnovare il trattato di alleanza

      con loro, il pretore rispose agli inviati che non era colpa del popolo

      romano se i rapporti di amicizia si erano interrotti, e che siccome erano

      stati i Sanniti stessi a pentirsi di una guerra iniziata per colpa loro,

      non c'erano ostacoli a una ripresa delle relazioni amichevoli. Quanto ai

      Sidicini, i Romani non intendevano interferire nell'autonomia che il

      popolo sannita aveva in fatto di pace e di guerra. Quando gli inviati

      sanniti rientrarono in patria a séguito della ratifica del trattato,

      l'esercito romano venne immediatamente richiamato da quella zona, dopo

      aver ricevuto lo stipendio di un anno e razioni di viveri per tre mesi (il

      console aveva stabilito che questo fosse il prezzo giusto di una tregua,

      almeno fino al rientro degli ambasciatori).

      I Sanniti marciarono contro i Sidicini con le stesse truppe che avevano

      utilizzato nella guerra con Roma, ed erano convinti di impossessarsi della

      città nemica in breve tempo: ma i Sidicini tentarono di anticiparli

      arrendendosi ai Romani. Quando però i senatori ebbero rifiutato la loro

      resa giudicandola troppo tardiva e frutto solo della più disperata

      necessità, si rivolsero ai Latini che si erano già preparati a muovere

      guerra di loro spontanea volontà. Ma neppure i Campani - tanto più vivo

      era in loro il ricordo dell'affronto subito dai Sanniti che del beneficio

      ricevuto dai Romani - si astennero dall'unirsi alla spedizione. Un grande

      esercito formato da quei popoli e agli ordini di un comandante latino

      invase il territorio dei Sanniti, causando più danni con le sue razzie che

      in campo di battaglia. E sebbene i Latini avessero la meglio in ogni

      scontro, non furono affatto contrari all'idea di abbandonare il territorio

      nemico, per evitare di dover combattere così spesso. I Sanniti ebbero

      perciò tempo di inviare degli ambasciatori a Roma. Una volta ammessi al

      cospetto del senato, essi si lamentarono di ricevere, in qualità di

      alleati, lo stesso trattamento che era stato loro riservato quando erano

      nemici, e implorarono umilmente i Romani di accontentarsi di strappare ai

      Sanniti la vittoria conquistata su Campani e Sidicini, non permettendo

      però che essi fossero vinti dai più codardi dei popoli. Se Latini e

      Campani erano sottomessi ai Romani, che allora i Romani li costringessero

      con l'autorità ad astenersi dall'invadere il territorio sannita; se invece

      rifiutavano tale autorità, li convincessero allora con la forza. A queste

      parole i Romani replicarono in termini ambigui: erano imbarazzati a dover

      ammettere che ormai i Latini non erano più sotto il loro controllo, e

      temevano, accusandoli, di provocarne il definitivo distacco. I Campani si

      trovavano invece in condizione diversa, essendo entrati nella loro sfera

      di influenza non con un trattato, ma a séguito di una resa. Pertanto i

      Campani avrebbero dovuto, volenti o nolenti, rimanere tranquilli. Nel

      trattato stretto con i Latini non c'era invece clausola che impedisse a

      quel popolo di combattere contro chi avesse voluto.

      

      3 La risposta, se da una parte lasciò i Sanniti nel dubbio circa le

      intenzioni dei Romani, dall'altra allontanò da Roma i Campani, ora in

      preda alla paura, mentre rese ancora più baldanzosi i Latini, persuasi che

      i Romani fossero ormai pronti a qualsiasi concessione. E perciò i loro

      capi, col pretesto di preparare la guerra contro i Sanniti, convocavano

      continue riunioni, e in ognuna tramavano in segreto la guerra contro Roma.

      Anche i Campani prendevano parte a questa guerra contro i loro salvatori.

      Ma non ostante cercassero di tenere nascoste tutte le loro iniziative -

      volevano infatti scrollarsi di dosso i Sanniti prima che i Romani

      passassero all'azione -, tuttavia, tramite alcune persone legate da

      vincoli di parentela e di ospitalità privata, a Roma trapelarono

      indiscrezioni sulla congiura. Ed essendo stato ordinato ai consoli di

      dimettersi prima del termine, per far sì che al più presto venissero

      nominati nuovi consoli destinati a fronteggiare quel minaccioso conflitto,

      subentrò lo scrupolo di permettere che presiedessero le elezioni

      magistrati il cui potere aveva subito una riduzione. Fu così che si venne

      a un interregno. Gli interré furono due: Marco Valerio e Marco Fabio, il

      primo dei quali nominò consoli Tito Manlio Torquato (al terzo mandato) e

      Publio Decio Mure.

      Sappiamo che nel corso di quell'anno approdò in Italia una flotta di

      Alessandro, re dell'Epiro. Se questa guerra avesse fatto sùbito registrare

      dei successi, non c'è dubbio che si sarebbe estesa ai Romani. A quel

      periodo risalgono anche le gesta di Alessandro Magno il quale, nato dalla

      sorella del re dell'Epiro, venne stroncato in tutt'altra parte del mondo

      da una malattia fatale, quando era ancora nel fiore della giovinezza e

      senza aver subito sconfitte in guerra.

      Ma i Romani, non ostante la defezione degli alleati e di tutti i Latini

      fosse ormai quasi certa, quasi si preoccupassero per i Sanniti e non per

      se stessi, convocarono a Roma dieci comandanti latini, cui impartire

      disposizioni. Il Lazio aveva in quel tempo due pretori, Lucio Annio di

      Sezia e Lucio Numisio di Circei, entrambi provenienti da colonie romane:

      con la loro istigazione avevano spinto a prendere le armi, oltre a Signia

      e a Velitra (anch'esse colonie romane), anche i Volsci. Si decise di

      convocarli di persona. A nessuno sfuggivano i motivi della loro chiamata.

      Così, prima di partire per Roma, i pretori convocarono un'assemblea e dopo

      aver annunciato di essere stati chiamati dal senato, chiesero istruzioni

      sulla risposta da dare alle domande che supponevano sarebbero state loro

      rivolte.

      

      4 Le proposte furano quanto mai varie, e al termine Annio disse: «Anche se

      sono stato proprio io a richiedere il vostro parere sulle nostre risposte

      al senato romano, ciò non ostante ritengo più importante per la nostra

      causa decidere che cosa dobbiamo fare piuttosto che dire. Quando vi avremo

      esposto i nostri piani, non sarà difficile trovare parole adatte ai fatti.

      Infatti se anche adesso riusciamo a sopportare la schiavitù che ci lega

      sotto la parvenza di pari condizioni, cos'altro ci resta, una volta

      abbandonati i Sidicini al loro destino, se non obbedire non solo agli

      ordini dei Romani, ma anche a quelli dei Sanniti, dichiararci pronti a

      deporre le armi a un cenno dei Romani? Se invece un minimo desiderio di

      libertà sfiora i vostri animi, se le parole 'trattato' e 'alleanza'

      significano parità di diritti, se i Romani sono davvero nostri

      consanguinei (di questo in passato ci si vergognava, mentre adesso è

      motivo di vanto), se con 'esercito alleato' essi davvero intendono un

      esercito che unito al loro raddoppi le forze di ciascuno, da non impiegare

      se non per avviare o concludere guerre comuni, allora perché non siamo

      uguali in tutto? Perché uno dei due consoli non tocca ai Latini? Là dove

      c'è una partecipazione di forze dovrebbe esserci anche partecipazione di

      autorità. E questo, per altro, non sarebbe particolare motivo di vanto per

      noi: in fondo, abbiamo già accettato che Roma fosse capitale del Lazio! Ma

      prolungando all'infinito la nostra sopportazione abbiamo fatto sì che

      questa condizione sembrasse motivo d'onore. Se però avete mai accarezzato

      il desiderio di dividere il comando e di godere della libertà, ecco

      arrivato il momento opportuno, ora che l'occasione vi viene offerta dal

      vostro valore e dalla benevolenza degli dèi. Negando loro l'invio di

      truppe ne avete messo alla prova la pazienza: chi può aver dubbi che siano

      furenti per aver visto interrompersi una consuetudine che risaliva a più

      di duecento anni fa? Eppure hanno incassato il colpo. Abbiamo combattuto

      coi Peligni di nostra iniziativa: il popolo che in passato non ci

      concedeva nemmeno il diritto di difendere da soli la nostra terra non ha

      fatto opposizione. Hanno sentito che i Sidicini si sono messi sotto la

      nostra protezione, che i Campani li hanno abbandonati per schierarsi dalla

      nostra parte e che noi stiamo preparando un esercito per affrontare i

      Sanniti: eppure non si sono mossi da Roma. Da dove viene tutta questa loro

      moderazione, se non dalla consapevolezza della nostra e della loro forza?

      So da fonte sicura che ai Sanniti presentatisi a lamentarsi di noi il

      senato romano ha risposto in maniera da non lasciar dubbi sulla

      situazione: ormai nemmeno i suoi stessi membri pretendono più che il Lazio

      resti sotto l'autorità di Roma. Nelle vostre domande chiedete ora senza

      esitazioni quei diritti che essi tacitamente vi concedono. Se c'è qualcuno

      che non ha il coraggio di parlare, allora dichiaro che sarò io stesso a

      farlo di fronte non solo al popolo e al senato romano, ma anche a Giove

      che abita sul Campidoglio: se vogliono che osserviamo il trattato di

      alleanza, allora accettino che il nostro popolo fornisca uno dei consoli e

      parte del senato». Queste proposte e queste promesse spregiudicate vennero

      accolte con un urlo di approvazione generale e ad Annio fu conferito il

      potere di agire e parlare nella maniera che gli fosse sembrata più

      conveniente alla causa e all'onore del popolo latino.

      

      5 Quando i due magistrati arrivarono a Roma, il senato diede loro udienza

      sul Campidoglio. Lì, siccome il console Tito Manlio intimò loro, su

      iniziativa del senato, di non portare guerra ai Sanniti che erano legati

      ai Romani da un trattato di alleanza, Annio parlò non come un ambasciatore

      protetto dal diritto delle genti, ma come un generale che avesse appena

      conquistato il Campidoglio con il suo esercito. «Tito Manlio», disse «e

      voi, senatori: sarebbe ora, una buona volta, che la smetteste di trattare

      con noi da padroni, rendendovi conto che il Lazio, con il favore degli

      dèi, è più che mai ricco di uomini e di armi dopo aver vinto in guerra i

      Sanniti e aver ottenuto l'alleanza di Sidicini e Campani, e adesso anche

      dei Volsci; e rendendovi conto che addirittura le vostre colonie hanno

      preferito sottomettersi ai Latini piuttosto che a voi Romani. Ma poiché

      non vi rassegnate a porre fine al vostro dispotismo, noi - pur essendo in

      grado di rivendicare la libertà del Lazio con la forza delle armi - siamo

      disposti, in nome del rapporto di consanguineità, a offrire condizioni di

      pace che soddisfino entrambe le parti, in considerazione del fatto che gli

      dèi hanno voluto un equilibrio di forze tra noi. Ecco le condizioni: i

      consoli devono essere eletti uno dai Romani, l'altro dai Latini; i membri

      del senato nominati secondo un'equa proporzione tra le due genti, in modo

      che ci siano un unico popolo e un unico stato. E perché la sede e il nome

      dell'impero siano comuni a tutti, essendo in proposito inevitabile che una

      delle due parti ceda nell'auspicabile interesse di entrambi i popoli,

      ebbene: la capitale sia la nostra città e il nome di tutti sia quello di

      Romani!».

      Il caso volle che anche i Romani avessero, nel console Tito Manlio, un

      uomo che poteva tener testa ad Annio quanto a bellicosità. Manlio

      controllò così poco il proprio risentimento da dichiarare che, se i

      senatori fossero stati così irragionevoli da lasciarsi dettare legge da un

      uomo di Sezia, si sarebbe presentato in senato con la spada al fianco e

      avrebbe ucciso con le sue mani qualunque latino gli si fosse parato

      innanzi. Voltatosi poi verso la statua di Giove, disse: «Ascolta, Giove,

      queste parole scellerate! Ascoltate, leggi umane e divine! Tu stesso,

      Giove, prigioniero e oppresso, dovrai vedere consoli e senatori stranieri

      nel tuo sacro santuario? Sono questi, o Latini, i patti che il re romano

      Tullo ha stretto con i vostri antenati albani, questi i patti che Lucio

      Tarquinio ha poi stipulato con voi? Non ricordate la battaglia del lago

      Regillo? A tal punto avete dimenticato i disastri patiti in passato e i

      benefici che vi abbiamo fatto?».

      

      6 Alle parole del console seguì l'indignazione dei senatori, ed è stato

      tramandato che in risposta alle numerose suppliche rivolte agli dèi,

      ripetutamente chiamati in causa dai consoli come testimoni garanti dei

      trattati, si udì una frase sprezzante di Annio contro la maestà di Giove

      romano. Quel che è certo è che, mentre furente si precipitava fuori dal

      vestibolo del tempio, scivolò sui gradini e batté la testa sull'ultimo

      gradino con tale violenza da perdere i sensi. Poiché non tutti gli autori

      concordano nell'affermare che morì, posso lasciare anch'io la questione

      aperta, come pure il fatto che, mentre i Latini invocavano gli dèi a

      testimoni della rottura dei trattati, scoppiò una tempesta accompagnata da

      un grande fragore nel cielo. Queste notizie potrebbero infatti essere vere

      come pure esser state inventate ad arte per rappresentare in maniera

      concreta l'ira degli dèi. Torquato, che i senatori avevano mandato a

      congedare gli inviati, vedendo Annio steso a terra, esclamò (perché la sua

      voce arrivasse sia al popolo sia ai senatori): «Sta bene così: gli dèi

      hanno scatenato una guerra santa. Esiste la potenza celeste! Ed esisti tu,

      Giove! In questa sede non ti abbiamo consacrato invano padre degli dèi e

      degli uomini. Perché esitate, o Quiriti, e voi padri coscritti, a prendere

      le armi sotto la guida degli dèi? Schianterò al suolo le legioni latine,

      così come ora vedete stramazzato a terra il loro rappresentante». Le

      parole del console, accolte con approvazione da tutto il popolo,

      infiammarono a tal punto la massa che gli inviati latini, ormai sul piede

      di partenza, vennero protetti contro la rabbia e l'assalto del popolo più

      dall'intervento dei magistrati che li accompagnavano per disposizione del

      console, che dal diritto delle genti. Anche il senato si dichiarò

      d'accordo sulla guerra. E i consoli, arruolati due eserciti,

      attraversarono i territori dei Marsi e dei Peligni. Quindi, una volta

      unite alle loro forze quelle dei Sanniti, si accamparono nei pressi di

      Capua, dove cioè si erano già concentrati i Latini e i loro alleati.

      Lì si dice che entrambi i consoli ebbero nella notte la stessa visione: un

      uomo di statura e imponenza superiori al normale il quale diceva che il

      comandante di una parte e l'esercito dell'altra avrebbero dovuto essere

      offerti in sacrificio agli dèi Mani e alla Madre Terra. La vittoria

      sarebbe andata a quel popolo e a quello schieramento il cui comandante

      avesse offerto in sacrificio di espiazione le legioni nemiche oltre a se

      stesso. I consoli, confrontate queste visioni notturne, decisero di far

      sacrificare delle vittime per placare l'ira degli dèi. Se poi il responso

      delle viscere fosse coinciso con il contenuto dei sogni, allora uno dei

      due consoli avrebbe dovuto mettere in atto la volontà del destino. Quando

      il verdetto degli aruspici si fu rivelato in pieno accordo con la segreta

      superstizione che ormai si era radicata in loro, dopo aver convocato

      luogotenenti e tribuni e aver reso di pubblico dominio il volere degli

      dèi, per evitare che la morte volontaria del console spaventasse le truppe

      durante il combattimento, i due alti comandanti decisero di comune accordo

      che, dovunque l'esercito romano avesse cominciato a perdere terreno, il

      console che aveva il comando dei reparti in difficoltà avrebbe dovuto

      sacrificarsi. Nel corso dell'assemblea si decise anche che, se in passato

      c'erano mai state delle guerre condotte con estrema severità, ora era

      l'occasione buona per ricondurre la disciplina militare alle tradizioni di

      un tempo. La preoccupazione dei Romani era accresciuta dal fatto di dover

      combattere contro i Latini, un popolo che aveva la loro stessa lingua,

      stesse tradizioni, stesso tipo di armamenti, e soprattutto la stessa

      condotta ed esperienza militare. I soldati si erano mescolati con i

      soldati, i centurioni con i centurioni e i tribuni con i tribuni, da pari

      a pari e in qualità di colleghi, nelle stesse guarnigioni e spesso anche

      negli stessi manipoli. Per evitare che questa situazione traesse in errore

      i soldati, i consoli ordinarono che nessuno abbandonasse il proprio posto

      per andare all'assalto del nemico.

      

      7 Il caso volle che tra gli altri ufficiali dei vari squadroni inviati in

      tutte le direzioni a perlustrare i dintorni ci fosse Tito Manlio, il

      figlio del console. Egli si era spinto, con i suoi cavalieri, al di sopra

      dell'accampamento nemico, fino a trovarsi a distanza di un lancio di

      giavellotto dal posto di guardia più vicino. In quel settore c'erano i

      cavalieri di Tuscolo agli ordini di Gemino Mecio, un uomo famoso tra i

      compagni sia per i nobili natali sia per il suo passato di combattente.

      Riconosciuti i cavalieri romani e il figlio del console, alla testa del

      drappello (si conoscevano tutti fra loro, specie gli uomini più in vista),

      disse: «Non vorrete davvero, Romani, combattere la guerra contro i Latini

      e i loro alleati con un solo squadrone di cavalleria? Cosa faranno nel

      frattempo i consoli e i due eserciti?». «Arriveranno a tempo debito»,

      replicò Manlio, «e con loro arriverà anche Giove in persona, ben più forte

      e potente, testimone degli accordi che avete violato. Se al lago Regillo

      vi abbiamo massacrato fino alla nausea, anche qui faremo sicuramente in

      modo che non vi stia troppo a cuore l'affrontarci in battaglia». Udite

      queste parole, Gemino avanzò in sella poco oltre la linea dei compagni e

      domandò: «Mentre aspetti che venga quel giorno nel quale farete il grande

      sforzo di muovere l'esercito, non vuoi misurarti tu in persona con me, in

      modo che già dall'esito del nostro duello la gente veda quanto sia

      superiore un cavaliere latino a uno romano?». L'indole tracotante del

      giovane venne spinta dal risentimento o forse dalla vergogna di rifiutare

      la sfida, o ancora dalla forza irresistibile del destino. E così,

      dimentico dell'ordine del padre e del proclama del console, si gettò

      sconsideratamente in un duello nel quale non avrebbe fatto molta

      differenza se avesse vinto o perso. Dopo aver fatto allontanare gli altri

      cavalieri come per far spazio a uno spettacolo, i due sfidanti spronarono

      i cavalli l'uno contro l'altro nel tratto di pianura che si apriva tra di

      loro. Lanciatisi all'assalto con le aste pronte a colpire, la cuspide di

      Manlio sfiorò l'elmo dell'avversario, mentre l'asta di Mecio andò a finire

      oltre il collo del cavallo di Manlio. Poi, dopo aver girato i cavalli,

      Manlio, che era stato il primo a rialzarsi per il secondo assalto, riuscì

      a piantare la punta del giavellotto tra le orecchie del cavallo. Per il

      dolore della ferita, l'animale si alzò sulle zampe anteriori e scosse la

      testa con violenza, sbalzando di sella il cavaliere. Questi, appoggiandosi

      all'asta e allo scudo, cercava di rimettersi in piedi dopo la pesante

      caduta, quando Manlio lo trapassò col giavellotto che, uscito dal fianco

      dopo essere entrato dalla gola, inchiodò a terra l'avversario. Quindi,

      raccolte le spoglie, ritornò dai compagni di squadra che lo accolsero con

      un urlo di gioia e lo accompagnarono all'accampamento, dove il giovane

      cercò immediatamente la tenda del padre, senza sapere cosa il destino

      avesse in serbo per lui, se cioè la lode oppure la punizione.

      «Padre», disse «perché tutti mi ritengano veramente figlio tuo, io ti

      porto queste spoglie equestri, strappate al corpo di un nemico che mi

      aveva sfidato a duello». Non appena il console sentì queste parole,

      distolse immediatamente lo sguardo dal figlio e ordinò al trombettiere di

      suonare l'adunata. Raccoltisi gli uomini, disse: «Poiché tu, Tito Manlio,

      senza portare rispetto né all'autorità consolare né alla patria potestà,

      hai abbandonato il tuo posto, contro i nostri ordini, per affrontare il

      nemico, e con la tua personale iniziativa hai violato quella disciplina

      militare grazie alla quale la potenza romana è rimasta tale fino al giorno

      d'oggi, mi hai costretto a scegliere se dimenticare lo Stato o me stesso,

      se dobbiamo noi essere puniti per la nostra colpa o piuttosto è il paese a

      dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un

      precedente penoso, che però sarà d'aiuto per i giovani di domani. Quanto a

      me, sono toccato non solo dall'affetto naturale che un padre ha verso i

      figli, ma anche dalla dimostrazione di valore che ti ha fuorviato con una

      falsa parvenza di gloria. Ma visto che l'autorità consolare dev'essere o

      consolidata dalla tua morte oppure del tutto abrogata dalla tua impunità,

      e siccome penso che nemmeno tu, se in te c'è una goccia del mio sangue,

      rifiuteresti di ristabilire la disciplina militare messa in crisi dalla

      tua colpa, va, o littore, e legalo al palo».

      Di fronte a un ordine tanto crudele rimasero tutti senza fiato: ciascuno,

      frenato più dalla paura che dalla disciplina, guardava alla scure come

      fosse rivolta contro se stesso. Ma quando si riebbero dallo stupore che li

      aveva tenuti im-mobili in silenzio, all'improvviso, mentre il sangue

      sgorgava dal collo reciso, le loro voci esplosero in un lamento così

      incontrollabile da non risparmiare né gemiti né maledizioni; e dopo aver

      coperto con le spoglie il corpo del giovane, costruirono una pira al di là

      della trincea e lo cremarono con tutti gli onori funebri che la cura dei

      soldati gli potesse offrire. E gli 'ordini di Manlio' non solo suscitarono

      orrore in quella precisa circostanza, ma costituirono anche per i giorni a

      venire un esempio di crudele severità.

       

      8 Tuttavia la brutalità di quella punizione rese più obbedienti i soldati,

      e non solo i servizi di guardia, i turni di sentinella e di picchetto

      vennero dovunque effettuati con maggiore attenzione, ma quell'eccesso di

      severità fu d'aiuto anche nella parte finale della lotta, quando si arrivò

      allo scontro in campo aperto. Quella battaglia, però, ricordò molto da

      vicino una guerra civile: a tal punto i Latini non differivano in nulla

      dai Romani se non per il valore.

      In passato i Romani avevano utilizzato piccoli scudi rotondi. Ma in

      séguito, quando l'esercito venne pagato, li rimpiazzarono con grandi scudi

      rettangolari. E ciò che prima era stata una falange simile a quella dei

      Macedoni, con gli anni iniziò a essere una linea di battaglia formata da

      gruppi di manipoli, con le retroguardie inquadrate in più compagnie,

      ciascuna delle quali aveva sessanta soldati, due centurioni e un alfiere.

      In prima linea c'erano gli hastati, organizzati in quindici manipoli l'uno

      a ridosso dell'altro. Ogni manipolo constava di venti soldati armati alla

      leggera, mentre il resto portava lo scudo pesante. Inoltre erano definiti

      leves gli uomini che portavano soltanto l'asta e i giavellotti pesanti.

      Questa prima linea dello schieramento era formata dal fiore della gioventù

      in età militare. Alle loro spalle c'era una linea costituita dallo stesso

      numero di manipoli, a loro volta formati da uomini più maturi e chiamati

      principes. Provvisti tutti di grandi scudi rettangolari, essi erano dotati

      delle armi migliori. A questa formazione di trenta manipoli veniva dato il

      nome di antepilani, perché dietro alle insegne erano schierate altre

      quindici compagnie, ciascuna delle quali risultava formata da tre plotoni,

      che a loro volta prendevano il nome di pili. Ogni manipolo, costituito da

      centottantasei effettivi, aveva tre insegne. Dalla prima insegna

      dipendevano i triarii, soldati di provato valore; dalla seconda i rorarii,

      meno validi per età e precedenti sul campo, mentre dalla terza gli

      accensi, cioè dei soldati su cui si poteva fare scarso affidamento e che

      proprio per questo motivo venivano relegati nelle estreme retrovie. Quando

      l'esercito veniva inquadrato in questa formazione, i primi a entrare nel

      vivo dello scontro erano gli hastati. Se questi ultimi non riuscivano a

      piegare la resistenza del nemico, si ritiravano a passo lento e andavano a

      occupare gli spazi vuoti tra i manipoli dei principes, cui toccava allora

      il cómpito di sfondare, avendo alle spalle gli hastati. I triarii stavano

      fermi presso le loro insegne con la gamba sinistra in avanti, gli scudi

      appoggiati alle spalle, le aste piantate in terra con la punta rivolta in

      alto, dando così l'impressione che la loro linea fosse protetta dalle

      punte di una palizzata. Se poi anche i principes non combattevano in

      maniera sufficientemente efficace, dalla prima linea retrocedevano a poco

      a poco fino all'altezza dei triarii (di qui il proverbio 'arrivare ai

      triarii', in uso per indicare che le cose inclinano al peggio). I triarii,

      alzandosi a combattere dopo aver raccolto negli spazi vuoti tra le loro

      unità i principes e gli hastati, serravano sùbito le fila chiudendo ogni

      passaggio; poi, senza più alcuna protezione alle spalle, caricavano il

      nemico a ranghi compatti. Questa manovra incuteva enorme terrore negli

      avversari che, gettandosi all'inseguimento di chi credevano ormai

      sconfitto, all'improvviso si trovavano davanti agli occhi una nuova

      schiera più numerosa della precedente. Di solito venivano arruolate anche

      quattro legioni costituite da cinquemila fanti ciascuna, più trecento

      cavalieri per ogni legione.

      Un contingente di analoghe proporzioni veniva poi aggiunto con la leva

      effettuata tra i Latini, che in quella circostanza erano però nemici dei

      Romani e avevano schierato la loro linea di battaglia seguendo lo stesso

      schema di formazione. Ed i Latini sapevano che in battaglia si sarebbero

      scontrati non solo i manipoli con i manipoli, gli hastati con gli hastati,

      i principes con i principes, ma - ammesso che gli schieramenti in campo

      non subissero modifiche - anche i centurioni con i centurioni. In entrambi

      gli eserciti il primipilo si trovava tra i triarii. E se il Romano non era

      eccessivamente forte dal punto di vista fisico, ma dotato di coraggio e di

      grande esperienza in campo militare, il Latino era un combattente di prima

      qualità, aiutato da un fisico possente. I due si conoscevano benissimo

      perché avevano sempre comandato compagnie dello stesso rango. Il

      centurione romano, non avendo abbastanza fiducia nella propria forza

      fisica, prima di lasciare Roma aveva ottenuto dai consoli il permesso di

      scegliersi un centurione a lui subordinato, che lo proteggesse

      dall'avversario che gli era destinato. E il giovane prescelto, scontratosi

      in battaglia con il centurione latino, ebbe la meglio su di lui.

      La battaglia venne combattuta non lontano dalle pendici del Vesuvio, nel

      punto in cui la strada portava al Veseri.

      

      9 I consoli romani offrirono sacrifici prima di guidare le loro truppe

      all'assalto. A quanto si racconta, l'aruspice avrebbe fatto notare a Decio

      che il fegato era inciso nella parte famigliare, ma che la vittima era

      ugualmente gradita agli dèi e che Manlio aveva ottenuto auspici quanto mai

      favorevoli. «Allora sta bene», disse Decio «il collega ha ricevuto dei

      segni favorevoli». Nella formazione già descritta, i Romani avanzarono sul

      campo di battaglia. Manlio guidava l'ala destra, Decio la sinistra.

      All'inizio le forze e l'ardore dei combattenti erano uguali da entrambe le

      parti. Ma dopo qualche tempo gli hastati romani, non riuscendo a reggere

      la pressione dei Latini, dovettero riparare tra i principes. In questo

      momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce

      e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti,

      pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le

      quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni». Il

      pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e,

      toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di

      pronunciare le seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto:

      «Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi

      Indigeti, dèi nelle cui mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani,

      io vi invoco, vi imploro e vi chiedo umilmente la grazia: concedete

      benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria e gettate paura,

      terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Quiriti. Come ho

      dichiarato con le mie parole, così io agli dèi Mani e alla Terra, per la

      repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito, per le legioni e

      per le truppe ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le

      legioni e le truppe ausiliarie del nemico insieme con me stesso».

      Rivolta questa invocazione, ordinò ai littori di recarsi da Tito Manlio e

      di annunciare quanto prima al suo collega che egli si era offerto in

      sacrificio per il bene dell'esercito. Cintasi poi la toga con il cinto

      gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si gettò in mezzo ai

      nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con un aspetto ben più maestoso

      di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo per placare ogni ira

      degli dèi e allontanare dai compagni la disfatta rovinosa, respingendola

      sui nemici. Fu per questo che il suo assalto seminò panico e terrore nelle

      prime file dei Latini, arrivando poi a contagiare l'intero esercito. Era

      evidentissimo che, dovunque si dirigesse in sella al suo cavallo, lì i

      nemici si ritraevano spaventati come fossero stati colpiti da una meteora

      letale. Ma quando poi cadde sommerso da una pioggia di frecce, da quel

      momento non ci furono più dubbi sullo sbandamento delle coorti latine che

      si diedero ovunque alla fuga, lasciando dietro di sé il deserto. Nello

      stesso istante i Romani - liberati dal peso della superstizione -, come se

      solo allora fosse stato dato il segnale, si lanciarono all'assalto,

      riaccendendo la mischia. Infatti anche i rorarii si fecero sotto, tra gli

      antepilani, aggiungendo le loro forze a quelle di hastati e principes,

      mentre i triarii, ancora inginocchiati sulla gamba destra, aspettavano che

      il console desse loro il segnale di alzarsi.

      

      10 Mentre la battaglia continuava e in alcuni punti i Latini stavano

      avendo la meglio grazie alla superiorità numerica, il console Manlio venne

      a conoscenza della fine del collega e, dopo aver onorato con il pianto e

      le giuste lodi - come richiedevano il senso del dovere e la pietà - una

      morte così gloriosa, rimase per un attimo nel dubbio se fosse già giunto

      il tempo di una sortita dei triarii. Ma poi, pensando fosse preferibile

      tenerli in serbo per l'attacco finale, ordinò agli accensi di portarsi

      dalle retrovie al di là delle insegne. Non appena essi presero posizione,

      ecco che i Latini, convinti che gli avversari avessero fatto la stessa

      mossa, mandarono avanti i loro triarii, i quali, pur sfiniti, con le lance

      rotte o spuntate, dopo aver combattutto con grande accanimento per qualche

      tempo, riuscirono a respingere il nemico; e credevano di aver già avuto la

      meglio e di aver raggiunto l'ultima linea avversaria, quando il console

      disse ai triarii: «Ora alzatevi e affrontate freschi come siete il nemico

      sfinito, ricordandovi della patria, dei genitori, di mogli e figli, e del

      console caduto per la vostra vittoria». Quando i triarii si alzarono,

      pieni di energie, con le loro armi luccicanti, nuova schiera spuntata

      all'improvviso, accolsero gli antepilani negli spazi vuoti tra le loro

      schiere e levando il grido di guerra seminarono lo scompiglio tra le prime

      file dei Latini. Colpendoli in faccia con le aste e massacrandone il fiore

      della gioventù, penetrarono attraverso gli altri manipoli come se questi

      non fossero armati, frantumando i loro cunei con un massacro di tali

      proporzioni che a stento un quarto dei nemici sopravvisse. Anche i

      Sanniti, schierati a distanza ai piedi delle montagne, terrorizzarono i

      Latini.

      Tra tutti i cittadini e gli alleati, la gloria principale di quella

      vittoria fu dei consoli: uno dei quali aveva attirato unicamente verso la

      propria persona tutte le minacce e le maledizioni degli dèi celesti e

      infernali, mentre l'altro aveva dimostrato in battaglia un coraggio e

      un'accortezza tali che, quanti tra Romani e Latini lasciarono un resoconto

      della battaglia concordarono agevolmente sul fatto che qualunque fosse

      stata la parte guidata da Tito Manlio, a quella sarebbe sicuramente andata

      la vittoria. I Latini in fuga ripararono a Minturno. Il loro accampamento

      venne preso dopo la battaglia e lì molti uomini - in buona parte Campani -

      furono catturati e passati per le armi. Il corpo di Decio non venne

      recuperato quel giorno, perché la notte interruppe le ricerche. Fu

      rinvenuto il giorno dopo sotto un mucchio di frecce in mezzo all'enorme

      massa di nemici caduti. Il collega gli tributò onoranze funebri adeguate

      alla morte toccatagli.

      Mi sembra opportuno aggiungere che il console, il dittatore o il pretore

      che offra in sacrificio le legioni nemiche non deve necessariamente

      immolare se stesso, ma può scegliere di offrire un cittadino incluso in

      una legione romana regolarmente arruolata e scelto a suo piacimento. Se

      l'uomo che viene offerto muore, è segno che le cose riusciranno per il

      meglio. Se invece non muore, allora una sua immagine viene sotterrata a

      sette o più piedi di pro-fondità nella terra, e viene offerta in

      sacrificio una vittima espiatoria. E al magistrato romano non sarà

      consentito di salire sopra il punto in cui l'immagine è stata sotterrata.

      Se poi vuole offrire se stesso in voto, come fece Decio, e non muore, non

      può offrire sacrifici di natura né pubblica né privata senza macchiarsi di

      una colpa, sia che ricorra a una vittima, sia che si serva di un'altra

      offerta di suo piacimento. Colui che si offre in voto ha il diritto di

      dedicare le proprie armi a Vulcano o a qualunque altra divinità desideri.

      È considerata una violazione sacrilega che il nemico si impossessi del

      giavellotto sul quale è stato in piedi il console nell'atto di pronunciare

      la sua invocazione. Nel caso in cui la cosa si verifichi, bisogna placare

      l'ira di Marte offrendo in sacrificio una pecora, un maiale e un toro.

      

      11 Anche se la memoria di ogni usanza sacra e profana è stata cancellata

      dal favore che gli uomini tributano alle cose nuove e straniere,

      preferendole a quelle antiche e trasmesse dagli antenati, ho ritenuto che

      non fosse fuori luogo riferire queste procedure con le parole con le quali

      sono state formulate e tramandate.

      Presso alcuni autori ho trovato che fu soltanto a battaglia conclusa che i

      Sanniti intervennero in aiuto dei Romani, dopo aver atteso l'esito dello

      scontro. E anche che i Latini erano già stati messi in fuga quando gli

      abitanti di Lavinio, che continuavano a perdere tempo in discussioni sul

      da farsi, portarono finalmente il loro aiuto. E ricevuta la notizia della

      disfatta patita dai Latini quando ormai la loro avanguardia e parte

      dell'esercito erano usciti dalle porte, con una rapida inversione di

      marcia sarebbero rientrati in città, poiché il loro pretore di nome

      Milonio - a quanto si racconta - avrebbe ricordato ai suoi che quella

      breve sortita sarebbe costata cara ai Romani. I Latini sopravvissuti alla

      battaglia, dispersi in varie direzioni, si riunirono in un unico nucleo e

      si rifugiarono nella città di Vescia. Lì, nelle assemblee che essi

      tenevano, il loro comandante in capo Numisio affermava che in realtà

      l'esito della guerra era stato incerto, che entrambe le parti avevano

      subito un ugual numero di perdite e che i Romani avevano vinto soltanto

      nominalmente, trovandosi invece, di fatto, nella condizione di sconfitti.

      Le tende di entrambi i consoli erano in lutto: una per l'uccisione del

      figlio, l'altra per la morte del console che si era offerto in voto. Il

      loro intero esercito era stato fatto a pezzi, hastati e principes

      massacrati, la carneficina aveva coinvolto dall'avanguardia alla

      retroguardia, e soltanto alla fine i triarii erano riusciti a ristabilire

      le sorti della battaglia. Anche se le forze latine erano state ugualmente

      decimate, tuttavia, per fornire nuovi rinforzi, tanto il Lazio quanto la

      terra dei Volsci erano più vicini di Roma. Perciò, se sembrava loro

      opportuno, egli avrebbe rapidamente messo insieme dei giovani in età

      militare reclutandoli dalle genti del Lazio e da quelle dei Volsci,

      sarebbe ritornato a Capua con un esercito pronto a combattere: il suo

      arrivo inatteso avrebbe gettato nello scompiglio i Romani, i quali in quel

      momento tutto si aspettavano fuorché una battaglia. Vennero così inviate

      delle lettere piene di menzogne in tutto il Lazio e nella terra dei

      Volsci: poiché quanti non avevano preso parte alla battaglia erano pronti

      a credere ciecamente al messaggio in esse contenuto, venne rapidamente

      messo insieme, da tutte le parti, un esercito raccogliticcio.

      A questo contingente andò incontro presso Trifano - tra Sinuessa e

      Minturno - il console Torquato. Entrambi gli eserciti, senza neppure aver

      scelto un punto per porre l'accampamento, ammassate le salmerie, vennero a

      battaglia e posero fine alla guerra. Le truppe nemiche subirono infatti

      una tale decimazione che, quando il console guidò il suo esercito

      vincitore a devastare il territorio dei Latini, questi ultimi si

      consegnarono dal primo all'ultimo, e i Campani seguirono il loro esempio.

      Il Lazio e Capua vennero privati del territorio. Il territorio dei Latini,

      invece, in aggiunta a quello dei Privernati e a quello di Falerno

      (appartenuto al popolo campano) fino al fiume Volturno, venne diviso tra

      la plebe romana. A ciascun cittadino furono assegnati due iugeri nel

      Lazio, in modo da aggiungere un terzo di iugero nel territorio di

      Priverno, mentre in quello di Falerno vennero assegnati tre iugeri di

      terra a testa con in più un quarto di iugero dato come compenso per la

      lontananza. Tra i Latini non incorsero in punizioni i Laurenti, tra i

      Campani i cavalieri, in quanto non avevano preso parte all'ammutinamento.

      Fu data disposizione di rinnovare il trattato coi Laurenti, e da quel

      giorno è stato rinnovato ogni anno dieci giorni dopo le ferie latine. Ai

      cavalieri campani venne concessa la cittadinanza romana e per commemorare

      la cosa venne affissa una tavoletta di bronzo nel tempio di Castore a

      Roma. Inoltre venne ordinato al popolo campano di pagare a ciascuno di

      essi (si trattava di mille e seicento uomini) un tributo annuo di

      quattrocentocinquanta denari.

      

      12 Dopo aver portato a termine la guerra in questa maniera e aver

      distribuito ricompense e punizioni in relazione ai meriti di ciascuno,

      Tito Manlio rientrò a Roma. Si dice che al suo arrivo gli andarono

      incontro soltanto gli anziani: i giovani, allora come per il resto dei

      suoi giorni, lo odiarono e lo maledirono.

      Gli Anziati effettuarono incursioni nei territori di Ostia, Ardea e

      Solonio. Il console Manlio, non avendo potuto seguire di persona questa

      campagna militare per ragioni di salute, nominò dittatore Lucio Papirio

      Crasso, il quale era allora in carica come pretore. Egli nominò a sua

      volta maestro di cavalleria Lucio Papirio Cursore. Contro gli Anziati il

      dittatore non compì nulla di straordinario, pur essendo rimasto accampato

      per alcuni mesi nel loro territorio.

      A un anno reso memorabile dalla vittoria su tanti popoli così potenti,

      nonché dalla morte gloriosa di uno dei due consoli e dalla severità

      dell'altro (tanto crudele quanto famosa nel corso dei secoli), seguì il

      consolato di Tiberio Emilio Mamercino e di Quinto Publilio Filone, i quali

      non ebbero tali opportunità e si preoccuparono più dei propri casi

      personali e degli interessi delle rispettive fazioni che del bene della

      patria. Adirati per la confisca del territorio, i Latini si ribellarono,

      ma vennero travolti nella pianura Fenectana dai consoli i quali tolsero

      loro l'accampamento. Mentre Publilio, sotto il cui comando e i cui auspici

      era stata condotta la campagna, stava accettando la resa dei popoli latini

      i cui soldati erano caduti in quello scontro, Emilio condusse l'esercito a

      Pedo. Gli abitanti di questa città erano sostenuti dai Tiburtini, dai

      Prenestini e dai Veliterni, mentre rinforzi erano anche arrivati da

      Lanuvio e da Anzio. Anche se i Romani si erano dimostrati superiori in più

      di una battaglia, ciò non ostante dovevano ancora essere avviate le

      operazioni per espugnare la città stessa di Pedo e gli accampamenti dei

      popoli alleati che si trovavano in prossimità della città. All'improvviso

      il console, appreso che al suo collega era stato concesso il trionfo,

      lasciò a metà le operazioni e rientrò a Roma pretendendo anche per se

      stesso il trionfo ancor prima di aver ottenuto la vittoria. I senatori,

      urtati da questa smaniosa ambizione, gli negarono il trionfo fino a quando

      non avesse conquistato Pedo o ne avesse ottenuto la resa; e da quel

      momento Emilio, risentito nei confronti del senato, svolse il consolato

      con lo spirito di un tribuno sedizioso. Infatti, fino a quando rimase in

      carica, non cessò mai di calunniare i senatori di fronte al popolo, senza

      che il collega - anch'egli di estrazione plebea - gli opponesse la minima

      resistenza. Offriva terreno alle accuse il fatto che la divisione

      dell'agro Latino e di quello Falerno era stata iniqua per i plebei. E

      quando il senato, desiderando porre fine al potere dei consoli, ordinò di

      nominare un dittatore da opporre ai Latini ribelli, Emilio, che in quel

      momento deteneva i fasci, nominò dittatore il collega, il quale a sua

      volta scelse Giunio Bruto come maestro di cavalleria. Il dittatore fu

      popolare sia per i discorsi pronunciati contro i patrizi, sia per aver

      fatto approvare tre leggi più che vantaggiose per la plebe ma contrarie

      alla nobiltà. La prima prevedeva che le deliberazioni della plebe

      vincolassero tutti i Quiriti. La seconda che i senatori ratificassero le

      proposte nei comizi centuriati prima che esse venissero sottoposte al

      voto. La terza che almeno uno dei censori fosse plebeo (siccome si era

      arrivati al punto da consentire che entrambi potessero essere plebei).

      Stando all'opinione dei patrizi, nel corso di quell'anno il danno subito

      in patria ad opera dei consoli e del dittatore era stato superiore

      all'incremento di potenza conseguito all'esterno grazie alla loro vittoria

      e alle loro imprese militari.

      

      13 L'anno successivo, durante il consolato di Lucio Furio Camillo e di

      Gaio Menio, i senatori, nell'intento di far ricadere su Emilio, console

      dell'anno precedente, la responsabilità della negligenza commessa,

      insistevano che si dovessero impiegare uomini, armi e ogni tipo di risorsa

      per espugnare e distruggere Pedo. E i nuovi consoli furono obbligati ad

      anteporre quella faccenda a qualsiasi altra questione e si misero in

      marcia. Nel Lazio la situazione era adesso giunta al punto che i suoi

      abitanti non riuscivano a tollerare né la pace né la guerra. Per la guerra

      non avevano i mezzi necessari, mentre spregiavano la pace per l'amarezza

      causata dalla confisca della terra. Sembrò opportuno accettare un

      compromesso, restando all'interno delle città fortificate per evitare di

      provocare i Romani e offrir loro il pretesto per aprire le ostilità: se

      fosse poi arrivata la notizia che qualche città era in stato di assedio,

      allora tutti i popoli dei dintorni avrebbero portato soccorso. Tuttavia

      gli abitanti di Pedo furono aiutati da pochissime città. I Tiburtini e i

      Prenestini, i cui territori erano vicini, raggiunsero Pedo. Gli Aricini, i

      Lanuvini e i Veliterni si stavano unendo ai Volsci di Anzio presso il

      fiume Astura quando vennero raggiunti e sconfitti dall'attacco improvviso

      di Menio. Camillo affrontò i Tiburtini, il cui esercito era il più forte,

      nei pressi di Pedo: anche se lo scontro fu ben più duro, l'esito risultò

      ugualmente positivo. Durante la battaglia creò grandissima confusione

      un'improvvisa sortita degli assediati. Ma Camillo, inviata parte

      dell'esercito ad affrontarli, non li costrinse soltanto a rientrare

      all'interno delle mura, ma avendoli sconfitti nel corso della medesima

      giornata insieme con i loro alleati, ne catturò la città con l'uso di

      scale. I consoli allora, grazie alle energie e al coraggio che infondeva

      la presa di una città, decisero di guidare l'esercito vittorioso a domare

      l'intero Lazio. E non si placarono fino a quando, dopo aver espugnato ogni

      singola città o averne accettato la resa, non ebbero ridotto tutto il

      Lazio in loro potere. Poi, distribuiti dei presidi armati nelle città

      riconquistate, partirono al-la volta di Roma, per godere del trionfo loro

      tributato all'unanimità. Al trionfo venne aggiunto un onore assai raro in

      quei tempi: nel foro furono collocate statue che li raffiguravano a

      cavallo.

      Prima che venissero eletti i consoli dell'anno successivo, Camillo,

      portando di fronte al senato la questione del trattamento da riservare ai

      popoli latini, si espresse in questi termini: «Senatori, l'intervento in

      armi nel Lazio si è ora concluso grazie al favore degli dèi e al valore

      dei soldati. Gli eserciti nemici sono stati fatti a pezzi a Pedo e lungo

      il fiume Astura. Tutte le città del Lazio e Anzio nel territorio dei

      Volsci sono state catturate con la forza o costrette alla resa e adesso

      sono sotto il controllo delle nostre guarnigioni armate. Ora resta da

      stabilire, visto che con le loro ribellioni sono per noi motivo di

      continua preoccupazione, in che modo sia possibile mantenerli tranquilli

      con una pace duratura. Gli dèi immortali vi hanno concesso un controllo

      così assoluto della situazione da lasciare nelle vostre mani il cómpito di

      decidere se da questo momento in poi il Lazio debba esistere o meno. Avete

      di conseguenza la possibilità di garantirvi la pace nel Lazio, sia con una

      crudele repressione sia ricorrendo al perdono. Volete essere spietati con

      quanti si sono arresi o sono stati sconfitti? Potete cancellare l'intera

      regione, trasformando in lande desolate le terre dove avete arruolato uno

      splendido esercito di alleati, del quale vi siete avvalsi in molte e

      delicate guerre. Volete seguire l'esempio dei vostri antenati e accrescere

      la potenza di Roma accogliendo i vinti tra i concittadini? Avete a portata

      di mano l'occasione propizia per ingrandirvi conquistando enorme gloria.

      Lo Stato di gran lunga più saldo è quello nel quale i sudditi obbediscono

      con gioia. Ma qualunque sia la soluzione che avete in animo di adottare,

      bisogna che lo facciate in fretta. State tenendo troppi popoli sospesi tra

      la paura e la speranza. E bisogna che liberiate quanto prima voi stessi

      dalle preoccupazioni nei loro confronti e ne predisponiate gli animi,

      finché sono assorti nell'attesa, alla punizione o al beneficio. Il nostro

      cómpito è stato quello di darvi il potere di decidere riguardo ogni

      questione: il vostro è invece quello di stabilire che cosa sia meglio per

      voi e per lo Stato».

      

      14 I membri più autorevoli del senato elogiarono l'intervento del console

      su una questione politica capitale, ma dissero che, siccome non tutti i

      Latini si trovavano nella stessa situazione, si sarebbe potuta prendere

      una decisione conforme ai meriti di ciascun popolo soltanto esaminando i

      singoli casi uno per uno. Vennero così passati in rassegna e valutati

      singolarmente. Ai Lanuvini venne concessa la cittadinanza e furono

      lasciati i culti religiosi, a condizione però che il tempio e il bosco di

      Giunone Salvatrice diventassero patrimonio comune degli abitanti di

      Lanuvio e del popolo romano. Ad Aricini, Nomentani e Pedani venne concessa

      la cittadinanza alle stesse condizioni dei Lanuvini. Ai Tuscolani fu

      permesso di mantenere gli stessi diritti civili goduti in passato, e

      l'accusa di aver riaperto le ostilità ricadde su pochi responsabili, senza

      coinvolgere lo Stato. Il trattamento riservato ai Veliterni, un tempo

      cittadini romani, fu severissimo per la loro recidività: non soltanto

      furono rase al suolo le mura della loro città, ma i membri del senato ne

      vennero allontanati e furono costretti a stabilirsi al di là del Tevere:

      chi fosse stato colto al di qua del fiume avrebbe dovuto pagare una multa

      fino a mille assi, e l'esecutore dell'arresto non avrebbe dovuto

      rilasciare il prigioniero prima della riscossione della taglia. Nelle

      terre dei senatori vennero inviati coloni, il cui arruolamento restituì a

      Velitra la popolosità di un tempo. Anche ad Anzio fu insediata una nuova

      colonia, dando per scontato che agli Anziati sarebbe stato concesso di

      iscriversi di persona se lo avessero voluto. Le loro navi da guerra

      vennero sequestrate, mentre al popolo di Anzio fu vietato il mare e

      concessa la cittadinanza. Tiburtini e Prenestini vennero invece privati

      del territorio, non soltanto per la recente accusa di ammutinamento

      insieme con altre genti latine, ma anche per il fatto che, stanchi del

      potere di Roma, si erano in passato alleati con i Galli, gente selvaggia.

      Agli altri popoli latini venne negato il diritto di esercitare mutui

      scambi commerciali, di contrarre matrimoni misti e di tenere delle

      assemblee comuni. Ai Campani, per il valore dei loro cavalieri che non

      avevano voluto ribellarsi assieme ai Latini, e agli abitanti di Fonda e di

      Formia, attraverso il cui territorio il passaggio era sempre stato sicuro

      e tranquillo, venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto. Agli

      abitanti di Cuma e di Suessula vennero concesse le stesse garanzie e le

      stesse condizioni riservate a Capua. Parte delle navi degli Anziati venne

      rimorchiata nei cantieri navali di Roma, parte fu invece data alle fiamme

      e si decise di utilizzarne i rostri per ornare una tribuna costruita nel

      foro, alla quale andò il nome di Rostri.

      15 Durante il consolato di Gaio Sulpicio Longo e di Publio Elio Peto,

      mentre tutti i popoli, più per la gratitudine guadagnata dai Romani con la

      generosità di comportamento che per la paura suscitata dalla loro potenza,

      non prendevano iniziative, scoppiò una guerra tra Sidicini e Aurunci. Gli

      Aurunci, arresisi durante il consolato di Tito Manlio, da allora non erano

      più stati motivo di preoccupazione, e proprio per questo avevano tutti i

      diritti di aspettarsi assistenza militare da parte dei Romani. Ma prima

      che i consoli avessero fatto uscire l'esercito da Roma - il senato aveva

      infatti dato disposizione di intervenire a fianco degli Aurunci - cominciò

      a circolare la voce che essi in preda al panico avevano abbandonato la

      loro città e si erano rifugiati con mogli e figli a Suessa - oggi detta

      Aurunca -, difendendosi con fortificazioni; la loro vecchia città e le

      antiche mura erano state distrutte dai Sidicini. Il senato, adirato per

      queste notizie con i consoli, le cui esitazioni avevano consegnato gli

      alleati nelle mani del nemico, ordinarono di nominare un dittatore. La

      scelta cadde su Gaio Claudio Regillense che scelse come maestro di

      cavalleria Gaio Claudio Ortatore. Poi emerse uno scrupolo religioso sulla

      validità della nomina del dittatore: siccome gli àuguri dichiararono che

      la nomina non sembrava regolare, il dittatore e il maestro di cavalleria

      rinunciarono alla carica.

      Quell'anno la vestale Minucia, sospettata in prima istanza per un

      abbigliamento non adeguato alla posizione occupata, e poi accusata di

      fronte ai pontefici in base alla testimonianza di un servo, venne

      costretta da un decreto pontificale ad astenersi dai riti sacri e a tenere

      sotto la sua potestà gli schiavi. Processata e condannata, fu sepolta viva

      nei pressi della porta Collina, a destra della strada lastricata nel campo

      Scellerato (il cui nome credo derivi dalla trasgressione al voto di

      castità perpetrata dalla vestale).

      In quello stesso anno Quinto Publilio Filone fu il primo plebeo a essere

      eletto pretore, non ostante il console Sulpicio si fosse opposto alla

      nomina dichiarando di non essere disposto a considerare valida

      quell'elezione. Ma il senato, non essendo riuscito a ostacolare l'accesso

      dei candidati plebei alle più alte cariche, si mostrò meno ostinato nel

      caso della pretura.

      

      16 L'anno successivo, durante il consolato di Lucio Papirio Crasso e

      Cesone Duilio, si segnala per una guerra non tanto importante quanto priva

      di precedenti, combattuta con gli Ausoni, un popolo che abitava la città

      di Cales. Essi avevano unito le proprie forze con quelle dei vicini

      Sidicini: ma siccome l'esercito delle due genti era stato sconfitto in

      un'unica battaglia tutt'altro che memorabile, a causa della vicinanza

      delle rispettive città fu tanto pronto alla fuga quanto sicuro risultò il

      rifugio trovato nella fuga stessa. Ciò non ostante i senatori non smisero

      di curarsi di quella guerra, tante erano state le volte nelle quali i

      Sidicini avevano scatenato autonomamente la guerra o erano scesi al fianco

      di quanti l'avevano iniziata o ancora erano stati motivo di intervento

      armato. Perciò fecero quanto era in loro potere perché Marco Valerio

      Corvo, il più grande comandante del tempo, raggiungesse per la quarta

      volta il consolato. A Corvo venne affiancato come collega Marco Atilio. E

      per evitare di incorrere in qualche errore della sorte, chiesero ai

      consoli di affidare la campagna a Corvo senza ricorrere al sorteggio. Dopo

      aver assunto il comando dell'esercito vittorioso lasciato dai consoli

      precedenti, partì alla volta di Cales dov'era scoppiata la guerra e, messi

      in fuga al primo assalto i nemici che non si erano ancora ripresi dallo

      scontro recente, si accinse ad attaccare le mura stesse della città. E per

      parte loro i soldati erano così animosi da desiderare di scalare

      immediatamente le mura: ripetevano di potercela fare. Ma Corvo, vedendo

      che si trattava di un'impresa ardua, preferì portare a compimento il suo

      piano facendo lavorare gli uomini piuttosto che mettendone in pericolo le

      vite. Perciò fece costruire un terrapieno e tettoie mobili e ordinò di

      avvicinare le torri al muro, anche se una circostanza fortunata ne rese

      inutile l'impiego. Infatti Marco Fabio, un prigioniero romano, sfruttando

      la negligenza delle guardie in un giorno di festa, si liberò dei ceppi e,

      con una fune che aveva legato a un bastione del muro, si lasciò calare

      lungo il muro stesso fino ai dispositivi d'assedio dei Romani e convinse

      il generale ad attaccare i nemici storditi dal vino e dai festeggiamenti.

      Gli Ausoni e la loro città vennero catturati con uno sforzo non certo

      superiore a quello impiegato per sconfiggerli in battaglia. Il bottino

      realizzato fu di notevoli proporzioni; lasciata a Cales una guarnigione

      armata, le legioni furono ricondotte a Roma. Il console per decreto del

      senato celebrò il trionfo, e, per far sì che anche Atilio avesse parte di

      gloria, a entrambi i consoli venne data disposizione di condurre

      l'esercito contro i Sidicini. Prima però - ricevuta disposizione in tal

      senso dal senato -, nominarono un dittatore incaricato di presiedere le

      elezioni: la loro scelta cadde su Lucio Emilio Mamercino, che nominò

      maestro di cavalleria Quinto Publilio Filone. Dalle votazioni presiedute

      dal dittatore risultarono eletti consoli Tito Veturio e Spurio Postumio. I

      due magistrati, pur rimanendo ancora da affrontare parte della guerra con

      i Sidicini, ciò non ostante, sperando di anticipare i desideri del popolo

      e di rendere un servizio ai plebei, presentarono la proposta di insediare

      una colonia a Cales. Il senato decise che per quell'iniziativa dovessero

      essere iscritti cinquemila uomini, ed elesse Cesone Duilio, Tito Quinzio e

      Marco Fabio triumviri col cómpito di fondare la colonia e di assegnare la

      terra.

      

      17 I nuovi consoli poi, preso in consegna l'esercito dai predecessori,

      invasero il territorio nemico e lo devastarono, arrivando fino alle mura

      della città. Lì, siccome i Sidicini avevano da soli raccolto un grande

      esercito ed era probabile che avrebbero combattuto fino all'ultimo sangue

      per difendere le loro ultime speranze, e siccome circolava la voce che i

      Sanniti stessero per prendere le armi, i consoli, su incarico del senato,

      nominarono dittatore Publio Cornelio Rufino e maestro di cavalleria Marco

      Antonio. Emerse però uno scrupolo religioso circa la regolarità della loro

      nomina e i due magistrati rinunciarono alla carica; e poiché seguì una

      pestilenza, come se tutti gli auspici fossero stati contagiati da quel

      vizio di forma, si passò a un interregno.

      Alla fine Marco Valerio Corvo, quinto interré dall'inizio dell'interregno,

      nominò consoli Aulo Cornelio (al secondo mandato) e Gneo Domizio. Mentre

      regnava dovunque la pace, la notizia di una guerra scatenata dai Galli

      portò lo scompiglio e indusse all'elezione di un dittatore. La scelta

      cadde su Marco Papirio Crasso; maestro di cavalleria fu nominato Publio

      Valerio Publicola. Mentre essi stavano realizzando la leva militare con

      maggiore fermezza di quanta non ne avrebbero impiegata per una guerra con

      un popolo confinante, i ricognitori inviati in zona tornarono riferendo

      che tra i Galli tutto era tranquillo. Anche il Sannio, già da due anni, si

      sospettava fosse percorso da nuove ondate di rivolta. Per questo

      l'esercito romano non venne richiamato dal territorio dei Sidicini. Ma

      un'altra guerra, scatenata dal re dell'Epiro Alessandro, deviò i Sanniti

      nel territorio dei Lucani. I due popoli si scontrarono in campo aperto con

      il re mentre questi stava risalendo da Paestum. La vittoria andò ad

      Alessandro, il quale stipulò un trattato con i Romani. È dubbio che

      l'avrebbe rispettato se il resto della sua campagna avesse avuto la stessa

      fortuna.

      Nel corso dello stesso anno si tenne il censimento, in cui figurarono

      anche i nuovi cittadini; il loro numero portò all'aggiunta di due nuove

      tribù, la Mecia e la Scapzia. I censori che le aggiunsero furono Quinto

      Publilio Filone e Spurio Postumio. Gli abitanti di Acerra divennero Romani

      a séguito di una proposta presentata dal pretore Lucio Papirio e volta a

      garantire loro la cittadinanza senza diritto di voto. Furono questi i

      fatti accaduti quell'anno a Roma e all'esterno.

      

      18 L'anno seguente fu terribile sia per l'inclemenza del tempo sia per le

      colpe commesse dagli uomini. Consoli erano M. Claudio Marcello e C.

