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NE IRROGANTO di Mauro Novelli Biblioteca |
Livio, Storia di Roma, Premessa PREFAZIONE Non so se valga davvero la pena
raccontare fin dai primordi l'insieme della storia romana. Se anche lo
sapessi, non oserei dirlo, perché mi rendo conto che si tratta di
un'operazione tanto antica quanto praticata, mentre gli storici moderni o credono di
poter portare qualche contributo più documentato nella narrazione
dei fatti, o di poter superare la rozzezza degli antichi nel campo dello
stile. Comunque vada, sarà pur sempre degno di gratitudine il fatto
che io abbia provveduto, nei limiti delle mie possibilità, a
perpetuare la memoria delle gesta compiute dal più grande popolo della terra. E
se in mezzo a questa pletora di storici il mio nome rimarrà nell'ombra,
troverò di che consolarmi nella nobiltà e nella grandezza di quanti avranno
offuscato la mia fama. E poi si tratta di un'opera sterminata, perché deve
ripercorrere più di settecento anni di storia che, pur prendendo le mosse da
umili origini, è cresciuta a tal punto da sentirsi minacciata dalla sua
stessa mole. Inoltre sono sicuro che la maggior parte dei lettori si
annoierà di fronte all'esposizione delle prime origini e dei fatti
immediatamente successivi, mentre sarà impaziente di arrivare a quegli
avvenimenti più recenti nei quali si esauriscono da sé le forze di un popolo
già da tempo in auge. Io, invece, cercherò di ottenere anche
questa ricompensa al mio lavoro, cioè di distogliere lo sguardo da quegli
spettacoli funesti di cui la nostra età ha continuato a essere testimone per
così tanti anni, finché sarò impegnato, col pieno delle mie forze mentali,
a ripercorrere quelle antiche vicende, libero da ogni forma
di preoccupazione che, pur non potendo distogliere lo storico dal
vero, tuttavia rischierebbe di turbarne la disposizione d'animo. Le leggende precedenti la fondazione di
Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono
più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli
storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa
agli antichi la facoltà di nobilitare l'origine delle città
mescolando l'umano col divino; e se si deve concedere a un popolo di
consacrare le proprie origini e di ricondurle a un intervento degli
dèi, questo vanto militare lo merita il popolo romano perché, riconnettendo a
Marte più che a ogni altro la propria nascita e quella del proprio
capostipite, il genere umano accetta un simile vezzo con lo stesso buon viso
con cui ne sopporta l'autorità. Ma di questi aspetti e di altri della
medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne
terrò affatto conto: ciascuno, questo mi preme, li analizzi con grande
attenzione e si soffermi su che tipo di vita e che abitudini ci siano state, grazie
all'abilità di quali uomini, in pace e in guerra, l'impero sia stato
creato e accresciuto; quindi consideri come, per un progressivo
rilassamento del senso di disciplina, i costumi abbiano in un primo tempo
seguito l'infiacchirsi del pensiero, poi siano decaduti sempre di più, e
in séguito abbiano cominciato a franare a precipizio fino ad arrivare ai giorni
nostri, nei quali tanto il vizio quanto i suoi rimedi sono
intollerabili. Ciò che risulta più di ogni altra cosa utile e fecondo nello studio della
storia è questo: avere sotto gli occhi esempi istruttivi d'ogni tipo
contenuti nelle illustri memorie. Di lì si dovrà trarre quel
che merita di essere imitato per il proprio bene e per quello dello Stato, nonché imparare
a evitare ciò che è infamante tanto come progetto quanto come
risultato. E poi, o mi inganna la passione per il lavoro intrapreso, o non
è mai esistito uno Stato più grande, più puro, più ricco di nobili esempi,
e neppure mai una civiltà nella quale siano penetrate così tardi
l'avidità e la lussuria e dove la povertà e la parsimonia siano state onorate
così tanto e per così tanto tempo. Perciò, meno cose c'erano, meno si desiderava:
solo di recente le ricchezze hanno introdotto l'avidità, e
l'abbondanza di piaceri a portata di mano ha a sua volta fatto conoscere il desiderio di
perdersi e di lasciare che ogni cosa vada in rovina in un trionfo di
sregolata dissolutezza. Ma, all'inizio di un'impresa di queste proporzioni, siano
messe al bando le recriminazioni, destinate a non risultare gradite
nemmeno quando saranno necessarie: se anche noi storici, come i poeti,
avessimo l'abitudine di incominciare con buoni auspici, voti e preghiere rivolte
a tutte le divinità, preferirei un attacco del genere, pregandoli di
concedere grande successo alla mia impresa. Libri 1-2: Dai Re alla
Repubblica LIBRO I 1 Un primo punto che trova quasi tutti
dello stesso avviso è questo: dopo la caduta di Troia, ai superstiti
troiani fu riservato un trattamento molto duro; gli Achei si astennero
dall'applicare rigorosamente il codice militare di guerra solo nei confronti
di due di essi, Enea e Antenore, sia per l'antica legge
dell'ospitalità, sia perché essi erano sempre stati sostenitori della pace e della
restituzione di Elena. Successivamente, per circostanze di varia natura, Antenore e
un nutrito gruppo di Eneti, i quali, costretti ad abbandonare la
Paflagonia a séguito di una sommossa interna ed essendo alla ricerca di un
luogo dove stabilirsi e di qualcuno che li guidasse dopo aver perso a Troia
il loro capo Pilemene, arrivarono nel golfo più profondo del mare
Adriatico, scacciarono gli Euganei che abitavano tra mare e Alpi e, Troiani ed
Eneti, si impossessarono di quelle terre. Il primo punto in cui sbarcarono
lo chiamarono Troia e di lì deriva il nome di Troiano per il villaggio:
l'intero popolo assunse la denominazione di Veneti. Di Enea,
invece, si sa che, esule dalla patria a séguito dello stesso disastro, ma
destinato per volontà del fato a dare il via a eventi di ben altra portata,
arrivò in un primo tempo in Macedonia, quindi fu spinto verso la Sicilia
sempre alla ricerca di una sede definitiva e dalla Sicilia
approdò con la flotta nel territorio di Laurento. Anche a questo luogo viene
dato il nome di Troia. I Troiani sbarcarono in quel punto. Privi
com'erano, dopo il loro interminabile peregrinare, di tutto tranne che di
armi e di navi, si misero a fare razzie nelle campagne e per questo
motivo il re Latino e gli Aborigeni che allora regnavano su quelle terre
accorsero armati dalle città e dai campi per respingere l'attacco degli
stranieri. Del fatto si tramandano due versioni. Alcuni sostengono che Latino,
vinto in battaglia, fece pace con Enea e strinse con lui legami di
parentela. Altri, invece, raccontano che, una volta schieratisi gli eserciti in
ordine di battaglia, prima che fosse dato il segnale di inizio, Latino
avanzò tra i soldati delle prime file e invitò a un colloquio il
comandante degli stranieri. Quindi si informò sulla loro provenienza, chiese da dove
o a séguito di quale evento fossero partiti dal loro paese e cosa stessero
cercando nel territorio di Laurento. Venne così a sapere
che tutti quegli uomini erano Troiani, con a capo Enea figlio di Anchise e di
Venere, esuli da una città finita nelle fiamme, e alla ricerca di una sede
stabile per fondarvi la loro città. Quindi, pieno di ammirazione per la
nobiltà d'animo di quel popolo e dell'uomo di fronte a lui e per la loro
disposizione tanto alla guerra che alla pace, gli tese la mano destra e si
impegnò per un'amicizia futura tra i due popoli. I due comandanti
stipularono allora un trattato di alleanza, mentre i due eserciti si scambiarono un
saluto. Enea fu ospitato presso Latino. Lì questi aggiunse un
patto privato a quello pubblico dando in moglie a Enea sua figlia. Questo
accordo rinforzò la speranza dei Troiani di vedere finite una volta per tutte le
loro infinite peregrinazioni grazie a una sede stabile e definitiva.
Fondano una città. Enea la chiama Lavinio dal nome della moglie. Dopo
poco tempo, dal nuovo matrimonio nacque anche un figlio maschio cui i
genitori diedero il nome di Ascanio. 2 In séguito, Aborigeni e Troiani
dovettero affrontare insieme una guerra. Il re dei Rutuli Turno, cui era stata
promessa in sposa Lavinia prima dell'arrivo di Enea, poiché non
accettava di buon grado che lo straniero gli fosse stato preferito, entrò
in guerra contemporaneamente con Enea e con Latino. Nessuna delle due parti
poté rallegrarsi dell'esito di quello scontro: i Rutuli furono vinti, ma
Troiani e Aborigeni, benché vincitori, persero Latino, il loro comandante.
Allora Turno e i Rutuli, sfiduciati per lo stato presente delle cose,
ricorsero alle floride risorse degli Etruschi e del loro re Mesenzio,
signore dell'allora ricca città di Cere. Questi, poiché già sin dagli
inizi non aveva gioito della fondazione della nuova città e in quel momento
pensava che la crescita della potenza troiana fosse una minaccia eccessiva
per la sicurezza dei popoli vicini, non esitò ad allearsi
militarmente con i Rutuli. Enea, terrorizzato di fronte a una simile guerra, per
accattivarsi il favore degli Aborigeni e perché tutti risultassero uniti non
solo sotto la stessa autorità ma anche sotto lo stesso nome, chiamò
Latini l'uno e l'altro popolo; né d'allora in poi gli Aborigeni si dimostrarono
inferiori ai Troiani quanto a devozione e lealtà. Ed Enea, forte di
questi sentimenti e dell'affiatamento che sempre di più cresceva tra i due
popoli col passare dei giorni, nonostante l'Etruria avesse una tale
disponibilità di mezzi da raggiungere con la sua fama non solo la terra ma anche il mare
per tutta l'estensione dell'Italia - dalle Alpi allo stretto di Sicilia -,
fece scendere ugualmente in campo le sue truppe pur potendo respingere
l'attacco dalle mura. Lo scontro fu il secondo per i Latini. Per Enea,
invece, rappresentò l'ultima impresa da mortale. Comunque lo si voglia
considerare, uomo o dio, è sepolto sulle rive del fiume Numico e la gente lo
chiama Giove Indigete. 3 Ascanio, il figlio di Enea, non era
ancora maturo per comandare; tuttavia il potere rimase intatto
finché egli non ebbe raggiunto la pubertà. Nell'intervallo di tempo,
lo Stato latino e il regno che il ragazzo aveva ereditato dal padre e
dagli avi gli vennero conservati sotto la tutela della madre (tali erano in
Lavinia le qualità caratteriali). Non mi metterò a discutere - e chi
infatti potrebbe dare come certa una cosa così antica? - se sia stato
proprio questo Ascanio o uno più vecchio di lui, nato dalla madre Creusa quando
Ilio era ancora in piedi e compagno del padre nella fuga di là, quello
stesso Julo dal quale la famiglia Giulia sostiene derivi il proprio nome.
Questo Ascanio, quali che fossero la madre e la patria d'origine, in ogni
caso era figlio di Enea. Dal momento che la popolazione di Lavinio
era in eccesso, lasciò alla madre, o alla matrigna, la città ricca e
fiorente, e per conto suo ne fondò sotto il monte Albano una nuova che, dalla
sua posizione allungata nel senso della dorsale montana, fu chiamata Alba
Longa. Tra la fondazione di Lavinio e la deduzione della colonia di
Alba Longa intercorsero press'a poco trent'anni. Ciò nonostante,
specie dopo la sconfitta subita dagli Etruschi, la sua potenza era a tal
punto in crescita che, neppure dopo la morte di Enea e in séguito sotto la
reggenza di una donna e i primi passi del regno di un ragazzo, tanto Mesenzio
e gli Etruschi quanto nessun'altra popolazione limitrofa osarono
intraprendere iniziative militari. Il trattato di pace stabilì che per
Etruschi e Latini il confine sarebbe stato rappresentato dal fiume Albula,
il Tevere dei giorni nostri. Quindi regna Silvio, figlio di Ascanio,
nato nei boschi per un qualche caso fortuito. Egli genera Enea Silvio
che a sua volta mette al mondo Latino Silvio. Da quest'ultimo vennero
fondate alcune colonie che furono chiamate dei Latini Prischi. In séguito
il nome Silvio rimase a tutti coloro che regnarono ad Alba Longa. Da
Latino nacque Alba, da Alba Atys, da Atys Capys, da Capys Capeto e da
Capeto Tiberino il quale, essendo annegato durante l'attraversamento del
fiume Albula, diede a esso il celebre nome passato ai posteri. Quindi
regnò il figlio di Tiberino, Agrippa, il quale trasmise il potere al
figlio Romolo Silvio. Questi, colpito da un fulmine, tramandò
di mano in mano il regno ad Aventino il quale fu sepolto sul colle che oggi
è parte di Roma e che porta il suo nome. Quindi regna Proca. Egli genera
Numitore e Amulio. A Numitore, che era il più grande, lascia in
eredità l'antico regno della dinastia Silvia. Ma la violenza poté più che la
volontà del padre o la deferenza nei confronti della primogenitura: dopo
aver estromesso il fratello, sale al trono Amulio. Questi commise un crimine
dietro l'altro: i figli maschi del fratello li fece uccidere, mentre a Rea
Silvia, la femmina, avendola nominata Vestale (cosa che egli fece
passare come un'onorificenza), tolse la speranza di diventare madre
condannandola a una verginità perpetua. 4 Credo comunque che rientrassero in un
disegno del destino tanto la nascita di una simile città
quanto l'inizio della più grande potenza del mondo dopo quella degli dèi. La
Vestale, vittima di uno stupro, diede alla luce due gemelli. Sia che fosse in
buona fede, sia che intendesse rendere meno turpe la propria colpa
attribuendone la responsabilità a un dio, dichiarò Marte padre della prole
sospetta. Ma né gli dèi né gli uomini riescono a sottrarre lei e i figli alla
crudeltà del re: questi dà ordine di arrestare e incatenare la
sacerdotessa e di buttare i due neonati nella corrente del fiume. Per una qualche
fortuita volontà divina, il Tevere, straripato in masse d'acqua stagnante,
non era praticabile in nessun punto del suo letto normale, ma a chi li
portava faceva sperare che i due neonati venissero ugualmente sommersi
dall'acqua nonostante questa fosse poco impetuosa. Così, nella
convinzione di aver eseguito l'ordine del re, espongono i bambini nel punto
più vicino dello straripamento, là dove ora c'è il fico Ruminale (che,
stando alla leggenda, un tempo si chiamava Romulare). Quei luoghi erano allora
completamente deserti. Tutt'ora è viva la tradizione orale secondo la quale,
quando l'acqua bassa lasciò in secco la cesta galleggiante nella quale erano
stati abbandonati i bambini, una lupa assetata proveniente dai monti dei
dintorni deviò la sua corsa in direzione del loro vagito e,
accucciatasi, offrì loro il suo latte con una tale dolcezza che il pastore-capo del
gregge reale - pare si chiamasse Faustolo - la trovò intenta a
leccare i due neonati. Faustolo poi, tornato alle stalle, li diede alla moglie
Larenzia affinché li allevasse. C'è anche chi crede che questa Larenzia i
pastori la chiamassero lupa perché si prostituiva: da ciò lo spunto
di questo racconto prodigioso. Così nati e cresciuti, non appena divennero
grandi, cominciarono ad andare a caccia in giro per i boschi senza rammollirsi
nelle stalle e dietro il gregge. Irrobustitisi così nel corpo e
nello spirito, nonaffrontavano soltanto più le bestie feroci, ma assalivano i
banditi carichi di bottino: dividevano tra i pastori il frutto delle rapine e
condividevano con loro svaghi e lavoro, mentre il numero dei giovani
aumentava giorno dopo giorno. 5 Si dice che già allora sul
Palatino si celebrasse il nostro Lupercale e che il monte fosse chiamato Pallanzio
(in séguito Palatino) da Pallanteo, città dell'Arcadia. Là
Evandro, il quale, originario di quella stirpe di Arcadi, aveva occupato la zona molto
tempo prima, pare avesse introdotto importandola dall'Arcadia l'usanza che
dei giovani corressero nudi celebrando con giochi licenziosi Pan
Liceo, che i Romani in séguito chiamarono Inuo. Mentre erano intenti a
questo spettacolo - dato che la ricorrenza era ben nota -, si dice che
i banditi, per la rabbia di aver perso il bottino, organizzarono
un'imboscata. Romolo si difese energicamente. Remo, invece, lo
catturarono e lo consegnarono al re Amulio, accusandolo per giunta del furto.
Soprattutto gli imputavano di aver compiuto delle incursioni nelle
terre di Numitore e di aver raccolto un gruppo di giovinastri per darsi alle
razzie come in tempo di guerra. Per questi motivi Remo viene consegnato
a Numitore perché lo punisca. Già sin dall'inizio Faustolo aveva supposto
che i bambini allevati in casa sua fossero di sangue reale: infatti sapeva
che dei neonati erano stati abbandonati per volere del re e anche
che il periodo in cui li aveva presi con sé coincideva con quel fatto.
Però non aveva voluto che la cosa si venisse a sapere quando ancora non era
il momento giusto (a meno che non si fossero presentate l'occasione
propizia o una necessità urgente). Fu quest'ultima ipotesi a verificarsi per
prima: spinto dalla paura, rivelò la cosa a Romolo. Per caso anche
Numitore, mentre teneva prigioniero Remo e aveva saputo che erano fratelli
gemelli, considerando la loro età e il carattere per niente servile, era stato
toccato nell'intimo dal ricordo dei nipoti; e a forza di fare domande,
arrivò a un punto tale che poco ci mancò riconoscesse Remo.
Così venne architettato un doppio complotto ai danni del re. Romolo lo assale,
però non col suo gruppo di ragazzi - infatti non sarebbe stato all'altezza
di un vero proprio colpo di forza -, ma con altri pastori cui era stato
ordinato di arrivare alla reggia in un momento prestabilito e secondo un altro
percorso. Dalla casa di Numitore, invece, Remo accorre in aiuto con
un'altra schiera di uomini che era riuscito a procurarsi. Così
trucidano il re. 6 Numitore, durante le prime fasi della
sommossa, spargendo la voce che i nemici avevano invaso la città e
stavano assaltando la reggia, aveva così attirato la gioventù albana a
presidiare la rocca e a tenerla con le armi. Quando vide venire verso di sé i
giovani esultanti, reduci dalla strage appena compiuta, convocata
sùbito l'assemblea, rivelò i delitti commessi dal fratello nei suoi confronti, la
nobile origine dei nipoti, la loro nascita, il modo in cui erano stati
allevati, il sistema con cui erano stati riconosciuti, e infine
l'uccisione del tiranno, della quale dichiarò di assumersi la piena
responsabilità. Dopo che i due giovani, entrati con le loro truppe nel mezzo
dell'assemblea, ebbero acclamato re il nonno, l'intera folla, con un grido unanime,
confermò al re il titolo legittimo e l'autorità. Così, affidata Alba a Numitore,
Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città in quei
luoghi in cui erano stati esposti e allevati. Inoltre la popolazione di Albani e
Latini era in eccesso. A questo si erano anche aggiunti i pastori. Tutti
insieme certamente nutrivano la speranza che Alba Longa e Lavinio
sarebbero state piccole nei confronti della città che stava per essere
fondata. Su questi progetti si innestò poi un tarlo ereditato dagli avi,
cioè la sete di potere, e di lì nacque una contesa fatale dopo un inizio
abbastanza tranquillo. Siccome erano gemelli e il rispetto per la
primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli
dèi che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero
scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare
dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il
Palatino e Remo l'Aventino. 7 Il primo presagio, sei avvoltoi, si
dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio
quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano
proclamato re l'uno e l'altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano
di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli
altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso
scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia,
cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in
giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e
quindi Romolo, al colmo dell'ira, l'avrebbe ammazzato aggiungendo queste
parole di sfida: «Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi
scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo si impossessò da solo del
potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. In primo luogo fortifica il Palatino,
sul quale lui stesso era stato allevato. Offre sacrifici in onore
degli altri dèi secondo il rito albano, e secondo quello greco in onore di
Ercole, così com'erano stati istituiti da Evandro. Stando alla leggenda,
proprio in questi luoghi Ercole uccise Gerione e gli portò via gli
splendidi buoi. Perché questi riprendessero fiato e pascolassero nella quiete del
verde e per riposarsi anche lui stremato dal cammino, si coricò
in un prato vicino al Tevere, nel punto in cui aveva attraversato a nuoto il fiume
spingendo il bestiame davanti a sé. Lì, appesantito dal vino e
dal cibo, si addormentò profondamente. Un pastore della zona, un certo Caco,
contando sulle proprie forze e colpito dalla bellezza dei buoi, pensò
di portarsi via quella preda. Ma, dato che spingendo l'armento nella sua grotta le
orme vi avrebbero condotto il padrone quando si fosse messo a
cercarle, prese i buoi più belli per la coda e li trascinò all'indietro
nella sua grotta. Al sorgere del sole, Ercole, emerso dal sonno, dopo aver
esaminato attentamente il gregge ed essersi accorto che ne mancava una
parte, si incamminò verso la grotta più vicina, caso mai le orme portassero in
quella direzione. Quando vide che erano tutte rivolte verso l'esterno ed
escludevano ogni altra direzione, cominciò a spingere l'armento
lontano da quel luogo ostile. Ma poiché alcune tra quelle messe in movimento si
misero a muggire, come succede, per rimpianto di quelle rimaste
indietro, il verso proveniente dalle altre rimaste chiuse dentro la grotta fece
girare Ercole. Caco cercò di impedirgli con la forza l'ingresso
nella grotta. Ma mentre tentava invano di far intervenire gli altri pastori,
stramazzò al suolo schiantato da un colpo di clava. In quel tempo governava
la zona, più per prestigio personale che per un potere
conferitogli, Evandro, esule dal Peloponneso, uomo degno di venerazione perché sapeva
scrivere, cosa nuova e prodigiosa in mezzo a bifolchi del genere, e ancor
più degno di venerazione per la supposta natura divina della madre
Carmenta, che prima dell'arrivo in Italia della Sibilla aveva sbalordito
quelle genti con le sue doti di profetessa. Evandro dunque, attirato
dalla folla di pastori accorsi sbigottiti intorno allo straniero colto
in flagrante omicidio, dopo aver ascoltato il racconto del delitto e
delle sue cause, osservando attentamente le fattezze e la
corporatura dell'individuo, più maestose e imponenti del normale, gli
domandò chi fosse. Quando venne a sapere il nome, chi era suo padre e da dove
veniva, disse: «Salute a te, Ercole, figlio di Giove. Mia madre, interprete
veritiera degli dèi, mi ha vaticinato che tu andrai ad accrescere
il numero degli immortali e qui ti verrà dedicato un altare che un
giorno il popolo più potente della terra chiamerà Altare Massimo e
venererà secondo il tuo rito.» Ercole, dopo aver teso la mano destra, disse che
accettava l'augurio e che avrebbe portato a compimento la volontà del
destino costruendo e consacrando l'altare. Lì, prendendo dal gregge un capo di
straordinaria bellezza, fu per la prima volta compiuto un sacrificio in onore
di Ercole. A occuparsi della cerimonia e del banchetto sacrificale
furono chiamati Potizi e Pinari, in quel tempo le famiglie più
illustri della zona. Per caso successe che i Potizi giungessero all'ora stabilita e
le viscere degli animali vennero poste di fronte a loro, mentre i
Pinari, quando ormai le viscere erano stae mangiate, arrivarono a banchetto
cominciato. Così, finché durò in vita la stirpe dei Pinari, rimase in
vigore la regola che essi non potessero cibarsi delle interiora dei
sacrifici. I Potizi, istruiti da Evandro, furono per molte generazioni
sacerdoti di questo rito sacro, fino al tempo in cui, affidato ai servi di
Stato il solenne officio della famiglia, l'intera stirpe dei Potizi si
estinse. Questi furono gli unici, fra tutti i riti di importazione, a
essere allora accolti da Romolo, già in quel periodo conscio
dell'immortalità che avrebbe ottenuto col valore e verso la quale lo conduceva il suo
destino. 8 Sistemata la sfera del divino in
maniera conforme alle usanze religiose e convocata in assemblea la massa, che
nulla, salvo il vincolo giuridico, poteva unire nel complesso di un solo
popolo, diede loro un sistema di leggi. Pensando che esso sarebbe stato
inviolabile per quei rozzi villici solo a patto di rendere se stesso degno
di venerazione per i segni distintivi dell'autorità,
diventò più maestoso sia nel resto della persona sia soprattutto grazie ai dodici
littori di cui si circondò. Alcuni ritengono che egli adottò il
numero in base a quello degli uccelli che, col loro augurio, gli avevano
pronosticato il regno. A me non dispiace la tesi di quelli che sostengono importati
dalla confinante Etruria (donde furono introdotte la sedia curule e la
toga pretesta) tanto questo tipo di subalterni quanto il loro stesso
numero. Essi ritengono che la cosa fosse così presso gli Etruschi dal
momento che, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici popoli,
ciascuno di essi forniva un littore a testa. Nel frattempo la città cresceva
in fortificazioni che abbracciavano dentro la loro cerchia sempre nuovi spazi: si
costruiva più nella speranza di un incremento demografico negli anni a
venire che per le proporzioni presenti della popolazione. In séguito, perché
l'ampliamento della città non fosse fine a se stesso, col pretesto di
aumentare la popolazione secondo l'antica idea di quanti fondavano
città (i quali, radunando intorno a sé genti senza un passato alle spalle,
facevano credere loro di essere autoctoni), creò un punto di
raccolta là dove oggi, per chi voglia salire a vedere, c'è un recinto tra due
boschi. Lì, dalle popolazioni confinanti, andò a riparare una massa
eterogenea di individui - nessuna distinzione tra liberi e schiavi - avida di cose
nuove: e questo fu il primo energico passo in direzione del progetto di
ampliamento. Ormai soddisfatto di tali forze, provvede a dotarli di
un'assemblea. Elegge cento senatori, sia perché questo numero era sufficiente,
sia perché erano soltanto cento quelli che potevano ambire a una carica
del genere. In ogni caso, quest'onore gli valse il titolo di
padri, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi. 9
Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei
dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare
una sola generazione, perché essi non potevano sperare di avere figli in
patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei
senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un
trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di
matrimoni. Essi dissero che anche le città, come il resto delle
cose, nascono dal nulla; in séguito, grazie al loro valore e all'assistenza degli
dèi, acquistano grande potenza e grande fama. Era un fatto assodato che
alla nascita di Roma erano stati propizi gli dèi e che il valore
non le sarebbe venuto a mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo,
non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe.
All'ambasceria non dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto
disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri
successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza. Nell'atto di
congedarli, la maggior parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero
aperto anche per le donne un qualche luogo di rifugio (quella infatti
sarebbe stata una forma di matrimonio alla pari). La gioventù romana
non la prese di buon grado e la cosa cominciò a scivolare
inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per conferire a essa tempi e luoghi
appropriati, Romolo, dissimulando il proprio risentimento, allestisce
apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia.
Quindi ordina di invitare allo spettacolo i popoli vicini. Per
caricarli di interesse e attese, i giochi vengono pubblicizzati con tutti i mezzi
disponibili all'epoca. Arrivò moltissima gente, an che per il
desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più
vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini, poi, vennero al
completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle
case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate
e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità
con cui Roma era cresciuta. Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e
tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto,
scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre
all'impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in
cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza,
destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da
plebei cui era stato affidato quel compito. Si racconta che una di esse,
molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo
Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando,
gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le
mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido
nuziale. Finito lo spettacolo nel terrore, i
genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato
il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale eran venuti a
vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella
legge divina. Le donne rapite, d'altra parte, non avevano maggiori
speranze circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si
aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per
l'arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di
contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose,
avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente
è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e
affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo.
Spesso al risentimento di un affronto segue l'armonia dell'accordo. Ed esse
avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si
sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei
genitori e della patria. A tutto questo si aggiungevano poi le
attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto
della passione), attenzioni che sono l'arma più efficace nei
confronti dell'indole femminile. 10 Ormai l'ira delle ragazze rapite si
era del tutto placata. Fu però proprio in quel momento che i loro
genitori, vestiti a lutto, cercavano di sensibilizzare i concittadini piangendo
e lamentandosi dell'accaduto. E non si limitavano a manifestare in
patria il proprio sdegno, ma da ogni parte si presentarono in gruppi di
delegazioni a Tito Tazio, re dei Sabini, perché il suo prestigio in
quelle zone era enorme. Quell'affronto riguardava in parte Ceninensi,
Crustumini e Antemnati. Sembrò loro che Tito Tazio e i Sabini agissero con
eccessiva flemma: perciò questi tre popoli si prepararono a combattere da
soli. Ma, a giudicare dall'animosità e dall'ira dei Ceninensi, neppure
Crustumini e Antemnati si muovevano con sufficiente prontezza. Così i
Ceninensi invadono da soli il territorio romano. Ma mentre stavano devastando
disordinatamente la zona, gli va incontro Romolo con l'esercito e, dopo
una ridicola scaramuccia, dimostra loro la vanità dell'ira non
sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la schiera nemica, la mette in fuga e ne
insegue i resti sbandati; quindi si scontra in duello col re, lo uccide e
ne spoglia il cadavere. Dopo aver eliminato il comandante dei nemici, si
impossessa della loro città al primo assalto. Ricondotto indietro
l'esercito vincitore, dimostrò che il suo eroismo nel compiere le imprese non
era inferiore alla capacità di valorizzarle: portando le spoglie del
comandante nemico ucciso su una barella costruita all'occorrenza,
salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai
pastori, insieme con l'offerta tracciò i confini del tempio di Giove e
aggiunse un epiteto al nome del dio: «Io, Romolo, re vittorioso, offro a te,
Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio entro questi limiti
che ho or ora tracciato secondo la mia volontà, in modo tale che
diventi un luogo demandato alle spoglie opime che quanti verranno dopo di me,
seguendo il mio esempio, porteranno qui dopo averle strappate a re e
comandanti nemici uccisi in battaglia.» Questa è l'origine del primo
tempio consacrato a Roma. Così, da quel giorno in poi, piacque agli dèi
che fosse legge la parola del fondatore del tempio (e cioè che i posteri
avrebbero dovuto portare lì le spoglie), e che la gloria di un tale dono non fosse
svilita dal numero elevatissimo di chi la poteva ottenere. Da allora
tanti anni sono passati e tante guerre sono state combattute.
Ciò nonostante, altre due volte soltanto si presero spoglie opime: così rara
fu la fortuna di quell'onore. 11 Mentre i Romani si stavano occupando
di queste cose, gli Antemnati, cogliendo al volo l'occasione offerta
dalla loro assenza, compiono un'incursione armata nel nostro
territorio. Ma le truppe romane, spinte a marce forzate anche in quella
direzione, piombano loro addosso trovandoli sparpagliati nei campi. Fu così
che bastò il primo urto accompagnato dall'urlo di guerra per sbaragliarli e
conquistarne la città. Mentre Romolo era nel pieno dell'ovazione per
il doppio trionfo, la moglie Ersilia, cedendo alle preghiere
incessanti delle donne rapite, lo prega di perdonarne i genitori e di ammetterli
all'interno della città (la cui potenza sarebbe così aumentata
proprio grazie alla concordia interna). Egli acconsente facilmente. Quindi
marcia contro i Crustumini che erano in procinto di attaccare. Ma la loro
resistenza durò ancora meno di quella degli alleati: di fronte a disfatte del
genere, non era rimasto troppo coraggio. In entrambi i paesi
sottomessi furono inviati coloni. La maggior parte di essi, però, si
iscrissero per Crustumino a causa della fertilità della terra. Dall'altra parte, invece,
molte persone, soprattutto genitori e
parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. L'ultimo attacco Roma lo subì
dai Sabini, e questa fu di gran lunga la più importante tra le guerre combattute
fino a quel punto. Essi, infatti, non agirono sotto l'impulso del
risentimento e dell'ambizione, né si lasciarono andare a dimostrazioni
militari prima di dare il via alla guerra. Unirono la fraudolenza al
sangue freddo. Spurio Tarpeio comandava la cittadella romana. Sua figlia,
vergine vestale, viene corrotta con dell'oro da Tazio e costretta a fare
entrare un drappello di armati nella fortezza. In quel preciso momento la
ragazza era andata oltre le mura ad attingere acqua per i culti rituali.