      Valerio. Negli annali ho variamente trovato Flacco e Potito come

      soprannomi attribuiti a Valerio: quale sia la verità non è però molto

      importante. La notizia che vorrei sinceramente fosse falsa (e non tutti

      gli autori la riportano) è questa: che gli uomini la cui morte rese

      memorabile l'anno morirono non per la pestilenza, ma avvelenati. Ciò non

      ostante, siccome la notizia ci è stata tramandata, merita di essere

      riportata onde non togliere credibilità a qualche storico. Mentre i

      personaggi più in vista della città contraevano la medesima malattia e

      morivano quasi tutti nella stessa maniera, un'ancella si presentò

      all'edile curule Quinto Fabio Massimo dicendo che gli avrebbe rivelato la

      causa del contagio che affliggeva i cittadini se egli le avesse garantito

      che quella denuncia non le avrebbe arrecato danno. Fabio riferì

      immediatamente la cosa ai consoli i quali la riportarono al senato, e alla

      donna venne data la garanzia richiesta, con l'approvazione generale dei

      senatori. Allora l'ancella rivelò che la città era in preda all'epidemia

      per colpa di criminose pratiche femminili, e che i veleni erano opera di

      alcune matrone: se l'avessero seguita, sùbito, le avrebbero potute

      cogliere in flagrante. I senatori seguirono la delatrice e trovarono delle

      donne impegnate a cuocere filtri, e altre pozioni nascoste. Portato il

      materiale nel foro e convocate una ventina di matrone nelle cui case le

      pozioni erano state rinvenute, due di esse, Cornelia e Sergia - entrambe

      di nobile famiglia - sostennero che si trattava di farmaci salutari. Ma

      poiché la delatrice confutava le loro affermazioni, vennero costrette a

      bere i preparati in modo da dimostrare al cospetto di tutti che le accuse

      dell'ancella erano false. Presero tempo per consultarsi e, in disparte,

      riferirono la cosa alle altre donne; poiché anche queste non erano

      contrarie a ingerire le pozioni, bevvero tutte d'un fiato, al cospetto del

      popolo, e morirono per le loro stesse pratiche delittuose. Le loro

      ancelle, immediatamente arrestate, fecero i nomi di un gran numero di

      matrone, centosettanta delle quali vennero giudicate colpevoli. Prima di

      quel giorno non si erano mai tenuti a Roma processi per avvelenamento. La

      cosa fu ritenuta un prodigio e venne considerata il prodotto di menti

      folli più che criminali. E così, siccome negli annali veniva riportato che

      in passato, in occasione di secessioni della plebe, il dittatore aveva

      piantato un chiodo e che le menti degli uomini uscite di senno per la

      discordia erano tornate in sé grazie a quel rito di espiazione, si decise

      di nominare un dittatore per piantare il chiodo. La scelta cadde su Gneo

      Quintilio, il quale nominò maestro di cavalleria Lucio Valerio. Dopo aver

      piantato il chiodo, i due magistrati rinunciarono alla carica.

      

      19 Vennero eletti consoli Lucio Papirio Crasso (al suo secondo consolato)

      e Lucio Plauzio Venoce. All'inizio del-l'anno arrivarono a Roma degli

      ambasciatori dei Volsci di Fabrateria e dei Lucani per implorare la

      protezione di Roma. Promisero che, nel caso in cui fossero stati difesi

      dai Sanniti, sarebbero diventati leali e obbedienti sudditi del popolo

      romano. Il senato inviò allora una delegazione ai Sanniti per ammonirli di

      astenersi da incursioni nei territori di quei popoli. L'ambasceria

      raggiunse lo scopo, non tanto perché i Sanniti desiderassero la pace,

      quanto piuttosto perché non erano ancora pronti alla guerra.

      Quello stesso anno vide l'inizio della guerra con i Privernati, i cui

      alleati erano gli abitanti di Fonda e il cui comandante era, anch'egli, di

      Fonda. Si trattava di Vitruvio Vacco, uomo noto non solo in patria, ma

      anche a Roma, dove possedeva una casa sul Palatino, nel punto che, quando

      l'edificio venne abbattuto e il terreno confiscato, prese il nome di prati

      di Vacco. A contrastarlo nella sua devastazione dei territori di Sezia,

      Norba e Cora venne inviato Lucio Papirio, che si accampò non lontano

      dell'avversario. Vitruvio non aveva né la fermezza d'animo di rimanere al

      riparo della trincea di fronte a un nemico ben più forte, né il coraggio

      di combattere lontano dall'accampamento. Quasi tutto il suo contingente si

      trovava schierato di fronte all'ingresso dell'accampamento e i suoi

      soldati si stavano preoccupando più della fuga che della battaglia o del

      nemico, quando Vacco iniziò una battaglia disperata senza dimostrare né

      prudenza né audacia. Sconfitto con non troppa fatica e in maniera che non

      lasciava dubbi, poiché il suo accampamento era vicino e facilmente

      raggiungibile, riuscì agevolmente a evitare gravi perdite. Durante la

      battaglia non morì quasi nessuno; solo pochi della retroguardia in fuga

      persero la vita mentre stavano riversandosi nell'accampamento. Alle prime

      luci della sera raggiunsero Priverno con una marcia affannosa, per cercare

      nelle mura della città una protezione più sicura della trincea.

      Da Priverno l'altro console, Plauzio, saccheggiate le campagne dei

      dintorni e conquistato grande bottino, guidò l'esercito nel territorio di

      Fonda. Mentre ne stava varcando i limiti, gli andò incontro il senato di

      Fonda, i cui membri dissero di essere venuti a rivolgere una preghiera non

      a favore di Vitruvio e di quanti lo avevano seguito, ma del popolo di

      Fonda che Vitruvio stesso aveva dichiarato estraneo alla guerra quando si

      era rifugiato a Priverno invece che nella sua città natale. Perciò era a

      Priverno che bisognava cercare e punire i nemici del popolo romano, i

      quali si erano ribellati contemporaneamente ai Fondani e ai Romani,

      dimenticandosi dell'una e dell'altra patria. Gli abitanti di Fonda si

      mantenevano pacifici, avevano sentimenti di amicizia nei confronti dei

      Romani e dimostravano gratitudine per la cittadinanza ricevuta.

      Implorarono il console di astenersi dal fare guerra contro un popolo

      innocente: le campagne, la città, le loro stesse persone e quelle delle

      mogli e dei figli erano e sarebbero state sottomesse all'autorità di Roma.

      Il console, elogiati gli abitanti di Fonda e spedita a Roma una lettera

      con la quale annunciava che quella città si manteneva leale, si diresse

      verso Priverno. Claudio scrive che prima di partire il console fece

      giustiziare i capi della rivolta, inviando a Roma in catene

      trecentocinquanta di quelli che vi avevano preso parte. Ma il senato non

      avrebbe accettato la resa, convinto che il popolo di Fonda volesse

      liberarsi di ogni responsabilità facendo ricadere la punizione sui

      cittadini poveri e di bassa estrazione.

      

      20 Mentre Priverno era assediata dai due eserciti consolari, l'altro

      console venne richiamato a Roma per presiedere le elezioni. In quell'anno

      vennero allestiti per la prima volta dei recinti per i cavalli nel circo.

      Le preoccupazioni per la guerra contro Priverno non si erano ancora

      esaurite, quando arrivò la grave notizia di una sollevazione dei Galli: un

      annunzio che quasi mai veniva trascurato dai senatori. E così i due nuovi

      consoli Lucio Emilio Mamercino e Gaio Plauzio, lo stesso giorno in cui

      erano entrati in carica (le calende di luglio), ricevettero disposizione

      di dividere tra loro le missioni: a Mamercino, cui era toccata la campagna

      contro i Galli, fu ordinato di tenere la leva militare senza concedere

      alcun tipo di esenzione. Anzi, si racconta che vennero chiamati in massa

      anche gli operai e gli artigiani sedentari, gente per nulla adatta al

      servizio militare. A Veio venne concentrato un enorme esercito, per

      muovere di lì contro i Galli. Si decise però di non spingersi oltre, per

      timore che il nemico ingannasse tutti dirigendosi a Roma per un'altra via.

      E così, siccome dopo pochi giorni fu abbastanza evidente che i Galli

      restavano per ora tranquilli, tutta la forza venne concentrata su

Priverno.

      Da questo momento in poi si ha una duplice versione dei fatti: alcuni

      storici sostengono che la città venne presa con la forza e che Vitruvio fu

      catturato vivo; altri invece che, prima dell'assalto finale, il popolo

      stesso uscì dalle mura e recando il ramoscello della pace si arrese nelle

      mani del console, consegnando Vitruvio. Il senato, consultato in merito al

      destino di Vitruvio e dei Privernati, ordinò al console Plauzio di radere

      al suolo le mura di Priverno, di lasciarvi una robusta guarnigione e di

      tornare a Roma in trionfo. Quanto a Vitruvio avrebbe dovuto rimanere in

      carcere fino al ritorno del console, e quindi essere fustigato a morte. Fu

      disposto che la sua casa sul Palatino venisse rasa al suolo, mentre i suoi

      beni vennero consacrati a Semone Sango. Col denaro ricavato dalla loro

      vendita vennero forgiati anelli di bronzo che furono collocati nel

      santuario di Semone, di fronte al tempio di Quirino. Quanto al senato di

      Priverno, fu deciso che tutti i senatori rimasti in città dopo la

      defezione da Roma avrebbero dovuto stabilirsi al di là del Tevere, alle

      stesse condizioni riservate ai Veliterni. Prese queste decisioni, fino al

      momento del trionfo di Plauzio non si parlò più dei Privernati. Dopo il

      trionfo il console fece uccidere Vitruvio e i suoi complici; pensando che

      di fronte a uomini ormai saziati dalle pene toccate ai responsabili di

      quel crimine si potesse affrontare serenamente la questione dei

      Privernati, parlò in questi termini: «Visto che i responsabili della

      defezione hanno avuto giuste pene tanto dagli dèi immortali quanto da voi,

      senatori, che cosa avete intenzione di fare circa la massa incolpevole?

      Quanto a me, anche se mi spetta più chiedere che non dare pareri,

      tuttavia, vedendo che i Privernati sono vicini ai Sanniti con i quali i

      nostri rapporti di pace sono attualmente precari, vorrei che tra noi e

      loro restassero meno motivi di risentimento possibile».

      

      21 Non ostante la questione fosse già di per sé incerta e ciascuno

      suggerisse, a seconda della propria indole, un comportamento più o meno

      severo, tutto venne ulteriormente complicato da un membro della

      delegazione privernate, il quale, preoccupato più della condizione nella

      quale era nato che non della gravità del frangente, essendogli stato

      chiesto da un sostenitore di misure ben più severe quale fosse a sua detta

      la giusta pena per i Privernati, disse: «Quella che meritano quanti si

      ritengono degni di essere liberi». Il console, vedendo che questa risposta

      altezzosa aveva accresciuto l'ostilità di chi era già contrario alla causa

      dei Privernati, sperando di ottenere una risposta meno dura con una

      domanda più benevola, chiese: «Se vi condoniamo la pena, che tipo di pace

      possiamo sperare da voi?». La risposta fu: «Leale e duratura, se quella

      che ci proporrete voi sarà buona; ma di breve durata, se cattiva». Fu

      allora che qualcuno gridò che i Privernati stavano apertamente minacciando

      i Romani e che quelle parole erano per i popoli in pace un'istigazione

      alla rivolta. Ma la parte più moderata del senato dava un senso migliore a

      quelle parole e sosteneva che si era ascoltata la voce di un uomo libero:

      era mai possibile credere che un popolo o un uomo sarebbero rimasti più a

      lungo del dovuto in una condizione intollerabile? Una pace sicura si aveva

      là dove era stata volontariamente accettata, e non si poteva sperare che

      ci fosse lealtà là dove si cercava di imporre la schiavitù.

      Fu soprattutto il console a orientare verso questa opinione, dicendo agli

      ex consoli, cui toccava per primi esprimere il proprio parere, con voce

      abbastanza alta da farsi sentire anche dagli altri, che solo quanti non

      pensavano ad altro che alla libertà erano degni di diventare romani. Così

      i Privernati vinsero la loro causa in senato e su proposta del senato

      venne presentata al popolo una proposta di legge per conferire loro la

      cittadinanza romana.

      Quello stesso anno vennero inviati trecento coloni ad Anxur e a ciascuno

      di essi andarono due iugeri di terra.

      

      22 L'anno seguente, quando erano consoli Publio Plauzio Proculo e Publio

      Cornelio Scapula, non si segnalò per alcun episodio di natura militare o

      civile, salvo il fatto che fu inviata una colonia a Fregelle (in una zona

      appartenuta agli abitanti di Signia e poi passata ai Volsci) e che Marco

      Flavio, durante il funerale della madre, distribuì gratuitamente della

      carne al popolo. Alcuni pensarono che, con il pretesto di onorare la

      madre, Flavio avesse pagato una ricompensa dovuta al popolo che lo aveva

      assolto quando, citato in giudizio dagli edili, era stato accusato di aver

      violato una madre di famiglia. La distribuzione gratuita di carne offerta

      come ringraziamento per quella sentenza fu per lui anche motivo di onore.

      E nelle successive elezioni, pur assente, venne preferito come tribuno

      della plebe a quelli che avevano presentato la candidatura.

      Non lontano dal punto in cui oggi si trova Napoli sorgeva una città di

      nome Paleopoli; i due centri erano abitati da uno stesso popolo. Si

      trattava di oriundi di Cuma; i Cumani traggono origine da Calcide in

      Eubea. Grazie alla flotta con la quale erano arrivati dalla loro terra,

      divennero molto potenti lungo la costa del mare dove ora vivono. In un

      primo tempo sbarcarono a Ischia e nelle Pitecuse, poi si avventurarono a

      trasferire la loro sede sulla terraferma. La popolazione di Paleopoli,

      contando sia sulle proprie forze sia sulla slealtà dimostrata dai Sanniti

      nei confronti degli alleati Romani, o forse confidando nel-l'epidemia che,

      secondo le notizie, aveva assalito Roma, commise numerosi atti ostili nei

      confronti dei Romani residenti nell'agro Campano e Falerno. Così, durante

      il consolato di Lucio Cornelio Lentulo e Quinto Publilio Filone (eletto

      per la seconda volta), vennero inviati a Paleopoli i feziali per chiedere

      soddisfazione. Al ritorno i feziali riferirono di una risposta durissima

      da parte dei Greci (gente più valida a parole che a fatti): perciò, su

      proposta dei senatori, il popolo dichiarò guerra ai Paleopolitani. I

      consoli si divisero gli incarichi e la guerra contro i Greci toccò a

      Publilio. Cornelio, con un altro esercito, ricevette disposizione di

      andare a fronteggiare i Sanniti, nel caso in cui avessero preso qualche

      iniziativa militare. Ma poiché correva voce che essi si sarebbero messi in

      movimento in concomitanza con l'attesa defezione dei Campani, Cornelio

      ritenne che la cosa migliore da farsi fosse di accamparsi stabilmente in

      zona.

      

      23 Entrambi i consoli informarono il senato che c'erano pochissime

      speranze di pace con i Sanniti. Publilio riferì che Paleopoli aveva

      ricevuto duemila soldati nolani e quattromila sanniti, più per pressione

      degli abitanti di Nola che per volontà dei Greci. Cornelio riferì invece

      che i magistrati sanniti avevano bandito una leva militare, che tutto il

      Sannio era in fermento e che i popoli dei dintorni, Privernati, Fondani e

      Formiani, erano apertamente invitati ad associarsi all'impresa. Per queste

      ragioni si decise di inviare degli ambasciatori ai Sanniti prima di

      dichiarare guerra, ma dai Sanniti arrivò una risposta arrogante.

      Accusavano a loro volta i Romani di non essersi comportati correttamente e

      si giustificavano con egual vigore delle accuse loro rivolte: dissero di

      non aver fornito ai Greci alcun aiuto né collaborazione ufficiale, e di

      non aver spinto all'ammutinamento gli abitanti di Formia e di Fonda.

      Perciò avevano piena fiducia nelle proprie forze, in caso si fosse deciso

      per la guerra. D'altra parte non era loro possibile nascondere il fastidio

      del popolo sannita al vedere che la città di Fregelle, da essi tolta ai

      Volsci e rasa al suolo, era stata rimessa in piedi dal popolo romano e che

      in territorio sannita era stata fondata una colonia chiamata Fregelle dai

      coloni romani: era un sanguinoso affronto, e, se i suoi autori non vi

      avessero posto rimedio, i Sanniti sarebbero ricorsi a ogni mezzo per

      cancellarlo. Quando l'inviato romano propose di discutere la questione

      insieme con gli alleati comuni e gli amici, la risposta fu: «Perché agire

      in maniera tanto tortuosa? Le nostre controversie, Romani, le decideranno

      non tanto le parole degli ambasciatori o l'arbitrio di qualche giudice,

      quanto la pianura campana, dove è destino che si scenda in battaglia:

      decideranno le armi e la comune fortuna in guerra. Accampiamoci dunque

      faccia a faccia tra Capua e Suessula e stabiliamo se debbano governare

      l'Italia i Sanniti o i Romani». Gli ambasciatori romani risposero che

      sarebbero andati non dove il nemico li avesse convocati, ma dove li avesse

      guidati il loro comandante...

      Publilio, occupata una posizione favorevole tra Paleopoli e Napoli, aveva

      già privato il nemico di quella reciproca assistenza di cui i diversi

      popoli avversari si erano serviti non appena le varie postazioni venivano

      messe sotto pressione. Così, dato che il giorno delle elezioni era ormai

      prossimo e non sarebbe stato un vantaggio per il paese richiamare

      Publilio, che stava già minacciando le mura nemiche e contava di far

      cadere la città a giorni, il senato indusse i tribuni a presentare al

      popolo una proposta in base alla quale Quinto Publilio Filone, allo

      scadere del mandato, potesse continuare a gestire la campagna militare in

      qualità di proconsole fino a quando i Greci non fossero stati

      definitivamente sconfitti.

      Poiché neppure Lucio Cornelio, che era già entrato nel Sannio, secondo il

      senato doveva essere richiamato dalla sua vigorosa offensiva, gli venne

      inviato l'ordine di nominare un dittatore per presiedere le elezioni. Egli

      scelse Marco Claudio Marcello, che nominò maestro di cavalleria Spurio

      Postumio. Tuttavia le elezioni non furono tenute dal dittatore, perché

      venne messa in questione la regolarità della sua nomina. Gli àuguri

      consultati dichiararono che essa sembrava formalmente viziata. I tribuni,

      con le loro accuse, gettarono il sospetto e l'infamia su questo verdetto.

      Dicevano infatti che l'irregolarità non poteva esser venuta facilmente

      alla luce, visto che il console nominava il dittatore alzandosi in

      silenzio nel cuore della notte; che il console non aveva scritto a nessuno

      - né in forma privata né in forma pubblica - circa quella procedura; che

      non vi era alcun mortale in grado di aver visto o udito qualcosa che

      potesse aver invalidato gli auspici e che gli àuguri non avevano potuto,

      stando a Roma, divinare in quale irregolarità fosse incorso il console

      nell'accampamento. A chi non era chiaro che l'irregolarità rilevata dagli

      àuguri era in definitiva l'origine plebea del dittatore? Furono queste, e

      altre simili, le obiezioni vanamente presentate dai tribuni. Alla fine si

      passò a un interregno, e dopo continui rinvii delle elezioni ottenuti con

      sempre nuovi pretesti, finalmente il quattordicesimo interré, Lucio

      Emilio, nominò consoli Gaio Petilio e Lucio Papirio Mugillano. In altri

      annali ho trovato per quest'ultimo il soprannome di Cursore.

      

      24 Si tramanda che in quello stesso anno venne fondata in Egitto la città

      di Alessandria e che il re dell'Epiro Alessandro, assassinato da un esule

      lucano, con la sua fine confermò un oracolo di Giove a Dodona. Essendo

      stato chiamato in Italia dai Tarentini, l'oracolo lo aveva avvertito di

      guardarsi dall'acqua Acherusia e dalla città di Pandosia, perché lì il

      destino aveva fissato per lui il termine della vita. Perciò era passato

      rapidamente in Italia, in modo tale da trovarsi quanto più lontano

      possibile dalla città di Pandosia e dal fiume Acheronte, che, scendendo

      dalla Molosside negli stagni Infernali, sfociava nel golfo di Tesprotide.

      Ma, come sovente succede, l'uomo cercando di evitare il proprio destino

      finisce per coglierlo in pieno: dopo aver ripetutamente sconfitto le

      legioni dei Bruzzi e dei Lucani, Alessandro strappò ai Lucani la colonia

      tarentina di Eraclea, conquistò Siponto degli Apuli, Cosenza e Terina dei

      Bruzzi e ancora altre città dei Messapi e dei Lucani, e inviò in Epiro

      trecento illustri famiglie da tenere in ostaggio. Dopo tutto questo, si

      accampò non lontano dalla città di Pandosia (che si trovava presso i

      confini con la Lucania e il Bruzzio), su tre colline poste a breve

      distanza le une dalle altre, dalle quali era possibile effettuare

      incursioni in ogni punto del territorio nemico. Aveva intorno a sé circa

      duecento esuli lucani che egli considerava affidabili, ma che, com'è in

      genere l'attitudine di quel popolo, erano pronti a cambiare fede col

      cambiare della fortuna.

      Siccome le piogge incessanti avevano inondato tutte le campagne e diviso

      in tre tronconi l'esercito, togliendo la possibilità dell'assistenza

      reciproca, le due guarnigioni dove non c'era il re furono sopraffatte da

      un improvviso attacco dei nemici. Questi, dopo averle fatte a pezzi, si

      concentrarono esclusivamente sull'assedio della guarnigione in cui era

      Alessandro. Gli esuli lucani inviarono messaggeri ai loro conterranei,

      promettendo che, se avessero ottenuto la garanzia di poter rientrare

      incolumi, avrebbero consegnato nelle loro mani il re, vivo o morto. Ma

      Alessandro stesso, con un gesto audace e valoroso, si aprì la strada tra i

      nemici con un plotone di uomini scelti e uccise il comandante dei Lucani

      in duello. Quindi, raccolti i suoi che si erano dispersi nel corso della

      fuga, arrivò a un fiume, dove le recenti rovine di un ponte, spazzato via

      dalla violenza delle acque, indicavano la strada da seguire. Mentre i suoi

      uomini stavano attraversando il fiume in un guado malsicuro, un soldato

      spossato dalla fatica e dalla paura, maledicendo il sinistro nome del

      fiume, gridò: «A ragione ti chiamano Acheronte!». Non appena il re udì

      questa frase, sùbito ricordò il suo destino e si fermò, incerto se

      affrontare il guado o meno. Allora Sotimo, uno dei giovani nobili al suo

      séguito, chiedendogli perché indugiasse in un momento di così grande

      pericolo, gli indicò i Lucani che stavano cercando di tendergli un

      agguato. Quando il re li vide sopraggiungere a breve distanza in gruppo

      compatto, sguainò la spada e spinse il cavallo nel mezzo della corrente.

      Era già quasi arrivato sulla terraferma quando un esule lucano lo trafisse

      con un giavellotto. Alessandro crollò a terra con il giavellotto

      conficcato nel corpo esanime e la corrente lo trascinò in mezzo ai posti

      di guardia dei nemici, dove fu orrendamente mutilato. Dopo averlo tagliato

      a metà, ne mandarono una parte a Cosenza e tennero l'altra per ludibrio.

      Mentre la utilizzavano come bersaglio lanciando da lontano pietre e

      giavellotti, una donna da sola, mescolatasi alla folla che stava

      infierendo oltre il limite di ogni rabbia umana, li pregò di fermarsi per

      un attimo e in preda alle lacrime disse che suo marito e i suoi figli

      erano prigionieri in mano del nemico, e che col corpo del re, benché

      sconciato, sperava di poterli riscattare. Questo pose fine alle

      mutilazioni. Ciò che restava del cadavere venne sepolto a Cosenza:

      soltanto quella donna se ne curò. Le ossa vennero inviate al nemico a

      Metaponto, e di lì furono trasportate via mare in Epiro alla moglie

      Cleopatra e alla sorella Olimpiade, rispettivamente madre e sorella di

      Alessandro Magno. Questa fu la triste fine di Alessandro dell'Epiro. Basti

      averne riferito in breve: pur avendogli la sorte impedito di scontrarsi

      con i Romani, egli combatté delle guerre in Italia.

      

      25 Lo stesso anno venne celebrato a Roma un lettisternio - il quinto dalla

      fondazione della città -, per propiziare il favore degli stessi dèi

      invocati nelle precedenti occasioni. Poi i nuovi consoli, su ordine del

      popolo, inviarono i feziali a dichiarare guerra ai Sanniti; questi ultimi

      non solo stavano compiendo i preparativi per il conflitto con un impegno

      ben più massiccio di quanto non ne avessero profuso nella campagna contro

      i Greci, ma ricevettero anche nuovi rinforzi da una parte cui in quel

      momento i Romani non avevano affatto pensato. Lucani ed Apuli, genti che

      fino a quel momento non avevano avuto nulla a che vedere con il popolo

      romano, si misero sotto la loro protezione, promettendo armi e uomini per

      la guerra. Di conseguenza venne loro concesso un trattato di alleanza.

      Nello stesso periodo i Romani condussero una fortunata campagna nel

      Sannio. Tre città, Allife, Callife e Rufrio, caddero in loro potere,

      mentre il resto del territorio venne saccheggiato in lungo e in largo non

      appena arrivarono i consoli.

      Portata a compimento così felicemente questa guerra, anche l'altra,

      l'assedio contro i Greci, era ormai quasi alla fine. Infatti non solo una

      parte dei nemici aveva perso ogni collegamento con l'altra a causa delle

      opere di fortificazione costruite in mezzo dai Romani, ma all'interno

      delle loro stesse mura stavano succedendo cose ben più preoccupanti delle

      minacce degli avversari: quasi prigionieri dei loro alleati, dovevano

      ormai sottostare agli oltraggi rivolti anche contro i figli e le mogli, e

      soffrire tutti gli orrori delle città conquistate. E così, quando arrivò

      la voce che da Taranto e dai Sanniti sarebbero arrivati nuovi rinforzi,

      pensavano di avere all'interno delle mura più Sanniti di quanti non ne

      volessero. In quanto Greci, invece, non vedevano l'ora che arrivassero i

      giovani greci di Taranto, con il cui apporto avrebbero potuto resistere

      non tanto ai Sanniti e ai Nolani quanto ai nemici romani. Ma alla fine

      sembrò che la resa ai Romani fosse il male minore. Carilao e Ninfio, i

      personaggi più in vista della città, dopo essersi consultati tra di loro,

      si divisero le parti per mettere in pratica il piano convenuto: uno di

      essi si sarebbe recato dal comandante romano, l'altro si sarebbe fermato a

      predisporre la città all'esecuzione del piano. Fu Carilao che si presentò

      a Publilio Filone e, pregando che la cosa portasse vantaggio e prosperità

      a Paleopoli e al popolo romano, annunciò di aver deciso di consegnare le

      mura della città. Sarebbe poi dipeso dal senso di lealtà dei Romani se, a

      fatti compiuti, egli sarebbe apparso il traditore o il salvatore della

      città. Quanto a sé come privato cittadino, egli non patteggiava né

      chiedeva alcunché. A nome della sua gente chiedeva - più che patteggiare -

      che, qualora l'impresa fosse andata a buon fine, il popolo romano

      considerasse con quanto sforzo e a prezzo di quali rischi gli assediati

      fossero tornati in amicizia con Roma, piuttosto che ricordare quale follia

      e quale temerarietà li avesse distolti dal proprio dovere. Ricevute le

      congratulazioni del comandante, ottenne tremila uomini per riconquistare

      la parte di città presidiata dai Sanniti. A capo del contingente armato

      venne posto il tribuno militare Lucio Quinzio.

      

      26 Nel contempo Ninfio, per parte sua, aveva raggirato il comandante del

      presidio sannita, portandolo a concedergli, poiché l'intero esercito

      romano si trovava o intorno a Paleopoli o nel Sannio, di arrivare per via

      di mare in territorio romano e di devastare non solo la costa ma anche i

      dintorni stessi di Roma. Ma per evitare di essere scoperti, era necessario

      salpare in piena notte e mettere sùbito le navi in mare. Perché la cosa

      potesse essere attuata il più velocemente possibile, tutti i soldati

      sanniti, eccetto quei pochi necessari per fare da presidio armato alla

      città, vennero inviati sulla spiaggia. Mentre Ninfio, nel buio della

      notte, faceva scorrere il tempo impartendo ad arte ordini contraddittori

      per confondere una gran massa di armati già impacciata dalla sua stessa

      mole, Carilao, introdotto in città dai compagni secondo l'accordo

      prestabilito, occupata con i soldati romani la parte più alta della città,

      diede loro ordine di levare un grido: udendolo, i Greci obbedirono al

      segnale ricevuto e rimasero fermi, mentre i Nolani fuggirono dalla parte

      opposta della città per la strada che porta a Nola. I Sanniti, tagliati

      fuori dalla città, se da una parte ebbero sul momento dei vantaggi nella

      fuga, dall'altra essa sembrò loro ben più umiliante, quando si trovarono

      fuori pericolo. Disarmati com'erano, avendo lasciato tutto in mano al

      nemico, tornarono in patria spogliati e privi di ogni cosa, dileggiati non

      solo dagli stranieri ma anche dai loro concittadini. Pur non essendo

      all'oscuro dell'altra versione dei fatti che attribuisce la presa della

      città al tradimento compiuto dai Sanniti, non mi sono soltanto limitato a

      seguire gli autori più affidabili: è anche il trattato stipulato con

      Napoli - lì infatti i Greci trasferirono il loro quartier generale - a

      rendere più verosimile il fatto che essi siano spontaneamente tornati a un

      rapporto di amicizia. A Publilio venne decretato il trionfo perché vi

      erano sufficienti ragioni per credere che i nemici si fossero arresi a

      séguito dell'assedio. A lui toccarono per la prima volta due onori

      singolari: la proroga del comando, fino ad allora mai concessa ad alcuno,

      e un trionfo celebrato dopo la scadenza del mandato.

      

      27 Sùbito dopo scoppiò un'altra guerra con i Greci della costa orientale.

      Infatti i Tarentini, dopo aver per qualche tempo sostenuto la causa dei

      Paleopolitani con vane speranze di aiuto, quando vennero a sapere che i

      Romani si erano impossessati della città, quasi non avessero essi stessi

      abbandonato i Paleopolitani ma fossero stati abbandonati, inveirono contro

      questi ultimi, spinti da rabbia e invidia verso i Romani, specialmente

      quando arrivò la notizia che Lucani e Apuli si erano messi sotto la

      protezione del popolo romano (e infatti quell'anno era stata stipulata

      un'alleanza con l'uno e l'altro popolo). Sostenevano che i Romani erano

      ormai giunti quasi a Taranto e che presto essi si sarebbero trovati nella

      condizione di avere i Romani o come nemici o come padroni. Era chiaro che

      la loro sorte dipendeva dall'esito della guerra coi Sanniti: questo era

      l'unico popolo che continuava a resistere, e non era sufficientemente

      forte per i Romani, vista la defezione dei Lucani. Ma questi ultimi li si

      poteva ancora far recedere dalla loro decisione e indurli a ripudiare

      l'allenza coi Romani, qualora si fosse fatto ricorso a un po' di astuzia

      nel seminare discordie.

      Siccome queste tesi ebbero la meglio presso quanti miravano a rivolgimenti

      politici, vennero corrotti alcuni giovani lucani (famosi tra i propri

      concittadini più di quanto non fossero onesti): questi, dopo essersi

      colpiti a vicenda con dei bastoni, si presentarono nudi in pubblico

      gridando di essere stati fustigati per ordine dei consoli e di aver

      rischiato l'esecuzione solo per aver osato entrare nell'accampamento

      romano. Siccome quello spettacolo, effettivamente raccapricciante, dava

      l'impressione di essere più un atto di violenza che un inganno, la folla

      eccitata costrinse i magistrati a convocare il senato. Alcuni chiedevano a

      gran voce la guerra contro i Romani, altri invece si sparpagliarono da una

      parte e dall'altra per spingere le masse rurali a prendere le armi; e dato

      che quel clima di agitazione aveva fatto perdere la testa anche ai più

      assennati, fu votato di rinnovare l'alleanza con i Sanniti, inviando

      ambasciatori per mettere in atto la deliberazione. Ma siccome l'iniziativa

      non aveva ragioni plausibili e non dava garanzie, i Tarentini, costretti

      dai Sanniti a consegnare ostaggi e ad accettare guarnigioni armate

      all'interno delle loro piazzeforti, accecati com'erano dal raggiro e dalla

      rabbia accettarono tutte le condizioni. Poco dopo, ritiratisi a Taranto

      gli autori delle false accuse, l'inganno cominciò a venire alla luce. Ma

      avendo ormai perso ogni libertà d'azione, non restava loro altro che

      pentirsi invano.

      

      28 Quell'anno fu per la plebe romana quasi l'inizio di una nuova libertà,

      perché si cessò di imprigionare la gente per debiti. Il cambiamento fu

      dovuto alla smodata bramosia e insieme alla crudeltà di un unico usuraio,

      Lucio Papirio, cui si era dato in schiavitù Gaio Publilio a causa di un

      debito contratto dal padre. L'età e la bellezza del giovane, qualità che

      avrebbero potuto suscitare la misericordia del creditore, lo infiammarono

      alla libidine e all'oltraggio. E considerando il fiore della sua

      giovinezza come un ulteriore compenso al credito, sulle prime tentò di

      adescare il ragazzo con proposte oscene. Poi, dato che il giovane

      rifiutava di prestare orecchio all'infame profferta, prese a intimidirlo

      con minacce e a ricordargli ripetutamente la sua condizione. Alla fine,

      quando si rese conto che il ragazzo dava maggiore importanza alla sua

      libera origine che allo stato presente, ordinò di denudarlo e di farlo

      fustigare. Quando il giovane, straziato dai colpi, corse fuori tra la

      gente lamentandosi a gran voce della libidine e della crudeltà del

      creditore, si raccolse una massa di persone che, non solo presa da

      compassione per la sua giovane età e indignata per l'affronto

      riservatogli, ma anche considerando la condizione propria e dei propri

      figli, si riversò nel foro e di lì, in formazione compatta, si diresse

      verso la curia. E visto che i consoli furono obbligati dall'improvviso

      tumulto a convocare il senato, mentre i senatori entravano nella curia, la

      gente si inginocchiò davanti a ciascuno di essi, indicando la schiena

      martoriata del giovane. Quel giorno, per la tracotanza offensiva di un

      solo uomo venne infranto un potente vincolo, e ai consoli venne dato

      ordine di presentare di fronte al popolo la proposta che nessuno potesse

      più essere tenuto in ceppi o incarcerato, fatta eccezione per quanti

      avessero commesso qualche delitto, fino alla completa espiazione della

      pena; e che i beni soltanto, e non la persona del debitore, potessero

      essere presi come garanzia della somma dovuta. Così i prigionieri per

      debiti vennero liberati e per i giorni a venire furono vietate le

      carcerazioni per debiti.

      

      29 Quello stesso anno, mentre la guerra coi Sanniti e l'improvvisa

      defezione dei Lucani insieme con i loro sobillatori, i Tarentini, erano

      già motivi di sufficiente preoccupazione per i senatori, si aggiunse

      l'accordo del popolo dei Vestini con i Sanniti. Questa iniziativa fu

      quell'anno argomento più dei discorsi della gente che delle pubbliche

      assemblee. E così i consoli dell'anno successivo, Lucio Furio Camillo (per

      la seconda volta) e Giunio Bruto Sceva, ritennero che la questione fosse

      più importante e urgente di qualunque altra e la misero all'ordine del

      giorno di fronte al senato. E sebbene il fatto non fosse una novità,

      tuttavia ingenerò nei senatori uno stato di ansia tale che essi avevano

      paura sia di occuparsene sia di trascurarlo: lasciando infatti impuniti i

      Vestini, si sarebbe corso il rischio che i popoli dei dintorni si

      sollevassero con arroganza; con una guerra punitiva, invece, il rischio

      era che la paura di un pericolo imminente e il risentimento li spingessero

      ad agire. E in più, quella gente aveva nel complesso forze pari a quelle

      dei Sanniti, comprendendo Marsi, Peligni e Marrucini: se si fossero

      toccati i Vestini, erano da considerare tutti nemici. Ebbe tuttavia la

      meglio l'opinione che al momento poteva dar l'impressione di essere più

      audace che assennata. Ma gli sviluppi dimostrarono che la fortuna sta

      dalla parte dei coraggiosi. Il popolo, autorizzato dal senato, votò la

      dichiarazione di guerra ai Vestini. Questa campagna toccò in sorte a

      Bruto, mentre a Camillo andò quella contro i Sanniti. Gli eserciti vennero

      condotti sull'uno e l'altro fronte e i nemici, dovendo proteggere i propri

      confini, vennero messi nell'impossibilità di unire le forze. Ma uno dei

      consoli, Lucio Furio, sulle cui spalle gravava il peso maggiore, venne

      disgraziatamente colpito da una grave malattia e fu costretto ad

      abbandonare il comando. Avendo ricevuto disposizione di nominare un

      dittatore per proseguire la guerra, egli scelse il militare di gran lunga

      più rinomato del periodo, cioè Lucio Papirio, il quale nominò maestro di

      cavalleria Quinto Fabio Massimo Rulliano: coppia famosa per quanto avevano

      compiuto insieme in quel campo, essi divennero ancora più famosi per la

      discordia che li spinse a un contrasto quasi all'ultimo sangue.

      L'altro console condusse nella terra dei Vestini una guerra dai diversi

      aspetti, ma dall'esito sempre favorevole. Devastò infatti le campagne dei

      nemici e, saccheggiandone e incendiandone case e raccolti, li costrinse a

      combattere in campo aperto contro la loro volontà. Così, in una sola

      battaglia, pur subendo anch'egli perdite rovinose, costrinse le forze dei

      Vestini in una situazione tale che non solo essi si rifugiarono

      nell'accampamento, ma, non ritenendosi più al sicuro dietro il parapetto e

      le trincee, si riversarono all'interno delle loro città fortificate,

      sperando di trovare riparo nella posizione naturale e nelle mura. Ma alla

      fine, deciso a espugnare anche le città con il ricorso alla forza, il

      console, in virtù dello straordinario coraggio dei suoi uomini,

      determinati a vendicarsi delle ferite subite (quasi nessuno era uscito

      illeso dalla battaglia), espugnò prima Cutina con l'uso di scale e poi

      Cingilia. Il bottino fatto in entrambe le città fu concesso ai soldati,

      che né le porte né le mura nemiche erano riuscite a fermare.

      

      30 La spedizione nel Sannio fu accompagnata da auspici incerti: la loro

      irregolarità non influì sull'esito finale della guerra (che fu condotta in

      maniera positiva), ma sull'animosità e sulla follia dei comandanti in

      capo. Il dittatore Papirio, infatti, messo in guardia dal custode dei

      polli sacri mentre stava partendo alla volta di Roma per rinnovare gli

      auspici, intimò al maestro di cavalleria di mantenersi sulle proprie

      posizioni e di non scontrarsi col nemico durante la sua assenza. Ma Quinto

      Fabio, quando - dopo la partenza del dittatore - venne a sapere dai suoi

      ricognitori che il nemico aveva completamente trascurato ogni tipo di

      vigilanza, come se non ci fosse stato nemmeno un Romano nel Sannio, sia

      perché, essendo un giovane impetuoso, era indignato all'idea che tutto il

      potere apparisse riposto nel dittatore, sia perché tentato

      dall'opportunità di assestare un colpo vincente, dopo aver fatto preparare

      l'esercito e averlo schierato in assetto di battaglia, partì alla volta di

      una località chiamata Imbrinio, dove si scontrò con i Sanniti. Quella

      battaglia ebbe un esito così favorevole che le cose non sarebbero potute

      in nessun modo andar meglio, anche se il dittatore fosse stato presente.

      Il comandante fu all'altezza dei soldati e i soldati del comandante. Anche

      i cavalieri, su suggerimento del tribuno dei soldati Lucio Cominio, dopo

      aver caricato alcune volte senza riuscire a fare breccia tra le schiere

      nemiche, tolsero le briglie ai cavalli e, piantando gli speroni, li

      slanciarono contro il nemico con un impeto tale che nessuna forza riuscì a

      contenerli, e abbatterono armi e uomini in lungo e in largo. La fanteria

      seguì la carica dei cavalieri e attaccò i nemici già sbandati. Si tramanda

      che quel giorno vennero uccisi ventimila nemici. Presso alcuni autori ho

      trovato che, durante l'assenza del dittatore, Quinto Fabio combatté due

      volte con il nemico, e che in entrambi i casi ottenne brillanti vittorie.

      Gli storici più antichi riportano invece quest'unica battaglia, mentre in

      taluni annali manca qualsiasi cenno in proposito.

      Il maestro di cavalleria, impossessatosi di moltissime spoglie dopo una

      strage di quelle proporzioni, fece un enorme mucchio delle armi nemiche e

      dopo avervi dato fuoco le ridusse in cenere: lo fece o per adempiere a un

      voto fatto a un qualche dio, o - se si vuol credere alla versione di Fabio

      - per evitare che il dittatore si appropriasse del frutto della sua

      gloria, iscrivendo il proprio nome sulle armi spogliate e portandole con

      sé in trionfo. Inoltre il resoconto della vittoria inviato da Fabio al

      senato e non al dittatore dimostrò che egli non voleva affatto dividere la

      propria gloria con il dittatore. In ogni caso, mentre gli altri salutavano

      con entusiasmo la vittoria, il dittatore accolse la notizia mostrandosi

      triste e risentito. E così, dopo aver frettolosamente congedato il senato,

      uscì di corsa dalla curia, continuando a dire che in quella battaglia, più

      delle legioni sannite, sarebbero state sconfitte dal maestro di cavalleria

      l'autorità del dittatore e la disciplina militare, se fosse rimasto

      impunito il suo disprezzo verso gli ordini ricevuti. E così, schiumando

      rabbia e minacce, partì alla volta dell'accampamento. Tuttavia, pur avendo

      coperto la distanza il più veloce possibile, non riuscì a evitare che la

      notizia del suo arrivo lo precedesse. Infatti erano in precedenza partiti

      da Roma dei corrieri per avvertire che stava arrivando il dittatore

      assetato di vendetta e con in bocca quasi a ogni parola un elogio per il

      comportamento di Tito Manlio.

      

      31 Convocata immediatamente l'adunata, Fabio implorò i soldati di

      difenderlo - sotto i suoi auspici, sotto il suo comando essi avevano

      conquistato la vittoria - dalla crudeltà implacabile del dittatore con

      quello stesso coraggio con il quale avevano difeso lo Stato dai peggiori

      nemici. Il dittatore arrivava pazzo di invidia ed esasperato per l'eroismo

      e il successo di un altro. Era furente per il fatto che la repubblica

      avesse conquistato una vittoria memorabile in sua assenza. Se avesse

      potuto intervenire sulla sorte, avrebbe preferito che la vittoria fosse

      andata ai Sanniti piuttosto che ai Romani. Continuava a ripetere che la

      sua autorità era stata calpestata, come se non avesse vietato di

      combattere con quella stessa disposizione d'animo con la quale si

      rammaricava che si fosse combattuto: allora aveva voluto soffocare per

      invidia il valore altrui, e avrebbe strappato le armi ai soldati più

      impazienti di combattere, perché non si potessero muovere durante la sua

      assenza; adesso era furibondo e non riusciva a tollerare che anche senza

      Lucio Papirio agli uomini non fossero mancate né le armi né le capacità, e

      che Quinto Fabio si fosse comportato da maestro di cavalleria e non da

      appendice del dittatore. Che cosa avrebbe fatto se i casi della guerra e

      le sorti comuni della battaglia avessero dato un esito sfavorevole, lui

      che minacciava di punire il maestro di cavalleria uscito vincitore, non

      ostante questi avesse sbaragliato i nemici e condotto le operazioni in

      maniera che mai avrebbero potuto avere esito migliore, nemmeno se guidate

      da quel-l'unico condottiero? Quell'uomo odiava il maestro di cavalleria

      non meno di quanto odiasse i tribuni militari, i centurioni e i soldati.

      Se avesse potuto, si sarebbe scatenato contro tutti: dato che non poteva

      farlo, si scatenava contro un unico soggetto. La verità è che l'invidia,

      come il fuoco, tende verso l'alto: si avventava contro il responsabile

      dell'iniziativa, contro il comandante. Se assieme a Fabio fosse riuscito

      ad annientare anche la gloria della sua vittoria, allora, come un

      vincitore nei confronti di un esercito fatto prigioniero, avrebbe osato

      contro i soldati qualsiasi atto di crudeltà gli fosse stato concesso

      infliggere al maestro di cavalleria. Che dunque difendessero la sua causa

      per difendere la libertà di tutti. Se il dittatore avesse visto che nel

      difendere la vittoria gli uomini mostravano lo stesso spirito di coesione

      messo in mostra in battaglia, e che a tutti stava a cuore la salvezza di

      uno solo di essi, si sarebbe rivolto a più miti consigli. In conclusione

      Fabio affidava la propria vita e la propria sorte alla loro lealtà e al

      loro coraggio.

      

      32 Dall'intera assemblea si levò allora un urlo: che stesse di buon animo,

      perché nessuno lo avrebbe toccato finché le legioni romane rimanevano in

      vita.

      Poco dopo arrivò il dittatore e sùbito fece convocare l'assemblea con uno

      squillo di tromba. Fu allora che un araldo, una volta fatto silenzio,

      chiamò il maestro di cavalleria Quinto Fabio. Non appena questi si fu

      avvicinato alla tribuna, il dittatore gridò: «Chiedo a te, Quinto Fabio,

      in considerazione del fatto che l'autorità del dittatore è assoluta e ad

      essa ottemperano i consoli, dotati di poteri pari a quelli dei re, e i

      pretori che vengono eletti sotto gli stessi auspici dei consoli, chiedo a

      te se tu ritenga giusto o meno che il maestro di cavalleria obbedisca agli

      ordini del dittatore. E poi ti domando questo: dato che io sapevo di esser

      partito dalla patria con auspici incerti, avrei dovuto esporre il paese a

      un rischio gravissimo in un momento di cattivi rapporti con gli dèi,

      oppure avrei dovuto evitare di rinnovare gli auspici, onde evitare di

      prendere iniziative quando la volontà degli dèi era in dubbio? Ugualmente

      ti chiedo: se un qualche scrupolo religioso impediva al dittatore di

      concludere la campagna, il maestro di cavalleria poteva forse considerarsi

      libero e sciolto da esso? Ma perché ti faccio queste domande? Se anche io

      fossi partito senza lasciare ordini, tuttavia tu avresti dovuto rivolgere

      i tuoi pensieri a interpretare la mia volontà! Rispondimi, ora: non ti ho

      vietato di prendere qualunque iniziativa durante la mia assenza? Non ti ho

      vietato di scontrarti coi nemici? Ma tu questi ordini li hai disprezzati:

      e non ostante gli auspici fossero incerti e la volontà degli dèi in

      dubbio, tu, contro ogni norma militare, contro la disciplina dei nostri

      padri e contro il volere delle divinità, hai osato scontrarti col nemico.

      Rispondi alle domande che ti sono state rivolte. Ma guàrdati dal fare

      parola d'altro. Vieni avanti, littore».

      Dato che ribattere alle accuse una per una non era cosa semplice, Fabio

      ora si lamentava del fatto che ad accusarlo e a giudicarlo in una

      questione di vita e di morte fosse la stessa persona, ora gridava che gli

      avrebbero potuto portar via più facilmente la vita che non la gloria

      conquistata, ora difendeva se stesso e passava a sua volta ad accusare il

      dittatore, fino a quando Papirio, in un nuovo attacco di ira, ordinò di

      denudare il maestro di cavalleria e di preparare verghe e scuri. Fabio,

      implorando la protezione dei soldati, mentre i littori gli strappavano le

      vesti, andò a rifugiarsi in mezzo ai triarii che avevano incominciato a

      rumoreggiare [in fondo all'assemblea].

      L'urlo da lì si diffuse per tutta l'assemblea: da una parte si udivano

      suppliche, dall'altra minacce. Quelli che per caso si trovavano vicino

      alla tribuna, potendo essere riconosciuti dal dittatore perché sotto i

      suoi occhi, lo supplicavano di risparmiare il maestro di cavalleria e di

      non condannare l'esercito insieme con lui. Quelli che invece sedevano ai

      margini dell'assemblea e la massa di soldati intorno a Fabio urlavano

      contro la crudeltà del dittatore ed erano prossimi alla sommossa. Ma

      neppure sulla tribuna vi era calma: i luogotenenti, stando intorno alla

      sedia del dittatore, lo pregavano di rimandare la cosa al giorno

      successivo, in modo che la sua rabbia si placasse e il tempo gli portasse

      consiglio. Aveva già colpito quanto bastava la giovane età di Fabio,

      screditandone a sufficienza la vittoria. Non arrivasse al verdetto più

      crudele, non infliggesse quell'umiliazione a un giovane che non aveva

      eguali, a suo padre, personalità tra le più in vista, alla famiglia Fabia!

      Quando si resero conto che a poco valevano le preghiere e le

      argomentazioni a difesa, i soldati invitarono il dittatore a osservare

      l'assemblea in fermento: visto che gli animi erano così surriscaldati, non

      si addiceva né alla sua età né alla sua esperienza alimentare il fuoco

      della rivolta. Se, accecato dall'ira, avesse scatenato contro di sé la

      massa in una folle lotta, nessuno ne avrebbe fatto carico a Quinto Fabio -

      che cercava di scampare alla punizione -, ma al dittatore. E infine,

      perché non pensasse che quei consigli miravano solo ad aiutare Quinto

      Fabio, si dichiararono pronti a giurare che era contrario al supremo

      interesse dello Stato punire Quinto Fabio in quel frangente.

      

      33 Ma con queste parole i luogotenenti riuscirono a incrementare

      l'insofferenza del dittatore nei loro stessi confronti, invece di placarne

      il risentimento verso il maestro di cavalleria, e ricevettero l'ordine di

      scendere dalla tribuna. Dopo aver invano cercato di ottenere il silenzio

      tramite l'araldo, poiché in quel vociare confuso non era possibile udire

      né la voce del dittatore né quella dei suoi attendenti, la notte - come

      accade nelle battaglie - pose fine allo scontro.

      Al maestro di cavalleria venne ingiunto di presentarsi il giorno seguente.

      Ma siccome tutti sostenevano che Papirio sarebbe stato ancora più

      furibondo, agitato ed esacerbato com'era per l'opposizione incontrata,

      Fabio lasciò di nascosto l'accampamento e fuggì a Roma. Qui, su consiglio

      del padre (che era già stato tre volte console e dittatore), convocò

      immediatamente il senato. E mentre si stava lamentando con i senatori

      della violenza e l'affronto subito dal dittatore, all'improvviso si

      sentirono fuori della curia le grida dei littori che si facevano largo in

      mezzo alla gente e apparve di fronte a loro Papirio in persona, il quale,

      non appena saputo che Fabio era fuggito dall'accampamento, si era gettato

      all'inseguimento con uno squadrone di cavalleria armato alla leggera.

      Ricominciò così la contesa, e Papirio diede ordine di arrestare Fabio. E

      dato che, non ostante le suppliche dei membri più autorevoli del senato e

      di tutto il senato stesso, il dittatore persisteva irremovibile nel suo

      proposito, allora Marco Fabio, padre del giovane, disse: «Poiché su di te

      non hanno alcun effetto né l'autorità del senato né la mia età, che tu

      vuoi rendere priva di figli, e nemmeno il coraggio e la nobiltà d'animo

      del maestro di cavalleria da te stesso nominato, e tanto meno ne hanno le

      suppliche, che spesso hanno indotto alla pietà i nemici e placato l'ira

      degli dèi, io mi appello ai tribuni della plebe e al popolo; e a te, che

      rifiuti il verdetto del tuo esercito e quello del senato, io propongo

      quell'unico giudice il cui potere stia al di sopra della tua dittatura.

      Vedremo se ti piegherai di fronte a quel diritto di appello di fronte al

      quale si piegò Tullo Ostilio, uno dei re di Roma».

      Dalla curia si passò all'assemblea popolare. Il dittatore salì sulla

      tribuna da solo, mentre il maestro di cavalleria arrivò accompagnato dal

      gruppo di tutti i personaggi più influenti. Papirio ordinò a Fabio di

      scendere dai Rostri nella zona sottostante. Il padre lo seguì esclamando:

      «Hai fatto bene a ordinarci di scendere in un punto da dove potremo dire

      la nostra anche in qualità di privati cittadini». In un primo tempo non si

      udivano discorsi ordinati, ma uno scambio di battute accese. Poi però il

      disordine dell'alterco venne sovrastato dalla voce indignata del vecchio

      Fabio che inveiva contro la crudeltà e l'arroganza di Papirio: era stato

      dittatore anche lui, e mai nessuno - neppure un plebeo, un centurione o un

      soldato semplice - aveva subito abusi. Ma Papirio cercava di ottenere la

      vittoria e il trionfo su un comandante romano, come se si trattasse di un

      comandante nemico. Com'era grande la differenza tra la moderazione degli

      antichi e questa nuova crudele superbia! Quando il dittatore Quinzio

      Cincinnato aveva salvato il console Lucio Minucio dall'assedio nemico, non

      gli aveva inflitto altra punizione se non quella di retrocederlo da

      console a luogotenente del proprio esercito. Marco Furio Camillo, quando

      Lucio Furio, disprezzando la sua età avanzata e la sua autorità, aveva

      combattuto con il peggiore dei risultati, non soltanto aveva controllato

      la propria indignazione al momento (al punto da non inviare al senato e al

      popolo alcun rapporto sfavorevole al collega), ma una volta rientrato a

      Roma, ottenuto il permesso dal senato, aveva scelto proprio lui, tra tutti

      i tribuni consolari, come associato al comando. E poi neppure il popolo,

      che aveva in mano sua il potere assoluto, nei confronti di quanti, per

      temerarietà o per inesperienza, avevano perso interi eserciti, aveva mai

      spinto la sua ira al di là di un'ammenda in denaro: fino a quel giorno non

      era mai stata richiesta la pena capitale per un comandante che avesse

      subito una disfatta militare. Ma ora i comandanti romani (e questo non era

      mai stato permesso, nemmeno quando uscivano sconfitti in guerra) venivano

      minacciati con le verghe e le scuri, pur avendo ottenuto la vittoria e

      meritato giustissimi trionfi. Che cosa mai sarebbe toccato allora a suo

      figlio, nel caso in cui avesse perso l'esercito, se fosse stato travolto,

      messo in fuga e allontanato dall'accampamento? Fin dove sarebbero arrivate

      la rabbia e la violenza del dittatore, dopo averlo fatto fustigare e

      mettere a morte? Non sarebbe stata un'assurdità che, proprio per merito di

      Quinto Fabio, la cittadinanza festeggiasse la vittoria con ringraziamenti

      e suppliche, mentre lui, l'uomo per il quale i santuari degli dèi erano

      stati aperti, le are fumavano di sacrifici ed erano piene di doni e di

      offerte, fosse denudato e straziato a colpi di verga di fronte al popolo

      romano, con gli occhi rivolti al Campidoglio, alla cittadella e agli dèi,

      da lui invano invocati in occasione di due battaglie? Con che animo

      avrebbe sopportato quello strazio l'esercito che aveva trionfato sotto il

      suo comando e i suoi auspici? Che lutto ci sarebbe stato nell'accampamento

      romano, e che gioia tra i nemici!

      Così inveiva e insieme si lamentava, invocando la protezione degli dèi e

      degli uomini e abbracciando il figlio tra le lacrime.

      

      34 Erano dalla sua l'autorità del senato, il favore del popolo, l'appoggio

      dei tribuni e il ricordo dell'esercito lontano. Dall'altra parte venivano

      invece messi avanti l'invincibile autorità del popolo romano, la

      disciplina militare, gli ordini del dittatore (da sempre rispettati come

      il volere di un dio), la severità di Manlio che aveva anteposto il bene

      pubblico all'amore per il figlio; così aveva fatto in passato anche Lucio

      Bruto, fondatore della libertà romana, nei confronti dei suoi due figli.

      Ma ora dei padri indulgenti e degli anziani disposti a non dare peso alla

      violazione dell'autorità altrui, come se si trattasse di cosa da poco,

      perdonavano ai giovani di aver violato la disciplina militare. Il

      dittatore avrebbe tuttavia insistito nel suo proposito, e non avrebbe

      risparmiato nulla della giusta pena a un uomo che, contravvenendo al suo

      ordine, aveva affrontato una battaglia non ostante gli auspici fossero

      incerti e la volontà degli dèi in dubbio. Che l'autorità del più alto

      potere durasse o meno in eterno non dipendeva da lui: ma Lucio Papirio non

      avrebbe fatto nulla per sminuirla. Si augurava che i tribuni non

      ricorressero al loro potere - di per sé inviolato - per violare tramite

      l'intercessione l'autorità di Roma, e che il popolo non annientasse i

      poteri della dittatura proprio mentre a occupare quella carica era lui. Se

      lo avesse fatto, i posteri avrebbero invano accusato non Lucio Papirio, ma

      i tribuni e lo scellerato verdetto del popolo, quando, una volta violata

      la disciplina militare, i soldati semplici non avrebbero più obbedito ai

      centurioni, il centurione al tribuno, il tribuno al luogotenente, il

      maestro di cavalleria al dittatore; e nessuno avrebbe più avuto rispetto

      per gli uomini e riverenza per degli dèi, nessuno avrebbe più tenuto in

      alcun conto gli ordini dei comandanti e gli auspici, i soldati avrebbero

      vagato senza permesso in zone pacifiche come in area nemica, dimentichi

      del giuramento prestato avrebbero abbandonato il servizio quando e dove lo

      avessero voluto; le insegne sarebbero state abbandonate e gli uomini non

      si sarebbero adunati dopo aver ricevuto l'ordine di farlo, anzi avrebbero

      combattuto senza fare distinzioni tra il giorno e la notte, tra le

      posizioni favorevoli e quelle sfavorevoli, tra l'ordine e il divieto del

      comandante; non avrebbero aspettato il segnale, né mantenuto la posizione

      nello schieramento; il servizio militare, un tempo onorato e rispettato,

      si sarebbe trasformato in una forma di brigantaggio avventuroso e casuale.

      «Di queste colpe, o tribuni della plebe, assumetevi voi la responsabilità

      per tutti i giorni a venire, e lasciate che siano le vostre teste a pagare

      per l'indisciplina di Quinto Fabio».

      

      35 I tribuni, attoniti e ormai preoccupati più per se stessi che per

      l'uomo a favore del quale veniva richiesta la loro intercessione, vennero

      liberati dal peso della responsabilità per il volere unanime del popolo

      romano che si rivolse al dittatore implorandolo con suppliche e preghiere

      di condonare per grazia sua la pena al maestro di cavalleria. Anche i

      tribuni, seguendo quell'esempio, imploravano con insistenza il dittatore

      di perdonare l'errore dell'uomo e la giovane età di Quinto Fabio, il quale

      aveva già pagato abbastanza. Ora il ragazzo stesso, ora il padre, messa da

      parte ogni intenzione polemica, si prostravano alle ginocchia del

      dittatore cercando di stornarne la collera. Fu allora che il dittatore,

      dopo aver ottenuto silenzio, disse: «Così sia, o Quiriti: hanno avuto la

      meglio la disciplina militare e l'autorità della carica, che dopo la

      giornata di oggi avevano corso il rischio di non esistere più. Quinto

      Fabio, che ha combattuto contro gli ordini del dittatore, non viene

      assolto dal reato; pur essendo stato riconosciuto colpevole di tale

      imputazione, viene graziato in nome del popolo romano e del potere dei

      tribuni, i quali sono intervenuti in suo aiuto con le suppliche e non con

      l'intercessione prevista dalla legge. Vivi, Quinto Fabio, più felice per

      il consenso unanime dimostrato dalla città nel volerti proteggere che per

      la vittoria per la quale poco fa esultavi. Vivi, anche se hai osato

      commettere un'azione che nemmeno un padre ti avrebbe perdonato, trovandosi

      al posto di Papirio. I rapporti con me torneranno a essere dei migliori

      quando tu lo vorrai. Quanto al popolo romano, al quale devi la vita, non

      puoi fare nulla di meglio che dimostrare che questo giorno ti ha insegnato

      chiaramente a sottostare, tanto in pace quanto in guerra, all'autorità

      costituita». Poi, dopo aver dichiarato che lasciava libero il maestro di

      cavalleria, scese dalla tribuna e il senato in festa e il popolo ancora

      più in tripudio li circondarono e li seguirono, rallegrandosi ora con il

      maestro di cavalleria, ora con il dittatore. Sembrò così che il pericolo

      corso da Fabio non avesse contribuito meno della miserabile fine del

      giovane Manlio a consolidare l'autorità militare.

      Per caso quell'anno successe che, ogni qual volta il dittatore si

      allontanava dall'esercito, i nemici prendevano iniziative nel Sannio. Ma

      con l'esempio di Quinto Fabio di fronte agli occhi, Marco Valerio, il

      luogotenente preposto all'accampamento, temeva la collera irrazionale del

      dittatore più di qualunque assalto nemico. E così, quando un gruppo di

      soldati inviati a fare provviste di frumento caddero in un'imboscata in un

      punto sfavorevole e furono massacrati, l'opinione comune fu che il

      luogotenente li avrebbe potuti soccorrere se non avesse avuto paura delle

      severe disposizioni del dittatore. L'indignazione per questo fatto alienò

      ancora di più al dittatore le simpatie dei soldati, i quali erano già in

      precedenza maldisposti per l'intransigenza dimostrata nei confronti di

      Quinto Fabio e per il fatto che Papirio aveva concesso quella grazia al

      popolo romano, disdegnando invece le loro suppliche.

      

      36 Quando il dittatore rientrò nell'accampamento dopo aver affidato a

      Lucio Papirio Crasso il comando in città e aver vietato al maestro di

      cavalleria Quinto Fabio di prendere qualunque iniziativa inerente alla sua

      carica, il suo arrivo non fu troppo gradito ai concittadini, né spaventò

      minimamente il nemico. E infatti il giorno seguente, sia perché non

      sapevano che il dittatore era rientrato, sia perchè non attribuivano

      grossa importanza al fatto che egli fosse presente o meno, si avvicinarono

      all'accampamento schierati in ordine di battaglia. Ma l'importanza

      attribuita a un solo uomo, Lucio Papirio, era tanta che, se il favore dei

      soldati avesse assecondato i piani del loro comandante, certo quel giorno

      la guerra coi Sanniti avrebbe potuto esser portata a compimento: tale fu

      l'abilità dimostrata da Papirio nello schierare le truppe, proteggendole

      con la scelta di un luogo favorevole e dei rincalzi, e impiegando ogni

      accorgimento tattico. Ma gli uomini non si impegnarono, e a bella posta la

      vittoria fu gettata al vento per screditare il comandante. Tra i Sanniti

      ci furono più vittime, più feriti tra i Romani. L'esperto comandante

      comprese quale fosse l'ostacolo sulla via della vittoria: avrebbe dovuto

      moderare la propria indole e contemperare il rigore con un po' di umanità.

      E così, accompagnato dai luogotenenti, visitò di persona i soldati feriti,

      e mettendo la testa dentro le tende domandava a ciascuno come stesse;

      indicando il nome di ognuno di essi, ne affidava la cura a luogotenenti,

      tribuni e prefetti. L'iniziativa era già di per sé popolare, ma Papirio la

      condusse in maniera così abile che, curando i corpi dei suoi uomini,

      conquistò rapidamente il loro favore, e niente accelerò la loro guarigione

      quanto l'entusiasmo con il quale essi accolsero quell'interessamento.

      Quando le condizioni della truppa furono ristabilite, Papirio affrontò il

      nemico senza alcun dubbio sugli esiti dello scontro: i Sanniti vennero

      travolti e messi in fuga in modo così netto che quello fu il loro ultimo

      scontro con il dittatore. L'esercito vincitore si spostò poi nella zona

      dove c'era qualche speranza di fare bottino: attraversò il territorio

      nemico, senza mai trovare resistenza armata, né allo scoperto né in

      imboscate. L'operosità dei soldati era accresciuta dalla promessa del

      dittatore di lasciare loro l'intero bottino, e l'idea di un guadagno

      individuale li spingeva contro il nemico più del furore patriottico.

      Scoraggiati da queste disfatte, i Sanniti chiesero la pace al dittatore,

      con il quale concordarono di dare a ogni soldato un'uniforme e la paga di

      un anno; e avendo da lui ricevuto l'ordine di presentarsi di fronte al

      senato, essi risposero che avrebbero seguito il dittatore, affidando la

      propria causa unicamente alla sua lealtà e al suo senso dell'onore. Così

      l'esercito venne richiamato dal Sannio.

      

      37 Il dittatore entrò a Roma in trionfo. Avrebbe voluto rinunciare alla

      carica, ma per ordine del senato, prima di abdicare, nominò consoli Gaio

      Sulpicio Longo (eletto per la terza volta) e Quinto Emilio Cerretano. I

      Sanniti, in disaccordo sui termini del trattato, partirono da Roma senza

      avere concluso la pace, ma ottenendo una tregua annuale. Neppure

      quest'ultima essi rispettarono lealmente: quando appresero che Papirio era

      uscito di carica si sentirono incoraggiati a riprendere le armi.

      Durante il consolato di Gaio Sulpicio e di Quinto Emilio - alcuni annali

      riportano Aulio -, alla defezione dei Sanniti si aggiunse una nuova guerra

      con gli Apuli. A Sulpicio toccarono i Sanniti, a Emilio gli Apuli. Alcuni

      storici scrivono che la guerra non fu combattuta propriamente contro gli

      Apuli, bensì in difesa di popoli loro alleati minacciati dalla violenza e

      dalle offese dei Sanniti. Ma le condizioni di questi ultimi, che in quel

      periodo erano a malapena in grado di respingere la guerra dal loro

      territorio, rendono più verosimile che non siano stati loro ad attaccare

      gli Apuli, ma che i Romani abbiano combattuto contemporaneamente l'uno e

      l'altro popolo. Ciò non ostante non ci furono scontri degni di essere

      menzionati. I Romani devastarono il territorio degli Apuli e dei Sanniti,

      senza mai incontrare nemici in entrambe le zone.

      A Roma un allarme notturno svegliò all'improvviso la popolazione,

      spaventandola al punto che Campidoglio, cittadella, mura e porte si

      riempirono di armati. E dopo che in ogni parte della città si corse e si

      gridò «Alle armi!», alle prime luci del giorno non si scoprirono né

      l'autore né la causa di quel panico.

      Nel corso di quello stesso anno, su proposta del tribuno della plebe Marco

      Flavio, i Tuscolani vennero giudicati di fronte al popolo. Il tribuno

      propose di punire gli abitanti di Tuscolo per aver offerto aiuto e

      consigli a Veliterni e Privernati nella guerra contro il popolo romano. I

      cittadini di Tuscolo vennero a Roma con mogli e figli. Questa massa di

      persone, vestite da supplici e con l'aspetto di imputati, fece il giro

      delle tribù, gettandosi alle ginocchia di tutti. E così accadde che la

      compassione suscitata fu più efficace nell'ottenere la remissione della

      pena di quanto non lo fossero gli argomenti usati per scagionare i

      Tuscolani dalle accuse. Tutte le tribù, salvo la Pollia, respinsero la

      proposta. La Pollia votò invece che gli uomini in età adulta venissero

      fustigati e passati per le armi, e che mogli e figli venissero venduti

      all'asta attenendosi alla legge di guerra. È noto che fino al tempo dei

      nostri padri i cittadini di Tuscolo mantennero vivo il ricordo di una

      proposta tanto atroce, e che di solito un candidato della tribù Pollia non

      riusciva mai a ottenere il voto favorevole da parte della Papiria.

      

      38 L'anno seguente, durante il consolato di Quinto Fabio e di Lucio

      Fulvio, per la minaccia di una guerra più grave con i Sanniti (che si

      diceva avessero raccolto una milizia mercenaria assoldandola tra le

      popolazioni dei dintorni), il dittatore Aulo Cornelio Arvina e il maestro

      di cavalleria Marco Fabio Ambusto con un'energica leva militare formarono

      un eccellente esercito che condussero contro i Sanniti. Si erano accampati

      in territorio nemico senza quasi preoccuparsi della loro posizione, come

      se gli avversari fossero stati a miglia di distanza, quando all'improvviso

      arrivarono le legioni dei Sanniti che avanzarono con tanta sicurezza da

      arrivare a costruire la trincea nei pressi dei posti di guardia romani.

      Ormai stava per calare la notte, e questo impedì loro di assaltare le

      difese dei Romani. Ma non nascondevano affatto l'intenzione di farlo il

      giorno successivo, alle prime luci dell'alba. Il dittatore, quando vide

      che lo scontro era più vicino di quanto si aspettasse, nel timore che la

      posizione svantaggiosa nuocesse al valore dei suoi uomini, lasciò dietro

      di sé molti fuochi accesi la cui vista ingannasse il nemico, e in silenzio

      portò fuori le legioni. Ma la vicinanza dei due accampamenti gli impedì di

      passare inosservato. La cavalleria sannita, gettatasi immediatamente

      all'inseguimento, tenne sotto pressione l'esercito in marcia, pur senza

      arrivare allo scontro, fino a quando non fu giorno. Nemmeno la fanteria

      uscì dall'accampamento prima dell'alba. Alla fine, quando sorse il sole,

      la cavalleria si spinse ad attaccare i Romani: agganciandone la

      retroguardia e incalzandoli in corrispondenza di passaggi difficili ne

      rallentò la marcia. Nel frattempo la fanteria seguì la cavalleria e ormai

      i Sanniti premevano con tutte le loro forze. Allora il dittatore,

      rendendosi conto di non poter avanzare se non a prezzo di gravi disagi,

      ordinò di porre l'accampamento nello stesso punto in cui si era fermato.

      Ma, circondati com'erano dalla cavalleria nemica, non fu loro possibile

      andare in cerca di legname per la palizzata e iniziare i lavori di

      fortificazione.

      E così, quando vide che non gli era possibile né avanzare né accamparsi,

      Cornelio schierò l'esercito in ordine di battaglia, dopo aver spostato i

      carriaggi dalla linea d'attacco. Si schierano anche i nemici, con pari

      forze e determinazione. Ciò che più di ogni altra cosa ne accresceva

      l'animosità era questo: ignorando che i Romani si erano ritirati di fronte

      non al nemico ma a una posizione svantaggiosa, pensavano che avessero

      ripiegato per paura. Questa convinzione per qualche tempo mantenne in

      equilibrio la battaglia, benché da anni ormai i Sanniti non riuscissero a

      sostenere nemmeno l'urlo di guerra dell'esercito romano. E, per Ercole, si

      dice che quel giorno, dall'ora terza all'ottava, l'esito dello scontro fu

      così incerto, che l'urlo di battaglia non venne rinnovato dopo quello che

      diede inizio al combattimento, che le insegne non vennero spostate in

      avanti né ritirate nelle retrovie e che da una parte e dall'altra non vi

      furono cedimenti, in alcun punto. Ciascuno combatteva restando fermo al

      proprio posto, opponendo gli scudi agli scudi, senza tirare il fiato e

      senza fermarsi a guardare indietro. Il fremito inesausto e l'andamento

      costante della battaglia facevano pensare che solo la fine delle energie o

      il calare della notte avrebbero posto termine allo scontro. Ormai agli

      uomini venivano meno le forze, alle spade la tempra abituale, ai

      comandanti le idee: quand'ecco che all'improvviso i cavalieri sanniti,

      appreso da un loro squadrone spintosi più avanti che le salmerie romane si

      trovavano lontane dagli uomini armati e non erano protette da guarnigioni

      o da dispositivi di difesa, si gettarono all'assalto spinti dall'avidità

      di bottino. Quando un messaggero trafelato riferì la cosa al dittatore,

      questi disse: «Lasciate pure che si appesantiscano con la preda».

      Arrivarono poi altri messaggeri e altri ancora, a riferire che i nemici

      stavano saccheggiando e portando via i beni dei soldati. Allora, convocato

      il maestro di cavalleria, gli disse: «Ma non vedi, o Marco Fabio, che i

      cavalieri nemici hanno smesso di combattere? Sono rimasti invischiati alle

      nostre salmerie. Aggrediscili mentre sono dispersi, come tutti i soldati

      occupati a razziare! Ne troverai pochi in sella, pochi con la spada in

      pugno. Mentre stanno caricando di bottino se stessi e i propri cavalli,

      massacrali, inermi come sono, copri di sangue il loro bottino. Io mi

      occuperò delle legioni e delle manovre dei fanti: sia tuo l'onore della

      battaglia equestre!».

      

      39 La cavalleria, schierata come meglio non sarebbe stato possibile,

      assalì i nemici dispersi e appesantiti, seminando strage ovunque. Furono

      massacrati perché, avendo tra i piedi i bagagli che avevano abbandonato in

      fretta e furia e che impedivano i movimenti ai cavalli terrorizzati nel

      pieno della rotta, non poterono né combattere né fuggire. Marco Fabio poi,

      distrutta o quasi la cavalleria nemica, compì una breve manovra di

      accerchiamento e prese alle spalle la fanteria. Le nuove grida che si

      udirono da quella parte seminarono il panico tra i Sanniti, e il

      dittatore, quando vide gli uomini delle prime file nemiche voltarsi

      indietro, le loro insegne confondersi e lo schieramento ondeggiare, allora

      incitò i soldati, e chiamando per nome tribuni e comandanti di compagnia

      li esortava a sferrare un nuovo attacco insieme con lui. Levato un nuovo

      urlo di guerra, si gettarono all'assalto, e col procedere della manovra

      vedevano i Sanniti sempre più in preda alla confusione. I primi erano già

      in vista dei cavalieri romani, e Cornelio, voltandosi indietro verso i

      manipoli di fanti, faceva capire come poteva, a gesti e a parole, che già

      scorgeva vessilli e scudi dei cavalieri. Non appena udirono e insieme

      videro la cosa, gli uomini dimenticarono di colpo le fatiche sostenute per

      quasi tutto il giorno e le ferite subite, e si lanciarono contro il

      nemico, come se arrivati freschi dall'accampamento avessero ricevuto in

      quel momento il segnale di battaglia. E i Sanniti non riuscirono a

      resistere più a lungo alla furia dei cavalieri e all'urto dei fanti: parte

      di essi presa in mezzo venne uccisa, parte invece fu dispersa e messa in

      fuga. I fanti circondarono e finirono quelli che resistevano. I cavalieri

      fecero strage dei fuggitivi, tra i quali cadde anche il comandante.

      Questa battaglia fiaccò il morale dei Sanniti: in tutte le riunioni

      mormoravano ormai che non c'era da stupirsi se non riuscivano a conseguire

      risultati in una guerra scellerata che era stata scatenata violando un

      trattato, e nella quale gli dèi erano, a ragione, più ostili degli uomini.

      La colpa del conflitto andava espiata e la purificazione sarebbe costata a

      caro prezzo. La sola incertezza era se si dovesse pagare con il sangue dei

      pochi colpevoli o con quello dei molti innocenti, mentre c'era già chi si

      spingeva a fare i nomi dei responsabili delle ostilità. Se ne distingueva

      uno in particolare: erano tutti d'accordo nel denunciare Papio Brutulo, un

      potente nobile che aveva senza dubbio infranto la tregua più recente.

      Costretti a giudicare il suo caso, i pretori decisero che Papio Brutulo

      venisse consegnato ai Romani e che con lui fossero inviati a Roma l'intero

      bottino e i prigionieri, e che tutto ciò di cui i feziali avevano chiesto

      soddisfazione in base al trattato fosse restituito secondo la legge divina

      e umana. Dopo questa deliberazione, i feziali partirono per Roma portando

      con sé il corpo esanime di Brutulo, il quale si era sottratto con il

      suicidio alla pena e all'umiliazione. Insieme col corpo venne deciso di

      consegnarne anche i beni. Ma di tutte queste cose i Romani accettarono

      solo i prigionieri e gli oggetti che furono riconosciuti come propri; il

      resto fu respinto. Il dittatore ottenne il trionfo per decreto del senato.

      

      40 Alcuni autori riportano che questa guerra venne combattuta dai consoli,

      e che furono loro a trionfare sui Sanniti. Stando a loro, Fabio sarebbe

      penetrato in Apulia e di lì avrebbe portato via grande bottino. Il fatto

      che quell'anno Aulo Cornelio fosse dittatore non è in questione. Il dubbio

      è se fosse stato eletto per occuparsi della campagna, oppure perché ci

      fosse un magistrato a dare il segnale alle quadrighe nei Giochi Romani -

      il pretore Lucio Plauzio era allora gravemente ammalato -, e avesse quindi

      rinunciato alla carica di dittatore dopo aver compiuto la funzione non

      proprio memorabile per la quale era stato eletto. Non è facile scegliere

      tra le varie versioni e i diversi autori. Ho l'impressione che i fatti

      siano stati alterati dagli elogi funebri o da false iscrizioni collocate

      sotto i busti, dato che ogni famiglia cerca di attribuirsi il merito di

      gesta gloriose con menzogne che traggono in inganno. Da quella pratica

      discendono sicuramente sia le confusioni nelle gesta dei singoli

      individui, sia quelle relative alle documentazioni pubbliche; per quegli

      anni non disponiamo di autori contemporanei agli eventi, sui quali ci si

      possa quindi basare con certezza.

 


Libri 9-10: Il trionfo sui Sanniti

 

       

      

      LIBRO IX

      

      

      

      1 Nel corso dell'anno successivo ci fu la pace di Caudio, rimasta celebre

      per la disfatta subita dai Romani, durante il consolato di Tito Veturio

      Calvino e Spurio Postumio. Quell'anno il comandante in capo dei Sabini era

      Gaio Ponzio figlio di Erennio, figlio di un padre che eccelleva in

      saggezza, e lui stesso guerriero e stratega di prim'ordine. Quando gli

      ambasciatori inviati a chiedere soddisfazione rientrarono senza aver

      concluso la pace, Gaio Ponzio disse: «Non crediate che questa ambasceria

      non abbia avuto esito alcuno, perché con essa abbiamo espiato l'ira degli

      dèi sorta nei nostri confronti per aver violato i patti. Qualunque sia

      stato il dio che ha voluto farci sottostare all'obbligo di restituire ciò

      che ci era stato richiesto in base alle clausole del trattato, sono sicuro

      che questo stesso dio non ha gradito che i Romani abbiano respinto con

      tanta arroganza la nostra riparazione per l'avvenuta rottura dei patti. Ma

      che cos'altro si sarebbe potuto fare per placare gli dèi e rabbonire gli

      uomini, più di quello che già abbiamo fatto? Quel che è stato tolto ai

      nemici come bottino, e che secondo le leggi di guerra avrebbe già potuto

      dirsi a buon diritto nostro, l'abbiamo restituito. I responsabili della

      guerra li abbiamo riconsegnati morti, visto che non ci è stato possibile

      consegnarli vivi. Le loro cose, per evitare che ci rimanesse addosso

      qualcosa che potesse far ricadere la colpa su di noi, le abbiamo portate a

      Roma. Cos'altro devo a voi, o Romani, cosa ai trattati, e agli dèi

      testimoni dei trattati? Chi vi devo proporre a giudice della vostra rabbia

      e della nostra pena? Non voglio sottrarmi al giudizio di nessuna

      popolazione e di nessun privato cittadino. Se infatti il più forte non

      concede al più debole alcun diritto umano, allora mi rivolgerò agli dèi

      che si vendicano degli eccessi di superbia, e li implorerò di rivolgere le

      loro ire contro quanti non hanno ritenuto sufficiente la restituzione

      delle proprie cose né l'aggiunta delle altrui, contro quanti la cui

      ferocia non è stata saziata dalla morte dei colpevoli, né dalla consegna

      dei cadaveri né dai beni che accompagnavano la resa dei loro legittimi

      proprietari, contro quanti non potranno mai essere placati se noi non

      offriremo loro il nostro sangue da succhiare e le nostre membra da

      sbranare. La guerra, o Sanniti, è giusta per coloro ai quali risulta

      necessaria, e il ricorso alle armi è sacrosanto per quelli cui non restano

      altre speranze se non nelle armi. Di conseguenza, se nelle imprese degli

      uomini è una cosa di assoluta importanza avere gli dèi dalla propria parte

      piuttosto che contro, state pur certi che le guerre del passato le abbiamo

      condotte più contro gli dèi che contro gli uomini, mentre questa che è

      ormai alle porte la condurremo agli ordini degli dèi in persona».

      

      2 Dopo aver rivolto ai Sanniti queste profetiche parole non meno vere che

      di buon augurio, si mise alla testa dell'esercito andando ad accamparsi

      nei pressi di Caudio con la maggior segretezza possibile. Di lì inviò

      dieci soldati travestiti da pastori a Calazia, dove gli era giunta voce si

      trovassero già il console e l'accampamento romani, e ordinò loro di

      pascolare il bestiame vicino alle guarnigioni armate dei Romani, a

      distanza l'uno dall'altro. Nel caso si fossero poi imbattuti in predatori

      nemici, avrebbero dovuto riferire tutti la stessa storia, e cioè che gli

      eserciti sanniti si trovavano in Apulia, che erano impegnati ad assediare

      Luceria con tutte le forze e ormai stavano per prenderla d'assalto. Questo

      tipo di voci, messe in circolo a bella posta in precedenza, era già

      arrivato alle orecchie dei Romani, e la loro attendibilità venne

      incrementata dalle deposizioni dei prigionieri, che, e ciò ebbe un peso

      determinante, collimavano tutte tra di loro. Non c'era dubbio che i Romani

      erano chiamati a portare aiuto agli abitanti di Luceria, alleati valorosi

      e fedeli, anche per evitare che l'Apulia defezionasse in blocco di fronte

      alla minaccia incombente dei Sanniti. Si discusse soltanto sul percorso da

      compiere.

      Le strade che portavano a Luceria erano due: una lungo la costa adriatica,

      aperta e sgombra, ma tanto più lunga quanto più sicura, l'altra attraverso

      le Forche Caudine, più rapida. Si tratta però di un luogo con questo tipo

      di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di boschi,

      collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a queste

      montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di

      pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi è necessario

      attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri

      passi per la strada fatta all'andata, oppure - qualora si voglia procedere

      - attraversare una gola ancora più stretta e impervia della prima.

      L'esercito romano, dopo aver raggiunto quella pianura attraverso uno dei

      passaggi incassati nella roccia, stava marciando verso la seconda gola,

      quando la trovò ostruita da una barriera di tronchi abbattuti e di grossi

      massi. Era chiaro che si trattava di un agguato nemico: infatti

      avvistarono sulla cima della gola un manipolo di armati. Cercarono quindi,

      senza perdere un attimo, di ritornare indietro per il passaggio attraverso

      il quale erano arrivati, ma trovarono sbarrato anche questo da ostacoli

      naturali e da uomini armati. Allora, senza che nessuno lo avesse loro

      ordinato, si bloccarono, attoniti, le membra incapaci di muoversi. E

      guardandosi in faccia l'un l'altro, ciascuno nella speranza che il

      compagno avesse maggiore lucidità e potesse prendere una qualche

      decisione, rimasero a lungo in silenzio. Poi, quando videro che si stavano

      piantando le tende dei consoli, e che qualcuno cominciava a preparare il

      materiale per allestire l'accampamento, pur rendendosi conto che costruire

      fortificazioni in una situazione pressoché irreparabile e disperata

      avrebbe suscitato il riso del nemico, ciò non ostante, per non aggiungere

      la propria responsabilità alla disgrazia, tutti - senza che nessuno li

      esortasse a farlo o lo ordinasse loro - si misero di propria iniziativa a

      costruire dei dispositivi di difesa, scavando una trincea intorno al campo

      nei pressi dell'acqua di un ruscello: e ironizzavano amaramente, quasi non

      bastassero le insolenti frecciate dei nemici, sull'inutilità delle opere

      allestite e della fatica sostenuta. Attorno ai consoli tristi, che non

      convocavano nemmeno il consiglio di guerra (visto che non c'era consiglio

      o aiuto che potessero valere), si vennero a raccogliere di loro spontanea

      volontà i luogotenenti e i tribuni, mentre i soldati, girandosi verso il

      pretorio, chiedevano agli ufficiali quel sostegno che a malapena gli dèi

      avrebbero potuto offrire.

      

      3 La notte li sorprese mentre più che consultarsi si stavano lamentando

      del proprio destino, e ognuno di essi reagiva secondo il proprio

      carattere. Uno diceva: «Avanziamo attraverso le barriere lungo la strada,

      su per le pendici dei monti, attraverso i boschi, dovunque potremo portare

      le armi: così che almeno si riesca ad arrivare fino al nemico, sul quale

      da quasi trent'anni abbiamo la meglio. Tutto sarà facile e agevole per dei

      soldati romani che combattono contro perfidi Sanniti». Un altro ribatteva:

      «Dove e per dove dovremmo andare? Non vogliamo per caso spostare i monti

      dalle loro sedi naturali? Finché avremo queste cime sopra la testa, per

      quale via si potrà raggiungere il nemico? Armati o inermi, coraggiosi o

      vigliacchi, siamo tutti ugualmente prigionieri e vinti; il nemico non ci

      offrirà nemmeno una spada perché possiamo morire in maniera gloriosa:

      vincerà la guerra senza muovere un dito». La notte trascorse tra battute

      di questo genere: nessuno pensò a riposare o a mangiare.

      Ma nemmeno i Sanniti, pur trovandosi in una congiuntura tanto favorevole,

      sapevano che cosa convenisse fare. E per questo decisero all'unanimità di

      inviare un messaggio a Erennio Ponzio, padre del comandante in capo, per

      averne un consiglio. Quest'ultimo, avanti negli anni com'era, si era già

      ritirato non solo dall'attività militare, ma anche dalla vita politica.

      Ciò non ostante, nel suo corpo malato era ancora vivo il vigore dell'animo

      e dell'intelletto. Quando venne a sapere che gli eserciti romani erano

      stati schiacciati alle Forche Caudine tra due gole, essendogli stato

      chiesto un consiglio dal messaggero inviato dal figlio, propose di

      lasciarli andare al più presto tutti senza colpirli. Ma siccome questo

      consiglio non venne messo in pratica, inviato una seconda volta lo stesso

      messaggero col cómpito di consultarlo, egli propose di ucciderli tutti dal

      primo all'ultimo. Le risposte contrastavano tanto da sembrare il responso

      di un oracolo ambiguo: e il figlio - pur pensando che ormai anche la mente

      del padre avesse perso lucidità nel corpo malato -, ciò non ostante si

      lasciò convincere dalle insistenze di tutto l'esercito a convocare il

      genitore di persona nell'assemblea. Stando a quanto si racconta, il

      vecchio non avrebbe fatto difficoltà a lasciarsi portare su un carro

      all'accampamento, e una volta introdotto nell'assemblea si sarebbe

      espresso all'incirca in questi termini, senza modificare in nulla il

      proprio parere, ma limitandosi a chiarirne i motivi: scegliendo la prima

      strada, che lui riteneva la più valida, ci si sarebbe assicurata una pace

      duratura e l'amicizia con un popolo potentissimo; optando invece per la

      seconda, si sarebbe evitata la guerra per molti anni, perché dopo la

      perdita di quei due eserciti per i Romani non sarebbe stato facile

      raggiungere di nuovo la potenza di un tempo; una terza via non esisteva.

      Ma siccome il figlio e gli altri alti ufficiali insistevano a chiedere che

      cosa pensasse di una soluzione di compromesso - permettere cioè ai Romani

      di andarsene sani e salvi, ma imporre loro, in quanto vinti, il diritto di

      guerra -, l'uomo rispose: «Questa soluzione è tale che non vi acquisterà

      degli amici né vi libererà dai nemici. Salvate pure la vita a uomini che

      avete esasperato con un trattamento umiliante: la caratteristica del

      popolo romano è quella di non sapersi rassegnare alla condizione di vinto.

      Nei loro cuori sarà sempre vivo il marchio di infamia del caso presente, e

      questo non darà loro pace fino a quando non vi avranno ripagato con pene

      molte volte più dure». Una volta respinte entrambe le sue proposte,

      Erennio venne ricondotto dall'accampamento in patria.

       

      4 Frattanto, nell'accampamento romano, falliti parecchi tentativi di fare

      breccia nell'accerchiamento, e mancando ormai ogni cosa, nella morsa degli

      eventi si decise di inviare ambasciatori a chiedere una pace a parità di

      condizioni: se non l'avessero ottenuta, avrebbero sfidato il nemico in

      battaglia. Alla delegazione Ponzio replicò che la guerra era ormai stata

      decisa, e siccome neppure da sconfitti e da prigionieri erano in grado di

      ammettere la propria sorte, li avrebbe fatti passare sotto il giogo privi

      di armi e con una sola veste per ciascuno. Il resto delle condizioni

      sarebbero state eque per vincitori e vinti: se i Romani abbandonavano il

      territorio sannita e ritiravano le colonie fondate, allora Romani e

      Sanniti in futuro sarebbero vissuti attenendosi alle loro leggi in base a

      un patto di alleanza alla pari. Erano queste le condizioni alle quali egli

      era pronto a scendere a patti coi consoli. Se qualcuna di queste clausole

      non era di loro gradimento, allora vietava agli ambasciatori di

      ripresentarsi al suo cospetto. Quando venne riferito l'esito

      dell'ambasceria, il lamento levatosi immediatamente da tutto l'esercito fu

      così profondo e gli animi vennero invasi da un tale sconforto, che il

      dolore non sarebbe stato più grande se fosse giunta la notizia che tutti

      erano destinati a morire in quello stesso luogo.

      Restarono a lungo in silenzio, e i consoli non riuscivano ad aprire bocca

      né per difendere un accordo così infamante, né per respingere un patto

      tanto necessario, quando Lucio Lentulo, che tra gli ambasciatori inviati

      era allora il più autorevole per valore e per cariche ricoperte, disse:

      «Ricordo, o consoli, di aver spesso sentito mio padre raccontare di essere

      stato il solo, nel senato sul Campidoglio, a sconsigliare di riscattare

      Roma dai Galli pagandola a peso d'oro, perché i Romani non erano stati

      circondati né con una trincea né con un fossato da quel nemico quanto mai

      indolente e poco portato ai lavori di fortificazione, ed erano in grado di

      tentare una sortita, pur rischiando moltissimo, ma senza andare incontro a

      un disastro sicuro. E se, come quelli erano stati in grado di lanciarsi

      dal Campidoglio armati contro il nemico, nel modo spesso utilizzato dagli

      assediati per tentare una sortita contro gli assedianti, venisse anche a

      noi concessa l'opportunità di combattere (in posizione favorevole o meno),

      certo non mi mancherebbe lo spirito di mio padre nel guidarvi. Morire per

      la patria, lo ammetto, è cosa gloriosa, e sono pronto a offrire la mia

      vita per il popolo e per l'esercito romano o a gettarmi nel mezzo dei

      nemici. Ma è qui che vedo la patria, qui tutto quel che resta delle

      legioni romane, le quali, a meno che vogliano correre incontro alla morte

      per difendere se stesse, che cosa possono salvare con il loro sacrificio?

      "Le case della città," dirà qualcuno, "le mura e la gente rimasta a Roma".

      Ma, per Ercole, è proprio se questo esercito verrà annientato che tutto

      ciò andrà perduto e non salvato! Chi, infatti, potrà difenderlo? Forse la

      massa imbelle e senz'armi? «Esattamente come le difese, per Ercole, dagli

      assalti dei Galli». Ma potrà forse invocare l'arrivo da Veio di un

      esercito con Camillo alla testa? Le nostre speranze e le nostre risorse le

      abbiamo tutte qui: se le salviamo, salviamo la patria, se invece le

      consegniamo alla morte, abbandoniamo la patria al suo destino. "La resa è

      però cosa disonorevole e infamante". Ma proprio questo è vero amor di

      patria: salvarla, qualora ve ne sia bisogno, a prezzo tanto del disonore

      quanto della morte. Vediamo quindi di subire questo marchio di infamia,

      per quanto indelebile esso possa essere, e pieghiamoci alla fatalità, che

      neppure gli dèi possono superare. Andate, o consoli, e riscattate con le

      armi la città che i vostri antenati hanno riscattato con l'oro».

      

      5 I consoli, essendo venuti a colloquio con Ponzio, mentre il vincitore

      voleva stipulare un trattato di pace, replicarono che il trattato non

      poteva essere stipulato senza il consenso del popolo, senza i feziali e il

      resto del consueto rituale. Per questo la pace di Caudio non fu stipulata

      con regolare trattato - come abitualmente si crede e come anche scrive

      Claudio -, ma tramite una garanzia personale. Infatti che bisogno ci

      sarebbe stato, per un trattato, di garanti e di ostaggi, visto che in quel

      caso l'accordo è stipulato dall'invocazione che Giove colpisca quel popolo

      venuto meno alle condizioni sancite, così come il maiale viene colpito dai

      feziali? Garanti si fecero i consoli, i luogotenenti, i questori, i

      tribuni militari, e ci restano i nomi di tutti coloro che sottoscrissero

      l'impegno (mentre rimarrebbero solo i nomi dei due feziali, nel caso fosse

      stato stipulato un vero e proprio trattato). Inoltre, per l'inevitabile

      rinvio del trattato, fu imposta la consegna di 600 cavalieri in qualità di

      ostaggi, destinati a pagare con la propria vita se i patti venivano

      violati. Fu poi fissato il termine per consegnare gli ostaggi e per

      lasciare libero l'esercito disarmato.

      Il rientro dei consoli rinnovò il dolore all'interno del-l'accampamento, e

      i soldati si trattennero a stento dallo scagliarsi addosso a quanti, per

      la loro imprudenza, li avevano trascinati in quel luogo: per la cui

      ignavia erano adesso costretti a uscirne in maniera ancora più infamante

      di come vi erano entrati; non erano ricorsi a una guida pratica della

      zona, né avevano effettuato ricognizioni, lasciandosi spingere alla cieca

      dentro una fossa come tante bestie selvatiche. Si guardavano gli uni con

      gli altri, osservavano le armi che presto avrebbero dovuto consegnare, le

      mani destinate a essere disarmate, i corpi soggetti alla volontà del

      nemico: avevano già di fronte agli occhi il giogo nemico, la derisione,

      gli sguardi arroganti dei vincitori, il passaggio senza armi in mezzo a

      uomini armati e ancora la mesta marcia dell'esercito disonorato attraverso

      le città alleate, il ritorno dai genitori in patria, là dove spesso essi

      stessi e i loro antenati erano rientrati in trionfo. Solo loro erano stati

      sconfitti senza subire ferite, senza armi, senza combattere; a loro non

      era stato concesso né di sguainare le spade né di scontrarsi in battaglia

      col nemico; a loro era stato infuso invano il coraggio.

      Mentre mormoravano queste cose, arrivò l'ora fatale dell'ignominia,

      destinata a rendere tutto, alla prova dei fatti, ancora più doloroso di

      quanto non avessero immaginato. In un primo tempo ricevettero disposizione

      di uscire dalla trincea senza armi, con addosso un'unica veste. I primi a

      essere consegnati e incarcerati furono gli ostaggi. Poi fu ingiunto ai

      littori di scostarsi dai consoli, cui fu invece tolta la mantella da

      generali: spettacolo questo che suscitò così grande compassione anche tra

      quanti poco prima si erano scagliati contro i consoli proponendo di

      consegnarli al nemico e di farli a pezzi, che ciascuno dei presenti,

      dimentico della propria sorte, distolse lo sguardo da quella profanazione

      di una simile autorità, come dalla vista di qualcosa di abominevole.

      

      6 I consoli furono i primi a esser fatti passare seminudi sotto il giogo;

      poi, in ordine di grado, tutti gli ufficiali vennero esposti all'infamia,

      e alla fine le singole legioni una dopo l'altra. I nemici stavano intorno

      con le armi in pugno, lanciando insulti e dileggiando i Romani. Molti

      vennero minacciati con le spade, e alcuni furono anche feriti e uccisi, se

      l'espressione troppo risentita dei loro volti a causa di quell'oltraggio

      offendeva il vincitore.

      Così furono fatti passare sotto il giogo, e - cosa questa quasi ancora più

      penosa - proprio sotto gli occhi dei nemici. Una volta usciti dalla gola,

      pur sembrando loro di vedere per la prima volta la luce come se fossero

      emersi dagli inferi, ciò non ostante la luce in sé e per sé fu più

      dolorosa di ogni tipo di morte, al vedere una schiera ridotta in quello

      stato. E così, anche se avrebbero potuto raggiungere Capua prima di notte,

      dubitando dell'affidabilità degli alleati e trattenuti dalla vergogna,

      lungo la strada che porta alla città abbandonarono a terra i loro corpi

      ormai bisognosi di tutto. Quando a Capua arrivò la notizia del vergognoso

      episodio, l'arroganza congenita dei Campani venne meno di fronte alla

      naturale compassione nei confronti degli alleati. Inviarono immediatamente

      ai consoli le insegne della loro carica; ai soldati offrirono invece armi,

      cavalli, vestiti e cibo, e al loro arrivo si fecero loro incontro tutto il

      senato e il popolo, adempiendo così a ogni tipo di obbligo formale in

      materia di ospitalità pubblica e privata. Ma né l'umanità degli alleati né

      la benevolenza dei volti poterono strappare una parola ai Romani, che

      nemmeno sollevavano gli occhi da terra per rivolgere uno sguardo agli

      amici che si sforzavano di consolarli. A tal punto la vergogna, ancor più

      dell'amarezza, li spingeva a evitare la conversazione e la compagnia degli

      esseri umani.

      Il giorno dopo alcuni giovani esponenti della nobiltà vennero inviati col

      cómpito di scortare fino al confine della Campania quelli che stavano

      partendo; al rientro, convocati in senato, rispondendo alle domande degli

      anziani, riferirono che i Romani avevano dato l'impressione di essere

      ancora più avviliti e mesti, tanto silenziosamente camminavano, come

      fossero diventati muti. Il fiero carattere romano era prostrato, e insieme

      alle armi aveva perso anche il coraggio. Nessuno aveva avuto la forza di

      ricambiare il saluto, di rispondere, di aprir bocca per lo sgomento, come

      se portassero ancora al collo il giogo sotto il quale erano stati fatti

      passare. La vittoria ottenuta dai Sanniti non era stata soltanto

      clamorosa, ma anche duratura nel tempo, perché avevano privato il nemico

      non tanto di Roma (come in passato i Galli), quanto piuttosto della virtù

      e dell'orgoglio romano, e questo dimostrava ancor di più il loro valore.

      

      7 Mentre si dicevano e si sentivano queste cose, e nell'assemblea dei

      fedeli alleati la potenza romana veniva quasi pianta come se fosse stata

      annientata, pare che Aulo Calavio, figlio di Ovio, uomo famoso per nascita

      e per gesta compiute, e in quel periodo reso ancora più rispettabile

      dall'età, avesse sostenuto che le cose stavano in tutt'altra maniera: quel

      silenzio ostinato, gli occhi fissi a terra, le orecchie sorde a ogni tipo

      di conforto e l'imbarazzo di dover guardare la luce erano i segnali di un

      animo che nell'intimo covava un'enorme rabbia. Se non conosceva male il

      carattere dei Romani, di lì a poco quel silenzio avrebbe suscitato tra i

      Sanniti grida piene di gemiti e dolore, e il ricordo della pace di Caudio

      sarrebbe stato molto più pesante per i Sanniti che per i Romani. Perché

      dovunque si fossero scontrati nei giorni a venire, ognuno di essi avrebbe

      avuto la grinta di sempre, mentre per i Sanniti non ci sarebbero state

      dappertutto le Forche Caudine.

      La notizia della grave disfatta era già arrivata anche a Roma. In un primo

      tempo si era venuti a sapere che erano stati circondati. Poi, ben più

      doloroso di quello relativo al pericolo corso, era arrivato l'annuncio

      della vergognosa pace. Alla notizia dell'accerchiamento, erano state

      avviate le pratiche della leva militare. Quando però si venne a sapere che

      era stata stipulata una pace tanto infamante, venne interrotto

      l'allestimento di rinforzi. E sùbito, senza aspettare alcuna decisione

      ufficiale, il popolo tutto si era abbandonato a ogni forma di lutto. I

      negozi intorno al foro vennero chiusi, sospesi spontaneamente i pubblici

      affari prima ancora che arrivasse l'ordine relativo. Vennero deposte le

      toghe orlate di porpora e gli anelli d'oro. I cittadini erano quasi più

      addolorati dello stesso esercito; il loro risentimento non toccava

      soltanto i comandanti e i responsabili e garanti della pace, ma anche gli

      innocenti soldati: sostenevano che non li si dovesse accogliere in città

      né all'interno delle case. Il rancore venne però piegato dall'arrivo

      dell'esercito, che suscitò compassione anche negli animi più esacerbati.

      Entrati infatti in città a tarda sera, non come uomini che tornavano sani

      e salvi in patria contro ogni speranza, ma con l'aspetto e l'espressione

      di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case e nessuno di essi volle

      vedere il foro o la pubblica via, né l'indomani né i giorni successivi. I

      consoli, nascosti nelle loro abitazioni, non compirono alcun gesto

      pertinente alla carica, tranne quanto prescritto da un decreto del senato,

      e cioè la nomina di un dittatore cui far presiedere le elezioni. La scelta

      cadde su Quinto Fabio Ambusto, mentre maestro di cavalleria venne eletto

      Publio Elio Peto. Ma essendosi verificata una qualche irregolarità in

      questa nomina, i due vennero rimpiazzati dal dittatore Marco Emilio Papo e

      dal maestro di cavalleria Lucio Valerio Flacco. Neppure questi, tuttavia,

      riuscirono a presiedere le elezioni, e siccome il popolo si dimostrava

      insofferente nei confronti di tutti i magistrati di quell'anno, si ebbe un

      interregno. Interré furono Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, il

      quale proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per

      la seconda volta, che vennero eletti all'unanimità dalla cittadinanza

      perché erano i generali più in vista del periodo.

      

      8 Essi entrarono in carica lo stesso giorno in cui erano stati eletti

      (questa la decisione del senato) e, dopo aver portato a compimento i

      decreti ordinari del senato, misero all'ordine del giorno il dibattito

      sulla pace di Caudio. Publilio, cui quel giorno toccava il potere, disse:

      «Parla, o Spurio Postumio». Questi si alzò in piedi e, con la stessa

      espressione con la quale era andato sotto il giogo, disse: «Non ignoro, o

      consoli, di esser stato chiamato e invitato a parlare per primo non in

      segno di onore ma a titolo di infamia, e non certo in qualità di senatore,

      ma come responsabile di una guerra sventurata e di una pace infamante.

      Tuttavia, dato che non avete messo all'ordine del giorno la discussione

      relativa alla nostra colpevolezza e neppure alla pena da infliggerci,

      tralasciando di difendermi (cosa che non sarebbe troppo difficile di

      fronte a uomini non certo ignari dei casi e delle vicissitudini umane),

      esprimerò in poche parole la mia opinione sulla questione da voi posta

      all'ordine del giorno. E sarà la mia opinione a testimoniare se io abbia

      voluto salvare me stesso o piuttosto le vostre legioni, quando mi sono

      impegnato dando una garanzia tanto ignominiosa quanto necessaria. Nei

      confronti di questa il popolo romano non ha alcun tipo di vincolo, poiché

      essa è stata offerta senza il suo consenso, e in virtù di essa ai Sanniti

      non è dovuto nulla se non le nostre persone. Consegnateci nudi e legati

      tramite i feziali: liberiamo dall'obbligo religioso il popolo, se lo

      abbiamo vincolato in qualche modo, affinché non vi sia alcuno scrupolo

      divino o umano che impedisca di ricominciare da capo una guerra giusta e

      sacrosanta. Propongo che nel frattempo i consoli arruolino un nuovo

      esercito, lo armino e lo guidino fuori dalla città, senza entrare però in

      territorio nemico prima che siano state messe in pratica tutte le

      operazioni necessarie per la nostra consegna. Io invoco e supplico voi, o

      dèi immortali: se non avete voluto che i consoli Spurio Postumio e Tito

      Veturio conducessero con successo la guerra contro i Sanniti, almeno

      accontentatevi di averci visti andare sotto il giogo, di averci visti

      vincolati da una promessa umiliante, consegnati nudi e legati al nemico,

      pronti a ricevere sui nostri corpi tutta l'ira dei nemici. Fate sì che i

      nuovi consoli e le legioni romane combattano la guerra contro i Sanniti

      nello stesso modo in cui sono state combattute tutte le guerre precedenti

      al nostro consolato».

      Non appena ebbe pronunciato queste parole, i presenti furono presi,

      insieme, da una tale ammirazione e compassione verso quell'uomo, che da

      una parte stentavano a convincersi che egli fosse quello stesso Spurio

      Postumio che aveva firmato una pace tanto vergognosa, e dall'altra

      provavano pena al pensiero che una simile personalità dovesse sopportare

      il più crudele supplizio da parte dei nemici risentiti per la rottura

      della pace. Mentre l'intera assemblea non aveva che parole di elogio per

      quell'eroe e ne approvava la proposta, tentarono per qualche tempo di

      porre il proprio veto i tribuni della plebe Lucio Livio e Quinto Melio, i

      quali sostenevano che la consegna dei due ex consoli non poteva liberare

      il popolo dall'obbligo religioso, a meno che ai Sanniti non venisse

      restituita ogni cosa nello stato in cui si trovava a Caudio. Aggiungevano

      di non meritare alcuna pena per il fatto di aver salvato l'esercito del

      popolo romano offrendo le proprie persone come garanzia alla pace, e

      infine di non poter essere consegnati ai nemici né sottoposti a violenza,

      vista la loro caratteristica di inviolabilità.

      

      9 Allora Postumio disse: «Intanto cominciate col restituire noi che non

      siamo sacri, ciò che potete fare, senza violare i principi della

      religione. Poi consegnerete anche costoro che sono inviolabili, non appena

      avranno esaurito il loro mandato. Se però mi ascoltate, prima di

      restituirli, fateli bastonare qui nell'assemblea, in modo tale che paghino

      l'interesse dovuto per il ritardo con cui viene loro inflitta la pena.

      Perché la loro tesi - e cioè che con la nostra consegna il popolo non sarà

      liberato dai vincoli della religione - essi la sostengono più per non

      essere consegnati che per la reale situazione in atto: chi infatti ha così

      poca esperienza in materia di diritto feziale, da non rendersene conto? Io

      non voglio negare, o senatori, che tanto le garanzie quanto i trattati

      sono ritenuti sacri da chi rispetta la parola come un sacro vincolo

      religioso. Nego però che senza l'autorizzazione del popolo sia possibile

      sancire alcun atto che vincoli il popolo stesso. Ma se i Sanniti ci

      avessero costretti a pronunciare la formula di rito per la consegna della

      città con la stessa violenza con la quale ci hanno estorto questa

      promessa, voi, o tribuni, direste che il popolo romano si è rimesso nelle

      mani dei nemici e che questa città, i templi, i santuari, i campi e le

      acque sono di proprietà dei Sanniti? Lasciamo pure da parte la questione

      della resa, visto che si tratta di una garanzia personale: ma che dire se

      avessimo garantito che il popolo romano avrebbe abbandonato questa città?

      Che l'avrebbe incendiata? Che non avrebbe più goduto di magistrati, di un

      senato e di leggi? Che si sarebbe piegata a una monarchia? "Che gli dèi

      tengano lontano da noi cose di quel genere", direte voi. Eppure non è

      l'enormità delle condizioni poste che può eliminare il vincolo della

      garanzia: se esiste qualcosa cui un popolo può essere vincolato, allora lo

      sarà per qualunque cosa. Ma nemmeno questo argomento - che forse potrebbe

      toccare la sensibilità di qualcuno - ha un qualche peso: e cioè che a

      offrire la garanzia sia stato un console, un dittatore oppure un pretore.

      Anche i Sanniti hanno giudicato in questo modo, visto che non si sono

      accontentati dell'idea che a fare da garanti fossero solo i consoli, ma

      hanno costretto a prestare garanzia anche i luogotenenti, i questori e i

      tribuni militari.

      Che adesso nessuno mi venga a chiedere perché ho offerto questa garanzia,

      visto che la cosa non rientrava nelle competenze del console, né io potevo

      garantire ai nemici una pace che non dipendesse dalla mia volontà, e tanto

      meno a nome vostro, siccome non mi avevate affidato alcun tipo di

      incarico. A Caudio nulla è dipeso dalle decisioni degli uomini: sono stati

      gli dèi a privare del senno i vostri generali e quelli del nemico. Se noi

      non ci siamo cautelati a dovere in quella guerra, loro invece hanno

      sperperato in malo modo una vittoria ottenuta malamente, ora fidandosi

      poco del luogo grazie al quale avevano avuto la meglio, ora lasciandosi

      prendere dalla fretta di disarmare a qualunque costo degli uomini nati per

      le armi. Ma se fossero stati assennati, sarebbe forse stato difficile per

      loro - mentre convocavano dalla patria gli anziani per averne un parere -

      inviare ambasciatori a Roma e trattare della pace e delle relative

      condizioni col senato e col popolo? A inviati veloci sarebbero bastati tre

      giorni di marcia, mentre nel frattempo si sarebbe potuta fissare una

      tregua, nell'attesa che rientrassero da Roma gli ambasciatori ad

      annunciare la vittoria sicura o la pace. Questa sì che sarebbe stata una

      garanzia, quella che noi avessimo garantito su mandato del popolo. Ma una

      pace così né voi l'avreste accettata, né noi l'avremmo garantita, ed è

      stato per volere del cielo che le cose non sono andate diversamente: e

      cioè che i Sanniti si lasciassero ingannare da un sogno troppo bello

      perché le loro menti arrivassero a rendersene conto, che il nostro

      esercito venisse salvato da quella stessa sorte che prima l'aveva

      avversato, che una vittoria vana fosse vanificata da una pace ancora più

      vana, e che venisse offerta una garanzia che non vincolava nessuno tranne

      chi se n'era fatto garante. E infatti, o senatori, cos'è stato trattato

      con voi, cosa col popolo romano? Chi può chiamarvi in causa, chi può

      sostenere di essere stato ingannato da voi? I nemici o i concittadini? Ai

      nemici non avete garantito nulla, né avete ordinato ad alcun cittadino di

      offrire una garanzia a nome vostro. Per questo non avete alcun tipo di

      obbligo né verso di noi, cui non avete ordinato nulla, né verso i Sanniti,

      con i quali non avete trattato nulla. Di fronte ai Sanniti i garanti siamo

      noi, responsabili e nella posizione di poter offrire soddisfazione per

      quel che siamo in grado di offrire, ovvero i nostri corpi e le nostre

      menti: è contro di questi che devono infierire, contro di questi che

      devono rivolgere le loro spade e la loro rabbia. Per quel che poi concerne

      i tribuni, stabilite voi se la loro consegna si possa effettuare sùbito, o

      la si debba differire ad altra data. Nel frattempo noi, o Tito Veturio e

      voi altri, offriamo queste nostre povere persone come soddisfazione della

      garanzia data, e liberiamo le armi romane con la pena inflittaci».

      

      10 A convincere i senatori furono sia la validità degli argomenti portati,

      sia l'autorevolezza della persona in questione. E non soltanto si

      persuasero tutti gli altri, ma anche i tribuni, al punto di dichiararsi

      disposti ad assecondare l'autorità del senato. Perciò rinunciarono

      immediatamente alla carica e vennero affidati ai feziali insieme agli

      altri per essere condotti a Caudio. Una volta presa questa decisione da

      parte del senato, sembrò che su Roma risplendesse una nuova luce. Postumio

      era sulla bocca di tutti: lo innalzavano al cielo a forza di elogi, mentre

      il suo gesto veniva paragonato al sacrificio del console Publio Decio e ad

      altre imprese di vaglio: la gente sosteneva che Roma si era sottratta a

      una pace umiliante grazie al suo acume e al suo operato. Si offriva

      spontaneamente alle vessazioni e al risentimento dei nemici, immolandosi

      come capro espiatorio per il popolo romano. Tutti pensavano solo alle armi

      e alla guerra: non sarebbe quindi mai arrivata l'occasione di affrontare i

      Sanniti con le armi in pugno?

      Nella città infiammata dalla rabbia e dal risentimento venne arruolato un

      esercito composto quasi esclusivamente di volontari. Con gli stessi

      effettivi di prima vennero messe insieme nuove legioni, e l'esercito fu

      condotto nei pressi di Caudio. I feziali vennero mandati avanti: una volta

      arrivati alle porte, ordinarono che i garanti della pace venissero

      spogliati e che fossero loro legate le mani dietro la schiena. Dato che un

      attendente, per il rispetto nei confronti del prestigio di Postumio, lo

      legava in maniera troppo fiacca, questi disse: «Che aspetti a stringere la

      corda, così che la consegna sia regolare?». Quando poi giunsero di fronte

      alla folla dei Sanniti e alla tribuna di Ponzio, il feziale Aulo Cornelio

      Arvina pronunciò queste parole: «Siccome questi uomini hanno garantito la

      conclusione di un trattato pur non avendo l'autorizzazione del popolo

      romano dei Quiriti, e proprio per questo si sono macchiati di una colpa,

      di conseguenza, perché il popolo romano sia libero da una colpa

      scellerata, io vi consegno questi uomini». Mentre il feziale pronunciava

      queste parole, Postumio col ginocchio gli colpì la gamba il più forte

      possibile, e ad alta voce gridò di essere cittadino sannita e di aver

      offeso quell'ambasciatore feziale contro il diritto delle genti: per

      questo i Romani avrebbero avuto un più giusto motivo per fare guerra.

      

      11 Allora Ponzio disse: «Né io accetterò questa consegna, né i Sanniti la

      riterranno valida. Perché tu, Spurio Postumio, se credi che gli dèi

      esistano, non consideri nullo l'intero accordo, oppure non ti attieni ai

      patti? Al popolo sannita vanno consegnati quelli che sono stati in suo

      potere, o al posto loro va riconosciuta la pace. Ma perché dovrei

      rivolgermi a te, che ti consegni nelle mani del vincitore, mantenendo, per

      quel che è in tuo potere, la parola data? È al popolo romano che mi

      appello: se è pentito della promessa fatta alle Forche Caudine, allora

      deve riconsegnarci le legioni all'interno della gola dove sono state

      accerchiate. Che nessuno abbia ingannato nessuno: che ogni cosa sia

      considerata come non avvenuta; riprendano le armi consegnate a norma dei

      patti, e si tengano tutto quello che avevano prima di avviare le

      consultazioni: e allora decidano pure per la guerra e per le maniere

      forti, e allora soltanto ripudino la garanzia e la pace. Noi la guerra la

      facciamo attenendoci a quelle condizioni e attestandoci in quelle

      posizioni nelle quali ci trovavamo prima di affrontare l'argomento della

      pace; il popolo romano non si metta quindi a criticare la garanzia data

      dai consoli, e noi evitiamo di lamentarci della mancanza di lealtà

      dimostrata dal popolo romano. Potrà mai mancarvi un pretesto per non

      attenervi ai patti dopo una sconfitta? Avete consegnato degli ostaggi a

      Porsenna, e ve li siete ripresi con l'inganno. Roma l'avete riscattata dai

      Galli a peso d'oro, per poi massacrarli mentre ricevevano l'oro. Con noi

      avete concordato la pace affinché vi restituissimo le legioni cadute

      prigioniere, e adesso quella pace la ritenete priva di valore. E rivestite

      sempre l'inganno con un velo di apparente legalità. Al popolo romano non

      sta bene che l'esercito si sia salvato grazie a una pace infamante? Ma che

      allora si tenga la pace e restituisca al vincitore le legioni che avevamo

      catturato: questo sì che sarebbe in accordo con la lealtà, con i patti e

      coi riti sacri dei feziali. Ma che tu ottenga quanto hai chiesto nei patti

      - ovvero la salvezza di tanti cittadini -, e che io non abbia invece

      quella pace che ho concordato in cambio del rilascio di questi uomini,

      tutto questo tu, o Aulo Cornelio, e voi, o feziali, lo ritenete conforme

      al diritto delle genti?

      Io non accetto né considero consegnati questi soldati che voi fingete di

      consegnare, e non impedisco loro di rientrare nella città vincolata

      dall'adempimento della garanzia, lasciando che ad accompagnarli sia la

      rabbia degli dèi tutti, della cui divinità vi fate beffe. Dichiarateci

      pure guerra, col pretesto che un attimo fa Spurio Postumio ha percosso col

      ginocchio un ambasciatore feziale: così gli dèi penseranno che Postumio

      sia cittadino sannita e non romano, che l'ambasciatore romano sia stato

      offeso da un sannita, e che di conseguenza sia giusta la guerra che ci

      avete dichiarato! Possibile che non proviate vergogna a inscenare questa

      farsa della religione, che uomini avanti con gli anni, già consoli,

      debbano tentare l'inganno con trucchi degni a malapena di bambini?

      Littore, procedi: togli le corde ai Romani, che nessuno impedisca loro di

      andare dove preferiscono». E così i Romani, liberati probabilmente anche

      del vincolo di natura pubblica (visto che dalla promessa personale lo

      erano già di certo), rientrarono da Caudio all'accampamento romano senza

      che nessuno li sfiorasse.

      

      12 I Sanniti, che al posto di una pace imposta con arroganza vedevano

      rinascere una guerra minacciosa, avevano non solo nell'animo ma quasi di

      fronte agli occhi il presentimento di quello che poi accadde. Ed

      elogiavano tardi e invano entrambi i suggerimenti dell'anziano Ponzio,

      perché, caduti com'erano a metà tra l'uno e l'altro, avevano barattato il

      possesso della vittoria con una pace priva di garanzie. Perduta così

      l'occasione di danneggiare il nemico o di arrecargli un beneficio,

      avrebbero dovuto misurarsi con quegli uomini che sarebbe stato loro

      possibile eliminare una volta per tutte come nemici o rendersi amici per

      sempre. E anche se non c'era ancora stata una battaglia in cui una delle

      due parti avesse avuto il sopravvento, dopo la pace di Caudio la

      condizione psicologica era così cambiata, che tra i Romani Postumio si era

      guadagnato più gloria dall'essersi consegnato ai nemici, di quanta non ne

      fosse toccata a Ponzio tra i Sanniti per la vittoria ottenuta senza

      spargimento di sangue. Per i Romani era già una vittoria sicura poter fare

      la guerra, mentre i Sanniti ritenevano che la ripresa della guerra fosse

      per i nemici come aver già avuto la meglio.

      Nel frattempo gli abitanti di Satrico passarono dalla parte dei Sanniti, e

      la colonia di Fregelle venne occupata dai Sanniti durante la notte con

      un'azione a sorpresa (a quanto pare assieme a loro c'erano anche dei

      Satricani). Così fu il timore reciproco a mantenere tranquille entrambe le

      parti fino all'alba. Il sorgere del giorno segnò l'inizio dello scontro,

      sostenuto per parecchio tempo alla pari dagli abitanti di Fregelle, che

      combattevano per i propri altari e focolari; anche la popolazione inerme

      collaborava, dai tetti delle case. La battaglia venne poi decisa da un

      trabocchetto, quando i Sanniti lasciarono risuonare la voce di un araldo

      che proclamava l'incolumità per chi avesse deposto le armi. Questa

      speranza smorzò negli animi la voglia di combattere, e da ogni parte

      iniziarono a gettare a terra le armi. I più ostinati si aprirono la strada

      con le armi attraverso la porta di fronte al nemico, e per loro l'audacia

      fu più sicura di quanto non fosse stata la paura per gli altri che si

      erano incautamente fidati, e che, invocando invano gli dèi e il rispetto

      della parola data, vennero avvolti dalle fiamme e bruciati vivi dai

      Sanniti.