Dopo averla catturata, la schiacciarono sotto il peso delle loro
armi e la uccisero, sia per dare l'idea che la cittadella era stata
conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia per fornire
un esempio in modo che più nessun delatore potesse contare sulla parola
data. La leggenda riguardante questi fatti vuole che, siccome i Sabini di
solito portavano al braccio sinistro braccialetti d'oro massiccio e giravano
con anelli tempestati di gemme di rara bellezza, la ragazza avesse
pattuito come prezzo del suo tradimento ciò che essi portavano al
braccio sinistro; e che al posto dell'oro promesso fosse rimasta schiacciata dal
peso dei loro scudi. Alcuni sostengono che, avendo lei chiesto di
scegliere come ricompensa quello che essi portavano al braccio sinistro,
optò espressamente per gli scudi e che i Sabini, credendo li volesse tradire,
l'uccisero proprio col compenso che aveva richiesto. 12 Comunque sia, i Sabini si impossessarono
della cittadella. Il giorno dopo, quando l'esercito romano aveva
gremito, col suo schieramento al completo, lo spazio compreso tra il
Palatino e il Campidoglio, i Sabini non calarono subito in pianura ma
rimasero ad aspettare che l'indignazione e il desiderio di recuperare la rocca
spingessero i Romani a risalire la china e ad affrontarli su in alto. I
capi di entrambi gli schieramenti incitavano alla lotta: Mezio Curzio per
i Sabini e Ostio Ostilio per i
Romani. Quest'ultimo, nonostante la posizione svantaggiosa, teneva
alto il morale con dimostrazioni di coraggio e
di audacia nelle prime file. Ma, caduto lui, subito i Romani
registrarono un netto cedimento e andarono a rifugiarsi presso la vecchia porta del
Palatino. Romolo stesso, trascinato dalla massa dei soldati in ritirata,
sollevando le armi al cielo, gridò: «O Giove, è per obbedire al tuo
volere che ho gettato le prime fondamenta di Roma proprio qui sul Palatino. Ormai
la cittadella è in mano ai Sabini che l'hanno conquistata nella
più turpe delle maniere. Di lì, attraverso la vallata, stanno avanzando armati
verso di noi. Ma tu, padre degli dèi e degli uomini, tieni lontani almeno da
qui i nemici, libera i Romani dal terrore e frena questa loro vergognosa
ritirata! Prometto che qui, o Giove Statore, io innalzerò un tempio
per ricordare ai posteri che è stato il tuo aiuto inesauribile a salvare la
città». Al termine della preghiera, come se avesse avuto la sensazione di
essere stato esaudito, disse: «Qui, o Romani, Giove ottimo massimo vi
ordina di fermarvi e di ricominciare a combattere». E i Romani si fermarono,
proprio come se stessero obbedendo a un ordine piovuto dal cielo. Romolo in
persona si lancia nelle prime file. Mezio Curzio, intanto, a capo dei
Sabini, aveva guidato la carica dall'alto della cittadella e fatto il
vuoto in mezzo alle fila romane, gettando lo scompiglio per tutto lo
spazio occupato dal foro. E, ormai non lontano dalla porta del Palatino,
gridava: «Li abbiamo battuti, ospiti malvagi e nemici codardi che non sono
altro! Ora lo sanno che differenza passa tra rapire delle ragazze inermi e
combattere contro degli uomini veri.» Mentre così si gloria,
gli si avventa addosso, guidato da Romolo, un gruppo di giovani pronti a tutto.
Per caso in quel momento Mezio stava combattendo a cavallo e fu così
più facile respingerlo. Dopo averlo messo in fuga, i Romani proseguono sullo
slancio e il resto dell'esercito, infiammato dall'audacia del re, riesce
a sbaragliare i Sabini. Mezio fu trascinato in una palude dal suo
cavallo, divenuto ingovernabile per lo strepito degli inseguitori e la cosa
attirò l'attenzione anche dei Sabini che temevano di perdere una figura
così carismatica: urlando e facendogli ampi gesti, gli dimostrarono il loro
attaccamento ed egli riuscì a tirarsi
fuori dalla melma. Romani e Sabini riprendono così a combattere
nella valle che si estende tra le due
colline. Ma i Romani continuavano ad avere la meglio. 13 Fu in quel momento che le donne
sabine, il cui rapimento aveva scatenato la guerra in corso, con le
chiome al vento e i vestiti a brandelli, lasciarono che le disgrazie
presenti avessero la meglio sulla loro timidezza di donne e non esitarono
a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra
le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera. Da
una parte supplicavano i mariti e dall'altra i padri. Li imploravano di
non commettere un crimine orrendo macchiandosi del sangue di un suocero o
di un genero e di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature
che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli
altri. «Se il rapporto di parentela che vi unisce e questi matrimoni non vi
vanno a genio, rivolgete la vostra ira contro di noi: siamo noi la causa
scatenante della guerra, noi le sole responsabili delle ferite e delle morti
tanto dei mariti quanto dei genitori. Meglio morire che rimanere
senza uno di voi due, o vedove od orfane.» L'episodio non tocca soltanto
la massa dei soldati ma anche i comandanti, e su tutti cala improvvisa
una quiete silenziosa. Poi vengono avanti i generali per stipulare un
trattato e non si accordano esclusivamente sulla pace, ma varano
anche l'unione dei due popoli. Associano i due regni, trasferendo
però l'intero potere decisionale a Roma che vede così raddoppiata la sua
popolazione. Tuttavia, per venire in qualche modo incontro ai Sabini, i
cittadini romani presero il nome di Quiriti dalla città di Cures. E
in memoria di quella battaglia chiamarono lago Curzio lo specchio d'acqua dove il
cavallo di Curzio emerse dal profondo della melma e portò in
salvo il suo cavaliere. A una guerra così catastrofica
seguì improvvisamente un felice periodo di pace che rese le donne sabine
più gradite ai loro mariti e ai loro genitori, ma, sopra tutti, a Romolo
stesso. Così, quando questi divise la popolazione in trenta curie, diede a
esse il nome delle donne. Senza dubbio il loro numero era in qualche
modo superiore: la tradizione non ci informa se fu l'età, la loro
classe sociale o quella dei mariti, oppure un'estrazione a sorte il criterio
utilizzato per stabilire quali dovessero dare il nome alle curie. Nello stesso
periodo vennero formate tre centurie di cavalieri. Ramnensi e Tiziensi
devono i loro nomi a Romolo e a Tito Tazio. Quanto invece ai Luceri, nome e
origine sono poco chiari. Di lì in poi, i due sovrani regnarono non solo
in comune, ma anche in perfetto accordo. 14 Alcuni anni dopo, certi parenti di
Tito Tazio maltrattano gli ambasciatori dei Laurenti e, nonostante
il loro appellarsi al diritto delle genti, Tito mostra di avere
orecchie soltanto per le preghiere dei suoi. Così facendo, assume su di
sé la responsabilità della loro mancanza. E infatti, un giorno che era andato a
Lavinio per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto di piazza. Si
narra che la cosa addolorò Romolo meno del dovuto, sia per la dubbia
affidabilità di una simile divisione del potere, sia perché credeva che
quella morte non fosse del tutto immeritata. Per questo evitò di
far ricorso alla guerra. Tuttavia, per garantire l'espiazione della morte del
re e dell'offesa ai danni degli ambasciatori, fece rinnovare il
trattato tra Roma e Lavinio. Questa pace, a dir la verità, fu
un evento al di sopra di ogni aspettativa. Invece scoppiò
un'altra guerra, molto più vicina, anzi quasi alle porte di Roma. Gli abitanti di
Fidene, ritenendo troppo vicina a loro una potenza in continua crescita, senza
aspettare che diventasse forte come c'era da prevedere, si affrettano
a scatenare il conflitto. Armano squadroni di giovani e li spediscono a
devastare le campagne tra Roma e Fidene. Di lì piegano verso
sinistra (a destra niente da fare, c'è il Tevere che blocca la strada) e compiono
atti di vandalismo terrorizzando i contadini. L'improvviso trambusto
creatosi nelle campagne arrivò fino in città e fu come una prima
avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non c'era un minuto da perdere con una
guerra così vicina, esce immediatamente alla testa dell'esercito e si accampa a
un miglio da Fidene. Dopo avervi lasciato una modesta guarnigione, si
mette in moto col grosso delle truppe. Una parte di queste
ordinò che si piazzasse, pronta a lanciare un'imboscata, in una zona tutto intorno
criparata da fitti cespuglic. Poi, con il blocco più consistente
dell'esercito e con tutta la cavalleria, si mise in marcia e, proprio come si era
prefissato, riuscì ad attirare fuori il nemico adottando un tipo di tattica
spericolata e minacciosa, con i cavalieri che scorrazzavano fin quasi
sotto le porte. D'altra parte, per la fuga che doveva esser simulata,
questo assalto a cavallo forniva un pretesto più verisimile. E
quando non solo la cavalleria sembrava incerta tra il combattere e il fuggire, ma
anche la fanteria si ritirava, all'improvviso si spalancarono le porte
e le linee romane furono travolte dallo straripare dei nemici che, nella
foga di darsi all'inseguimento, furono trascinati nel punto
dell'imboscata. Lì i Romani saltano fuori a sorpresa e attaccano sul fianco la
schiera dei nemici. Allo stupore si aggiunge la paura: dall'accampamento si
vedono avanzare gli stendardi del presidio lasciato di guarnigione.
Così i Fidenati, in preda al panico più totale, fanno dietro-front quasi prima
ancora che Romolo e i suoi uomini riuscissero a girare i loro cavalli. E
visto che si trattava di una fuga vera, riguadagnavano la città in
maniera di gran lunga più disordinata di quelli che, poco prima, essi avevano
inseguito ingannati dalla loro simulazione di fuga. Però non
riuscirono a sfuggire al nemico: i Romani li incalzavano da dietro e, prima che le
porte della città venissero chiuse, irruppero all'interno, quando ormai i
due eserciti sembravano uno solo. 15 La guerra scatenata dai Fidenati fu
come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i
quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che condividevano coi
Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il pericolo dei confini, nel caso
in cui la potenza romana si fosse rivolta ostilmente contro tutte le
popolazioni limitrofe. Così si riversarono in territorio romano senza
però seguire i piani di una regolare campagna militare ma piuttosto
per saccheggiare i dintorni alla rinfusa. Non si accamparono né attesero
l'arrivo dell'esercito nemico, ma tornarono a Veio portandosi via
ciò che avevano razziato nelle campagne. I Romani, da parte loro, non avendo
trovato il nemico nei campi, attraversarono il Tevere pronti e
determinati a sferrare un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a
sapere che i nemici si erano accampati e stavano per marciare contro
la loro città, andarono loro incontro per decidere la battaglia in
campo aperto piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e
dalle mura. Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di
supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie alla
fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li
inseguì fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in
quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa
posizione. Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per
desiderio di vendetta che per fare razzia. E i Veienti, piegati da questo
disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in battaglia, inviano a Roma
dei delegati per chiedere la pace. Ottennero una tregua di cent'anni in
cambio della cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i principali
avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. Nessuno di
essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla
divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né al coraggio dimostrato nel
riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare
Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna. Fu
proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in
poi conobbe quarant'anni di stabilità nella pace. Tuttavia fu più
amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come da nessun altro.
Tenne per sé, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento
armati cui diede il nome di Celeri. 16 Portati a termine questi atti
destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e
parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio,
scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni
ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla
vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve più
sulla terra. I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di
sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo
spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur
fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo
visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ciò nonostante
sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di
esser rimasti orfani. Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in
coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di
Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua
protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto
sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le
loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto
chiari. Ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei
confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si
dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì
l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la
città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità
nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un
grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea: «Stamattina, o
Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa città,
è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto
di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso
di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai
Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del
mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e
tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di resistere
alle armi romane." Detto questo,» egli concluse, «è scomparso in cielo.»
È incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto
giovò a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo
l'assicurazione della sua immortalità. 17 Nel frattempo, tra i senatori, era
in pieno svolgimento una lotta febbrile per la gestione del potere.
Non si era però ancora giunti a candidature individuali perché nel
nuovo popolo non c'era nessuna figura particolarmente di spicco: si trattava
di uno scontro di diverse fazioni all'interno delle classi. I cittadini
di origine sabina, dopo la morte di Tito Tazio, non avevano più
avuto un loro re. Così, nel timore di dover rinunciare alla spartizione del potere
pur continuando a godere degli stessi diritti politici, volevano che
venisse eletto un re della loro etnia. Ma i Romani di vecchia data
rifiutavano l'idea di avere un re forestiero. Pur nella pluralità
di vedute, tutti volevano ugualmente essere sottoposti all'autorità
di un monarca: infatti non avevano ancora assaporato il dolce piacere della
libertà. Poi i senatori cominciarono a preoccuparsi seriamente, pensando che
la città priva di un governo e l'esercito privo di un comandante in
campo rischiassero un qualche attacco da fuori, visto che si trovavano in
mezzo a una serie di vicini particolarmente maldisposti nei loro
confronti. Erano quindi tutti d'accordo sulla necessità di
avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva in animo di rinunciare a favore
dell'altro. Così i cento senatori decidono di governare collegialmente: creano dieci
decurie e da ognuna di esse traggono un rappresentante destinato a
gestire l'amministrazione dello stato. Governavano, quindi, in dieci,
anche se uno solo aveva le insegne ed era scortato dai littori. Il potere
di ciascuno di essi durava cinque giorni, poi passava a rotazione a tutti
gli altri. Si trattò di un intervallo di un anno. Siccome intercorse
tra due regni, fu chiamato interregno, termine ancor oggi in uso.
Ma allora la plebe cominciò a lamentare l'aggravarsi del suo rapporto
di sudditanza, visto che al posto di un padrone adesso gliene toccavano
cento. Era chiaro che avrebbero al massimo sopportato un re e questo
eletto secondo le loro preferenze. Quando i senatori si resero conto
dell'andazzo, pensarono che sarebbe stato bene offrire spontaneamente
ciò che era destino avrebbero perso. E così si guadagnarono il favore
popolare concedendo il potere supremo, senza però elargire più
prerogative di quante ne mantennero per sé. Infatti decretarono che il popolo
avrebbe eletto il re, ma la nomina sarebbe stata valida solo dopo la loro
ratifica. Ancor oggi, quando si votano le leggi e si eleggono i
magistrati, viene esercitato questo diritto, anche se ormai privato della
sua importanza: i senatori anno la loro ratifica prima che il popolo vada
alle urne e quando non si conosce ancora l'esito del voto. In
quell'occasione, il sovrano in carica convocò l'assemblea e disse: «La fortuna, la
prosperità e la felicità possano assisterci! Quiriti, sceglietevi un re,
questo è il volere dei senatori. E se chi eleggerete sarà degno di
esser chiamato successore di Romolo, in quel caso vogliano confermare la vostra
scelta.» La proposta fu talmente gradita al popolo che, per non sembrare
da meno nella generosità, si limitò a decidere e a ordinare
che fosse il senato a stabilire chi doveva regnare a Roma. 18 In quel periodo Numa Pompilio godeva
di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di
religiosità. Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più di qualsiasi
suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano.
C'è chi sostiene, in assenza di altri nomi, ch'egli fosse debitore della
propria cultura a Pitagora di Samo. La tesi è però un falso
perché è noto a tutti che fu durante il regno di Servio Tullio (cioè più
di cento anni dopo) e nell'estremo sud Italia - nei dintorni di Metaponto, Eraclea e
Crotone - che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di conoscere
a fondo le sue dottrine. E da quei lontani paesi, pur ammettendo che
Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua fama come avrebbe
potuto raggiungere i Sabini? E in che lingua comune avrebbe potuto indurre
qualcuno a farsi una cultura con lui? E sotto la scorta di chi un uomo
avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio attraverso così tanti
popoli diversi per lingua e usanze? Per tutti questi motivi sono incline a
credere che Numa fosse spiritualmente portato alla virtù per una sua
naturale disposizione e che la sua cultura non avesse niente a che vedere con
insegnamenti di stranieri, ma dipendesse dall'austera e severa
educazione degli antichi Sabini, il popolo moralmente più puro
dell'antichità. Non appena i senatori romani sentirono il nome di Numa, si resero
conto che, con un re proveniente dalla loro etnia, l'ago della bilancia
politica si sarebbe spostato verso i
Sabini. Ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a quell'uomo se stesso, uno della propria
fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono
all'unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio. Convocato a Roma, egli
ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici aveva fondato
la sua città e ne aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel
suo caso, venissero consultati gli dèi. Quindi, preceduto da un
augure (cui, da quella circostanza in poi, questa funzione onorifica rimase
permanentemente una delle sue attribuzioni ufficiali), Numa fu
condotto sulla cittadella e fatto sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a
meridione. L'augure, a capo coperto e reggendo con la destra un bastone
ricurvo e privo di nodi il cui nome era lituus, prese posto alla sua
sinistra. Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le
campagne intorno, invocò gli dèi e divise la
volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra
erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali. Poi
fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il
più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo. Quindi, fatto passare il
lituus nella mano sinistra e piazzata la destra sulla testa di Numa, rivolse
questa preghiera: «O Giove padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio,
qui presente e del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma,
dacci qualche segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato.» Poi
specificò gli auspici che voleva venissero inviati. E quando questi
apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina augurale. 19 Roma era una città di recente
fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa, divenutone re
nel modo che si è detto, si prepara a dotarla di un sistema giuridico e di
un codice morale (fondamenti di cui fino a quel momento era stata priva).
Ma rendendosi conto che chi passa la vita tra una guerra e l'altra non
riesce ad abituarsi facilmente a queste cose perché l'atmosfera militare
inselvatichisce i caratteri, pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del
suo popolo disabituandolo all'uso delle armi. Per questo motivo fece
costruire ai piedi dell'Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a
simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la
città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i
popoli dei dintorni. Dal regno di Numa in poi fu chiuso soltanto due volte: la
prima al termine della prima guerra punica, durante il consolato di
Tito Manlio, la seconda (e gli dèi hanno concesso alla nostra generazione
di esserne testimoni oculari) dopo la battaglia di Azio, quando
cioè l'imperatore Cesare Augusto ristabilì la pace per mare e per terra. Numa lo
chiuse dopo essersi assicurato con trattati di alleanza la buona
disposizione di tutte le popolazioni limitrofe ed eliminando le
preoccupazioni di pericoli provenienti dall'esterno. Così facendo,
però, si correva il rischio che animi resi vigili dalla disciplina militare e
dalla continua paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso.
Per evitarlo, egli pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in essi
il timore reverenziale per gli dèi, espediente efficacissimo nei confronti
di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi anni. Dato che non
poteva penetrare nelle loro menti senza far ricorso a qualche racconto
prodigioso, si inventò di avere degli incontri notturni con la dea Egeria e
riferì che quest'ultima lo aveva esortato a istituire dei rituali sacri
particolarmente graditi agli dèi, nonché a preporre a ciascuno di essi
certi officianti specifici. Prima di tutto, basandosi sul corso della luna,
divide l'anno in dodici mesi. Ma dato che i singoli mesi lunari non si
compongono di trenta giorni e che ce ne sono «undici» di differenza rispetto
a un intero anno calcolato in base alla rivoluzione del sole, egli
aggiunse dei mesi intercalari in maniera tale che il ventesimo anno si
trovassero rispetto al sole nella stessa posizione dalla quale erano partiti e
che così la durata di tutti gli anni tornasse perfettamente. Stabilì
anche i giorni fasti e quelli nefasti, poiché sarebbe stato utile, di quando
in quando, sospendere ogni attività pubblica. 20 Quindi rivolse la sua attenzione ai
sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto a
parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza del
flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re del
futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e sarebbero andati
di persona a combattere, non voleva che passassero in secondo piano
le attribuzioni sacerdotali del re. Quindi designò un flamine a
sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia
curule, simbolo dell'autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno
per Marte e uno per Quirino. Inoltre sceglie delle vergini da porre al
servizio di Vesta, sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo
connesso con la famiglia del fondatore. Per permettere loro di dedicarsi
esclusivamente al servizio del tempio, fece assegnare a esse uno stipendio
dallo stato e, a causa della verginità e di altre cerimonie rituali, le rese
sacre e inviolabili. Scelse anche dodici Salii per Marte Gradivo e
garantì loro la possibilità di distinguersi vestendo una tunica
ricamata e provvista di una placca di bronzo sul petto. Inoltre ordinò
loro di portare gli scudi caduti dal cielo (noti come ancilia) e di compiere
processioni in città cantando inni accompagnati da solenni passi di danza
in tre tempi. Poi nomina pontefice un senatore, Numa Marcio, figlio di
Marcio, cui fornisce dettagliate istruzioni scritte per tutte le
cerimonie sacre: i tipi di vittime, i giorni prescritti, i templi in cui
celebrare i vari riti e le risorse cui fare capo per mantenerne le spese.
Subordinò all'autorità del pontefice anche tutte le altre cerimonie di
natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche
punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse
subire alterazioni di sorta, dovute a negligenze dei riti nazionali o
all'adozione di culti di importazione. Inoltre il pontefice doveva diventare
un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle
divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione
dei mani e dell'interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre
manifestazioni. Per desumere questi mistici segreti dallo spirito dei numi,
innalzò sull'Aventino un altare in onore di Giove Eliio e fece consultare
il dio attraverso degli auguri per vedere di quali prodigi si dovesse
tener conto. 21 L'attenzione per questi fenomeni
celesti e la loro continua ricerca avevano distolto il popolo intero dalla
violenza delle armi, fornendogli sempre qualcosa con cui tenere occupata
la mente: il pensiero incessante della presenza divina e l'impressione
che le potenze ultraterrene partecipassero dei casi umani avevano
permeato di pietà religiosa gli animi così profondamente che la
città era governata più dal rispetto per la solennità della fede che
dalla paura suscitata dalle leggi e dalle pene. E come in città i sudditi
uniformavano il proprio comportamento a quello del re, in qualità di
unico esempio a loro disposizione, allo stesso modo anche i popoli vicini, che
in passato avevano sempre visto Roma non come una città ma come
un accampamento situato in mezzo a loro e destinato a destabilizzare la pace di
tutti, cominciarono a nutrire per Roma una venerazione tale da
considerare una violazione sacrilega attaccare un centro urbano così
integralmente votato al culto degli dèi. C'era un bosco con al centro una grotta
buia dalla quale sprigionava una fonte di acqua perenne. Poiché Numa vi
si recava spessissimo senza testimoni e diceva di avere là i
suoi appuntamenti con la dea, consacrò il bosco alle Camene sostenendo che queste
ultime si vedevano in quella radura con la sua consorte Egeria.
Istituì anche un culto solenne in onore della Fides e prescrisse che i Flamini
si recassero a questo santuario con un carro coperto trainato da due
cavalli e che celebrassero la cerimonia con le mani coperte fino alle dita, per
indicare che la Fides non deve essere violata e che ha il suo santuario
anche nella mano destra. Stabilì inoltre molti altri culti sacrificali e
i luoghi a essi demandati, luoghi cui i pontefici diedero il nome di
Argei. Tuttavia, tra tutti i servizi resi allo Stato, il più
significativo fu questo: per l'intera durata del suo regno, consacrò ogni
attenzione non meno a mantenere la pace che a tutelare il paese. Così, due re
di séguito, anche se ciascuno per strade diverse, l'uno infatti con la pace,
l'altro con la guerra, contribuirono ala grandezza di Roma. Romolo
regnò trentasette anni, Numa quarantatré. E Roma, tanto in caso di guerra quanto
nella normalità della pace, non aveva più problemi di organizzazione
interna e di esperienza. 22 Alla morte di Numa si tornò a
un interregno. Poi il popolo elesse re - e il senato ratificò l'elezione
- Tullo Ostilio, nipote di quell'Ostilio che si era distinto nella battaglia
contro i Sabini ai piedi della cittadella. Il nuovo re non solo fu
diversissimo rispetto al suo predecessore, ma fu anche più
bellicoso di Romolo. La giovane età e la forza, unite all'aspirazione alla
gloria ereditata dal nonno, erano un incentivo al suo ardore. Così,
pensando che l'inattività prolungata avrebbe irreparabilmente sfiancato
Roma, cercava dovunque pretesti per scatenare la guerra. Per puro caso
successe che dei contadini romani andarono a fare razzia di bestiame in
territorio albano e quelli della campagna di Alba gli restituirono
subito il favore compiendo la stessa prodezza. In quell'epoca Alba era
governata da Gaio Cluilio. Entrambe le parti in causa mandarono
contemporaneamente degli inviati per riavere il maltolto. Tullo aveva ordinato ai suoi
di compiere prima di tutto la loro missione. Era convinto che avrebbe
ottenuto un rifiuto. In tal caso sarebbe stato suo diritto dichiarare
guerra. I rappresentanti di Alba agirono invece con maggiore flemma.
Ricevuti con amabile cortesia da Tullo, onorano con simpatia il
banchetto offerto dal re. Nel frattempo quelli di parte romana li avevano presi
sul tempo: la richiesta di risarcimento era già stata
presentata. Di fronte a un secco rifiuto da parte albana avevano quindi avanzato una
dichiarazione di guerra con decorrenza di lì a trenta
giorni. Di ritorno a Roma ne riferiscono a Tullo. Questi allora invita i delegati
albani a chiarire il motivo della loro missione. Ed essi, non essendo al
corrente di nulla, cominciano perdendo tempo in formalità. Si
scusarono di dover pronunciare parole probabilmente spiacevoli alle orecchie
di Tullo, ma dissero che gli ordini erano ordini. Sostennero di esser
venuti a rivendicare il maltolto e che gli era stato ingiunto di dichiarare
guerra in caso di rifiuto. A queste parole Tullo replicò: «Andate
dal vosro re e ditegli che il re di Roma chiama in causa gli dèi a
testimoniare quale dei due popoli abbia per primo sdegnosamente congedato gli
ambasciatori inviati a rivendicare quanto razziato, in modo tale che
facciano ricadere su di lui tutti i disastri di questa guerra.» 23 I rappresentanti di Alba se ne
tornano indietro a riferire questa risposta. Entrambi i popoli si
preparano con grandissimo ardore alla guerra, che si presentava come una vera
e propria guerra civile, addirittura quasi uno scontro tra padri
e figli: gli uni e gli altri erano di origine troiana in quanto Lavinio
era stata fondata da Troia, Alba da Lavinio e i Romani discendevano dai re
albani. Tuttavia l'esito della guerra rese lo scontro meno
deplorevole: infatti non si combatterono battaglie e, quando le abitazioni di
una sola delle due città furono distrutte, i due popoli si fusero in
uno. Gli Albani scesero in campo per primi e invasero il territorio romano
con un massiccio schieramento di forze. Pongono l'accampamento a non più
di cinque miglia da Roma e lo circondano con un fossato (cui, per
alcuni secoli, rimase il nome di fossa di Cluilio da quello del comandante,
finché, col passare del tempo, scomparvero fossato e nome). In questo
accampamento muore il re albano Cluilio e i suoi soldati eleggono
dittatore Mezio Fufezio. Nel frattempo, il bellicoso Tullo, imbaldanzito dalla
morte del re, sostenendo che l'onnipotenza divina si sarebbe
vendicata del nome albano (e il re stesso era solo l'inizio) per la guerra
criminale da lui scatenata, evitato nottetempo l'accampamento nemico,
andò a riversarsi in territorio albano. Questa manovra costrinse Mezio a uscire
dalle sue posizioni. Guidando l'esercito il più velocemente
possibile in direzione del nemico, manda avanti un inviato a dire a Tullo che
prima dello scontro egli ritiene necessario un colloquio tra i due
comandanti in capo. Nel caso l'altro avesse accettato, era sicuro di poter
avanzare delle proposte non meno interessanti per i Romani che per gli
Albani. Tullo non rifiutò, anche se fece schierare le sue truppe in ordine
di battaglia nel caso in cui le proposte si fossero dimostrate prive di
interesse. Gli Albani vanno a disporsi dall'altra parte. Finite le
manovre di schieramento dei due eserciti, i rispetivi comandanti,
scortati da pochi maggiorenti, avanzano verso il centro del campo di battaglia.
Il primo a parlare è l'albano: «Le razzie e il bottino non restituito
nonostante le esplicite richieste in base al trattato mi sembra siano i
pretesti che il nostro re Cluilio indicava come cause di questa guerra,
né dubito Tullo che i tuoi siano tanto diversi. Ma se vogliamo dire la
verità e non fare tanti giri di parole, è la sete di potere che
spinge alle armi due popoli vicini e provenienti dalla stessa stirpe. Non
sto a sbilanciarmi se con ragione o torto: la questione riguarda chi ha
suscitato la guerra. Io sono soltanto un generale scelto dagli Albani per
portare avanti le operazioni. Ma ecco, o Tullo, quello su cui vorrei attirare
la tua attenzione: le proporzioni della potenza etrusca, che circonda noi
ma soprattutto voi, le conosci meglio tu perché vivi più vicino
a loro. Per terra dominano, ma per mare non hanno avversari. Quindi, nel
momento in cui darai il segnale di battaglia, ricordati che gli Etruschi
staranno a guardare i nostri due eserciti e, non appena saremo allo
stremo delle forze, ne approfitteranno per assalire vincitori e vinti. Per
questo, agli dèi piacendo, visto che non ci basta la sicurezza della
libertà ma preferiamo abbandonarci all'incertezza tra il potere e la
schiavitù, vediamo di stabilire quale dei due popoli governerà
sull'altro senza grandi disastri e inutili spargimenti di sangue.» La proposta non
dispiacque a Tullo, nonostante fosse più incline allo scontro
sia per motivi di carattere che per la speranza di vittoria. Mentre entrambe
le parti stavano cercando di risolvere la questione, la sorte stessa
fornì loro una soluzione. 24 Per puro caso in entrambi gli
eserciti c'erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né per
età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo
sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi. Pur
essendo però un fatto così celebre, permangono ancora dei seri dubbi sui
popoli di rispettiva appartenenza di Orazi e Curiazi. Gli storici sono
divisi, anche se vedo che la maggior parte di essi chiama romani gli Orazi e
anch'io propendo per questa tesi. I re propongono ai tre gemelli un
combattimento nel quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria
città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia. Nessuna
obiezione. Si stabiliscono tempo e luogo. Prima però di dare il via
allo scontro, Albani e Romani stipulano un trattato secondo il quale il popolo
i cui campioni avessero avuto la meglio avrebbe esercitato un potere
incondizionato sull'altro. Ogni trattato ha le sue clausole
particolari, ma le procedure sono sempre le stesse. Nella circostanza presente
sappiamo che fu strutturato in questi termini (ed è il più
antico trattato di cui si abbia memoria): il feziale rivolse a Tullo questa domanda: «Mi
ordini, o re, di stipulare un trattato col pater patratus del popolo albano?»
Poiché il re rispose affermativamente, egli proseguì:
«Io ti chiedo l'erba sacra.» Il re rispose: «Prendi dell'erba pura.»
Allora il feziale andò a raccogliere l'erba pura sulla cittadella. Quindi
rivolse al re questa domanda: «Re, mi nomini tu plenipotenziario reale del
popolo romano dei Quiriti ed estendi questo carattere sacrale ai miei
paramenti e ai miei assistenti?» Il re risponde: «Te lo concedo, purché non
debba danneggiare né me né il popolo romano dei Quiriti.» Il feziale, Marco
Valerio, nominò pater patratus Spurio Fusio toccandogli la testa e i
capelli con un ramoscello sacro. Il compito del pater patratus è
quello di pronunciare il giuramento, cioè di concludere solennemente il trattato. A
questo fine egli pronuncia una specie di ampollosa formula liturgica
che non vale la pena riportare. Quindi, dopo aver letto le clausole, il
feziale dice: «Ascolta, o Giove; ascolta, o pater patratus del popolo
albano e ascolta tu, popolo di Alba. Da queste clausole che, da queste
tavolette e dalla cera, sono state pubblicamente lette dalla prima
all'ultima parola e senza la malafede dell'inganno, e che sono state qui oggi
perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non
sarà il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con qualche
subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpsci il popolo romano come
io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in questo luogo. E
tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più grande e forte
è la tua potenza.» Detto questo, colpì il maiale con una selce. Allo stesso modo
gli Albani, attraverso il loro comandante e alcuni loro sacerdoti,
pronunciarono le formule rituali e il giuramento che li riguardavano. 25 Concluso il trattato, i gemelli,
come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da entrambe le parti i
soldati incitavano i loro campioni. Gli ricordavano che gli dèi
nazionali, la patria e i genitori, nonché tutti i concittadini rimasti a casa e
quelli lì presenti tra le fila avevano gli occhi puntati sulle loro
armi e sulle loro braccia. E i fratelli, pronti allo scontro non
già solo per il tipo di carattere che avevano ma esaltati dalle urla di chi
li incitava, avanzano nello spazio in mezzo alle due schiere. Gli uomini
di entrambi gli eserciti si erano intanto seduti di fronte ai rispettivi
accampamenti, tesissimi non tanto per qualche pericolo imminente, quanto
perché era in ballo la supremazia legata solo al valore e alla buona
sorte di pochi di loro. Così, sul chi vive e col fiato sospeso, si concentrano
sullo spettacolo non certo rilassante. Viene dato il segnale e i
sei giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttano allo
sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. Né gli uni né gli
altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano esclusivamente
alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti future
della patria che loro soli possono condizionare. Al primo contatto l'urto
delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene agli
spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la
meglio, trattenevano muti il respiro. Ma quando poi si giunse al
corpo a corpo e gli occhi non vedevano solo più fisici in movimento e
spade e scudi branditi nell'aria ma cominciò a grondare sangue dalle
ferite, due dei Romani, colpiti a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre
Albani soltanto feriti. A tale vista, un urlo di gioia si levò tra le
fila albane, mentre le legioni romane, persa ormai ogni speranza, seguivano
terrorizzate il loro ultimo campione circondato dai tre Curiazi. Questi, che
per puro caso era rimasto indenne, non poteva da solo affrontarli tutti
insieme, ma era pronto a dare battaglia contro uno per volta. Quindi,
er separarne l'attacco, si mise a correre pensando che lo avrebbero
inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero permesso. Si
era già allontanato un po' dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro,
quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo piuttosto sgranati e
che uno gli era quasi addosso. Si fermò aggredendolo con estrema
violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai Curiazi di correre in aiuto
del fratello, Orazio aveva già ucciso l'avversario e si preparava al
secondo duello. Allora, con un boato di voci - quello dei sostenitori per
una vittoria insperata -, i Romani presero a incitare il loro campione che
cercava di porre presto fine al combattimento. Prima che il terzo
potesse sopraggiungere - e non era tanto lontano -, uccise il secondo. Ora lo
scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio
risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria. L'uno,
illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco per un terzo
scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e, una volta
davanti all'avversario eccitato dalle vittorie, era già un
vinto, con negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un combattimento. Il
Romano gridò esultando: «Ho già offerto due vittime ai mani dei miei
fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra, che Roma
possa regnare su Alba.» L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le
armi. Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso, gli
infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo
accolsero con un'ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande
quanto più avevano sfiorato la disperazione. I due eserciti si
accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti molto diversi, in
quanto gli uni avevano adesso la supremazia, gli altri la sottomissione
a un potere esterno. Le tombe esistono ancora, esattamente dove
ciascuno è caduto: le due romane nello stesso punto, più vicino ad
Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono
nello scontro. 26 Prima di allontanarsi, Mezio, in
base alle clausole del trattato, chiede quali siano gli ordini e Tullo
gli ingiunge di tenere i giovani sotto le armi perché avrebbe avuto bisogno
delle loro prestazioni in caso di guerra contro Veio. Quindi gli
eserciti vengono ricondotti negli accampamenti. Alla testa dei Romani
marciava Orazio col suo triplice bottino. Di fronte alla porta Capena
gli andò incontro sua sorella, ancora nubile, che era stata promessa in sposa
a uno dei Curiazi. Appena riconobbe sulle spalle del fratello la
mantella militare del fidanzato che lei stessa aveva confezionato, si
sciolse i capelli e in lacrime ripeté sommessamente il nome del caduto. Il
suo pianto, proprio nel momento del tripudio pubblico per la vittoria,
irrita l'animo del giovane impetuoso che, estratta la spada, trafigge la
ragazza rivolgendole nel contempo queste parole di biasimo: «Vattene con
la tua bambinesca infatuazione, vattene dal tuo fidanzato, tu che
riesci a dimenticare i tuoi fratelli morti e quello vivo e addirittura la
patria. Possa così morire ogni romana che piangerà il nemico.»
L'atroce delitto sembrò orribile ai senatori e alla plebe, ma a ciò si
contrapponeva la prodezza di poche ore prima. Fu comunque preso e portato di fronte al
re per essere processato. Questi, non volendosi assumere l'intera
responsabilità di una sentenza così penosa e impopolare nonché della condanna a
morte che ne sarebbe seguita, convocò l'assemblea del popolo e disse:
«Secondo quanto è prescritto dalla legge, nomino una commissione di duumviri e
gli affido il compito di processare Orazio per lesa maestà.» Il
testo della legge era spaventoso: «I delitti di lesa maestà siano giudicati
dai duumviri. Se l'imputato ricorre in appello che l'appello dia luogo a una
discussione. Nel caso prevalgano i duumviri, si proceda a coprirne il
capo; quindi se ne leghi il corpo a un albero stecchito e lo si fustighi sia
dentro sia fuori il pomerio.» In virtù di questa disposizione,
vengono nominati i duumviri. Con una legge del genere sembrava loro impossibile
assolvere anche un innocente. Così, dopo averlo giudicato colpevole, uno di
essi disse: «Publio Orazio,ti condanno per lesa maestà. Vai
littore, legagli le mani.» Il littore gli si era avvicinato e stava per mettergli il
laccio, quando Orazio, su consiglio di Tullo, più clemente
nell'interpretare la legge, disse: «Ricorro in appello.» Il dibattito si
tenne così di fronte al popolo e la gente fu particolarmente influenzata
dalla testimonianza del padre di Orazio il quale sostenne che la morte
della figlia era stata giusta e aggiunse che in caso contrario egli
avrebbe fatto ricorso alla sua autorità di padre e punito il
figlio Orazio con le sue stesse mani. Poi implorò il popolo di non orbare
anche dell'ultimo figlio un uomo che fino a poco tempo prima la gente aveva visto
circondato da una notevole prole. Dicendo questo, il vecchio andò
ad abbracciare il giovane e, indicando le spoglie dei Curiazi appese nel punto
che ancor oggi si chiama Trofeo di Orazio, esclamò: «Quest'uomo che
poco fa avete ammirato incedere nell'ovazione trionfale della vittoria,
o Quiriti, ce la farete a vederlo legato e fustigato sotto una forca? Uno
spettacolo così ingrato che a malapena gli Albani riuscirebbero a
tollerarne la vista. Vai littore, incatena queste mani che poco fa hanno
dato al popolo romano la supremazia. Vai, incappuccia la testa
al liberatore di questa città e legalo a un albero stecchito. Fustigalo
sia dentro il pomerio - e quindi tra i trofei e le spoglie nemiche -,
sia fuori di esso - e quindi tra le tombe dei Curiazi. Dove potreste
portarlo questo giovane senza che la sua gloria gridi vendetta per l'onta di un
simile verdetto?» Il popolo, incapace di resistere alle lacrime del
padre e alla fermezza incrollabile del figlio di fronte a ogni pericolo,
assolse Orazio più per l'ammirazione suscitata dalla sua prodezza che per la
bontà della sua causa. E così, per purificare malgrado tutto il delitto
flagrante con una qualche espiazione, al padre venne ordinato di compiere
l'espiazione per il figlio a pubbliche spese. Per questo motivo egli
offrì dei sacrifici espiatori che da quel momento divennero una tradizione
peculiare della famiglia Orazia. Quindi eresse nella pubblica via una struttura
di travi e, come se si fosse trattato di un giogo vero e proprio, vi
fece passare sotto il figlio a capo coperto. La cosa esiste ncora e di
tanto in tanto viene rimessa in sesto a spese dello stato: si chiama
trave sororia. Quanto all'Orazia, le fu innalzato un sepolcro di pietre
squadrate nel punto in cui era caduta sotto i colpi del fratello. 27 Ma la pace con Alba non durò
a lungo. La gente era scontenta perché le sorti del paese erano state affidate a
tre soli soldati. Questo influenzò l'indole volubile del dittatore.
Così, visto che la saggezza non aveva avuto troppo successo, per
riconquistare la popolarità perduta, egli adottò il metodo della
malvagità. E come prima in tempo di guerra aveva cercato la pace, così adesso in
tempo di pace si mise a cercare la guerra. Rendendosi però conto che la sua
gente aveva sì coraggio ma ben poca forza, spinse altri popoli a dichiarare
guerra apertamente e con tutti i crismi, e riservò ai suoi uomini
la possibilità di tradire i Romani mostrando invece di voler essere al
loro fianco. Gli abitanti di Fidene, colonia romana, e quelli di Veio (che
erano stati messi a parte dei loro piani) vengono spinti a dare il via
alle ostilità con la promessa di poter contare sull'appoggio di Alba durante
il conflitto. Quando Fidene si ribellò senza mezzi termini,
Tullo convocò Mezio e le sue truppe da Alba e mosse contro il nemico. Attraversato
l'Aniene, si accampa alla confluenza dei due fiumi. Invece l'esercito dei
Veienti aveva guadato il Tevere in un punto tra quella zona e Fidene. Lo
schieramento per la battaglia era questo: all'ala destra, lungo il fiume,
i Veienti, mentre alla sinistra, verso le montagne, i Fidenati. Tullo
dirige i suoi contro quelli di Veio e
piazza gli Albani a fronteggiare i Fidenati. Il coraggio e la
lealtà non erano il punto forte del generale
albano. Non osando quindi né tenere la posizione né disertare apertamente,
prese ad avvicinarsi a poco a poco alla montagna. Quando ritenne di
esservisi avvicinato a sufficienza, ancora incerto sul da farsi, fece
spiegare le sue forze per guadagnare un po' di tempo. Il suo piano era questo:
scendere in campo dalla parte di chi stava avendo la meglio. I Romani
che si trovavano più vicini, quando si resero conto di avere i fianchi
scoperti per la ritirata degli alleati, rimasero annichiliti. Allora un
cavaliere partì al galoppo e andò a riferire al re dell ritirata albana in
corso. Tullo, nel pieno della crisi, fa voto di creare dodici Salii e
di innalzare dei santuari al Pallore e al Panico. Interpellando il
cavaliere ad alta voce, in maniera da poter essere sentito dal nemico, gli
ingiunge di tornare in prima linea. Non c'era motivo di panico. Lui
stesso aveva ordinato alle truppe di Alba quella manovra di
accerchiamento per prendere da dietro i fianchi scoperti dei Fidenati. Fa inoltre
ordinare alla cavalleria di alzare le lance. Con questa mossa riuscì a
nascondere a parte della fanteria romana la manovra di ripiegamento delle truppe
albane. Chi se n'era reso conto si fidò di quel che aveva sentito
dal re e si buttò con più foga nella mischia. Il terrore passò
così dalla parte dei nemici, sia perché avevano sentito la frase pronunciata ad alta
voce dal re, sia perché gran parte dei Fidenati, avendo avuto tra di loro
dei Romani come coloni, sapevano il latino. Quindi, per evitare che
un'improvvisa calata degli Albani dal fianco del monte chiudesse loro la
strada in direzione della città, tornarono indietro. Tullo li insegue e,
sbaragliata l'ala dei Fidenati, rinviene con più impeto su
quella dei Veienti, demoralizzati dal panico degli alleati. Anch'essi evitarono lo
scontro ma non riuscirono a fuggire alla spicciolata perché si trovarono
l'ostacolo del fiume alle spalle. Quando arrivarono lì, alcuni,
gettando ignominiosamente le armi, si buttavano in acqua alla cieca, altri,
attardatisi sulla riva, nell'indecisione tra il fuggire e il
combattere, si facevano uccidere. In nessuna battaglia precedente i Romani
versarono così tanto sangue. 28 Fu allora che l'esercito albano,
spettatore dello scontro, riguadagnò la piana. Mezio si congratula con Tullo
della vittoria sui nemici e Tullo gli risponde cortesemente. Quindi
ordina agli Albani (e possa la cosa avere buon fine!) di unire il loro
accampamento a quello dei Romani e poi prepara un sacrificio di purificazione
per il giorno successivo. Quando all'alba tutto era pronto, convoca in
assemblea i due eserciti. Gli araldi, avendo iniziato dal fondo del
campo, chiamarono per primi gli Albani che, colpiti dall'assoluta
novità della cosa, si andarono a piazzare vicino al re per non perderne
il discorso. La legione romana, armata secondo quanto convenuto, li
circonda. I centurioni avevano l'ordine tassativo di portare a termine
senza indugi quello che gli era stato comandato. Allora Tullo prese la
parola e disse: «O Romani, se mai prima di questa volta, in tutte le
guerre da voi combattute, avete avuto ragione di rendere grazie prima agli
dèi immortali e poi al vostro stesso valore, questo è successo nella
battaglia di ieri. Infatti non avete combattuto solo col nemico, ma - e in
questo sta la maggiore pericolosità della cosa - avete anche dovuto
affrontare il subdolo tradimento degli alleati. Sia dunque chiaro: non
è su mio ordine che gli Albani si sono spostati verso la montagna. Quello che
avete sentito da me non è stato un mio comando ma una calcolata
simulazione: volevo evitare che, rendendovi conto di essere stati abbandonati, vi
distraeste dalla battaglia e nel contempo volevo scatenare panico e fuga
tra i nemici facendo credere loro di essere stati aggirati. E non tutti
gli Albani sono responsabili del crimine in questione: hanno seguito il
loro comandante, come avreste fatto anche voi se vi avessi ordinato una
qualche manovra sul campo. È Mezio che ha guidato quella diversione. Lo stesso
Mezio che ha architettato questa guerra, lo stesso Mezio che ha infranto
il trattato tra Romani e Albani. Che qualcun altro possa di qui in poi
ripetere una simile prodezza, se io di costui non farò un clamoroso
esempio per l'intero genere umano.» Quindi i centurioni, armi alla mano,
circondano Mezio, mentre il re, con lo stesso tono con cui aveva iniziato,
riprese: «Che la prosperità e la buona sorte siano col popolo romano, con me e
anche con voi, o Albani. È mia intenzione trasferire tutta la gente di
Alba a Roma, concedere la cittadinanza alle classi subalterne,
eleggere senatori i nobili e avere una sola città e un solo stato.
Come un tempo la civiltà albana fu divisa in due popoli, possa oggi riacquistare
la sua unità.» A queste parole, i giovani albani, disarmati e circondati
da armati, benché divisi nelle reazioni individuali al discorso, erano
tuttavia uniti nel silenzio dovuto alla paura unanime. Allora Tullo disse:
«Mezio Fufezio, se tu fossi in grado di apprendere la lealtà e
il rispeto dei trattati, ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me.
Ma siccome la tua è una disposizione caratteriale
immodificabile, col tuo supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri
vincoli che hai violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra
Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.» Quindi chiede due
quadrighe e vi fa legare Mezio teso nel mezzo. Poi incita i cavalli in
direzioni diverse: ciascun carro si trascinò via pezzi del corpo
maciullato, rimasti attaccati ai lacci che lo vincolavano da ambo le parti. Tutti
distolsero lo sguardo da uno spettacolo così orribile. Quella
fu la prima e ultima volta che i Romani ricorsero a un tipo di pena contraria a
ogni umana legge. Per il resto possiamo infatti vantarci di non essere
secondi a nessun popolo nella clemenza delle pene inflitte. 29 Frattanto, vennero mandati ad Alba
dei cavalieri per trasferire a Roma la popolazione. A essi seguirono poi le
legioni per distruggere la città. Quando ne superarono le porte, non ci
fu, a dire il vero, quel fuggi fuggi terrorizzato che è classico
delle città conquistate, quando il nemico fa breccia negli ingressi, abbatte le mura
a colpi d'ariete, assalta la cittadella e poi dilaga per le strade
mettendo ogni cosa a ferro e fuoco in un boato di urla e di armi. Niente
di tutto questo: solo un lugubre silenzio e un dolore senza voce. Tutti
erano così depressi che, in balia della paura, non avevano più la
lucidità di decidere cosa abbandonare lì e cosa portarsi dietro e si
interpellavano a vicenda ora immobili di fronte alle porte, ora in un abulico vagare
dentro le case che avrebbero visto per l'ultima volta. Poi, quando ormai i
cavalieri gli urlavano di sbrigarsi a uscire, quando già
si iniziava a sentire il fragore delle prime case demolite nei sobborghi e il
polverone dei crolli nei quartieri lontani aveva coperto ogni cosa come
una nuvola bassa e diffusa, allora ciascuno cercava di afferrare
ciò che poteva uscendo dalla casa in cui era nato e cresciuto e in cui doveva
lasciare lari e penati. Subito le strade si riempirono di una fila interminabile
di sfollati i quali, specchiandosi nello stato miserando dei propri
consanguinei, ricominciarono a piangere e urla strazianti di dolore (erano
soprattutto donne) si levarono quando passarono davanti ai templi piantonati
dai soldati armati in quanto sembrò loro di lasciare le divinità in
mano al nemico. I Romani fanno uscire gli Albani dalla città e poi radono
al suolo tutti gli edifici, pubblici e privati, e in un'ora soltanto azzerano
i quattrocento anni di storia che Alba aveva alle spalle. L'unica cosa
risparmiata, secondo le disposizioni del re, furono i templi. 30 Con la distruzione di Alba, Roma si
espande, raddoppia la sua popolazione. Il colle Celio viene
inserito nella città e, per spingere la gente a sceglierlo come residenza,
Tullo lo elegge a sede permanente della reggia da quel momento in poi. La
nobiltà albana (Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli) ottenne nomine
senatoriali, così che anche quella parte dello Stato potesse avere un
incremento numerico. E come sede consacrata per questo strato sociale
che egli stesso aveva aumentato di proporzioni creò la curia, che
continuava ad avere il nome di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri
padri. E perché tutte le classi potessero crescere numericamente grazie
al nuovo popolo, arruolò dieci plotoni di cavalieri, completò i
ranghi delle vecchie legioni e ne creò di nuove, sempre attingendo esclusivamente alle
forze alleate. Confidando in queste forze, Tullo
dichiara guerra ai Sabini che, in quel tempo, eran secondi soltanto agli
Etruschi per disponibilità di uomini e di armi. Entrambe le parti avevano
causato danni senza poi mai farvi seguire alcuna riparazione. Tullo
lamentava la cattura di alcuni mercanti romani nel pieno di una fiera nei
pressi del tempio di Feronia. I Sabini sostenevano invece che tempo prima
alcuni dei loro concittadini erano andati a rifugiarsi nel bosco sacro del
santuario ed erano stati trattenuti a Roma. Questi erano i
pretesti addotti per la guerra. I Sabini, però, non trascuravano
che parte delle loro forze era stata trasferita a Roma da Tazio e che la
potenza romana era cresciuta grazie alla recente annessione del popolo
albano. Per questi motivi, cominciarono anch'essi a cercare aiuti dall'estero.
Gli Etruschi erano vicini, ma ancora più vicini erano i
Veienti. Presso questi ultimi, essendo il rancore dovuto alle recenti guerre un
incentivo fortissimo alla rivolta, riuscirono a mettere insieme dei
volontari e ad assoldare degli avventurieri senza né arte né parte
attratti soltanto dall'opportunità di fare due soldi. Non venne fornito alcun
aiuto ufficiale: Veio (e a maggior ragione gli Etruschi) restava fedele al
suo trattato concluso con Romolo. Mentre l'una e l'altra parte si
preparavano scrupolosamente alla guerra e sembrava che avrebbe avuto la meglio
chi avesse aggredito per primo, Tullo anticipa i nemici e invade il
territorio dei Sabini. Ci fu uno scontro tremendo presso la selva Maliziosa. I
Romani ebbero la meglio grazie sì alla forza d'urto della loro fanteria,
ma soprattutto grazie alla recente immissione di effettivi nella
cavalleria. Fu proprio una carica improvvisa di cavalieri a seminare il panico tra
le fila sabine; da quel momento in poi non furono più in grado né
di tenere la propria posizione in battaglia, né di districarsi con la
fuga senza incappare in perdite massicce. 31 Dopo la disfatta inflitta ai Sabini,
e quando ormai il regno di Tullo e la potenza romana avevano raggiunto il
vertice della gloria e della ricchezza, ecco che venne annunciato al
re e ai senatori che sul monte Albano stavano piovendo pietre. Siccome
la cosa non era molto verisimile, furono inviati dei messi a controllare
il fenomeno. Essi riferirono di aver visto coi loro occhi una spessa
pioggia di pietre che cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal
vento sulla terra. Nel bosco che c'é in cima alla vetta era sembrato loro
anche di sentire una voce possente la quale ordinava agli Albani di
celebrare, secondo il rito tradizionale, i sacrifici che essi avevano lasciato
cadere nell'oblio quando, con la città, avevano abbandonato anche
i loro dèi e adottato culti romani o, come spesso succede, rinnegato i propri per
un risentimento nei confronti del destino. Anche i Romani, a séguito
di questo prodigio, proclamarono una novena ufficiale, sia per la voce
celeste emessa dal monte Albano (così vuole la tradizione), sia
su consiglio degli aruspici. In ogni modo, rimase un'usanza abituale: ogni qual
volta si fosse ripetuto un fenomeno analogo, sarebbero seguiti nove giorni
di festa. Non molto tempo dopo Roma fu colpita da
un'epidemia cui fece séguito una riluttanza alle prestazioni militari.
Ciò nonostante, il bellicoso re Tullo non dava tregua ai suoi sudditi,
persuaso com'era che le esercitazioni militari fossero
più salutari ai fisici dei giovani che l'aria di casa. Finché lui stesso non
fu colpito da una malattia dal lungo decorso. E allora l'infermità ne
minò simultaneamente il corpo e l'indole bellicosa a tal punto che uno come lui,
in passato convintissimo che nulla fosse più indegno per un re che
occuparsi della sfera religiosa, improvvisamente divenne vittima di ogni
forma di piccola e grande superstizione e prese a imbottire la
sua gente di scrupoli religiosi. Tutti ormai reclamavano un ritorno allo
stato delle cose ai tempi di Numa, pensando che l'unico rimedio alla
deperibilità dei loro corpi consistesse nella benevolenza e nel perdono degli
dèi. Il re stesso, così vuole la tradizione, poiché consultando le
memorie di Numa aveva trovato menzione di certi sacrifici occulti praticati in
onore di Giove Elicio, vi si dedicò in segreto. Il fatto
è che commise qualche errore nel preparare o nel celebrare il rito e quindi, non
solo non ebbe alcuna visione divina, ma suscitò anche l'ira di Giove
il quale, irritato dalla profanazione del culto, incenerì con un fulmine
il re e il suo palazzo. Comunque, il glorioso regno di questo re guerriero
durò trentadue anni. 32 Alla morte di Tullo, il potere, in
conformità alla regola stabilita sin dall'inizio, era tornato ai senatori i
quali nominarono un interré. Questi convocò l'assemblea e il popolo
elesse re Anco Marzio, con la ratifica del senato. Anco Marzio era nipote per
parte di madre del re Numa Pompilio. Quando salì al trono,
ricordandosi della gloria dell'avo, aveva la ferma convinzione che il regno precedente,
tra le tante cose positive, avesse mostrato un'unica debolezza: i riti
religiosi erano stati trascurati o praticati male. Perciò ritenne
che la prima cosa da farsi fosse ristabilire le pubbliche cerimonie
secondo il rituale fissato da Numa e a questo proposito ordinò al
pontefice massimo di copiare tutte le prescrizioni cultuali dai taccuini del
re su una tavoletta bianca da esporre poi in pubblico. Questo primo
passo fece sperare ai Romani avidi di pace e ai popoli confinanti che il
re avrebbe seguito le orme dell'avo tanto nel carattere quanto nel tipo di
politica. Così i Latini, coi quali era stato firmato un trattato durante
il regno di Tullo, ripresero coraggio e fecero un'incursione nel
territorio romano. Quando i Romani gliene chiesero riparazione, essi
risposero in maniera sprezzante, convinti che un re del genere avrebbe
trascorso l'intera durata del suo regno dietro altari e santuari. Ma il
carattere di Anco era perfettamente equilibrato, una via di mezzo tra Numa
e Romolo. Inoltre pensava che durante il regno dell'avo ci fosse
maggiore bisogno di pace perché il popolo era nuovo e indisciplinato, ma
anche che gli sarebbe stato difficile ottenere quella
tranquillità che l'avo era riuscito a ottenere senza eccessivi travagli. Adesso che
mettevano alla prova la sua pazienza e poi la disprezzavano, per i tempi in
corso, sul trono era meglio un Tullo che un Numa. Ma come Numa in
tempo di pace aveva fornito un regolamento per le pratiche religiose,
allo stesso modo egli adesso voleva istituire un cerimoniale di guerra,
così che non ci si limitasse soltanto a fare le guerre ma le si dichiarasse
anche secondo un qualche formulario fisso. E per approntarlo ricorse a una
regola dell'antica tribù degli Equicoli, cui ancor oggi i feziali si
attengono per presentare un reclamo. Quando l'inviato arriva alle frontiere
del paese cui viene rivolto il reclamo, con il capo coperto da un
berretto (dotato di un velo di lana), dice: «Ascolta, Giove; ascoltate, o
frontiere,» e qui specifica del tale e del talaltro paese, «e mi ascolti anche
il sacro diritto. Io sono il rappresentante ufficiale del popolo
romano. Vengo per una missione giusta e santa: abbiate per questo fiducia
nelle mie parole.» Quindi elenca i reclami e chiama a testimone Giove: «Se
io non mi attengo a ciò che è santo e giusto nel reclamare che mi
vengano consegnati questi uomini e queste cose, possa non ritrovare
pù la mia terra.» Ripete questa formula quando attraversa il confine; la ripete
al primo uomo che incontra, la ripete quando entra in città, la
ripete facendo ingresso nel foro, con solo qualche piccola modifica nella
forma e nell'invocazione del giuramento. Se l'oggetto del suo reclamo
non viene restituito entro il trentatreesimo giorno (si tratta del
termine convenzionale), dichiara guerra con questa formula: «Ascolta,
Giove, e ascolta tu, o Giano Quirino, e voi tutte divinità del cielo,
della terra e degli inferi, ascoltatemi. Io vi chiamo a testimoni che questo
popolo,» e ne fa il nome, «è ingiusto e non ripara quanto deve. A questo
proposito, chiederemo consiglio in patria, ai più anziani tra i
nostri concittadini, su come ottenere quanto ci spetta di diritto.» Poi il
messaggero torna a Roma per la decisione definitiva. E subito il re si consulta
coi senatori grosso modo in questi termini: «A proposito degli oggetti,
delle controversie e delle cause di cui il pater patratus del popolo romano
ha discusso con il pater patratus dei Latini Prischi e con alcuni dei
Latini Prischi, a proposito di ciò che non è stato consegnato,
restituito e fatto di quello che doveva essere consegnato, restituito e fatto, dimmi,»
rivolgendosi al primo che lo aveva consultato, «che cosa ne pensi?» E
l'altro replica: «Penso sia giusto e sacrosanto riottenere il dovuto con la
guerra: questi sono il mio pensiero e
il mio voto.» Poi a turno vengono consultati gli altri. E una volta ottenuto il consenso della maggioranza,
tutti si trovano d'accordo sulla guerra. Di solito il feziale porta ai
confini con l'altra nazione una lancia dal puntale di ferro o temprato
sul fuoco e, di fronte ad almeno tre adulti, dice: «Poiché i popoli dei
Latini Prischi e alcuni dei Latini Prischi si sono resi responsabili di
atti e offese contro il popolo romano dei Quiriti; poiché il popolo romano
dei Quiriti ha dichiarato guerra ai Latini Prischi e il senato del popolo
romano dei Quiriti ha votato, approvato e dato il suo consenso a
questa guerra coi Latini Prischi, per i suddetti motivi, io - e quindi il
popolo romano dei Quiriti - dichiaro guerra ai popoli dei Latini Prischi e
ai cittadini dei Latini Prschi e la metto in pratica.» Detto ciò,
scaglia la lancia nel loro territorio. Ecco dunque in che termini fu esposto il
reclamo ai Latini e come fu loro dichiarata guerra: l'usanza è
passata ai posteri. 33 Anco, dopo aver lasciato ai Flamini
e ad altri sacerdoti l'incarico di provvedere ai sacrifici, si mise in
marcia con un esercito di recente formazione e conquistò di forza
Politorio, città dei Latini. Quindi, seguendo l'usanza dei suoi predecessori
sul trono, i quali avevano ingrandito Roma integrandovi i nemici
fatti prigionieri, vi trasferì l'intera popolazione. E visto che i
primi Romani avevano occupato il Palatino, i Sabini il Campidoglio e la
cittadella, e gli Albani il monte Celio, al nuovo nucleo di stranieri fu
assegnato l'Aventino, sul quale, non molto tempo dopo, vennero
trasferiti gli abitanti anche di altre due città conquistate, Tellene e
Ficana. In séguito Politorio fu attaccata una seconda volta perché i Latini Prischi
l'avevano rioccupata dopo l'evacuazione. Ciò fornì
ai Romani il pretesto per raderla al suolo: non avrebbe così più offerto
rifugio ai nemici. Alla fine la guerra coi Latini si concentrò integralmente su
Medullia, dove, per un po' di tempo, si combatté con un certo equilibrio e non
era facile prevedere chi avrebbe avuto la meglio. Infatti la
città era dotata di solide fortificazioni e difesa da una guarnigione piuttosto
tenace. Inoltre, l'armata latina, accampata in aperta pianura, non
perdeva occasione di venirsi a scontrare coi Romani. Alla fine, impegnando tutti
gli uomini a disposizione, Anco ottenne la sua prima vittoria in
battaglia e rientrò a Roma con un immenso bottino. Migliaia di Latini li
integrò in città e, per unire Aventino e Palatino, diede loro come sede la zona
intorno al tempio di Murcia. Integrò nella cerchia urbana anche
il Gianicolo, non tanto per bisogno di spazio, quanto piuttosto per evitare
che quella roccaforte potesse un giorno cadere in mano al nemico. Si
decise non solo di munirlo di fortificazioni, ma anche di metterlo in
comunicazione con il resto della città mediante un ponte di legno
che ne avrebbe facilitato l'accesso e che fu il primo costruito sul Tevere. Anche
la fossa dei Quiriti, difesa no trascurabile sul versante più
esposto a incursioni dalle pianure, è opera di Anco. Con questi possenti incrementi
umani, all'interno di una popolazione così numerosa era
divenuto difficile distinguere il bene dal male e di conseguenza il crimine
proliferava nell'ombra. Quindi, per scoraggiare la crescente
illegalità, venne costruito un carcere in pieno centro, a due passi dal foro. Il regno
di Anco non significò espansione soltanto per la città, ma anche
per la campagna e i dintorni. Il bosco di Mesia, tolto ai Veienti, estese il
dominio di Roma fino al mare, e alle foci del Tevere venne fondata Ostia,
intorno alla quale furono create delle saline. Per celebrare invece i
successi militari fece ingrandire il tempio di Giove Feretrio. 34 Durante il regno di Anco, venne ad
abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto
solido, attirato soprattutto dall'ambizione e dalla speranza di
raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a
Tarquinia (in quanto anche in quella città era uno straniero). Era
figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a séguito di
disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva
preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone
sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì
invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. Demarato non visse
molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta,
morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la
scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato
Egerio in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece,
nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze
ricevute aumentò ancora di più quando sposò un'esponente della
più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil, la quale non poteva ammettere che il suo
matrimonio la declassasse dal rango in cui era nata. Gli Etruschi
emarginavano Lucumone perché era straniero e figlio di un profugo. La moglie, non
potendo tollerare quest'onta, mise da parte l'attaccamento innato per la
patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare
da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova,
dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato
spazio per un uomo coraggioso e intraprendente. A Roma aveva regnato
Tazio, un sabino; Numa, per farlo re, lo erano andati a cercare a Cures; Anco
era figlio di madre sabina, e tra i ritratti degli antenati poteva vantare
soltanto Numa. Non le è quindi difficile convincere un uomo ambizioso
e per il quale Tarquinia era solo il luogo di nascita. Così,
raccolte tutte le loro cose, partono alla volta di Roma. Quando arrivarono nei pressi
del Gianicolo (un puro caso che successe lì), mentre erano
seduti nel loro carro, un'aquila planò su di loro con una dolce cabrata e
portò via il cappello a Lucumone. Poi, volteggiando sopra il carro ed
emettendo versi acutissimi, come se stesse compiendo una qualche missione divina,
si abbassò di nuovo e glielo rimise perfettamente in testa. Quindi
sparì nell'alto del cielo. Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una
vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio.
Abbracciando il marito lo invita a sperare grandi cose, spiegandogli che
quello era il senso dell'uccello, della parte del cielo da cui era
arrivato e del dio da cui era stato inviato: segno che era stato tolto un
ornamento posto sulla testa di un uomo, perché venisse ricollocato su
ordine di un dio. Con in mente queste ottimistiche previsioni, entrarono a
Roma. Lì trovarono casa e concordarono il nome da spacciare alla
gente: Lucio Tarquinio Prisco. Agli occhi dei Romani faceva colpo per la
sua provenienza e per la condizione economica. Lui, da par suo, aiutava la
buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi
affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza. A tal punto che la
stima di cui era fatto oggetto arrivò fino alla reggia. E il re non lo
apprezzò per quel che era finché la generosità e l'efficienza
dimostrate nei servigi prestati non gli garantirono un posto tra gli amici
più intimi, tanto da essere consultato per questioni di carattere pubblico e
privato sia in pace che in guerra. E il re, dopo averlo messo alla prova in
tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei
propri figli. 35 Anco regnò ventiquattro anni
e non fu secondo a nessuno dei suoi predecessori per capacità
specifiche e gloria acquisita in campo militare e civile. I suoi figli erano ormai
quasi degli uomini fatti e per questo
Tarquinio non perdeva l'occasione di sollecitare l'anticipo
dell'assemblea popolare per l'elezione del re. Quando
ne fu indetta la convocazione, egli mandò i ragazzi a una battuta di
caccia. Pare che Tarquinio fu il primo a impegnarsi in una campagna per il trono
e che pronunciò un discorso puntato a conquistare il favore
popolare. Disse che il suo caso non era privo di precedenti e, per evitare che
qualcuno potesse stupirsi e indignarsi, che lui non sarebbe stato
il primo bensì il terzo straniero a puntare al trono di Roma. Tazio,
addirittura, non solo era un re forestiero, ma proveniva da un paese nemico
e Numa, pur non conoscendo affatto Roma e non avendo avanzato
alcuna candidatura, era stato invitato ad assumere l'incarico. Quanto a se
stesso, dal giorno in cui era diventato padrone della propria
persona, era venuto a stabilirsi a Roma con la moglie e tutto quello che
possedeva. E la parte di vita che di solito si dedica all'adempimento dei
propri doveri di cittadini, lui l'aveva trascorsa a Roma e non nella
sua città natale; quanto alla sfera civile e a quella militare, aveva
appreso il diritto e i culti religiosi romani da un maestro assolutamente
fuori del comune, cioè il re Anco in persona. Il suo ossequio e il suo
rispetto per la persona del re non erano inferiori a quelli di nessuno; quanto
poi a generosità verso il prossimo, solo il re stesso lo era stato
più di lui. Il popolo romano, sentendo che non mentiva elencando questi aspetti,
lo nominò re con un consenso unanime. Ed egli, una volta sul trono,
non tradì tutti i sani principi morali che aveva pubblicizzato quando
si era autocandidato. Impegnandosi non meno a rinforzare il proprio regno
che a consolidare la potenza dello Stato, nomina cento nuovi senatori,
noti di lì in poi come di secondo ordine, i quali divennero incrollabili
sostenitori del re al cui favore dovevano la loro nomina in senato. La sua prima guerra fu contro i Latini:
prese d'assalto la loro città di Apiole e, avendone riportato un bottino
superiore a quanto ci si aspettava dalle prime voci, organizzò dei
giochi più ricchi ed elaborati di quelli dei predecessori. Fu in questa
occasione che venne scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama
Circo Massimo. Divise tra senatori e cavalieri dei lotti di terra perché
si costruissero dei palchi da utilizzare durante gli spettacoli.