      I consoli si divisero le zone di operazione ricorrendo alla sorte: Papirio

      partì per l'Apulia alla volta di Luceria (dove erano imprigionati i

      cavalieri romani dati in ostaggio a Caudio), mentre Publio si fermò nel

      Sannio per fronteggiare le legioni di Caudio. Questa mossa tenne in

      allarme i Sanniti, che non avevano il coraggio di spingersi fino a Luceria

      per paura che i nemici li inseguissero alle spalle, né di rimanere lì

      fermi, nel timore che Luceria finisse nel frattempo in mano ai Romani.

      L'ipotesi più praticabile sembrò quella di tentare la fortuna e di

      scontrarsi in campo aperto con Publilio. Per questo schierarono l'esercito

      in ordine di battaglia.

      

      13 Quando ormai era sul punto di attaccare battaglia, il console Publilio,

      pensando fosse opportuno rivolgere un appello ai suoi uomini, fece

      convocare l'assemblea. E tutti accorsero in massa con grande entusiasmo

      presso il pretorio, col risultato che il trambusto impedì ai soldati di

      sentire le parole del comandante: ciascuno era già esortato dalla propria

      coscienza, memore dell'umiliazione subita. E così si gettarono nella

      mischia sollecitando i portainsegne e, per non rallentare il combattimento

      lanciando prima i giavellotti e poi sguainando le spade, come avessero

      ricevuto un ordine in proposito, deposero a terra i giavellotti, e con le

      spade in pugno si lanciarono di corsa contro il nemico. In quella

      circostanza non ebbe alcuna incidenza la perizia strategica del comandante

      nel disporre i manipoli e le truppe di riserva, perché tutto fece con

      impeto quasi folle la rabbia dei soldati. Così i nemici non soltanto

      furono sbaragliati, ma non avendo il coraggio di porre fine alla fuga

      nemmeno all'interno dell'accampamento, si diressero in disordine verso

      l'Apulia. Ciò non ostante arrivarono a Luceria con l'esercito di nuovo

      inquadrato e compatto. La stessa rabbia che aveva spinto i Romani in mezzo

      alle fila nemiche li trascinò anche all'interno dell'accampamento. Lì ci

      furono sangue e massacri più ancora che nel pieno dello scontro, e la

      maggior parte del bottino andò distrutta in una mischia rabbiosa.

      L'altro esercito alla guida di Papirio era arrivato fino ad Arpi seguendo

      la costa, dopo esser stato accolto in maniera pacifica da tutte le

      popolazioni incontrate lungo la strada (più per le violenze subite da

      parte dei Sanniti e per il risentimento nei loro confronti che per aver

      ricevuto un qualche beneficio dal popolo romano). Infatti i Sanniti, da

      quel popolo di montanari e contadini che erano, visto che in quel tempo

      abitavano in villaggi sui monti, disprezzavano gli abitanti delle pianure

      in quanto più molli e, come di solito succede, simili alle terre nelle

      quali vivevano. Così molto spesso mettevano a ferro e fuoco le zone della

      pianura e quelle lungo la costa. Se questa area fosse rimasta fedele ai

      Sanniti, l'esercito romano non sarebbe stato in grado di arrivare ad Arpi,

      oppure - impedito di rifornirsi - sarebbe stato messo in ginocchio dalla

      mancanza di viveri. Eppure, anche così, una volta partiti da Arpi alla

      volta di Luceria, tanto gli assedianti quanto gli assediati furono

      afflitti dalla carestia. Ai Romani veniva fornita ogni cosa da Arpi, però

      soltanto in quantità molto ridotta: i cavalieri che dalla città portavano

      all'accampamento il frumento in sacchetti ai soldati impegnati nei servizi

      di guardia e di vigilanza e nei lavori di fortificazione, a volte, quando

      si imbattevano nel nemico, erano costretti ad abbandonare i viveri per

      combattere. Gli assediati invece, prima che arrivasse l'altro console con

      l'esercito vincitore, ricevevano vettovaglie e rinforzi dai monti del

      Sannio. Ma l'arrivo di Publilio rese tutto più difficile, perché - dopo

      aver lasciato al collega il cómpito di occuparsi dell'assedio ed essendo

      libero di girare per le campagne - il console sbarrò tutti gli accessi ai

      rifornimenti dei nemici. E così, siccome gli assediati non avevano alcuna

      speranza di resistere più a lungo alla fame, i Sanniti accampati presso

      Luceria, dopo aver raccolto forze da ogni parte, furono costretti a

      scontrarsi in campo aperto con Papirio.

      

      14 In quel momento, mentre i due schieramenti si preparavano allo scontro,

      da Taranto arrivarono degli ambasciatori che intimarono a Romani e Sanniti

      di rinunciare alla guerra: qualunque delle due parti si fosse opposta alla

      cessazione delle ostilità avrebbe dovuto combattere contro i Tarentini,

      schierati a fianco dell'altra. Udite le parole degli inviati, Papirio,

      fingendo di esserne rimasto turbato, rispose che si sarebbe consultato con

      il collega. Dopo averlo fatto convocare, avendo trascorso con lui tutto il

      tempo nei preparativi della battaglia e aver passato in esame con lui una

      cosa già decisa, diede il segnale di battaglia. Mentre i consoli erano

      impegnati nei sacrifici e nei preparativi che di solito precedono uno

      scontro campale, gli ambasciatori di Taranto si fecero loro incontro

      aspettando una risposta. Papirio replicò con queste parole: «O Tarentini,

      l'addetto ai polli ci fa sapere che gli auspici sono favorevoli. E poi, i

      sacrifici sono stati propizi. Come potete ben vedere, ci buttiamo nella

      mischia sotto la guida degli dèi». Diede così ordine di avanzare e si mise

      alla testa delle truppe, biasimando la superficialità di quelle genti che,

      incapaci com'erano di governarsi a causa delle discordie e dei

      sommovimenti interni, avevano l'ardire di dettare legge agli altri in

      materia di guerra e di pace.

      Dalla parte opposta i Sanniti, che avevano tralasciato ogni preparativo

      bellico - vuoi perché davvero volevano la pace, vuoi perché conveniva loro

      il fingerlo per assicurarsi l'appoggio dei Tarentini -, quando videro che

      i Romani si erano schierati in tutta fretta pronti a dare battaglia,

      urlarono di voler restare agli ordini dei Tarentini e di non avere

      intenzione di scendere in campo né di portare le armi al di là della

      trincea: anche se raggirati, avrebbero sopportato qualunque tipo di

      sciagura, pur di non dare l'impressione di disprezzare le proposte di pace

      dei Tarentini. I consoli dissero di accogliere quelle dichiarazioni come

      un augurio, e di pregare gli dèi affinché ispirassero ai nemici il

      proposito di non difendere nemmeno la trincea. Dopo essersi divisi le

      truppe tra di loro, si avvicinano ai dispositivi di difesa del nemico e li

      assalgono contemporaneamente da ogni punto: e mentre alcuni riempivano il

      fossato e altri sradicavano la trincea fortificata gettandola nel fossato,

      poiché non solo il valore innato ma anche il risentimento stimolava gli

      animi esacerbati dall'umiliazione, i Romani irruppero all'interno del

      campo nemico. Ciascuno ricordava di non avere di fronte a sé né le Forche

      né le gole impraticabili di Caudio, dove cioè l'inganno aveva avuto

      superbamente la meglio sull'errore, ma solo il valore romano che né la

      trincea né il fossato riuscivano a trattenere: massacrarono senza

      distinzione chi opponeva resistenza e chi si dava alla fuga, inermi e

      armati, schiavi e liberi, bambini e adolescenti, uomini e bestie. E non

      sarebbe sopravvissuto nessun essere vivente, se i consoli non avessero

      fatto suonare la ritirata, e non avessero spinto via a forza, con ordini

      carichi di minacce, gli uomini assetati di sangue. E ai soldati inferociti

      per l'interruzione imposta al piacere della vendetta i consoli tennero

      immediatamente un discorso, per ricordare loro che essi non erano né

      sarebbero stati secondi a nessuno dei soldati quanto a odio nei confronti

      dei nemici: anzi, come li avevano guidati in guerra, così li avrebbero

      portati a una vendetta senza pietà, se il pensiero dei 600 cavalieri

      tenuti in ostaggio a Luceria non avesse frenato la loro animosità, per

      paura che i nemici, non avendo più speranze di poter essere perdonati, si

      lasciassero trascinare ciecamente a uccidere i prigionieri, scegliendo

      così di annientare prima di essere annientati. I soldati salutarono queste

      parole con un applauso, soddisfatti che i loro animi impetuosi avessero

      trovato un freno, e si dissero pronti ad affrontare qualunque tipo di

      sofferenza, pur di evitare che venisse compromessa la salvezza di tanti

      nobili giovani romani.

      

      15 Tolta l'assemblea, venne convocato un consiglio per stabilire se si

      dovesse aggredire Luceria con tutte le forze, oppure inviare nei dintorni

      uno degli eserciti consolari col comandante al fine di sondare le

      intenzioni degli Apuli, la cui posizione era ancora incerta. Il console

      Publilio, partito per una missione di perlustrazione attraverso l'Apulia,

      con una sola spedizione sottomise alcune popolazioni con l'uso della

      forza, mentre altre le accolse con patti all'interno della coalizione

      romana. Anche per Papirio, che si era fermato ad assediare Luceria,

      l'esito degli eventi fu in breve commisurato alle speranze. Infatti, dato

      che tutte le strade attraverso le quali arrivavano i rifornimenti dal

      Sannio erano bloccate, i Sanniti che erano di guarnigione a Luceria, vinti

      dalla fame, inviarono degli ambasciatori al console romano, invitandolo ad

      abbandonare l'assedio, una volta riavuti i cavalieri che erano la causa

      del conflitto. Papirio rispose loro che, circa il trattamento da

      riservarsi agli sconfitti, avrebbero dovuto andare a consultarsi con

      Ponzio figlio di Erennio, l'uomo che li aveva convinti a far passare i

      Romani sotto il giogo. Ma visto che preferivano farsi imporre delle

      condizioni giuste dai nemici piuttosto che proporne essi stessi, ordinò di

      comunicare a Luceria che venissero lasciati all'interno delle mura le

      armi, i bagagli, le bestie da trasporto e l'intera popolazione civile.

      Quanto ai soldati, li avrebbe fatti passare sotto il giogo con un solo

      indumento addosso, più per vendicare l'umiliazione subita che per

      infliggerne una nuova. Non venne respinta alcuna delle condizioni. A

      passare sotto il giogo furono in 7.000 soldati, mentre a Luceria venne

      rastrellato un ingente bottino. Tutte le insegne e le armi perdute a

      Caudio vennero riprese , e - gioia questa superiore a ogni altra - furono

      recuperati i cavalieri consegnati dai Sanniti affinché venissero custoditi

      a Luceria come pegno di pace. Con quell'improvviso ribaltamento di fatti,

      nessuna vittoria del popolo romano fu più splendida, e ancor di più se poi

      è vero quanto ho trovato presso alcuni annalisti, e cioè che Ponzio figlio

      di Erennio, comandante in capo dei Sanniti, venne fatto passare sotto il

      giogo insieme agli altri, affinché espiasse l'umiliazione inflitta ai

      consoli.

      Il fatto che non sia certo se anche il comandante nemico sia stato

      consegnato e fatto passare sotto il giogo non mi sorprende troppo: è molto

      strano invece che persistano incertezze se quella campagna a Caudio e

      quindi a Luceria l'abbia condotta il dittatore Lucio Cornelio con Lucio

      Papirio Cursore in qualità di maestro di cavalleria, e Lucio Cornelio

      abbia trionfato, unico vendicatore dell'ignominia inflitta ai Romani, con

      il trionfo che ritengo probabilmente il più giusto fino a quei giorni dai

      tempi di Furio Camillo, oppure se quell'onore sia da ascrivere ai consoli

      e in particolare a Papirio. Ma a questo dubbio ne tiene dietro un altro:

      se cioè nelle successive elezioni sia stato eletto console per la terza

      volta Papirio Cursore (insieme a Quinto Aulo Cerretano console per la

      seconda volta), a séguito di un rinnovamento della carica per la vittoria

      ottenuta a Luceria, oppure Lucio Papirio Mugillano, e l'errore si sia

      verificato nella trascrizione del nome.

      

      16 In séguito ci si trovò d'accordo nell'affermare che le restanti

      operazioni belliche erano state portate a compimento dai consoli. Con la

      vittoria in un'unica battaglia, Aulo pose fine alla guerra coi Ferentani e

      accettò la resa della loro città, dove era andato a rifugiarsi l'esercito

      sbaragliato, imponendo la consegna di ostaggi. Stessa sorte ebbe la

      campagna condotta dall'altro console contro i Satricani, i quali, non

      ostante fossero cittadini romani, dopo la disfatta di Caudio erano passati

      dalla parte dei Sanniti, e ne avevano accolto un presidio armato in città.

      Quando l'esercito arrivò nei pressi delle mura di Satrico, dalla città

      arrivarono degli ambasciatori con supplichevoli richieste di pace. Il

      console però rispose con durezza che non tornassero da lui se non dopo

      aver fatto a pezzi o consegnato il presidio dei Sanniti. Queste parole

      spaventarono i coloni più di un attacco armato. Perciò gli ambasciatori

      tornarono immediatamente dal console per chiedergli in che modo ritenesse

      che loro, deboli e sparuti com'erano, avrebbero potuto sopraffare un

      presidio tanto forte e armato. Allora il console ingiunse loro di andare a

      farsi consigliare da quelle stesse persone che li avevano spinti ad

      accettare il presidio in città. Poi, dopo aver a malapena ottenuto di

      poter consultare il senato sulla questione e quindi di riferire la

      risposta al console, si congedarono rientrando in città. All'interno del

      senato c'erano due opposte fazioni: alla testa di una di esse c'erano

      quanti avevano suggerito la defezione da Roma, a capo dell'altra c'erano

      invece i cittadini rimasti fedeli. Ciò non ostante, pur di tornare alla

      pace, entrambi gli schieramenti fecero a gara nel dimostrarsi premurosi

      verso il console. Siccome il presidio sannita aveva intenzione di uscire

      nel corso della notte successiva (non essendo in grado di sostenere un

      assedio), una delle due fazioni non fece altro che informare il console a

      quale ora della notte e per quale porta e strada il nemico sarebbe uscito.

      L'altro partito invece - quello che si era opposto alla defezione dalla

      parte dei Sanniti -, nel corso della stessa notte aprì le porte al console

      e, senza farsi accorgere dal nemico, accolse in città i soldati romani.

      Così, grazie a questo doppio tradimento, il presidio armato dei Sanniti fu

      sorpreso e sopraffatto dai Romani che si erano andati ad appostare in una

      fitta macchia lungo la strada, mentre in città si alzò alto il grido dei

      soldati che vi erano penetrati. Nell'arco di un'ora i Sanniti furono

      sbaragliati e Satrico occupata, e ogni cosa finì in potere del console:

      istruita un'inchiesta sulle responsabilità dell'ammutinamento, fece

      frustare e decapitare quanti vennero riconosciuti colpevoli e, dopo aver

      imposto una forte guarnigione armata in città, fece disarmare i Sanniti.

      Gli autori che sostengono che Luceria venne riconquistata e i Sanniti

      fatti passare sotto il giogo da Papirio Cursore, riportano che dopo quei

      fatti Papirio rientrò a Roma per celebrarvi il trionfo. Papirio fu uomo

      degno di ogni elogio sul piano militare, eccezionale non solo per la

      tempra interiore, ma anche per la prestanza fisica. Era straordinariamente

      veloce di gambe, qualità questa che gli valse il soprannome di Cursore, e

      si dice che ai suoi tempi nessuno riuscisse a superarlo nella corsa, sia

      per la grande forza fisica, sia per il notevole allenamento. Oltre a

      questa caratteristica, era un mangiatore e un bevitore formidabile.

      Durante il suo mandato, tanto per i fanti quanto per i cavalieri il

      servizio militare era duro come non lo era mai stato agli ordini di nessun

      altro, visto che egli stesso aveva un fisico contro il quale nulla poteva

      la fatica: ad alcuni cavalieri che un giorno avevano avuto il coraggio di

      chiedergli l'esenzione da un servizio come ricompensa a un'azione ben

      condotta, rispose: «Perché non possiate dire che non vi abbia esentati da

      alcunché, vi esimo dall'accarezzare il dorso dei cavalli quando scenderete

      di sella». Il suo prestigio era grandissimo sia presso gli alleati sia

      presso i concittadini. Una volta il comandante del contingente di Preneste

      aveva per paura tardato a portare i suoi uomini dalle retrovie alla prima

      linea: il console, passeggiando di fronte alla sua tenda, lo fece chiamare

      fuori e poi diede ordine al littore di slegare la scure. Siccome il

      prenestino, sentendo queste parole, era mezzo morto dallo spavento,

      Papirio disse: «Avanti, o littore, taglia questa radice che dà fastidio a

      chi passeggia», e quindi lasciò libero l'ufficiale alleato che era in

      preda al panico per paura di una condanna a morte, non andando al di là

      dell'imposizione di un'ammenda in denaro. E senza dubbio in quel periodo,

      che fu ricco di valori più di ogni altro, non c'era nessun altro uomo su

      cui la potenza di Roma potesse poggiare in maniera più sicura. Alcuni

      sostengono addirittura che Papirio sarebbe stato un generale degno di

      tenere testa ad Alessandro Magno, se solo quest'ultimo, una volta

      sottomessa l'Asia, avesse rivolto i suoi eserciti contro l'Europa.

      

      17 Si potrebbe rilevare che sin dall'inizio di quest'opera non ho cercato

      di evitare niente con tanta attenzione quanto il discostarmi da una

      trattazione ordinata degli eventi, e il cercare motivi di piacevole svago

      per i lettori e un po' di riposo per la mia mente infarcendo questa

      ricerca storica con amene digressioni. Ciò non ostante, l'aver menzionato

      un re e un generale tanto grande, mi riporta a considerazioni che tante

      volte ho fatto tra me e me, e non mi spiace ora valutare quale sarebbe

      stata la sorte della potenza romana se si fosse scontrata con Alessandro.

      In guerra gli elementi che sembrano avere maggior peso sono il numero

      degli effettivi e il loro valore, il talento dei generali, e la sorte, il

      cui potere è grandissimo nelle cose degli uomini, e soprattutto nelle

      guerre. Esaminando questi fattori - presi sia uno per uno sia nella loro

      globalità -, emerge con evidente chiarezza che Roma, come non fu

      sottomessa da altri re e da altri popoli, allo stesso modo non lo sarebbe

      stata nemmeno da questo monarca. Innanzitutto, partendo da un confronto

      tra i due generali, non posso certo negare che Alessandro sia stato un

      grande condottiero. Ma la sua gloria è ulteriormente accresciuta dal fatto

      di essere stato da solo al comando, e di essere morto giovane, nel momento

      culminante della sua potenza, senza aver ancora sperimentato i rovesci del

      destino. Tralasciando altri celebri sovrani e generali (illustri esempi

      dei casi umani), che cosa fece sì che fossero in balia della sorte Ciro,

      tanto celebrato dai Greci, e di recente Pompeo Magno se non la loro lunga

      vita? Dovrei elencare i generali romani (e non tutti quelli di ogni

      epoca), ma soltanto quelli, dittatori o consoli, contro i quali avrebbe

      potuto combattere Alessandro, e cioè Marco Valerio Corvo, Gaio Marcio

      Rutilo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio Torquato, Quinto Publilio Filone, Lucio

      Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo, i due Deci, Lucio Volumnio, Manio

      Curio? A questi uomini ne seguirebbero altri famosi, se solo Alessandro

      avesse anteposto la guerra contro Cartagine a quella contro Roma, e fosse

      passato in Italia una volta raggiunta un'età più avanzata. Ciascuno di

      questi uomini era naturalmente dotato di coraggio e di capacità pari ad

      Alessandro, inoltre tutti avevano una competenza militare trasmessa di

      mano in mano fin dalle origini di Roma, e giunta a essere una scienza

      regolata da norme fisse. Così i re avevano combattuto le loro guerre, e

      così quelli che li avevano cacciati, i Giunii e i Valerii, così in séguito

      i Fabii, i Quinzi e i Cornelii, così Furio Camillo, che era già avanti

      negli anni agli occhi di quegli uomini che, nel pieno della loro

      giovinezza, avrebbero avuto in sorte il cómpito di affrontare Alessandro.

      Per quel che concerne le capacità dimostrate da Alessandro nell'affrontare

      il combattimento (caratteristica questa che accresce ancor di più il suo

      prestigio), se mai avessero dovuto affrontarlo in duello, avrebbero di

      conseguenza avuto la peggio Manlio Torquato o Valerio Corvo, famosi prima

      ancora come guerrieri che come generali, avrebbero avuto la peggio i Deci

      che, avendo offerto in voto i propri corpi, si lanciarono nel fitto delle

      file nemiche, avrebbe avuto la peggio Papirio Cursore, forte nel fisico e

      nello spirito com'era? Per non fare i nomi a uno a uno, la saggezza di un

      solo giovane avrebbe piegato quel senato la cui essenza fu colta dall'uomo

      che lo definì composto di re? Questa è la sola cosa che si sarebbe dovuta

      temere: cioè che Alessandro fosse in grado di scegliere, con maggiore

      accortezza di uno qualsiasi dei personaggi sopramenzionati, il punto in

      cui piazzare il campo, come preparare i rifornimenti, come evitare gli

      agguati, come scegliere il momento opportuno per attaccare battaglia, come

      schierare le truppe e come consolidarne la struttura con gli uomini di

      riserva! Avrebbe detto di non aver più a che fare con Dario che,

      trascinandosi dietro un esercito fatto di donne e di enuchi, appesantito

      dall'oro e dalla porpora (segni tangibili della sua condizione), più

      vicino allo stato di preda che non a quello di nemico, era stato vinto

      senza spargimento di sangue, e senza che Alessandro avesse alcun altro

      merito se non il coraggio di trattare con disprezzo tutta quella vana

      ostentazione. L'Italia gli avrebbe fatto un'impressione del tutto diversa

      dall'India, attraverso la quale avanzò tra una crapula e l'altra con un

      esercito di avvinazzati, non appena avesse visto i passi dell'Apulia e le

      montagne della Lucania e le tracce della recente disfatta subita in

      famiglia, nel punto in cui poco tempo prima aveva trovato la morte lo zio

      materno, Alessandro re dell'Epiro.

      

      18 E stiamo parlando di un Alessandro non ancora sommerso dall'eccesso di

      fortuna, che mai nessuno seppe reggere in maniera meno decisa di lui. Se

      poi ci mettiamo a giudicarlo per il comportamento tenuto nella nuova sorte

      e per il nuovo modo di essere di cui, per così dire, si rivestì dopo aver

      trionfato, se ne può dedurre che in Italia sarebbe arrivato più simile a

      Dario che ad Alessandro, trascinando un esercito che ormai non aveva più

      memoria della Macedonia ed era precipitato nella degenerazione morale dei

      Persiani. Dispiace dover menzionare in un sovrano tanto grande l'arrogante

      trasformazione di costumi e modi di vita e la volontà di farsi adulare dai

      sudditi in ginocchio (cosa questa difficile da tollerare per dei vinti,

      figurarsi poi per i Macedoni reduci da tanti trionfi), le vergognose

      condanne a morte e le uccisioni di amici nel pieno della sbronza durante i

      banchetti, e il vezzo di attribuirsi falsi alberi genealogici. E cosa dire

      poi della passione per il bere che giorno dopo giorno cresceva sempre di

      più? E della sua ira truce e cieca (e qui non sto certo a parlare di cose

      che siano in dubbio tra gli storici)? Bisogna forse pensare che tutti

      questi difetti non danneggino le qualità di un generale? Il pericolo era

      proprio questo - come più volte ripetono gli storici greci meno

      affidabili, loro che arrivano a esaltare il valore dei Parti per odio

      verso Roma -, e cioè che il popolo romano non fosse in grado di sostenere

      l'altisonante nome di Alessandro (che in realtà ho l'impressione non

      conoscessero neppure per sentito dire), e che l'uomo contro il quale gli

      Ateniesi avevano avuto il coraggio di parlare a viso aperto in assemblea,

      come risulta dalle orazioni, non ostante si trovassero in una città

      piegata dalle armi macedoni, e che proprio in quel momento vedeva quasi

      ancora fumare le rovine di Tebe, possibile che nessuno di tutti quegli

      illustri uomini politici romani avrebbe osato attaccarlo verbalmente in

      piena libertà?

      Per quanto grande possa a noi sembrare la statura di quell'uomo, ciò non

      ostante la sua sarà pur sempre la grandezza di un unico individuo,

      concentrata in poco più di dieci anni di buona sorte. Quanti la esaltano,

      sostenendo che il popolo romano, pur non avendo perduto alcuna guerra, è

      stato tuttavia vinto in molte battaglie, là dove invece per Alessandro

      nessuna battaglia ebbe esito sfortunato, non si rendono conto di

      confrontare le imprese di un solo individuo (per di più giovane) con

      quelle di un popolo che guerre ne combatte da ormai ottocento anni.

      Dovremmo forse stupirci se, essendo da una parte il numero delle

      generazioni superiore agli anni dell'altra, ci siano stati più

      rivolgimenti del destino in uno spazio di tempo tanto lungo che nell'arco

      di tredici anni? Perché mai non mettere a confronto la fortuna di un

      individuo con quella di un altro individuo, di un generale con quella di

      un altro generale? Quanti comandanti romani potrei menzionare, per i quali

      l'esito della battaglia non fu mai sfavorevole? Basta scorrere gli annali

      e i fasti dei magistrati per trovare i nomi di consoli e di dittatori

      dotati di capacità e con successi ottenuti dei quali il popolo romano non

      dovette mai dispiacersi. E, ciò che li rende più apprezzabili di

      Alessandro o di qualsiasi altro sovrano, il fatto che alcuni di essi

      detennero la dittatura per dieci o venti giorni, e nessuno il consolato

      per un periodo più lungo di un anno. I tribuni della plebe ostacolavano

      l'esecuzione delle leve militari, ed essi dovevano partire per il fronte

      in ritardo, e venivano richiamati prima del mandato per presiedere le

      elezioni. L'anno di carica scadeva esattamente nel momento di massimo

      sforzo, e spesso l'imprudenza del collega o la sua cattiva disposizione

      erano di ostacolo, arrivando a produrre anche danni. Avevano il cómpito di

      condurre una campagna avviata malamente da altri, e si ritrovavano con un

      esercito di reclute o di soldati privi di disciplina. Invece, per Ercole,

      i re non sono soltanto liberi da qualunque condizionamento ma, padroni

      degli eventi e del proprio tempo, non vanno dietro passivamente alle cose

      che accadono, ma le governano piegandole alle loro idee. Di conseguenza

      Alessandro si sarebbe scontrato con dei generali che non avevano

      conosciuto la sconfitta, mettendo sulla bilancia le stesse garanzie del

      destino. Anzi, avrebbe rischiato di più, per il fatto che i Macedoni

      avevano un solo Alessandro, che non era solamente esposto a molteplici

      pericoli ma vi si esponeva spontaneamente, mentre tra i Romani erano molti

      gli uomini pari ad Alessandro per gloria e imprese, e ciascuno di essi

      avrebbe potuto, a seconda del proprio destino, vivere o morire senza

      esporre lo Stato ad alcun rischio.

      

      19 Restano da confrontare le forze messe in campo dalle due parti: il

      numero e la qualità degli uomini, l'entità dei contingenti ausiliari. Nei

      censimenti di quell'epoca i cittadini romani ammontavano a 250.000 unità:

      di conseguenza, anche nell'eventualità che tutti gli alleati latini si

      fossero dissociati in massa, la sola leva dei cittadini romani avrebbe

      permesso l'arruolamento di dieci legioni. In quegli anni spesso accadeva

      che partissero per il fronte quattro o cinque eserciti per volta, in

      Etruria, in Umbria (dove ai nemici si erano aggiunti i Galli), nel Sannio

      e in Lucania. In séguito, in tutto il Lazio, con i Sabini, i Volsci, gli

      Equi, nell'intera Campania, in parte dell'Umbria e dell'Etruria, tra i

      Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini e gli Apuli, e lungo tutta la costa

      tirrenica abitata da Greci, da Turi fino a Napoli e Cuma e di lì fino ad

      Anzio e Ostia, Alessandro avrebbe trovato validi alleati oppure nemici già

      sconfitti in guerra. Quanto a lui, avrebbe attraversato il mare coi

      veterani macedoni (non più di 30.000 uomini) e con 4.000 cavalieri,

      provenienti per buona parte dalla Tessaglia. Era infatti questo il meglio

      delle sue truppe. Se invece avesse portato con sé anche i Persiani, gli

      abitanti dell'India e altre popolazioni, si sarebbe trascinato dietro un

      fastidio più che un valido supporto.

      Si aggiunga poi a tutto ciò il fatto che i Romani avevano a portata di

      mano dei riservisti da richiamare in servizio, mentre Alessandro,

      combattendo in territorio nemico, avrebbe subito la stessa sorte toccata

      in séguito ad Annibale, cioè il progressivo indebolimento dell'esercito

      col passare del tempo. Passiamo, ora, alle armi: i Macedoni avevano il

      clipeo e la sarissa (ovvero l'asta); i Romani lo scudo rettangolare, che

      proteggeva meglio la figura, e il giavellotto, ovvero un'arma da lancio

      capace di colpire con più precisione dell'asta. Erano entrambi, Macedone e

      Romano, soldati di posizione, abituati a mantenere il proprio posto nello

      schieramento, ma la falange macedone era poco mobile e compatta, mentre la

      legione romana risultava più articolata, composta di varie parti e non

      aveva difficoltà a doversi eventualmente dividere o ricomporre a seconda

      del bisogno. E poi, chi era il soldato che potesse stare alla pari col

      Romano nel campo dei lavori di fortificazione? Chi era più adatto a

      sopportare le fatiche? Se Alessandro fosse stato sconfitto in un'unica

      battaglia, avrebbe perso la guerra: quale armata avrebbe potuto piegare i

      Romani, che non erano stati annientati dagli eventi di Caudio o di Canne?

      Se avesse riportato delle vittorie anche solo all'inizio, avrebbe

      rimpianto le spedizioni contro i Persiani, gli Indiani e l'imbelle Asia, e

      avrebbe affermato di aver combattuto fino a quel momento contro delle

      femminucce (come pare abbia detto Alessandro re dell'Epiro, ferito a

      morte, paragonando i successi nelle guerre combattute dal giovane re con

      le sue).

      A dir la verità, quando penso che nel corso della prima guerra punica i

      Romani combatterono ventiquattro anni di battaglie navali contro i

      Cartaginesi, mi sembra che la vita di Alessandro sarebbe bastata a stento

      per portare a termine quella sola guerra. E siccome Cartagine era unita a

      Roma da un antico trattato di alleanza, è probabile che il timore avrebbe

      portato a prendere insieme le armi contro il comune nemico le due città

      più potenti per armamenti e per uomini, e Alessandro sarebbe stato

      schiacciato dalle forze congiunte dei Cartaginesi e dei Romani. Anche se i

      Macedoni non erano più sotto la guida di Alessandro e se la loro forza non

      era più integra, i Romani ebbero ciò non ostante l'opportunità di

      sperimentare le armi macedoni nei conflitti contro Antioco, Filippo e

      Perseo, non solo senza mai subire sconfitte, ma senza mai correre alcun

      pericolo. Possano le mie parole non essere fraintese e tacciano le guerre

      civili: noi Romani non siamo mai stati messi in difficoltà da nemici a

      cavallo o a piedi, in campo aperto, a parità di posizioni, e tanto meno in

      zone a noi favorevoli. La nostra fanteria pesante può temere la

      cavalleria, le frecce, gli avvallamenti del terreno, i punti dove i

      rifornimenti risultino difficili, ma è perfettamente in grado di

      respingere - e sempre lo sarà - migliaia di eserciti più imponenti di

      quello dei Macedoni e di Alessandro, a patto però che duri per sempre

      l'amore per questa pace nella quale adesso viviamo e la preoccupazione per

      l'armonia nei rapporti tra i cittadini.

      

      20 Vennero in séguito eletti consoli Marco Folio Flaccina e Lucio Plauzio

      Venoce. Nel corso dell'anno numerose popolazioni sannite inviarono

      ambasciatori per rinnovare il trattato di alleanza. Riuscirono a

      commuovere il senato inginocchiandosi a terra, ma, rinviati al cospetto

      del popolo, le loro preghiere non risultarono ugualmente efficaci. Di

      conseguenza venne loro negato il rinnovo: dopo essersi sciolti in

      suppliche ai singoli cittadini, per diversi giorni, ottennero la

      concessione di una tregua biennale. In Apulia anche gli abitanti di Teano

      e di Canusio, ridotti allo stremo dalle devastazioni, si arresero al

      console Lucio Plauzio, accettando di consegnargli ostaggi. Nello stesso

      anno, a Capua, vennero per la prima volta nominati dei prefetti, in base a

      norme stabilite dal pretore Lucio Furio - avevano fatto richiesta dell'uno

      e dell'altro provvedimento gli abitanti stessi di Capua, per rimediare

      alle discordie interne alla città -. A Roma vennero aggiunte due nuove

      tribù, la Ufentina e la Falerna.

      La situazione in Apulia venne decisa una volta per tutte in favore dei

      Romani, e gli Apuli di Teano si presentarono dai nuovi consoli Gaio Giunio

      Bubulco e Quinto Emilio Barbula, con la richiesta di un trattato di

      alleanza, garantendo al popolo romano il mantenimento della pace

      nell'Apulia intera. Dato che offrivano questa coraggiosa garanzia,

      ottennero un trattato di alleanza, le cui condizioni non furono però

      paritarie, ma contemplavano la sovranità del popolo romano. Sottomessa

      l'intera Apulia - Giunio si era infatti impossessato anche di Forento,

      città molto ben fortificata -, si proseguì in direzione della Lucania. Lì

      l'arrivo improvviso del console Emilio permise di prendere con la forza la

      città di Nerulo. Quando tra gli alleati si diffuse la notizia che a Capua

      la situazione era tornata alla normalità grazie all'intervento dei Romani,

      anche gli abitanti di Anzio, i quali si lamentavano di esser costretti a

      governarsi senza leggi sicure e magistrati, ottennero dal senato l'invio

      di patroni col cómpito di promulgare leggi per la colonia stessa. Ormai

      non erano solo le armi di Roma, ma anche le sue leggi ad affermarsi in

      lungo e in largo.

      

      21 Alla fine dell'anno i consoli Gaio Giunio Bubulco e Quinto Emilio

      Barbula consegnarono le legioni non nelle mani dei consoli che essi stessi

      avevano proclamati eletti, e cioè Spurio Nauzio e Marco Popilio, bensì al

      dittatore Lucio Emilio. Quest'ultimo, accintosi insieme al maestro di

      cavalleria Lucio Fulvio ad attaccare Saticula, offrì ai Sanniti un motivo

      pretestuoso per riaprire le ostilità. Per i Romani ne conseguì quindi una

      doppia minaccia: mentre da una parte i Sanniti, dopo aver raccolto un

      grosso esercito, si erano andati ad accampare non lontano dai Romani,

      nell'intento di liberare gli alleati dall'assedio, dall'altra gli abitanti

      di Saticula, aperte all'improvviso le porte, attaccarono violentemente i

      posti di guardia nemici. Così l'una e l'altra parte, confidando più negli

      aiuti altrui che nelle proprie forze, diedero immediato inizio alle

      ostilità e misero in difficoltà i Romani. Ma pur avendo un impegno su due

      fronti, il dittatore riusciva a tenere duro da entrambe le parti, perché

      aveva scelto una posizione difficile da accerchiare, e aveva distribuito i

      suoi manipoli in diverse direzioni. Il grosso delle forze lo concentrò

      però contro gli assediati che avevano dato vita alla sortita, e riuscì a

      ricacciarli tra le mura dopo una lotta non priva di durezze. Poi rivolse

      tutte le sue forze contro i Sanniti. In quel settore la battaglia fu più

      accanita. La vittoria arrivò tardi, ma non fu né incerta né limitata. E i

      Sanniti, dopo essersi rifugiati in disordine all'interno

      dell'accampamento, spenti i fuochi in piena notte, si ritirarono in

      silenzio, e, avendo perso ogni speranza di difendere Saticula, si misero

      ad assediare Plistica, città alleata dei Romani, per restituire al nemico

      un colpo di uguale portata.

      

      22 A fine anno, la guerra fu poi proseguita dal dittatore Quinto Fabio. I

      nuovi consoli, così come i loro predecessori, rimasero a Roma. Fabio

      arrivò a Saticula con rinforzi per prendere in consegna l'esercito da

      Emilio. I Sanniti, infatti, non erano rimasti nei dintorni di Plistica ma,

      fatte arrivare dalla patria delle nuove forze e confidando nella loro

      superiorità numerica, si erano accampati nella stessa posizione di prima,

      e cercavano di distogliere i Romani dall'assedio provocandoli allo

      scontro. E il dittatore, rivoltosi con impeto ancora maggiore contro le

      mura nemiche, convinto che la vera guerra fosse soltanto quella che aveva

      come meta ultima l'espugnazione della città, non dava troppo peso ai

      Sanniti, opponendosi alle loro sortite solo con presidi armati a guardia

      dell'accampamento, per premunirsi di fronte a un'eventuale incursione

      nemica. Per questo i Sanniti cavalcavano tanto più baldanzosi davanti alla

      trincea, senza concedersi un attimo di tregua. E poiché il nemico era

      ormai quasi alle porte del campo, il maestro di cavalleria Quinto Aulio

      Cerretano, senza richiedere il parere del dittatore, utilizzando tutti gli

      squadroni di cavalleria, organizzò un'impetuosa sortita e respinse i

      Sanniti. In quel frangente, in un combattimento che di solito non vede mai

      troppa determinazione, la sorte esercitò il suo potere al punto da mietere

      stragi in entrambi gli schieramenti e causare la morte gloriosa dei

      comandanti stessi. Il capo dei Sanniti per primo, non accettando

      l'eventualità di essere sconfitto e messo in fuga da posizioni occupate

      con tanta ostinazione, pregò e incitò i suoi cavalieri a rituffarsi nella

      mischia. Contro di lui, che si distingueva tra i suoi nel rinnovare la

      battaglia, il maestro di cavalleria romano, la lancia spianata, spronò il

      cavallo con tanta furia da sbalzarlo esanime di sella al primo colpo. Le

      truppe, contrariamente al solito, non furono scoraggiate dalla caduta del

      loro comandante: anzi, si infiammarono. I Sanniti in massa scagliarono le

      loro frecce contro Aulio, che si era spinto imprudentemente in mezzo agli

      squadroni nemici. Fu soprattutto al fratello che gli dèi concessero la

      gloria di vendicarsi del comandante sannita caduto: dopo aver trascinato

      giù dal cavallo il maestro di cavalleria vincitore, lo massacrò col cuore

      gonfio di rabbia e di dolore, e poco mancò che i Sanniti si

      impossessassero anche della salma, finita tra gli squadroni nemici. Ma i

      Romani scesero immediatamente da cavallo e si misero a combattere da

      fanti, costringendo i Sanniti a fare altrettanto. L'improvvisata fanteria

      iniziò il combattimento intorno ai cadaveri dei comandanti. I Romani

      ebbero la meglio, rientrando così in possesso del corpo di Aulio, che

      riportarono vittoriosi all'accampamento, divisi tra il dolore e la gioia.

      I Sanniti, perso il comandante, stremati dalla battaglia a cavallo,

      abbandonarono Saticula, che ormai sembrava inutile difendere, e tornarono

      all'assedio di Plistica. Così, nell'arco di pochi giorni, i Romani presero

      Saticula che si arrese spontaneamente, mentre i Sanniti conquistarono

      Plistica con il ricorso alla forza.

      

      23 In séguito il teatro delle operazioni cambiò: dal Sannio e dall'Apulia

      gli eserciti vennero trasferiti a Sora, città passata ai Sanniti dopo che

      i coloni romani ivi residenti erano stati uccisi. Siccome l'esercito

      romano vi era arrivato per primo a marce forzate nell'intento di vendicare

      l'uccisione dei concittadini e riappropriarsi della colonia, gli

      osservatori disseminati lungo le strade tornarono uno dopo l'altro

      riferendo che le truppe sannite seguivano da presso e si trovavano ormai

      non troppo lontane. I Romani andarono allora incontro al nemico, e a

      Lautule si combatté una battaglia dall'esito incerto. A separare i

      contendenti non furono né le perdite patite, né la fuga di una delle parti

      in causa, quanto piuttosto la notte, che lasciò gli uni e gli altri nel

      dubbio di essere vincitori o vinti. Presso alcuni autori ho trovato che

      l'esito di quella battaglia fu sfavorevole ai Romani e che in essa perse

      la vita il maestro di cavalleria Quinto Aulio. Per rimpiazzare il defunto,

      da Roma giunse con un nuovo esercito il maestro di cavalleria Gaio Fabio,

      il quale mandò avanti messaggeri per chiedere al dittatore un consiglio

      sul luogo appropriato per fermarsi, nonché sul momento e sulla direzione

      dalla quale il nemico avrebbe dovuto essere attaccato. Ottenute tutte le

      informazioni sul piano di battaglia, si attestò in un punto nascosto.

      Il dittatore, dopo aver trattenuto per alcuni giorni dopo la battaglia i

      suoi uomini all'interno della trincea (così da farli sembrare più

      assediati che assedianti), diede all'improvviso il segnale di battaglia, e

      pensando che il più grosso stimolo per gli animi di uomini valorosi fosse

      riporre ogni speranza esclusivamente in se stessi, non rivelò loro

      l'arrivo imminente del maestro di cavalleria insieme al nuovo esercito.

      Come se quella sortita fosse l'unica speranza di salvezza, disse: «O

      soldati, siamo intrappolati in un luogo chiuso, e non abbiamo altra via

      d'uscita se non quella che ci potremo aprire con la vittoria. Il nostro

      accampamento è ben protetto dalle fortificazioni, ma esposto alla mancanza

      di viveri: infatti tutti i paesi dei dintorni che ci potevano far

      pervenire dei rifornimenti si sono ribellati, e se anche potessimo trovare

      aiuto negli esseri umani, a esserci avversi sono i luoghi. Per questo io

      non ho alcuna intenzione di ingannarvi lasciando l'accampamento qui, dove

      vi potreste rifugiare nel caso non vi dovesse arridere la vittoria, come

      successo nei giorni scorsi. Le fortificazioni devono essere protette dalle

      armi, e non le armi dalle fortificazioni. Un accampamento lo tengano e vi

      cerchino scampo quelli che hanno interesse a tirare la guerra per le

      lunghe: noi non dobbiamo considerare altro scampo se non nella vittoria.

      Gettatevi all'assalto del nemico: quando le truppe avranno superato la

      trincea, diano fuoco alle strutture quelli cui sarà stato dato ordine di

      farlo. Soldati, il danno che subirete sarà ricompensato dal bottino

      strappato a tutte le popolazioni dei dintorni che ci hanno tradito». I

      soldati si lanciarono contro i nemici infiammati dal discorso del

      dittatore, che aveva segnalato la gravità estrema del frangente; e anche

      lo scorgere dietro le spalle gli accampamenti in fiamme (benché per ordine

      del dittatore il fuoco fosse stato appiccato soltanto alle tende più

      vicine) fu motivo di forte incitamento. Lanciatisi in avanti come

      forsennati, travolsero al primo urto le file nemiche, e al momento

      opportuno il maestro di cavalleria, quando vide da lontano levarsi le

      fiamme dall'accampamento (era questo il segnale convenuto), assalì il

      nemico alle spalle. Così, presi tra due fronti, i Sanniti si diedero alla

      fuga sparpagliandosi dove meglio ciascuno riusciva, in tutte le direzioni.

      Una grande quantità di nemici, che in preda al terrore si erano

      asserragliati in cerchio e nella calca generale si intralciavano a vicenda

      nei movimenti, venne fatta a pezzi sul posto. L'accampamento nemico venne

      preso e saccheggiato. Il dittatore riportò nel campo romano i soldati

      carichi di bottino, felici sia per la vittoria conseguita sia per aver

      ritrovato intatte le tende contro ogni speranza (fatta eccezione per una

      piccola area danneggiata dall'incendio).

      

      24 Si ritornò poi all'assedio di Sora. E i nuovi consoli Marco Petelio e

      Gaio Sulpicio ricevettero dal dittatore Fabio il comando dell'esercito,

      licenziando gran parte degli effettivi avanti con gli anni e aggiungendo

      al loro posto nuove coorti. Ma poiché per la difficile posizione naturale

      della città non si riusciva a trovare un sistema abbastanza sicuro per

      espugnarla, e la vittoria sembrava restare o troppo in là nel tempo o

      esposta a rischi eccessivi, un disertore di Sora uscito di nascosto dalla

      città e arrivato fino ai posti di guardia romani si fece immediatamente

      portare al cospetto dei consoli, ai quali promise di consegnare la sua

      città nelle loro mani. Alle richieste dei consoli che cercavano di sapere

      in che modo avrebbe potuto garantire l'impresa l'uomo replicò con risposte

      che non lasciavano dubbi; così sembrò che le sue argomentazioni non

      fossero vane parole, e il disertore convinse i Romani a spostare di sei

      miglia dalla città l'accampamento, che adesso era invece quasi attaccato

      alle mura: di giorno la vigilanza delle sentinelle si sarebbe così

      allentata. Lui stesso poi, nel corso della notte successiva, dopo che ad

      alcune coorti venne data disposizione di attestarsi in un bosco sotto la

      città, attraverso sentieri impervi e quasi inaccessibili portò con sé

      dieci soldati romani sulla rocca, dove aveva raccolto un numero di aste di

      gran lunga superiore alle necessità di quel manipolo. C'erano anche

      parecchi sassi, parte dei quali si trovavano lì per ragioni naturali (come

      sempre nei luoghi dirupati), mentre parte erano stati ammucchiati

      intenzionalmente dagli assediati, nell'intento di rendere più sicura la

      postazione.

      L'uomo portò in quel punto i Romani, e indicando loro un sentiero stretto

      e scosceso che dalla città saliva fin sulla rocca disse: «Basterebbero

      anche solo tre uomini armati per impedire la salita all'esercito più

      massiccio: voi siete in dieci e - ciò che più conta - siete Romani, e tra

      i Romani siete anche i guerrieri più forti. Dalla vostra parte avrete la

      posizione e la notte, che nell'incertezza fa apparire più grosso qualunque

      pericolo a chi già sia spaventato. Io adesso farò in modo di seminare il

      panico ovunque: voi limitatevi a tenere saldamente la rocca». Detto

      questo, si lanciò giù di corsa gridando con quanta più voce aveva dentro:

      «Allarmi! Cittadini, aiuto, la rocca è in mano ai nemici! Presto, correte

      a difenderla!». Così gridava di fronte alle dimore dei capi, a chi

      incontrava e alla gente che si riversava terrorizzata nelle strade. Per

      tutta la città si diffuse il panico suscitato da un solo individuo. I

      magistrati affannosamente mandarono soldati in avanscoperta alla rocca e

      quando si sentirono riferire che essa era occupata da uomini (il cui

      numero venne esagerato) con le armi in pugno, abbandonarono ogni speranza

      di poterla riconquistare. Fu allora una fuga generale e precipitosa, e le

      porte furono sfondate dalla folla quasi del tutto inerme e appena alzatasi

      dal letto. Attirato dalle grida, il contingente romano irruppe attraverso

      uno degli ingressi massacrando la gente che correva terrorizzata per le

      strade. Sora era già conquistata, quando all'alba arrivarono i consoli che

      accettarono la resa di quanti per motivi contingenti erano rimasti in

      città dopo la strage notturna e la fuga. Ne vennero condotti a Roma in

      catene 225, quelli cioè che l'opinione pubblica additava come primi

      responsabili dell'infausto massacro di coloni e della defezione. Il resto

      della popolazione fu lasciato incolume a Sora, dove venne insediato un

      presidio armato. Gli uomini deportati a Roma furono bastonati e decapitati

      in pieno Foro con grande gioia della plebe, cui premeva la sicurezza dei

      cittadini inviati nelle colonie.

      

      25 Partiti da Sora, i consoli trasferirono la guerra nelle campagne e

      nelle città degli Ausoni. L'arrivo dei Sanniti in concomitanza con la

      battaglia di Lautule aveva infatti favorito un'insurrezione generale, e in

      molte zone della Campania erano stati organizzati complotti contro Roma,

      tanto che neppure Capua restò esente da sospetti (anzi, l'inchiesta arrivò

      addirittura fino a Roma e ad alcuni dei cittadini più in vista). Per altro

      i Romani giunsero ad avere il controllo del popolo degli Ausoni a séguito

      di un tradimento, come già successo a Sora. Dodici nobili giovani

      provenienti dalle città di Ausona, Minturno e Vescia, dopo aver deciso di

      consegnare le proprie città in mano ai Romani, si presentarono ai consoli

      e li informarono che i loro concittadini speravano già da tempo

      nell'arrivo dei Sanniti e, non appena erano venuti a conoscenza dell'esito

      della battaglia di Lautule, considerando ormai sconfitti i Romani, avevano

      offerto un supporto ai Sanniti inviando uomini e armi. E adesso che i

      Sanniti erano stati sbaragliati e messi in fuga, si mantenevano in un

      rapporto di pace ambigua, e non chiudevano le porte in faccia ai Romani

      solo per evitare lo scoppio di un conflitto; se però l'esercito romano si

      fosse avvicinato, erano più che decisi a chiuderle. In una simile

      incertezza, sarebbe stato facile averne la meglio cogliendoli di sorpresa.

      Seguendo i loro suggerimenti, i Romani avvicinarono l'accampamento, e nel

      contempo inviarono nei dintorni delle tre città uomini armati, con

      l'ordine di rimanere nascosti nei pressi delle mura, e altri in abiti

      civili, con le spade nascoste sotto la veste e col cómpito di entrare in

      città all'alba attraverso le porte aperte. Furono questi ultimi che

      iniziarono a eliminare le sentinelle e contemporaneamente a dare il

      segnale ai compagni armati, perché uscissero in fretta dai loro

      nascondigli. Così vennero occupate le porte e nello stesso istante anche

      le tre città furono catturate, con il medesimo espediente. Ma poiché

      l'assalto non avvenne alla presenza dei capi, non vi fu freno al massacro,

      e gli Ausoni vennero decimati per un'accusa di tradimento poco affidabile,

      come se si fosse trattato di una guerra all'ultimo sangue.

      

      26 Nel corso dello stesso anno Luceria passò dalla parte dei Sanniti dopo

      aver consegnato in mano nemica il presidio armato romano. Ma il tradimento

      non tardò a essere punito: l'esercito romano si trovava nella zona e la

      città, in aperta pianura, venne catturata al primo assalto. Gli abitanti

      di Luceria e i Sanniti furono passati per le armi e la rabbia arrivò a un

      punto tale che, quando a Roma si discusse in senato circa l'invio di una

      colonia a Luceria, molti espressero l'avviso di radere al suolo la città.

      A prescindere dal risentimento - fuor di misura nei confronti di un popolo

      sottomesso già due volte -, l'idea di inviare cittadini in una zona così

      lontana dalla patria e in mezzo a genti tanto ostili era in sé poco

      accetta. Ciò non ostante prevalse il parere di mandare coloni, in numero

      di 2.500.

      Nello stesso anno, mentre per i Romani la situazione era ovunque

      difficile, anche a Capua i membri più eminenti della città organizzarono

      in segreto una congiura. Al senato giunse notizia della cosa, e la voce

      non fu affatto trascurata: venne anzi aperta un'inchiesta e si decise di

      eleggere un dittatore che se ne occupasse. L'incarico toccò a Gaio Menio,

      che scelse Marco Folio in qualità di maestro di cavalleria. Quella

      magistratura metteva in grandissima soggezione: perciò, spinti dalla paura

      o dalla consapevolezza della propria colpa, i Calavii Ovio e Novio, i

      maggiori responsabili della congiura, prima ancora di comparire di fronte

      al dittatore, evitarono il processo togliendosi la vita (non vi fu dubbio

      che si trattasse di suicidio).

      Venuta meno la materia di indagine in Campania, l'inchiesta si spostò a

      Roma, dove la si interpretò nel senso che il senato avesse dato

      disposizione di indagare non solo sui responsabili del complotto di Capua,

      ma più in generale su tutte quelle persone che, in qualunque parte,

      avessero preso degli accordi privati o congiurato contro lo Stato (di

      conseguenza anche le coalizioni realizzate per ottenere incarichi politici

      risultavano ai danni dello Stato). L'indagine era destinata a estendersi

      in relazione sia ai fatti indagati sia agli inquisiti, e il dittatore non

      faceva nulla per impedire che il suo diritto di inchiesta risultasse

      illimitato. Vennero così incriminati alcuni esponenti del patriziato, il

      cui appello ai tribuni risultò vano perché nessuno di essi volle

      intervenire contro le denunce a loro carico. E allora l'intero corpo

      nobiliare - e non solo coloro contro cui erano dirette le accuse -

      sostenne che quelle accuse non dovevano essere rivolte ai patrizi (per i

      quali la via alle cariche non avrebbe avuto ostacoli se le cose si fossero

      svolte senza brogli), ma agli uomini nuovi: quanto al dittatore e al

      maestro di cavalleria, in relazione al reato inquisito erano loro stessi

      più degni di fare da imputati che da inquisitori, e se ne sarebbero resi

      conto non appena il loro mandato fosse scaduto.

      Menio allora, preoccupandosi più della propria rispettabilità che non

      della carica detenuta, prese la parola di fronte all'assemblea e pronunciò

      questo discorso: «Voi tutti siete al corrente dei miei trascorsi, Quiriti,

      e questa stessa carica che mi è stata conferita è la prova inconfutabile

      della mia onestà. Infatti per portare avanti un'inchiesta avete dovuto

      ricorrere, per avere un dittatore, non a chi si fosse maggiormente

      distinto per valori militari (come in altri casi in cui le esigenze del

      paese rendevano necessaria una scelta di quel genere), bensì a chi avesse

      trascorso i suoi giorni il più lontano possibile da quelle conventicole.

      Ma siccome alcuni esponenti della nobiltà hanno prima cercato con ogni

      mezzo di mandare a monte l'inchiesta - preferisco che il motivo lo

      giudichiate voi, piuttosto che ad affermare una cosa non provata sia io

      nella mia qualità di magistrato -, successivamente, non essendo riusciti

      nei propri intenti, e volendo evitare di comparire in giudizio per

      difendersi, si sono ridotti all'arma difensiva propria degli avversari, e

      cioè l'appello al popolo e il veto dei tribuni. E alla fine, poiché anche

      in quella direzione la via era sbarrata, ogni altra soluzione è sembrata

      loro più sicura che provare la propria innocenza, al punto da lanciarsi

      addosso a noi, senza nemmeno vergognarsi, da privati cittadini quali sono,

      di pretendere che sul banco degli imputati salga il dittatore. E io,

      perché tutti, uomini e dèi, sappiano che essi tentano anche l'impossibile,

      pur di non dover rendere conto della propria condotta di vita, e che non

      mi oppongo all'accusa e mi offro ai nemici in qualità di imputato,

      rinuncio alla dittatura. Vi prego, consoli, se il senato vi affiderà

      l'incarico di portare avanti l'inchiesta contro di me innanzitutto e

      contro Marco Folio, di fare in modo che risulti in maniera evidente che a

      tutelarci dalle accuse rivolte da queste persone non è stato il rispetto

      per la carica che ricopriamo, bensì la nostra innocenza». Poi rinunciò

      alla dittatura, e dopo di lui fu Folio a deporre sùbito la carica di

      maestro di cavalleria. E dopo esser stati sottoposti a processo per primi

      dai consoli (ai quali il senato aveva affidato l'inchiesta), furono

      assolti in maniera onorevole, non ostante le testimonianze contrarie dei

      nobili. Anche Publilio Filone, che in passato aveva più volte ricoperto le

      più alte cariche per essersi distinto in pace e in guerra, ma non aveva il

      favore della nobiltà, venne processato e assolto. Ma come spesso accade,

      l'inchiesta relativa alle personalità di maggiore spicco non andò oltre le

      fasi iniziali, spostandosi poi tra gli strati subalterni della

      popolazione, fino a esser messa a tacere dagli ambienti e dai circoli

      contro cui era stata istruita.

      

      27 La notizia di questi eventi, ma più ancora la speranza di una defezione

      della Campania (e il complotto era stato ordito in questa direzione), fece

      di nuovo convergere su Caudio i Sanniti diretti verso l'Apulia; si

      proponevano così di essere più vicini a Capua e di tentare di strapparla

      ai Romani, nel caso in cui qualche contrasto interno ne avesse offerto

      l'occasione. I consoli si diressero in quella zona con un forte esercito.

      In un primo tempo i due schieramenti indugiarono in prossimità delle gole,

      perché era un rischio per entrambi marciare dritti contro il nemico. Poi i

      Sanniti, dopo una lieve diversione in zone aperte, scesero verso la

      pianura, nelle terre campane, dove in un primo tempo collocarono

      l'accampamento in vista del nemico, per poi mettere reciprocamente alla

      prova le rispettive forze in scaramucce di poco conto, più spesso

      ingaggiate dalla fanteria che dalla cavalleria. Ai Romani non dispiaceva

      né l'esito di queste schermaglie né che la guerra andasse per le lunghe.

      Ai comandanti sanniti sembrava invece che le loro forze venissero ridotte

      dalle perdite quotidiane, che si logorassero per il protrarsi del

      conflitto.

      Per questo uscirono allo scoperto schierandosi in ordine di battaglia, e

      divisero la cavalleria disponendola sulle due ali, con l'ordine di badare

      all'accampamento alle spalle piuttosto che alla battaglia in corso (per

      evitare appunto un assalto nemico in quella direzione). Per garantire

      saldezza al fronte avanzato dello schieramento sarebbe bastata la

      fanteria. Dei due consoli, Sulpicio occupò l'ala destra, Petelio la

      sinistra. Sulla destra i contingenti vennero schierati con intervalli più

      ampi, perché anche i Sanniti avevano disposto in quel settore i loro

      reparti in ordine più rado, vuoi per aggirare il nemico, vuoi per non

      essere aggirati a loro volta. A sinistra, oltre al fatto che le file erano

      già di per sé più serrate, il console Petelio decise all'improvviso di

      aggiungere nuovi contingenti, mandando sùbito in prima linea le coorti dei

      riservisti, che di norma venivano mantenute integre per eventuali

      prolungamenti dello scontro. Impiegando tutte le forze a disposizione, al

      primo urto, costrinse il nemico a indietreggiare. Vedendo che le linee

      della fanteria stavano vacillando, i cavalieri sanniti si fecero avanti

      subentrando nello scontro. Contro di loro che avanzavano dai fianchi fra

      le due prime linee si lanciò la cavalleria romana, seminando lo scompiglio

      tra i reparti e le file di fanti e cavalieri, fino a mettere in rotta da

      quella parte l'intero fronte sannita. All'ala sinistra era venuto a

      incitare le truppe non soltanto Petelio, ma, udito l'urlo levatosi per

      primo da quella parte, anche Sulpicio, che aveva lasciato i suoi uomini

      ancora inattivi. Quando constatò che in quel settore la vittoria era ormai

      sicura, tornò verso la sua ala con 1.200 uomini. Lì però trovò una

      situazione molto diversa, perché i Romani erano stati costretti a

      indietreggiare e i nemici vittoriosi incalzavano i suoi ormai allo sbando.