Detti palchi ebbero il nome di fori e poggiavano su sostegni sollevati di
dodici piedi dal livello del terreno. La manifestazione ruotò intorno
a gare di equitazione e a incontri di pugilato con atleti per la maggior
parte etruschi. Da quell'occasione i giochi rimasero uno spettacolo
regolarmente allestito ogni anno e a seconda dei casi vennero chiamati
Giochi Romani o Grandi Giochi. Fu sempre Tarquinio a dividere tra i privati
cittadini appezzamenti di terreno edificabile intorno al foro, i quali
vennero utilizzati per la costruzione di portici e negozi. 36 Stava anche preparandosi a dotare
Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra coi Sabini si
sovrappose ai suoi progetti. La cosa fu così improvvisa che i
nemici attraversarono l'Aniene prima che l'esercito romano potesse mettersi in
marcia e andargli a chiudere il passaggio. A Roma fu subito il panico.
Sulle prime l'esito dello scontro fu incerto ed entrambe le parti ebbero
parecchie perdite. Poi il nemico rientrò nell'accampamento, dando
così ai Romani la possibilità di riorganizzarsi da capo per la guerra.
Tarquinio pensava che le sue truppe avessero particolari carenze nei
reparti di cavalleria e per questo, alle centurie dei Ramnensi, dei Tiziensi e
dei Luceri che erano state arruolate da Romolo, egli stabilì di
aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il
suo nome. Romolo però aveva agito soltanto dopo un'opportuna
consultazione augurale e Atto Navio, famoso augure di
quegli anni, disse che non si potevano apportare modifiche o
introdurre innovazioni nella struttura dell'esercito senza l'approvazione
degli uccelli. Il re reagì stizzito e, per ridicolizzarne la presunta scienza,
disse: «Avanti, visto che sei un veggente, chiedi un po' ai tuoi uccelli
se si può mettere in pratica quello a cui sto pensando in questo
momento!» E quando Atto, dopo aver consultato il volo degli uccelli, disse
che la cosa si sarebbe avverata di sicuro, il re ribatté: «Ben fatto! Il
problema è che io stavo pensando che tu riuscissi a tagliare in due una
pietra con un rasoio. Prendi i due oggetti e vedi di fare quello che
secondo i tuoi uccelli è possibile.» Pare che a quel punto l'augure, senza
un attimo di esitazione, tagliò in due la pietra. C'era una statua di Atto
in piedi a capo velato nel luogo del miracolo, in pieno comizio e
proprio sulle scale che portano alla parte sinistra della curia. Dicono che
anche la pietra fu collocata nello stesso punto per ricordare il prodigio
ai posteri. Sta di fatto che gli auguri e la loro professione
acquistarono in séguito un tale prestigio, che tanto in pace quanto in guerra non
si prese più nessuna iniziativa senza prima aver tratto gli auspici:
assemblee popolari, chiamate alle armi, pratiche di estrema importanza,
tutto veniva rimandato se non si aveva l'approvazione degli uccelli.
Così nemmeno Tarquinio apportò delle modifiche alla procedura nel caso
presente delle centurie di cavalleria: raddoppiò il loro numero di
effettivi in maniera tale da avere milleottocento cavalieri distribuiti in
tre centurie. Mantennero lo stesso nome delle centurie dove erano stati
arruolati, salvo assumere la denominazione di Posteriori. Oggi,
visto che ne sono state aggiunte altre tre, si chiamano le sei centurie. 37 Una volta rinforzata questa parte
dell'esercito, ci fu un secondo scontro con i Sabini. Ma, oltre che
dall'incremento di effettivi, l'esercito romano fu aiutato anche da
un astuto espediente: alcuni uomini vennero inviati a raccogliere una gran
massa di fascine lungo la riva dell'Aniene e a gettarle nel fiume dopo
avervi dato fuoco. La legna incendiata, spinta dal vento a favore,
andò a finire per lo più sulle barche e sui supporti in legno del
ponte che prese fuoco. Lo stesso espediente seminò il panico tra
i Sabini nel pieno della battaglia e impedì loro la ritirata quando
poi cominciò il fuggi fuggi. Molti riuscirono a evitare il nemico ma morirono
nel fiume. Parte delle loro armi, galleggiando sull'acqua, furono
riconosciute nel Tevere e diedero a Roma la notizia della grande vittoria
ancora prima che arrivassero i messaggeri ad annunciarla. I
protagonisti assoluti di questa battaglia furono i cavalieri: collocati ai due
fianchi dei reparti, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava
ritirando, essi attaccarono da entrambi i lati con una tale energia
che non solo riuscirono a frenare le legioni sabine che al momento stavano
pressando gli altri Romani in ritirata, ma le misero anche in fuga. I
Sabini si sparpagliarono disordinatamente verso le montagne, ma
solo pochi di essi le raggiunsero. La maggior parte, come già detto
prima, fu spinta nel fiume dai cavalieri. Tarquinio, pensando fosse opportuno
insistere mentre gli avversari erano in preda al panico, inviò a Roma
bottino e prigionieri; quindi, per realizzare un voto fatto a Vulcano,
diede ordine di accatastare la grande quantità di armi sottratte al
nemico e di darvi fuoco. Poi, alla testa dell'esercito, invase il territorio sabino.
Nonostante la brutta batosta e le poche speranze di ribaltare le sorti
ormai compromesse della battaglia, i Sabini, non avendo tempo a
sufficienza per ponderare una decisione, scesero in campo con i resti
raccogliticci delle loro truppe. Sconfitti però una seconda volta e allo
stremo delle forze, chiesero la pace. 38
Ai Sabini furono tolti Collazia e il territorio oltre Collazia. A governarla con una guarnigione rimase Egerio,
nipote di Tarquinio. A quanto ne so, ecco in che termini e
come avvenne la resa dei Collatini. Il re chiese: «Siete voi i legati e i
portavoce mandati dai Collatini con l'incarico di consegnare voi stessi e il
popolo collatino?» «Sì.» «Il popolo collatino è padrone di se
stesso?» «Sì.» «Consegnate dunque voi stessi e il popolo collatino, la
città, le campagne, l'acqua, i confini, i templi, la mobilia, e tutti gli oggetti
sacri e profani all'autorità mia e del popolo romano?» «Sì.» «E io
accetto.» Conclusa così la guerra coi Sabini,
Tarquinio rientra a Roma in trionfo. In séguito combatté coi Latini Prischi.
Ma durante questa guerra non si arrivò mai a uno scontro
veramente decisivo: accerchiando, invece, di volta in volta le singole città,
sottomise tutti i Latini. Furono conquistate: Cornicolo, Ficulea
Vecchia, Cameria, Crustumeria, Ameriola, Medullia, Nomento, tutte città
dei Latini Prischi o passate dalla loro parte durante la guerra. Poi fu
conclusa la pace. In séguito il re si dedicò a massicce opere di pace
con maggiore impegno di quanto ne avesse profuso nell'organizzare le guerre. Lo
scopo era quello di evitare che la sua gente fosse meno impegnata adesso
che ai tempi delle campagne militari. Così si ricomincia la
fortificazione in pietra - abortita sul nascere per lo scoppio della guerra coi
Sabini - di quella parte di Roma che ne era ancora priva. Poi, con un
sistema di condotti in discesa verso il Tevere, fa bonificare le parti basse
della città, le zone intorno al foro e le valli tra i colli, perché non
era possibile far defluire le acque per la natura eccessivamente
pianeggiante del terreno. Infine, già anticipando l'importanza che un giorno
il luogo avrebbe assunto, fa gettare sul Campidoglio le ampie fondamenta
di un tempio che, durante la guerra coi Sabini, aveva promesso di
innalzare in onore di Giove. 39 In quel periodo il palazzo reale
assisté a un prodigio notevole per come si manifestò e per le
conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome Servio Tullio stava dormendo, furono in
molti a vedergli la testa avvolta da fiamme. Le urla concitate che
gridarono al miracolo attirarono la famiglia reale. Un servitore
portò dell'acqua per spegnere le fiamme, ma la regina glielo impedì e fece
cessare il chiasso intimando di non toccare il bambino finché non si fosse
svegliato da solo. Appena questi aprì gli occhi, contemporaneamente le fiamme si
estinsero. E allora Tanaquil, prendendo da parte il marito, gli
disse: «Vedi questo bambino che stiamo tirando su in maniera così
spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra luce nei momenti più bui e il
sostegno del trono durante i tempi di crisi. Quindi vediamo di allevare con cura chi
sarà motivo di lustro per lo Stato tutto e per noi stessi.» Da quel
momento in poi essi presero a trattarlo come un figlio e lo educarono secondo
quei nobili principi che in genere portano a concepire grandi ideali. La
cosa non fu difficile perché la volontà divina era dalla sua
parte. Il giovane sviluppò qualità veramente regali. Quando poi Tarquinio dovette
scegliere un genero, non essendoci a Roma altri giovani che potessero
reggere al confronto con lui, il re gli diede in moglie la figlia. Questo
grandissimo onore, per qualsivoglia natura conferitogli, impedisce di
credere che egli fosse figlio di una schiava e schiavo lui stesso nella
prima infanzia. Io sono più dalla parte di chi sostiene questa tesi: caduta Cornicolo,
la moglie incinta di Servio Tullio, ucciso durante l'assedio e
massima autorità cittadina, finì a Roma con le altre prigioniere. Qui la regina
ne riconobbe i segni inconfondibili della nobiltà e
non solo impedì che andasse a fare la schiava, ma le permise anche di mettere
al mondo il suo bambino nel palazzo di Tarquinio Prisco. In séguito
un simile gesto fece germogliare l'amicizia tra le due donne, e il
bambino, come se fosse nato e cresciuto nella reggia, fu trattato con stima e
affetto. È probabile che la tesi della sua origine servile fu costruita
sulla sorte della madre, fatta prigioniera dal nemico dopo la rotta
della città d'origine. 40 Dopo quasi trentotto anni
dall'inizio del regno di Tarquinio, Servio Tullio aveva conquistato la stima
totale non solo del re ma anche dei senatori e del popolo. I due figli di
Anco avevano sempre considerato il colmo dell'infamia il tiro mancino con
cui il loro tutore li aveva privati del regno paterno e il fatto che a Roma
regnasse uno straniero le cui origini non erano nemmeno italiche. In
quel tempo erano più indignati ancora dalla prospettiva che nemmeno
dopo Tarquinio il regno sarebbe toccato a loro, ma, subendo un
ulteriore degrado, sarebbe finito in mano a un ex-servo. E in quella stessa Roma,
dove quasi cent'anni prima Romolo, figlio di un dio e dio lui stesso,
aveva regnato durante la sua permanenza in terra, ora sarebbe salito al trono
un servo figlio di una serva. Sarebbe stata un'onta tremenda per
tutti i Romani in generale e per il loro casato in particolare se,
nonostante l'esistenza di discendenti maschi del re Anco, non solo degli
stranieri, ma addirittura degli schiavi potessero arrivare a regnare su Roma.
Decidono pertanto di evitare con le armi un simile affronto. Il
risentimento per i torti subiti li spingeva più contro Tarquinio che contro Servio:
in primo luogo perché se avessero risparmiato il re la sua vendetta
sarebbe stata più implacabile di quella di un suo subalterno, e in secondo luogo,
uccidendo Servio, Tarquinio era probabile lo avrebbe rimpiazzato con un
genero qualunque destinato a ereditare il trono al suo posto. Per
tutti questi motivi il complotto viene ordito ai danni del re. Come
esecutori diretti vennero scelti due pastori senza scrupoli che, armati
degli attrezzi di lavoro di tutti i giorni, organizzarono una finta rissa
nel vestibolo della reggia e, facendo il maggior rumore possibile,
cercarono di attirare i domestici del re. Poi, dato che entrambi volevano
appellarsi al sovrano e il frastuono del loro litigio era arrivato fin
dentro la reggia, Tarquinio li fece convocare. Sulle prime si misero a
urlare cercando di prevaricare l'uno la voce dell'altro e la smetterono
soltanto dopo l'intervento di un littore che ordinò loro di esporre a turno le
rispettive ragioni. Allora uno di essi comincia a mettere insieme quanto
precedentemente convenuto. Mentre il re lo stava ascoltando con grande
attenzione, l'altro solleva la scure e lo colpisce alla testa. Quindi,
lasciata l'arma nella ferita, i due si precipitano di corsa fuori dalle porte. 41 Mentre quelli del séguito
sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i littori catturarono i due pastori che
stavano cercando di darsela a gambe. Poi fu subito un gran trambusto di
gente che accorreva per vedere cos'era successo. Tanaquil, nel pieno della
calca, ordina di chiudere la reggia e fa uscire i testimoni oculari del
delitto. Poi si procura il necessario per suturare la ferita, come se ci
fosse ancora qualche speranza residua; contemporaneamente però, nel
caso la speranza fosse venuta meno, prende altre precauzioni. Fa subito chiamare Servio,
gli mostra il corpo quasi esanime del marito e quindi,
prendendogli la mano, lo implora di non lasciare impunita la morte del suocero
né di permettere che la suocera diventi lo zimbello dei nemici. «Se sei
un uomo, Servio,» gli dice, «è a te che tocca il regno e non ai mandanti
di questo atroce delitto. Animo, quindi, e affidati agli dèi che
con quel fuoco intorno alla tua testa hanno già voluto preannunciare
la fama che ti arriderà. Adesso è l'ora di trarre forza da quella fiamma! Adesso
è ora di svegliarsi sul serio. Eravamo degli stranieri anche noi,
eppure siamo arrivati a regnare: pensa a quello che sei, non a dove sei nato.
Se per gli avvenimenti improvvisi non sai che decisione prendere, allora
dai retta ai miei consigli.» Quando il frastuono e la ressa della gente
toccarono il limite estremo della tollerabilità, Tanaquil,
affacciandosi da una finestra del piano di sopra che dava sulla via Nuova (la residenza
reale era infatti nei pressi del tempio di Giove Statore),
arringò il popolo. Invitò i sudditi a stare tranquilli rassicurandoli che il re,
stordito da un colpo a tradimento, era già tornato in sé perché il
ferro non era penetrato molto in profondità. Inoltre la ferita
era stata esaminata, l'emorragia bloccata e tutto il resto sembrava a posto.
Presto, ne era sicura, lo avrebbero potuto rivedere. Nel frattempo, le sue
disposizioni erano che obbedissero a Servio Tullio, il quale avrebbe
amministrato la giustizia e svolto tutte le mansioni del re. Servio avanza con
tanto di trabea e di littori, occupa la sedia del re ed emana verdetti a
proposito di alcuni casi, fingendo invece di dover consultare il sovrano
per altri. In questo modo, per alcuni giorni, pur essendo già
Tarquinio passato a miglior vita, egli ne nascose la morte facendosi passare per
un mero sostituto, quando invece stava consolidando il suo potere. Dopo
un po' di giorni la gente fu finalmente informata del luttuoso
evento dai pianti che si alzavano dalla reggia. Servio, protetto da una robusta
scorta, fu il primo a regnare senza il consenso popolare ma solo con
l'autorizzazione del senato. I figli di Anco, quando dopo l'arresto
dei sicari da loro prezzolati vennero a sapere che il re era ancora vivo e
che Servio godeva di così tanto favore, si erano già ritirati in
volontario esilio a Suessa Pomezia. 42 Servio, per consolidare la posizione
di autorità ottenuta, ricorse tanto a misure politiche quanto alla
sua abilità nel muoversi all'interno della sfera privata. Così, onde
evitare che l'odio nutrito dai figli di Anco nei confronti di Tarquinio
divenisse lo stesso sentimento nei suoi rapporti con la prole di Tarquinio
stesso, diede in moglie le figlie ai due giovani rampolli reali Lucio e Arrunte
Tarquinio. Ciò nonostante, con la sua dimostrazione di assennatezza,
non riuscì a infrangere l'ineluttabilità del destino:
l'invidia per il suo potere creò un clima di ostilità e perfidia tra i membri
della casa reale. Particolarmente opportuna per mantenere
lo stato di momentanea tranquillità fu una guerra intrapresa
coi Veienti (la tregua era ormai scaduta) e con altre popolazioni
etrusche. In questa guerra, Tullio brillò per coraggio e buona sorte. Una volta
sbaragliate le ingenti forze nemiche, il re ritorna a Roma, conscio
di essere ora in una posizione che non si prestava più a critiche
né da parte dei senatori né da parte del popolo. Quindi si occupa di ciò
che aveva la precedenza assoluta in campo civile: come Numa aveva codificato i
regolamenti in materia di religione, così Servio è passato ai
posteri per aver stabilito a Roma il sistema delle divisioni in classi con il quale
si differenziavano nettamente i diversi gradi di dignità sociale
e di possibilità economiche. Stabilì, cioè, il censo, cosa utilissima
per un regno destinato a enormi ampliamenti, col quale i carichi
fiscali in materia civile e militare non sarebbero più stati ripartiti
pro capite, come in passato, ma a seconda del reddito. Quindi divise la
popolazione in classi e centurie secondo questa distribuzione basata sul censo e
valida tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra. 43 Coloro i quali possedevano dai
centomila assi in su formavano ottanta centurie, quaranta di anziani e
quaranta di giovani, e andarono sotto il nome di prima classe. Gli anziani
avevano il compito di proteggere militarmente la città, i giovani
di combattere nelle guerre esterne. Il loro armamento di difesa doveva
consistere in elmo, scudo rotondo,
gambali, corazza, il tutto in bronzo; quello di offesa in lancia e
spada. A questa classe ne vennero aggiunte due
di genieri, esclusi dal servizio armato ma destinati al trasporto di
macchine da guerra. La seconda classe era composta da quanti possedevano dai
centomila ai settantacinquemila assi e contava, tra giovani e anziani,
venti centurie. Il loro armamento di base consisteva in uno scudo oblungo
al posto di quello rotondo e, salvo la corazza, era uguale in tutto
il resto. La terza classe fu stabilito che avesse un censo di
cinquantamila assi. Come la seconda, venne organizzata in venti centurie ed
ebbe la stessa suddivisione per età. Quanto invece alle armi, la
sola differenza era l'assenza dei gambali. Per appartenere alla quarta
classe bisognava avere un censo di venticinquemila assi. Stesso numero di
centurie ma armi diverse: nient'altro che asta e giavellotto. La
quinta classe era quantitativamente più numerosa: formava infatti
trenta centurie e prevedeva come armi fionde con proiettili di pietra. A essa
facevano capo anche due centurie di suonatori di corno e di trombettieri.
Il censo di questa classe doveva ammontare a undicimila assi. Chi era al
di sotto di questa cifra - cioè il resto del popolo - venne organizzato in
una sola centuria dispensata dall'assolvere agli obblighi militari.
Dopo aver così organizzato e armato la fanteria, Servio Tullio
reclutò dodici centurie di cavalieri dal fiore dell'aristocrazia cittadina. Ne
formò altre sei al posto delle tre organizzate da Romolo, mantenendo
però a esse gli stessi nomi assegnati al tempo delle consultazioni augurali. Per
l'acquisto di cavalli l'erario di Stato stanziò diecimila assi
annui per ogni centuria, mentre al mantenimento degli stessi
designò le donne non sposate le quali dovevano provvedere con duemila assi annui
ciascuna. Così tutti gli oneri fiscali venivano spostati dai poveri ai ricchi.
In séguito però venne inserita una forma di compensazione: il suffragio
universale, basato non più sull'uguaglianza di poteri e diritti,
non fu ulteriormente concesso - secondo l'uso sancito da Romolo e poi
mantenuto dai suoi successori - in maniera indistinta a tutti, ma vennero
stabilite delle priorità che, pur non privando nessuno del diritto di
voto, ciò nonostante mettevano la totalità del potere nelle mani
dei cittadini più abbienti. Per primi votavano i cavalieri, seguiti dalle
ottanta centurie della rima classe. Se c'era qualche disaccordo tra i due
gruppi (cosa assai rara), fu stabilito che in quel caso avrebbe votato la
seconda classe. Non si arrivò mai così in basso da coinvolgere le classi
subalterne. Né ci si deve stupire se il nostro attuale sistema, strutturato
dopo l'aumento del numero delle tribù a trentacinque e dopo il raddoppio
delle centurie di giovani e anziani, non corrisponde più
quantitativamente a quello varato da Servio Tullio. Egli infatti divise Roma in quattro
parti, con i quartieri e i colli allora abitati, e le chiamò
tribù facendo - secondo me - risalire il nome a tributo. Non a caso la contribuzione
proporzionale al reddito è uno dei suoi provvedimenti ancora in vigore. E
queste tribù non avevano niente a che vedere con la divisione in centurie
e col loro numero. 44 Dopo aver completato le pratiche del
censo, facilitate da una legge che minacciava l'incarcerazione e la pena
capitale per chi si fosse mostrato recalcitrante all'iscrizione, Servio
convocò un'adunata per centurie di tutti i cittadini romani, da tenersi
all'alba in Campo Marzio. Lì, di fronte all'intero esercito schierato,
offrì in sacrificio di purificazione un maiale, una pecora e un toro, e la
cerimonia prese il nome di lustro della chiusura perché era l'ultimo atto
del censimento. Si dice che in quel lustro i cittadini censiti
ammontassero a ottantamila. Fabio Pittore, uno degli storici più antichi,
aggiunge che questo era il numero degli uomini potenzialmente mobilitabili. Con
una popolazione simile, un ampliamento di Roma era inevitabile.
Così Servio aggiunge altri due colli, il Quirinale e il Viminale, amplia
l'Esquilino e, per dargli lustro, vi si trasferisce lui stesso. Dota Roma di un
terrapieno, un fossato e una cerchia muraria, estendendo così
i limiti del pomerio. Quanto poi a questa parola, chi non va più in
là dell'etimologia, la interpreta come "il tratto oltre le mura". Il senso
è invece un altro: significa "il tratto intorno alle mura", cioè
quello spazio che anticamente gli Etruschi, all'atto di fondare una città,
delimitavano in modo rigoroso per poi costruirvi le mura e quindi
consacravano con cerimonie augurali. E questo perché all'interno di esso non ci
fossero contatti tra edifici e mura (cosa che oggi è invece d'uso
comune), e all'esterno rimanesse una striscia di terra non utilizzabile
dall'uomo. Questo spazio, caratterizzato dal divieto assoluto di
costruire e di coltivare, fu chiamato pomerio dai Romani sia perché
si trova al di là del muro sia perché il muro si trova al di là
di esso. E ogni qual volta Roma conosceva degli ampliamenti urbanistici, questi
limiti consacrati subivano sempre le stesse modifiche delle mura. 45 Dopo aver incrementato il prestigio
di Roma aumentandone la superficie, dopo aver dotato i suoi sudditi di
un'organizzazione ugualmente funzionale nella sfera civile e in quella militare,
Servio, non volendo sempre ricorrere alle armi per accrescere la
propria potenza, decise di farlo seguendo la strada della diplomazia, in
maniera tale da conferire ancora più lustro alla città. Il
tempio di Diana a Efeso era già allora parecchio rinomato e la tradizione voleva fosse
stato costruito con la cooperazione delle città dell'Asia. Servio,
parlando di fronte ai nobili latini, coi quali aveva in progetto di stringere
relazioni di amicizia e ospitalità tanto sul piano ufficioso che su quello
ufficiale, disse mirabilia di una simile intesa e di una simile
condivisione di culto. Tornò così spesso sull'argomento che, alla fine, Romani e
Latini edificarono insieme a Roma un tempio in onore di Diana. La
questione se Roma fosse o meno la capitale dei dintorni - problema questo che
così tante volte era stato motivo di scontri armati - ebbe quindi una
soluzione di tacito consenso. Anche se i Latini avevano ormai smesso di
occuparsi del contenzioso per i ripetuti scacchi subiti in guerra, tuttavia a
uno dei Sabini sembrò offrirsi un'opportunità fortuita per
riottenere, grazie a un'iniziativa individuale, la supremazia perduta.
Pare che in una fattoria in terra sabina fosse nata una giovenca di
bellezza e dimensioni assolutamente fuori del comune. Un tale spettacolo
della natura che le corna furono appese nell'atrio del tempio di Diana
dove sono rimaste per intere generazioni a testimonianza
dell'evento. Si gridò al miracolo (in quanto
era un miracolo!). Gli indovini vaticinarono che chi l'avesse immolata
a Diana avrebbe automaticamente garantito
la supremazia alla sua città di appartenenza e la profezia
arrivò alle orecchie del sacerdote preposto al tempio di Diana. Il primo giorno che
parve propizio per il sacrificio, il sabino portò a Roma l'animale e
lo piazzò davanti all'altare. Lì, il sacerdote romano, colpito dalle
dimensioni di quella vittima che tanto aveva fatto parlare, ricordandosi della
profezia, disse al sabino: «Straniero, cosa credi di fare? Vorrai
mica tu, impuro come sei, fare un sacrificio a Diana? Perché non cominci
con un bagno di purificazione nell'acqua corrente? Qui in fondo alla
valle scorre il Tevere.» Lo straniero, preso dallo scrupolo e
volendo seguire il rituale canonico per mandare a effetto il prodigio, scese di
corsa al Tevere. Nel frattempo il romano immola a Diana la giovenca,
conquistandosi la gratitudine del re e del popolo tutto. 46 Servio, col tempo e con l'uso, era
ormai incontestabilmente padrone del potere. Ciò nonostante, sentendo
che il giovane Tarquinio continuava a mettere in circolazione la voce che il
suo regno non aveva avuto il beneplacito del popolo, si
conciliò prima il favore della plebe distribuendo a ciascun cittadino parte
delle terre tolte ai nemici e poi ebbe il coraggio di chiamare il popolo
a esprimere un voto di fiducia nei suoi confronti. Fu un grande successo:
mai nessun re prima di lui era stato eletto con una simile
unanimità di consensi. Nemmeno questo episodio ridusse in Tarquinio la speranza di
impadronirsi del regno. Al contrario, essendosi reso conto che la
distribuzione di terre alla plebe aveva incontrato l'opposizione dei senatori,
capì di avere la possibilità di diffamare Servio presso di loro e di
acquistare credito in senato (lui era un giovane impetuoso e di carattere
inquieto e per di più, in casa, era incitato dalla moglie Tullia).
Così anche il palazzo reale di Roma fu teatro di un tragico fatto di sangue
che accelerò, più della noia per la monarchia, l'avvento della
libertà e fece sì che l'ultimo regno fosse il prodotto di un delitto. Questo Lucio
Tarquinio - è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote di Tarquinio Prisco,
anche se la maggior parte degli storici propende per la prima tesi -
aveva un fratello, Arrunte Tarquinio, giovane dal carattere piuttosto mite.
Essi avevano sposato, come ho già detto, le due Tullie, figlie del re,
ugualmente diversissime per temperamento. Caso volle che i due
caratteri violenti non fossero finiti insieme (immagino perché la buona
stella del popolo romano volle prolungare il regno di Servio e
permettere che si consolidassero i fondamenti morali della
società). La più arrogante delle figlie di Tullio non poteva darsi pace che il marito non
avesse un briciolo di ambizione e intraprendenza. Di qui il suo essere
tutta occhi e parole di ammirazione per l'altro Tarquinio, da lei definito
un vero uomo e un autentico rampollo di re. Di qui pure il suo
disprezzo per la sorella, a sua detta
responsabile di appiattire il marito con una totale assenza di
iniziativa femminile. Presto, come sempre succede,
l'affinità reciproca li avvicinò, dato che il male può solo
attirare il male, anche se però fu la donna la responsabile prima di tutto l'intrigo.
Quest'ultima cominciò a vedersi in segreto col cognato e, durante questi
incontri, non si esimeva dall'insultare il proprio marito (con
il fratello di lui) e la propria sorella (con il marito di lei). Il punto
su cui batteva di più era questo: per lei sarebbe stato meglio essere
senza marito e per il cognato sarebbe stato meglio essere celibe piuttosto
che stare con persone di livello inferiore e vedersi costretti a
languire per loro ignavia. Se gli dèi le avessero fatto sposare l'uomo che
meritava, non ci avrebbe messo molto a vedere nella sua casa il potere reale
che ora vedeva in quella del padre. Si affretta così a instillare
nel cuore del giovane l'audacia del suo progetto. Grazie a due decessi a catena
ebbero via libera in casa per celebrare un nuovo matrimonio. Servio
non si oppose alle nozze, ma non diede neppure il suo consenso. 47 Da quel momento in poi la vecchiaia
e il regno di Tullio furono di giorno in giorno sempre più in
pericolo. Infatti, quella donna, dopo il primo delitto, non vedeva l'ora di
commetterne un secondo e toglieva il fiato al marito giorno e notte perché
non voleva che i suoi precedenti crimini rimanessero fini a se stessi.
Non le era certo mancato l'uomo di cui si potesse dire che lei era la
moglie e la rassegnata compagna di sottomissione. Le era mancato un uomo
che si ritenesse degno del trono, che si ricordasse di esser figlio di
Tarquinio Prisco e che preferisse avere il potere piuttosto che sperare
di averlo. «Se sei tu l'uomo che io credo di aver sposato, allora ti chiamo
marito e re. Se non lo sei, allora vuol dire che mi è andata di
male in peggio perché in te oltre all'ignavia c'è anche la delinquenza. Perché
non ti muovi? Non vieni mica da Tarquinia o da Corinto, come tuo padre, né devi
andarti a conquistare un trono in terra straniera. Gli dèi di casa
e della patria, il ritratto di tuo padre, il palazzo reale e il trono che vi si
trova all'interno, il nome Tarquinio, ogni cosa ti vuole e ti
chiama re. E se poi non hai abbastanza fegato, perché mai inganni la gente?
Perché lasci che guardino a te come a un erede al trono? Tornatene a
Tarquinia o a Corinto, risali i rami del tuo albero genealogico, visto che sei
più della pasta di tuo fratello che non di quella di tuo padre.» Questo
più o meno il sarcasmo con cui istigava il giovane. Una cosa invece non le
dava pace: com'era possibile
che Tanaquil, pur essendo una straniera, fosse riuscita a brigare
tanto da far salire al trono, uno dopo l'altro,
prima il marito e poi il genero, e invece lei che era figlia di un re
contava meno di zero negli stessi giochi di potere ? Tarquinio, istigato
dai furori della moglie, cominciò ad andare in giro in cerca di appoggio,
specialmente presso i senatori del secondo ordine, ai quali, ricordando il
gesto generoso del padre, faceva presente che era venuto il momento di
ricambiarlo. Riempiva di regali i giovani. Così, sia grazie alle
grandi promesse, sia grazie alla pessima pubblicità che faceva al re, la
sua posizione acquistava credibilità a tutti i livelli. Alla fine, quando gli
sembrò fosse tempo di agire, fece irruzione nel foro scortato da un
drappello di armati. Quindi, nello sbalordimento generale, prese posto sul
trono di fronte alla curia e, tramite un araldo, fece comunicare ai
senatori che si presentassero in senato al cospetto del re Tarquini.
Essi arrivarono subito: alcuni già preparati alla cosa, altri temendo di
incappare in spiacevoli conseguenze mancando all'appuntamento, tutti
però sconcertati dalla novità senza precedenti e convinti che Servio fosse
finito. Tarquinio allora, andando molto indietro nel tempo, accusò
Servio di essere uno schiavo figlio di una schiava il quale, dopo la morte
indegna di suo padre, era salito al trono grazie al regalo di una donna e
non aveva rispettato la tradizione (e cioè l'interregno, la
convocazione dei comizi, il voto del popolo e la ratifica dei senatori). Con un simile
albero genealogico e con una simile carriera politica alle spalle, aveva
favorito le classi più abiette della società - cioè quelle
dalle quali proveniva -, e per l'odio nei confronti di una classe alla quale non
apparteneva, aveva tolto le proprietà terriere ai notabili per darle alla
plebaglia. Gli oneri fiscali prima equamente distribuiti li aveva
addossati nella loro totalità sulle spalle dei più abbienti. Aveva
istituito il censo per convogliare l'invidia sulle fortune dei ricchi e per averle a
portata di mano quando decideva di fare generose elargizioni ai nullatenenti. 48 Servio, svegliato di soprassalto da
un messaggero, arrivò nel bel mezzo di questa tirata e, dall'ingresso della
curia, gridò fortissimo: «Che razza di storia è questa,
Tarquinio? Avere il coraggio, con me vivo, di convocare i senatori e di sederti sul
mio trono?» La risposta di Tarquinio fu estremamente insolente. Disse che
stava occupando il trono di suo padre, trono che era di gran lunga
preferibile finisse in mano all'erede legittimo (cioè lui in persona)
piuttosto che a uno schiavo e che Servio aveva già insultato e preso in
giro abbastanza i suoi padroni. Seguirono urla di consenso e di approvazione.
Intanto la gente stava affluendo in massa sul posto ed era chiaro che il
potere sarebbe andato al vincitore di quel giorno. Allora Tarquinio,
costretto dalla situazione a giocarsi il tutto per tutto, favorito
dall'età e dalla maggiore vigoria fisica, afferrò Servio all'altezza della
vita, lo sollevò da terra e, trascinandolo fuori, lo
scaraventò giù dalle scale. Quindi rientrò nella curia per evitare che i senatori si
sparpagliassero. La scorta e il séguito del re se la diedero a gambe.
Quanto poi al re stesso, mentre quasi in fin di vita stava rientrando a
palazzo senza il suo séguito abituale, fu raggiunto e assassinato
dai sicari di Tarquinio, i quali lo avevano pedinato. Sembra (e non stride poi
troppo coi suoi precedenti delinquenziali) che la cosa porti la
firma di Tullia. Su questo, invece, non ci sono dubbi: ella, arrivata in
senato col suo cocchio, per niente intimorita dalla gran massa di persone,
chiamò fuori dalla curia il marito e fu la prima a conferirgli il titolo
di re. Tarquinio la pregò di allontanarsi da quel trambusto
pericoloso. Allora Tullia, quando sulla via di casa arrivò in cima alla via
Cipria (dove non molto tempo fa c'era il santuario di Diana), ordinò di
piegare verso il Clivo Urbio e di portarla all'Esquilino. In quel momento il
cocchiere bloccò la vettura con un colpo secco di redini e, pallido come uno
straccio, indicò alla padrona il cadavere di Servio abbandonato per
terra. Tradizione vuole che in quel luogo fu consumato un atto orrendo e
disumano di cui la strada serba memoria nel nome (si chiama infatti via
del Crimine): pare che Tullia, invasata dalle Furie vendicatrici della
sorella e del marito, calpestò col cocchio il corpo del padre. Quindi,
piena di schizzi lei stessa, ripartì sulla vettura che grondava sangue dopo
quell'orrore commesso sul cadavere del padre, e si diresse a casa dove i
penati suoi e del marito, adirati per il tragico esordio del regno,
fecero sì che esso avesse una conclusione analoga. Servio Tullio regnò
quarantaquattro anni e anche per un successore buono e moderato sarebbe stato arduo emularne
la rettitudine. E poi, ad accrescere ulteriormente i suoi meriti, c'era
anche questo motivo: con lui tramontava la figura del monarca giusto e
legittimo. Inoltre, per quanto moderato e mite il suo regno potesse essere stato,
era pur sempre il governo di un singolo. Per questo alcuni autori
affermano che egli avrebbe avuto intenzione di rinunciarvi, se la
delinquenza di un parente non si fosse sovrapposta al progetto di concedere la
libertà al suo popolo. 49 Da allora ebbe inizio il regno di
Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua condotta. E a buon
diritto, visto che, pur essendone il genero, non concesse a Servio la
sepoltura sostenendo che anche Romolo non l'aveva avuta, e fece eliminare i
senatori più importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per Servio.
Poi, rendendosi conto che l'indebita ascesa al trono avrebbe
potuto diventare un precedente sfruttabile da altri nei suoi stessi
confronti, si circondò di guardie del corpo. In effetti, l'unico diritto al
trono che aveva era la forza, dato che stava regnando non solo senza il
consenso del popolo ma anche senza ratifica del senato. In più si
aggiungeva che, non potendo contare in alcun modo sull'aiuto dei cittadini,
era costretto a salvaguardare il proprio potere col terrore. E per
renderlo un sentimento diffuso, cominciò a istruire da solo, senza l'aiuto di
consiglieri legali, le cause per delitti capitali: ne approfittava
così per condannare a morte, per mandare in esilio, e per confiscare i beni non
solo di chi era sospettato o malvisto, ma anche di chi poteva
rappresentare una qualche opportunità di bottino. Soprattutto per questo, dopo
aver decimato il numero dei senatori, stabilì che non se ne
eleggessero altri, in modo tale da screditare l'ordine per l'inconsistenza
degli effettivi e ridurne al massimo le eventuali rimostranze per la
totale esclusione dalla gestione del potere. Tutti i suoi predecessori
si erano sempre attenuti alla regola tradizionale di consultare il senato in
ogni occasione: Tarquinio il Superbo fu il primo a rompere con questa
consuetudine e resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di
famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a
suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai consultare il
popolo e i senatori. Cercava soprattutto di procurarsi l'amicizia
dei Latini, perché l'appoggio straniero gli desse maggiore sicurezza
in patria. Con la loro aristocrazia non stabiliva soltanto rapporti di
ospitalità, ma organizzava anche matrimoni. Al tuscolano Ottavio Mamilio
- di gran lunga il più rappresentativo tra i Latini e, se si
presta fede alla leggenda, discendente di Ulisse e della dea Circe
- diede in moglie la figlia e, grazie a questo matrimonio, si
legò con molti amici e parenti di lui. 50 Tarquinio vantava già una
posizione di grande influenza presso i nobili latini, quando decise di convocarli un
giorno preciso presso il bosco di Ferentina, sostenendo di voler
discutere alcuni problemi di comune interesse. Alle prime luci dell'alba i
Latini affluiscono in massa. Da parte sua Tarquinio, pur rispettando la
data, si presentò solo poco prima del tramonto. Per tutta la durata del
giorno, i partecipanti all'assemblea avevano parlato a lungo di vari argomenti.
Turno Erdonio di Aricia aveva inveito violentemente contro Tarquinio,
dicendo che non era poi tanto strano che a Roma lo avessero
soprannominato il Superbo (nome questo ormai sulla bocca di tutti, anche se ancora
circoscritto alla sfera clandestina del sussurro). Oppure c'era qualcosa di
più superbo che prendere in giro il popolo latino in quella maniera ?
Farne venire i capi così lontano dai loro paesi e poi disertare la riunione
da lui stesso convocata? Era chiaro che voleva mettere alla prova la loro
pazienza e poi, una volta constatato che si lasciavano mettere facilmente i
piedi in testa, avrebbe abusato della loro sottomissione. A chi poteva
infatti sfuggire che il piano di Tarquinio era ridurre i Latini in suo
potere? Se i suoi sudditi avevan fatto bene ad affidarglielo, o se gli
era stato affidato e non era il prodotto di un orrendo delitto, stessa
cosa avrebbero dovuto fare i Latini, e neppure in questo caso si
sarebbe trattato di uno straniero. Ma se i Romani non ne potevano più
di lui, delle esecuzioni a catena, degli esili, delle confische di beni, i
Latini potevano forse sperare in qualcosa di meglio una volta nella
stessa situazione? Se volevano dare retta a lui, Turno, ciascuno avrebbe
dovuto tornarsene a casa rispettando la data della riunione con la stessa
precisione di chi l'aveva organizzata. Mentre il turbolento e facinoroso
Turno, che doveva proprio a tali caratteristiche la posizione di
grande rilievo occupata tra le genti latine, dissertava su questi argomenti,
ecco che arrivò Tarquinio. Tutti si voltarono a salutarlo. Venne fatto
silenzio e il re, invitato dai più vicini a fornire spiegazioni circa il
ritardo con cui si era presentato, disse di esser stato scelto come
arbitro in una disputa tra padre e figlio e di aver fatto trdi per il desiderio
di riconciliare i due litiganti. Quindi, dato che il giorno se ne era
andato in quella bega, rimandò la riunione al mattino successivo. Pare
che Turno non accettò nemmeno questo senza replicare e sentenziò che
non c'era niente di più facile da sistemare che un litigio tra padre e
figlio; bastavano infatti due parole: o il figlio obbedisce al padre, o
peggio per lui. 51 Con questo sarcasmo diretto al re di
Roma, il cittadino di Aricia abbandona l'assemblea. Tarquinio,
incassando l'affronto peggio di quanto desse a vedere, inizia subito a cercare
il modo per togliere di mezzo Turno, in maniera tale da ispirare nei
Latini lo stesso terrore col quale in patria aveva oppresso gli animi dei
suoi sudditi. E poiché non era nella posizione di eliminare il suo
uomo di fronte agli occhi di tutti, lo schiacciò escogitando una falsa
accusa che in realtà non aveva nulla a che vedere con lui. Grazie ad alcuni
rappresentanti del partito all'opposizione di Aricia,
riuscì a corrompere uno schiavo di Turno affinché lasciasse introdurre di
nascosto una grande quantità di armi nella casa del padrone. Dato che
bastò una notte per sistemare la cosa, Tarquinio, poco prima dell'alba, convocò
in sua presenza i capi latini e, fingendo di aver ricevuto qualche
notizia allarmante, disse loro che il ritardo del giorno prima era stato
provvidenziale e aveva salvato loro e lui stesso. Infatti c'era stata una
denuncia: Turno voleva eliminare lui e i capi più in vista del popolo
latino per impadronirsi del potere assoluto. L'attentato avrebbe dovuto
essere messo in pratica il giorno precedente durante l'assemblea, ma poi
era stato rimandato per l'assenza del bersaglio principale, cioè
l'ideatore del raduno. Di lì la violenta invettiva di Turno contro l'assente, il
cui ritardo ne aveva deluso le speranze. Tarquinio aggiunse di esser
sicuro che, se l'informazione ricevuta corrispondeva a verità,
Turno, quando alle prime luci dell'alba essi si fossero radunati per
l'assemblea, si sarebbe presentato con una banda di cospiratori armati fino ai
denti. Gli avevano anche riferito, aggiunse, che a casa di Turno era stata
trasportata una grande quantità di spade. E la fondatezza di
quell'informazione si poteva verificare subito: bastava andassero con lui a casa di
Turno. L'accusa sembrava veramente plausibile: vuoi l'aggressività
di Turno nell'invettiva del giorno prima, vuoi il ritardo di Tarquinio che dava
veramente l'impressione di aver fatto saltare l'attentato. Sta di fatto
che si avviano disposti a credere alla storia, ma nel contempo pronti a
considerarla tutta una montatura nel caso non ci fosse stata traccia delle
spade. Arrivati a destinazione, svegliano di soprassalto Turno e lo
fanno guardare a vista. Quando poi, immobilizzati gli schiavi che si
preparavano a fare resistenza per attaccamento al padrone, cominciarono a
tirar fuori spade su spade da ogni angolo della casa, non ci fu più
nessun dubbio: Turno fu incatenato e nel gran trambusto venne subito convocata
un'assemblea di tutti i Latini. Lì, le spade piazzate nel bel mezzo
suscitarono un tale risentimento che Turno, senza nemmeno poter perorare la
propria causa, fu sottoposto a un supplizio senza precedenti: lo fecero
annegare immergendolo nella sorgente Ferentina con sopra la testa un
graticcio coperto di sassi. 52 Tarquinio quindi riconvocò i
Latini in assemblea e si complimentò con loro per la fermezza con cui avevano
inflitto a Turno, autore di un progettato colpo di stato, la giusta
pena per il suo evidente reato. Poi affermò di potersi basare su un
diritto molto antico per sostenere che tutti i Latini, essendo originari di
Alba, rientravano nelle clausole di quel trattato dei tempi di Tullo col
quale l'intera nazione albana e le sue colonie erano state annesse a Roma.
Rinnovare quel trattato sarebbe stato un grosso vantaggio: più
che altro - questo il suo pensiero - i Latini avrebbero partecipato dei
successi del popolo romano, senza dover sempre rischiare o subire distruzioni e
devastazioni di campagne com'era successo durante il regno di Anco e
durante quello di suo padre Tarquinio Prisco. Non fu difficile persuadere i
Latini anche se il trattato favoriva nettamente Roma. Inoltre, non solo i
capi latini erano dalla parte del re e ne condividevano i punti di vista, ma
proprio poco prima Turno aveva fornito loro una dimostrazione di cosa
poteva toccare a chiunque avesse avuto in mente di opporsi. Il trattato
venne così rinnovato e una delle clausole prevedeva che i giovani latini
si presentassero il tal giorno armati di tutto punto nel bosco di Ferentina.
Seguendo le disposizioni del re di Roma, essi si concentrarono dai
diversi paesi di provenienza. Tarquinio, allora, per evitare che ogni
gruppo avesse un proprio capo, un comando separato e insegne diverse
dagli altri, creò manipoli misti di Latini e Romani con questo criterio: ne
organizzò uno sommandone due e due dividendone uno. A capo dei manipoli
così sdoppiati nominò dei centurioni. 53 Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi
sudditi, ma abbastanza un buon generale quando si trattò di
combattere. Anzi, in campo militare avrebbe raggiunto il livello di quanti lo
avevano preceduto sul trono, se la sua degenerazione in tutto il resto non
avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a iniziare coi Volsci una guerra
destinata a durare due secoli, e tolse loro con la forza Suessa Pomezia.
Ne vendette il bottino e coi quaranta talenti d'argento ricavati
concepì la costruzione di un tempio di Giove le cui dimensioni sarebbero state
degne del re degli dèi e degli uomini, nonché della potenza romana e
della sua stessa posizione maestosa. Il denaro proveniente dalla presa di Suessa
fu messo da parte per la costruzione del tempio. In séguito si impegnò in una
guerra più lunga del previsto con la vicina città di Gabi. Infatti tentò
prima una fallimentare soluzione di forza; poi, respinto anche da sotto le mura
dopo averne cercato l'assedio, alla fine ricorse a un espediente poco in
sintonia con lo spirito romano, cioè l'astuzia dolosa e fraudolenta. Mentre
dava a vedere di aver perso interesse nella guerra per concentrarsi
sulla fondazione del tempio e su altre opere di natura urbanistica,
Sesto, il più giovane dei suoi tre figli, con un preciso piano, riparò
a Gabi lamentandosi del trattamento eccessivamente crudele riservatogli dal
padre. Lì raccontò che quest'ultimo, dopo i sudditi, aveva
adesso iniziato a tormentare i figli, che a sua detta erano fastidiosamente
numerosi, e a cercare di riprodurre in casa il deserto che aveva fatto in
senato, in modo tale da non lasciare né discendenti né un qualche erede al
trono. Quanto a lui, sfuggito alle spade e ai pugnali del padre, era
convinto che in nessun posto sarebbe stato così al sicuro come presso
i nemici di Lucio Tarquinio. Circa la guerra che sembrava esser stata
abbandonata, avevano poco da illudersi: era tutta una finta e, da un momento
all'altro, lui li avrebbe attaccati quando meno se lo aspettavano. Se poi
presso di loro non c'era posto per un supplice, allora avrebbe
attraversato tutto il Lazio e quindi si sarebbe rivolto ai Volsci, agli Equi e
agli Ernici, finché non avesse trovato gente disposta a proteggere un
figlio dalle torture e dalle crudeltà inflittegli dal padre.
Può darsi anche che avrebbe trovato gli stimoli per andare a combattere il
più tirannico dei re e il più insolente dei popoli. Poiché era chiaro che, se
avessero titubato, il giovane, infuriato com'era, se ne sarebbe andato,
i Gabini gli diedero il benvenuto. Gli dissero di non
meravigliarsi se il padre si era comportato coi figli nello stesso modo che coi
sudditi e con gli alleati: avrebbe finito col rivolgere la propria
crudeltà contro se stesso, una volta esaurito ogni bersaglio. Da parte loro,
erano comunque contenti della sua venuta e confidavano, anche col suo
aiuto, di spostare in breve tempo il teatro delle operazioni di guerra dalle
porte di Gabi alle mura di Roma. 54 In séguito Sesto fu ammesso alle
riunioni di governo, durante le quali, sul resto delle questioni, si
professava dello stesso avviso degli anziani di Gabi per la loro maggiore
esperienza. Da parte sua, invece, non faceva che parlare di guerra e sosteneva di
esserne un grande esperto in quanto conosceva le forze dei due popoli e
sapeva che Tarquinio aveva raggiunto un punto tale di arroganza che non solo
i cittadini ma i figli stessi non riuscivano più a tollerarlo.
Così, con questa tecnica, riuscì piano piano a convincere i capi di Gabi a riaprire
le ostilità. Avrebbe guidato lui in persona delle azioni di guerriglia con
un gruppo di giovani particolarmente coraggiosi. Calcolando
perfettamente ogni cosa che faceva e diceva, riuscì a incrementare
a tal punto la malriposta fiducia nella sua persona, che alla fine gli
affidarono il comando in capo delle operazioni. Siccome il popolo ignorava
quel che stava realmente succedendo e le prime scaramucce tra Romani e Gabini
vedevano quasi sempre prevalere questi ultimi, allora tutti, senza
distinzioni di classe, cominciarono a credere che Sesto Tarquinio fosse
l'uomo mandato dal cielo per guidare le loro truppe. E i soldati, vedendo che
egli era sempre disposto a condividere rischi e fatiche ed era
oltremodo generoso nella spartizione del bottino, gli si affezionarono a tal
punto che non era meno potente lui a Gabi di quanto suo padre Tarquinio lo
fosse a Roma. E così, quando Sesto capì di essere abbastanza forte
per affrontare qualsiasi impresa, mandò a Roma un suo uomo per chiedere al padre
cosa dovesse fare, visto che a Gabi
gli dèi gli avevano concesso di esser padrone incontrastato
della situazione politica. Al messaggero -
suppongo per la scarsa fiducia che ispirava - non venne affidata una
risposta a voce. Il re, dando a vedere di essere perplesso, si spostò
nel giardino del suo palazzo e l'inviato del figlio gli andò dietro.
Lì, passeggiando avanti e indietro in silenzio, pare che il re si mise a
decapitare i papaveri a colpi di bacchetta. Il messaggero, stanco di
fare domande senza ottenere risposte, ritornò
a Gabi convinto di non aver compiuto la missione. Lì riferì
ciò che aveva detto e ciò che aveva
visto: il re, fosse per ira, per insolenza o per naturale disposizione
all'arroganza, non aveva aperto bocca. Sesto, appena gli fu chiaro a cosa il padre
volesse alludere con quei silenzi sibillini, eliminò i capi della
città, accusandone alcuni davanti al popolo, e con altri facendo leva
sull'impopolarità che si erano acquistati da soli. Per molti ci fu l'esecuzione
sotto gli occhi di tutti. Certi invece, più difficili da mettere
sotto accusa, vennero assassinati di nascosto. Altri ebbero il permesso di
lasciare il paese o vennero esiliati. Le proprietà di tutti,
morti o esiliati, subirono la stessa sorte: vennero confiscate e quindi
distribuite in una corsa sfrenata all'accaparramento. Badando quindi solo
all'interesse particolare, la gente perse il senso del disastro in
cui la città era franata. Finché un bel giorno, rimasta priva di una
direzione e di risorse, Gabi si onsegnò nelle mani del re di Roma senza opporre
resistenza. 55 Dopo essersi impadronito di Gabi,
Tarquinio fece pace con gli Equi e rinnovò il trattato con gli
Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di edilizia urbana. Il primo era il tempio
di Giove sul monte Tarpeio: sarebbe stato un monumento immortale al
suo regno e al suo nome, e avrebbe ricordato che dei due Tarquini -
entrambi re -, prima il padre aveva fatto il voto di costruirlo e poi il figlio
lo aveva portato a compimento. E perché la zona venisse liberata da ogni
precedente traccia di culto e dedicata esclusivamente a Giove e al
suo tempio, ordinò di sconsacrare quelle cappelle e quei santuari che
erano stati in un primo tempo dedicati agli dèi da Tazio nei momenti
decisivi della battaglia contro Romolo e che in séguito erano stati consacrati e
inaugurati. Proprio all'inizio dei lavori, tradizione vuole che gli dèi
inviassero un segno per indicare la grandezza di quel potente regno.
Infatti, mentre gli uccelli diedero il via libera alla sconsacrazione di tutti
gli altri santuari, la stessa cosa non successe per quello di Termine. Il
presagio augurale fu interpretato in questo modo: visto che il tempio di
Termine rimaneva al suo posto ed era l'unica tra tutte le
divinità a non essere allontanata dallo spazio a essa consacrato, ciò significava
stabilità e solidità per lo Stato. Una volta ricevuto questo presagio di
durata, ne seguì un altro che annunciava la grandezza dell'impero. Pare che
durante gli scavi delle fondamenta del tempio venisse portata alla luce una
testa di uomo con i lineamenti della faccia intatti. Il ritrovamento parlava
chiaro: quel punto sarebbe diventato la cittadella dell'impero e
la capitale del mondo. Questa fu l'interpretazione degli indovini, sia
dei locali, sia di quelli fatti arrivare dall'Etruria per pronunciarsi
sulla cosa. Nella mente del re c'era ormai spazio
solo per le spese pubbliche: così, il ricavato del bottino di Pomezia,
destinato a coprire la costruzione dell'intero edificio, bastò
appena a pagare le fondamenta. Questo perché la mia fonte è nel caso presente
Fabio, che è più antico, e secondo il quale il bottino fu soltanto di
quaranta talenti, e non Pisone che invece parla di quarantamila libbre di pesante
argento stanziate per l'opera. Una simile somma non è pensabile la
si potesse all'epoca ricavare dal bottino di una sola città e non esiste
edificio, neppure oggi come oggi, le cui fondamenta arrivino a costare
così care. 56 Nel desiderio di portare a termine la costruzione del tempio,
Tarquinio, dopo aver fatto venire operai da tutta l'Etruria, attinse non
solo ai fondi di Stato stanziati per questo progetto, ma ricorse anche
alla mano d'opera della plebe. Non era certo un lavoro da poco e in
più c'era il servizio militare. Tuttavia, ai plebei pesava meno dover costruire i
templi degli dèi con le proprie mani che essere impiegati, come poi in
séguito successe, in lavori meno spettacolari ma molto più
sfibranti (come la costruzione dei sedili del Circo o quella, da realizzarsi sotto
terra, della Cloaca Massima, ricettacolo di tutto il liquame della
città, opere queste al cui confronto la grandiosità dei giorni nostri
ha ben poco da contrapporre). Dopo aver impegnato la plebe in queste grandi
costruzioni, Tarquinio, pensando che una popolazione numerosa se disoccupata
sarebbe stata per Roma un peso morto, e volendo nel contempo ampliare
i confini del suo regno con la deduzione di colonie, inviò coloni
a Signa e Circei per farne un giorno dei bastioni di Roma sulla terra e sul
mare. Nel bel mezzo di queste iniziative, si
assistette a un prodigio tremendo: da una colonna di legno sbucò
fuori un serpente che gettò nel panico il palazzo reale. Quanto al re, la sua
reazione non fu di improvviso terrore ma di ansia e preoccupazione. Per i
prodigi di carattere pubblico Tarquinio consultava soltanto gli
indovini etruschi. Ma in questo caso, spaventatissimo
da un fenomeno che sembrava interessare la sua casa, stabilì che fosse interrogato
l'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo. Non osando però affidarne a
nessun altro il responso, mandò due dei suoi figli in Grecia attraverso terre a quel
tempo ignote e attraverso mari ancora più ignoti. Tito e Arrunte
partirono. Al loro séguito si imbarcò anche Lucio Giunio Bruto, figlio di
Tarquinia, sorella del re, giovane dal carattere completamente diverso da
quello che dava a vedere. Quando era venuto a sapere che i personaggi
più in vista della città, e tra questi suo fratello, erano stati eliminati
dallo zio, aveva deciso di rinunciare a ogni atteggiamento e a ogni successo
economico che avrebbero potuto innervosire il re o suscitarne
l'invidia, e si era risolto a cercare la sicurezza nel disprezzo, visto che la
giustizia offriva ormai ben poca protezione. Così, facendo
apposta l'imbecille e lasciando che il re disponesse liberamente della sua persona e
delle sue sostanze, non aveva rifiutato nemmeno il soprannome di
Bruto, per mascherare il grande coraggio che, una volta scoccata l'ora
fatale, lo avrebbe spinto a liberare il popolo romano. Era lui che
i Tarquini si portavano a Delfi, più come una spassosa macchietta
che come un compagno di viaggio: pare che il suo dono ad Apollo consistesse in un
bastone d'oro racchiuso in un altro di corno che era stato scavato
proprio con quell'intento, a rappresentazione simbolica del suo
carattere. Una volta arrivati a Delfi e compiuta la missione per conto del
padre, i giovani furono presi dal desiderio insopprimibile di sapere a
chi di loro sarebbe toccato il regno di Roma. Pare che dal profondo
dell'antro si sentì una voce pronunciare le seguenti parole: «A Roma
regnerà, o giovani, il primo di voi che darà un bacio a sua madre.» I Tarquini, per far
sì che Sesto, rimasto a Roma, non venisse a sapere del responso e
restasse così tagliato fuori dal potere, impongono il segreto più
assoluto sull'episodio. Di comune accordo lasciano che la sorte decida chi, una
volta a Roma, bacerà per primo la madre. Bruto pensò invece che il
responso della Pizia avesse un altro significato: per questo, facendo finta
di scivolare, cadde a terra e vi appoggiò le labbra, considerando
la terra madre comune di tutti i mortali. Quindi rientrarono a Roma, dove
fervevano i preparativi per una guerra contro i Rutuli. 57 Ardea apparteneva ai Rutuli, popolo
che in quella regione e in quell'epoca spiccava per le sue
ricchezze. La vera causa della guerra fu questa: il re di Roma, dopo essersi svenato
con la sontuosità dei suoi progetti urbanistici, contava di
riassestare il proprio bilancio e, nel contempo, facendo del bottino sperava
di placare gli animi della gente, esacerbati non soltanto dalla sua
ferocia, ma incapaci di perdonargli di essere stati così a lungo
impegnati in lavori faticosi e servili. Si tentò di
prendere Ardea al primo assalto. Visto il fallimento del tentativo, i Romani scelsero la via dell'assedio e
scavarono una trincea intorno alla città nemica. In questa guerra
di posizione, come sempre accade quando si tratta di una guerra più lunga
che aspra, le licenze erano all'ordine del giorno, anche se ne beneficiavano
più i capi che la truppa. I figli del re, tanto per fare un esempio,
ammazzavano il tempo spassandosela in festini e bevute. Un giorno, mentre
stavano gozzovigliando nella tenda di Sesto Tarquinio e c'era anche Tarquinio
Collatino, figlio di Egerio, il discorso cadde per caso sulle mogli e
ciascuno prese a dire mirabilia della propria. La discussione si
animò e Collatino affermò che era inutile starne a parlare perché di lì a
poche ore si sarebbero resi conto che nessuna poteva tener testa alla sua
Lucrezia. «Giovani e forti come siamo, perché non saltiamo a cavallo e andiamo
a verificare di persona la condotta delle nostre spose? La prova
più sicura sarà ciò che ciascuno di noi vedrà all'arrivo inaspettato
del marito». Infiammati dal vino, urlarono tutti: «D'accordo, andiamo!»
Un colpo di speroni al cavallo e volano a Roma. Arrivarono alle prime
luci della sera e di lì proseguirono alla volta di Collazia, dove trovarono
Lucrezia in uno stato completamente diverso da quello delle nuore del re
(sorprese a ingannare l'attesa nel pieno di un festino e in compagnia di
coetanei): nonostante fosse notte fonda, Lucrezia invece era seduta nel
centro dell'atrio e stava trafficando intorno alle sue lane
insieme alle serve anche loro indaffarate. Si aggiudicò
così la gara delle mogli. All'arrivo di Collatino e dei Tarquini, li accoglie
con estrema gentilezza e il marito vincitore invita a cena i giovani
principi. Fu allora che Sesto Tarquinio, provocato non solo dalla bellezza ma
dalla provata castità di Lucrezia, fu preso dalla insana smania di averla a
tutti i costi. Poi, dopouna notte passata a godersi le gioie della
giovinezza, rientrarono alla base.
58 Qualche giorno dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino,
andò a Collazia con un solo compare. Lì
fu accolto ospitalmente perché nessuno era al corrente dei suoi progetti.
Finita la cena, si andò a coricare nella camera degli ospiti. Invasato
dalla passione, quando capì che c'era via libera e tutti erano nel primo
sonno, sguainata la spada andò nella stanza di Lucrezia che stava dormendo:
la immobilizzò con la mano puntata sul petto e disse: «Lucrezia, chiudi la
bocca! Sono Sesto Tarquinio e sono armato. Una sola parola e sei morta!»