      Ma all'improvviso le cose cambiarono radicalmente con l'arrivo del

      console: vedendo infatti il loro comandante, i soldati ripresero coraggio,

      e poi il validissimo contingente arrivato con lui costituì un supporto ben

      più massiccio di quanto il suo numero non facesse prevedere. E quando

      infine udirono - e videro coi loro occhi - che l'altra ala aveva avuto la

      meglio, rimisero in piedi le sorti dello scontro. Ormai i Romani stavano

      prevalendo su tutta la linea e i Sanniti, smesso il combattimento, vennero

      uccisi o fatti prigionieri, fatta eccezione per quelli che ripararono a

      Malevento, la città che oggi si chiama Benevento. Stando alla tradizione,

      30.000 Sanniti sarebbero stati uccisi o fatti prigionieri.

      

      28 Dopo quella splendida vittoria, i consoli guidarono sùbito l'esercito

      all'assedio di Boviano, dove si accamparono per l'inverno, fino a quando

      assunse il comando delle truppe il dittatore Gaio Petelio, eletto dai

      consoli Lucio Papirio Cursore e Gaio Giunio Bubulco (rispettivamente al

      quinto e al secondo mandato), con Marco Folio in qualità di maestro di

      cavalleria. Venuto a sapere che la rocca di Fregelle era stata occupata

      dai Sanniti, il dittatore lasciò Boviano e si mosse rapidamente in quella

      direzione. I Sanniti avevano abbandonato la città nel corso della notte, e

      Fregelle fu ripresa senza scontro; lasciatovi un forte presidio, il

      dittatore tornò in Campania, determinato a riprendere Nola con le armi.

      Con l'avvicinarsi del dittatore, tutti i Sanniti e gli abitanti della

      campagna di Nola si erano rifugiati all'interno delle mura cittadine. Il

      dittatore, esaminata la posizione della città, per avere più libero

      accesso alle fortificazioni, fece incendiare tutti gli edifici che si

      trovavano addossati all'esterno delle mura e nei quali vivevano moltissime

      persone. Nola fu presa in poco tempo: secondo alcuni autori dal dittatore

      Petelio, secondo altri dal console Gaio Giunio. Quelli che attribuiscono

      al console il merito della conquista di Nola aggiungono che anche Atina e

      Calazia furono catturate dalla stessa persona, e che a séguito di una

      pestilenza Petelio venne nominato dittatore con il cómpito di piantare un

      chiodo.

      Nello stesso anno vennero fondate le colonie di Suessa e di Ponzia. Suessa

      prima dipendeva dagli Aurunci, mentre Ponzia, un'isola in vista della

      costa, era abitata da Volsci. Un decreto del senato stabilì la deduzione

      di una colonia anche a Interamna Sucasina. Però la nomina dei triumviri

      preposti e l'invio di 4.000 coloni furono opera dei consoli dell'anno

      successivo, e cioè Marco Valerio e Publio Decio.

      

      29 Mentre la guerra con i Sanniti era ormai avviata alla conclusione,

      prima ancora che il senato si fosse liberato di quel pensiero, cominciò a

      circolare la voce di una guerra scatenata dagli Etruschi. Galli a parte,

      in quel tempo non c'era nessun popolo le cui armi facessero più paura, sia

      per la prossimità sia per il numero. E così, mentre l'altro console

      portava a termine le ultime operazioni belliche nel Sannio, Publio Decio,

      rimasto a Roma perché seriamente ammalato, su proposta del senato nominò

      dittatore Gaio Giunio Bubulco. Quest'ultimo, poiché la situazione era così

      critica da renderlo necessario, bandì una leva militare di tutti i

      giovani, e provvide con estrema cura alle armi e alle altre necessità del

      momento. Pur confortato da questa grande disponibilità di mezzi, il

      dittatore non aveva l'intenzione di muovere guerra per primo, ma, senza

      dubbio, di attendere che gli Etruschi prendessero l'iniziativa. Senonché

      anche gli Etruschi si comportarono nella stessa maniera, facendo grossi

      preparativi bellici ma rinunciando a scatenarla. Di conseguenza nessuna

      delle due parti in causa uscì dal proprio territorio.

      In quell'anno fu memorabile la censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio,

      anche se dei due il nome che rimase più a lungo presso i posteri fu quello

      di Appio, in quanto fece costruire una strada e l'acquedotto che porta

      l'acqua a Roma; queste opere le portò a termine da solo, perché il

      collega, per colpa di una revisione della lista dei senatori che aveva

      attirato dure critiche e risentimento contro i censori, aveva ceduto alla

      vergogna rinunciando alla carica. Appio allora, che dagli antenati aveva

      ereditato l'ostinazione tipica della famiglia, esercitò la censura da

      solo. Per iniziativa dello stesso Appio, la gens Potizia - cui in passato

      era riservato il culto dell'ara massima di Ercole - aveva istituito servi

      pubblici per affidare loro l'incombenza dei riti di quel culto. Stando a

      quanto si racconta, a séguito di questa decisione si verificò un fatto

      prodigioso che arrivò a creare scrupoli religiosi in quanti avessero

      voluto inserire delle innovazioni nei riti sacri: mentre in quel periodo

      le famiglie facenti capo alla gens Potizia erano dodici e comprendevano

      circa trenta uomini in età adulta, prima della fine dell'anno tutti i suoi

      membri con la relativa discendenza morirono. E non solo sparì il nome dei

      Potizi, ma alcuni anni dopo anche il censore Appio venne privato della

      vista dagli dèi, memori di quel fatto.

      

      30 E così i consoli dell'anno successivo, Gaio Giunio Bubulco per la terza

      volta e Quinto Emilio Barbula per la seconda, appena entrati in carica si

      lamentarono di fronte al popolo del fatto che il corpo dei senatori fosse

      stato deformato dalla pessima scelta operata, in virtù della quale erano

      stati esclusi parecchi individui migliori di quelli eletti, e si

      rifiutarono di garantire validità alla lista dei nuovi membri del senato,

      dicendo che era stata stilata in base al capriccio e alle amicizie

      personali, senza distinzione tra buoni e cattivi; così convocarono

      immediatamente il senato attenendosi all'elenco in vigore prima della

      censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio. Quell'anno vennero attribuite in

      base al voto del popolo due cariche di natura militare: il primo

      provvedimento stabiliva l'elezione da parte del popolo di sedici tribuni

      militari per quattro legioni, mentre in precedenza i posti riservati ai

      candidati di nomina popolare erano pochi, e l'assegnazione della carica

      era appannaggio quasi esclusivo di dittatori e consoli. La proposta venne

      presentata dai tribuni della plebe Lucio Atilio e Gaio Marcio. Il secondo

      provvedimento stabiliva invece che spettasse al popolo nominare anche i

      duumviri navali, il cui cómpito era quello di allestire la flotta e di

      organizzarne la manutenzione. L'iniziativa di questo plebiscito fu del

      tribuno della plebe Marco Decio.

      In quel medesimo anno si verificò un episodio di cui non parlerei perché

      privo di importanza, se non fosse che sembrò toccare la sfera religiosa. I

      flautisti, indignati perché gli ultimi censori avevano loro vietato di

      celebrare il tradizionale banchetto nel tempio di Giove (usanza tramandata

      fin dai tempi antichi), si recarono in massa a Tivoli, sicché a Roma non

      rimase nessuno in grado di accompagnare con la musica i riti sacrificali.

      Il senato guar-dò alla cosa come a un'irregolarità di natura religiosa, e

      inviò a Tivoli degli ambasciatori con il cómpito di fare tutto il

      possibile per ricondurre a Roma i suonatori. I Tiburtini garantirono il

      loro interessamento: in un primo tempo convocarono i flautisti nella curia

      e li invitarono a rientrare a Roma; ma poi, vedendo che non riuscivano a

      convincerli, li ingannarono ricorrendo a un espediente del tutto

      appropriato alla natura di quelle persone. In un giorno di festa i

      cittadini, chi in un modo chi in un altro, invitarono i flautisti nelle

      loro case con il pretesto di rallegrare il banchetto con la musica, e li

      fecero bere - i flautisti sono solitamente molto amanti del vino -, finché

      si addormentarono. Così, immersi nel sonno com'erano, li misero su dei

      carri e li riportarono a Roma. I flautisti non si accorsero di nulla, se

      non quando la luce del giorno li sorprese ancora in preda ai fumi

      dell'ebbrezza, sui carri abbandonati nel Foro. L'afflusso di popolo che ci

      fu li convinse a rimanere. Fu loro concesso di andare in giro per la

      città, tre giorni all'anno, suonando ornati a festa, abbandonandosi a quel

      tipo di baldoria che è in uso ancora oggi, e venne di nuovo assicurato il

      diritto di celebrare il banchetto nel tempio di Giove a quanti

      accompagnavano i riti sacri con la musica. Tutto questo avveniva nel pieno

      della preoccupazione per due grandi guerre.

      

      31 I consoli si divisero gli incarichi: a Giunio toccò in sorte la

      spedizione contro i Sanniti, mentre a Emilio la nuova guerra contro gli

      Etruschi. Nel Sannio la guarnigione romana di Cluvie, dopo aver respinto

      un attacco nemico, poiché non era stato possibile prenderla con la forza,

      una volta sottoposta ad assedio aveva dovuto arrendersi per fame ai

      Sanniti; questi massacrarono a bastonate e trucidarono i soldati già

      arresisi. Indignato per questa crudeltà, e ormai convinto che l'attacco

      contro Cluvie fosse la più urgente delle cose da farsi, quello stesso

      giorno Giunio assalì le mura della città e la catturò uccidendo tutti gli

      adulti. Di lì l'esercito vittorioso venne trasferito a Boviano, capitale

      dei Sanniti Pentri e città ricchissima, anche di armi e di uomini. Non

      essendoci motivo di particolare risentimento, i soldati si impossessarono

      della città per la speranza di razziare del bottino. Fu per questo che

      infierirono meno sui nemici, portando via però un bottino quasi più

      cospicuo di quanto non ne avessero rastrellato in tutto il Sannio; il

      console generosamente lo concesse tutto agli uomini.

      Poiché allo strapotere militare dei Romani non riuscivano a resistere né

      gli eserciti, né gli accampamenti fortificati, né le città, i pensieri di

      tutti i comandanti sanniti si concentrarono a individuare un punto

      propizio per un agguato, se per caso fossero riusciti a sorprendere

      l'esercito romano intento alle sue razzie. Alcuni contadini che avevano

      disertato o erano stati fatti prigionieri, giunti tra i Romani in parte

      per puro caso e in parte per una precisa scelta, si trovarono d'accordo

      nel riferire al console (e per altro la cosa corrispondeva a verità) che

      una grande quantità di bestiame era stata concentrata in un impervio passo

      sulle montagne, e così convinsero il console a portate in quel punto le

      legioni armate alla leggera, nell'intento di fare del bottino. Lì, in

      prossimità dei sentieri, si era andato a nascondere un forte contingente

      nemico che, sbucando fuori quando vide i Romani entrare nel passo, li

      assalì all'improvviso con urla e grande frastuono. Sulle prime la sorpresa

      seminò il panico fra i Romani, che afferravano le armi e accatastavano i

      bagagli nel mezzo della strada. Poi però, mano a mano che ciascun uomo si

      liberava del carico e si armava, da ogni parte i soldati accorrevano alle

      proprie insegne e l'esercito, senza bisogno di ordini, prese a schierarsi

      secondo l'ordine ben noto per la lunga esperienza di guerra. E il console,

      precipitatosi nel punto in cui la battaglia era più accesa, saltò giù da

      cavallo e chiamò Giove, Marte e gli altri dèi a testimoni di essere venuto

      su quel passo non tanto per cercare gloria individuale, quanto bottino per

      gli uomini, e di non poter essere biasimato di nient'altro se non

      dell'eccessivo desiderio di fare arricchire i soldati romani ai danni del

      nemico. Ma in quel momento la sola cosa che lo potesse salvare dal

      disonore era il valore delle truppe. Che dunque si unissero tutti in uno

      sforzo comune per gettarsi su un nemico già superato sul campo di

      battaglia, già privato del suo accampamento, delle città, e che tentava il

      tutto per tutto con quell'indegno espediente, affidandosi al luogo e non

      certo alle armi. Ma quale luogo, ormai, era inespugnabile per il valore

      romano? Bastava ricordare le rocche di Fregelle e di Sora, e tutti i

      successi ottenuti in zone sfavorevoli.

      Esaltati da queste parole, gli uomini - dimentichi di tutte le difficoltà

      - si riversarono sulla schiera nemica che si trovava in posizione

      sopraelevata. Sulle prime dovettero faticare molto per risalire la china.

      Ma poi, non appena i primi manipoli ebbero raggiunto la sommità del

      crinale e l'esercito si sentì saldamente piazzato su un'area pianeggiante,

      la paura si rivolse sùbito contro i responsabili dell'agguato i quali,

      liberandosi delle armi e fuggendo in tutte le direzioni, cercarono scampo

      in quegli stessi anfratti che prima erano loro serviti da nascondigli. Ma

      la conformazione accidentata del terreno, scelta apposta per creare

      problemi al nemico, andava adesso a loro discapito, impedendone i

      movimenti. Di conseguenza furono pochi quelli che riuscirono a salvarsi:

      vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i Romani reduci dal trionfo si

      sparsero nei dintorni a fare razzia del bestiame offerto loro dal nemico

      in persona.

      

      32 Mentre nel Sannio succedevano queste cose, ormai tutti i popoli

      dell'Etruria - fatta eccezione per gli abitanti di Arezzo - erano corsi

      alle armi, scatenando, con l'assedio di Sutri, città alleata dei Romani e

      sorta di ingresso dell'Etruria, una guerra di grosse proporzioni. Il

      console Emilio con un esercito si mosse in quella direzione per liberare

      gli alleati dall'assedio. All'arrivo dei Romani, gli abitanti di Sutri

      portarono una grande quantità di vettovaglie nell'accampamento davanti

      alla città. Gli Etruschi spesero il primo giorno discutendo se accelerare

      o tirare in lungo la guerra. All'alba del giorno successivo, visto che i

      comandanti avevano deciso di optare per la soluzione più rapida anziché

      per la più sicura, diedero il segnale di battaglia e, armatisi, scesero in

      campo. Informato, il console fece immediatamente diffondere tra gli uomini

      l'ordine di mangiare, e di armarsi sùbito dopo essersi rimessi in forze.

      Una volta eseguiti gli ordini, il console, non appena li vide pronti e con

      le armi in pugno, fece uscire l'esercito fuori dalla trincea e lo schierò

      in ordine di battaglia non lontano dai nemici. Per qualche tempo entrambe

      le parti si studiarono, nell'attesa che l'avversario alzasse per primo il

      grido di guerra e desse inizio alla battaglia. Ma mezzogiorno passò senza

      che da una parte e dall'altra venisse lanciata una sola freccia. Poi gli

      Etruschi, per non doversi ritirare senza risultato, levarono il grido di

      battaglia e si lanciarono all'assalto al suono delle trombe. Ma anche i

      Romani si gettarono nella mischia con non minore determinazione. Si

      scontrarono con estrema animosità: se i nemici erano numericamente

      superiori, i Romani sopravanzavano per coraggio, e l'incertezza dello

      scontro fece molte vittime da entrambe le parti; caddero tutti i più forti

      in campo. La situazione rimase in bilico finché la seconda linea romana

      non diede il cambio alla prima, con gli uomini freschi al posto di quelli

      ormai provati. Gli Etruschi, poiché non avevano a disposizione riservisti

      freschi a supporto della prima linea, caddero in massa davanti e intorno

      alle loro insegne. In nessun'altra battaglia la strage sarebbe stata più

      impressionante e più esiguo il numero dei fuggiaschi, se il buio non

      avesse protetto gli Etruschi, la cui ostinazione a combattere era tanta

      che i vincitori abbandonarono la battaglia prima dei vinti. Dopo il

      tramonto venne dato il segnale della ritirata, e nella notte i due

      eserciti fecero rientro ai rispettivi accampamenti.

      Nella parte residua dell'anno, presso Sutri non accadde nulla che fosse

      degno di essere ricordato, perché l'intera prima linea dell'armata nemica

      era stata distrutta in quell'unica battaglia, e agli Etruschi rimanevano

      solo i riservisti, appena sufficienti per difendere l'accampamento. Ma

      anche da parte romana i feriti furono molti, al punto che i morti a

      séguito di ferite contratte furono più numerosi dei caduti in battaglia.

      

      33 Quinto Fabio, console l'anno successivo, assunse il comando delle

      operazioni sotto Sutri. Suo collega fu Gaio Marcio Rutilo. Fabio portò

      anche rinforzi da Roma, mentre per gli Etruschi arrivò un nuovo esercito

      dalle loro terre.

      Era già da molti anni che tra magistrati patrizi e tribuni della plebe non

      c'erano motivi di contrasto, quand'ecco che un attrito venne causato dalla

      famiglia cui sembrava fosse toccato in sorte il destino di essere in

      perenne lite con i tribuni e con la plebe. Il censore Appio Claudio, a

      diciotto mesi di distanza dalla fine del suo mandato (era l'arco di tempo

      previsto dalla legge Emilia), benché il suo collega Gaio Plauzio avesse

      rinunciato alla magistratura, non si lasciò convincere da alcun tipo di

      pressione a fare altrettanto. Tribuno della plebe era Publio Sempronio, il

      quale aveva intrapreso un'azione legale per far sì che alla censura

      venisse posto termine entro il limite cronologico previsto dalla norma,

      azione non meno popolare che giusta, e non meno gradita al popolo che ai

      patrizi. Il tribuno, dopo aver letto e riletto la legge Emilia e aver

      elogiato il dittatore Mamerco Emilio che l'aveva presentata, perché aveva

      ridotto a diciotto mesi il limite della censura prima quinquennale,

      diminuendo così l'eccesso di potere che la lunga durata conferiva a quella

      magistratura, così parlò: «Ebbene, Appio Claudio, dimmi che cosa avresti

      fatto se tu fossi stato censore quando lo furono Gaio Furio e Marco

      Geganio?». Appio rispose che la domanda del tribuno non aveva troppa

      pertinenza col suo caso: infatti anche se la legge Emilia aveva colpito i

      censori durante il cui mandato essa era stata promulgata, poiché il popolo

      aveva approvato la legge dopo l'elezione di quei censori (e la volontà

      espressa dal popolo ha valore di legge), ciò non ostante né lui né

      chiunque altro fosse stato nominato censore dopo l'approvazione di quella

      legge poteva esser tenuto a rispettarla.

      

      34 Mentre Appio Claudio ricorreva a questi cavilli, senza tuttavia trovare

      alcuno che lo sostenesse, Sempronio disse: «Ecco a voi, Quiriti, un

      discendente di quell'Appio che, eletto decemviro per un anno, l'anno

      successivo si nominò da solo, e nel corso del terzo anno - pur non essendo

      stato nominato né da se stesso né da alcun altro - mantenne le insegne del

      potere anche come privato cittadino, e abbandonò la carica soltanto quando

      fu travolto da un potere male acquisito, mal gestito e mal conserva-to.

      Questa è la stessa famiglia che a forza di violenze e di soprusi vi

      spinse, esuli dalla terra natia, a ritirarvi sul monte Sacro. La stessa

      contro la quale voi vi siete tutelati creando l'intercessione dei tribuni.

      La stessa per colpa della quale due vostri eserciti sono andati ad

      accamparsi sull'Aventino, la stessa che si è sempre schierata contro le

      leggi sul tasso di interesse e le leggi agrarie. È stata questa famiglia a

      opporsi ai matrimoni tra patrizi e plebei, e a sbarrare alla plebe la

      strada alle magistrature curuli: per la vostra libertà questo è un nome

      molto più pericoloso di quello dei Tarquini. Dunque, Appio Claudio, pur

      essendo già trascorsi cento anni dalla dittatura di Mamerco Emilio, dei

      tanti censori che ci sono stati - uomini tra i più nobili e validi -,

      possibile che nessuno di loro abbia letto le XII tavole? Che nessuno di

      loro fosse al corrente che l'ultima deliberazione presa dal popolo ha

      valore di legge? A essere sinceri lo sapevano tutti, e proprio per questo

      hanno obbedito alla legge Emilia piuttosto che a quella in virtù della

      quale vennero nominati i primi censori, perché era questa l'ultima

      approvata dal popolo, e poi perché, nel caso di due leggi in contrasto, è

      sempre la nuova ad abrogare la vecchia.

      Oppure sostieni, o Appio, che il popolo non è tenuto a rispettare la legge

      Emilia? O che il popolo è tenuto a farlo, mentre tu sei il solo a esserne

      esentato? La legge Emilia vincolò quei censori violenti, Gaio Furio e

      Marco Geganio, i quali dimostrarono quale sia il danno potenzialmente

      arrecabile allo Stato da quella magistratura, nel momento in cui,

      volendosi vendicare della limitazione imposta alla loro autorità,

      retrocedettero nell'ultima classe Mamerco Emilio, l'uomo migliore del suo

      tempo in pace e in guerra. Quella legge ha poi vincolato cento anni di

      censori, e adesso è un vincolo per il tuo collega Gaio Plauzio, eletto in

      base ai tuoi stessi auspici e dotato dei tuoi stessi diritti. Oppure il

      popolo non lo ha eletto censore con pieni diritti? Sei tu la sola

      eccezione, e vale soltanto per te questo bizzarro e unico privilegio? Ma

      allora quale re dei sacrifici nomineresti? Visto che ha il nome di re,

      potrà credere di essere nominato re di Roma con pieni diritti? A chi pensi

      che basterà una dittatura di sei mesi o un interregno di cinque giorni?

      Chi avrai il coraggio di eleggere dittatore solo per piantare un chiodo o

      per far svolgere i giochi? Come devono sembrare stupidi e insensati a

      quest'uomo coloro che, compiute gesta memorabili, rinunciarono alla

      dittatura a venti giorni dalla nomina, o quelli che rinunciarono

      all'incarico per essere stati eletti in maniera irregolare! Ma perché

      andare a frugare nel passato? Di recente, circa dieci anni or sono, il

      dittatore Gaio Menio, mentre stava conducendo un'inchiesta con un rigore

      eccessivo per la sicurezza di taluni potenti, accusato dai propri nemici

      dello stesso reato sul quale stava indagando, rinunciò alla dittatura per

      poter affrontare l'accusa nelle vesti di privato cittadino. Da te non

      pretendo certo una simile misura, ma non voglio nemmeno che tu finisca per

      tralignare da una famiglia superba e arrogante quanto nessun'altra: non

      abbandonare la tua carica un solo giorno e una sola ora prima del dovuto,

      lìmitati soltanto a non superare il termine previsto. Ti è sufficiente

      aggiungere alla censura un giorno o un mese? "Terrò la censura" replichi

      tu "tre anni e sei mesi più del limite concesso dalla legge Emilia, e lo

      farò da solo". Ma questo sì che è come essere re!

      Oppure nominerai al posto di Plauzio un altro collega, quando non è

      consentito sostituire nemmeno un censore defunto? Non ti rimorde, o

      meticoloso censore pieno di scrupoli, di aver sottratto un rito

      antichissimo - il solo istituito di persona dal dio in onore del quale

      viene celebrato - ai nobilissimi sacerdoti di quel culto, per affidarlo a

      servi dello Stato, e di vedere una famiglia più antica delle origini di

      questa città, sacra per aver offerto ospitalità agli dèi immortali,

      estinguersi sin nelle radici nell'arco di un anno e solo per colpa tua e

      della tua censura? No, tu vuoi contaminare la repubblica tutta con

      quell'istinto criminoso che la mia mente inorridisce anche solo a

      nominare! Roma finì in mano nemica in quel lustro durante il quale, morto

      il censore Gaio Giulio, il collega Lucio Papirio Cursore, per non

      rinunciare alla carica, nominò al suo posto Marco Cornelio Maluginense. E

      quanto più misurata fu la sua ambizione, Appio! Infatti Lucio Papirio non

      detenne la censura da solo né oltre i termini consentiti dalla legge.

      Eppure non trovò nessuno che in séguito si uniformasse alla sua

      iniziativa: col passare del tempo, tutti i censori rinunciarono alla

      carica dopo la morte del collega. Tu non ti fai trattenere né dalla

      scadenza del termine prefissato per la censura, né dalle dimissioni del

      collega e neppure dalla legge e dalla vergogna. Tu ritieni che l'arroganza

      sia una virtù, e così la sfrontatezza e il disprezzo degli dèi e degli

      uomini.

      Per la maestà e il rispetto dovuto alla magistratura che hai detenuto,

      Appio Claudio, vorrei non solo evitare di arrivare alla violenza, ma anche

      di rivolgerti una sola parola meno che riguardosa. La tua caparbietà e la

      tua arroganza mi hanno però costretto a usare le parole che hai appena

      sentito, e se non ti atterrai alla legge Emilia, darò ordine di farti

      arrestare. E siccome i nostri avi hanno stabilito che, nelle elezioni a

      censore, se due candidati non hanno raggiunto il tetto di voti previsto

      dalla legge, si ripeta la votazione, senza però nominare censore il solo

      candidato che abbia raggiunto il tetto di voti previsto, dato che tu non

      puoi nominarti censore da solo, adesso io non permetterò che tu eserciti

      da solo la censura». Pronunciato questo discorso, ordinò di arrestare e

      imprigionare Appio. Mentre sei dei tribuni approvarono l'azione proposta

      dal collega, furono in tre a intercedere per Appio il quale aveva fatto

      ricorso all'appello. E così egli tenne da solo la censura, tra il

      disprezzo di tutte le classi di cittadini.

      

      35 Mentre a Roma si verificavano questi fatti, Sutri era stretta d'assedio

      dagli Etruschi, e il console Fabio, che stava guidando l'esercito lungo le

      pendici dei monti Cimini per portare aiuto agli alleati e attaccare i

      dispositivi di difesa dei nemici, se avesse trovato qualche passaggio

      praticabile, si imbatté nell'esercito etrusco schierato in ordine di

      battaglia. L'ampia pianura sottostante gli permetteva di constatare che le

      forze del nemico erano cospicue, e cercando di sopperire all'inferiorità

      numerica dei suoi con la posizione occupata, fece loro deviare leggermente

      la marcia, in modo tale da farli risalire lungo il declivio (che era

      scosceso e coperto di massi); quindi rivolse il fronte contro il nemico. E

      gli Etruschi, non pensando ad altro che alla loro superiorità numerica,

      nella quale avevano una cieca fiducia, si buttarono nella mischia con una

      foga e una impazienza tali che, per arrivare il più in fretta possibile al

      corpo a corpo, gettarono a terra le aste e avanzarono contro gli avversari

      con le spade sguainate. I Romani, invece, non smettevano di scagliare

      verso il basso tanto i loro giavellotti quanto i sassi, arma questa

      offerta in abbondanza dal luogo. Pertanto per gli Etruschi non era facile

      arrivare al corpo a corpo perché, anche quando non venivano feriti,

      rimanevano storditi dai colpi che piovevano sugli elmi e sugli scudi, e

      non avevano armi da lancio con le quali affrontare il combattimento a

      distanza. E mentre restavano fermi, esposti ai colpi, senza che ormai

      nulla li potesse più proteggere, e alcuni cominciavano a ritornare sui

      propri passi, gli hastati e i principes, levando di nuovo il grido di

      battaglia, si lanciarono con le spade in pugno contro quella massa

      instabile e ondeggiante. Gli Etruschi non ressero l'urto, e voltate le

      spalle fuggirono disordinatamente in direzione dell'accampamento. Ma i

      cavalieri romani attraversarono la pianura in diagonale, andando a

      sbarrare la strada ai fuggitivi, che, rinunciando a raggiungere

      l'accampamento, ripiegarono verso i monti. Di lì, quasi disarmati e

      ridotti a mal partito dalle ferite, si rifugiarono nella selva Ciminia. I

      Romani, dopo aver massacrato parecchie migliaia di Etruschi e aver loro

      sottratto trentotto insegne militari, si impadronirono anche

      dell'accampamento nemico, raccogliendovi un grosso bottino. Fu allora che

      si iniziò a pensare al modo di dare la caccia al nemico.

      

      36 In quel tempo la selva Ciminia era più impervia e spaventosa di quanto

      non siano di recente sembrate le foreste della Germania, e fino ad allora

      non l'aveva mai attraversata nessuno, nemmeno dei mercanti. E quasi

      nessuno, fatta eccezione per il comandante in persona, aveva il coraggio

      di addentrarvisi: in tutti gli altri era ancora vivo il ricordo della

      disfatta di Caudio. Allora, tra i presenti, il fratello del console Marco

      Fabio (altri sostengono si chiamasse Cesone, altri ancora Gaio Claudio,

      indicandolo come fratello del console soltanto per parte di madre) disse

      che sarebbe andato in avanscoperta e che di lì a poco avrebbe riportato

      notizie sicure. Cresciuto a Cere presso suoi ospiti, aveva avuto

      un'istruzione a base di lettere etrusche e parlava bene l'etrusco. Secondo

      alcuni autori, come adesso si ha l'abitudine di istruire i ragazzi romani

      nelle lettere greche, allo stesso modo in quel tempo li si istruiva in

      quelle etrusche. Ma è più vicino alla verità il fatto che l'uomo che andò

      a mescolarsi tra i nemici con una messinscena tanto temeraria avesse già

      avuto qualche esperienza in tal senso. A quanto sembra fu accompagnato

      soltanto da uno schiavo, che era cresciuto con lui e quindi aveva una

      certa competenza in quella stessa lingua. Prima di partire, dell'area in

      cui stavano per addentrarsi non avevano alcuna cognizione, se non qualche

      sommario ragguaglio circa la natura del luogo e i nomi dei capi delle

      varie popolazioni, sui quali avevano preso informazioni per evitare di

      essere smascherati da esitazioni su fatti risaputi. Partirono vestiti da

      pastori, con addosso armi da campagna, una falce e due spiedi a testa. Ma

      a proteggerli non furono tanto la conoscenza della lingua né il tipo di

      armi o di vesti, quanto piuttosto il fatto che nessuno si potesse

      immaginare uno straniero addentratosi nella selva Ciminia. Pare siano

      arrivati fino agli Umbri Camerti. Lì Fabio ebbe il coraggio di rivelare la

      loro identità e, introdotto nel senato locale, a nome del console propose

      di stipulare un trattato di amicizia e di alleanza. Gli riservarono una

      generosa ospitalità, e lo pregarono di riferire ai Romani che, se il loro

      esercito si fosse spinto in quella zona, avrebbe avuto a disposizione cibo

      per trenta giorni, e che la gioventù degli Umbri Camerti sarebbe stata

      pronta a prendere le armi agli ordini dei Romani.

      Quando queste cose vennero riferite al console, alle prime luci della

      sera, mandati avanti gli uomini con i bagagli, diede ordine alla fanteria

      di seguirli. Egli rimase fermo con la cavalleria e alle prime luci del

      giorno successivo passò a cavallo di fronte ai posti di guardia nemici

      collocati al di fuori del bosco. Dopo aver impegnato per qualche tempo i

      nemici, rientrò all'accampamento e uscendo dalla porta opposta raggiunse

      la fanteria prima del buio. All'alba del giorno dopo aveva già raggiunto

      le cime dei monti Cimini. E dopo aver contemplato da quel punto le ricche

      terre d'Etruria, inviò i suoi uomini a metterle a ferro e fuoco. E i

      Romani avevano già raccolto un bel bottino, quando si trovarono di fronte

      squadre raccogliticce di contadini etruschi formate in tutta fretta dai

      capi della zona, ma in maniera così disordinata, che quanti erano venuti a

      riprendersi la preda per poco non finirono essi stessi oggetto di preda.

      Dopo aver eliminato o messo in fuga i nemici, e dopo aver razziato in

      lungo e in largo le campagne, i Romani rientrarono al campo in trionfo e

      carichi di ogni avere. Lì erano arrivati casualmente cinque delegati e due

      tribuni della plebe per comunicare a Fabio l'ordine del senato di non

      attraversare la selva Ciminia. Felicitatisi per essere arrivati troppo

      tardi per impedire lo scoppio della guerra, rientrarono a Roma ad

      annunciare la vittoria.

      

      37 Invece di porre termine alla guerra, questa spedizione del console ne

      aveva ampliato il raggio: infatti le genti che abitavano ai piedi dei

      monti Cimini erano state gravemente danneggiate dalle incursioni romane, e

      avevano contagiato con il loro risentimento non solo i popoli

      dell'Etruria, ma anche quelli confinanti dell'Umbria. Per questo motivo

      misero insieme nei pressi di Sutri un esercito più numeroso di quanto non

      avessero mai fatto prima, e non si limitarono soltanto a trasferire

      l'accampamento al di là della selva ma, per l'impazienza di arrivare allo

      scontro, portarono anche l'esercito nella pianura. Poi, schieratisi in

      ordine di battaglia, in un primo tempo rimasero fermi sulle loro

      posizioni, lasciando ai Romani lo spazio necessario per disporsi di

      fronte. Vedendo però che i nemici si rifiutavano di venire a battaglia, si

      presentarono sotto la trincea. Quando poi si resero conto che anche le

      postazioni più avanzate erano state ritirate all'interno delle

      fortificazioni, si levò sùbito dalle file un urlo rivolto ai comandanti,

      col quale chiedevano venissero loro portati dall'accampamento i viveri per

      quel giorno. Sarebbero rimasti lì con le armi in pugno, e nel corso della

      notte - o, al più tardi, alle prime luci del giorno - avrebbero attaccato

      il campo nemico. L'esercito romano, pur essendo certo non meno impaziente,

      venne trattenuto sul posto dalle disposizioni del comandante. Erano più o

      meno le quattro del pomeriggio, quando il console ordinò ai soldati di

      consumare il rancio, e li avvisò di farsi trovare armati, in qualunque ora

      del giorno o della notte egli avesse dato il segnale di attacco. Rivolse

      un breve discorso alle truppe, esaltando le guerre contro i Sanniti,

      sminuendo gli Etruschi, e sostenendo che i due nemici non erano da mettere

      sullo stesso piano né per valore né per numero di effettivi. Aggiunse poi

      che vi era un'altra arma segreta che avrebbero conosciuto a tempo debito,

      ma che per il momento era necessario rimanesse nascosta. Con questi

      accenni sibillini voleva alludere al fatto che i nemici erano minacciati

      alle spalle, e lo faceva per confortare il morale dei soldati, spaventati

      dalla grande quantità dei nemici. La messinscena era resa più verosimile

      dal fatto che il nemico aveva preso posizione senza però costruire

      dispositivi di difesa.

      Dopo aver ridato vigore ai corpi col rancio, si lasciarono andare al

      sonno. Furono svegliati verso le quattro del mattino e presero le armi

      senza fare rumore. Ai portatori vennero distribuite le asce per abbattere

      il terrapieno e riempire le fosse. L'esercito venne schierato al di qua

      delle fortificazioni, mentre le coorti scelte furono piazzate alle uscite

      delle porte. Avendo poi ricevuto il segnale poco prima dell'alba - ovvero

      l'ora che nelle notti d'estate è più propizia al sonno intenso -,

      l'esercito abbatté il terrapieno e saltò fuori, assalendo i nemici

      coricati in maniera disordinata. La morte ne sorprese alcuni del tutto

      immobili, altri mezzo addormentati nei loro giacigli, e la maggior parte

      mentre cercava affannosamente di prendere le armi. Soltanto a pochi venne

      lasciato il tempo di armarsi: ma anche questi, non avendo insegne da

      seguire e comandanti cui obbedire, vennero sbaragliati, messi in fuga e

      inseguiti. Disseminati in tutte le direzioni, tentarono di raggiungere

      l'accampamento o il fitto della boscaglia. E furono proprio le selve a

      offrire un rifugio più sicuro, perché l'accampamento situato in aperta

      campagna venne catturato nel corso di quello stesso giorno. L'ordine fu di

      consegnare oro e argento al console, mentre tutto il resto venne lasciato

      ai soldati. Quel giorno furono uccisi o fatti prigionieri 60.000 nemici.

      Alcuni autori sostengono che questa battaglia tanto gloriosa fu combattuta

      al di là della selva Ciminia nei pressi di Perugia, e che a Roma si stette

      in grande ansia, per paura che l'esercito tagliato fuori da quel bosco

      impraticabile che faceva da barriera venisse sopraffatto dagli Etruschi e

      dagli Umbri insorti da ogni parte. Ma in qualunque punto sia avvenuta la

      battaglia, è certo che a vincere furono i Romani. Da Perugia, Cortona e

      Arezzo, che a quell'epoca erano le città più in vista di tutto il mondo

      etrusco, arrivarono ambasciatori con richieste di pace e alleanza rivolte

      ai Romani. Venne loro concessa una tregua di trent'anni.

      

      38 Mentre in Etruria erano in corso questi avvenimenti, l'altro console

      Gaio Marcio Rutilo strappò ai Sanniti la città di Alife conquistandola con

      la forza. Molte altre fortezze e villaggi vennero conquistati e distrutti

      oppure finirono in mano ai Romani ancora del tutto integri.

      Nel contempo la flotta romana, pilotata verso la Campania da Publio

      Cornelio, cui il senato aveva affidato il cómpito di vigilare sulle coste,

      sbarcò a Pompei, e di lì i contingenti della marina forniti dagli alleati

      puntarono su Nocera per saccheggiarne il territorio. Dopo fulminee razzie

      nelle zone dei dintorni, da dove era più facile rientrare alle navi,

      attirati - come spesso accade - dalla sete di fare bottino, si spinsero

      troppo nell'interno, attirandosi addosso i nemici. Per tutto il tempo che

      rimasero disseminati per la campagna, dove avrebbero potuto essere fatti a

      pezzi dal primo all'ultimo, per fortuna non si imbatterono in nessuno.

      Invece, proprio mentre tornavano sui loro passi marciando senza alcuna

      precauzione, vennero raggiunti non lontano dalle navi dai villici della

      zona che si ripresero il bottino, uccidendone anche un certo numero. Il

      manipolo disordinato dei superstiti si rifugiò sulle navi in preda al

      panico.

      La notizia che Quinto Fabio si era addentrato nella selva Ciminia, così

      come aveva tenuto Roma in apprensione, allo stesso modo era stata motivo

      di tripudio per i Sanniti, per i quali era come se l'esercito romano,

      tagliato fuori dalla patria, si trovasse in stato d'assedio: per i Romani

      si profilava una disfatta pari a quella delle Forche Caudine. Quella

      gente, perennemente avida di nuove conquiste, era stata spinta dalla

      temerarietà di sempre in quelle regioni inospitali, dove adesso era

      circondata dall'impraticabilità dei luoghi più che dalle armi nemiche. Ma

      la gioia si mescolava già con una certa quale invidia, perché la sorte

      aveva trasferito dai Sanniti agli Etruschi l'onore della guerra contro

      Roma. Per questo, dopo aver raccolto uomini e armi, si misero in movimento

      per schiacciare il console Gaio Marcio, e se quest'ultimo non avesse

      accettato di dare battaglia, avevano intenzione di trasferirsi

      immediatamente in Etruria passando attraverso i territori dei Marsi e dei

      Sabini. Il console li andò ad affrontare, e lo scontro dall'esito incerto

      che ne seguì fu durissimo. Benché entrambe le parti avessero avuto perdite

      ugualmente gravi, tuttavia la voce comune attribuì ai Romani la sconfitta,

      perché avevano perso degli uomini di rango equestre, alcuni tribuni

      militari, un luogotenente e - ciò che aveva suscitato maggiore scalpore -

      era rimasto ferito addirittura il console.

      Poiché le voci avevano ingigantito la sconfitta, come sempre succede, i

      senatori vennero presi dal panico al punto da voler nominare un dittatore,

      e nessuno aveva dubbi sul fatto che la scelta sarebbe caduta su Papirio

      Cursore, considerato il miglior generale del suo tempo. Però non si era

      sicuri di poter fare arrivare la notizia nel Sannio, dato che tutta la

      regione pullulava di nemici, né si era al corrente se il console Marcio

      fosse ancora vivo. L'altro console, poi, era un nemico personale di

      Papirio. Per evitare che questo attrito andasse a discapito degli

      interessi dello Stato, il senato decise di mandare a Fabio una delegazione

      composta di ex consoli, i quali, avvalendosi del proprio prestigio

      personale, oltre che dell'autorità conferita loro dallo Stato, lo

      convincessero a dimenticare la rivalità di un tempo in nome del bene della

      patria. Quando gli ambasciatori arrivati al cospetto di Fabio gli ebbero

      comunicato la decisione del senato, descrivendola con parole all'altezza

      dell'incarico ricevuto, il console abbassò gli occhi a terra e si

      allontanò silenzioso dai delegati, che non avevano idea di che decisione

      avrebbe potuto prendere. Poi, nel silenzio della notte (come tradizione

      vuole), nominò dittatore Lucio Papirio. Quando gli inviati lo

      ringraziarono per aver piegato al meglio la propria disposizione d'animo,

      Fabio rimase ostinatamente in silenzio, e senza fornire risposta o

      commenti al suo gesto, licenziò gli inviati, perché fosse chiaro che

      grande dolore il suo animo stesse soffocando.

      Papirio scelse come maestro di cavalleria Gaio Giunio Bubulco. Mentre era

      impegnato a presentare ai comizi curiati la legge che gli conferiva

      l'autorità, venne costretto a rimandare il rituale da un presagio di

      cattivo augurio. La votazione, infatti, era iniziata dalla curia Faucia,

      celebre per due disastri, e cioè la presa di Roma e la pace di Caudio:

      ora, in entrambi gli anni in cui quei fatti si erano verificati, la sorte

      aveva affidato alla stessa curia il cómpito di avviare la votazione.

      Licinio Macro aggiunge che quella curia era di cattivo augurio anche per

      una terza disfatta, ovvero quella subita nei pressi del Cremera.

      

      39 Il giorno successivo, rinnovati gli auspici, il dittatore fece

      approvare la legge. Partito da Roma con le legioni appena arruolate

      sull'onda del panico generato dalla notizia che l'esercito aveva superato

      la selva Ciminia, giunse nei pressi di Longula. Ricevute dal console

      Marcio le legioni già in servizio, schierò i suoi in ordine di battaglia.

      E i nemici non parvero riluttanti all'idea di combattere. Quando le due

      parti erano già schierate e con le armi in pugno, senza però che nessuna

      delle due volesse iniziare il combattimento, vennero sorprese dal calar

      della notte. Rimasti inattivi per qualche tempo da quel momento in poi,

      pur non mancando di fiducia nei propri mezzi né sottovalutando il nemico,

      i due contendenti collocarono i rispettivi accampamenti fissi a breve

      distanza l'uno dall'altro.

      Anche contro gli Umbri i Romani si misurarono in campo aperto: i nemici

      furono messi in fuga, subendo però poche perdite, perché non resistettero

      a lungo allo scontro, nel quale si erano lanciati con estremo accanimento.

      Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale

      ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di

      Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in

      passato. La battaglia venne combattuta con un furore tale, che nessuno dei

      due contendenti arrivò a scagliare le armi da lancio. Lo scontro iniziato

      con le spade divenne via via sempre più acre, mantenendosi a lungo

      nell'incertezza, al punto che i Romani non avevano l'impressione di

      combattere contro gli Etruschi già sconfitti tante altre volte, ma contro

      qualche popolo nuovo. Nessuna delle due parti accennava alla fuga: gli

      uomini della prima linea crollarono e, per evitare che i reparti

      restassero privi di copertura, la seconda fila rimpiazzò la prima. Poi

      vennero chiamati allo scontro anche gli ultimi riservisti. E la situazione

      arrivò a essere talmente critica, che i cavalieri romani, scendendo da

      cavallo, raggiunsero le prime file di fanti avanzando tra le armi e i

      corpi dei caduti. Entrati in campo, come un esercito fresco, in mezzo a

      uomini stanchi, gettarono lo scompiglio tra le linee etrusche. Seguendo

      poi il loro slancio, il resto delle truppe, pur allo stremo delle forze,

      riuscì finalmente a prevalere sullo schieramento nemico. Allora la tenacia

      degli Etruschi cominciò a cedere e alcuni manipoli presero a

      indietreggiare, dandosi inequivocabilmente alla fuga non appena ebbero

      voltato le spalle. Quel giorno venne spezzata per la prima volta la

      potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe

      venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne

      catturarono l'accampamento saccheggiandolo.

      

      40 Poco tempo dopo i Romani corsero un pericolo analogo, riportando però

      un successo altrettanto netto contro i Sanniti i quali, oltre agli altri

      preparativi militari, avevano fatto sì che le loro armate fossero più

      splendenti grazie a una nuova e brillante armatura. Gli eserciti erano

      due: uno aveva lo scudo cesellato in oro, l'altro in argento. La forma

      dello scudo era questa: più largo in alto per coprire il petto e le

      spalle, il bordo livellato e, sul fondo, fatto a cuneo per renderlo più

      maneggevole. A protezione del torace avevano una corazza spugnosa, mentre

      per la gamba sinistra c'era uno schiniere. Gli elmi erano dotati di

      cresta, per accrescere l'imponenza delle persone. Le tuniche dei soldati

      provvisti di scudo dorato erano di varie tinte, mentre quelle dei soldati

      con lo scudo d'argento erano di lino bianchissimo. Ai primi venne affidata

      l'ala sinistra, ai secondi la destra. Ma i Romani erano già stati

      informati di quell'armatura splendente, e i comandanti avevano ricordato

      loro che il soldato deve avere un aspetto rude, non avere addosso armi

      cesellate d'oro e d'argento, ma confidare nella propria spada e nel

      proprio valore. A essere sinceri, non armi erano quelle, ma futuro

      bottino: brillanti prima dello scontro, segno di infamia tra il sangue e

      le ferite. Il valore era l'ornamento dei soldati: tutto quel prezioso

      splendore sarebbe stato il séguito della vittoria, e un nemico ricco era

      il premio del vincitore, per quanto povero questi potesse essere.

      Risollevati i suoi uomini con queste parole, Cursore li guidò in

      battaglia. Egli andò ad occupare l'ala destra, mentre alla sinistra

      collocò il maestro di cavalleria. All'inizio dello scontro la lotta col

      nemico fu accesa, e non meno viva la competizione tra il dittatore e il

      maestro di cavalleria per stabilire chi avesse dato il via per primo alla

      vittoria. Il destino volle che Giunio fosse il primo a far indietreggiare

      i nemici, attaccando con l'ala sinistra il fianco destro del nemico

      (composto di uomini votatisi agli dèi, secondo la tradizione sannita, e

      per questo vestiti tutti di bianco). Proclamando che avrebbe immolato i

      nemici all'Orco, Giunio si lanciò all'attacco e ne scompigliò le file,

      costringendo il fronte a indietreggiare sensibilmente dalla sua linea.

      Quando il dittatore se ne accorse, disse: «Allora la vittoria inizierà

      dall'ala sinistra, e l'ala destra, con le truppe del dittatore, starà a

      guardare le sorti del combattimento altrui, non farà la parte del leone

      nella vittoria?». Con questo intervento infiammò gli animi dei suoi

      soldati, e i cavalieri non furono da meno dei fanti quanto a valore

      dimostrato, così come i luogotenenti non lo furono rispetto ai comandanti.

      Marco Valerio all'ala destra, Publio Decio a sinistra (entrambi ex

      consoli), si lanciarono dalla parte dei cavalieri schierati alle due ali,

      esortandoli a conquistarsi la loro parte di gloria. Poi andarono

      all'assalto in diagonale contro i fianchi del nemico. Poiché questa nuova

      minaccia si era abbattuta sullo schieramento avversario da entrambe le

      parti, e la fanteria romana, vedendo i Sanniti in preda al panico, aveva

      di nuovo levato il grido di battaglia prendendo ad avanzare, i Sanniti

      cominciarono a fuggire. Le campagne già erano ingombre di cumuli di

      cadaveri e armi luccicanti. In un primo momento i Sanniti, terrorizzati,

      si andarono a rifugiare nell'accampamento; poi però non riuscirono a

      tenere nemmeno questo, che prima del calar della notte venne conquistato,

      saccheggiato e dato alle fiamme.

      Su decreto del senato il dittatore ottenne il trionfo, il cui più

      splendido ornamento furono le armi strappate ai Sanniti. Sembrarono così

      straordinarie, che gli scudi dorati furono consegnati ai banchieri,

      affinché fungessero da addobbo per il Foro. Si dice che di lì sia nato

      l'uso degli edili di adornare il Foro per le processioni solenni sui

      carri. Mentre i Romani utilizzarono le armi dei nemici per rendere omaggio

      agli dèi, i Campani, per sfrontatezza e risentimento verso i Sanniti,

      dotarono con quelle armature i gladiatori che si esibivano durante i

      banchetti, e diedero loro il nome di Sanniti.

      Nello stesso anno il console Fabio combatté contro i resti dell'esercito

      etrusco nei pressi di Perugia, che aveva violato la tregua, e conseguì una

      vittoria facile e netta. E avrebbe anche espugnato con la forza la città -

      alle cui mura si stava già avvicinando dopo la vittoria -, se non ne

      fossero usciti ambasciatori a offrire la resa. Lasciata una guarnigione

      armata a Perugia, il console mandò avanti in senato, a Roma, gli

      ambasciatori etruschi con la richiesta di un trattato di amicizia, ed

      entrò poi in città in trionfo, dopo aver conseguito una vittoria ancora

      più memorabile di quella del dittatore. A dir la verità, gran parte del

      merito della sconfitta inflitta ai Sanniti venne attribuito ai

      luogotenenti Publio Decio e Marco Valerio, i quali, nel corso delle

      successive elezioni, vennero nominati con ampia maggioranza console il

      primo e pretore il secondo.

      

      41 Come premio per la brillante sottomissione dell'Etruria Fabio ottenne

      il prolungamento del consolato, avendo Decio come collega. Valerio venne

      eletto pretore per la quarta volta. I consoli si divisero tra loro gli

      incarichi: a Decio toccò in sorte l'Etruria, mentre a Fabio andò il

      Sannio. Partito alla volta di Nocera Alfaterna, Fabio, dopo aver respinto

      la richiesta di pace fatta da quella città (perché non aveva voluto

      accettarla quando essa era stata offerta dai Romani), la attaccò

      costringendola alla resa incondizionata. Affrontò poi in campo aperto i

      Sanniti, sconfiggendoli senza eccessivo impegno. Di questa battaglia non

      ne sarebbe rimasta notizia, se nell'occasione i Marsi non avessero

      combattuto per la prima volta contro i Romani. Alla defezione dei Marsi

      seguì quella dei Peligni, che andarono incontro allo stesso destino.

      La guerra ebbe esito positivo anche per l'altro console, Decio, il quale

      spaventò i Tarquiniensi al punto tale da costringerli a fornire frumento

      all'esercito e a chiedere una tregua quarantennale. Prese poi con la forza

      alcune roccaforti degli abitanti di Volsinii, distruggendone una parte,

      per evitare che offrissero rifugio ai nemici. Scorrazzando e devastando in

      lungo e in largo la zona, seminò un panico tale da portare l'intera gente

      etrusca a chiedere al console un trattato di pace. Il trattato fu negato,

      mentre venne concessa una tregua di un anno, il cui prezzo fu il pagamento

      all'esercito romano dello stipendio di quell'anno in corso, e la fornitura

      di due tuniche a ogni soldato.

      A turbare la situazione ormai sotto controllo in Etruria fu la

      sollevazione degli Umbri, popolo che non aveva avuto ancora contatti con i

      disastri della guerra, salvo il fatto di aver subito da parte dei Romani

      devastazioni delle campagne. Chiamati alle armi tutti i loro giovani e

      sobillata gran parte degli Etruschi a ricominciare la guerra, gli Umbri

      raccolsero un esercito tanto massiccio che, lasciatisi alle spalle Decio

      in Etruria, nutrivano il baldanzoso progetto di porre l'assedio a Roma, e

      nei loro discorsi mostravano grande fiducia nei propri mezzi e disprezzo

      per i Romani. Quando la notizia dei loro movimenti arrivò alle orecchie

      del console Decio, questi a marce forzate si diresse dall'Etruria a Roma,

      fermandosi nella regione di Pupinia, in attesa di notizie sul nemico. A

      Roma la guerra contro gli Umbri non veniva trascurata, e già soltanto le

      minacce lanciate dal nemico avevano spaventato la gente, che in occasione

      del disastro causato dai Galli avevano già avuto modo di saggiare quanto

      fosse insicura la posizione della città. E proprio per questo inviarono

      una delegazione al console Fabio con l'ordine di portare immediatamente

      l'esercito in Umbria, se solo la guerra contro i Sanniti gli avesse

      lasciato un attimo di tregua. Il console obbedì, e si diresse a marce

      forzate verso Mevania, dove in quel momento si trovavano le forze degli

      Umbri.

      L'arrivo improvviso del console, che i nemici credevano fosse lontano

      dall'Umbria alle prese con un altro conflitto nel Sannio, li terrorizzò a

      tal punto che c'era chi proponeva di barricarsi all'interno delle mura,

      chi invece di lasciar perdere la guerra. Una sola popolazione - da loro

      chiamata Materina - non si limitò soltanto a convincere le altre a

      rimanere in armi, ma le trascinò sùbito allo scontro. Assalirono Fabio

      mentre era impegnato a fortificare il campo. E il console, quando li vide

      riversarsi in massa contro le difese, richiamò i soldati dalle loro

      occupazioni e li schierò come la conformazione del terreno e le

      circostanze gli permettevano. Li esortò ricordando con parole accorate i

      grandi riconoscimenti militari ottenuti combattendo sia in Etruria sia nel

      Sannio, e li invitò a porre fine a quella ridicola appendice della guerra

      con gli Etruschi, e a far scontare agli Umbri le loro scellerate

      dichiarazioni, che minacciavano un attacco a Roma. Le sue parole

      suscitarono un entusiasmo tale negli uomini da portarli a levare un urlo

      spontaneo col quale interruppero il discorso del comandante. Prima ancora

      di ricevere l'ordine, prima che i corni e le trombe si mettessero a

      suonare, si lanciarono contro il nemico correndo col cuore in gola. Si

      gettarono come se gli altri non fossero guerrieri, quasi non indossassero

      le armi. E - cosa questa ben più difficile a credersi - cominciarono a

      strappare di mano le insegne agli alfieri, per poi trascinare addirittura

      gli alfieri di fronte al console, spingere tra le linee romane i soldati

      nemici con ancora le armi in pugno e, là dove la lotta infuriava, servirsi

      più degli scudi che delle spade, scaraventando a terra gli avversari con

      la punta dello scudo o con una spallata. Il numero dei prigionieri superò

      quello dei caduti, mentre per tutto il campo si sentiva soltanto una voce,

      ovvero quella dei vincitori che li invitavano a deporre le armi. Fu così

      che, nel mezzo dello scontro, si arresero proprio quelli che avevano

      scatenato la guerra. L'indomani e i giorni successivi si arresero anche le

      altre tribù di Umbri: agli abitanti di Ocricoli venne però formalmente

      promesso che sarebbero stati accolti tra gli amici di Roma.

      

      42 Fabio, trionfatore in una guerra destinata dalla sorte al comando di

      altri, riportò l'esercito nella zona di sua competenza. Perciò, a séguito

      di quelle imprese tanto fortunate, come l'anno prima il popolo gli aveva

      concesso di ripetere il consolato, così adesso il senato (non ostante

      l'opposizione soprattutto di Appio) gli prorogò il comando delle

      operazioni per l'anno successivo, durante il quale furono eletti consoli

      Appio Claudio e Lucio Volumnio.

      In alcuni annali ho trovato che Appio aveva presentato la sua candidatura

      al consolato quand'era ancora censore, e che il tribuno della plebe Lucio

      Furio aveva opposto il proprio veto a tale elezione, fino a quando non

      avesse rinunciato alla censura. Nominato console, mentre al collega venne

      affidata una nuova guerra (contro i Sallentini), Appio rimase a Roma, per

      incrementare il proprio potere con attività civili, dato che la gloria in

      campo militare era appannaggio di altri.

      Volumnio non ebbe motivo di dispiacersi dell'incarico toccatogli, perché

      ebbe la meglio in parecchi scontri e prese con la forza numerose città

      nemiche. Era molto generoso in materia di bottino, e tale munificità già

      di per sé gradita era impreziosita dalla sua affabilità: queste doti

      avevano spinto i suoi uomini ad affrontare fatiche e pericoli.

      Quinto Fabio, col grado di proconsole, affrontò in campo aperto l'esercito

      sannita nei pressi della città di Alife. La vittoria non presentò margini

      di incertezza: i nemici vennero travolti e costretti a rientrare al campo.

      E non sarebbe loro rimasta neppure questa possibilità, se il giorno non

      fosse stato ormai alla fine. Ciò non ostante vennero circondati prima del

      buio, e guardati a vista durante la notte, per evitare che qualcuno

      fuggisse. All'alba i Sanniti cominciarono a trattare la resa, ottenendo

      come condizioni che ciascuno di loro fosse liberato e fatto passare sotto

      il giogo con addosso un solo indumento. I loro alleati non ebbero alcun

      tipo di garanzia: furono venduti all'asta in numero di 7.000. Quanti

      invece avevano dichiarato di essere cittadini ernici, vennero separati e

      custoditi a parte, per poi essere inviati in massa da Fabio di fronte al

      senato di Roma. Lì venne loro chiesto se avessero combattuto come

      volontari oppure fossero stati arruolati con una regolare leva militare;

      poi furono affidati alle varie genti latine col cómpito di sorvegliarli. I

      consoli neoeletti, ovvero Publio Cornelio Arvina e Quinto Marcio Tremulo

      nominati poco tempo prima, ricevettero disposizione di aprire un'inchiesta

      sull'intera faccenda e di riferirne al senato. Gli Ernici si risentirono:

      e poiché la gente di Anagni aveva convocato l'assemblea plenaria di tutta

      la gente ernica nel circo oggi chiamato Marittimo, tutto il popolo ernico,

      con la sola eccezione di Alatri, Ferentino e Veroli, dichiarò guerra a

      Roma.

      

      43 Poiché Fabio aveva lasciato la zona, anche nel Sannio ripresero le

      ostilità. I Sanniti espugnarono Calazia e Sora con i presidi romani che vi

      si trovavano, e infierirono barbaramente sui prigionieri. Per questo

      Publio Cornelio venne mandato là con un esercito. A Marcio venne invece

      affidata la spedizione contro i nemici recenti, visto che agli Anagnini e

      al resto degli Ernici era già stata dichiarata guerra. In una prima fase i

      nemici occuparono tutti i punti strategici tra gli accampamenti dei due

      consoli, così che non poteva passare nemmeno un messaggero disarmato, e

      per parecchi giorni i consoli rimasero senza notizie preoccupandosi l'uno

      e l'altro delle sorti del collega. L'apprensione contagiò anche Roma, al

      punto che tutti i giovani vennero chiamati alle armi; furono formati così

      due eserciti completi per affrontare gli imprevisti del caso. Ma la guerra

      contro gli Ernici non corrispose alle paure che aveva suscitato né alla

      gloria militare che quel popolo aveva dimostrato in passato. Non presero

      mai, da nessuna parte, alcuna iniziativa degna di essere menzionata: persi

      tre accampamenti nel giro di pochi giorni, scesero a patti ottenendo una

      tregua di trenta giorni, in maniera da poter inviare una delegazione al

      senato di Roma; la condizione fu che pagassero lo stipendio all'esercito,

      e fornissero i viveri per due mesi e una veste per ogni soldato. Il senato

      li indirizzò a Marcio, cui conferì con un proprio decreto pieni poteri

      circa le condizioni da imporre agli Ernici. Ed egli ne accettò la resa.

      Nel Sannio l'altro console, pur avendo la superiorità numerica, era in

      difficoltà per la natura impervia dei luoghi. I nemici avevano sbarrato

      tutte le vie di comunicazione, occupando i passi praticabili per impedire

      i rifornimenti. E il console, pur schierando ogni giorno il suo esercito

      in ordine di battaglia, non riusciva a trascinare i Sanniti allo scontro,

      ed era evidente che né i Sanniti avevano intenzione per il momento di

      accettare battaglia, né i Romani di sopportare che la guerra venisse

      tirata per le lunghe. L'arrivo di Marcio, accorso in aiuto del collega

      dopo aver sottomesso gli Ernici, tolse però ai nemici la possibilità di

      evitare ancora lo scontro. Infatti, siccome già prima non si ritenevano in

      grado di affrontare in campo aperto un solo esercito, adesso erano

      convinti di non avere più alcuna speranza, nel caso in cui avessero

      permesso ai due eserciti consolari di riunirsi. E per questo piombarono

      sulle truppe di Marcio che si stavano avvicinando in formazione poco

      compatta. Il console fece sùbito abbandonare a terra i bagagli e schierò i

      suoi come il caso gli permetteva. In un primo tempo arrivò al campo il

      frastuono delle urla, poi il polverone alzato in lontananza destò grande

      apprensione nell'accampamento dell'altro console. Questi immediatamente

      diede ordine di armarsi e, dopo aver tempestivamente schierato i suoi in

      ordine di battaglia, assalì il fianco delle truppe nemiche, già impegnate

      in un altro scontro, urlando che sarebbe stata una grossa umiliazione se

      avessero lasciato all'altro esercito l'onore di entrambe le vittorie,

      senza rivendicare per se stessi la gloria nella guerra toccata loro.