La povera donna, svegliata dallo spavento, capì di essere a un
passo dalla morte. Tarquinio cominciò allora a dichiarare il suo amore, ad alternare
suppliche a minacce e a tentarle tutte per far cedere il suo animo di
donna. Ma vedendo che Lucrezia era irremovibile e non cedeva nemmeno di
fronte all'ipotesi della morte, allora aggiunse il disonore
all'intimidazione e le disse che, una volta morta, avrebbe sgozzato un servo e
glielo avrebbe messo nudo accanto, in modo che si dicesse che era stata
uccisa nel degrado più basso dell'adulterio. Con questa spaventosa
minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per così dire, la meglio
sull'ostinata castità di Lucrezia. Quindi, fiero di aver violato l'onore di una
donna, ripartì. Lucrezia, affranta dalla grossa disavventura capitatale,
manda un messaggero al padre a Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di
venire da lei, ciascuno con un amico fidato, e di non perdere tempo
perché era successa una cosa spaventosa. Arrivarono così
Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio Giunio
Bruto (questi ultimi stavano per caso rientrando a Roma quando si erano
imbattuti nel messaggero inviato da Lucrezia). La trovano seduta nella sua
stanza e immersa in una profonda tristezza. Alla vista dei congiunti,
scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: «Tutto bene?» Lei gli
risponde: «Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo
letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio
corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia
morte. Ma giuratemi che l'adutero non rimarrà impunito. Si tratta di
Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo
ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete
uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a
lui.» Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi
argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione
abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non
è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si
può parlare di colpa. Ma lei replica: «Sta a voi stabilire quel che
si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che
non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo
l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!» Afferrato il coltello che
teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi
sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre. 59 Bruto, mentre gli altri erano in
preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e, brandendolo
ancora stillante di sangue, disse: «Su questo sangue, purissimo prima che
un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo voi a testimoni, o dèi,
che di qui in poi perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e la sua
scellerata moglie e tutta la sua stirpe col ferro e col fuoco e con qualunque
mezzo mi sarà possibile e non permetterò che né loro né nessun
altro regni più a Roma.» Quindi passa il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e
a Valerio, tutti sbalorditi dall'incredibile evento e incapaci di
stabilire da dove Bruto prendesse tutta quella veemenza. Giurano com'era
stato loro ordinato e, passati dal dolore alla rabbia, appena Bruto li
invita a scagliarsi immediatamente contro il potere reale, non esitano a
seguirlo come loro capo. Quindi trascinano fuori di casa il
cadavere di Lucrezia e lo adagiano in pieno foro dove piano piano si accalca
la gente, attratta, come di consueto, dalla stranezza della cosa e
in più dalla sua nefandezza. Tutti si scagliano indignati contro la
violenza criminale del principe. La loro commozione nasceva dalla tristezza del
padre ma anche da Bruto che li invitava a smetterla con tutti quei
pianti e li esortava a esser degni del proprio nome di uomini e di Romani e a
prendere le armi contro chi aveva osato trattarli come nemici. I giovani
più coraggiosi si armano e si offrono volontari, seguiti subito da
tutto il resto della gioventù. Quindi, lasciato il padre di Lucrezia a
guardia di Collazia e piazzate delle sentinelle per evitare che
qualcuno andasse a riferire dell'insurrezione alla famiglia reale,
il resto delle truppe fa rotta su Roma agli ordini di Bruto. Una volta
lì, questa moltitudine armata semina dovunque il panico e lo sconcerto al
suo passaggio. Ancora una volta, però, vedendo che alla testa
c'erano i personaggi più in vista della città, l'opinione generale fu
che, qualunque cosa stessero facendo, non poteva trattarsi di un'iniziativa
sconsiderata. L'atroce episodio suscita a Roma non meno commozione di quanta ne
avesse suscitata a Collazia e da ogni parte della città la gente
si riversa nel foro. Una volta lì, un messo convocò il popolo di
fronte al tribuno dei Celeri, magistratura tenuta casualmente in quel periodo
proprio da Bruto. Egli allora pronunciò un discorso assolutamente non in
sintonia con il carattere e gli atteggiamenti che fino a quel giorno
aveva simulato di avere. Parlò della brutale libidine di Sesto Tarquinio,
dello stupro infamante subito da Lucrezia, del suo commovente suicidio e
del lutto solitario di Tricipitino che era più affranto e indignato
per la causa che non per la morte stessa della figlia. Ricordò loro anche
l'arroganza tirannica del re e lo stato miserando della plebe, costretta a
schiantare di fatica a forza di scavi e di fogne da ripulire. A questo
proposito aggiunse che i Romani, capaci di sottomettere ogni altro popolo dei
dintorni, erano stati trasformati in manovali e tagliapietre da guerrieri
che erano. Dopo aver citato l'indegna fine
di Servio Tullio e l'episodio orrendo della figlia che ne calpestava il cadavere col cocchio, invocò
gli dèi vendicatori dei crimini contro i genitori. Con questi argomenti e,
credo, con altri ancora più atroci dettati dall'immediatezza dello sdegno,
ma quasi mai facilmente ricostruibili da parte degli storici,infiammò
il popolo e lo trascinò ad abbattere l'autorità del re e a
esiliare Lucio Tarquinio con tanto di moglie e figli. Poi Bruto in persona
arruolò i giovani che si offrivano volontari e, dopo averli dotati di
armi, partì alla volta di Ardea per sollevare contro il re l'esercito
là accampato. Lasciò il comando di Roma a Lucrezio, che poco tempo prima era
già stato nominato prefetto della città dal re. Nel pieno di
questo trambusto, Tullia scappò dal palazzo e, dovunque passava, la gente la
subissò di maledizioni e di invocazioni alle furie vendicatrici dei crimini contro i
genitori. 60 Quando la notizia di questi
avvenimenti arrivò all'accampamento, il re, allarmato dal pericolo inatteso,
partì alla volta di Roma per reprimere l'insurrezione. Bruto, informato che il
re si stava avvicinando, per evitare l'incontro fece una manovra di
diversione. Anche se per strade diverse, Bruto e Tarquinio arrivarono
quasi nello stesso momento ad Ardea e a Roma. A Tarquinio vennero chiuse in
faccia le porte e comunicata la notizia dell'esilio. Il liberatore di
Roma fu invece accolto con entusiasmo dagli uomini
nell'accampamento, i quali poi ne espulsero i figli del re. Due di essi seguirono il
padre nell'esilio a Cere, in terra etrusca. Sesto Tarquinio partì
alla volta di Gabi, come se fosse stato un suo dominio, ma lì fu
assassinato da quanti ne vendicarono le stragi e le razzie di un tempo. Lucio Tarquinio Superbo regnò
venticinque anni. Il regime monarchico a Roma, dalla fondazione alla liberazione,
durò duecentoquarantaquattro anni. In séguito, attenendosi a quanto
scritto nei diari di Servio Tullio, i comizi centuriati, convocati dal
prefetto della città, elessero due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio
Tarquinio Collatino. LIBRO II 1 La nuova libertà del popolo
romano, le sue conquiste in campo militare e civile, le magistrature annuali e il
rafforzamento della norma legale in relazione all'arbitrio dell'individuo:
questi saranno di qui in poi i miei temi. Dopo l'autoritarismo tirannico
dell'ultimo re, questa libertà fu salutata con ancora più
entusiasmo. Infatti i suoi predecessori avevano esercitato il potere in maniera tale da
poter essere a buon diritto considerati, uno dopo l'altro, i
fondatori di almeno parti di Roma, cioè di quei quartieri nuovi aggiunti per
far fronte alla crescita demografica che essi stessi avevano voluto. E non
c'è dubbio che addirittura Bruto, copertosi di gloria per l'espulsione
del tirannico Tarquinio, avrebbe agito in modo dannosissimo per lo
Stato, se il desiderio prematuro di libertà lo avesse trascinato a
detronizzare qualcuno dei re precedenti. Infatti cosa ne sarebbe stato di quel
branco di pastori e di avventurieri se, fuggiti dai loro paesi per cercare
libertà o impunità nel recinto inviolabile di un tempio, si fossero
liberati della paura di un re e avessero cominciato a lasciarsi
scombussolare dalla virulenza dei demagoghi e a scontrarsi verbalmente
coi senatori di una città che non era la loro, prima che l'amore coniugale,
l'amore paterno e l'attaccamento alla terra stessa (sentimento questo
legato alla lunga consuetudine) non avessero unito le loro aspirazioni? Lo
Stato, minato dalla discordia, non sarebbe riuscito a muovere nemmeno i
primi passi. Invece l'atmosfera di serenità e moderazione che
accompagnò la gestione del potere ne influenzò a tal punto la crescita che, una volta
raggiunta la piena maturità delle sue forze, poté esprimere i frutti
migliori della libertà. E poi l'inizio della libertà
risale a questa data non tanto perché il potere monarchico subì un
qualche ridimensionamento, ma piuttosto perché fu stabilito che i consoli durassero in
carica soltanto un anno. I primi a occupare questa magistratura mantennero
tutte le attribuzioni e le insegne dei re, salvo che non ebbero
contemporaneamente i fasci per non dare alla gente l'impressione di un terrore
raddoppiato. Bruto, che col consenso del collega fu il primo ad averli,
dimostrò di non essere meno attento nel preservare la libertà di quanto
fosse stato determinato nel rivendicarla. In questa direzione ecco quale fu il
suo primo provvedimento: per evitare che il popolo, tutto preso dalla
novità di essere libero, potesse in séguito lasciarsi convincere dalle
suppliche allettanti della casa reale, lo costrinse a giurare che non avrebbe
permesso più a nessuno di diventare re a Roma. Poi, per rinforzare il
senato ridotto ai minimi termini dalle esecuzioni a catena pretese dall'ultimo
re, ne portò il totale degli effettivi a trecento nominando senatori
i personaggi più in vista dell'ordine equestre. Di lì pare
che entrò nell'uso di convocare per le sedute del senato padri e coscritti
(dove è chiaro che con questo termine si alludeva agli ultimi eletti). Il
provvedimento giovò straordinariamente all'armonia cittadina e al
riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale. 2 Poi venne presa in esame la sfera
religiosa. E poiché certe cerimonie di natura pubblica erano officiate dal re
in persona, per evitare che se ne potesse in qualche modo rimpiangere la
presenza, nominarono un re dei sacrifici. Questo sacerdozio fu però
subordinato al pontefice, in modo tale che la carica unita al titolo non
rappresentasse un'insidia per la libertà, che in quel momento era
la cosa in assoluto più importante. Può anche darsi che in questo senso (la
salvaguardia maniacale della libertà) si esagerò un po'. Infatti il
solo torto dell'altro console fu quello di portare un nome odiato da tutti: i Tarquini
erano troppo abituati a essere re. Il primo fu Tarquinio Prisco, poi
lo scettro toccò a Servio Tullio e nemmeno questo intervallo fece
dimenticare il trono a Tarquinio il Superbo; infatti se lo riprese con la
violenza degna di un criminale, considerandolo un'eredità di
famiglia e non la prerogativa di un altro. Dopo la cacciata di Tarquinio il
Superbo, il potere era adesso nelle mani di Collatino. I Tarquini non erano in
grado di vivere da privati cittadini. Alla gente non andava a
genio il nome: era un pericolo per la libertà. Si cominciò
così, mettendo in giro questi argomenti per tastare lo stato d'animo del popolo. Quando poi
il sospetto inizia a creare inquietudine in più parti, Bruto
convoca un'assemblea generale. Lì, prima di tutto, legge ad alta voce ciò
che il popolo aveva giurato, e cioè di impedire che in futuro qualcuno potesse
diventare re di Roma o rappresentare una minaccia alla
libertà. Era quindi un dovere morale attenersi rigorosamente a quel
giuramento e non trascurare nessun dettaglio che lo potesse in qualche
modo riguardare. Gli dispiaceva alludere a qualcuno di preciso e
avrebbe evitato di parlare se non fosse stato per il suo attaccamento alla
patria. Non era convinto che il popolo romano avesse riconquistato in pieno la
libertà: la famiglia reale e il suo nome non erano soltanto in
città ma addirittura al governo, e ciò rappresentava un ostacolo
insormontabile per la libertà. «Sta a te,» disse, «o Lucio Tarquinio, prendere
l'iniziativa e dissipare questa paura. Certo, non bisogna dimenticarselo che
hai cacciato i re. Vai fino in fondo col tuo nobile gesto e porta via da
Roma il loro nome. Sulle tue proprietà non metterà le mani nessuno, ti do
la mia parola. Anzi, se non sono adeguate, subiranno dei ritocchi
munifici. Vattene da amico. Libera la gente da questa paura, può darsi
del tutto infondata, ma nell'animo di tutti vi è questo convincimento:
soltanto quando il nome dei Tarquini scomparirà da Roma, la monarchia
sarà solo più un ricordo.» Sulle prime il console rimase senza parole di fronte a
una cosa così sbalorditiva e imprevedibile. Poi, quando stava per
replicare, viene circondato dai personaggi più influenti della
città i quali gli rivolgono la stessa richiesta, anche se con scarso successo
emotivo. Spurio Lucrezio, invece, univa il prestigio dell'anzianità
allasua posizione di suocero: perciò, quando cominciò, passando dalla
supplica alla persuasione, a convincerlo di piegarsi alla volontà unanime
del popolo, Collatino, temendo che allo scadere del mandato consolare si
sarebbe ritirato a vita privata senza più nulla in mano e con magari l'aggiunta
di qualche altra ignominiosa aggravante, rinunciò alla sua
carica e abbandonò Roma dopo aver trasferito a Lavinio tutti i suoi beni. Su
delibera del senato, Bruto propose al popolo un decreto che sancisse l'esilio
per tutti i membri della famiglia
dei Tarquini. Con l'approvazione dei comizi centuriati nominò
suo collega Publio Valerio, che era stato un valido
aiuto nella cacciata dei re. 3 Pur non essendoci dubbi che fosse
imminente una guerra coi Tarquini, l'attacco fu sferrato più tardi
di quanto si potesse prevedere. Invece, e questo nessuno poteva prevederlo, gli
intrighi e i tradimenti per poco non privarono Roma della sua
libertà. Tra i giovani romani ve n'erano alcuni, di condizioni non modeste, che in epoca
monarchica avevano avuto meno difficoltà a vivere in maniera
sregolata e che essendo coetanei e compagni dei
giovani Tarquini erano cresciuti con abitudini principesche. Quindi, ora che tutti godevano di uguali
diritti, rimpiangevano la licenziosità di un tempo e si lamentavano
reciprocamente che la libertà degli altri fosse diventata la loro schiavitù. Il
re era un uomo dal quale si poteva ottenere un favore, lecito o illecito
che fosse; c'era spazio per l'appoggio e per il beneficio; poteva
passare dalla collera al perdono, ma sapeva distinguere tra amici e nemici.
La legge era invece un qualcosa di sordo e inesorabile, migliore e
più vantaggiosa per l'indigente che per il benestante, ma priva di
flessibilità e di indulgenza quando si passava la misura. Troppo pericoloso vivere di
sola innocenza, visto che l'esistenza di un uomo è tutta una
debolezza. Erano già quindi di per se stessi maldisposti intimamente quando arrivarono
degli inviati da Tarquinio i quali non fecero accenno al rientro ma
si limitarono a reclamarne le proprietà. Il senato diede loro
ascolto e poi discusse la questione per alcuni giorni: un rifiuto avrebbe
costituito un buon pretesto per la guerra, mentre una risposta affermativa
una forma di sussidio e di assistenza per permettergli di portare
avanti la guerra stessa. Nel frattempo gli inviati si mossero in
un'altra direzione: col pretesto ufficiale di reclamare le
proprietà della famiglia reale, sotto sotto tramavano per restaurare la monarchia
e, pur dando a vedere di compiere la loro missione, saggiavano la
disposizione psicologica dei giovani nobili. A tutti quelli che sembravano
interessati alla cosa consegnarono una lettera dei Tarquini e organizzarono un
complotto per farli rientrare segretamente in città durante la
notte. 4 I primi a essere messi al corrente
del progetto furono i fratelli Vitelli e i fratelli Aquili. La sorella
dei Vitelli aveva sposato il console Bruto e da quel matrimonio eran
nati due figli, Tito e Tiberio, già piuttosto grandi. Gli zii
coinvolsero anche loro nel complotto, oltre ad alcuni altri giovani nobili i cui
nomi si son però persi col tempo. Dato che in senato avevano nel
frattempo avuto la meglio quanti sostenevano la tesi della restituzione
dei beni, gli inviati ebbero un pretesto in più per trattenersi
a Roma in quanto i consoli gli concessero il tempo necessario per procurarsi i
carri con cui portar via ciò che apparteneva alla famiglia reale.
Trascorrono tutto questo tempo in conciliaboli con i congiurati e, a forza
di insistere, ne ottengono una lettera da consegnare ai Tarquini (i
quali altrimenti come avrebbero potuto fidarsi ciecamente dei loro
inviati visto che si trattava di una questione così delicata?).
Queste lettere, destinate a essere una garanzia di affidabilità, costituirono la
prova concreta del complotto criminoso. Infatti, il giorno prima che gli
inviati tornassero dai Tarquini, ci fu una cena, guarda caso, proprio dai
Vitelli. Lì i congiurati, dopo aver congedato gli altri invitati (potenziali
testimoni), chiacchierarono a lungo ovviamente sul recente progetto.
I loro discorsi furono però intercettati da uno schiavo che aveva
già prima subodorato quel che stava per succedere ma aspettava il momento
della consegna delle lettere agli inviati per provare la fondatezza della
sua accusa con l'intercettazione delle stesse. Quando vide che la
consegna era avvenuta, andò a denunciarli ai consoli. Questi si precipitarono a
casa dei Vitelli dove colsero in flagrante legati e congiurati e
liquidarono la cosa senza troppo rumore, facendo attenzione soprattutto che non
sparissero le lettere. I traditori furono arrestati immediatamente. Quanto
invece ai legati, ci fu un attimo di esitazione: poi, pur ritenendo che
meritassero un trattamento da nemici, prevalse il diritto delle genti. 5 La restituzione delle
proprietà reali, già approvata in precedenza, fu di nuovo messa in discussione di fronte
al senato. Questa volta l'indignazione ebbe la meglio. Si
votò contro la restituzione, ma anche contro la confisca da parte dello
Stato: la plebe avrebbe avuto carta bianca sulle proprietà reali, in
maniera tale da rinunciare per sempre, devastandole, all'idea di far pace coi
discendenti dei Tarquini. Le loro terre, situate tra Roma e il Tevere,
furono consacrate a Marte e in séguito divennero il Campo Marzio. Pare
che al momento ci fosse solo grano e per giunta pronto per il raccolto.
Siccome mangiare il grano del Campo Marzio sarebbe stato un sacrilegio, le
spighe furono tagliate con tutto lo stelo da una gran massa di persone
contemporaneamente e gettate in ceste di vimini nel Tevere che scorreva a
basso regime d'acqua, come sempre succede in piena estate. Così le
fascine di spighe, andandosi a impigliare dove l'acqua era meno profonda, si
sarebbero depositate sul fango del fondale e di lì, a poco a poco e
anche grazie ai detriti di altra natura che il fiume trascina accidentalmente a
valle, si sarebbe formata un'isola. In séguito, suppongo, vennero
aggiunti dei terrapieni e si lavorò manualmente per innalzare
il livello del terreno e metterlo in condizione di ospitare templi e
portici. Finita la devastazione delle
proprietà reali, i traditori furono condannati e la loro esecuzione
risultò ancora più notevole in quanto la carica di console costrinse il padre al
compito ingrato di infliggere la condanna ai propri figli; infatti,
mentre proprio Bruto avrebbe dovuto essere la persona esentata
dall'assistere al loro supplizio, la fatalità della sorte lo designò invece
come esecutore ultimo della pena. Legati al palo c'erano dei giovani tra i
più nobili di Roma; ma gli altri, come se fossero stati delle persone qualunque,
non attiravano minimamente l'attenzione: tutti avevano occhi
soltanto per i figli del console e ne compativano la pena non meno del reato
per cui l'avevano meritata. Proprio quello stesso anno che la patria aveva
riconquistato la libertà e per merito del loro padre, lo stesso anno
che il consolato era stato inaugurato dalla famiglia Giunia, quei
giovani avevano avuto il coraggio di tradire senatori, plebe e tutto
ciò che era romano in cielo e in terra, nonché di consegnare ogni cosa in mano
a colui che prima era stato un re tirannico e che adesso rimaneva un
nemico in esilio. I consoli presero posto sui loro seggi e diedero ordine
ai littori di eseguire la sentenza. I colpevoli, completamente nudi,
vennero flagellati con verghe e poi decapitati. Per l'intero corso
dell'esecuzione gli occhi di tutti rimasero puntati sull'espressione del padre, sul
cui volto di occasione per l'ufficialità della carica era
segnato nettissimo il dolore paterno. A fine esecuzione, perché l'esempio
potesse essere un deterrente doppiamente efficace nello scoraggiare il crimine,
allo schiavo autore della denuncia venne assegnato un premio in denaro a
spese dello Stato nonché concesse l'affrancatura e la cittadinanza. Si
dice che egli fu il primo a essere liberato con la vindicta e addirittura
c'è chi sostiene che l'etimologia di questo termine sia da ricondurre al
nome di quello schiavo (che affermano si chiamasse Vindicio). Sta
di fatto che, dopo di lui, divenne una prassi costante considerare
cittadini a tutti gli effetti quanti venivano liberati con quel tipo di
affrancatura. 6 Quando Tarquinio venne a sapere
com'erano andate le cose, non riuscì a contenere lo sconforto sia per il
crollo di tutte le sue speranze sia per l'odio e la bile. Vedendo che la strada
del piano doloso era completamente sbarrata, allora decise di ricorrere
alla guerra aperta e cominciò ad andare in giro a supplicare le
città etrusche dei dintorni, in particolar modo Tarquinia e Veio. Ricordava loro che
era un etrusco anche lui con lo stesso sangue nelle vene, e li
implorava che non lasciassero morire di fronte ai loro occhi i suoi figli e lui
stesso, ora povero ma un tempo arrivato al massimo della potenza.
Altri erano stati chiamati a regnare a Roma: lui, invece, quando era
già sul trono e aveva ingrandito l'impero con le sue conquiste, era stato
cacciato a séguito di un infame complotto ordito dai suoi parenti. Questi ultimi
poi, vedendo che in città non c'era uno solo degno di diventare re, avevano
messo le mani sul potere spartendoselo tra di loro e, perché
nessuno rimanesse estraneo alla razzia, avevano consegnato i suoi beni
in mano alla plebe che ne facesse scempio. Il suo unico desiderio era
riprendersi terra e scettro e punire l'ingratitudine dei suoi sudditi.
Quindi che lo aiutassero e lo assistessero. A loro volta si sarebbero
vendicati degli affronti di un tempo, delle tante disfatte patite in
battaglia e di tutta la terra perduta. Questi argomenti toccarono i Veienti
e ciascuno per parte sua gridava in tono minaccioso che almeno
agli ordini di un romano bisognava vendicare le umiliazioni subite e
riprendersi quel che si era perso in guerra. A Tarquinia, invece, fanno
presa il nome e la parentela: li attirava l'idea che a Roma regnasse uno
dei loro. Così due città e due
eserciti seguirono Tarquinio con l'intento di riconquistargli il regno e di
vendicarsi militarmente dei Romani. Quando entrarono in territorio romano, i
consoli avanzarono contro il nemico: Valerio guidava la fanteria disposta in
ordine compatto mentre Bruto lo precedeva in esplorazione con la
cavalleria. Anche nell'armata nemica il primo corpo era la fanteria, agli ordini
di Arrunte Tarquinio figlio del re. Questi era dietro col resto delle
truppe. Arrunte, individuando da lontano prima i littori, capì
che il console era lì nei pressi. Poi, quando avvicinandosi riconobbe senza
orma di dubbio i lineamenti di Bruto, infiammato dalla rabbia, urlò:
«Ecco laggiù l'uomo che ci ha cacciati dalla terra in cui siamo nati. È
proprio lui. Guardatelo come avanza tronfio delle nostre insegne! O dèi
che vendicate i re, assisteteci!» Sprona il cavallo e si butta a testa
bassa dritto contro il console. Bruto allora si sentì minacciato. Dato
però che in quel tempo era motivo d'orgoglio per i comandanti buttarsi
nella mischia in prima persona, Bruto per questo accetta la sfida senza
pensarci un attimo. I due si scontrarono con un accanimento incredibile,
preoccupandosi soltanto di colpire l'avversario e non di schivarne i
colpi. Così, trafitti l'uno e l'altro dall'asta dell'avversario passata
attraverso lo scudo, furono sbalzati da cavallo e franarono a terra in fin di
vita. Nello stesso istante ebbe inizio anche lo scontro tra il resto
delle due cavallerie e poco dopo toccò alle fanterie scendere in
campo. Si combatté con alterno successo e l'esito della battaglia rimase legato a
un filo. L'ala destra di entrambi gli schieramenti aveva la meglio,
mentre la sinistra cedeva. I Veienti, abituati alla sconfitta con le truppe
romane, furono sbaragliati e dispersi, I Tarquini, invece,
avversario nuovo e sconosciuto, non si limitarono a reggere bene l'urto ma
riuscirono anche a respingere quella parte dell'esercito romano che si
trovava nel loro settore. 7 Nonostante l'andamento incerto della
battaglia, Tarquinio e gli Etruschi furono presi da un panico tale che
abbandonarono l'impresa senza portarla a compimento e quella stessa notte
entrambi gli eserciti, il veiente e il tarquiniense, se ne tornarono nei loro
paesi. Il racconto di questa battaglia contiene anche del
prodigioso: nel silenzio della notte successiva pare si sia sentita una voce
proveniente dalla selva Arsia e identificata con quella del dio
Silvano, la quale avrebbe detto: «Gli Etruschi hanno perso un uomo in
più in battaglia, quindi la vittoria della guerra va ai Romani.» A ogni modo i
Romani se ne andarono da vincitori, gli Etruschi da vinti. Infatti, quando
alle prime luci del giorno non ci fu più l'ombra di un nemico in
vista, il console Publio Valerio raccolse le spoglie e fece rientro a Roma in
trionfo. Celebrò il funerale del collega nella maniera più
sontuosa possibile per l'epoca. Quel che però fu ben più clamoroso per la sua
memoria fu il lutto civile e, all'interno di esso, il fatto che le donne di Roma lo
piansero per un anno, come se fosse stato un padre, per l'accanimento che
aveva mostrato nel vendicare l'oltraggio alla castità
femminile. In séguito, il console sopravvissuto
alla battaglia, vittima della volubilità del volgo, vide
crollare la propria popolarità nell'avversione e fu oggetto di sospetti e accuse
abominevoli. Si vociferava che aspirasse a diventare re perché non aveva
sostituito Bruto con un un nuovo collega e perché si stava facendo costruire una
casa in cima alla Velia, una collina naturalmente fortificata che,
così si diceva, sarebbe diventata per lui una rocca inespugnabile. Queste
calunnie del popolino, cui si dava credito nonostante fossero infondate,
esacerbarono il console che, convocata un'assemblea generale, salì
sulla tribuna dopo aver fatto abbassare i fasci. Per la gente fu uno spettacolo
graditissimo vedere abbassati davanti a lei i simboli del potere, a
indicare esplicitamente che la maestà e l'autorità del
popolo erano superiori a quelle del console. Quindi, dopo aver richiesto
l'attenzione dell'uditorio, il console lodò la buona sorte del collega che, dopo aver
liberato la patria ed esserne assurto ai sommi onori, era morto in
battaglia per la repubblica, nel pieno della gloria e prima che questa
potesse degenerare in impopolarità. Lui, sopravvivendo alla sua stessa
gloria, adesso passava da una calunnia all'altra e da liberatore della patria
era stato declassato al rango degli Aquili e dei Vitelli. «Sarà
dunque mai possibile che con voi la virtù non finisca nel fango dell'oltraggio?
Dovrei temere di essere accusato di aspirare al trono io, il nemico
più acerrimo della monarchia? Anche se andassi ad abitare addirittura sulla
rocca del Campidoglio, dovrei credere di incutere timore nei miei
concittadini? Possibile che una banalità del genere riesca a rovinare la mia
reputazione presso di voi? La vostra fiducia poggia su fondamenti
così fragili che la collocazione della mia casa conta di più della mia
persona? E sia: la casa di Publio Valerio non sarà una minaccia alla vostra libertà,
o Quiriti: non abbiate paura per la Velia. Mi sposterò in pianura,
anzi no, ai piedi di un colle in modo di abitare sotto di voi visto che sono un
cittadino sospetto. Sulla Velia ci costruisca chi può dare maggiore
affidamento per la libertà di quanto non ne offra Publio Valerio.» Fece subio
spostare tutti i materiali tra la Velia e il punto dove oggi sorge il tempio
di Vica Pota e lì, ai piedi del pendio, venne costruita la casa. 8 In séguito furono presentate delle
leggi che non solo affrancarono il console dal sospetto di voler
restaurare la monarchia, ma che al contrario ebbero anche un effetto tale da
renderlo addirittura popolare e da meritargli il soprannome di Publicola.
Tra tutte le proposte, quella che permetteva di appellarsi contro un
magistrato in presenza del popolo e quella che autorizzava l'anatema contro
la persona e i beni di chiunque avesse nutrito aspirazioni monarchiche
ebbero un'accoglienza particolarmente calorosa da parte del
volgo. Dopo aver fatto passare queste leggi da solo (per non spartirne
il merito con nessun altro), allora finalmente bandì delle
elezioni per rimpiazzare il collega morto. Venne eletto console Spurio Lucrezio,
il quale, troppo avanti negli anni per tenere testa ai molti compiti
dell'ufficio, morì pochi giorni dopo. Lo si sostituì quindi con Marco
Orazio Pulvillo. Vedo però che alcuni storici antichi non menzionano il consolato di
Lucrezio e indicano in Orazio l'immediato successore di Bruto. Ho
l'impressione che del mandato di Lucrezio se ne perse memoria perché
durante quel periodo non successe nulla di importante. Il tempio di Giove sul Campidoglio non
era ancora stato dedicato. I consoli Valerio e Orazio tirarono a
sorte chi avrebbe dovuto assumersi
quell'incarico. Uscì il nome di Orazio e Publicola partì
per una campagna contro i Veienti. Che la consacrazione di un
tempio così famoso fosse toccata a Orazio irritò oltremisura
i parenti di Valerio che cercarono in tutti i modi di ostacolarla. Esaurita
ogni risorsa, quando ormai il console aveva già la mano sul
montante della porta ed era nel pieno della sua invocazione alle divinità,
essi interruppero la cerimonia gridando l'agghiacciante notizia che Orazio
aveva perso un figlio e che il padre di un morto non era nelle condizioni di
consacrare un tempio. Se egli abbia reagito non dando credito alla cosa o
dimostrando grande forza d'animo, non lo sappiamo con certezza né
è facile fare delle congetture al riguardo. Sta di fatto che, senza
lasciarsi distogliere dalla notizia se non per dare ordine di seppellire il
cadavere, tenendo la mano sul montante, completò l'invocazione
e consacrò il tempio. Furono questi gli avvenimenti politici
e militari del primo anno di regime repubblicano. 9 I consoli di quello successivo furono
Publio Valerio (per la seconda volta) e Tito Lucrezio. In quel tempo i
Tarquini si erano rifugiati presso Larte Porsenna, re di Chiusi.
Là, in un misto di consigli e suppliche, lo pregavano di non lasciar stentare
nell'indigenza dell'esilio gente ch'era di origine etrusca e aveva nelle vene
il sangue della sua stessa razza, oppure, a seconda dei giorni, lo
invitavano anche a sopprimere sul nascere la recente moda di detronizzare i re.
La libertà era già abbastanza allettante di per se stessa. Se i re
non difendevano i loro regni con la stessa forza con cui i sudditi cercavano
di ottenere la libertà, non ci sarebbe più stata differenza tra
l'alto e il basso, e gli Stati non avrebbero più avuto quel
qualcosa di superiore capace di svettare al di sopra di tutto il resto. Sarebbe stata
la fine della monarchia, l'istituzione più bella mai
vista da uomini e dèi. Porsenna, pensando che sarebbe stato meglio per gli Etruschi
se a Roma ci fosse non solo un re, ma un re di sangue etrusco,
marciò su Roma con le sue truppe. Mai prima il senato aveva provato un panico simile,
tante erano allora la potenza di Chiusi e la fama di Porsenna. E non
temeva soltanto i nemici, ma gli stessi concittadini, perché la plebe
romana, in preda al terrore, avrebbe potuto riammettere in città i re
e accettarne il giogo, pur di avere la pace. Proprio in quell'occasione il
senato fece di tutto per dimostrarsi attento alle esigenze della plebe:
prima di ogni altra cosa si ebbe particolare cura dell'annona e vennero
spediti degli emissari tanto ai Volsci quanto a Cuma con l'obiettivo di
procurare frumento. E ancora, il commercio del sale, il cui prezzo era
salito alle stelle, fu tolto ai privati e divenne monopolio di stato.
La plebe godette dell'esonero dai dazi e dai tributi e le classi abbienti
dovettero provvedere a quest'onere fiscale nella misura in cui erano in
grado di farlo: i poveri bastava pagassero allevando i figli. Questa
liberalità dei senatori, quando poi arrvarono i tempi duri dell'assedio e
della fame, riuscì a creare un'unione tale tra le classi che il
nome del re suscitò la stessa paura nei cittadini di bassa e di alta
estrazione, e in séguito nessuno divenne tanto popolare grazie agli espedienti
della demagogia, quanto lo fu l'intero senato per l'accorta
moderazione del suo operato. 10 Quando apparvero i nemici ci fu un
fuggi fuggi generale dalle campagne a Roma e Roma stessa fu munita di
presidi armati. Certe zone davan l'impressione di esser sicure per via
delle fortificazioni, altre per l'ostacolo costituito dal Tevere. Il
ponte Sublicio però avrebbe quasi offerto una breccia al nemico, se non
fosse stato per un uomo solo, Orazio Coclite,
il quale in quel giorno fece da sostegno alle sorti di Roma. Destinato per caso alla guardia del
ponte, vide che i nemici si erano impossessati del Gianicolo con un
attacco a sorpresa e da quel punto stavano correndo giù a rotta di
collo, mentre i suoi compagni, in preda al panico più totale, rompevano le
righe e buttavano le armi. Allora, trattenendoli uno per uno, bloccando
loro la strada e chiamando a testimoni gli uomini e gli dèi,
urlava che era inutile che fuggissero dopo aver abbandonato i loro posti: in un
attimo sul Palatino e sul Campidoglio ci sarebbero stati più nemici
che sul Gianicolo, se si fossero lasciati alle spalle il ponte incustodito.
Così li esorta e li spinge a
distruggerlo col ferro, col fuoco o con qualsiasi altro mezzo a loro disposizione: avrebbe retto lui l'urto
dei nemici, nei limiti del possibile per un corpo solo. Quindi
avanza a grandi passi verso l'ingresso del ponte, facendosi notare in mezzo
alle schiere dei compagni che rinunciavano a scontrarsi e sbalordendo
gli Etruschi con l'incredibile coraggio che dimostrava
nell'affrontarli armi alla mano. Trattenuti dal senso dell'onore due restarono con lui:
si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi nobili per la
nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche
tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più
accese dello scontro. Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e
quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse anche
loro a mettersi in salvo. Quindi, lanciando occhiate di fuoco ai capi
etruschi, passava dallo sfidarli singolarmente a duello ad accusarli
tutti insieme di essere schiavi dell'arroganza monarchica e di esser
venuti a minacciare la libertà altrui senza pensare alla propria. Essi allora
ebbero un attimo di incertezza, e si guardarono l'uno l'altro prima di
attaccare. Poi, spinti dalla vergogna, si buttarono tutti insieme
all'assalto e gridando a gran voce concentrarono i loro tiri contro
quell'unico nemico. Ma Orazio riuscì a ripararsi con lo scudo da tutti i colpi
e non si mosse di un centimetro dalla sua posizione di difesa a
oltranza del ponte e quando gli Etruschi erano ormai sul punto di travolgerlo
per farsi strada, il fragore del ponte che andava in pezzi e insieme
l'esplosione di gioia dei Romani per aver portato rapidamente a termine
l'operazione li spaventarono e ne contennero l'urto. In quel preciso
momento Coclite gridò: «O padre Tiberino, io ti prego solennemente,
accogli benigno nella tua corrente questo soldato con le sue armi!» Detto
questo, si tuffò nel Tevere armato di tutto punto e sotto una pioggia
fittissima di frecce arrivò indenne a nuoto fino dai suoi compagni,
protagonista di una impresa destinata ad avere presso i posteri più fama
che credito. Lo Stato ricompensò il suo eroismo con una statua in pieno comizio
e con la concessione di tutta la terra che fosse riuscito ad arare nello
spazio di un giorno. Accanto agli onori ufficiali ci furono anche
manifestazioni di gratitudine da parte dei privati: infatti, nonostante il periodo
di grande carestia, ogni cittadino, in proporzione alle proprie
disponibilità, si privò di parte della sua razione di viveri per
fargliene dono. 11 Porsenna, respinto al primo attacco,
modificò la sua strategia, passando dall'idea dell'assalto a
quella dell'assedio. Piazzò una guarnigione armata sul Gianicolo e si
accampò in pianura lungo le rive del Tevere. Quindi, mettendo insieme una flottiglia
con le imbarcazioni reperibili nei dintorni, la
impiegò per un blocco alle importazioni di grano a Roma e per permettere ai suoi
uomini di compiere di tanto in tanto delle razzie, in questo o quel punto,
dall'altra parte del fiume. In un breve lasso di tempo rese ogni zona
della campagna romana così insicura che i contadini dovettero ricoverare
all'interno delle mura non solo tutto ciò che avevano nei campi, ma
anche il bestiame che nessuno più osava portare al pascolo fuori città.