      Sfondarono là dove avevano attaccato e, attraversate le linee avversarie,

      avanzarono fino all'accampamento nemico, che presero e diedero alle fiamme

      perché completamente sguarnito. Quando i soldati di Marcio videro le

      fiamme e anche i nemici si voltarono a guardare, i Sanniti cominciarono a

      darsi alla fuga da una parte e dall'altra: ovunque però furono raggiunti

      dal massacro, senza trovare scampo in alcuna direzione.

      Dopo che già 30.000 nemici erano stati uccisi, il console fece suonare la

      ritirata. Stavano già raccogliendo le truppe complimentandosi a vicenda,

      quando all'improvviso apparvero all'orizzonte nuovi contingenti nemici

      (erano ausiliari inviati a sostegno): così la strage fu completa. Senza

      nemmeno aspettare l'ordine dei consoli né il segnale di battaglia, i

      vincitori si riversarono loro addosso, urlando che i Sanniti avrebbero

      dovuto iniziare la loro ferma con un duro tirocinio. I consoli non si

      opposero allo slancio delle legioni, consapevoli del fatto che le giovani

      reclute nemiche, mescolate ai veterani in rotta, non avrebbero neppure

      avuto il coraggio di tentare il combattimento. Il loro ragionamento non si

      dimostrò sbagliato: tutte le forze sannite, vecchie e nuove, fuggirono

      verso i monti circostanti. Ma anche l'esercito romano si diresse da quella

      parte, e non c'era più un punto che fosse sicuro per gli sconfitti,

      scacciati anche dalle alture che avevano occupato. Ormai chiedevano la

      pace a una voce sola. Dopo aver subito l'onere di fornire il grano per tre

      mesi, pagare lo stipendio per un anno e dotare ogni soldato di una tunica,

      i Sanniti inviarono al senato una delegazione per chiedere la pace.

      Cornelio rimase nel Sannio. Marcio ritornò a Roma, dove entrò in trionfo

      per la vittoria sugli Ernici, e gli venne decretata una statua equestre

      nel Foro, che fu collocata di fronte al tempio di Castore. Alle tre città

      erniche di Alatri, Veroli e Ferentino vennero lasciate le loro leggi,

      perché avevano preferito questa condizione alla cittadinanza romana, e fu

      loro concesso il diritto di contrarre matrimonio misto (diritto questo che

      essi furono i soli tra gli Ernici a conservare a lungo). Agli abitanti di

      Anagni e al resto delle genti che avevano preso le armi contro Roma fu

      concessa la cittadinanza romana senza diritto di voto, venne revocato il

      diritto di libera assemblea e di matrimonio misto, e fu loro vietato di

      avere dei magistrati propri, fatta eccezione per quelli che si occupavano

      del culto.

      Nello stesso anno il censore Gaio Giunio Bubulco appaltò la costruzione

      del tempio della Salute da lui promesso in voto quand'era console durante

      la guerra contro i Sanniti. Lo stesso Giunio insieme al collega Marco

      Valerio Massimo fece costruire a spese dello stato una rete di strade che

      attraversava le campagne. E ancora in quell'anno venne rinnovato per la

      terza volta il trattato con Cartagine, e gli ambasciatori venuti a Roma

      per questo scopo ricevettero doni e un trattamento di grande cortesia.

      

      44 Lo stesso anno ebbe come dittatore Publio Cornelio Scipione, e Publio

      Decio Mure in qualità di maestro di cavalleria. I due presiedettero le

      elezioni consolari (cómpito per il quale erano stati nominati, in quanto

      nessuno dei due consoli aveva potuto allontanarsi dal fronte). Vennero

      eletti consoli Lucio Postumio e Tiberio Minucio. Questi consoli per Pisone

      seguono a Quinto Fabio e a Publio Decio, saltando però il biennio durante

      il quale abbiamo riferito che i consoli furono Claudio con Volumnio e

      Cornelio con Marcio. Non è chiaro se Pisone li abbia dimenticati nel

      redigere gli annali, oppure se abbia omesso di proposito i due consolati,

      ritenendoli privi di fondamento.

      Nel corso dello stesso anno ci furono incursioni da parte dei Sanniti

      nella pianura Stellate in Campania. Entrambi i consoli vennero inviati nel

      Sannio, dirigendosi però in zone diverse, Postumio a Tiferno e Minucio a

      Boviano. Il primo scontro avvenne a Tiferno, agli ordini di Postumio:

      alcuni autori sostengono che i Sanniti vennero sconfitti in maniera netta

      e che furono fatti 20.000 prigionieri; altri invece che le parti si

      allontanarono dopo una battaglia dall'esito rimasto incerto, che Postumio,

      fingendo di aver paura, marciando di notte andò a nascondere le sue truppe

      sui monti, e che i nemici gli tennero dietro, accampandosi a due miglia di

      distanza da lui in una posizione ben protetta. Il console, volendo dare

      l'impressione di aver scelto quella zona per porre l'accampamento fisso,

      in quanto sicura e ricca (come in effetti era), in un primo tempo fece

      dotare il campo di difese, attrezzandolo con ogni tipo di materiale. Dopo

      avervi lasciato una massiccia guarnigione armata, nel pieno della notte

      guidò lungo il percorso più breve possibile le sue truppe equipaggiate

      alla leggera fino a raggiungere il collega, accampato di fronte a un altro

      esercito nemico. Lì, su consiglio di Postumio, Minucio attaccò battaglia,

      e poiché lo scontro andò avanti nell'incertezza fino a giorno inoltrato

      Postumio aggredì all'improvviso con le sue forze ancora fresche i nemici

      ormai stremati. E così, visto che i Sanniti non riuscivano a fuggire per

      la stanchezza e le ferite riportate, furono uccisi tutti dal primo

      all'ultimo, mentre i Romani catturarono ventuno insegne, dirigendosi poi

      verso l'accampamento di Postumio. Qui i due eserciti vincitori, gettandosi

      sui nemici demoralizzati per le notizie ricevute, li travolsero

      costringendoli alla fuga e catturando ventisei insegne militari, più il

      comandante dei Sanniti Stazio Gellio, molti altri uomini ed entrambi gli

      accampamenti. Il giorno successivo venne iniziato l'assedio di Boviano,

      catturata anch'essa in breve tempo, e i due consoli che tanta gloria

      avevano conquistato con quelle imprese celebrarono il trionfo. Alcuni

      autori sostengono che il console Minucio, riportato nell'accampamento con

      una ferita molto grave, morì sul posto, e che per sostituirlo venne

      nominato console Marco Fulvio il quale, subentrando a Minucio nel comando

      del suo esercito, avrebbe conquistato Boviano.

      Nel corso di quell'anno Sora, Arpino e Cesennia vennero nuovamente

      strappate ai Sanniti, mentre una grande statua di Ercole venne collocata

      in Campidoglio e lì consacrata.

      

      45 Durante il consolato di Publio Sulpicio Saverrione e di Publio

      Sempronio Sofro, i Sanniti - nel desiderio di porre fine alla guerra o di

      ottenere una tregua - inviarono a Roma ambasciatori per discutere la pace.

      Alle loro suppliche venne replicato che, se i Sanniti non avessero di

      frequente richiesto la pace continuando in realtà a preparare la guerra,

      si sarebbe potuto stipulare un trattato di pace con una semplice

      discussione tra le due parti in causa. Ma ora che le parole a tale

      riguardo si erano dimostrate vane, era necessario starsene ai fatti. Il

      console Publio Sempronio si sarebbe recato di lì a poco nel Sannio con un

      esercito, e non gli sarebbe certo potuto sfuggire che intenzioni avessero

      i Sanniti, se bellicose o pacifiche. Chiarito ogni aspetto, avrebbe

      riferito al senato. Che quindi i delegati seguissero il console al suo

      rientro dal Sannio. Quell'anno, poiché un esercito romano che l'aveva

      percorso in lungo e in largo aveva trovato il Sannio in condizioni

      pacifiche ed era stato generosamente rifornito dalle genti del posto, ai

      Sanniti venne di nuovo concesso il trattato di pace di una volta.

      Le armi di Roma si rivolsero poi contro gli Equi, antichi nemici, che per

      anni non avevano dato fastidi, sotto le apparenze di una pace di cui non

      ci si poteva fidare, ma che prima della disfatta inflitta agli Ernici

      avevano con questi ripetutamente inviato aiuti ai Sanniti, e che dopo la

      sottomissione degli Ernici erano passati quasi in massa dalla parte del

      nemico senza che venisse nascosta l'ufficialità di tale decisione. E

      quando poi - conclusa a Roma la pace coi Sanniti - erano arrivati i

      feziali a chiedere soddisfazione, gli Equi avevano sostenuto trattarsi di

      una manovra fatta dai Romani per convincerli ad accettare la cittadinanza

      romana forzandoli con lo spauracchio di una guerra. Ma quanto la cosa

      fosse desiderabile, erano stati loro Ernici a mostrarlo, scegliendo,

      quando ne venne data l'opportunità, le proprie leggi in luogo della

      cittadinanza romana. Quanti invece non avevano avuto l'opportunità di

      scegliere la soluzione preferita avevano dovuto loro malgrado accettare la

      cittadinanza romana come un castigo. Siccome i discorsi che si tenevano

      nelle assemblee erano in genere di questo tenore, il popolo romano ordinò

      di fare guerra agli Equi. E i due consoli, partiti alla volta del nuovo

      conflitto, si attestarono a quattro miglia dal campo nemico.

      L'esercito degli Equi, che non combattevano più guerre per conto proprio

      da moltissimi anni, costituito com'era da truppe raccogliticce, prive di

      comandanti e di precise autorità interne, era in grave affanno. E mentre

      alcuni proponevano di uscire allo scoperto e altri di difendere

      l'accampamento, la maggior parte fremeva al pensiero delle campagne

      devastate e delle città distrutte, essendo rimaste prive di guarnigioni

      armate. E così, quando tra le molte proposte se ne sentì una che lasciava

      da parte la causa comune invitando i singoli a preoccuparsi del proprio

      interesse particolare (e cioè a uscire, col calar della notte,

      dall'accampamento e portar via ogni cosa, rientrando nelle rispettive

      città per mettersi al riparo delle mura), venne accolta da un grande

      applauso collettivo. Quando i nemici si erano già sparsi per le campagne,

      all'alba i Romani si schierarono in ordine di battaglia. Ma dato che

      nessuno si faceva avanti, si diressero sùbito verso l'accampamento nemico.

      Quando videro che lì non c'erano sentinelle alle porte né gente di guardia

      dietro la trincea, e che non si sentiva il brusio tipico degli

      accampamenti, preoccupati da quel silenzio anomalo si fermarono per paura

      di finire in un'imboscata. Scavalcata poi la trincea e avendo trovato

      tutto deserto, cercarono di mettersi sulle tracce dei nemici. Ma le orme

      che portavano in tutte le direzioni (come sempre succede nel corso delle

      ritirate inconsulte), in un primo tempo sviarono i Romani. Quando poi

      vennero a sapere da informatori le vere intenzioni dei nemi-ci,

      cominciarono ad attaccare le città una dopo l'altra. In cinquanta giorni

      ne espugnarono trentuno fortificate, la maggior parte delle quali venne

      rasa al suolo e data alle fiamme, mentre quasi l'intera etnia degli Equi

      andò distrutta. Per il successo sugli Equi venne celebrato il trionfo. Il

      loro annientamento servì da esempio ai Marrucini, ai Marsi, ai Peligni e

      ai Frentani, che inviarono a Roma delegati per chiedere pace e amicizia. E

      a questi popoli che ne facevano richiesta venne concesso un trattato di

      alleanza.

      

      46 Nello stesso anno, lo scrivano Gneo Flavio, figlio di un liberto (uomo

      per altro in gamba e ottimo parlatore) e di condizione molto umile, venne

      eletto edile curule. In alcuni annali ho trovato che, quando faceva ancora

      lo scrivano al servizio degli edili, vedendo che le tribù lo stavano

      designando edile ma che il suo nome non era tenuto in considerazione per

      la sua occupazione, depose la tavoletta giurando che non avrebbe mai più

      fatto quel lavoro. Ma Licinio Macro sostiene che Flavio doveva aver smesso

      molto prima di fare lo scrivano, perché era già stato tribuno della plebe

      e triumviro per due volte, la prima addetto alla vigilanza notturna, la

      seconda alla deduzione di una colonia. È comunque assodato che lottò con

      grande fermezza contro i nobili i quali ne disprezzavano le umili origini.

      Rese di pubblico dominio le formule del diritto civile, custodite negli

      archivi segreti dei pontefici, e fece affiggere nel Foro il calendario dei

      giorni fasti, perché tutti fossero al corrente dei giorni nei quali

      potevano adire le vie legali. Consacrò il tempio della Concordia nell'area

      di Vulcano, suscitando grande indignazione tra i nobili, perché in

      quell'occasione il pontefice massimo Cornelio Barbato fu costretto dal

      consenso unanime del popolo a suggerirgli le formule del rituale, non

      ostante continuasse a ripetere che per tradizione i soli autorizzati a

      consacrare un tempio erano il console o il comandante in capo delle forze

      armate. In séguito a quell'episodio, su proposta del senato, venne

      presentata al popolo una legge in virtù della quale nessuno poteva

      consacrare un tempio o un altare senza l'autorizzazione del senato o della

      maggioranza dei tribuni della plebe.

      Riferirò poi un episodio che di per sé non avrebbe alcuna importanza, ma

      che risulta essere una prova tangibile del senso di libertà della plebe

      davanti alla tracotanza nobiliare. Poiché Flavio era andato a fare visita

      a un collega malato, e i giovani nobili seduti intorno non si erano alzati

      di proposito al suo arrivo, egli fece portare laggiù la sedia curule e

      dall'alto di quel simbolo della sua autorità rimase a guardare i suoi

      avversari che si consumavano di rabbia.

      A eleggere Flavio era stata la fazione del Foro, divenuta potente grazie

      alla censura di Appio Claudio, che era stato il primo a contaminare la

      purezza del senato immettendovi figli di liberti. Ma poiché nessuno aveva

      considerato valida quella scelta ed egli non era riuscito a ottenere in

      senato quel potere politico che intendeva raggiungere, divise fra tutte le

      tribù i cittadini di più umile estrazione, corrompendo così il Foro e il

      Campo Marzio. E l'elezione di Flavio suscitò un tale sdegno, che la

      maggior parte dei nobili abbandonò l'anello d'oro e il medaglione da

      cavalieri.

      Da quel momento la città risultò divisa in due partiti: da un lato la

      parte di popolo che non era ancora corrotta e che sosteneva e rispettava i

      cittadini di estrazione più elevata, mentre dall'altro c'era la feccia del

      Foro, fino a quando vennero nominati censori Quinto Fabio e Publio Decio,

      e Fabio - vuoi per evitare che i comizi finissero in mano alla canaglia

      più abietta, vuoi per ristabilire la concordia - separò tutta la plebaglia

      del Foro, concentrandola in quattro tribù cui diede il nome di "urbane". A

      quanto si racconta i cittadini avrebbero avuto per lui una gratitudine

      tale da attribuirgli, in relazione a questo assennato riordinamento delle

      classi, il soprannome di Massimo, che non era riuscito a ottenere pur con

      tutte le vittorie sul campo. Sembra che sia stato ancora Fabio ad avere

      introdotto l'usanza di passare in rassegna i cavalieri alle idi di luglio.

      

      LIBRO X

      

      

      

      1 Durante il consolato di Lucio Genucio e di Servio Cornelio la tregua da

      guerre esterne fu quasi completa. Vennero fondate le colonie di Sora e di

      Alba. Ad Alba, che si trovava nel territorio degli Equi, furono inviati

      6.000 coloni. Sora aveva fatto in passato parte del territorio dei Volsci,

      per poi essere occupata dai Sanniti. Lì vennero inviati 4.000 uomini. Nel

      corso degli stessi anni venne concessa la cittadinanza romana agli

      abitanti di Arpino e di Trebula. Gli abitanti di Frusino furono invece

      condannati alla perdita di un terzo del loro territorio, perché emerse che

      avevano spinto gli Ernici a ribellarsi: dopo un'inchiesta condotta dai

      consoli su incarico del senato, i capi del complotto furono frustati e

      decapitati. Ciò non ostante, a far sì che l'anno non trascorresse del

      tutto senza episodi militari, ci fu una modesta spedizione in Umbria; era

      infatti giunta notizia di una banda armata che, partendo da una caverna,

      compiva scorrerie per le campagne. Truppe romane raggiunsero la caverna,

      ma per l'oscurità sulle prime subirono molte ferite, fino a quando non

      scoprirono un altro accesso percorribile in entrambe le direzioni, e

      appiccarono il fuoco a cataste di legna alle due imboccature. E così i

      2.000 uomini circa che si trovavano all'interno della grotta, costretti a

      gettarsi attraverso le fiamme, alla fine morirono soffocati dal fumo e dal

      calore nel tentativo di uscire.

      Durante il consolato di Marco Livio Dentre e di Marco Emilio riprese la

      guerra contro gli Equi. Poiché non accettavano la colonia romana, quasi

      una roccaforte di Roma all'interno del loro territorio, gli Equi tentarono

      con ogni mezzo di espugnarla, venendo però respinti dai coloni stessi. Ma

      a Roma la cosa creò una tale apprensione - sembrava impossibile che gli

      Equi, nel loro misero stato, avessero affrontato la guerra basandosi

      soltanto sulle proprie forze -, che per far fronte a quell'insurrezione

      venne nominato dittatore Gaio Giunio Bubulco. Questi, partito col maestro

      di cavalleria Marco Titinio, al primo scontro ebbe la meglio sugli Equi e,

      rientrato a Roma in trionfo dopo otto giorni, inaugurò come dittatore il

      tempio alla Salute che aveva promesso in voto quand'era console e la cui

      costruzione aveva dato in appalto al tempo della sua censura.

       

      2 Nello stesso anno una flotta greca agli ordini dello spartano Cleonimo

      approdò sulle coste italiche, andando a occupare la città di Turie nel

      territorio dei Sallentini. Fu inviato ad affrontarlo il console Emilio,

      che mise in fuga Cleonimo con un'unica battaglia, costringendolo a trovare

      riparo sulle navi. Turie venne così restituita ai suoi cittadini, e nel

      territorio sallentino ritornò la pace. In alcuni annali ho trovato che a

      essere inviato tra i Sallentini fu il dittatore Giunio Bubulco, e che

      Cleonimo lasciò l'Italia prima ancora che lo scontro coi Romani diventasse

      inevitabile.

      Dopo aver doppiato il capo di Brindisi ed esser stati spinti dai venti in

      mezzo all'Adriatico, temendo sulla sinistra le coste italiche prive di

      porti e sulla destra la presenza di Illiri, Liburni e Istri (popoli

      bellicosi e di pessima fama perché dediti alla pirateria), avanzarono fino

      alle coste abitate dai Veneti. Lì Cleonimo, dopo aver sbarcato alcuni

      uomini col cómpito di esplorare la zona, ricevette queste informazioni:

      che c'era una sottile striscia di terra oltre la quale si aprivano lagune

      alimentate dall'acqua del mare; che si vedevano lì vicino campagne

      pianeggianti e, poco oltre, colline; che inoltre avevano individuato la

      foce di un fiume molto profondo dov'era possibile ormeggiare le navi in

      maniera sicura (il fiume era il Brenta). Allora Cleonimo ordinò di

      trasferire la flotta in quella zona risalendo la corrente. Poiché il letto

      del fiume non permetteva il passaggio delle navi più pesanti, la massa

      degli uomini armati si trasferì sulle imbarcazioni più leggere e arrivò in

      una zona molto abitata, dov'erano stanziate tre tribù marittime di

      Patavini. Sbarcati in quel punto, dopo aver lasciato una piccola

      guarnigione di presidio alle navi, espugnarono i villaggi, incendiarono le

      abitazioni, portarono via uomini e animali, allontanandosi sempre più

      dalle navi nella prospettiva di ulteriore bottino.

      Quando a Padova arrivò la notizia di ciò che stava succedendo, gli

      abitanti, costretti a un perenne allarme dalla minaccia dei Galli,

      divisero le proprie forze in due contingenti. Il primo si portò nella zona

      in cui erano stati segnalate le incursioni nemiche, l'altro, seguendo un

      percorso diverso per non incontrare gli avversari, si diresse invece verso

      il punto in cui erano ancorate le navi, a quattordici miglia dalla città.

      Eliminati gli uomini di guardia con un attacco di sorpresa, si riversarono

      sulle navi, costringendo i marinai a spostarle sulla sponda opposta del

      fiume. Anche lo scontro sulla terraferma contro gli autori dei saccheggi

      ebbe esito positivo. E mentre i Greci cercavano scampo in direzione delle

      navi, vennero affrontati dall'altro contingente di Veneti, che li

      accerchiò e massacrò. Alcuni prigionieri rivelarono che la flotta col re

      Cleonimo si trovava a tre miglia di distanza. Così, dopo aver lasciato i

      prigionieri in un villaggio dei dintorni perché fossero sorvegliati, i

      Patavini, imbarcandosi parte su battelli da fiume costruiti apposta col

      fondo piatto per affrontare i bassi fondali delle lagune, e parte invece

      sulle imbarcazioni sottratte ai Greci, raggiunsero la flotta nemica,

      circondandone le navi rimaste immobili per paura del fondale sconosciuto

      più che del nemico. E mentre i Greci fuggivano verso il largo senza

      nemmeno cercare di opporre resistenza, i Patavini li inseguirono fino alla

      foce del fiume, e dopo aver strappato loro e incendiato alcune delle navi

      finite, nella grande confusione, sui banchi di sabbia, rientrarono

      vincitori. Cleonimo se ne partì con soltanto un quinto della flotta

      intatto, senza aver raccolto alcun risultato in nessuna parte

      dell'Adriatico. A Padova ci sono ancora oggi molte persone che hanno visto

      i rostri delle navi e le spoglie spartane appese nel vecchio santuario di

      Giunone. A ricordo di quella battaglia fluviale, nel giorno in cui essa fu

      combattuta si tengono oggi solenni gare di navi lungo il fiume che scorre

      attraverso la città.

      

      3 Nello stesso anno a Roma venne stipulato un trattato con gli abitanti di

      Vesta giunti con una richiesta di amicizia. Ci furono poi numerose ragioni

      di allarme. Arrivò la notizia che l'Etruria si stava ribellando a séguito

      di un'insurrezione scoppiata ad Arezzo, dove l'influente famiglia dei

      Cilni, odiata dagli Aretini per le ricchezze che possedeva, stava per

      essere scacciata con la forza dalla città. Nel contempo fu annunciato che

      i Marsi stavano difendendo con vigore la terra sulla quale era stata

      fondata la colonia di Carseoli, costituita da 4.000 uomini. Per far fronte

      a questi disordini, venne nominato dittatore Marco Valerio Massimo, che

      scelse come maestro di cavalleria Marco Emilio Paolo. Personalmente

      preferisco questa versione dei fatti a quella secondo la quale Quinto

      Fabio, non ostante l'età e le molte cariche ricoperte, sarebbe stato

      subordinato a Valerio. D'altra parte sarei portato a credere che l'errore

      sia dovuto alla confusione creata dal soprannome Massimo. Uscito da Roma

      alla guida dell'esercito, il dittatore sbaragliò i Marsi con un'unica

      battaglia. Dopo averli costretti a barricarsi all'interno delle loro città

      fortificate, nel giro di pochi giorni conquistò Milionia, Plestina e

      Fresilia. Condannò poi i Marsi alla perdita di parte del territorio,

      rinnovando però il trattato di alleanza con loro. Teatro delle operazioni

      fu in séguito l'Etruria. Mentre il dittatore si era recato a Roma per il

      rinnovo degli auspici, il maestro di cavalleria cadde in un'imboscata

      mentre usciva allo scoperto per cercare rifornimenti: perse alcune

      insegne, venne risospinto nell'accampamento, dopo un orribile massacro e

      la fuga vergognosa dei suoi uomini. Questa reazione terrorizzata non può

      essere attribuita a Fabio, e non solo perché se qualche altra dote più di

      altre gli valse il soprannome di Massimo questa fu certo la perizia

      strategica in guerra, ma anche perché non si sarebbe mai lasciato

      trascinare allo scontro senza un preciso ordine del dittatore, memore

      com'era della severità di Papirio.

      

      4 Quando la sconfitta venne annunciata a Roma, la reazione fu un panico

      sproporzionato alla realtà dei fatti. Come se l'esercito fosse stato fatto

      a pezzi, venne proclamata la sospensione delle attività giudiziarie,

      vennero piazzate sentinelle alle porte e fissati turni di vigilanza nei

      vari quartieri, mentre lungo il perimetro delle mura furono accumulati

      armi e proiettili. Dopo aver costretto tutti i giovani a prestare

      giuramento militare, il dittatore raggiunse l'esercito e trovò che la

      situazione era meno preoccupante di quanto non si aspettasse, e che il

      maestro di cavalleria aveva curato di rimettere tutto a posto: il campo

      era stato trasferito in un punto più sicuro, le coorti che avevano perduto

      le insegne erano state collocate al di là della trincea e non avevano

      tende, mentre l'esercito era impaziente di gettarsi nella mischia per

      riscattare quanto prima l'onta subita. Il dittatore fece pertanto spostare

      il campo più avanti, nel territorio di Ruselle. I nemici lo seguirono e,

      pur nutrendo dopo la vittoria grosse speranze di avere la meglio anche in

      un confronto in campo aperto, ciò non ostante ricorsero di nuovo alla

      tecnica dell'imboscata, di cui già si erano avvalsi con successo. Non

      lontano dall'accampamento romano c'erano le case diroccate di un villaggio

      messo a ferro e fuoco nel corso dei saccheggi alle campagne. I soldati

      nemici vi si andarono a nascondere, spingendo del bestiame di fronte a un

      presidio romano comandato dal luogotenente Gneo Fulvio. Poiché dalla

      postazione romana nessuno si lasciava attirare dall'esca, uno dei pastori

      arrivò fin sotto i dispositivi di difesa romani e gridando domandò ai

      compagni impegnati a sospingere con grande esitazione il bestiame fuori

      dai ruderi del villaggio che cosa avessero mai da aspettare, dato che

      potevano tranquillamente far passare gli animali attraverso l'accampamento

      romano. Alcuni soldati provenienti da Cere tradussero queste parole al

      luogotenente suscitando grande sdegno nei soldati di tutti i reparti, i

      quali però non osavano prendere alcuna iniziativa senza l'ordine del

      comandante; quest'ultimo ordinò allora agli interpreti di prestare

      attenzione se la lingua parlata da quei pastori fosse più simile a quella

      delle campagne o a quella di città. Quando gli venne riferito che

      l'inflessione della parlata, l'aspetto esteriore e la carnagione erano

      troppo raffinati per dei pastori, egli disse: «Andate, dite pure che

      rivelino il tranello che hanno cercato invano di nascondere: ormai i

      Romani sono al corrente di tutto, e ingannarli è difficile quanto

      superarli con le armi». Quando i sedicenti pastori sentirono queste parole

      e le andarono a riferire agli uomini pronti all'imboscata, i nemici

      saltarono immediatamente fuori dai nascondigli, e avanzarono in assetto da

      guerra verso la pianura che si apriva alla vista nella sua estensione.

      L'esercito schierato diede al luogotenente l'impressione di essere troppo

      massiccio perché il suo presidio fosse in grado di affrontarlo. Per questo

      mandò in fretta a chiedere aiuti al dittatore, sostenendo nel frattempo da

      solo l'urto dei nemici.

      

      5 Quando il dittatore ricevette il messaggio, ordinò ai soldati di uscire

      dall'accampamento e di seguirlo con le armi in pugno. Occorse meno tempo

      ad eseguire gli ordini che a impartirli. Gli uomini afferrarono in un

      attimo armi e insegne, e non era facile impedire che partissero

      immediatamente di corsa. A pungolarli erano tanto la rabbia per la

      sconfitta subita quanto il frastuono che arrivava sempre più forte dal

      campo di battaglia a misura che lo scontro aumentava di intensità. Così si

      incitavano l'uno con l'altro, esortando gli alfieri ad accelerare

      l'andatura. Ma il dittatore, più li vedeva impazienti, più era risoluto

      nell'ordinar loro di rallentare la marcia e di procedere lentamente. Dal

      canto loro gli Etruschi si erano gettati nella mischia impiegando sùbito

      tutte le loro forze. Un messaggero dopo l'altro arrivavano a riferire al

      dittatore che tutte le legioni etrusche stavano prendendo parte alla

      battaglia e che il presidio romano non era più in grado di resistere. Egli

      stesso poté vedere da un'altura in quali difficoltà si dibattessero i

      suoi. Confidando però nel fatto che il luogotenente fosse ancora in grado

      di reggere lo scontro, pur essendo già così vicino da poter accorrere in

      aiuto in caso di pericolo, volle che il nemico si sfiancasse il più

      possibile, in modo da poterlo aggredire con le truppe fresche quando ormai

      fosse allo stremo delle forze. Pur avanzando molto lentamente, restava ora

      poco spazio per lanciare la carica, specialmente per i cavalieri. In testa

      marciavano le insegne della fanteria, per evitare che il nemico avesse a

      sospettare mosse a sorpresa o tranelli. Ma il dittatore aveva lasciato

      intervalli tra le file di fanti, in modo che ci fosse spazio a sufficienza

      per far caricare i cavalli. Non appena si levò il grido di battaglia, i

      cavalieri si lanciarono a briglia sciolta contro i nemici che, impreparati

      a resistere all'urto imperioso della cavalleria, vennero colti da un

      attacco improvviso di panico. Così, anche se l'aiuto per poco non arrivava

      troppo tardi agli uomini che stavano per essere sopraffatti, ora poterono

      finalmente riposarsi per bene. Infatti subentrarono nel combattimento i

      soldati freschi, e lo scontro non fu più né incerto né si trascinò per le

      lunghe. Travolti, i nemici puntarono verso l'accampamento, e cedendo ai

      Romani che stavano già facendo breccia si andarono ad ammassare sul lato

      opposto del campo. I fuggitivi restarono intrappolati negli stretti

      passaggi delle porte: molti salivano sulla trincea e sul terrapieno,

      sperando di difendersi meglio da quella posizione elevata o di scavalcarne

      il perimetro in qualche punto e scappare. Ma per puro caso avvenne che il

      terrapieno, non essendosi ancora rassodato per bene, a causa del peso dei

      soldati che vi si trovavano al di sopra franò in un punto sbriciolandosi

      nel fossato sottostante: sfruttando quella breccia i nemici - più numerosi

      quelli disarmati che quelli armati - si precipitarono fuori urlando che

      gli dèi avevano voluto aprire loro una via di fuga.

      Quella battaglia fu la seconda occasione in cui la potenza etrusca venne

      sopraffatta, e il dittatore concesse agli sconfitti di mandare

      ambasciatori a Roma per discutere la pace, a patto che pagassero lo

      stipendio di un anno all'esercito e lo rifornissero di viveri per due

      mesi. La pace fu negata, mentre venne concessa una tregua di due anni. Il

      dittatore tornò a Roma in trionfo. Alcuni autori riferiscono che il

      dittatore riportò la pace in Etruria senza dover combattere battaglie

      degne di menzione, limitandosi a soffocare l'insurrezione degli Aretini

      grazie a una riconciliazione della plebe con la famiglia dei Cilni. Dopo

      la dittatura, Marco Valerio venne eletto console. Secondo alcune fonti

      egli venne eletto pur non avendo presentato la candidatura e per di più

      restando assente, e a presiedere quelle elezioni fu un interré. Ciò su cui

      tutti si trovano d'accordo, è che egli detenne il consolato insieme ad

      Apuleio Pansa.

      

      6 Durante il consolato di Marco Valerio e di Quinto Apuleio la situazione

      all'estero si mantenne relativamente pacifica. La sconfitta patita e la

      tregua concordata costringevano gli Etruschi a rimanere inattivi; i

      Sanniti, provati dalle perdite di molti anni di guerra, per il momento non

      erano scontenti del nuovo trattato; e anche a Roma la partenza di una

      cospicua quantità di persone verso le colonie aveva reso la plebe più

      tranquilla liberandola di molti oneri. Eppure, per far sì che non tutto

      fosse calmo, i tribuni Quinto e Gneo Ogulnio aprirono una controversia tra

      le famiglie più in vista del patriziato e della plebe. Dopo aver tentato

      con ogni mezzo di mettere in cattiva luce i patrizi agli occhi della

      plebe, i due tribuni, avendo visto fallire altri tentativi, si fecero

      carico di un'iniziativa rivolta non tanto alla parte più bassa della

      plebe, quanto piuttosto alle sue personalità egemoni, cioè quei plebei che

      erano stati consoli riportando trionfi, ai quali - tra le tante cariche

      ricoperte - mancavano ormai soltanto quelle di natura religiosa, che non

      erano ancora aperte alla plebe. Proposero quindi una legge in base alla

      quale venissero aggiunti ai quattro pontefici e ai quattro àuguri già

      esistenti quattro pontefici e cinque àuguri eletti all'interno della

      plebe. Non ho trovato alcuna spiegazione al fatto che in quel periodo il

      collegio degli àuguri si fosse ridotto a contare su quattro membri, a meno

      che ne fossero deceduti due. È noto infatti che il numero degli àuguri

      dev'essere dispari, in maniera tale che le tre antiche tribù di Ramnensi,

      Tiziensi e Luceri abbiano un àugure a testa, oppure, qualora si renda

      necessario un numero più alto di officianti, i sacerdoti siano sempre

      moltiplicati in proporzioni pari, come successe quando, aggiungendone

      cinque ai quattro esistenti, si raggiunse il numero di nove, ovvero tre

      per ogni tribù. Il fatto che si avessero àuguri scelti all'interno della

      plebe suscitò nei patrizi un'indignazione pari a quella provata vedendo il

      consolato divenire accessibile alle masse. Davanti all'opinione pubblica

      fingevano che la cosa riguardasse più gli dèi che loro stessi: gli dèi

      avrebbero fatto in modo di evitare che i riti sacri subissero

      contaminazioni, ed essi si auguravano soltanto che non si abbattesse

      qualche calamità sul paese. Tuttavia non si opposero con grande

      accanimento, abituati ormai ad avere la peggio in confronti politici di

      quel tipo. Vedevano infatti che i loro avversari ormai non si limitavano

      soltanto più ad aspirare alle cariche di maggiore prestigio - cariche che

      in passato avevano sperato a stento di ottenere -, ma avevano raggiunto

      già tutti i traguardi per i quali la lotta era stata ben più incerta, e

      cioè consolati, censure e trionfi in grande quantità.

      Tuttavia si aprì il dibattito tra i fautori e gli oppositori della legge,

      e in particolare fra Appio Claudio e Publio Decio Mure. Dopo essersi

      confrontati discutendo sui diritti del patriziato e della plebe, e

      ricorrendo più o meno agli stessi argomenti usati ai tempi della legge

      Licinia, proprio nel momento in cui veniva chiesta l'ammissione della

      plebe al consolato, pare che Decio abbia rievocato la figura del padre,

      quale molti dei presenti avevano avuto modo di vedere in carne e ossa,

      quando aveva offerto in voto la propria vita per il popolo e per

      l'esercito romano, con i piedi sulla lancia e indosso la toga portata alla

      maniera di Gabi. Diceva che in quel momento il console Publio Decio era

      parso pio e puro agli dèi immortali, allo stesso modo in cui sarebbe

      apparso il suo collega Tito Manlio nel caso in cui si fosse lui offerto in

      voto. Forse che quello stesso Publio Decio non avrebbe potuto essere

      regolarmente scelto per celebrare i riti sacri del popolo romano? C'era

      forse il rischio che gli dèi non ascoltassero le sue preghiere come quelle

      di Appio Claudio? Forse Appio era più devoto nella pratica dei culti

      privata e onorava gli dèi in maniera più conforme al rito di quanto non

      facesse lui? Chi si era mai lamentato dei voti pronunciati a nome dello

      Stato da tanti consoli e da tanti dittatori plebei prima di partire per la

      guerra e durante la guerra? Che andassero a passare in rassegna i

      comandanti di quegli anni, da quando cioè le guerre avevano cominciato a

      essere affidate al comando e agli auspici dei plebei. Che andassero a

      contare i trionfi ottenuti: ormai i plebei non dovevano più lamentarsi

      nemmeno di essere inferiori quanto a nobiltà di sangue. Decio era sicuro

      che, se fosse scoppiata una guerra sul momento, il senato e il popolo

      romano non avrebbero fatto affidamento sui comandanti patrizi più che sui

      plebei.

      «E visto che le cose stanno in questi termini», aggiunse, «chi tra gli

      uomini e gli dèi può considerare indegno il fatto che le insegne di àuguri

      e pontefici vengano attribuite a quei gentiluomini che voi avete insignito

      delle sedie curuli, della toga pretesta, della tunica palmata, della toga

      ricamata, della corona trionfale e dell'alloro, le cui case avete adornato

      con le spoglie nemiche appese alle pareti? L'uomo che ha attraversato la

      città sul cocchio dorato ed è salito fin sul Campidoglio con indosso la

      veste onorata di Giove Ottimo Massimo non potrà forse farsi vedere con la

      coppa e il lituo, quando ucciderà le vittime col capo coperto dal velo e

      prenderà gli auspici dall'alto della cittadella? Se nell'iscrizione ai

      piedi del busto voi leggete senza rimanere sconvolti la menzione del

      consolato, della censura e del trionfo, pensate che i vostri occhi non

      sopporteranno di vedervi aggiunta quella dell'augurato e del pontificato?

      A essere sincero - e possano gli dèi accogliere bene le mie parole - sono

      fermamente convinto che noi, grazie al popolo romano, ci troviamo ormai in

      una posizione tale da garantire alle cariche sacerdotali, in virtù dei

      meriti acquisiti, non minor prestigio di quanto esse ne riceveranno da

      noi, e da poter chiedere, nell'interesse degli dèi più che nel nostro, di

      celebrare il culto pubblico di quelle divinità che noi veneriamo in

      privato.

      

      8 Ma perché, fino a questo punto, mi sono espresso come se i patrizi

      continuassero ad avere privilegi assoluti in materia di cariche

      sacerdotali, e noi non avessimo già il controllo di una di esse, e per di

      più molto importante? Sappiamo che sono plebei i decemviri addetti alle

      cose sacre, interpreti delle profezie della Sibilla e del destino di

      questa gente, e inoltre custodi del tempio di Apollo e depositari di altri

      riti. E come i patrizi non hanno subito alcun torto quando il numero dei

      duumviri addetti alle cose sacre è stato aumentato per far posto ai

      plebei, allo stesso modo un tribuno forte e intraprendente ha adesso

      aggiunto quattro cariche pontificali e cinque augurali riservate ai

      plebei, non certo per scalzarvi dai vostri posti, Appio, ma perché gli

      esponenti della plebe operino al vostro fianco anche nell'esercizio delle

      funzioni divine, come già fanno in quelle umane per quanto sta in loro

      potere. Non vergognarti, Appio, di avere come collega nel sacerdozio chi

      può esserlo stato nella censura o nel consolato, o potrebbe essere

      dittatore mentre tu sei maestro di cavalleria o ancora maestro di

      cavalleria mentre tu eserciti la dittatura. I patrizi di un tempo

      accolsero tra loro uno straniero venuto dalla Sabina, capostipite della

      vostra nobile stirpe, l'uomo che voi chiamate Attio Clauso o Appio

      Claudio: di conseguenza non disdegnare di ammetterci nel numero dei

      sacerdoti. Portiamo con noi molti titoli di prestigio, anzi quelli stessi

      che vi hanno resi arroganti. Lucio Sestio fu il primo console plebeo, Gaio

      Licinio Stolone il primo maestro di cavalleria, Gaio Marcio Rutilo il

      primo dittatore e il primo censore, Quinto Publilio Filone il primo

      pretore. Da voi abbiamo sempre sentito le stesse argomentazioni: che gli

      auspici appartengono a voi, che voi soli avete sangue nobile, voi soli il

      potere legittimo nonché il diritto di prendere gli auspici in pace e in

      guerra. Ma fino a oggi il comando affidato ai patrizi e quello affidato ai

      plebei hanno fatto registrare gli stessi risultati, e sempre sarà così

      negli anni a venire. Ma non avete mai sentito dire che in origine a essere

      chiamati patrizi non furono esseri scesi dal cielo, ma piuttosto quelli

      che potevano chiamare il padre, o più semplicemente quanti erano nati

      liberi? Io posso ormai chiamare padre un console, e mio figlio potrà

      chiamare console suo nonno. Quindi, Quiriti, qui null'altro è in causa se

      non il fatto che ci venga concesso quanto ci era prima negato. La sola

      cosa che i patrizi cercano è il confronto politico, senza preoccuparsi

      dell'esito. Io sono dell'idea che questa legge dovrebbe essere approvata

      così com'è stata presentata, e che ciò possa essere motivo di prosperità

      per voi e per il paese».

      

      9 Il popolo voleva che venissero immediatamente chiamate a votare le

      tribù, e sembrava che la legge fosse sul punto di essere approvata. Ma

      quel giorno la decisione venne rimandata perché alcuni tribuni opposero il

      proprio veto. Il giorno successivo, però, i tribuni cambiarono parere, la

      legge venne approvata a grande maggioranza. Furono eletti pontefici Publio

      Decio Mure, l'uomo cioé che aveva presentato la legge, Publio Sempronio

      Sofo, Gaio Marcio Rutilio, e Marco Livio Dentre. I cinque àuguri

      ugualmente plebei furono Gaio Genucio, Publio Elio Peto, Marco Minucio

      Feso, Gaio Marcio e Tito Publilio. Venne così raggiunto il numero di otto

      pontefici e nove àuguri.

      Nello stesso anno Marco Valerio presentò una legge relativa al diritto di

      appello al popolo, che ne sanciva i termini in maniera più rigorosa. Fu

      questa la terza legge presentata sul medesimo argomento dal tempo della

      cacciata dei re, e sempre su iniziativa della stessa famiglia. Io penso

      che essa fosse stata riproposta in più occasioni soltanto per il fatto che

      lo strapotere economico di pochi valeva più della libertà della plebe.

      Tuttavia sembra che soltanto la legge Porcia, stabilendo una pena cospicua

      per chi avesse frustato o ucciso un cittadino romano, sia stata presentata

      al fine di proteggere l'incolumità dei cittadini. La legge Valeria,

      invece, pur vietando di frustare e decapitare un cittadino che avesse

      fatto appello al popolo, non stabiliva alcuna pena per chi l'avesse

      violata, salvo il fatto di giudicare tale violazione un'azione «mal

      fatta». Ma secondo me, in quel tempo la moralità della gente era così

      solida da far sembrare quel monito un incentivo sufficiente al rispetto

      della legge. Oggi nessuno rivolgerebbe un simile monito parlando

      seriamente.

      Lo stesso console guidò una spedizione di modesta importanza contro gli

      Equi che si erano ribellati, anche se della loro fortuna di un tempo non

      avevano conservato nient'altro che la fierezza interiore. L'altro console,

      Apuleio, era impegnato nell'assedio della città di Nequino in Umbria:

      questa città, corrispondente all'attuale Narnia, si trovava in una

      posizione sopraelevata e ripida da uno dei versanti, e non era quindi

      possibile prenderla con la forza né col ricorso a dispositivi d'assedio.

      Perciò i nuovi consoli in carica, Marco Fulvio Peto e Tito Manlio Torquato

      ricevettero in eredità l'impresa ancora incompiuta.

      Licinio Macro e Tuberone riferiscono questa notizia: siccome tutte le

      centurie stavano per eleggere console per quell'anno Quinto Fabio pur non

      avendo quest'ultimo presentato la propria candidatura, fu lui stesso a

      differire il suo consolato a un anno caratterizzato da un numero superiore

      di guerre. Per quell'anno sarebbe stato invece più utile al paese

      nell'esercizio di una magistratura di carattere urbano. Così, pur non

      essendosi presentato candidato, ma non avendo nascosto le proprie

      preferenze, sarebbe stato nominato edile curule insieme con Lucio Papirio

      Cursore. Chi mi porta a mettere in dubbio questa notizia è Pisone, autore

      più antico, il quale riferisce che gli edili curuli di quell'anno furono

      Gneo Domizio Calvino figlio di Gneo e Spurio Carvilio Massimo figlio di

      Massimo. Ho l'impressione che a far nascere l'errore sia stato il

      soprannome di quest'ultimo personaggio, e che di lì derivi la storia, in

      piena sintonia con l'errore che mescola le elezioni degli edili a quelle

      dei consoli. Nel corso di quell'anno fu anche tenuto il censimento dai

      censori Publio Sempronio Sofo e Publio Sulpicio Savarrone, e vennero

      aggiunte due nuove tribù, la Aniense e la Teretina. Questo quanto avvenne

      a Roma.

      

      10 Nel frattempo, mentre attorno alla fortezza di Nequino il tempo si

      trascinava in un lento assedio, due cittadini le cui abitazioni si

      trovavano a ridosso delle mura scavarono un cunicolo e arrivarono di

      nascosto ai posti di guardia romani; condotti al cospetto del console

      asserirono di poter far entrare un manipolo armato all'interno delle mura.

      La proposta non sembrò da trascurare, ma nemmeno così rassicurante da

      fidarsene ciecamente. Uno dei due disertori venne trattenuto in ostaggio,

      e due esploratori vennero inviati con l'altro attraverso il cunicolo

      sotterraneo. Quando le loro informazioni confermarono la praticabilità del

      progetto, 300 soldati alla guida del Nequinate entrarono in città nel

      cuore della notte e occuparono la porta più vicina. Dopo averla abbattuta,

      il console e l'esercito romano penetrarono in città senza dover alzare un

      dito. Così Nequino finì in mano dei Romani. La colonia che vi venne

      inviata nell'intento di fronteggiare gli Umbri prese il nome di Narnia da

      quello del fiume che la attraversava: quanto all'esercito, venne riportato

      a Roma carico di bottino.

      Nello stesso anno gli Etruschi fecero preparativi di guerra,

      contravvenendo alla tregua stipulata. Ma mentre erano impegnati in queste

      faccende, un grosso contingente di Galli fece ingresso nel loro

      territorio, distogliendoli per qualche tempo dai loro progetti. Ricorrendo

      al denaro, di cui disponevano in grande quantità, cercarono di trasformare

      i Galli da nemici in amici, in maniera da poter affrontare la guerra con

      Roma contando sul loro appoggio militare. I barbari non negarono

      l'alleanza, limitandosi a trattare sul prezzo. Dopo aver negoziato e

      ricevuto quanto richiesto, quando ormai tutto era pronto per la guerra e

      gli Etruschi li invitavano a seguirli, i Galli negarono di aver pattuito

      il compenso per fare guerra ai Romani, sostenendo invece che la somma era

      stata riscossa per non saccheggiare il territorio etrusco e non

      tormentarne gli abitanti col ricorso alle armi. In ogni caso, se proprio

      gli Etruschi insistevano, i Galli avrebbero partecipato alla guerra, ma

      solo a patto di ottenere parte del territorio etrusco, in modo da potersi

      finalmente stanziare in una sede sicura. I popoli dell'Etruria

      organizzarono parecchie assemblee per prendere una decisione in proposito,

      senza però arrivare a risultati concreti, e non tanto perché non si

      sentissero di accettare una riduzione del loro territorio, quanto perché

      tutti inorridivano all'idea di avere come vicini un popolo tanto feroce. I

      Galli vennero così congedati, con una grossa somma di denaro conquistata

      senza correre rischi e senza fatica alcuna. A Roma la notizia dell'allarme

      da parte dei Galli alleati agli Etruschi seminò il panico. Fu per questo

      che col popolo dei Piceni venne stipulato un trattato in tempi ancora più

      brevi.

      

      11 La campagna in Etruria toccò in sorte al console Tito Manlio. Egli,

      appena entrato in territorio nemico, mentre era impegnato in

      un'esercitazione insieme ai cavalieri, venne sbalzato di sella nell'atto

      di far invertire la marcia al cavallo, e per poco non morì sul colpo.

      Spirò due giorni dopo. Interpretando la cosa come un augurio positivo

      sugli esiti del conflitto, gli Etruschi imbaldanzirono, sia per la

      scomparsa di un uomo di quella levatura, sia per le difficoltà contingenti

      che ne derivavano ai Romani. Il senato si astenne dal nominare un

      dittatore soltanto perché dalle elezioni consolari uscì il nome

      caldeggiato dai capi della città: infatti tutti i voti e tutte le centurie

      designarono in qualità di console Marco Valerio, che il senato si

      proponeva di nominare dittatore. Egli ricevette sùbito la disposizione di

      partire per l'Etruria, per assumervi il comando dell'esercito. Il suo

      arrivo frenò gli Etruschi, al punto che nessun uomo osava più uscire fuori

      dai dispositivi di difesa, e la paura li aveva resi simili a tanti

      assediati. Il nuovo console non riuscì a trascinarli in battaglia nemmeno

      mettendo a ferro e fuoco le campagne e incendiando le case, anche se da

      ogni parte si alzava il fumo degli incendi, non solo dalle fattorie, ma

      anche da popolosi villaggi.

      Mentre la guerra si trascinava più lentamente del previsto, i Piceni, i

      nuovi alleati, vennero a informare il senato di un'altra guerra, che non a

      torto incuteva timore, per i numerosi rovesci che entrambe le parti

      avevano subito. I Sanniti stavano compiendo preparativi per riprendere le

      ostilità, e avevano cercato di sobillare gli stessi Piceni. Il senato,

      ringraziati gli alleati, si concentrò quasi integralmente sul Sannio,

      distogliendo l'attenzione dall'Etruria.

      Nel corso dell'anno la città venne afflitta anche da una carestia, e si

      sarebbe arrivati al massimo di disagio, se - come sostengono gli autori

      secondo cui Fabio Massimo sarebbe stato edile della plebe in quell'anno -

      nel distribuire i viveri e nel procacciare grano quest'uomo non avesse

      dimostrato lo stesso attaccamento alla causa che in molti frangenti aveva

      dimostrato in guerra. Quell'anno si ebbe un interregno, di cui però non è

      stata tramandata la causa. Gli interré furono Appio Claudio e quindi

      Publio Sulpicio. Questi presiedette le elezioni consolari, proclamando

      eletti Lucio Cornelio Scipione e Gneo Fulvio.

      All'inizio dell'anno i due nuovi consoli ricevettero una delegazione di

      Lucani venuti a lamentarsi del fatto che i Sanniti, non essendo riusciti a

      convincerli per via diplomatica a stipulare un trattato di alleanza, erano

      entrati nel loro territorio con un esercito in assetto da guerra, e lo

      stavano mettendo a ferro e fuoco nella speranza appunto di indurli alla

      guerra. In passato il popolo lucano aveva già commesso troppi errori: ora

      erano assolutamente convinti che fosse preferibile sopportare qualsiasi

      difficoltà piuttosto che irritare di nuovo i Romani. Pregavano il senato

      sia di prendere i Lucani sotto la protezione di Roma, sia di liberarli

      dalla violenza e dalla prepotenza dei Sanniti. Da parte loro, pur avendo

      già fornito una prova di sicura lealtà scendendo in campo contro i

      Sanniti, erano comunque disposti a consegnare degli ostaggi.

      

      12 La discussione in senato fu breve: tutti si dichiararono d'accordo

      nello stringere un patto di alleanza con i Lucani e nel chiedere

      riparazione ai Sanniti. Ai Lucani venne data risposta positiva e fu

      stipulato un trattato. Ai Sanniti furono invece inviati i feziali con

      l'ordine perentorio di allontanarsi dal territorio degli alleati e di

      ritirare l'esercito dai confini della Lucania. Ma sulla strada vennero

      loro incontro degli inviati di parte sannita, i quali dichiararono che,

      qualora fossero comparsi di fronte a un'assemblea nel Sannio, non ne

      sarebbero usciti illesi. Quando la cosa si venne a sapere a Roma, il

      senato propose di dichiarare guerra ai Sanniti e il popolo avallò la

      proposta.

      I consoli si divisero gli incarichi: a Scipione toccò l'Etruria, a Fulvio

      il Sannio, e ciascuno partì per il fronte che gli era stato assegnato.

      Scipione, che progettava una campagna blanda, sul tenore di quella

      dell'anno precedente, venne affrontato presso Volterra dai nemici

      schierati in ordine di battaglia. Lo scontro proseguì per quasi tutto il

      giorno, ed entrambe le parti subirono forti perdite. La notte sopraggiunse

      senza che si potesse capire a chi fosse andata la vittoria. Ma la luce del

      giorno successivo mise in chiaro chi fosse il vincitore e chi il vinto:

      gli Etruschi, infatti, avevano abbandonato l'accampamento durante la

      notte. I Romani scesi in battaglia, vedendo che la partenza del nemico

      aveva consegnato loro in mano la vittoria, si avvicinarono

      all'accampamento: lo trovarono deserto e se ne impadronirono raccogliendo

      un bottino ricchissimo (era infatti un campo fisso abbandonato in fretta e

      furia). Il console riportò poi le truppe nel territorio dei Falisci.

      Lasciati i carriaggi a Faleri insieme con una guarnigione di modeste

      proporzioni, si diede a saccheggiare il territorio nemico con gli uomini

      liberi da pesi. Tutto venne messo a ferro e fuoco, e dovunque si rastrellò

      del bottino. E non si limitarono a devastare le campagne, ma incendiarono

      anche posizioni fortificate e villaggi. Il console evitò comunque di

      attaccare la città, dove il panico aveva costretto gli Etruschi a cercare

      rifugio.

      Una celebre battaglia nei pressi di Boviano, nel Sannio, fece registrare

      una netta vittoria del console Gneo Fulvio che, avendo assalito Boviano e

      poco dopo anche Aufidena, le prese entrambe con la forza.

      

      13 Nello stesso anno fu fondata una colonia a Carseoli, nel territorio

      degli Equicoli. Il console Fulvio celebrò il trionfo sui Sanniti. Quando

      le elezioni dei consoli erano ormai alle porte, cominciò a circolare la

      voce che Etruschi e Sanniti stavano allestendo grossi eserciti. Si diceva

      che in tutte le assemblee i capi etruschi venivano attaccati senza mezzi

      termini per non essere riusciti a trascinare in nessun modo i Galli in

      guerra, i magistrati sanniti per aver gettato allo sbaraglio contro i

      Romani l'esercito che era stato raccolto contro i Lucani. E così i nemici,

      unendo le proprie forze a quelle degli alleati, stavano per sollevarsi in

      guerra, e i Romani dovevano affrontare uno scontro impari. Questo stato di

      grande allarme fece sì che, pur aspirando al consolato dei candidati di

      valore, tutti votarono Quinto Fabio Massimo, che in un primo tempo non

      aveva nemmeno presentato la propria candidatura, e che poi, vedendo

      l'orientamento degli elettori, continuava a rifiutare la carica. Chiedeva

      perché mai continuassero a rivolgersi a lui, vecchio com'era e dopo tutte

      le fatiche sostenute e i riconoscimenti avuti in cambio delle sue fatiche.

      Diceva che il fisico e la mente non erano più nelle condizioni di un

      tempo, e aveva paura che a qualche dio sembrasse eccessiva la fortuna

      toccatagli, e più costante di quanto non fosse lecito alla natura umana.

      Era salito fino alla gloria dei più anziani, e adesso sarebbe stato un

      piacere vedere altri assurgere alla sua gloria. E a Roma non mancavano

      certo né alti riconoscimenti per uomini di valore, né uomini di valore

      all'altezza di tali riconoscimenti. Con una modestia simile non faceva che

      incrementare il più che giusto entusiasmo del popolo: pensando allora di

      poterne vincere la resistenza con un richiamo al rispetto delle leggi,

      pregò di leggere ad alta voce la legge in virtù della quale nessuno poteva

      essere rieletto console prima del termine di dieci anni. Ma il frastuono

      era tale che la legge si udì a malapena; per giunta i tribuni della plebe

      ripetevano che essa non avrebbe rappresentato affatto un ostacolo: si

      impegnavano a presentare al popolo una legge che dispensasse Fabio

      dall'obbligo di rispettare la normativa precedente. Fabio insisteva nel

      rifiutare, domandando che senso avesse fare delle leggi se poi a violarle

      per primi erano gli stessi che le proponevano. Ma anche così il popolo

      iniziò a votare, e ogni centuria convocata all'interno non aveva

      esitazioni a designare console Fabio. Fu allora che Fabio, vinto infine

      dal consenso di un'intera città, disse: «Possano gli dèi approvare,

      Quiriti, quello che fate e che siete sul punto di fare. Ma dato che di me

      finirete per fare ciò che volete voi, almeno accontentatemi nella nomina

      del collega: vi prego di nominare console con me Publio Decio, uomo degno

      di voi e del padre: di lui ho potuto sperimentare le qualità durante un

      consolato retto in perfetto accordo». La raccomandazione sembrò giusta.

      Tutte le centurie residue nominarono consoli Quinto Fabio e Publio Decio.

      Quell'anno molti cittadini vennero citati in giudizio dagli edili, perché

      possedevano più terreno di quanto fosse consentito dalla legge. Quasi

      nessuno venne assolto, il che pose un forte freno agli eccessi di

      cupidigia.

      

      14 I nuovi consoli, Quinto Fabio Massimo per la quarta volta e Publio

      Decio Mure per la terza, dovevano scegliere il proprio campo di

      operazione, contro i Sanniti l'uno, contro gli Etruschi l'altro. Mentre

      discutevano quante forze fossero necessarie per ciascun fronte, e chi dei

      due fosse più indicato a gestire l'una o l'altra campagna, arrivarono

      ambasciatori da Sutri, Nepi e Faleri ad annunciare che i popoli

      dell'Etruria stavano tenendo assemblee apposite sulla richiesta di pace.

      Perciò tutti gli sforzi bellici vennero concentrati sull'obiettivo

      sannita. Partiti da Roma, i consoli guidarono gli eserciti nel Sannio

      seguendo percorsi diversi, per far sì che l'approvvigionamento di viveri

      fosse più facile e il nemico avesse maggiori incertezze sulla direzione

      dell'attacco. Fabio passò attraverso il territorio di Sora, Decio

      attraverso quello dei Sidicini. Arrivati al confine, entrambi avanzarono

      in ordine sparso dedicandosi al saccheggio, spingendosi però ad esplorare

      aree più lontane di quelle saccheggiate. Per questo non sfuggì loro che i

      nemici si erano concentrati in una valle nascosta presso Tiferno, con il

      proposito di aggredire i Romani da un punto sopraelevato quando fossero

      entrati nella valle. Lasciati i carriaggi in un luogo sicuro, con un

      modesto presidio, Fabio avvertì gli uomini dell'imminenza del

      combattimento, e si avvicinò in formazione a colonne affiancate al

      nascondiglio dei nemici. I Sanniti, persa la speranza della sorpresa,

      poiché prima o poi si doveva pure arrivare allo scontro aperto,

      preferirono uscire allo scoperto schierandosi anch'essi in ordine di

      battaglia. Così scesero a valle, affidandosi alla sorte più con la forza

      del coraggio che con quella della speranza. Ciò non ostante, sia perché

      avevano messo insieme il meglio degli uomini di tutte le genti sannite,

      sia perché uno scontro la cui posta era tanto elevata ne accresceva

      l'ardore, anche in campo aperto restarono per qualche tempo avversari

      capaci di incutere timore.

      Fabio, vedendo che il nemico non cedeva in nessun punto, ordinò ai tribuni

      militari Massimo, suo figlio, e Marco Valerio, col quale si era spinto

      fino in prima fila, di avvicinarsi ai cavalieri e di esortarli, nel

      ricordo di altre occasioni in cui l'intervento della cavalleria aveva

      aiutato la repubblica, a fare di tutto quel giorno per mantenere intatta

      la reputazione del loro ordine. Nell'urto con la fanteria, i nemici erano

      rimasti sulle proprie posizioni, e ormai ogni speranza era affidata alla

      carica dei cavalieri. Poi, rivolgendosi in particolare ai due giovani con

      lo stesso affetto, li coprì di lodi e di promesse. Qualora però anche quel

      tentativo di sfondamento non avesse avuto successo, convinto di dover

      ricorrere all'astuzia ove la forza non fosse stata sufficiente, Fabio

      ordinò al luogotenente Scipione di ritirare dallo scontro gli astati della

      prima legione e di portarli verso i monti vicini, agendo nella maniera

      meno evidente possibile, e poi, attraverso un percorso non in vista, di

      far salire il suo manipolo fin sulla cima, sbucando all'improvviso alle

      spalle del nemico. E i cavalieri, con alla testa i tribuni spintisi tutt'a

      un tratto in prima linea, crearono scompiglio tra i nemici non meno che

      tra gli stessi compagni. Il fronte sannita tenne duro contro la carica

      della cavalleria, senza indietreggiare o aprirsi in alcun punto. I

      cavalieri, poiché il loro assalto non aveva avuto successo, si ritirarono

      alle spalle della fanteria abbandonando il combattimento. Quell'episodio

      fece crescere l'ardore dei nemici, e la prima linea non avrebbe potuto

      reggere un urto protratto tanto a lungo, se il console non avesse ordinato

      alla seconda di prenderne il posto. Fu allora che le forze fresche

      fermarono i Sanniti già in procinto di avanzare, mentre la vista degli

      uomini armati comparsi all'improvviso sulle cime delle alture, e le urla

      da essi levate spaventarono i nemici al punto da far loro temere un

      pericolo superiore alle sue reali proporzioni. Fabio infatti gridò che il

      collega Decio si stava avvicinando, e allora ogni soldato romano esultò,

      urlando al colmo dell'eccitazione che stava arrivando l'altro console con

      le sue legioni. Quest'errata interpretazione, un vero vantaggio per i

      Romani, diventò per i Sanniti motivo di sgomento e incentivo alla fuga:

      già stremati, avevano il terrore di essere sopraffatti da quell'altro

      esercito in forze e ancora intatto. Erano fuggiti disordinatamente in

      varie direzioni, e il massacro che seguì non eguagliò per proporzioni la

      vittoria. Le vittime tra i nemici furono 3.400, i prigionieri 830,

      ventitré le insegne conquistate.

      

      15 Prima della battaglia, ai Sanniti si sarebbero uniti gli Apuli, se solo

      il console Publio Decio non si fosse accampato di fronte a loro a

      Malevento, e non li avesse attirati a combattere e duramente sconfitti.

      Anche in questo caso la fuga fu più grossa del massacro: vennero uccisi

      2.000 Apuli. Lasciando poi da parte quel nemico, Decio guidò le sue

      legioni nel Sannio. Lì i due eserciti consolari, sparpagliandosi in zone

      diverse, in cinque mesi misero a ferro e fuoco tutta la regione. Decio si

      accampò in quarantacinque punti diversi del Sannio, l'altro console in

      ottantasei. E non rimasero soltanto le tracce della trincea e del

      terrapieno, ma in tutte le regioni saccheggiate i segni delle devastazioni

      furono ben più evidenti. Fabio espugnò anche la città di Cimetra, dove

      vennero fatti prigionieri 2.900 soldati e uccisi circa 930 nemici nello

      scontro.

      Fabio andò poi a Roma per presiedere le elezioni, compiendo rapidamente le

      operazioni connesse. Poiché le prime centurie chiamate al voto designavano

      tutte Quinto Fabio come console, Appio Claudio, candidato alla carica,

      energico e ambizioso com'era, impiegò tutte le proprie risorse e quelle

      dell'intero patriziato per farsi nominare console assieme a Quinto Fabio,

      non tanto perché gli premesse la carica, quanto piuttosto perché i patrizi

      si riappropriassero dei due posti di console. Sulle prime Fabio rifiutava

      l'incarico, con gli stessi argomenti dell'anno precedente. Fu allora che

      l'intera nobiltà si avvicinò al suo scranno, pregandolo di tirare fuori il

      consolato dal fango plebeo, e di restituire la nobiltà di un tempo sia

      alla carica sia alle famiglie patrizie. Imposto il silenzio, Fabio con un

      discorso molto equilibrato placò l'animosità delle parti in causa. Disse

      infatti che avrebbe accettato come validi i nomi dei due patrizi, se solo

      avessero eletto console una persona che non fosse lui. Non avrebbe però

      ritenuta valida la propria elezione, per il cattivo esempio che sarebbe

      venuto da una violazione della legge. Così, assieme ad Appio Claudio venne

      eletto console il plebeo Lucio Volumnio (i due si erano già trovati a

      fianco in un precedente consolato). I nobili accusarono Fabio di aver

      voluto evitare un collega come Appio Claudio che gli sarebbe senza dubbio

      stato superiore per capacità oratorie e per doti politiche.

      

      16 Concluse le elezioni, ai consoli uscenti venne data disposizione di

      proseguire la guerra nel Sannio, con la concessione di sei mesi di proroga

      al loro incarico. E così anche l'anno successivo, durante il consolato di

      Lucio Volumnio e Appio Claudio, Publio Decio - lasciato dal collega nel

      Sannio in qualità di console - continuò come proconsole a saccheggiare

      senza tregua le campagne, fino a quando riuscì finalmente a espellere

      l'esercito sannita, che non aveva mai avuto il coraggio di affidarsi allo

      scontro aperto. I Sanniti respinti si diressero in Etruria: pensando con

      quell'esercito tanto massiccio, mescolando preghiere e minacce, di poter

      meglio raggiungere lo scopo più volte vanamente inseguito per vie

      diplomatiche, chiesero che venisse convocata un'assemblea dei capi

      Etruschi. Una volta riuniti, ricordarono agli Etruschi per quanti anni

      avessero combattuto contro i Romani in difesa della loro libertà: avevano

      tentato ogni via, pur di riuscire a sostenere soltanto con le proprie

      forze una guerra tanto onerosa, arrivando perfino a chiedere il sostegno

      (a dire il vero ben poco efficace) dei popoli circostanti. Avevano chiesto

      al popolo romano di ottenere la pace, quando non erano più in grado di

      sostenere la guerra. Avevano ricominciato a combattere, perché una pace da

      servi era ben più pesante di una guerra da liberi. La sola speranza

      residua era riposta negli Etruschi. Sapevano che era la gente più ricca

      d'Italia quanto ad armi, uomini e denaro, e che come vicini avevano i

      Galli, un popolo nato tra il ferro e le armi, già disposto alla guerra per

      la sua stessa natura, e in particolare nei confronti dei Romani, che essi

      ricordavano, certo senza vana millanteria, di aver sottomesso e obbligato

      a un riscatto a peso d'oro. Se solo negli Etruschi albergava ancora lo

      spirito che in passato aveva animato Porsenna e i suoi antenati, non

      mancava nulla perché essi, cacciati i Romani da tutta la terra al di qua

      del Tevere, li costringessero a lottare per la propria salvezza, invece

      che per un insopportabile dominio sull'Italia. L'esercito sannita era lì,

      pronto per loro, con armi e denaro per pagare i soldati, disposto a

      seguirli su due piedi, anche se avessero voluto portarlo ad assediare

      addirittura Roma.

      

      17 Mentre i Sanniti andavano agitando e macchinando questi propositi, la

      guerra portata dai Romani stava devastando il loro paese. Infatti Publio

      Decio, quando venne a sapere tramite gli informatori che l'esercito

      sannita si era messo in marcia, convocò il consiglio di guerra e disse:

      «Perché restiamo a vagare per le campagne, portando la guerra da un

      villaggio all'altro? Perché non attacchiamo le mura delle città? Il Sannio

      ormai non è più presidiato da nessun esercito: ritirandosi dalle loro

      terre, si sono inflitti da soli l'esilio». Poiché tutti approvavano la sua

      proposta, guidò l'esercito all'assalto di Murganzia, una città ben

      fortificata. E l'entusiasmo dei soldati fu tanto, sia per l'attaccamento

      alla persona del comandante, sia per la speranza di poter raccogliere un

      bottino più cospicuo di quello ricavato dalle incursioni nelle campagne,

      che la città venne espugnata in un solo giorno. I soldati sanniti

      sopraffatti e catturati furono 2.100, e si aggiunse altro bottino in

      grande quantità. Per evitare che l'eccessivo peso della preda rallentasse

      la marcia dell'esercito, Decio convocò i soldati e disse loro: «Volete

      accontentarvi di quest'unica vittoria e di quest'unico bottino? Volete

      coltivare sogni all'altezza dei vostri meriti? Tutte le città del Sannio e

      le fortune rimaste nelle città sono vostre, perché finalmente avete

      cacciato via dal Sannio le loro legioni sconfitte in così numerose

      battaglie. Vendete questi beni e attirate i mercanti a seguire la marcia

      dell'esercito agitando ai loro occhi la prospettiva di lauti guadagni: io

      vi procurerò sempre nuovo bottino da vendere. Partiamo per Romulea, dove

      vi aspettano non maggiore fatica e maggiore guadagno».

      Venduto il bottino, furono i soldati stessi a sollecitare il comandante, e

      si partì alla volta di Romulea. Anche lì, senza dover ricorrere ad assedi

      e macchine da lancio, appena le truppe si avvicinarono alla città, non ci

      fu forza che riuscisse a contenerne l'urto: accostarono sùbito le scale

      alle mura nei punti che si trovavano più vicino a ogni soldato, e ne

      raggiunsero in un attimo la sommità. La città fu presa e saccheggiata. Gli

      uomini uccisi furono circa 2.300, i prigionieri 6.000. I soldati romani si

      impadronirono di un cospicuo bottino, che misero in vendita, come già

      quello precedente. Di lì vennero portati a Ferentino, sempre sostenuti

      dall'entusiasmo, non ostante non fosse stato loro concesso alcun riposo.

      In quella città le difficoltà e i rischi furono maggiori: le mura erano

      difese con estremo accanimento, e la posizione era protetta da

      fortificazioni e dalla conformazione stessa del luogo. Ma gli uomini,

      abituati a far bottino, riuscirono a superare ogni ostacolo. Circa 3.000

      nemici vennero uccisi attorno alle mura, mentre la preda venne lasciata ai

      soldati. Secondo alcuni annalisti, il merito maggiore della cattura di

      queste città fu di Massimo: riferiscono che Murganzia sarebbe stata

      espugnata da Decio, Ferentino e Romulea invece da Fabio. C'è poi chi

      attribuisce quest'impresa ai nuovi consoli. Altri ancora non a entrambi,

      ma al solo Lucio Volumnio, cui sarebbe stato affidato il comando della

      spedizione nel Sannio.

      

      18 Mentre nel Sannio venivano compiute queste imprese (non importa sotto

      il comando e gli auspici di chi), in Etruria molti popoli stavano

      preparando una grossa guerra contro i Romani; la mente dell'operazione era

      il sannita Gellio Egnazio. Quasi tutti gli Etruschi avevano deciso di

      prendere parte a quel conflitto, che aveva contagiato le popolazioni della

      vicina Umbria, e anche truppe ausiliarie formate da Galli attirati dai

      soldi. Tutta questa gente si stava radunando presso l'accampamento dei

      Sanniti. Quando la notizia dell'improvvisa sollevazione arrivò a Roma -

      dato che il console Lucio Volumnio era già partito alla volta del Sannio

      con la seconda e la terza legione e con 15.000 alleati -, si decise che

      Appio Claudio partisse quanto prima per l'Etruria. Lo seguivano due

      legioni, la prima e la quarta, e 12.000 alleati. L'accampamento venne

      posto non lontano dal nemico.

      L'arrivo del console servì più perché giunse opportunamente a trattenere

      con la sola paura del nome di Roma alcune popolazioni dell'Etruria che

      avevano già intenzione di entrare in guerra, che perché sotto il suo

      comando fosse stata realizzata qualche abile o riuscita operazione. Molti

      scontri si svolsero in punti e momenti sfavorevoli, e i nemici, fiduciosi

      com'erano nelle proprie forze, diventavano giorno dopo giorno sempre più

      temibili. Ormai si era già quasi arrivati al punto che i soldati romani

      non avevano fiducia nel comandante, né il comandante nei soldati. In tre

      diversi annalisti ho trovato che Appio avrebbe inviato al collega un

      messaggio col quale lo richiamava dal Sannio. Tuttavia non mi sento di

      accettare come vera la notizia, perché i due consoli romani - che

      ricoprivano quella stessa carica già per la seconda volta - si trovarono

      in disaccordo sullo svolgimento dei fatti: Appio negava di aver mandato il

      messaggio, mentre Volumnio sosteneva di esser stato convocato da una

      lettera di Appio. Volumnio aveva già espugnato nel Sannio tre piazzeforti,

      uccidendovi circa 3.000 nemici e facendone prigionieri 1.500. In Lucania

      c'era poi stata un'insurrezione organizzata da plebei e indigenti: a

      sedarla, con grande soddisfazione degli ottimati, era stato Quinto Fabio,

      spedito in quella zona come proconsole, con il vecchio esercito. Volumnio

      lasciò al collega l'incarico di mettere a ferro e fuoco il territorio

      nemico, e partì coi suoi uomini per l'Etruria, per raggiungervi il

      collega. Il suo arrivo venne salutato con entusiasmo da tutti. Ma Appio

      che, immagino, in base alla sua coscienza avrebbe dovuto o sentirsi a buon

      diritto in collera (nel caso non avesse scritto nulla), oppure dimostrarsi

      ingiusto e ingrato (qualora stesse cercando di nascondere la cosa pur

      avendo chiesto soccorso), gli andò incontro senza ricambiare il saluto e

      disse: «Come va, Lucio Volumnio? E la situazione nel Sannio? Cosa ti ha

      spinto ad abbandonare il fronte di guerra che ti è stato assegnato?».

      Volumnio replicò che le cose nel Sannio procedevano bene, e aggiunse di

      essersi presentato perché convocato da un suo messaggio. Se però si

      trattava di un falso allarme, e non c'era bisogno di lui in Etruria,

      allora sarebbe immediatamente ripartito. «Vai pure, allora», replicò

      Appio, «nessuno ti trattiene: non ha senso che tu, che sei a malapena in

      grado di fronteggiare la tua campagna, ti debba vantare di esser venuto a

      portare aiuto agli altri». Augurandosi che Ercole potesse fare andare

      tutto per il meglio, Volumnio disse che preferiva aver perduto tempo

      invano, piuttosto che fosse successo qualcosa per cui in Etruria un solo

      esercito consolare non fosse sufficiente.

      

      19 Mentre erano già sul punto di congedarsi, i due consoli vennero

      circondati dai luogotenenti e dai tribuni dell'esercito di Appio. Alcuni

      di essi imploravano il loro comandante di non respingere l'aiuto offerto

      spontaneamente dal collega (aiuto che sarebbe stato necessario

      richiedere); la maggior parte, attorniando Volumnio in atto di partire, lo

      supplicava di non tradire il paese per un'insulsa rivalità col collega: se

      solo ci fosse stato qualche disastro, la responsabilità sarebbe stata

      addossata più su chi aveva abbandonato l'altro che su chi era stato

      abbandonato. La situazione era tale, che ormai tutto il merito di un

      successo o il disonore di un insuccesso sarebbero toccati a Lucio

      Volumnio. Nessuno si sarebbe preoccupato di sapere quali fossero state le

      parole di Appio, ma solo quale sorte fosse toccata all'esercito. Appio lo

      aveva congedato, ma a trattenerlo erano la repubblica e l'esercito:

      bastava solo mettesse alla prova la volontà dei soldati.

      Con queste parole di monito e queste suppliche essi riuscirono a

      trascinare nell'assemblea i due consoli riluttanti. Lì vennero pronunciati

      dei discorsi più argomentati, ma identici nella sostanza a quelli già

      pronunciati nella discussione ristretta. E poiché Volumnio, il quale aveva

      maggiori ragioni, quanto a doti oratorie non sembrava meno dotato del

      brillante collega, Appio disse ironicamente che i soldati gli dovevano

      gratitudine, se ora avevano un console eloquente, da muto e senza lingua

      ch'era prima: nel corso del precedente consolato, non era mai riuscito ad

      aprire bocca, mentre adesso teneva discorsi che conquistavano il favore

      delle masse. Volumnio allora ribatté: «Come preferirei che tu avessi

      imparato da me ad agire con decisione, piuttosto che io da te a esprimermi

      in maniera raffinata!». Poi propose di stabilire in questo modo chi dei

      due fosse non tanto il miglior oratore (non di questo aveva bisogno lo

      Stato), quanto il miglior generale: poiché le zone di operazione erano

      l'Etruria e il Sannio, Appio scegliesse pure quella che preferiva. Lui,

      Volumnio, con il suo esercito avrebbe condotto la campagna

      indifferentemente sia in Etruria che nel Sannio.

      Allora i soldati cominciarono a gridare che la guerra contro gli Etruschi

      doveva essere condotta collegialmente da entrambi. E Volumnio, vedendo che

      tutti erano di questo avviso, disse: «Poiché ho sbagliato

      nell'interpretare le intenzioni del collega, non lascerò che restino dubbi

      circa le vostre: fatemi capire col vostro grido se preferite che io resti

      oppure che me ne vada». L'urlo che allora si levò fu così potente, che i

      nemici uscirono dalle tende e presero le armi andandosi a schierare in

      campo. Anche Volumnio fece dare il segnale di battaglia e ordinò di uscire

      dall'accampamento. Pare che Appio abbia avuto un attimo di esitazione,

      constatando che la vittoria sarebbe stata merito del collega, che egli

      intervenisse nel combattimento o no. Poi, temendo che le sue legioni

      seguissero Volumnio, diede anch'egli il segnale di battaglia ai suoi che

      lo stavano chiedendo con impazienza.

      I due eserciti non avevano potuto schierarsi in maniera ordinata. Infatti

      da una parte il comandante dei Sanniti si era allontanato con alcune

      coorti per andare alla ricerca di rifornimenti e i soldati si gettavano

      nella mischia seguendo più l'stinto che gli ordini e la guida di un

      comandante; dall'altra, gli eserciti romani non erano stati portati in

      linea di combattimento nello stesso istante e non c'era stato nemmeno il

      tempo sufficiente perché le forze venissero schierate. Volumnio si scontrò

      col nemico prima dell'arrivo di Appio, e così nel fronte di combattimento

      non ci fu continuità. E poi, come se il destino avesse voluto invertire i

      nemici di sempre, gli Etruschi andarono a fronteggiare Volumnio, mentre i

      Sanniti, dopo un attimo di esitazione per l'assenza del loro comandante,

      si presentarono nella zona di Appio. Pare che nel pieno dello scontro

      Appio levò le mani al cielo tra le prime file (in modo che tutti lo

      vedessero), pronunciando questa preghiera: «O Bellona, se oggi ci

      garantisci la vittoria, prometto di dedicarti un tempio». Dopo aver

      rivolto questa preghiera, quasi lo sospingesse la dea, eguagliò il collega

      in atti di valore, e i suoi uomini furono pari al generale. I comandanti

      fecero il loro dovere, mentre i soldati si impegnarono al massimo perché

      la vittoria non avesse inizio dall'altra parte dell'esercito. Così

      travolsero e misero in fuga i nemici, che non potevano reggere l'urto di

      forze superiori a quelle con cui di solito combattevano in passato.

      Incalzandoli quando cominciavano a cedere e poi inseguendoli mentre

      fuggivano disordinatamente, li ricacciarono verso l'accampamento. Lì

      l'arrivo di Gellio e delle coorti sannite fece sì che la battaglia si

      riaccendesse per un po' di tempo. Ma anche queste nuove forze vennero in

      breve sopraffatte, e i vincitori si lanciarono all'assalto

      dell'accampamento. Mentre Volumnio in persona spingeva le sue truppe

      contro la porta, e Appio infiammava gli animi dei suoi soldati continuando

      ad acclamare Bellona vincitrice, fecero breccia attraverso il terrapieno e

      il fossato. L'accampamento fu preso e saccheggiato. Il bottino prelevato

      fu cospicuo e venne lasciato ai soldati. Furono uccisi 7.800 nemici, fatti

      prigionieri 2.120.

      

      20 Mentre entrambi i consoli e tutte le forze romane erano impegnati sul

      fronte della guerra etrusca, i Sanniti, allestito un nuovo esercito,

      cominciarono a mettere a ferro e fuoco i territori soggetti al dominio

      romano: scesi in Campania e nell'agro Falerno attraverso il territorio dei

      Vescini, colsero un ingente bottino. Mentre Volumnio stava rientrando nel

      Sannio a marce forzate - per Fabio e Decio si stava già infatti

      avvicinando il termine della proroga dell'incarico -, le notizie relative

      all'esercito sannita e alle devastazioni nel territorio campano lo fecero

      deviare per andare a proteggere gli alleati. Non appena giunse nella zona

      di Cale, vide coi propri occhi i segni dei recenti disastri, e venne

      informato dai Caleni che il nemico stava trascinando un carico tale di

      bottino da riuscire a stento a mantenere l'ordine di marcia; per questo i

      comandanti sanniti affermavano senza remore che si doveva rientrare quanto

      prima nel Sannio per scaricarvi il bottino, e non rischiare lo scontro con

      un esercito tanto appesantito. Anche se queste informazioni erano

      verisimili, il console volle saperne di più e mandò in giro dei cavalieri

      col cómpito di intercettare i predatori sparsi per le campagne. Dopo

      averli interrogati, venne a sapere che il nemico era accampato nei pressi

      del fiume Volturno e che aveva intenzione di partire di lì a mezzanotte,

      con direzione il Sannio.

      Verificate le informazioni, si mise in marcia andandosi a fermare a una

      distanza dai nemici tale che, per la prossimità, non potessero rendersi

      conto del suo arrivo e li si potesse sorprendere mentre uscivano

      dall'accampamento. Poco prima dell'alba si avvicinò all'accampamento e

      inviò degli uomini che parlavano la lingua osca a esplorare i movimenti

      del nemico. Ed essendosi mescolati agli avversari - cosa che non fu

      difficile nella confusione della notte -, essi vennero a sapere che gli

      sparuti reparti armati erano già usciti, e che adesso stavano uscendo

      quelli incaricati di vigilare sul bottino, ovvero una schiera statica, in

      cui ciascuno pensava soltanto alle proprie cose, senza che ci fossero una

      volontà comune e un comando ben definito. Sembrò quello il momento più

      indicato per l'attacco. Poiché era infatti già quasi chiaro, il console

      fece dare il segnale e si riversò sulla formazione nemica. Appesantiti dal

      bottino, i Sanniti, pochi dei quali erano armati, cercarono in parte di

      accelerare il passo spingendo avanti il carico del bottino, e in parte

      invece si fermarono, non sapendo se fosse più sicuro procedere o rientrare

      al campo. Mentre esitavano, furono sopraffatti. I Romani avevano già

      superato la trincea, gettando lo scompiglio e mietendo vittime

      nell'accampamento. A sconvolgere la colonna dei Sanniti era stata, oltre

      al repentino attacco nemico, anche l'improvvisa sollevazione dei

      prigionieri, che essendosi in parte già liberati toglievano i lacci ai

      compagni, mentre in parte afferravano le armi legate ai basti e,

      mescolandosi alla colonna, contribuivano a rendere la situazione più

      caotica della battaglia stessa. Poi però realizzarono un'impresa

      eccezionale: assalito il comandante Staio Minacio che si aggirava tra i

      suoi cercando di incitarli, dispersero i cavalieri del suo séguito, lo

      circondarono, e fattolo prigioniero in sella al suo cavallo lo

      trascinarono di fronte al console romano. La prima linea sannita tornò

      indietro richiamata da quel frastuono, e la battaglia che sembrava già

      decisa riprese, anche se i nemici non riuscirono a reggere a lungo.

      Vennero uccisi circa in 6.000, mentre 2.500 furono fatti prigionieri (tra

      di loro anche quattro tribuni militari), trenta insegne conquistate, e -

      motivo di gioia ancor più grande per i vincitori - furono liberati 7.400

      prigionieri e riconquistato il grosso bottino strappato agli alleati. I

      legittimi proprietari vennero convocati con un editto a riconoscere le

      proprie cose e a riprenderle entro un termine preciso. Gli oggetti che

      nessuno si presentò a reclamare furono lasciati ai soldati, che vennero

      obbligati a vendere la preda, per evitare che si concentrassero su

      qualcosa di diverso delle armi.

      

      21 La spedizione nell'agro campano aveva suscitato grande trepidazione a

      Roma. Inoltre, proprio in quei giorni, dall'Etruria era arrivata la

      notizia che dopo la partenza dell'esercito di Volumnio gli Etruschi erano

      corsi alle armi, e che Gellio Egnazio, comandante dei Sanniti, cercava non

      solo di spingere gli Umbri alla ribellione ma anche di allettare i Galli

      con la promessa di una grossa ricompensa. Preoccupato da queste notizie il

      senato ordinò la sospensione delle pubbliche attività e bandì la leva

      generale degli uomini di ogni classe sociale. Ad essere arruolati non

      furono solo gli uomini liberi e i più giovani, ma vennero formate anche

      coorti di veterani, e i liberti furono inquadrati in centurie. Inoltre fu

      predisposto anche un piano di difesa per Roma, e a capo della città venne

      posto il pretore Publio Sempronio. Ma a liberare il senato di parte delle

      sue preoccupazioni giunse una lettera con la quale il console Lucio

      Volumnio riferiva che i predoni della Campania erano stati fatti a pezzi e

      dispersi. Pertanto i senatori, a nome del console, decretarono pubblici

      ringraziamenti agli dèi per l'esito favorevole dell'impresa, e revocarono

      la sospensione dei pubblici affari, durata diciotto giorni. E venne

      celebrato il rito della supplica.

      Si iniziò poi a discutere circa il modo di proteggere la regione devastata

      dai Sanniti, e venne deciso di fondare due colonie nei territori di Vescia

      e di Falerno, una presso la foce del Liri (alla quale andò il nome di

      Minturno), l'altra sulle alture di Vescia, vicino al territorio di

      Falerno, dove si dice si trovasse la città greca di Sinope, chiamata poi

      dai coloni romani Sinuessa. I tribuni ricevettero l'incarico di presentare

      all'approvazione del popolo un decreto in base al quale il pretore Publio

      Sempronio avrebbe nominato tre magistrati col cómpito di presiedere alla

      fondazione di quelle colonie. Tuttavia non era facile trovare la gente da

      iscrivere: dominava l'impressione di essere spediti non in una colonia

      agricola, ma come a un avamposto permanente in una zona minacciata dai

      nemici.

      A distogliere il senato da questi problemi furono la guerra in Etruria,

      che stava diventando sempre più preoccupante, e i frequenti messaggi di

      Appio che consigliava con insistenza di non trascurare i moti di quella

      regione: quattro popoli - Etruschi, Sanniti, Umbri e Galli - stavano

      unendo le proprie forze, e avevano già posto due accampamenti distinti,

      perché un unico campo non era in grado di contenere tutta quella massa di

      armati. Per questo motivo, e anche per presiedere le elezioni (la data era

      già alle porte), venne richiamato a Roma il console Lucio Volumnio.

      Questi, prima di chiamare le centurie al voto, dopo aver convocato

      l'assemblea generale, pronunciò un lungo discorso sulla gravità della

      guerra in Etruria. Disse che fino a quel momento, fino a quando cioè aveva

      gestito insieme al collega la campagna in Etruria, la guerra era stata

      così dura, che per sostenerla non erano stati sufficienti un unico

      comandante e un unico esercito. In séguito, stando a quanto si diceva, si

      erano aggiunti gli Umbri e i Galli con un grosso esercito. Tenessero bene

      a mente, quindi, che quel giorno venivano scelti i consoli destinati a

      fronteggiare quei quattro popoli. Personalmente, se non fosse stato

      convinto che il voto del popolo stava per designare al consolato l'uomo

      che in quel momento era giudicato senza alcun dubbio il miglior generale a

      disposizione, lo avrebbe nominato immediatamente dittatore.

      

      22 Nessuno dubitava che Fabio sarebbe stato eletto all'unanimità per la

      quinta volta: e infatti le centurie prerogative e quelle chiamate al voto

      per prime lo avevano nominato console insieme a Lucio Volumnio. E Fabio

      pronunciò un discorso simile a quello di due anni prima. Poi, visto che

      nulla poteva contro il volere unanime del popolo, chiese infine che gli

      fosse assegnato come collega Publio Decio: sarebbe stato un sostegno per

      la sua vecchiaia. Nella censura e in due consolati condotti insieme aveva

      avuto modo di sperimentare come nulla fosse più utile agli interessi dello

      Stato che l'armonia tra i colleghi. Il suo temperamento di vecchio avrebbe

      fatto fatica ad abituarsi a un nuovo compagno di comando. Con una persona

      già nota sarebbe stato invece più facile concordare le strategie di

      guerra. Il console si dichiarò d'accordo con le parole di Fabio, elogiando

      Publio Decio per i suoi effettivi meriti, insistendo sui vantaggi che

      derivano dall'armonia tra i consoli nella gestione delle campagne militari

      e sui danni che nascono dal loro disaccordo, e ancora ricordando come poco

      tempo prima si fosse giunti a un passo dal disastro proprio per la

      divergenza di vedute tra lui e il collega. Decio e Fabio avevano invece un

      solo cuore e una sola mente, e poi erano uomini nati per la vita militare,

      grandi nell'azione e poco portati agli scontri a base di lingua e parole.

      Queste sì erano personalità tagliate per la carica di console: i furbi e

      gli scaltri, gli esperti di diritto e di eloquenza, come Appio Claudio,

      bisognava tenerli per il governo della città e per la vita pubblica, per

      l'elezione dei pretori deputati all'amministrazione della giustizia.

      L'intera giornata trascorse in questi discorsi. Il giorno successivo le

      elezioni di consoli e pretori si tennero secondo le disposizioni del

      console: pur essendo tutti assenti, vennero eletti consoli Quinto Fabio e

      Publio Decio, pretore Appio Claudio. In base a un decreto del senato e a

      una deliberazione della plebe, a Lucio Volumnio venne prorogato il comando

      delle truppe per un anno.

      

      23 Nel corso dell'anno si verificarono molti prodigi. Per evitarne le

      possibili conseguenze, il senato decretò due giorni di suppliche: vennero

      offerti a spese dell'erario vino e incenso, mentre uomini e donne andarono

      in massa a supplicare gli dèi. Quella supplica rimase nelle cronache per

      una lite scoppiata tra le matrone all'interno del santuario della

      Pudicizia patrizia, situato nel foro Boario in prossimità del tempio

      rotondo di Ercole. Le matrone avevano escluso dalla partecipazione ai riti

      sacri Virginia, figlia di Aulo, una patrizia moglie di un plebeo, il

      console Lucio Volumnio, perché, celebrato il matrimonio, non faceva più

      parte del patriziato. Ne nacque un breve screzio che, per colpa

      dell'irascibilità tipica delle donne, si trasformò in una violenta lite:

      Virginia a buon diritto si vantava di essere entrata da patrizia e casta

      nel santuario della Pudicizia patrizia, in quanto sposata a un solo uomo

      in casa del quale era stata condotta ancor vergine, e di non aver alcun

      motivo di vergognarsi del marito, né della sua carriera e né dei suoi

      successi in campo militare. A queste parole piene di orgoglio fece seguire

      un gesto bizzarro: nel suo palazzo di via Lunga - dove abitava -, fece

      ricavare uno spazio sufficiente alla costruzione di un tempietto, vi

      collocò un altare e, convocate le matrone plebee, lamentandosi

      dell'affronto subito dalle matrone patrizie, disse: «Consacro quest'altare

      alla Pudicizia plebea e vi esorto affinché alla competizione di valori che

      in questa città tiene impegnati gli uomini corrisponda, tra le donne, un

      confronto in materia di pudicizia, e vi invito a impegnarvi a fondo perché

      questo altare venga onorato in maniera più conforme alla religione e da

      donne più caste, se è mai possibile, di quello patrizio». L'altare venne

      in séguito venerato più o meno con lo stesso rituale di quello più antico,

      e non aveva diritto di compiervi sacrifici nessuna matrona che non fosse

      di specchiata castità e avesse contratto più di un matrimonio. Col tempo

      il culto fu allargato anche alle donne che avevano perduto la castità, e

      non soltanto alle matrone, ma anche alle donne di ogni classe, fino a

      quando non cadde in disuso.

      Lo stesso anno gli edili curuli Gneo e Quinto Ogulnio citarono in giudizio

      alcuni usurai, condannati poi alla confisca di parte del patrimonio. Col

      denaro che le casse dello Stato ricavarono vennero costruite le porte di

      bronzo del tempio di Giove Capitolino, le suppellettili d'argento di tre

      mense nella cella di Giove, il rilievo di Giove con le quadrighe sul

      frontone del tempio, nonché la statua dei gemelli fondatori di Roma sotto

      le mammelle della lupa, collocata nei pressi del fico Ruminale. Venne

      inoltre lastricato con massi quadrati il marciapiede tra la porta Capena e

      il tempio di Marte. Anche gli edili plebei Lucio Elio Peto e Gaio Fulvio

      Curvo, utilizzando fondi costituiti con ammende comminate a persone che

      avevano appaltato terreni sotto vincolo, fecero allestire dei giochi e

      porre piatti d'oro nel tempio di Cerere.

      

      24 Entrarono poi in carica Quinto Fabio (console per la quinta volta) e

      Publio Decio (per la quarta), che erano già stati colleghi in tre

      consolati e nella censura, celebri per l'armonia di rapporti più ancora

      che per la gloria militare, per altro ragguardevole. Ma a impedire che il

      clima di armonia durasse in perpetuo fu una divergenza di vedute, dovuta -

      a mio parere - più che a loro stessi alle rispettive classi sociali di

      provenienza: mentre i patrizi premevano perché a Fabio venisse assegnato

      il comando in Etruria con un provvedimento straordinario, i plebei

      spingevano Decio a esigere il sorteggio. Se ne discusse in senato e,

      quando fu chiaro che in quel contesto Fabio avrebbe avuto la meglio, si

      finì col ricorrere al giudizio del popolo.

      Di fronte all'assemblea, così come si addiceva a uomini d'armi abituati

      più ai fatti che alle parole, i consoli pronunciarono due brevi discorsi.

      Fabio sosteneva non fosse giusto che altri raccogliesse i frutti

      dall'albero che lui aveva piantato: era stato lui a inaugurare la selva

      Ciminia e ad aprire la strada agli eserciti romani attraverso quegli

      scoscesi dirupi. Perché andarlo tanto a sollecitare, se poi intendevano

      gestire la guerra con un altro comandante? Si rimproverava di aver scelto

      un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a

      Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano

      insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se

      non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora però lo

      ritenessero degno del comando. Quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla

      volontà del popolo, così come si era rimesso a quella del senato. Publio

      Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo

      che i patrizi si erano sforzati, finché era in loro potere, di impedire ai

      plebei l'accesso alle magistrature più importanti. Ma poi, da quando i

      valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli

      ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma

      anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volontà arbitraria di

      pochi individui. Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi

      le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a

      Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio. Se ciò era dovuto a

      un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi

      dello Stato e di lui stesso erano così grandi, da essere pronto a

      favorirne la gloria, purché non risplendesse a spese del suo disonore.

      Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la

      si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non

      venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo?

      Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere

      la possibilità di gloriarsene. E forse avrebbe spento lui il fuoco che

      quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte

      sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio. Per

      concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il

      rispetto dovuto all'età e alla dignità della persona: quando però si fosse

      trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non

      si sarebbe tirato indietro di sua volontà, né lo avrebbe fatto in séguito.

      E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno

      ricavato questo: e cioè che fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al

      popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore,

      fossero i patrizi. Pregava Giove Ottimo Massimo e gli dèi immortali di

      concedergli col sorteggio opportunità pari a quelle del collega, ma che

      insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella

      nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in

      sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una

      personalità tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la

      campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo.

      Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le tribù venissero

      chiamate al voto - e cioè di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal

      pretore Appio Claudio -, lasciò l'assemblea. Il comando delle operazioni

      venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non

      inferiore a quello del senato.

      

      25 Tutti i giovani si presentarono di corsa al console, arruolandosi

      ciascuno di sua spontanea volontà, tanto grande era il desiderio di

      prestare servizio militare agli ordini di quel generale. Circondato da

      questa massa di giovani, Fabio disse: «Ho intenzione di arruolare soltanto

      4.000 fanti e 600 cavalieri. Porterò con me quanti daranno i loro nomi tra

      oggi e domani. A me preme più riportarvi in patria ricchi dal primo

      all'ultimo, piuttosto che fare la guerra con molti soldati». Partito con

      un esercito adatto alle esigenze del momento e formato da uomini che erano

      tanto più fiduciosi e sicuri per il fatto che non era stata richiesta una

      grande quantità di uomini, si diresse in fretta al campo del pretore

      Appio, nei pressi della città di Aarna, che non distava molto dalle

      posizioni nemiche. A poche miglia da quel punto si imbatté in alcuni

      soldati usciti per far legna con una scorta armata. Quando questi si

      videro venire incontro i littori e vennero a sapere che il console era

      Fabio, ne furono felicissimi e ringraziarono gli dèi e il popolo romano

      per aver mandato loro quel comandante. Mentre poi si accalcavano intorno

      al console per salutarlo, Fabio chiese loro dove fossero diretti e,

      sentendo che andavano a raccogliere legna, disse loro: «E allora? Il

      vostro campo non è forse circondato da una palizzata?». Quelli risposero

      all'unisono che il campo era sì circondato da una doppia palizzata e da

      una doppia trincea, ma che ciò non ostante vivevano nel terrore. Fabio

      disse: «Dunque legna ne avete a iosa: tornatevene indietro e abbattete la

      palizzata». Quelli rientrarono all'accampamento e si misero ad abbattere

      la palizzata, suscitando sgomento tra gli uomini rimasti nel campo e Appio

      stesso, fino a quando, passandosi parola l'uno con l'altro, fecero sapere

      di agire su ordine del console Quinto Fabio. Il giorno dopo il campo venne

      spostato e il pretore Appio fu rispedito a Roma. Da quel momento i Romani

      non posero un campo stabile da nessuna parte: l'idea di Fabio era che a

      nessun esercito giovasse lo star fermo, e che anzi le marce e i

      cambiamenti di zona facessero acquistare in mobilità e in salute. Le

      marce, tuttavia, duravano quanto lo permetteva l'inverno non ancora

      concluso.

      All'inizio della primavera Fabio lasciò la seconda legione a Chiusi - un

      tempo chiamata Camars - e, affidato l'accampamento a Lucio Scipione coi

      gradi di propretore, rientrò a Roma per tenervi un consiglio di guerra.

      Questo sia che vi si fosse recato di sua spontanea volontà dopo aver

      constatato di persona che la guerra era più delicata di quanto non

      lasciassero intuire le notizie arrivate dal fronte, sia che fosse stato

      convocato da un decreto del senato: le fonti riferiscono entrambe le

      versioni dei fatti. Secondo alcune a farlo convocare sarebbe stato il

      pretore Appio Claudio, che di fronte al senato e al popolo esagerò la

      gravità del conflitto in Etruria, come per altro aveva sempre fatto nelle

      sue relazioni dal fronte: sosteneva che per tener testa a quattro popoli

      non sarebbero bastati un unico generale e un unico esercito. Sia che essi

      avessero fatto pressione con le forze congiunte, sia che avessero gestito

      la guerra separatamente, c'era il rischio che un unico comandante non

      riuscisse a far fronte contemporaneamente a tutti. Egli aveva lasciato

      laggiù due legioni romane, e agli ordini di Fabio erano arrivati meno di

      5.000 tra fanti e cavalieri. La sua idea era che il console Publio Decio

      raggiungesse quanto prima il collega in Etruria, e che le operazioni nel

      Sannio venissero affidate a Lucio Volumnio. Se il console preferiva

      recarsi sul fronte assegnatogli, allora era meglio che Volumnio partisse

      per l'Etruria e raggiungesse il console con una regolare formazione

      consolare. A quanto pare, mentre il discorso del pretore aveva convinto la

      maggior parte degli uomini, Publio Decio propose invece di lasciare piena

      libertà operativa e strategica a Fabio, fino al giorno in cui si fosse

      presentato di persona a Roma (qualora fosse stato in grado di farlo senza

      danneggiare il paese), oppure avesse inviato uno dei suoi luogotenenti,

      tramite il quale il senato avrebbe potuto rendersi conto dell'effettiva

      gravità della guerra in Etruria e di quanti uomini e quanti comandanti

      fossero necessari per condurla.

      

      26 Non appena Fabio arrivò a Roma, tanto in senato quanto di fronte al

      popolo in assemblea non si sbilanciò nei discorsi che tenne, in maniera da

      dare l'impressione di non ingrandire né diminuire le proporzioni del

      conflitto e, nel caso in cui avesse associato al comando un altro

      generale, di farlo più per assecondare le paure altrui che evitare a se

      stesso e al paese una situazione di pericolo. E poi, se davvero volevano

      assegnargli un aiuto per la guerra e un compagno da associare al comando,

      come avrebbe potuto dimenticare il console Publio Decio, che aveva

      sperimentato come collega in tante magistrature condotte insieme? Di tutti

      non c'era nessuno che preferisse avere a fianco: con Decio le truppe

      sarebbero state sufficienti e i nemici non sarebbero mai stati troppi. Se

      però il collega aveva altre preferenze, gli assegnassero allora come

      collaboratore Lucio Volumnio. Tanto il popolo quanto il senato e lo stesso

      collega lasciarono ogni decisione finale a Fabio: e poiché Decio si era

      detto pronto a partire sia per il Sannio sia per l'Etruria, la gioia e il

      compiacimento generale furono tali, che già la gente pregustava la gioia

      della vittoria, e si aveva l'impressione che ai consoli non fosse stata

      affidata la guerra ma decretato il trionfo.

      In alcuni autori ho trovato che Fabio e Decio partirono alla volta

      dell'Etruria sùbito dopo essere entrati in carica, senza però alcun

      accenno al sorteggio delle zone di operazione e ai dissapori tra i

      colleghi di cui ho già parlato. Altri invece non soltanto riferiscono di

      questi scontri verbali, ma parlano anche di accuse mosse da Appio di

      fronte al popolo contro la persona di Fabio (che al momento era assente),

      e di una tenace ostilità da parte del pretore verso il console quando

      questi rientrò a Roma, e di altri contrasti tra i colleghi, dovuti al

      fatto che Decio pretendeva che ciascuno rispettasse gli esiti del

      sorteggio nell'assegnazione delle campagne. Le versioni cominciano a

      coincidere dal momento in cui entrambi i consoli si trovano al fronte.

      Ma prima che i consoli arrivassero in Etruria, nei pressi di Chiusi

      comparve una massa di Galli Senoni, le cui intenzioni erano di attaccare

      l'esercito e l'accampamento romani. Scipione, che aveva il comando del

      campo, volendo sopperire all'inferiorità numerica con il favore della

      posizione, fece salire l'esercito su un'altura che si trovava tra la città

      e l'accampamento. Ma dato che nella fretta non aveva potuto fare

      controllare il percorso, raggiunse una cima che era già stata occupata dal

      nemico, salito dalla parte opposta. Così la legione, schiacciata da ogni

      parte dai nemici, fu presa alle spalle e sopraffatta. Alcuni autori

      sostengono che quel contingente fu completamente annientato, al punto che

      non rimase in vita un solo soldato in grado di riferire la notizia della

      disfatta, e che i consoli, essendo ormai nei pressi di Chiusi, non

      ricevettero alcuna informazione su quel disastro fino al momento in cui

      non videro coi propri occhi i cavalieri dei Galli che portavano le teste

      dei romani uccisi appese al petto dei cavalli e conficcate sulle lance, e

      si esibivano nei loro caratteristici canti di trionfo. Stando ad altri

      autori, i nemici sarebbero stati Umbri e non Galli, e la sconfitta avrebbe

      avuto altre proporzioni: a rimanere circondato sarebbe stato un reparto di

      soldati addetti al foraggiamento agli ordini del luogotenente Lucio Manlio

      Torquato, e il propretore Scipione sarebbe intervenuto con rinforzi

      dall'accampamento, e dopo aver riequilibrato le sorti della battaglia

      avrebbe piegato gli Umbri già vincitori, togliendo di nuovo dalle loro

      mani i prigionieri e il bottino. Tuttavia è più aderente alla verità dei

      fatti che a infliggere questa disfatta ai Romani siano stati i Galli e non

      gli Umbri, perché - come già successo molte altre volte in passato - anche

      quell'anno Roma venne invasa da un'ondata di panico dovuto alla minaccia

      gallica. Così, mentre entrambi i consoli erano già partiti alla volta del

      fronte con quattro legioni, un massiccio contingente di cavalleria romana,

      1.000 cavalieri campani forniti per quel conflitto, e un esercito di

      alleati e di Latini numericamente superiore a quello romano, non lontano

      da Roma altri due eserciti vennero collocati di fronte all'Etruria, uno

      nel territorio dei Falisci, l'altro nell'agro Vaticano. I propretori Gneo

      Fulvio e Lucio Postumio ricevettero la disposizione di accamparsi

      stabilmente in quelle zone.

      

      27 Valicato l'Appennino, i consoli raggiunsero i nemici nel territorio di

      Sentino, e si accamparono a circa quattro miglia da loro. Tra i nemici ci

      furono quindi riunioni, nelle quali venne deciso di non mescolarsi in un

      unico accampamento e di non dare battaglia tutti insieme. I Galli vennero

      aggregati ai Sanniti, gli Umbri agli Etruschi. Fu stabilita la data della

      battaglia, e lo scontro fu affidato ai Sanniti e ai Galli. Gli Etruschi e

      gli Umbri ebbero invece l'ordine di attaccare l'accampamento romano nel

      corso della battaglia. Questi piani li mandarono a monte tre disertori di

      Chiusi, i quali di notte si presentarono in segreto al cospetto del

      console Fabio e lo informarono dei progetti messi a punto dal nemico. Dopo

      averli ricompensati, Fabio li congedò, rimanendo d'accordo con loro che si

      sarebbero informati accuratamente su ogni nuova iniziativa e sarebbero poi

      venuti a riferirgli. I consoli inviarono una lettera rispettivamente a

      Fulvio e a Postumio: le disposizioni erano di abbandonare la zona di

      Faleri e l'agro Vaticano, e di portare i loro eserciti a Chiusi, mettendo

      a ferro e fuoco con la massima violenza il territorio nemico. La notizia

      di queste incursioni costrinse gli Etruschi a lasciare la zona di Sentino

      per andare a proteggere il proprio paese. Fu allora che i consoli

      cercarono in ogni modo di arrivare allo scontro, sfruttando la loro

      assenza. Per due giorni istigarono i nemici a venire alle armi, ma in

      quell'arco di tempo non si registrarono operazioni degne di nota. Da

      entrambe le parti ci furono poche perdite, e gli animi dei combattenti

      furono spinti ad affrontare una battaglia campale, senza però che si

      arrivasse mai allo scontro decisivo. Il terzo giorno i due eserciti

      scesero in campo dispiegando tutte le forze in loro possesso.

      Mentre erano schierati in ordine di battaglia, dalle alture scese di corsa

      una cerva inseguita da un lupo, andando ad attraversare nella sua fuga il

      pianoro che si apriva tra i due opposti schieramenti. Di lì i due animali

      rivolsero la loro corsa in direzioni opposte, la cerva verso i Galli, il

      lupo verso i Romani. Il lupo ebbe via libera tra le file, mentre la cerva

      venne trafitta dai Galli. Allora un soldato romano dell'avanguardia disse:

      «La fuga e il massacro sono avvenuti là dove ora vedete a terra l'animale

      sacro a Diana. Da questa parte il lupo vincitore caro a Marte, sano e

      salvo, ci ha richiamato alla memoria la nostra discendenza da Marte e il

      nostro fondatore».

      I Galli andarono ad occupare l'ala destra, i Sanniti la sinistra. Di

      fronte ai Sanniti, all'ala destra romana, Quinto Fabio schierò la prima e

      la terza legione, mentre contro i Galli alla sinistra Decio schierò la

      quinta e la sesta. La seconda e la quarta, agli ordini del proconsole

      Lucio Volumnio, erano utilizzate nella spedizione contro il Sannio. Al

      primo scontro l'equilibrio tra le forse opposte fu tale, che se solo

      fossero intervenuti gli Etruschi e gli Umbri rivolgendo le proprie truppe

      in una qualunque delle direzioni - o verso l'accampamento o sul campo di

      battaglia -, per i Romani la disfatta sarebbe stata inevitabile.

      

      28 D'altra parte, pur essendo incerto l'esito dello scontro, e non ostante

      la fortuna non avesse ancora fatto capire verso quale delle due parti

      avrebbe inclinato la sua bilancia, tuttavia all'ala destra e all'ala

      sinistra il combattimento non aveva affatto la stessa intensità. Dalla

      parte di Fabio i Romani difendevano più che attaccare, e lo scontro si

      stava trascinando fino alle ultime luci del giorno, perché il console era

      fermamente convinto che i Sanniti e i Galli erano irruenti al primo urto,

      ma che poi era sufficiente resistervi: se la battaglia si protraeva, a

      poco a poco l'ardore dei Sanniti veniva meno, e il fisico dei Galli,

      incapaci più di ogni altro popolo di sopportare fatica e calura, perdeva

      vigore col passare delle ore, e mentre all'inizio dello scontro erano

      qualcosa più che degli uomini, alla fine risultavano essere meno che

      donne. Per questo egli cercava di conservare intatte quanto più a lungo

      possibile le energie dei suoi, fino a quando il nemico cominciava a dare

      segni di cedimento. Decio, più irruente per l'età che per temperamento,

      impiegò sùbito nel primo scontro tutte le forze che aveva. E poiché

      l'azione della fanteria gli sembrava eccessivamente statica, buttò nella

      mischia la cavalleria, e mescolatosi lui stesso a quella schiera di

      giovani valorosi incitò il fiore della gioventù a lanciarsi con lui

      all'assalto del nemico: la loro gloria sarebbe stata doppia, se i primi

      segni della vittoria fossero arrivati dall'ala sinistra e dalla

      cavalleria. Per due volte costrinsero la cavalleria gallica a

      indietreggiare; la seconda si spinsero più avanti, mentre stavano già

      combattendo in mezzo alle schiere di fanti, e rimasero sconcertati da un

      tipo di battaglia mai vista prima: arrivarono nemici armati in piedi su

      cocchi e carri, con un grande frastuono di ruote e cavalli che terrorizzò

      i cavalli dei Romani non abituati a quel rumore. Così la cavalleria

      romana, che aveva già la vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con

      cavalli e uomini che rovinavano a terra in una fuga precipitosa. Pertanto

      anche le linee della fanteria risentirono dello sbandamento, e molti

      uomini delle prime linee vennero travolti dall'impeto dei cavalli e dei

      carri lanciati in mezzo alle file. Non appena la fanteria dei Galli

      comprese che i nemici erano in preda al panico, si fece sotto senza

      lasciar loro il tempo di riprendere fiato e di rimettersi in sesto. Decio

      chiedeva urlando dove stessero fuggendo e che cosa sperassero nella fuga:

      si parava di fronte ai fuggitivi e richiamava quelli già dispersi. Poi,

      rendendosi conto di non essere in grado di mantenere uniti i suoi uomini

      ormai allo sbando, invocando per nome il padre Publio Decio, disse:

      «Perché ritardo il destino della mia famiglia? È questa la sorte data alla

      nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora

      offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dèi

      Mani!». Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al

      quale aveva ingiunto di non allontarsi da lui mentre scendevano in campo,

      di recitargli la formula con cui offrire in sacrificio se stesso e le

      legioni nemiche per l'esercito del popolo romano dei Quiriti. Si consacrò

      in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento

      con cui presso il fiume Veseri si era consacrato il padre Publio Decio

      durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito

      la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il

      massacro, il sangue, il risentimento degli dèi celesti e di quelli

      infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le

      armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo

      avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti - lanciate dunque

      tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il

      cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e

      trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.

      

      29 Da quel momento in poi sembrò che la battaglia non dipendesse troppo da

      forze umane. I Romani, perso il proprio comandante - ciò che di solito in

      altri casi crea scompiglio -, riuscirono a bloccare la fuga e cercarono di

      riequilibrare le sorti della battaglia. I Galli, in particolar modo quella

      parte di essi che stava intorno al cadavere del console, tiravano frecce a

      caso e fuori bersaglio, come avessero perso l'uso della ragione. Alcuni

      erano come paralizzati e non riuscivano a concentrarsi né sul

      combattimento né sulla fuga. Dalla parte opposta il pontefice Livio, cui

      Decio aveva affidato i littori dandogli disposizione di sostituirlo nel

      comando, urlava che i Romani avevano vinto, perché con la morte del

      console si erano liberati del debito nei confronti degli dèi: i Galli e i

      Sanniti appartenevano ormai alla madre Terra e agli dèi Mani, Decio

      trascinava con sé richiamandolo l'esercito che aveva votato in sacrificio

      con la propria persona, e i nemici erano in preda al panico e alle furie.

      Poi, mentre già quelli stavano riequilibrando la battaglia, dalle retrovie

      arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio Scipione e Gaio Marcio, inviati dal

      console Quinto Fabio in aiuto al collega. Lì essi appresero la fine di

      Publio Decio, che era un grande incitamento a osare qualunque tipo di

      azione in nome dello Stato. Poi, visto che i Galli serravano i ranghi

      tenendo gli scudi attaccati al corpo per proteggersi, e il corpo a corpo

      non sembrava facilmente praticabile, i luogotenenti ordinarono di

      raccogliere le aste che si trovavano al suolo in mezzo ai due

      schieramenti, e di scagliarle contro la formazione a testuggine dei

      nemici. La maggior parte delle aste andarono a conficcarsi negli scudi e

      solo poche punte trafissero la carne, ma la formazione nemica perdette

      compattezza, perché molti, pur non avendo ricevuto un graffio,

      stramazzarono a terra storditi.

      All'ala sinistra romana furono queste le alterne vicende che si

      verificarono. Alla destra Fabio - come già detto in precedenza -

      temporeggiando era riuscito a protrarre lo scontro. Quando ebbe

      l'impressione che sia le urla e l'animosità dei nemici sia i loro colpi

      non avessero più la stessa intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria

      di guidare le ali ai fianchi dei nemici, per assalirli di lato con il

      maggior impeto possibile al segnale convenuto. Ai fanti ordinò invece di

      avanzare per gradi, stanando il nemico dalle posizioni in cui era

      attestato. Quando si rese conto che gli avversari non opponevano

      resistenza e che davano evidenti segni di spossatezza, raccolti tutti i

      riservisti (tenuti in serbo per quel preciso momento), lanciò la fanteria

      all'assalto e diede ai cavalieri il segnale della carica contro il nemico.

      I Sanniti non ressero l'urto: superato nella foga della ritirata lo

      schieramento dei Galli, abbandonarono gli alleati nella mischia, correndo

      a perdifiato verso l'accampamento. I Galli, da parte loro, riformarono la

      testuggine, e non si disunirono. Fu allora che Fabio, saputo della morte

      del collega, ordinò ai 500 cavalieri che formavano l'ala campana di

      abbandonare la linea del combattimento e di aggirare lo schieramento dei

      Galli per prenderli alle spalle. Ai principes della terza legione ordinò

      di seguirli, e, là dove si fossero imbattuti in reparti nemici

      scompigliati dall'assalto della cavalleria, di incalzarli massacrandoli

      mentre erano in preda al panico. Egli poi, promesso in voto un tempio e le

      spoglie nemiche a Giove Vincitore, si diresse verso l'accampamento

      sannita, dove stava convergendo tutta la massa sbandata. Proprio sotto la

      trincea, poiché le porte non erano ampie abbastanza per far passare una

      tale quantità di armati, gli uomini rimasti chiusi fuori cercarono ancora

      una volta di ricorrere alla battaglia: lì cadde Gello Egnazio, il

      comandante in capo delle forze sannite. I Sanniti vennero poi ricacciati

      al di là della trincea, e dopo un brevissimo scontro l'accampamento venne

      conquistato e i Galli raggiunti alle spalle. In quella giornata vennero

      uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000.

      Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di

      Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700. Questi

      fece cercare il corpo del collega, e bruciò in onore di Giove Vincitore

      una catasta fatta con le spoglie dei nemici. Per quel giorno non si riuscì

      a trovare il corpo del console, perché giaceva sepolto sotto i cumuli di

      Galli ammassati l'uno sull'altro. Fu rinvenuto il giorno successivo e

      riportato indietro accompagnato dalle lacrime copiose dei soldati. Fabio,

      lasciando da parte ogni altra incombenza, rese gli onori funebri al

      collega, che onorò in ogni modo e cui rivolse un meritato elogio.

      

      30 In quegli stessi giorni, anche in Etruria il propretore Gneo Fabio

      condusse la campagna attenendosi ai piani convenuti, e oltre a danneggiare

      il nemico devastandone le campagne, combatté pure con successo, uccidendo

      più di 3.000 Perugini e abitanti di Chiusi e catturando circa venti

      insegne militari. Mentre erano in fuga attraverso il territorio dei

      Peligni, le truppe sannite furono circondate dai Peligni stessi, e dei

      5.000 originari ne vennero uccisi grosso modo 1.000.

      Anche per chi non si discosta dalla realtà dei fatti, la gloria di quella

      giornata in cui ebbe luogo lo scontro di Sentino è grandissima. Ma alcuni

      autori, a forza di esagerazioni, hanno superato i limiti del credibile,

      arrivando a scrivere che tra le file nemiche vi erano 330.000 fanti,

      46.000 cavalieri e 1.000 carri (ivi inclusi Umbri ed Etruschi, che a loro

      detta avrebbero preso parte anch'essi alla battaglia). Per poi aumentare

      pure le forze romane, ai consoli associano come comandante il proconsole

      Lucio Volumnio, unendo alle legioni consolari l'esercito di quest'ultimo.

      Nella maggior parte degli annali, però, la vittoria viene attribuita

      soltanto ai due consoli: nel frattempo Volumnio era occupato nella

      spedizione nel Sannio e, dopo aver costretto l'esercito sannita a riparare

      sul monte Tiferno, lo travolgeva costringendolo alla fuga, senza lasciarsi

      mettere in soggezione dalla natura impervia del terreno.

      Quinto Fabio, lasciato a Decio il cómpito di presidiare l'Etruria col

      proprio esercito, riportò a Roma le sue legioni e ottenne il trionfo su

      Galli, Etruschi e Sanniti. I soldati lo seguivano nella sfilata, e nei

      rozzi canti militari la valorosa morte di Decio venne celebrata non meno

      della vittoria di Fabio, e tra le lodi rivolte al figlio venne richiamata

      la memoria del padre, il cui sacrificio e i cui successi in campo pubblico

      erano stati adesso eguagliati. Dal bottino raccolto in guerra ogni soldato

      ricevette ottantadue assi di rame, un mantello e una tunica, che in quel

      tempo erano riconoscimenti militari non certo disprezzabili.