Tutta questa libertà concessa agli Etruschi non era tanto il risultato
della paura quanto di un preciso disegno. Infatti il console Valerio, in
attesa dell'occasione propizia per assalire di sorpresa un numero
consistente di nemici quando questi fossero stati sparpagliati, lasciava correre le
aggressioni di poco conto e si riservava una vendetta in grande per
circostanze ben più significative. Così, per attirare i razziatori,
con un bando fece ordinare ai suoi di uscire in massa con le greggi, il
giorno successivo, dalla porta Esquilina (la più distante dalle posizioni
nemiche), persuaso che gli Etruschi l'avrebbero sùbito saputo perché
l'assedio e la carestia spingevano gli schiavi infedeli alla diserzione. E
infatti fu da un disertore che lo vennero a sapere e così
guadarono il Tevere in molti più del solito, sperando in un ricco bottino. Publio
Valerio ordina allora a Tito Erminio di appostarsi con un modesto
contingente sulla via Gabinia a due miglia da Roma; a Spurio Larcio, invece, di
andare alla porta Collina con un corpo di giovani fanti armati alla leggera e
di attendere il passaggio dei nemici per poi tagliare loro la via
della ritirata facendo da diaframma tra essi e il fiume. Dei due consoli,
Tito Lucrezio uscì dalla porta Nevia con alcuni manipoli, mentre Valerio
guidò personalmente sul monte Celio delle truppe scelte che per prime sarebbero
state viste dal nemico. Appena Erminio capì che lo scontro era
iniziato, uscì dal suo nascondiglio e piombò sulle retrovie degli
Etruschi che invece erano rivolti nella direzione di Lucrezio. A sinistra,
dalla porta Collina, e a destra, da quella Nevia, gli rispose un coro di voci:
i predatori furono circondati e fatti a pezzi, inferiori com'erano di
numero ai Romani e oltretutto tagliati fuori da ogni possibile ritirata.
Questo episodiosegnò la fine delle scorribande etrusche. 12 L'assedio non era certo meno
pressante, il frumento caro e scarso e Porsenna, insistendo con la sua
tattica, nutriva speranze di espugnare Roma. Intanto, Caio Muzio, giovane di
nobile famiglia, non poteva sopportare che il suo popolo, mai
assediato da potenze straniere durante il periodo di schiavitù
monarchica, una volta libero dovesse ora essere schiacciato dentro le mura dagli
Etruschi che, in campo militare, con Roma avevano conosciuto solo sconfitte.
Determinato a vendicare l'indegna situazione in atto con un qualche gesto
audace, sulle prime decise, senza consultare nessuno, di penetrare
nell'accampamento nemico. Ma in séguito, temendo che una missione priva
dell'autorizzazione consolare e ignorata da tutti avrebbe potuto costargli
l'arresto per diserzione se le sentinelle romane lo avessero sorpreso (accusa
peraltro molto verisimile dati i tempi e il luogo), comparì di fronte
al senato e disse: «Senatori, vorrei attraversare il Tevere e penetrare, se
possibile, nell'accampamento nemico, ma non per fare razzia e
ripagare il vandalismo con la stessa moneta. No, con l'aiuto degli dèi
ho in mente qualcosa di più grande.» I senatori approvano e Muzio parte con
una spada nascosta sotto la veste. Arrivato all'accampamento etrusco, si
mescola nel fitto della folla di fronte al palco del re. Casualmente era
giorno di paga per i soldati e c'era uno scrivano, seduto accanto al
re e vestito press'a poco come lui, al quale si rivolgevano quasi tutti i
soldati e che era estremamente affaccendato. Siccome Muzio non voleva
chiedere quale dei due fosse Porsenna (perché ignorando una cosa del
genere si sarebbe smascherato), si affidò alla sorte e
sgozzò lo scrivano al posto del re. Poi si dileguò, facendosi largo con la spada
insanguinata in mezzo alla folla in preda al panico. Appena però la gente
cominciò a gridare all'impazzata, arrivarono da ogni parte le guardie reali e, dopo
averlo catturato, lo portarono di fronte al palco del re. E lì,
pur trattandosi di un situazione rischiosissima e continuando più
a incutere paura che ad averne, disse: «Sono romano e il mio nome è
Caio Muzio. Volevo uccidere un nemico da nemico, e morire non mi fa più
paura di uccidere. Il coraggio nellagire e nel soffrire è cosa da Romani. E
io non sono il solo ad avere questi sentimenti nei tuoi confronti: dopo di
me è lunga la lista dei nomi di quelli che vorrebbero avere questo
onore. Perciò, da oggi in poi, se ci tieni alla vita, prepàrati a
difenderla a ogni ora del giorno e abìtuati all'idea di un nemico armato fin nel
vestibolo della reggia. Questa è la guerra che la gioventù romana ti
dichiara: niente scontri, niente battaglie, non temere. Sarà
soltanto una cosa tra te e uno di noi.» Poiché il re, insieme furibondo e terrorizzato
dal pericolo corso, minacciava di ordinare che lo mandassero al rogo se
non si sbrigava a chiarire tutta quella serie di oscure minacce nei suoi
confronti, Muzio esclamò: «Attento! Questo è il valore che
dà al corpo chi aspira a una grande gloria!» E così dicendo infila
la mano destra in un braciere acceso per un sacrificio e la lascia bruciare come se
fosse stato privo di sensazioni. Il re allora, sbalordito dall'episodio
senza precedenti, dopo essersi alzato di scatto dal suo scanno e aver
fatto allontanare il giovane dall'altare, disse: «Vattene, sei
libero: sei riuscito a infierire contro la tua persona più di quanto tu
non abbia fatto con la mia. Onorerei il tuo coraggio se fosse al servizio del
mio paese. Dato che le cose non stanno così, ti risparmio la
corte marziale e ti lascio libero senza che ti si torca un capello.» Allora Muzio,
quasi per ricambiarne la generosità, disse: «Visto che
stimi il coraggio, ti dirò quel che non mi hai strappato con la minaccia: abbiamo
giurato in trecento, il meglio della gioventù romana, di
attentare alla tua vita in questo modo. Io sono stato sorteggiato per primo. Gli altri,
qualunque sia la sorte di quelli che li hanno preceduti, faranno lo stesso,
ciascuno quando sarà il suo turno, fino al giorno in cui il destino
non ti esporrà ai nostri colpi.» 13 Il rilascio di Muzio, poi
soprannominato Scevola per la perdita della mano destra, fu seguito dall'invio di
ambasciatori a Roma da parte di Porsenna. Il primo pericolo corso, ed
evitato solo per un errore del sicario, e l'idea di dover affrontare
la stessa situazione un numero di volte pari a quello dei futuri aggressori,
lo avevano scosso al punto da arrivare a offrire spontaneamente la
pace ai Romani. Tra le clausole della proposta c'era quella concernente la
restaurazione dei Tarquini sul trono: pur sapendo che sarebbe stata un buco
nell'acqua, Porsenna la avanzò, più perché non se la sentiva di dire di no
ai Tarquini piuttosto che per ignoranza del sicuro rifiuto da parte
romana. Ottenne invece la restituzione ai Veienti del loro
territorio. Quanto ai Romani, dovevano consegnare degli ostaggi, se volevano
che venisse ritirata la guarnigione armata dal Gianicolo. Conclusa la pace
a queste condizioni, Porsenna ritirò le sue truppe dal Gianicolo
e abbandonò il territorio romano. Per ricompensare il coraggio dimostrato, i
senatori fecero dono a Caio Muzio di un terreno al di là del
Tevere che in séguito prese il nome di Prati Muzi. Questi onori resi alle
virtù virili spinsero anche le donne ad atti di patriottismo. Così, una ragazza
di nome Clelia, cui era toccato di trovarsi nel numero degli ostaggi,
siccome l'accampamento etrusco era situato casualmente vicino alla riva
del Tevere, riuscì a sfuggire alle sentinelle, e, con al séguito un gruppo
di coetanee, attraversò a nuoto il fiume sotto una pioggia di frecce, e le
ricondusse sane e salve ai parenti in città. Appena il re lo venne
a sapere, montò su tutte le furie e in un primo tempo mandò degli
ambasciatori a Roma per chiedere la restituzione dell'ostaggio Clelia, senza
preoccuparsi troppo di tutte le altre ragazze. Poi però, passato dalla collera
all'ammirazione, disse che un'impresa del genere superava quelle dei Cocliti e
dei Muzi e che il rifiuto di restituire l'ostaggio sarebbe stato
considerato una violazione del trattato. Se invece gliel'avessero
consegnata lui l'avrebbe restituita ai suoi senza farle alcun male. Entrambe
le parti mantennero la parola: i Romani riconsegnarono il pegno di pace,
come previsto dal trattato, e il re etrusco non solo protesse la
ragazza, ma ne onorò il coraggio con questa forma di riconoscimento: le
avrebbe donato parte degli ostaggi e lei stessa poteva scegliere quali
portarsi con sé. Quando li ebbe tutti davanti, pare che abbia preferito gli
adolescenti, sia perché la scelta era più in sintoni con la sua
età, sia perché avrebbe probabilmente avuto l'approvazione degli ostaggi stessi, in
quanto la cosa migliore era togliere al nemico chi si trovava
nell'età maggiormente esposta a possibili rischi. Una volta ristabilita
la pace, i Romani immortalarono quell'atto di coraggio nuovo in una
donna con un onore anch'esso nuovo: in cima alla Via Sacra le fu dedicata una
statua equestre che rappresentava una ragazza in groppa a un cavallo. 14 Questa ritirata così pacifica
degli Etruschi da Roma stride con l'usanza, giunta insieme ad altre fino
ai giorni nostri dai tempi antichi, di «mettere in vendita i beni di Porsenna».
È giocoforza che una pratica simile sia nata durante la guerra e poi
sia stata mantenuta in tempo di pace, oppure abbia avuto origine a
séguito di qualche episodio meno cruento dell'aggiudicazione dei beni
tolti in guerra al nemico, cui la formula fa esplicito riferimento. La versione
più verisimile tra quelle tramandate è questa: quando Porsenna
evacuò il Gianicolo, abbandonò il suo accampamento ricco di vettovaglie
provenienti dalla vicina e fertile campagna etrusca, e ne fece dono ai
Romani, ridotti alla fame dal lungo assedio. Tutto quanto c'era fu venduto
per evitare che il popolo lo razziasse come si razzia una terra
nemica. Il nome che toccò a quegli oggetti -«beni di Porsenna» - fu
più dovuto alla riconoscenza per il dono che a un'asta delle proprietà
reali (le quali, per altro, non appartenevano neppure al popolo
romano). Abbandonata la guerra con Roma, Porsenna,
per non dare l'idea di aver portato le sue truppe invano in quella
zona, invia il figlio Arrunte ad assediare Aricia con parte dell'esercito.
Sulle prime l'attacco senza preavviso paralizzò gli abitanti
di Aricia. Poi però, ricevuti rinforzi dalle tribù latine e da Cuma,
acquisirono una tale fiducia nei propri mezzi che osavano affrontare il nemico
in campo aperto. Lo scontro era soltanto agli inizi quando gli Etruschi
sferrarono un attacco talmente
poderoso da sbaragliare gli Aricini al primo vero urto. Le coorti
venute da Cuma, opponendo la tattica alla
forza bruta, operarono un lieve scarto laterale e si lasciarono superare dai
nemici che avanzavano disordinatamente; quindi, tornando sui
propri passi, li assalirono alle spalle. Così gli Etruschi,
rimasti presi tra due fuochi, furono fatti a pezzi nonostante ormai avessero quasi
in mano la vittoria. I pochissimi superstiti, privi del loro comandante e
di un qualsiasi rifugio più vicino, si trascinarono fino a Roma,
disarmati e nelle condizioni e nell'aspetto tipici dei supplici.
Furono accolti benignamente e ospitati qua e là presso privati. Una
volta rimessisi in sesto, alcuni tornarono a casa e riferirono l'accoglienza
fraterna ricevuta. Molti invece rimasero a Roma, per l'affetto che li legava alla
città e ai loro ospiti. Il quartiere, che venne loro assegnato
perché vi abitassero, in séguito prese il nome di Vico Etrusco. 15 Publio Lucrezio e Publio Valerio Publicola
furono quindi eletti consoli. Quell'anno Porsenna fece l'ultimo
tentativo diplomatico per restaurare i Tarquini sul trono. Poiché
il senato rispose ai legati che avrebbe mandato un'ambasceria al re,
furono subito inviati i senatori più eminenti. Non perché fosse difficile
dare una risposta concisa («Niente re a Roma»), ma piuttosto perché era
meglio che una delegazione del senato la desse a lui personalmente piuttosto che
ai suoi legati a Roma. Con una mossa del genere l'annosa questione non
si sarebbe più presentata, né si sarebbe corso il rischio di rovinare i
buoni rapporti tra i due popoli con un'irritazione reciproca. Irritazione
per altro giustificatissima in quanto Porsenna chiedeva qualcosa di lesivo
della libertà romana, mentre i Romani, a meno di fare dell'aperto
autolesionismo, dovevano dire di no alla richiesta di un uomo cui non
avrebbero voluto negare nulla. A Roma il tempo dei re era finito: ora c'era la
libertà repubblicana. Perciò si era deciso di aprire le porte ai propri
nemici piuttosto che ai re. Questo era il voto unanime di tutti: la fine della
libertà sarebbe stata anche la fine di Roma. Se quindi gli stava a
cuore il bene di Roma, lo pregavano di non calpestare la loro libertà.
Vinto dal senso del rispetto, il re rispose: «Siccome vi vedo assolutamente
irremovibili, non vi importunerò più su una questione senza vie
d'uscita né illuderò più i Tarquini con la speranza di un aiuto che non è
in mio potere garantirgli. Qualunque siano le loro intenzioni, risolvere il
problema con la guerra o con la diplomazia, dovranno cercarsi un'altra
sede per il loro esilio, in modo che nulla possa incrinare i nostri
rapporti.» Le sue parole furono seguite da ulteriori dimostrazioni di amicizia:
restituì gli ultimi ostaggi e il territorio di Veio avuto a séguito del
trattato stipulato sul Gianicolo. Tarquinio, invece, persa ogni speranza
di poter rientrare, si ritirò in esilio a Tuscolo, presso il genero Ottavio
Mamilio. Così, tra i Romani e Porsenna la pace non ebbe più
ostacoli. 16 Consoli Marco Valerio e Publio Postumio.
Quell'anno si combatté con successo contro i Sabini e i due
consoli ottennero il trionfo. Poi i Sabini si prepararono a una guerra di
ben altre proporzioni. Per fronteggiare questo pericolo e per
evitare altre imprevedibili minacce da parte degli abitanti di Tuscolo, i
quali, pur senza aver dichiarato guerra sembrava avessero tutte le intenzioni
di farlo, furono eletti consoli Publio Valerio, per la quarta volta, e Tito
Lucrezio, alla sua seconda esperienza. In campo sabino, tra gli
interventisti e i fautori della pace, esplose un contrasto e una buona parte
di loro passò ai Romani. Infatti, Azio Clauso, in séguito conosciuto a
Roma come Appio Claudio, capo del partito della pace, piegato dalle
turbolenze degli interventisti e incapace di opporvi una qualche resistenza,
abbandonò Inregillo e con un gruppo consistente di clienti si venne
a stabilire a Roma. A loro fu concessa la cittadinanza e un
appezzamento di terreno al di là dell'Aniene. In questa sede formarono
quella che in séguito, grazie all'immissione di nuovi membri, venne
chiamata la «vecchia tribù claudia». Appio, accolto in senato, in breve
tempo ne divenne uno dei membri più autorevoli. I consoli guidarono una
campagna militare in territorio sabino, e tanto le devastazioni prima,
quanto poi le disfatte inflitte in campo aperto al nemico furono
così clamorose da rassicurare del tutto circa possibili future ribellioni in
quella zona. A fine campagna i consoli tornarono a Roma in trionfo. L'anno successivo, durante il consolato
di Menenio Agrippa e Publio Postumio, morì Publio Valerio,
universalmente considerato il migliore degli strateghi e degli statisti. Pur
avendo raggiunto il massimo degli onori, era così povero da non
potersi pagare nemmeno il funerale che fu celebrato a spese dello Stato. Le donne
lo piansero come avevano pianto Bruto. Quello stesso anno, due colonie
latine, Pomezia e Cora, defezionano passando dalla parte degli Aurunci. Fu
subito guerra. Dopo la disfatta di un ingente esercito aurunco andato ad
affrontare con determinazione le truppe consolari che ne avevano invaso il
territorio, l'intero conflitto si concentrò su Pomezia. Non ci
fu un attimo di requie né prima né durante la battaglia. Il numero dei caduti
superò di gran lunga quello dei prigionieri. E questi ultimi vennero
passati per le armi senza troppe sottigliezze. Nessuna pietà
nemmeno per i trecento ostaggi che erano stati consegnati. Anche quell'anno Roma vide
un trionfo. 17 I consoli dell'anno successivo, Opitro
Virginio e Spurio Cassio, tentarono di conquistare Pomezia prima
con la forza e poi con delle vigne e con altri mezzi d'assalto. Durante
l'assedio subirono un attacco degli Aurunci, i quali, spinti più
dall'implacabilità dell'odio che da una qualche speranza di sfruttare
favorevolmente l'occasione, li assalirono armati quasi tutti di tizzoni ardenti
al posto delle spade e seminarono morte e incendi dappertutto. Diedero
fuoco alle vigne, ferirono e uccisero molti nemici, e addirittura uno dei
consoli - anche se nelle fonti non si specifica quale dei due - fu
disarcionato, ferito gravemente e per poco non perse la vita. Dopo quella disfatta
si fece ritorno a Roma. Moltissimi i feriti rimpatriati e con loro anche
il console, sospeso tra la vita e la morte. Non molto tempo dopo - quanto ci
volle per curare le ferite e rimettere in sesto i ranghi
dell'esercito -, si tornò all'attacco di Pomezia, con più rabbia e
determinazione e con un'armata più consistente. Avevano già riattato le vigne e
le altre apparecchiature e gli uomini stavano per fare breccia nelle mura,
quando la città si arrese. Per gli Aurunci non ci fu nessuna pietà:
nonostante la resa, subirono la stessa sorte che sarebbe toccata loro se la
città fosse caduta a séguito di un assalto. I personaggi più in
vista furono decapitati, mentre il resto dei coloni vennero venduti come schiavi. La
città fu rasa al suolo e la terra messa all'incanto. I consoli ebbero il
trionfo più per aver vendicato implacabilmente gli affronti subiti che
per l'importanza del successo ottenuto in guerra. 18 L'anno successivo ebbe come consoli Postumio
Cominio e Tito Largio. Durante la celebrazione dei giochi a
Roma, dato che un gruppo di giovani sabini infoiati cercò di
portarsi via delle prostitute, ci fu subito un assembramento di uomini e
scoppiò una rissa così simile a una battaglia vera e propria da dar l'impressione di
non essere un episodio insignificante bensì una
minaccia di riapertura delle ostilità. Ma il pericolo di una nuova guerra coi Latini
non era il solo allarme: infatti si sapeva ormai per certo che trenta città
latine, istigate da Ottavio Mamilio, avevano formato una
coalizione. La tensione generale dovuta a queste cupe notizie portò a
suggerire per la prima volta la nomina di un dittatore. Circa l'anno e il nome dei
consoli sospettati di essere «filotarquiniani» (si parla anche di
questo) non c'è accordo tra le fonti, né si sa con certezza chi sia stato il
primo dittatore. Tuttavia vedo che gli storici più antichi parlano
di Tito Larcio come primo dittatore e di Spurio Cassio come maestro di cavalleria.
Si propendeva per gli ex consoli: così prevedeva la legge
presentata sull'elezione del dittatore. Proprio per questo motivo tendo
personalmente a credere che come moderatore e mentore dei consoli venne
scelto Larcio che era un ex console e non tanto Manio Valerio, figlio di
Marco e nipote di Voleso, il quale console non lo era ancora stato. Se poi
avessero voluto scegliere il dittatore proprio da quella famiglia,
avrebbero dovuto nominare suo padre, Marco Valerio, uomo di specchiata
virtù ed ex console. Dopo l'elezione del primo dittatore
della storia di Roma, quando la gente lo vide preceduto dalle scuri,
provò una paura tale da obbedire con più zelo alla sua parola. Infatti non era
più possibile, come nel caso dei consoli, i quali dividevano equamente
il potere, ricorrere o appellarsi al collega, né esisteva altra forma di
comportamento che l'obbedienza scrupolosa. Anche i Sabini furono presi
dal panico quando seppero che a Roma era stato nominato un dittatore,
tanto più perché credevano fosse stato nominato per causa loro. Quindi
inviarono ambasciatori con proposte di pace. Quando questi chiesero al dittatore
e al senato di perdonare l'errore commesso da dei giovani, fu
loro risposto che ai giovani si poteva perdonare, ma non a degli adulti
che continuavano a fomentare una guerra dopo l'altra. Tuttavia, si
intavolarono trattative: la pace sarebbe stata garantita se i Sabini avessero
acconsentito a indennizzare Roma per le spese di preparazione della guerra;
questa fu la richiesta. Fu dichiarata guerra, ma un tacito accordo
mantenne la pace per un anno. 19
Consoli Servio Sulpicio e M. Tullio. Niente di notevole da segnalare. Quindi fu la volta di Tito Ebuzio e di
Caio Vetusio. Durante il loro consolato Fidene fu assediata e Crustumeria
conquistata; Preneste passò dai Latini ai Romani e non fu
più possibile rimandare una guerra coi Latini dopo anni di tentennamenti. Aulo
Postumio, dittatore, e Tito Ebuzio, maestro di cavalleria, si
misero in marcia con un massiccio schieramento di fanti e cavalieri e
incontrarono il nemico presso il lago Regillo, nel territorio di Tuscolo. La
notizia della presenza dei Tarquini tra le fila latine suscitò
un'indignazione tale nei Romani da non poter rimandare ulteriormente lo scontro. Per
questo la battaglia non ebbe precedenti quanto a ferocia e
accanimento. Infatti i comandanti non si limitarono a dirigere le operazioni, ma
si buttarono di persona nella mischia e quasi nessun membro dei due
stati maggiori, salvo il dittatore romano, uscì indenne dallo scontro.
Postumio era in prima linea a dirigere e incoraggiare i suoi uomini, quando
Tarquinio il Superbo, nonostante l'età e il fisico indebolito, si
lanciò al galoppo contro di lui, ma rimediò una ferita al fianco e
riuscì a scamparla solo grazie all'intervento tempestivo dei suoi
uomini. All'ala opposta dello schieramento, Ebuzio, il maestro di
cavalleria, aveva attaccato Ottavio Mamilio. La manovra non era però
sfuggita al comandante di Tuscolo il quale a sua volta gli si era lanciato
contro al galoppo. L'urto delle loro lance fu così violento che Ebuzio
rimase con un braccio trapassato e Mamilio fu colpito al petto. I Latini
lo coprirono portandolo in seconda linea, mentre Ebuzio, che col braccio
in quello stato non era più in grado di maneggiare un'arma, abbandonò
il campo di battaglia. Il comandante latino, assolutamente noncurante della
ferita, cercava di riaccendere lo scontro e, notando un cedimento dei
suoi, fece intervenire il battaglione degli esuli romani guidati da un figlio
di Lucio Tarquinio. Il loro accanimento, raddoppiato
dall'indignazione per la perdita della patria e dei beni, riuscì per un attimo a
ristabilire la situazione. 20 Mentre i Romani da quella parte
erano già in piena ritirata, Marco Valerio, fratello di Publicola, vide
che il giovane Tarquinio si stava esponendo nelle prime file degli esuli;
infiammato dalla gloria della sua famiglia, e volendo che dopo l'onore di
aver cacciato i re le toccasse ora anche quello di averli uccisi,
spronò il cavallo e con la lancia in resta piombò su Tarquinio. Questi, per
evitare la carica forsennata dell'avversario, si ritirò in
mezzo ai compagni. Mentre Valerio stava piombando a testa bassa contro il
battaglione degli esuli, uno di essi lo centrò lateralmente passandolo
da parte a parte. La ferita del cavaliere non rallentò l'impeto del cavallo
e il giovane romano franò a terra in fin di vita coperto dalle armi. Quando il dittatore
Postumio si rese conto di una simile perdita e vide che gli esuli
stavano caricando con una foga inaudita mentre i suoi iniziavano a
perdere terreno, ordinò alla sua coorte (un nucleo speciale di uomini
che gli faceva da guardia del corpo) di trattare alla stregua di nemici
chiunque avesse visto fuggire. La doppia paura distolse così i
Romani dalla fuga e li respinse contro il nemico, risollevando le sorti della
battaglia. La coorte del dittatore entrò solo allora nel vivo della
mischia: fresca com'era di forze e col morale intatto, piombò sugli
esuli ormai sfiancati e li fece a pezzi. In quel momento ci fu un altro scontro fra
i capi. Il comandante latino, vedendo che il battaglione degli esuli
stava per essere circondato dal dittatore romano, prese con sé alcuni
manipoli della riserva e si lanciò in prima linea. Tito Erminio, il
comandante in seconda, li vide arrivare e riconobbe in mezzo a loro Mamilio,
inconfondibile per la tenuta e per le armi che portava. Attaccò
così il generale avversario con molta più forza di quanto non avesse fatto prima il
maestro di cavalleria e lo uccise con un colpo solo trapassandolo da parte a
parte. Nell'attimo in cui stava spogliandone il cadavere, fu
però anche lui colpito da un'asta nemica. Trasportato al campo da vincitore,
morì mentre gli venivano somministrate le prime cure. Allora il dittatore,
vedendo che i fanti erano sfiniti, vola in direzione dei cavalieri e li
invita a smontare da cavallo e a gettarsi nella mischia. Obbediscono
alla consegna: saltano a terra, si precipitano in prima linea e riparano
gli antesignani coi loro scudi. Il morale dei fanti, vedendo che il meglio
dei giovani nobili combatteva alla loro stregua e ne condivideva i rischi,
riprende sùbito coraggio. Soltanto allora l'urto dei Latini fu contenuto e
la loro linea di battaglia si disunì perdendo terreno. I
cavalieri rimontarono in sella per lanciarsi all'inseguimento del nemico. La
fanteria dietro. In quel momento, si narra che il dittatore, per non trascurare
alcun aiuto divino o umano, dedicò un tempio a Castore e promise dei premi ai
primi due soldati che fossero entrati nell'accampamento nemico. I
Romani si lanciarono con una foga tale che con un unico assalto sbaragliarono
il nemico e ne conquistarono il campo. Così andarono le cose al
lago Regillo. Il dittatore e il maestro di cavalleria tornarono a Roma in trionfo.
21 I tre anni successivi non furono
caratterizzati né dalla stabilità della pace né dalla guerra. Prima
furono consoli Quinto Clelio e Tito Larcio, poi Aulo Sempronio e Marco
Minucio. Durante il consolato di questi ultimi venne consacrato il tempio di
Saturno e istituita la festività dei Saturnali. I consoli successivi furono Aulo
Postumio e Tito Verginio. Vedo che alcuni autori collocano la battaglia
del lago Regillo solo in questa data e sostengono che Aulo Postumio,
diffidando apertamente del proprio collega, avrebbe rinunciato alla carica
e sarebbe quindi stato eletto dittatore. Visto che ogni storico
adotta un criterio arbitrario in materia di cronologie e di liste di magistrati,
ne consegue che è quasi impossibile riferire con esattezza la
successione dei consoli e le date degli eventi, quando non solo i fatti
ma anche gli autori stessi sono avvolti nelle nebbie del passato. I consoli successivi furono Appio
Claudio e Publio Servilio. Fu un anno memorabile per l'annuncio della morte
di Tarquinio. Questi si spense a Cuma, alla corte del tiranno Aristodemo
che lo aveva accolto dopo la disfatta delle forze latine. La notizia
entusiasmò tanto il senato quanto la plebe. I senatori, però,
esagerarono nelle loro manifestazioni di giubilo e la plebe, fino a quel giorno
fatta oggetto di ogni premurosa attenzione, cominciò a subire il
potere soffocante del patriziato. Quello stesso anno, la colonia di Signa,
voluta da Tarquinio, venne rifondata con l'invio di un nuovo contingente di
coloni. A Roma il numero delle tribù fu portato a ventuno e il quindici di
maggio fu consacrato il tempio di Mercurio. 22 Con i Volsci non c'era stata, durante la
guerra latina, né pace né aperta ostilità. Infatti sia i Volsci
avevano messo insieme dei rinforzi armati che avrebbero inviato ai Latini
se il dittatore romano non avesse accelerato le operazioni, sia
quest'ultimo le accelerò per non doversi trovare a combattere contemporaneamente
con Volsci e Latini. Indignati per questo comportamento, i consoli
spinsero le legioni nel territorio dei Volsci. E i Volsci, non potendo
prevedere una spedizione punitiva così immediata, furono presi alla
sprovvista. Senza nemmeno abbozzare una reazione, consegnano come ostaggi
trecento rampolli dell'aristocrazia di Cora e Pomezia. Così le legioni
lasciarono il paese senza combattimenti. Ma non molto tempo dopo, i Volsci, una
volta ripresisi dalla paura, tornano al loro comportamento abituale:
si alleano militarmente con gli Ernici e fanno di nuovo preparativi
segreti per la guerra. Mandano anche degli emissari qua e là per il
Lazio a istigarne le popolazioni alla ribellione. Ma i Latini, dopo la
disfatta del lago Regillo, avevano un solo sentimento nei confronti di chi
avanzava proposte di guerra: l'odio più esasperato. Quindi non
ebbero rispetto nemmeno per gli ambasciatori
dei Volsci: li arrestarono e li portarono a Roma. Lì, dopo
averli consegnati ai consoli, denunciarono i
preparativi di guerra che Volsci ed Ernici stavano effettuando col progetto
di aggredire Roma. All'annuncio della notizia i senatori ebbero una
reazione così entusiastica da arrivare a rilasciare seduta stante seimila
prigionieri latini e a rinviare ai nuovi magistrati il progetto di un
trattato che in precedenza era stato negato per sempre. È ovvio che
per i Latini fu una grande soddisfazione: i protagonisti di quella missione
diplomatica ebbero riconoscimenti fuori del comune. Mandarono una corona d'oro
in dono a Giove Capitolino. Insieme agli inviati che la portavano
arrivò anche la massa debordante dei prigionieri restituiti ai loro cari.
Dirigendosi verso le case dove ciascuno aveva prestato servizio,
ringraziano della benigna accoglienza ricevuta durante il tempo della loro
disgrazia e quindi instaurano rapporti di ospitalità con gli ex-padroni.
Prima di quell'episodio, non c'era mai stata un'unione così
profonda, sia in campo politico che in quello privato, tra la gente latina e
lo Stato romano. 23 Mentre la guerra coi Volsci era alle
porte, a Roma infuriava lo scontro intestino tra le classi: patrizi e
plebei si trovavano ai ferri corti e la causa prima era rappresentata dagli
schiavi per debiti. Questi i termini della loro protesta: mentre prestavano
servizio militare attivo per lo Stato, in patria erano oppressi e fatti
schiavi; i plebei si sentivano più sicuri in guerra che in pace,
più liberi tra i nemici che tra i concittadini. Il malcontento si stava
già spontaneamente diffondendo, quando un episodio sconcertante fece
traboccare il vaso. Un uomo già piuttosto attempato e segnato dalle
molte sofferenze irruppe nel foro. Era vestito di stracci lerci. Fisicamente
stava ancora peggio: pallido e smunto come un cadavere e con barba e
capelli incolti che gli davano un'aria selvaggia. Benché sfigurato, la
gente lo riconosceva: correva voce che fosse stato un ufficiale superiore
e quelli che lo commiseravano gli attribuivano anche altri onori
militari; lui stesso, a riprova della sua onesta militanza in varie battaglie,
mostrava le ferite riportate in pieno petto. Quando gli chiesero come mai
fosse così mal ridotto e sfigurato - nel frattempo l'assembramento di gente
aveva assunto le proporzioni di un'assemblea - egli rispose che,
durante la sua militanza nella guerra sabina, i nemici non si eran limitati a
razziargli il raccolto, ma gli avevano anche incendiato la fattoria e
portato via il bestiame; poi, nel pieno del suo rovescio, erano arrivate
le tasse e si era così coperto di debiti. Il resto lo avevan fatto gli
interessi da pagare sui debiti contratti: aveva prima perso il podere
appartenuto a suo padre e a suo nonno, quindi il resto dei beni e
infine, espandendosi al corpo come un'infezione, il suo creditore lo aveva
costretto non alla schiavitù, ma alla prigione e alla camera di tortura.