      

      31 Pur avendo conseguito questi successi, né in Etruria né nel Sannio

      c'era ancora la pace: infatti, dopo il ritiro dell'esercito voluto dal

      console, i Perugini avevano riaperto le ostilità e i Sanniti erano scesi a

      compiere saccheggi in parte nel territorio di Vescia e di Formia, e in

      parte nella zona di Isernia e nella valle del Volturno. A fronteggiarli

      venne inviato il pretore Appio Claudio con l'esercito di Decio. Fabio,

      ritornato in Etruria per il riaccendersi delle ostilità, uccise 4.500

      Perugini e ne catturò circa 1.740, che vennero riscattati al prezzo di 310

      assi a testa: il resto del bottino raccolto venne lasciato ai soldati. Le

      truppe sannite, delle quali una parte aveva alle calcagna il pretore Appio

      Claudio mentre l'altra Lucio Volumnio, raggiunsero l'agro Stellate; lì si

      accamparono nei pressi di Caiazia le forze sannite riunite, mentre Appio e

      Volumnio allestirono un unico accampamento. Si combatté con estremo

      accanimento, perché i Romani erano spinti dal risentimento per un popolo

      che si era già tante volte ribellato, mentre i Sanniti si battevano ormai

      per salvare le poche speranze residue. Vennero uccisi 16.300 Sanniti, e

      2.700 fatti prigionieri. Tra i Romani i caduti furono 2.700.

      Se quell'anno fu fortunato per i successi in campo militare, a funestarlo

      e a turbarne la serenità furono una pestilenza e una serie di prodigi.

      Arrivò infatti la notizia che in molti luoghi era piovuta terra e che

      numerosi soldati dell'esercito di Appio Claudio erano stati colpiti da

      fulmini: per queste ragioni vennero consultati i libri sibillini.

      Quell'anno Quinto Fabio Gurgite, figlio del console, condannò al pagamento

      di un'ammenda alcune matrone riconosciute colpevoli, al cospetto del

      popolo, del reato di adulterio, e col denaro ricavato fece edificare il

      santuario di Venere che sorge accanto al Circo Massimo.

      Erano ancora in corso le guerre contro i popoli del Sannio, delle quali

      stiamo parlando già da quattro libri e per la durata di quarantasei anni,

      a partire dal consolato di Marco Valerio e Aulo Cornelio, che furono i

      primi a guidare le legioni nel Sannio. E per non passare in rassegna le

      disfatte subite da una parte e dall'altra e i disagi sopportati - che però

      non riuscirono a fiaccare quei temperamenti tenaci -, basterà ricordare

      che nel corso dell'ultimo anno i Sanniti erano stati sconfitti a Sentino,

      nel territorio dei Peligni, sul Tiferno e nell'agro Stellate, o da soli o

      insieme con altri popoli, ad opera di quattro eserciti e quattro

      comandanti romani; che avevano perso il loro comandante più capace, che

      vedevano Etruschi, Umbri e Galli, i loro alleati, ridotti nelle stesse

      condizioni in cui essi stessi versavano; che ormai non erano in grado di

      sostenersi né con le proprie forze né con quelle degli altri. Eppure non

      volevano rinunciare allo scontro. Tanto lontani erano dal rinunciare a

      difendere la propria libertà, anche se con scarso successo, e preferivano

      uscire battuti piuttosto che abbandonare un tentativo di successo. Chi mai

      potrebbe stancarsi, scrivendone o leggendone, della lunghezza di quelle

      guerre, che non riuscirono a stancare gli uomini che le combatterono?

      

      32 A Quinto Fabio e Publio Decio seguirono come consoli Lucio Postumio

      Megello e Marco Atilio Regolo. Vennero entrambi inviati nel Sannio, perché

      correva voce che i nemici avessero arruolato tre eserciti, e cioè uno per

      ritornare in Etruria, uno per riprendere a devastare le terre della

      Campania e uno per difendere il proprio territorio. Postumio venne

      trattenuto a Roma da una malattia. Atilio, ligio alle decisioni prese dal

      senato, partì invece immediatamente per piegare la resistenza dei nemici

      prima che uscissero dal Sannio. Quasi ci fosse stato un accordo

      preliminare, i Romani incontrarono i nemici in un punto in cui era loro

      sbarrato l'accesso in territorio sannita, ma nel quale impedivano ai

      Sanniti di scendere verso le zone assoggettate e nei territori degli

      alleati del popolo romano. Accampatisi gli uni a ridosso degli altri, i

      Sanniti ebbero il coraggio di mettere in pratica - questo è il grado di

      temerarietà cui spinge la disperazione! - ciò che avrebbero a malapena

      osato i Romani già tante volte vincitori, cioè un attacco all'accampamento

      nemico. E un'iniziativa tanto audace, pur non avendo raggiunto gli scopi

      prefissati, tuttavia non fu del tutto priva di efficacia. Fino a giorno

      inoltrato ci fu una nebbia così spessa da rendere quasi nulla la

      visibilità, impedendo di vedere non soltanto ciò che avveniva al di là

      della trincea, ma anche quelli che poco più in là vi si avvicinavano

      procedendo gli uni accanto agli altri. I Sanniti, sfruttando questa nebbia

      come una copertura alla loro imboscata, alle prime e incerte luci

      dell'alba (per di più offuscata dalla caligine), arrivarono nei pressi

      della garitta dove la sentinella vigilava con scarsa attenzione la porta.

      Sorpresi dall'attacco improvviso, i Romani non ebbero né la prontezza di

      riflessi né la forza sufficienti per opporre resistenza. Alle loro spalle

      ci fu un'irruzione attraverso la porta decumana, che portò così alla

      cattura della tenda del questore e all'uccisione del questore stesso,

      Lucio Opimio Pansa. Fu allora che venne dato l'allarme.

       

      33 Svegliato dalle grida, il console ordinò a due coorti di alleati - una

      composta di Lucani e l'altra di Suessani - che casualmente erano le più

      vicine, di difendere il pretorio, e si mise a capo dei manipoli delle

      legioni sulla via principale. Dopo aver cinto in qualche modo le armi, gli

      uomini si inquadrarono nei reparti, riconoscendo i nemici più con l'udito

      che con la vista, senza che fosse possibile valutarne la consistenza

      numerica. Sulle prime indietreggiarono, non riuscendo a rendersi conto di

      quanto stava succedendo, e lasciarono che il nemico penetrasse fino al

      centro dell'accampamento. Ma poi, siccome il console gridando chiedeva se

      aspettassero di farsi cacciare dalla trincea per poi espugnare quello che

      era il loro accampamento, dopo aver levato il grido di battaglia,

      profondendo il massimo delle sforzo riuscirono sulle prime a resistere,

      poi ad avanzare e premere il nemico. Una volta respintolo, senza

      lasciargli il tempo di riprendersi dalla sorpresa, lo risospinsero fuori

      della porta e della trincea. Poi, mancando loro il coraggio di gettarsi

      all'inseguimento, dato che la mancanza di visibilità faceva temere il

      rischio di un agguato nei pressi, soddisfatti di aver liberato

      l'accampamento, si ritirarono all'interno della trincea. Avevano ucciso

      circa 300 nemici. Le perdite romane ammontarono a circa 730 unità, fra gli

      uomini del primo posto di guardia e quelli sorpresi intorno alla tenda del

      questore.

      Questo episodio non certo privo di efficacia ridiede coraggio ai Sanniti,

      che non solo impedirono ai Romani di avanzare, ma anche di andare a

      rifornirsi di viveri nel loro territorio: gli uomini addetti al

      vettovagliamento erano costretti a tornare indietro nella zona

      assoggettata di Sora. La notizia dell'episodio, descritto a Roma in

      termini più allarmanti di quanto in realtà non fosse, spinse il console

      Lucio Postumio appena uscito dalla malattia a partire dalla città.

      Comunque, prima di mettersi in marcia, dopo aver dato ordine ai soldati di

      concentrarsi a Sora, inaugurò il tempio della Vittoria, che aveva fatto

      edificare in qualità di edile curule usando il denaro ricavato dalle

      ammende. Ricongiuntosi poi con l'esercito a Sora, di lì raggiunse il campo

      del collega nel Sannio. I Sanniti allora si ritirarono, non avendo più

      speranze di poter fronteggiare con successo i due eserciti, e i consoli si

      misero in marcia in direzioni diverse con l'intento di mettere a ferro e

      fuoco le campagne e di attaccare i centri abitati.

      

      34 Postumio cercò in un primo tempo di impossessarsi con la forza di

      Milionia. Poi, vedendo che questa tattica non dava grossi risultati,

      ricorse a dispositivi d'assedio e alla fine riuscì a conquistarla

      appoggiando vigne alle mura. Lì, non ostante la città fosse già occupata,

      si continuò a combattere in tutti i settori dalle dieci fino quasi alle

      due del pomeriggio, e l'esito fu a lungo incerto; ma alla fine i Romani si

      impadronirono della cittadella. I Sanniti uccisi furono 3.200, quelli

      fatti prigionieri 4.700; venne raccolto altro bottino.

      L'esercito fu poi condotto a Feritro, i cui abitanti erano usciti di

      nascosto nel cuore della notte attraverso la porta opposta, portando con

      sé quanto poteva essere trasportato. Di conseguenza il console, non appena

      arrivò nei pressi della città, cominciò ad avvicinarsi con l'esercito

      schierato e pronto a sostenere una battaglia simile a quella affrontata a

      Milionia. In un secondo tempo, notando che in città regnava un profondo

      silenzio e vedendo che sulle torri e sulle mura non c'erano né armi né

      uomini, per non cadere incautamente in un tranello, trattenne i soldati

      che non vedevano l'ora di scalare le mura deserte, e ordinò a due

      squadroni di cavalieri latini di esplorare accuratamente tutta la cinta

      muraria. I cavalieri videro spalancate una porta e lì accanto un'altra

      nella stessa zona, e sulle vie che le attraversavano riconobbero le tracce

      della fuga notturna dei nemici. Cavalcarono poi con prudenza attraverso le

      porte, e si resero conto che le vie cittadine si potevano percorrere in

      assoluta tranquillità. Riferirono al console che la città era stata

      abbandonata, come era evidente dall'assenza di abitanti, dalle tracce

      recenti della fuga e dai cumuli di oggetti abbandonati alla rinfusa nel

      trambusto della notte. Ascoltato questo rapporto, il console guidò

      l'esercito verso la zona dove erano entrati i cavalieri latini. Fatte

      fermare le truppe non lontano dalla porta, ordinò a cinque cavalieri di

      entrare in città, predisponendo che dopo una limitata perlustrazione

      all'interno tre rimanessero in quello stesso punto (se tutto sembrava

      tranquillo), e due tornassero a riferire l'esito della missione. Quando i

      cinque rientrarono riferendo di essere arrivati fino a un punto da dove si

      poteva spingere lo sguardo in tutte le direzioni e di aver di lì ovunque

      constatato solitudine e silenzio, il console ordinò sùbito ai reparti

      armati alla leggera di entrare in città, dando nel frattempo agli altri

      disposizione di fortificare l'accampamento. Entrati in città e abbattute

      le porte delle abitazioni, i soldati trovarono soltanto pochi vecchi e

      invalidi, insieme con le sole cose che, essendo troppo difficili da

      trasportare, erano state abbandonate. Se ne impossessarono, e dai

      prigionieri vennero a sapere che in molte città dei dintorni era stato

      deciso per volontà comune l'evacuazione dei residenti; che i loro

      concittadini erano partiti nel cuore della notte, e che probabilmente

      avrebbero trovato lo stesso deserto anche in molti altri centri. Si prestò

      fede alle parole dei prigionieri, e il console occupò le città deserte.

      

      35 Per l'altro console, Marco Atilio, la campagna non fu certo altrettanto

      facile. Mentre era alla guida delle legioni sulla strada per Luceria - che

      aveva saputo attaccata dai Sanniti -, gli si parò innanzi il nemico ai

      confini del territorio di Luceria. Fu la rabbia a rendere pari le forze in

      campo: la battaglia si svolse nell'incertezza e a fasi alterne, ma il

      verdetto finale fu più pesante per i Romani, sia perché non erano abituati

      alla sconfitta, sia perché all'atto di allontanarsi dal campo, più ancora

      che nel pieno dello scontro, si accorsero quanto fossero numericamente

      superiori le loro perdite e i loro feriti. Perciò tra i soldati al rientro

      al campo ci fu una tale ondata di sconforto, che se solo li avesse colti

      nel corso della battaglia li avrebbe portati a una pesante sconfitta. La

      notte fu ugualmente carica di tensioni, perché i Romani erano convinti che

      i Sanniti attaccassero di lì a poco l'accampamento, o che altrimenti alle

      prime luci del giorno si dovesse ricominciare a combattere col nemico

      reduce dalla vittoria. Gli avversari avevano subito perdite minori, anche

      se non potevano contare su un morale più alto. Non appena fu giorno,

      volevano andarsene senza combattere, ma c'era una sola strada e passava

      proprio vicino al nemico. Così, essendosi messi in marcia attraverso

      quella via, diedero ai Romani l'impressione di essere diretti ad attaccare

      l'accampamento. Il console diede disposizione agli uomini di armarsi e di

      seguirlo al di là della trincea, e ordinò ai luogotenenti, ai tribuni e ai

      prefetti alleati ciò che ciascuno di essi avrebbe dovuto fare. Tutti si

      dissero pronti a eseguire ogni ordine, ma rilevarono che i soldati erano

      demoralizzati, dopo aver passato una notte insonne tra le ferite e i

      lamenti dei moribondi. Se i nemici si fossero avvicinati all'accampamento

      romano prima del sorgere del sole, la paura sarebbe stata così grande da

      far abbandonare agli uomini i posti di combattimento. Al momento a

      trattenerli dalla fuga era solo la vergogna, ma per il resto erano come

      degli sconfitti.

      Quando il console udì queste parole, decise di andare in giro di persona a

      parlare ai soldati, e appena arrivava presso i vari reparti rimproverava

      sùbito quelli che indugiavano a vestire le armi, e domandava quale fosse

      il motivo di tutti quei tentennamenti e quelle esitazioni. Diceva che i

      nemici sarebbero entrati nell'accampamento, se essi non ne fossero usciti,

      e che si sarebbero trovati a combattere di fronte alle proprie tende, se

      non volevano andare a combattere al di là della trincea: la vittoria -

      ricordava - è sì incerta per chi prende le armi e va a combattere, ma

      quelli che attendono il nemico disarmati e senza difendersi sono destinati

      alla schiavitù o alla morte. Di fronte a queste aspre rampogne, gli uomini

      replicavano di essere stremati per la battaglia del giorno prima, di non

      avere più a disposizione né forze né sangue, e di aver l'impressione che

      il numero dei nemici fosse ancora superiore rispetto alla giornata

      precedente. Nel frattempo l'esercito nemico si stava avvicinando, e quando

      lo si poté distinguere per il diminuire della distanza, gli uomini

      cominciarono a dire che i Sanniti avevano con sé i paletti per la trincea,

      e che avrebbero certamente circondato l'accampamento con una palizzata.

      Allora il console gridò che era indegno accettare una simile vergognosa

      umiliazione da un nemico vile più di ogni altro, e aggiunse: «Dunque ci

      lasceremo assediare anche all'interno dell'accampamento, e moriremo di

      fame con ignominia, piuttosto che valorosamente - se sarà necessario - a

      colpi di spada?». Ciascuno si regolasse nel modo che gli sembrava più

      degno di sé (e che gli dèi lo aiutassero): il console Marco Atilio, se

      nessun altro lo voleva seguire, avrebbe marciato contro il nemico anche da

      solo cadendo in mezzo alle insegne dei Sanniti, piuttosto che vedere

      l'accampamento romano circondato da una palizzata. I luogotenenti, i

      tribuni, tutti gli squadroni di cavalleria e i centurioni dei reparti

      scelti salutarono con un applauso le parole del console.

      Allora i soldati, toccati nell'onore, si armarono contro voglia, uscirono

      contro voglia dal campo schierati in una fila lunga e rarefatta, e con

      l'aria di chi era già battuto marciarono contro il nemico che non aveva

      certo né il morale più alto né maggiori speranze di vittoria. E così, non

      appena i Sanniti videro le insegne romane, dalle prime file alle ultime

      cominciò sùbito a correre voce che i Romani - come essi temevano - stavano

      uscendo dall'accampamento per impedire loro il passaggio. Quindi non c'era

      più alcuno sbocco aperto nemmeno per la fuga, ed era inevitabile cadere lì

      o uscire vivi passando sui corpi dei nemici stesi a terra.

      

      36 Accatastati i bagagli nel mezzo, si armarono e si disposero in ordine

      di battaglia nei rispettivi reparti. Lo spazio tra i due eserciti era

      ormai molto ridotto, ed entrambi erano fermi nell'attesa che i nemici

      levassero il grido di battaglia e si lanciassero all'assalto. Ma da una

      parte e dall'altra non c'era alcuna inclinazione allo scontro, e si

      sarebbero allontanati in direzioni opposte intatti e illesi, se solo non

      avessero temuto che il nemico si avventasse su quanti si stavano

      ritirando. Fra quei soldati poco ispirati e incerti la battaglia iniziò

      meccanicamente e in sordina, con un grido né unanime né convinto, e con

      nessuno che si muovesse dal proprio posto.

      Allora il console romano, per suscitare le energie, spedì fuori dalle file

      alcuni squadroni di cavalleria. Ma poiché buona parte di essi vennero

      sbalzati da cavallo e altri gettati nello scompiglio, dallo schieramento

      sannita ci fu chi accorse per finire i cavalieri caduti, e dalla parte

      romana intervennero in aiuto dei compagni. La battaglia prese allora

      vigore. Ma i Sanniti erano accorsi più numerosi e con maggiore

      determinazione, e i cavalieri romani trascinati dai cavalli imbizzarriti

      calpestavano quegli stessi compagni arrivati in loro soccorso. Da quel

      momento cominciò la fuga, che coinvolse l'intero schieramento romano. E i

      Sanniti stavano già attaccando alle spalle i fuggitivi, quando il console

      andò a cavallo di fronte alla porta dell'accampamento, vi lasciò una

      guarnigione di cavalieri cui diede il cómpito di trattare da nemici

      chiunque - romano o sannita - si fosse avvicinato alla trincea, e quindi

      andò anch'egli a sbarrare la strada ai suoi uomini che stavano cercando di

      raggiungere disordinatamente l'accampamento, rivolgendo loro parole

      minacciose: «Dove andate, soldati? Anche lì vi troverete di fronte armi e

      uomini, e finché il vostro console sarà vivo, non entrerete

      nell'accampamento se non da vincitori: scegliete se preferite scontrarvi

      con dei concittadini o con dei nemici».

      Mentre il console pronunciava queste parole, i cavalieri circondarono i

      fanti brandendo le lance, e ingiunsero loro di tornare a combattere. A

      venire in aiuto non fu solo il valore del console, ma anche il destino,

      perché i nemici non affondarono l'inseguimento, e ci fu così il tempo per

      voltare le insegne e per rivolgere il fronte dall'accampamento al nemico.

      I Romani si misero allora a incitarsi l'uno con l'altro e a rigettarsi

      nella mischia: i centurioni strappavano le insegne agli alfieri e le

      portavano avanti, gridando ai compagni che i nemici erano pochi e venivano

      allo sbaraglio con i reparti allo sbando. Nel frattempo il console,

      levando le mani al cielo e alzando la voce in modo che tutti lo potessero

      sentire, promise in voto un tempio a Giove Statore, se l'esercito romano

      avesse smesso di fuggire e si fosse lanciato nella mischia travolgendo le

      legioni sannite. In ogni parte dello schieramento tutti fecero quanto era

      nelle loro possibilità per riequilibrare le sorti della battaglia -

      comandanti, soldati semplici, fanti e cavalieri. Si ebbe l'impressione che

      a fianco dei Romani intervenisse anche una volontà divina, tanto

      facilmente venne capovolta la situazione: i nemici furono allontanati

      dall'accampamento e immediatamente risospinti verso il punto in cui la

      battaglia era iniziata. Lì furono costretti a fermarsi perché la strada

      era sbarrata dai bagagli accatastati nel mezzo: allora, per impedire che i

      Romani vi mettessero mano, formarono un cerchio di uomini armati intorno

      ai bagagli stessi. Ma davanti erano pressati dalla fanteria, e alle spalle

      avevano i cavalieri. Così, presi nel mezzo, furono uccisi o fatti

      prigionieri. I prigionieri ammontarono a 7.800, che vennero spogliati dal

      primo all'ultimo e fatti passare sotto il giogo. I caduti toccarono il

      numero di 4.800. Ma anche per i Romani quella vittoria non fu una festa:

      quando infatti il console fece contare i soldati che mancavano all'appello

      dopo quei due giorni di scontri, gli venne riferito che le perdite

      raggiungevano le 7.800 unità.

      Mentre in Apulia si verificavano questi eventi, l'altro esercito dei

      Sanniti tentò di conquistare Interamna, una colonia romana situata sulla

      via Latina, ma non riuscì nell'impresa. Allora il nemico mise a ferro e

      fuoco le campagne. Mentre però i Sanniti stavano trascinando via gli

      uomini - tra i quali c'erano dei coloni fatti prigionieri - e le bestie

      rastrellate, si imbatterono nel console che tornava vincitore da Luceria,

      e non si limitarono a perdere il bottino, ma finirono per essere

      massacrati perché procedevano in una formazione lunga e sfilacciata. Il

      console fece proclamare un bando col quale venivano convocati a Interamna

      i legittimi proprietari per riconoscere e riprendersi le rispettive cose,

      e lasciando lì l'esercito si spostò a Roma per presiedere le elezioni.

      Richiese il trionfo ma non gli fu accordato, perché aveva perduto tutte

      quelle migliaia di uomini, e perché aveva fatto passare i prigionieri

      sotto il giogo, senza però porre delle condizioni.

      

      37 Postumio, l'altro console, visto che nel Sannio non aveva più materia

      di guerra, guidò il suo esercito in Etruria, e in un primo tempo mise a

      ferro e fuoco il territorio dei Volsinii. Poi, a breve distanza dalle

      mura, si scontrò coi nemici usciti in campo aperto per difendere le

      proprie terre. Vennero uccisi 2.800 Etruschi; gli altri scamparono grazie

      alle città che si trovavano nei dintorni. L'esercito venne poi portato nel

      territorio di Ruselle, e lì non ci si limitò a saccheggiare le campagne,

      ma venne anche espugnata la città. Più di 2.000 uomini vennero fatti

      prigionieri, mentre di poco inferiori per numero furono quelli uccisi

      lungo le mura. Ciò non ostante la pace ottenuta in Etruria fu maggiore

      motivo di gloria e più determinante rispetto alla guerra portata

      quell'anno: tre città potentissime, tra le più in vista dell'Etruria -

      ossia Volsinii, Perugia e Arezzo -, chiesero la pace, e dopo essersi

      accordate col console nel garantire vestiti e viveri all'esercito purché

      fosse loro concesso di inviare ambasciatori a Roma, ottenero una tregua

      quarantennale. A ciascuna venne comminata un'ammenda di 500.000 assi, da

      pagare in contanti.

      Poiché il console, più per abitudine che per speranza di ottenerlo, aveva

      chiesto al senato il trionfo per questi successi, vedendo che alcuni erano

      propensi a non concederglielo perché aveva impiegato troppo tempo a uscire

      dalla città, mentre altri si opponevano perché si era trasferito dal

      Sannio in Etruria senza la relativa autorizzazione del senato - e si

      trattava o di suoi nemici o di amici del collega decisi a consolarlo con

      un identico rifiuto -, disse: «Io non sarò, o senatori, tanto rispettoso

      della vostra autorità, da scordarmi della mia carica di console. In virtù

      della stessa autorità con la quale ho condotto le guerre, portandole a

      termine con esito positivo, dopo aver sottomesso il Sannio e l'Etruria, e

      aver ottenuto la vittoria e la pace, celebrerò il trionfo». E dopo aver

      pronunciato queste parole, abbandonò il senato. Ne nacque una controversia

      tra i tribuni della plebe: alcuni sostenevano che avrebbero posto il veto,

      per evitare che quel suo trionfo venisse a costituire un pericoloso

      precedente, mentre altri dichiararono che avrebbero fatto ricorso al

      diritto di intercessione in favore del trionfatore contro i loro colleghi.

      La questione venne sottoposta al giudizio del popolo e fu chiamato il

      console: questi, dopo aver ricordato che i consoli Marco Orazio e Lucio

      Valerio, e poco tempo prima Gaio Marcio Rutulo, padre del censore in

      carica, avevano trionfato per volere del popolo e non per decreto del

      senato, dichiarò che anche lui avrebbe presentato la cosa al giudizio del

      popolo, se solo non avesse saputo che certi tribuni della plebe al

      servizio degli ottimati si sarebbero opposti alla proposta. Per lui, in

      quel preciso momento e per i giorni a venire, la volontà e il favore del

      consenso popolare avrebbero contato più di qualunque decreto. Il giorno

      successivo, con il sostegno di tre tribuni della plebe contro il veto di

      sette e la volontà del senato, il console celebrò il proprio trionfo con

      un grande concorso di popolo.

      Anche sulle vicende di quell'anno la tradizione storica non è concorde.

      Claudio sostiene che Postumio, conquistate alcune città del Sannio, venne

      poi sconfitto e sbaragliato in Apulia, e costretto a rifugiarsi ferito e

      con pochi uomini a Luceria. A condurre la campagna in Etruria sarebbe

      stato Atilio che avrebbe riportato il trionfo. Fabio scrive invece che

      entrambi i consoli combatterono nel Sannio e presso Luceria, e che

      l'esercito venne poi portato in Etruria, senza però specificare da quale

      dei due consoli; che presso Luceria le perdite furono gravi da entrambe le

      parti, e che il tempio a Giove Statore venne promesso in voto durante

      quella battaglia. Il tempio l'aveva promesso già Romolo in passato, ma

      fino a quel momento era stato consacrato solo lo spazio sui cui doveva

      sorgere il sacrario: quell'anno finalmente il senato, già vincolato per la

      seconda volta dallo stesso voto e preso come fu da uno scrupolo di natura

      religiosa, decretò che il tempio venisse effettivamente edificato.

      

      38 L'anno che seguì ebbe un console, Lucio Papirio Cursore, famoso sia per

      la gloria conquistata dal padre sia per quella personale, nonché una

      grossa guerra e una vittoria sui Sanniti quale nessuno fino a quei giorni

      - salvo Lucio Papirio, padre appunto del console - aveva mai riportato. E

      il caso volle che i nemici preparassero la guerra con lo stesso sforzo e

      lo stesso spiegamento di mezzi, arricchendo le truppe di armi più sfarzose

      e ricche che mai. E avevano cercato anche il sostegno degli dèi,

      iniziando, per così dire, i soldati con un antico rito sacramentale: in

      tutto il Sannio venne bandita la leva militare con una legge inusitata, in

      virtù della quale qualunque giovane in età non si fosse presentato alla

      chiamata dei comandanti o avesse lasciato il paese senza autorizzazione

      sarebbe stato maledetto e consacrato a Giove. La convocazione per tutti

      gli effettivi venne fissata ad Aquilonia, dove convennero circa 40.000

      soldati, che rappresentavano il meglio di tutte le forze sannite.

      Lì, al centro dell'accampamento, venne tracciato un recinto delimitato da

      picchetti e assicelle e ricoperto con una tela di lino, che misurava circa

      duecento piedi tanto in lunghezza quanto in larghezza. All'interno del

      recinto celebrò i sacrifici attenendosi alle indicazioni di un antico

      libro rilegato in lino il sacerdote Ovio Paccio, un uomo molto avanti con

      gli anni, che sosteneva di aver desunto quel rito da un'antica usanza

      sannita, praticata un tempo dagli antenati quando avevano concepito il

      progetto di strappare Capua agli Etruschi. Concluso il sacrificio, il

      comandante in capo ordinò a un banditore di convocare gli uomini più in

      vista per ascendenti e valore, facendoli venire uno per volta. L'intero

      apparato della cerimonia era allestito in modo da suscitare negli animi

      timore religioso: contribuivano a questo effetto soprattutto gli altari al

      centro del recinto integralmente coperto, le vittime sgozzate intorno agli

      altari e i centurioni in cerchio con le spade in pugno. I convocati

      venivano fatti avvicinare agli altari, più come vittima che come effettivo

      partecipante al sacrificio, e dovevano giurare di non rivelare quanto

      avevano visto o sentito in quel punto. Mediante una formula intimidatoria

      venivano costretti a giurare che sarebbero state maledette le loro

      persone, la famiglia e la stirpe, qualora non fossero scesi in campo là

      dove i comandanti li guidavano, o avessero abbandonato il campo di

      battaglia, o ancora vedendo qualcuno darsi alla fuga non lo avessero

      ucciso su due piedi. All'inizio alcuni che non accettavano di prestare

      questo giuramento vennero passati per le armi davanti agli altari, e i

      loro cadaveri distesi tra le vittime servirono poi da monito agli altri

      affinché non si tirassero indietro. Quando poi i nobili sanniti si furono

      vincolati con questo giuramento, il comandante fece i nomi di dieci di

      loro e ordinò che ciascuno di essi scegliesse un altro uomo, e questi un

      altro ancora fino a raggiungere la cifra di 16.000. Quella legione, dalla

      copertura del recinto all'interno del quale la nobiltà aveva consacrato se

      stessa, venne chiamata linteata. A quanti ne facevano parte vennero

      consegnate armi sfavillanti ed elmi crestati, in modo da distinguerli in

      mezzo a tutti gli altri. Il resto dell'esercito ammontava a poco più di

      20.000 uomini che, quanto a forza fisica, valore militare e armamento, non

      erano inferiori alla legione linteata. Tutti questi effettivi, il meglio

      delle forze del Sannio, si accamparono nei pressi di Aquilonia.

      

      39 I consoli partirono da Roma: il primo fu Spurio Carvilio, cui erano

      state assegnate le vecchie legioni, lasciate l'anno prima dal console

      Marco Atilio nella zona di Interamna. Marciando alla volta del Sannio alla

      testa di queste legioni, mentre i nemici tenevano riunioni segrete

      impegnati nelle loro pratiche di iniziazione, conquistò con la forza la

      città di Amiterno togliendola ai Sanniti. In quel luogo caddero 2.800

      uomini, i prigionieri furono 4.270. Arruolato un nuovo esercito come era

      stato stabilito, Papirio espugnò la città di Duronia. Catturò meno uomini

      del collega, uccidendone però un numero più alto. In entrambe le zone

      venne conquistato un ricco bottino. I due consoli poi, dopo aver

      effettuato scorrerie ad ampio raggio nel Sannio, e devastato in particolar

      modo la zona di Atina, arrivarono Carvilio a Cominio, e Papirio ad

      Aquilonia, dove si era concentrato il grosso delle truppe sannite. Lì, per

      alcuni giorni, le due parti, pur senza astenersi del tutto da azioni

      militari, non arrivarono mai però a uno scontro vero e proprio:

      provocavano il nemico se era inattivo, tornavano sui propri passi se

      opponeva resistenza, e ingannavano il tempo rendendosi minacciosi più che

      attaccando battaglia. Qualunque fosse l'operazione intrapresa o sospesa,

      ogni decisione in merito, anche la più insignificante, veniva rinviata da

      un giorno all'altro. L'altro esercito romano, che si trovava a venti

      miglia di distanza, e il collega lontano partecipavano col pensiero alla

      gestione di tutte le operazioni, e Carvilio era più concentrato su

      Aquilonia di quanto non lo fosse Cominio che la stava assediando.

      Lucio Papirio, preparata ormai ogni cosa per il combattimento, inviò un

      messaggero al collega per dirgli che era sua intenzione, se gli auspici

      fossero stati favorevoli, di attaccare battaglia il giorno successivo: era

      necessario che anche Carvilio attaccasse Cominio con la maggior forza

      d'urto possibile, perché i Sanniti non avessero più modo di inviare dei

      rinforzi ad Aquilonia. Il messaggero ebbe un giorno di tempo per compiere

      il tragitto: ritornò nella notte riferendo che il collega approvava il

      piano. Inviato il messaggero, Papirio aveva sùbito convocato un'assemblea,

      durante la quale tenne un lungo discorso sull'arte di gestire le guerre in

      generale, e in particolare sulle attrezzature che al presente i nemici

      potevano vantare, e che risultavano più belle a vedersi di quanto non

      fossero efficaci all'atto pratico: infatti non erano certo i cimieri a

      procurare le ferite e il giavellotto romano era in grado di trapassare

      anche gli scudi colorati e carichi d'oro, e quell'esercito sfavillante per

      il candore delle tuniche si sarebbe sporcato di sangue, quando fossero

      entrate in azione le spade. In passato suo padre aveva fatto a pezzi un

      altro esercito sannita tutto oro e argento, e quelle spoglie aveva

      garantito maggiore rinomanza al nemico vittorioso che ai Sanniti stessi.

      Forse era destino che la sua gens e il suo nome si opponessero agli sforzi

      maggiori dei Sanniti, e riportassero quelle spoglie che rappresentavano

      uno straordinario ornamento anche per i luoghi pubblici. Gli dèi immortali

      erano dalla parte dei Romani, dopo che i patti tante volte richiesti erano

      stati altrettante volte violati. E se era mai possibile penetrare nei

      disegni della mente divina, gli dèi non erano mai stati tanto avversi a

      nessun esercito quanto a quello che, dopo essersi macchiato con un rito

      sacrilego in cui il sangue umano era stato mescolato a quello delle

      bestie, avviato a una duplice ira divina, temendo da una parte l'ira degli

      dèi testimoni dei patti conclusi coi Romani, e dall'altra le maledizioni

      legate al giuramento pronunciato, aveva giurato contro la propria volontà,

      odiava il giuramento, ed era intimorito contemporaneamente dagli dèi, dai

      concittadini e dai nemici.

      

      40 Esposte queste cose - di cui era venuto a conoscenza tramite le

      rivelazioni dei disertori - di fronte a uomini già infiammati dal

      risentimento, questi ultimi, pieni di speranze sia negli dèi sia negli

      uomini, chiesero all'unisono battaglia, rammaricandosi che lo scontro

      fosse rinviato al giorno successivo e trovando intollerabile il ritardo di

      un giorno e di una notte. Passata la mezzanotte, quando gli venne riferita

      la risposta del collega, Papirio si alzò in silenzio e ordinò all'aruspice

      addetto ai polli di trarre gli auspici. Nel campo non c'era un solo uomo

      che non ardesse dal desiderio di combattere, e dai gradi più alti a quelli

      più subalterni tutti avevano dentro la stessa fiamma: il comandante

      guardava alla determinazione dei soldati, i soldati a quella del

      comandante. Questo diffuso spirito venne trasmesso anche a quanti stavano

      passando in rassegna gli auspici: infatti, anche se i polli non stavano

      affatto mangiando, l'aruspice giunse a falsare l'auspicio e annunciò al

      console un pasto quanto mai favorevole. Felicissimo il console riferì ai

      suoi che gli auspici erano eccellenti e che avrebbero combattuto col

      favore degli dèi; diede così il segnale di battaglia. Mentre stava già per

      uscire dall'accampamento, un disertore riferì che venti coorti sannite di

      circa 400 uomini l'una erano partite alla volta di Cominio. Il console

      inviò sùbito un messaggio al collega per informarlo della cosa; ordinò poi

      di accelerare le operazioni. Distribuì i riservisti nelle posizioni più

      adatte e assegnò loro i rispettivi ufficiali. A capo dell'ala destra

      piazzò Lucio Volumnio, alla sinistra Lucio Scipione, affidando la

      cavalleria ad altri luogotenenti, Gaio Cedicio e Tito Trebonio. A Spurio

      Nauzio diede disposizione di far togliere i basti ai muli e di portarli in

      fretta, insieme ad alcune coorti di ausiliarii, su un'altura ben visibile;

      gli ordinò di farsi notare, a combattimento iniziato, alzando un polverone

      quanto più fitto possibile.

      Mentre il comandante sbrigava queste disposizioni operative, tra gli

      aruspici sorse una controversia circa gli auspici tratti quel giorno, e la

      lite arrivò alle orecchie di alcuni cavalieri romani che, pensando non

      fosse una questione priva di rilievo, ne riferirono a Spurio Papirio,

      figlio del fratello del console, dicendogli che erano sorte contestazioni

      sugli auspici. Quel giovane, nato prima della dottrina che insegna a

      disprezzare gli dèi, si informò sui fatti, per evitare di riferire solo

      dicerie prive di fondamento, poi riportò la cosa al console. Questi gli

      rispose così: «Onore alla tua virtù e al tuo zelo. Però, se quanti

      traggono gli auspici dànno falsi annunci, essi attirano su di sé la

      maledizione divina. A me è stato annunciato un pasto consumato con grande

      voracità, ciò che rappresenta un ottimo auspicio per l'esercito e il

      popolo romano». Ordinò così ai centurioni di schierare gli aruspici nelle

      prime file. Anche i Sanniti fecero avanzare le loro insegne, seguite dagli

      uomini con le loro armature splendenti, uno spettacolo straordinario anche

      per i nemici. Prima dell'urlo di guerra e dell'inizio delle ostilità,

      l'aruspice addetto ai polli, colpito da un giavellotto lanciato a caso,

      cadde nelle prime file. Quando la cosa venne riferita al console, questi

      commentò così: «Gli dèi sono presenti sul campo di battaglia: il colpevole

      è stato punito». Mentre il console pronunciava queste parole, un corvò

      gracchiò ad alta voce lì davanti a lui. Felice per questo segno

      beneagurante, il console ordinò di suonare il segnale di attacco e di

      alzare il grido di guerra, affermando che mai in passato gli dèi erano

      intervenuti con maggior tempestività nelle vicende umane.

      

      41 La battaglia venne combattuta con estremo accanimento, anche se lo

      spirito con cui i contendenti la affrontarono era di gran lunga

      differente: a trascinare in battaglia i Romani, assetati di sangue nemico,

      erano la rabbia, la speranza e la determinazione; buona parte dei Sanniti,

      costretti dalla necessità e dalle fobie religiose più a resistere che ad

      attaccare, combatteva invece contro voglia. E certo non avrebbero retto al

      primo grido di guerra e al primo assalto dei Romani - abituati com'erano

      alla sconfitta da ormai molti anni -, se a trattenerli dalla fuga non

      fosse stata un'altra più forte paura, relegata nel loro intimo. Avevano

      infatti ancora davanti agli occhi tutto l'apparato di quel rito segreto -

      i sacerdoti armati, cadaveri di uomini e bestie ammassati alla rinfusa,

      gli altari lordi di sangue pio ed empio, la terribile professione di fede

      e l'invocazione delle furie, a maledire la stirpe e la famiglia. Erano

      questi gli ostacoli che impedivano la fuga ai Sanniti, intimoriti più

      dalla loro gente che dai nemici. La pressione dei Romani si esercitava sia

      sulle due ali sia sul centro, portandoli a seminare la strage tra i nemici

      attoniti per il timore degli dèi e degli uomini. Resistevano senza troppa

      convinzione, come uomini cui soltanto la codardia impedisca di darsi alla

      fuga.

      Il massacro era già arrivato quasi alle insegne, quando da un lato si alzò

      un gran polverone, come di solito succede per il passaggio di un esercito

      in marcia. Era Spurio Nauzio (anche se alcuni autori sostengono si

      trattasse di Ottavio Mecio), a capo delle coorti ausiliarie. Il polverone

      che sollevavano era molto più consistente di quanto non comportasse il

      loro numero, perché gli uomini in groppa ai muli trascinavano rami

      frondosi. Davanti, attraverso l'aria resa torbida dal polverone, si

      scorgevano le insegne e le armi: poco più dietro il pulviscolo più spesso

      e denso faceva pensare che a chiudere la marcia fosse la cavalleria, e il

      trucco non ingannò soltanto i Sanniti ma anche i Romani. Il console diede

      consistenza all'errata interpretazione, gridando ad alta voce nelle prime

      file - in modo che le sue parole arrivassero anche ai Sanniti - che

      Cominio era stata presa, e che il collega reduce dalla vittoria si stava

      avvicinando: quindi si impegnassero a fondo per la vittoria prima che il

      merito toccasse interamente all'altro esercito. Gridò queste parole dritto

      sul cavallo, poi diede ordine ai tribuni e ai centurioni di aprire il

      passaggio per la cavalleria (in precedenza aveva già avvisato Trebonio e

      Cedicio che, non appena lo avessero visto vibrare l'asta in alto,

      lanciassero i cavalieri a caricare il nemico con la maggiore violenza

      possibile). Al segnale convenuto tutto si svolse come era stato

      concertato: tra le file della fanteria venne lasciato libero il passaggio,

      i cavalieri si lanciarono avanti e caricarono lancia in resta le schiere

      nemiche, sfondandone i ranghi dovunque irrompevano. Volumnio e Scipione

      incalzavano seminando la morte tra i nemici in ritirata.

      Fu allora che, non potendo più nulla la minaccia degli dèi e degli uomini,

      le coorti linteate vennero travolte, senza distinzione tra quanti avevano

      prestato giuramento o meno, non temendo più nient'altro se non il nemico.

      I fanti scampati alla battaglia ripararono nell'accampamento o ad

      Aquilonia, mentre i nobili e i cavalieri fuggirono a Boviano. I cavalieri

      romani inseguirono la cavalleria, i fanti la fanteria. Le due ali si

      mossero in direzioni differenti: la destra verso l'accampamento sannita,

      la sinistra verso la città. Volumnio prese l'accampamento molto prima,

      mentre dalle parti della città Scipione incontrò maggiore resistenza, non

      certo perché gli sconfitti avessero più coraggio, quanto perché una cinta

      muraria è certo più indicata di una trincea a respingere un assalto

      armato. E gli assediati, scagliando pietre dalle mura, tenevano lontani i

      nemici. Scipione, convinto che se non si fosse giunti a una soluzione

      rapida - prima che gli animi si riprendesso dalla sorpresa -, l'assedio di

      quella città fortificata sarebbe andato troppo per le lunghe, chiese ai

      soldati se accettavano di buon grado di essere ricacciati dalle porte

      della città, pur avendo vinto la battaglia, mentre l'altra ala si era

      impossessata dell'accampamento. Tutti protestarono a gran voce; allora

      Scipione, sollevato lo scudo sopra la testa, si avviò per primo verso la

      porta. Gli altri si inquadrarono a testuggine e irruppero in città.

      Cacciarono i Sanniti occupando la cinta nei pressi della porta, senza però

      avere il coraggio di addentrarsi ulteriormente, visto il numero esiguo

      della loro formazione.

      

      42 Il console in un primo tempo non era al corrente di questi avvenimenti

      ed era impegnato a chiamare a raccolta gli uomini, perché il sole stava

      ormai per tramontare e l'imminente oscurità rendeva tutto insidioso e

      pieno di pericoli, anche per il vincitore. Spintosi un po' più avanti,

      vide sulla sua destra che l'accampamemnto nemico era stato occupato,

      mentre dalla sinistra sentì arrivare dalla città un boato misto di urla di

      battaglia e grida di terrore. Proprio in quel momento infuriava la

      battaglia presso la porta. Avvicinatosi in sella al cavallo, non appena

      vide i suoi uomini sulle mura e si rese conto di non avere più la

      situazione sotto controllo, perché l'imprudenza di pochi gli offriva il

      destro per portare a termine una grande impresa, diede ordine di

      richiamare le truppe già raccolte, e ingiunse loro di avanzare verso la

      città. Entrati dalla parte più vicina, vi si fermarono perché stava

      calando la notte. Nel corso della notte i nemici si ritirarono.

      In quella giornata furono uccisi, nella zona di Aquilonia, 20.340 Sanniti,

      3.870 furono fatti prigionieri e vennero catturate novantasette insegne

      militari. Stando a quanto è stato tramandato, pare che non si fosse mai

      visto un comandante tanto allegro nel corso di una battaglia, sia per la

      sua naturale disposizione di carattere, sia per la fiducia che aveva nel

      successo dell'impresa.

      In virtù di questa determinazione, non riuscì a trattenerlo dall'attaccare

      battaglia nemmeno l'auspicio controverso, e proprio nel pieno dello

      scontro, quando di solito si promettono in voto i templi agli dèi, egli

      promise a Giove Vincitore che in caso di vittoria sull'esercito nemico gli

      avrebbe offerto un bicchierino di vino al miele, dopo un'abbondante

      libagione personale di vino puro. La promessa andò a genio agli dèi, che

      rivolsero in bene gli auspici.

      

      43 La stessa fortuna ebbe l'altro console nelle operazioni intorno a

      Cominio. Alle prime luci del giorno, avvicinate le truppe alle mura,

      circondò l'intero perimetro della città e fece rinforzare le guarnigioni

      intorno alle porte, per evitare ogni genere di sortita. Stava già per dare

      il segnale di battaglia, quando arrivò trafelato il messaggero inviatogli

      dal collega con l'annuncio che le venti coorti nemiche si stavano

      avvicinando. La notizia lo trattenne dal lanciarsi all'assalto,

      costringendolo a richiamare parte delle truppe già schierate e pronte ad

      attaccare la città. Al luogotenente Decimo Bruto Scevola diede ordine di

      scagliarsi contro i rinforzi nemici con la prima legione, dieci coorti e

      la cavalleria: doveva bloccarli e trattenerli dovunque vi si fosse

      imbattuto, arrivando a scendere in battaglia se le circostanze lo

      richiedevano, in maniera tale che quelle forze non raggiungessero Cominio.

      Personalmente fece quindi accostare le scale alle mura in ogni settore

      della città, avvicinandosi alle porte dopo aver inquadrato i suoi in

      formazione a testuggine: nello stesso istante vennero abbattute le porte e

      scalate le mura. I Sanniti, se prima di vedere sulle mura dei soldati con

      le armi in pugno mantennero il coraggio necessario per fronteggiare i

      Romani, ora che lo scontro non avveniva più a distanza né con armi da

      lancio, ma corpo a corpo, e i Romani, saliti a fatica sulle mura, una

      volta superato lo svantaggio naturale della posizione (era questo che

      temevano di più), combattevano in scioltezza e a parità di condizioni con

      un nemico inferiore, abbandonarono le torri e le mura, e si andarono ad

      ammassare tutti nel foro, dove per qualche tempo diedero vita a un estremo

      tentativo di risollevare le sorti della battaglia. Alla fine deposero però

      le armi, arrendendosi senza condizioni al console in numero di circa

      11.400. I caduti erano stati invece circa 4.880.

      Fu questo l'andamento delle operazioni a Cominio e ad Aquilonia. Nella

      zona tra le due città, dove si prevedeva ci sarebbe stata una terza

      battaglia, non ci si imbatté nei nemici: richiamati indietro dai compagni

      quando erano a sette miglia da Cominio, non parteciparono a nessuna delle

      due battaglie. Stava quasi per calare la notte, e mentre vedevano già sia

      l'accampamento sia Aquilonia, il frastuono che giungeva da entrambe le

      parti li fece fermare. Poi la vista delle fiamme, segnale inequivocabile

      della disfatta, che si levavano per largo tratto dall'accampamento

      incendiato dai Romani, li trattenne dall'avanzare ulteriormente. Dopo

      essersi stesi disordinatamente a terra là dove si trovavano, con le armi

      indosso, trascorsero nell'angoscia l'intera nottata, attendendo

      terrorizzati la luce del giorno. All'alba, quando non sapevano da che

      parte dirigersi, avvistati dai cavalieri, che sulle tracce dei Sanniti

      usciti nottettempo dalla città avevano individuato una massa di uomini

      sprovvista di protezioni difensive e di guarnigioni armate, si diedero

      immediatamente alla fuga. Quel gruppo di soldati era stato avvistato anche

      dalle mura di Aquilonia, nonché da reparti di fanteria messisi sulle loro

      tracce. I fanti non riuscirono però a raggiungere i fuggiaschi, mentre i

      cavalieri eliminarono circa 280 uomini della retroguardia. Nel panico i

      nemici abbandonarono molte delle armi e diciotto insegne militari. Il

      resto della schiera arrivò sano e salvo a Boviano, per quanto fu possibile

      in tutta quella confusione.

      

      44 La gioia di ciascuno dei due eserciti romani aumentò per il successo

      ottenuto dall'altro. Dopo essersi consultati tra loro, i consoli permisero

      che le due città fossero saccheggiate dai soldati, facendovi appiccare il

      fuoco una volta svuotate da cima a fondo. Aquilonia e Cominio vennero

      distrutte dalle fiamme lo stesso giorno, e i consoli unirono i due

      accampamenti, tra l'entusiasmo e le reciproche felicitazioni delle legioni

      e dei comandanti stessi. Di fronte ai due eserciti Carvilio coprì di elogi

      i suoi uomini per i meriti dei singoli, mentre Papirio, sotto il cui

      comando si era combattuto in più punti diversi - sul campo di battaglia,

      nei pressi dell'accampamento nemico e in città -, diede in premio dei

      braccialetti e delle corone d'oro a Spurio Nauzio, il nipote di Spurio

      Papirio, a quattro centurioni e a un manipolo di hastati: a Nauzio per

      l'azione con cui aveva seminato il panico tra i nemici dando l'impressione

      che ci fosse un grosso esercito in marcia; al giovane Papirio per quanto

      aveva fatto con la cavalleria sia durante la battaglia sia nel corso della

      notte, disturbando la fuga dei Sanniti usciti da Aquilonia di nascosto; ai

      centurioni e ai soldati perché avevano occupato per primi la porta e le

      mura di Aquilonia. A tutti i cavalieri, per l'opera valorosa prestata in

      diversi punti del fronte, venne consegnato un distintivo onorifico da

      mettere sull'elmo e un braccialetto d'argento.

      Ci fu poi una riunione per decidere se fosse già arrivato il momento di

      ritirare i due eserciti, o almeno uno di essi, dal Sannio. La cosa

      migliore sembrò però quella di insistere portando fino in fondo ciò che

      restava delle operazioni militari con tanto più ostinata determinazione

      quanto maggiore era l'indebolimento della potenza sannita, in modo tale

      che ai consoli dell'anno a venire si potesse consegnare il Sannio

      interamente domato. Poiché non c'era più un esercito nemico apparentemente

      in grado di poter affrontare una battaglia in campo aperto, l'unica forma

      di guerra che restava era l'espugnazione delle città, la cui distruzione

      poteva garantire ai soldati un arricchimento, e l'annientamento definitivo

      del nemico che lottava ormai soltanto per sopravvivere. Così, inviato al

      senato e al popolo romano un rapporto dettagliato sulle operazioni portate

      a termine, i consoli guidarono le legioni in diverse direzioni: Papirio si

      rivolse verso Sepino, mentre Carvilio puntò su Velia.

      

      45 La lettura del rapporto trasmesso dai consoli fu motivo di grande

      entusiasmo in senato e nell'assemblea del popolo, e l'esultanza generale

      venne resa solenne da quattro giorni di festosi ringraziamenti, che videro

      una grande partecipazione di popolo. Per i cittadini romani questa

      vittoria non fu soltanto di grande prestigio, ma arrivò anche al momento

      più adatto, perché proprio in quel momento giunse la notizia che gli

      Etruschi avevano riaperto le ostilità. Occorreva pensare a come si potesse

      sostenere il peso di una guerra contro l'Etruria se le cose nel Sannio non

      fossero andate per il meglio, visto che l'Etruria, imbaldanzita

      dall'insurrezione generale nel Sannio, vedendo i due consoli e tutte le

      forze impegnate sul fronte sannita, aveva pensato che questa fosse

      un'occasione propizia per riprendere le armi. Gli alleati inviarono

      ambasciatori, che furono introdotti in senato dal pretore Marco Atilio;

      lamentavano che le loro campagne venissero devastate e incendiate dagli

      Etruschi, solo perché essi non avevano voluto staccarsi dai Romani, e per

      questo scongiuravano i senatori di proteggerli dalla tracotanza e dalle

      offese dei nemici comuni. Agli ambasciatori venne risposto che il senato

      avrebbe fatto il possibile perché gli alleati non dovessero pentirsi della

      propria fedeltà: presto agli Etruschi sarebbe toccata la stessa sorte dei

      Sanniti. Eppure la campagna contro gli Etruschi non sarebbe stata condotta

      con la stessa determinazione, se non fosse giunta la notizia che i

      Falisci, da lungo tempo amici dei Romani, avevano unito le proprie forze

      agli Etruschi. La vicinanza di questa popolazione aumentò la

      preoccupazione del senato, che decise di inviare i feziali a chiedere

      soddisfazione dell'accaduto. La richiesta fu respinta, e così su proposta

      del senato, approvata dal popolo, venne dichiarata guerra ai Falisci, e i

      consoli ricevettero disposizione di sorteggiare chi dei due avrebbe dovuto

      trasferirsi dal Sannio in Etruria.

      Carvilio aveva già conquistato le città sannite di Velia, Palombino ed

      Ercolaneo: Velia nel giro di pochi giorni, Palombino lo stesso in cui si

      era presentato sotto le mura. A Ercolaneo dovette invece affrontare una

      battaglia in campo aperto dall'esito incerto, subendo più perdite di

      quelle inflitte ai nemici. Dopo essersi accampato, costrinse il nemico a

      trincerarsi all'interno delle mura, e la città venne conquistata con la

      forza. In questi tre centri vennero catturati o uccisi circa 10.000 uomini

      (il numero dei prigionieri superò di poco quello dei morti). Il sorteggio

      tra i due consoli destinò l'Etruria a Carvilio, com'era nei desideri dei

      soldati, che ormai non reggevano più il rigido freddo del Sannio. Nei

      pressi di Sepino i Sanniti opposero maggiore resistenza a Papirio: a più

      riprese, o in campo aperto, o durante la marcia, o ancora nei pressi della

      città, egli dovette rintuzzare le sortite dei nemici. Più che un assedio

      era una guerra vera e propria, perché i Sanniti non erano protetti dalle

      mura più di quanto le mura non lo fossero dalle armi e dai soldati. Ma

      alla fine, a forza di combattere, il console costrinse i nemici a subire

      un assedio in piena regola, concludendolo con l'espugnazione della città,

      conquistata con il ricorso a macchine da guerra. Presa la città, la

      tensione portò a un massacro ancora più sanguinoso: gli uccisi ammontarono

      a 7.400, mentre i prigionieri furono meno di 3.000. Il bottino raccolto,

      ricchissimo perché i Sanniti avevano concentrato le loro cose in poche

      città, fu lasciato ai soldati.

      

      46 La neve aveva ormai coperto tutto il paese, e fuori dalle abitazioni

      non era possibile resistere al freddo. Per questo il console ritirò le

      truppe dal Sannio. Al suo rientro a Roma il consenso unanime del popolo

      gli fece tributare il trionfo. Lo celebrò mentre era ancora in carica, in

      maniera fastosa per le abitudini dei tempi. I cavalieri e i fanti

      procedevano e cavalcavano con indosso le decorazioni ottenute: si vedevano

      anche molte corone civiche, vallari e murali. Oggetto di grande

      ammirazione erano le spoglie sannite, paragonate per splendore e bellezza

      a quelle riportate dal padre, che avevano un aspetto familiare perché

      ornavano molti luoghi pubblici. Nel corteo dei prigionieri vi erano membri

      dell'aristocrazia sannita, famosi per le imprese compiute da loro o dai

      loro padri. Sfilarono 2.530.000 assi di rame da una libbra - si diceva

      fosse la somma ricavata dalla vendita dei prigionieri di guerra -, e 1830

      libbre d'argento razziate nelle città. Tutto il rame e l'argento vennero

      versati nell'erario, senza che ai soldati venisse concesso alcunché del

      bottino. Questa decisione accrebbe il malcontento della plebe, perché in

      aggiunta venne imposto un tributo per pagare gli stipendi ai soldati, là

      dove, rinunciando al nobile gesto di versare nell'erario il denaro

      ricavato dal bottino di guerra, sarebbe stato possibile concedere ai

      soldati parte della preda e utilizzarne parte per pagare la diaria ai

      militari. Il console inaugurò il tempio di Quirino - anche se in nessun

      autore ho trovato che egli lo avesse promesso in voto durante la guerra,

      né per Ercole avrebbe mai potuto portarne a termine la costruzione in un

      tempo così esiguo - promesso in voto dal padre dittatore, ornandolo con le

      spoglie nemiche, che erano tanto ricche da permettere non solo di decorare

      il tempio e il Foro, ma di essere anche distribuite agli alleati e alle

      colonie circostanti perché le utilizzassero per abbellire templi e luoghi

      pubblici. Dopo il trionfo Papirio portò l'esercito a trascorrere l'inverno

      nella zona di Vescia, infestata dai Sanniti.

      Nel frattempo in Etruria il console Carvilio si preparò a espugnare

      Troilo, e dopo aver concesso a 400 tra i cittadini più ricchi di uscirne

      dietro pagamento di una grossa somma di denaro, ebbe la meglio con la

      forza del resto della popolazione e della città stessa. Espugnò poi cinque

      villaggi fortificati che si trovavano in posizioni ben protette, e vi

      uccise 2.400 nemici, facendo meno di 2.000 prigionieri. Ai Falisci che si

      presentarono a chiedere la pace egli concesse un anno di tregua, a

      condizione che pagassero 100.000 assi pesanti e le diarie militari di

      quell'anno. Portate a termine queste operazioni, partì per celebrare il

      trionfo, che fu meno fastoso di quello del collega sul versante sannita,

      ma lo eguagliò con le vittorie conquistate in Etruria. Versò nell'erario

      380.000 assi pesanti, e col resto del ricavato dalla vendita del bottino

      diede in appalto la costruzione del tempio della Forte Fortuna, situato

      accanto al santuario di quella stessa dea consacrato dal re Servio Tullio.

      Ai suoi uomini assegnò 102 assi a testa presi dal bottino, mentre per i

      centurioni e i cavalieri la somma fu doppia, e la donazione risultò ancora

      più gradita perché messa a confronto con la grettezza del collega. Il

      favore del console servì a garantire la protezione del popolo al suo

      luogotenente Lucio Postumio che, citato in giudizio dal tribuno Marco

      Scanzio, riuscì a sottrarsi al giudizio del popolo - come dicevano le voci

      - grazie alla sua carica di luogotenente; e così l'accusa nei suoi

      confronti venne soltanto presentata, senza però aver séguito.

      

      47 Alla fine dell'anno erano entrati in carica i nuovi tribuni della

      plebe. Solo che per irregolarità intercorse nella nomina cinque giorni

      dopo vennero sostituiti con altri. Nel corso dell'anno i censori Publio

      Cornelio Arvina e Gaio Marcio Rutilio tennero il censimento: furono

      censiti 262.321 cittadini. I censori erano i ventiseiesimi entrati in

      carica da quando era iniziata la censura, e quello fu il diciannovesimo

      censimento. Lo stesso anno, per la prima volta, gli uomini che avevano

      ricevuto delle decorazioni militari nelle campagne poterono assistere ai

      giochi romani con la corona sul capo, e ugualmente per la prima volta

      venne concessa ai vincitori la palma del trionfo, secondo un'usanza

      introdotta dalla Grecia. Ancora in quell'anno gli stessi edili curuli che

      avevano organizzato i giochi, servendosi del denaro ricavato dalle ammende

      inflitte ad alcuni appaltatori di pascoli, fecero lastricare la strada del

      tempio di Marte fino a Boville.

      Lucio Papirio presiedette le elezioni consolari, e proclamò eletti Quinto

      Fabio Gurgite figlio di Massimo e Decimo Giunio Bruto Sceva. Papirio

      stesso ottenne la nomina a pretore.

      I molti eventi positivi di quell'anno bastarono appena per consolare gli

      animi di un'unica sciagura, un'epidemia che prostrò sia le città sia le

      campagne. E poiché la calamità era il segno di una volontà soprannaturale,

      vennero consultati i libri sibillini, per conoscere quale fossero la fine

      o l'eventuale rimedio concessi dagli dèi a quella sciagura. Dalla

      consultazione emerse che era necessario far venire Esculapio da Epidauro a

      Roma. Ma per quell'anno non si fece nulla, perché i consoli erano

      impegnati nella guerra, e ci si limitò a offrire a Esculapio una giornata

      di suppliche.