Dicendo questo, mostrò agli astanti la schiena orrendamente segnata
da ferite recenti. Tale vista,
unita a quanto appena sentito, fu salutata da un coro di voci sgomente
e da un'agitazione collettiva che non si
limitò soltanto al foro ma si espanse a macchia d'olio in tutti i
quartieri della città. I debitori, sia quelli già fatti schiavi sia
quelli ancora liberi, sciamano da ogni parte per le strade, implorano la protezione
dei Quiriti e in ogni angolo trovano volontari pronti a unirsi a
loro. Da ogni parte, urlando, si corre a gruppi verso il foro. Fu un bel
rischio per quei senatori che, trovandosi casualmente in zona,
finirono nel pieno della mischia. E la situazione non sarebbe tornata sotto
controllo, se i consoli Publio Servilio e Appio Claudio non fossero
intervenuti a sedare la sommossa. I dimostranti si girarono allora verso di
loro e cominciarono a mostrare catene e altre orrende mutilazioni,
gridando che quella era la ricompensa alle campagne cui ciascuno di essi
aveva preso parte nel tale e nel talaltro paese. Reclamarono, con un
tono che aveva più della minaccia che della supplica, la convocazione del
senato e circondarono la curia per controllare e regolare dipersona le
deliberazioni ufficiali. I consoli misero insieme giusto quei pochi
senatori che casualmente erano lì intorno. Gli altri erano terrorizzati
all'idea non solo di entrare nella curia, ma anche nel foro, e il senato
non poteva fare nulla per l'insufficienza numerica dei presenti.
Allora i dimostranti cominciarono a credere che li stessero prendendo in
giro e cercassero di guadagnare tempo: pensavano che l'assenza dei
senatori non fosse dovuta al puro caso o al panico, ma a una precisa
volontà ostruzionistica, ed erano certi, vedendo che i senatori menavano il can
per l'aia, che ci si stesse prendendo gioco della loro miseranda
condizione. Quando ormai sembrava che anche l'autorità consolare non
avesse più alcun potere coercitivo su quella massa di gente imbestialita,
ecco che finalmente arrivarono quei senatori rosi dal dubbio se si
rischiasse di più standosene al coperto o comparendo in senato. Raggiunto
così il numero legale dei presenti, né i senatori né tantomeno i consoli riuscivano
a mettersi d'accordo su una soluzione possibile. Appio, che aveva
un carattere impulsivo, era dell'opinione di risolvere la cosa con
l'impiego dell'autorità consolare: con un paio di arresti, gli altri si
sarebbero calmati. Servilio, invece, più incline ad adottare misure
di compromesso, era dell'opinione che fosse più sicuro, oltre che più
semplice, assecondare la rabbia dei dimostranti piuttosto che ricorrere alla
repressione. 24 Nel frattempo ecco una notizia ancor
più minacciosa: dei cavalieri latini arrivarono al galoppo e
seminarono il panico annunciando che l'esercito dei Volsci era in marcia su
Roma. La frattura intestina tra le classi era così profonda che
plebe e senato ebbero una reazione completamente antitetica all'annuncio
di quella notizia. I plebei esultarono, sostenendo che gli
dèi si stavano vendicando dell'arroganza dei senatori. Si esortavano
reciprocamente a non arruolarsi: sarebbe stato meglio morire tutti insieme che da
soli. In prima linea ci andassero i senatori, prendessero loro le armi e i
pericoli toccassero a chi ne traeva vantaggio. I membri della curia,
invece, scoraggiati e in preda a un doppio terrore, provocato dai
concittadini e dai nemici, supplicarono il console Servilio, più popolare
del collega presso le classi subalterne, di tirar fuori lo Stato dal vicolo cieco
in cui si era venuto a trovare. Allora il console, dopo aver aggiornato
la seduta, si presenta di fronte al popolo. Gli dimostrò che il
senato era preoccupato degli interessi della plebe; tuttavia la deliberazione
che riguardava la maggior parte dei cittadini, ma pur sempre soltanto una
parte di essi, doveva lasciare la precedenza al pericolo che interessava
l'intera cittadinanza. Col nemico pressoché alle porte, tutto passa in
secondo piano rispetto alla guerra. Se poi si fosse fatta qualche
concessione, non sarebbe stato onesto per la plebe pretendere una ricompensa prima
di aver combattuto per la patria, né troppo decoroso per i senatori farsi
trascinare dalla paura a prendere delle misure concernenti il
miglioramento delle condizioni di vita dei
loro concittadini, piuttosto che adottare in séguito gli stessi provvedimenti però di loro
spontanea volontà. Suggellò il suo discorso con un editto: più nessun cittadino
romano poteva essere messo in catene o imprigionato, e dunque non gli poteva
essere tolta la facoltà di iscrivere il proprio nome nella lista di
arruolamento dei consoli; nessuno poteva impossessarsi dei beni di un soldato,
impegnato in guerra, né venderli, né trattenere i suoi figli e i suoi nipoti.
Appena l'editto venne pubblicato, diedero subito il proprio nome per
arruolarsi i debitori che erano lì sul posto; gli altri, da ogni quartiere
della città, abbandonarono le case dei privati che non avevano più
diritto di trattenerli e si ammassarono nel foro per prestare giuramento. Formarono
un contingente massiccio e nella guerra contro i Volsci non ebbero
rivali per coraggio e determinazione. 25 Il console guida le truppe contro il
nemico e si accampa a poca distanza da esso. La notte successiva,
i Volsci, sperando che la discordia venutasi a creare a Roma favorisse
diserzioni e tradimenti nelle tenebre, attaccano l'accampamento nemico. La
cosa non sfuggì alle sentinelle che
diedero subito l'allarme e, al primo segnale, tutti si precipitarono
alle armi, vanificando così la
sortita dei Volsci. Il resto della notte fu dedicato al sonno da entrambe le parti.
Il giorno dopo, alle prime luci dell'alba, i Volsci riempiono i fossati
e invadono le trincee. Quando stavano già per abbattere
l'intera palizzata, il console, benché tutti gli uomini - e i debitori più di
ogni altro - lo supplicassero di dare il segnale, indugiò qualche momento
per metterne alla prova il coraggio. Quando non c'era più alcun
dubbio sull'incrollabilità del loro ardore, diede finalmente il segnale d'attacco e
fece uscire le sue truppe, impazienti di buttarsi nella mischia.
Bastò il primo assalto per respingere il nemico. I fanti si
lanciarono all'inseguimento dei fuggitivi, incalzandoli da dietro
finché fu loro possibile. Il resto lo fecero i cavalieri, costringendoli a
retrocedere, terrorizzati, fino all'accampamento. L'accampamento
stesso, circondato dalle legioni e abbandonato dai Volsci in preda al
panico, fu preso e devastato. L'indomani le truppe furono condotte
contro Suessa Pomezia, dove i nemici si erano rifugiati: nello spazio di
pochi giorni la città fu conquistata e si diede via libera alla razzia.
Ciò permise ai soldati più indigenti di migliorare un po' la loro condizione.
Il console, carico di gloria, ricondusse a Roma l'esercito vincitore.
Sulla strada una delegazione di Volsci di Ecetra, preoccupati per la
propria sorte dopo la rotta di Pomezia, incontrò il console che
si stava allontanando in direzione di Roma. Su decreto del senato venne loro
concessa la pace, ma tolto il territorio. 26 Subito anche i Sabini misero in
allarme i Romani: ma in effetti si trattò più di una
scorreria che di una guerra vera e propria. Nel pieno della notte arrivò la notizia
che un contingente di razziatori sabini si trovava nei pressi dell'Aniene e stava
saccheggiando e incendiando a casaccio le fattorie dei dintorni.
Immediatamente venne inviato sul posto con tutta la cavalleria Aulo Postumio,
il dittatore della guerra latina. Il console Servilio gli tenne dietro
con dei corpi scelti di fanteria. La maggior parte dei nemici, sbandati
com'erano, fu circondata dalla cavalleria e, quando sopraggiunse la
colonna dei fanti, le truppe sabine non opposero resistenza. Stremati non
solo dalla marcia ma dalla nottata di razzie, buona parte dei nemici,
pieni di vino e cibo rastrellati nelle fattorie, riuscirono giusto a scappare
con le poche energie che erano loro rimaste. Dopo che nell'arco di una sola notte
erano venuti a sapere della guerra coi Sabini e l'avevano portata a
termine, il giorno dopo, quando ormai si poteva contare su una pace generale, il
senato ricevette una legazione degli Aurunci; costoro dissero che
avrebbero dichiarato guerra a Roma se non fosse stato evacuato il territorio
dei Volsci. L'esercito si era messo in movimento con loro e la notizia che
era già stato avvistato non lontano da Aricia gettò i Romani in un
tale stato di confusione che, non potendo portare, come di consuetudine, la
questione di fronte al senato né rispondere con calma a un popolo che
era già sul piede di guerra, si armarono anche loro. Marciarono su
Aricia a ranghi compatti: la battaglia avvenne nei pressi della città e
la guerra durò un solo scontro. 27 Dopo aver sbaragliato gli Aurunci, i
Romani, reduci da un gran numero di successi militari in così
pochi giorni, contavano sulle promesse dei consoli e sulla parola del senato, quando
Appio, parte per la naturale arroganza del suo carattere e parte per
screditare il collega, intervenne in maniera quanto mai dura in materia
di debiti. La conseguenza fu che gli ex-debitori insolventi furono
riconsegnati ai creditori e dei nuovi furono messi ai ferri. Ogni qualvolta si
trattava di un soldato, questi interpellava il collega. Intorno a
Servilio c'era sempre un assembramento di gente: tutti gli ricordavano le
promesse fatte e gli mostravano gli attestati militari nonché le ferite
riportate in battaglia. Gli chiedevano, o di portare la questione
di fronte al senato, o di rendersi utile dando una mano come console ai
concittadini e come generale ai militari. Pur essendo toccato da quella
supplica, la situazione lo costringeva a temporeggiare, perché
l'opposizione era fortissima, avendo dalla sua parte non soltanto il collega
ma l'intera nobiltà. Tenendo così una posizione di sostanziale
neutralità, non riuscì né a evitare l'odio dei plebei né a conciliarsi il favore
dei senatori. Infatti, per questi ultimi era un console senza polso e un
agitatore, mentre per i primi uno che faceva il furbo. Presto apparve
chiaro che era odiato al pari di Appio. I consoli si contendevano
l'onore di consacrare il tempio di Mercurio e il senato girò la
questione al popolo: a chi dei due fosse toccato, per volontà del popolo
stesso, l'onore della consacrazione, sarebbe andata anche l'amministrazione
dell'annona e il compito di formare una corporazione di commercianti,
nonché di celebrare i riti solenni di fronte al pontefice massimo. Il popolo
assegnò la consacrazione del tempio a Marco Letorio, centurione primipilo,
con un intento chiarissimo: non si trattava cioè tanto di onorare
quest'uomo - troppo grande la sproporzione tra l'incarico e la sua posizione nella
vita di tutti i giorni -, quanto di un'offesa alle persone dei consoli.
Inevitabile conseguenza fu un ulteriore inasprimento da parte di uno
dei due consoli e dei senatori. Ma i plebei si erano fatti forza e stavano
seguendo una tattica ben diversa da quella adottata prima. Infatti,
perduta ogni speranza nell'intervento dei consoli e del senato, appena
vedevano un debitore trascinato in giudizio, intervenivano da ogni parte.
La sentenza del console, sopraffatta dal trambusto delle voci,
non arrivò agli astanti e poi, anche quando fu pronunciata, nessuno
obbedì. La sola legge era la violenza: la paura in tutte le sue forme e il
rischio di essere catturati passarono dai debitori ai creditori, mentre questi,
sotto gli occhi del console, venivano presi da parte e aggrediti da
interi gruppi. Nel pieno di questo marasma venne a inserirsi una guerra
contro i Sabini. Fu bandita una leva, ma nessuno si iscrisse. Appio era fuori
di sé. Imprecava contro l'ambizione del collega, reo di aver
tradito lo Stato per rendersi popolare con la sua politica
dell'inerzia e, non soddisfatto di aver sospeso il giudizio sui verdetti
concernenti i debiti, non era in grado nemmeno di mettere in pratica la leva
stabilita dal decreto del senato. Ciò nonostante, lo Stato non era
proprio del tutto alla deriva né l'autorità consolare era
completamente decaduta: ci avrebbe pensato lui, da solo, a salvaguardare la
credibilità sua e del senato. Mentre era circondato dalla solita folla di ceffi
esaltati, ordinò di arrestarne uno che era un ben noto trascinatore.
Mentre i littori lo stvano portando via, questi si appellò. E il console
non glielo avrebbe concesso (cosa poteva infatti scegliere il popolo?) se la sua
ostinazione non si fosse piegata più davanti all'esperienza e
all'autorità dei maggiorenti che alle urla del popolo, tanta era la forza che
aveva ancora in corpo per sfidare l'impopolarità. Da quel momento
in poi i dissapori peggiorarono giorno dopo giorno, non solo con
manifestazioni pubbliche ma, sintomo ben più grave, con riunioni appartate e
colloqui segreti. Alla fine, i consoli, così odiati dalla plebe,
completarono il loro mandato: Servilio non incontrò i favori di nessuna
delle due parti, Appio invece fu osannato dai senatori. 28 Entrarono allora in carica Aulo
Verginio e Tito Vetusio. La plebe, quindi, non sapendo che tipo di consoli
sarebbero stati, tenne delle riunioni notturne - parte
sull'Esquilino e parte sull'Aventino - per evitare di prendere nel foro delle
decisioni precipitose e lasciare che tutto avvenisse all'insegna della
più avventata casualità. I consoli, pensando che si trattasse, come in
effetti era, di una situazione veramente pericolosa, ne misero al
corrente il senato, ma la denuncia non poté essere esaminata come il
regolamento imponeva: infatti la notizia fu accolta da un coro di urla scomposte
dei senatori, indignati che scaricassero sul senato
l'impopolarità di un provvedimento che invece rientrava nella sfera delle loro
competenze. Era chiaro che se Roma avesse avuto dei magistrati come si deve, le
sole assemblee sarebbero state quelle ufficiali. Al momento presente,
invece, il governo dello Stato era frammentato in una dispersione di
migliaia di assemblee e di contro-senati. Un uomo solo - e santo
dio si trattava di qualcosa di più di un console! - della statura di Appio
Claudio avrebbe spazzato via in un attimo tutte quelle conventicole di
gente. I consoli incassarono le critiche e chiesero lumi sul da farsi,
dichiarandosi disponibili ad agire con tutta la determinazione e il polso
che il senato avrebbe considerato necessari. Fu ordinato loro di mettere
in pratica la leva militare con la maggiore energia possibile, perché
proprio nell'inattività la plebe diventava insolente. Dopo
l'aggiornamento della seduta, i consoli salgono sulla tribuna e fanno l'appello dei
giovani. Visto che nessuno rispondeva al proprio nome, la folla, accalcata
intorno ai due magistrati come durante un comizio pubblico,
dichiarò che non ci si sarebbe più fatti gioco della plebe e che Roma non
avrebbe avuto più un solo soldato se non si fossero mantenute le promesse
ufficiali: bisognava restituire a ciascuno la libertà prima di
mettergli in mano le armi, in modo che combattesse per la patria e i propri
concittadini e non per dei padroni. I consoli avevano capito benissimo quello
che era stato ordinato loro dai senatori; solo che tra quanti li
avevano aggrediti verbalmente all'interno della curia, lì fuori non ce
n'era uno a condividere con loro quel momento di impopolarità, ed era chiaro
che lo scontro con la plebe sarebbe stato durissimo. Così, prima di
giocarsi il tutto per tutto, pensarono bene di interpellare di nuovo il senato. Allora
i senatori più giovani, avventandosi minacciosamente verso gli
scranni dei consoli, intimarono loro di rassegnare le dimissioni e di
rinunciare a quel potere che, per mancanza di temperamento, non
riuscivano a far rispettare. 29 Avendo battuto a sufficienza
entrambe le strade percorribili, alla fine i consoli dichiararono: «Perché non
dobbiate, o senatori, sostenere di non esser stati avvertiti, sappiate che ora
siamo sull'orlo di una grande sommossa. A chi ci ha aggredito dandoci
brutalmente dei codardi noi chiediamo di venire ad assisterci nelle
pratiche della leva. Visto che questo è il vostro desiderio,
agiremo uniformandoci alla volontà dei più inflessibili tra voi.» Quindi tornano
in tribunale e ordinano apposta di chiamare per nome uno degli astanti.
Siccome questi non rispondeva e se ne stava in mezzo a un crocchio che lo
aveva circondato per proteggerlo da eventuali violenze, i consoli mandarono
un littore a prelevarlo. Ma dato che la folla lo respinse, i senatori
venuti ad assistere i consoli, gridando che si trattava di una
violazione indegna, si precipitarono giù dai banchi del tribunale per dare man
forte al littore. La folla allora, lasciando da parte il pubblico
ufficiale, cui era stato semplicemente proibito l'arresto di quell'uomo,
rivolse la sua carica aggressiva contro i senatori e soltanto l'intervento dei
consoli riuscì a sedare la rissa, fatta non tanto di sassi e armi vere e
proprie, quanto di un chiassoso scambio di idee più che di
violenze. La seduta del senato avvenne in un clima di grande confusione, che
raggiunse il suo apice al momento di adottare una delibera: le vittime
dell'aggressione esigevano un'inchiesta e i membri più violenti la
approvavano non tanto con regolari interventi quanto con un boato di urla. Una volta
placatisi gli animi, i consoli deplorarono che in piena curia ci
fossero minori manifestazioni di assennatezza di quante essi ne avessero
viste in mezzo alla folla del foro. Detto questo, si poté procedere a
un regolare dibattito. Ci furono tre interventi. Publio Verginio era
contrario a ogni forma di generalizzazione: la sua proposta era
di prendere in esame soltanto coloro i quali, fidandosi della parola del
console Publio Servilio, avevano militato nelle campagne contro Volsci,
Aurunci e Sabini. Tito Larcio, invece, sosteneva che in un momento
come quello era impensabile ricompensare soltanto i reduci di
guerra: la plebe tutta era immersa nei debiti fino al collo e l'unico rimedio
credibile sarebbe stato un provvedimento a carattere generale.
Eventuali sperequazioni, poi, all'interno della stessa classe,
avrebbero acuito la tensione invece di ridurla. Appio Claudio, il cui
carattere aggressivo trovava un valido incentivo ora nell'odio della plebe ora
negli applausi dei senatori, disse che la causa di quelle sommosse
popolari non era tanto la miseria quanto la permissività e inoltre che la
plebe era più insolente che feroce. Tutto il male veniva soltanto dal diritto
d'appello: i consoli, infatti, potevano minacciare ma non avere una
reale autorità, visto che ai colpevoli era lecito comparire di
fronte ai loro stessi complici. «Diamoci da fare,» disse, «eleggiamo un
dittatore il quale non è sottoposto al diritto d'appello; cesserà
così, una buona volta, questo furore che ha infiammato ogni cosa. E voglio un po'
vedere se qualcuno oserà ancora mettere le mani su un littore, sapendo
di avere schiena e vita in completa balia di colui di cui ha violato la
maestà.» 30 La maggior parte dei senatori
trovarono eccessivamente spietata, come infatti era, la proposta di Appio. Al
contrario, quelle di Verginio e di Larcio non sembrarono molto
praticabili: la prima perché avrebbe creato un precedente, la seconda perché avrebbe tolto
ogni fiducia. La miglior soluzione di compromesso per entrambi i
contendenti sembrava comunque quella di Verginio. Ma lo spirito di
parte e la priorità degli interessi particolari, che hanno sempre
danneggiato e sempre danneggeranno le deliberazioni pubbliche, fecero
prevalere Appio: poco mancò che venisse addirittura eletto dittatore, cosa che
avrebbe del tutto alienato la plebe in quei momenti di grandissimo rischio
(il caso voleva, infatti, che Volsci, Equi e Sabini fossero
contemporaneamente in armi). Ma i consoli e i senatori più anziani,
preoccupandosi che quella carica, di per sé vicina all'onnipotenza, finisse in mano a una
persona dal carattere mite, eleggono dittatore M. Valerio, figlio
di Voleso. La plebe, pur rendendosi conto che la nomina di un dittatore
avveniva a suo discapito, tuttavia da quella famiglia non temeva tristi
sorprese o repressioni visto che era stato proprio un fratello del neoeletto
a far varare la legge sul diritto d'appello. In séguito un editto del
dittatore confermò queste buone disposizioni perché riproduceva a
grandi linee quello del console Servilio. Ma pensando che la miglior
cosa fosse aver fiducia sia nell'uomo che nella sua carica, abbandonarono
l'ostruzionismo e si arruolarono. Mai prima di allora ci fu un numero
così alto di effettivi: vennero formate dieci legioni. Ogni console ne ebbe tre
ai suoi ordini, mentre quattro andarono al dittatore. La guerra non si poteva più
rimandare. Gli Equi avevano invaso il territorio latino. Ambasciatori latini
chiedevano al senato o un invio di rinforzi o l'autorizzazione a prendere
le armi per proteggere il proprio paese. Difendere i Latini inermi
sembrò più sicuro che permettere loro di riprendere le armi. Venne inviato il
console Vetusio, il quale pose fine alle razzie. Gli Equi evacuarono la
campagna e, fidando maggiormente nella posizione che nelle armi, se ne stavano
in attesa sulle cime dei rilievi. L'altro console marcia contro i Volsci
e, anche lui per non perdere tempo, comincia a devastare metodicamente le
campagne per spingere il nemico ad accamparsi più vicino e
costringerlo allo scontro. I due eserciti si schierarono ciascuno di fronte alla
propria trincea, in una piana compresa tra i due accampamenti. I Volsci erano
numericamente di gran lunga superiori: per questo si buttarono
sprezzanti allo sbaraglio. Il console romano non si mosse né permise di
rispondere all'urlo di guerra, ma ordinò ai suoi di stare fermi e con le aste
piantate a terra: soltanto quando il nemico fosse arrivato a distanza
ravvicinata, avrebbero dovuto assalirlo con tutte le loro forze e risolvere la
cosa con le spade. Quando i Volsci, affaticati dalla corsa e dal gran
gridare, arrivarono sui Romani, apparentemente atterriti alla loro
vista, e si resero conto del contrattacco in atto vedendo il
bagliore delle spade, come se fossero finiti in un'imboscata, fecero
dietro-front spaventati. Ma non avevano più la forza nemmeno di fuggire, perché si
erano gettati in battaglia correndo. I Romani, invece, rimasti
fermi nelle fasi iniziali, erano freschissimi: non fu quindi difficile
per loro piombare sui nemici sfiniti e catturarne l'accampamento. Di
lì inseguirono i Volsci rifugiatisi a Velitra, dove vincitori e vinti
irruppero come se fossero stati un esercito solo. Là, in un
massacro generale e senza distinzioni, versarono più sangue che nella battaglia
vera e propria. Vennero risparmiati soltanto quei pochi che si arresero
inermi. 31 Durante questa campagna contro i
Volsci, il dittatore, mette in rotta i Sabini - di gran lunga il nemico numero
uno per Roma - conquistandone l'accampamento. Lanciatosi all'attacco
con la cavalleria, aveva fatto il vuoto nel centro dell'esercito nemico,
rimasto troppo scoperto per l'eccessiva apertura a ventaglio delle
due ali. Nel bel mezzo di questo disordine subentrarono i fanti
all'assalto. Con un solo e unico attacco presero l'accampamento e misero fine
alla campagna. Dopo quella del lago Regillo, nessun'altra battaglia, in
quegli anni, fu più famosa. Il dittatore tornò a Roma in
trionfo. Oltre agli onori di rito, fu riservato un posto a lui e ai suoi discendenti
per assistere ai ludi nel circo, e lì fu sistemata una sedia curule. A
séguito di questa sconfitta i Volsci persero il territorio di Velitra; la
città, popolata da coloni inviati da Roma, divenne colonia. Poco tempo dopo
si combatté con gli Equi, anche se il console era contrario perché si
trattava di abbordare il nemico da posizione sfavorevole. Ma i suoi uomini
lo accusavano di tirare per le lunghe la cosa per lasciare che
scadesse il mandato del dittatore prima del loro rientro a Roma e far
così cadere nel nulla le sue promesse, come era già prima successo con
quelle del console. Quindi lo forzarono a una mossa sconsiderata e del tutto affidata
al caso: spingere le truppe sul versante della montagna di fronte a
loro. Fu solo grazie alla codardia dei nemici che questa manovra, di per sé
malcongegnata, ebbe un esito favorevole: i Romani non erano ancora
arrivati a distanza di tiro che essi, scoraggiati da una simile
dimostrazione di audacia, abbandonarono il loro accampamento piazzato in una
posizione quasi inespugnabile e si dileguarono nei valloni dell'altro
versante. Si trattò di un bottino non trascurabile e di una vittoria senza
perdite. Malgrado questo triplice successo
militare, plebe e senato non avevano smesso di preoccuparsi della soluzione
dei problemi interni. E gli usurai, con un assiduo lavorio da veri esperti,
si erano dotati degli strumenti per frustrare le iniziative non solo
della plebe ma anche del dittatore stesso. Infatti Valerio, dopo il
rientro del console Vetusio, diede precedenza assoluta alla causa del
popolo vincitore, portandola all'attenzione del senato e chiedendo
un pronunciamento definitivo sugli insolventi per debiti. Visto che la
richiesta non fu approvata, disse: «Io non vi vado a genio perché cerco di
ricomporre la frattura. Tra pochi giorni, ve lo garantisco, desidererete
che la plebe abbia dei difensori come me. Per quel che mi riguarda, non
ho intenzione di prendere ulteriormente in giro i miei
concittadini né di continuare a fare il dittatore solo in teoria. Questa
magistratura era l'unica soluzione per uno Stato diviso tra urti interni e una
guerra da combattere all'esterno: fuori è tornata la pace, mentre
in città si fa di tutto per ostacolarla. Interverrò nei disordini da
privato cittadino piuttosto che da dittatore.» Uscì quindi dalla curia e
rassegnò le dimissioni. La plebe capì benissimo che un gesto simile era stato dettato dal
risentimento per i torti che essa subiva. E così, come se
egli avesse mantenuto la parola - non era colpa sua se l'impegno non era stato
onorato -, lo seguirono mentre rientrava a casa e gli manifestarono la
loro gratitudine con un lungo applauso. 32 Allora i senatori cominciarono a
temere che, congedando l'esercito, si sarebbe tornati alle riunioni segrete e
alle cospirazioni. Così, pur essendo stati arruolati per ordine del
dittatore, tuttavia, siccome avevano giurato nelle mani dei consoli,
si pensava che i soldati fossero ancora legati a quel giuramento.
Quindi, col pretesto di una ripresa di ostilità da parte degli Equi,
ordinarono che le legioni venissero condotte fuori città. Ma questo
provvedimento accelerò la rivolta. Sulle prime pare si fosse parlato di assassinare i
consoli per svincolarsi dagli obblighi del giuramento. Quando però fu
spiegato loro che non c'era delitto che potesse liberare da un vincolo sacro,
allora le truppe, su proposta di un certo Sicinio, si ammutinarono
all'autorità dei consoli e si ritirarono sul monte Sacro, sulla riva destra
dell'Aniene, a tre miglia da Roma. Questa è la versione più
accreditata. Stando invece a quella adottata da Pisone, la secessione sarebbe avvenuta
sull'Aventino. Lì, senza nessuno che li guidasse, fortificarono in tutta
calma il campo con fossati e palizzate limitandosi ad andare in
cerca di cibo e, per alcuni giorni, non subirono attacchi né attaccarono a loro
volta. Roma era nel panico più totale e il clima di mutua apprensione
teneva tutto in sospeso. La plebe, abbandonata al suo destino, temeva
un'azione di forza organizzata dal senato; i senatori temevano la parte di
plebe rimasta in città, ed erano incerti se fosse preferibile che essa
rimanesse o se ne andasse. E poi, quanto sarebbe durata la calma dei
secessionisti? Che cosa sarebbe successo se nel frattempo fosse
scoppiata una guerra con qualche paese straniero? La sola speranza era
rappresentata dalla concordia interna: per il bene dello Stato andava restaurata e
a qualunque costo. Si decise allora di mandare alla plebe
come portavoce Menenio Agrippa, uomo dotato di straordinaria dialettica
e ben visto per le sue origini popolari. Una volta introdotto nel
campo, pare che raccontò questo apologo con lo stile un po' rozzo tipico degli
antichi: «quando le membra del corpo umano non costituivano ancora un
tutt'uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo linguaggio e un suo
modo di pensare autonomi, tutte le altre parti erano indignate di dover
sgobbare a destra e a sinistra per provvedere a ogni necessità
dello stomaco, mentre questo se ne stava zitto zitto lì nel mezzo a godersi il
bendidio che gli veniva dato. Allora, decisero di accordarsi così: le
mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe
più aperta per prenderlo, né i denti lo avrebbero più masticato.
Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di fame lo stomaco, le membra stesse e il
corpo tutto eran ridotti pelle e ossa. In quel momento capirono che anche lo
stomaco aveva una sua funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva
tanto quanto era nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuito
equamente per le vene e arricchito dal cibo digerito, il sangue che ci
dà vita e forza». Mettendo in parallelo la ribellione interna delle
parti del corpo e la rabbia della plebe nei confronti del senato, Menenio
riuscì a farli ragionare. 33 Venne allora affrontato il tema
della riconciliazione e si giunse al seguente compromesso: la plebe avrebbe
avuto dei magistrati sacri e inviolabili il cui compito sarebbe
stato quello di prendere le sue difese contro i consoli, e nessun patrizio
avrebbe potuto avere quest'incarico. Quindi furono eletti due tribuni della
plebe, Caio Licinio e Lucio Albino. A loro volta essi si scelsero tre
colleghi, uno dei quali era Sicinio, il promotore della rivolta. Sui nomi degli
altri due ci sono parecchie incertezze. Alcuni autori sostengono
che sul monte Sacro vennero eletti soltanto due tribuni e che lì fu
proposta la legge sull'inviolabilità. Durante la secessione della plebe,
Spurio Cassio e Postumio Cominio erano diventati consoli. Nel corso del loro
mandato fu stipulato un trattato di alleanza con le popolazioni latine. Per
concluderlo, uno dei consoli rimase a Roma. Il suo collega, invece,
incaricato di una campagna contro i Volsci, sbaragliò e disperse i
Volsci di Anzio; quindi, costringendoli a rifugiarsi a Longula, li inseguì
ed espugnò la città. Subito dopo conquistò Polusca, altra
città dei Volsci. Poi attaccò con estrema decisione Corioli. Tra i giovani nobili
c'era allora arruolato Gneo Marzio, tipo sveglio e risoluto, che in
séguito fu soprannominato Coriolano. Mentre l'esercito romano era
intento all'assedio di Corioli e teneva gli occhi puntati sugli abitanti
compressi all'interno delle mura, senza alcuna preoccupazione di un
eventuale attacco dall'esterno, fu all'improvviso assalito da un
contingente di Volsci partiti da Anzio e contemporaneamente sorpreso da una
sortita degli assediati. Per caso Marzio era di guardia. Con un pugno di
soldati scelti non solo tamponò la sortita, ma ebbe anche il coraggio di
buttarsi oltre la porta dove compì un massacro nei quartieri più
vicini e, trovandosi del fuoco per le mani, incendiò gli edifici che
sovrastavano il muro. Il panico dei cittadini che, come sempre succede, seguì,
misto ai pianti delle donne e dei bambini, la prima reazione degli
assediati, tonificò i Romani e demoralizzò i Volsci, ovviamente
sconsolati dalla resa della città cui eran venuti in soccorso. Così furono
sbaragliati i Volsci di Anzio e conquistata la città di Corioli.
L'impresa di Marzio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato
coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non
fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si
ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci. Quello stesso anno morì Menenio
Agrippa, l'uomo che in vita era stato ugualmente caro alla plebe e ai
senatori e che dopo la secessione sul monte Sacro fu più caro alla
plebe. L'uomo che aveva fatto da mediatore e da interprete della riconciliazione tra
i cittadini, che era stato l'ambasciatore del senato presso la
plebe e colui che l'aveva ricondotta a Roma, non lasciò il denaro
sufficiente per pagarsi il funerale: ci pensò così la plebe, con una
sottoscrizione di un sesto di asse a testa. 34 I consoli successivi furono Tito
Geganio e Publio Minucio. Quell'anno, non essendoci più nessuna
preoccupazione militare ed essendo stato composto ogni motivo di urto
all'interno, una calamità di ben altra portata si abbatté su Roma: la mancanza
di generi alimentari, dovuta al fatto che i campi erano rimasti incolti
durante la secessione della plebe, poi la fame, come succede alle
città in stato d'assedio. Per gli schiavi e soprattutto per la plebe avrebbe voluto
dire morte se i consoli non avessero provveduto mandando degli
emissari a racimolare frumento dovunque, non solo lungo la costa
etrusca a nord di Ostia e a sud superando via mare le terre dei Volsci
fino giù a Cuma, ma addirittura in Sicilia, tanto lontano li aveva costretti
a cercare aiuto l'odio dei popoli confinanti. A Cuma, una volta
acquistato il grano, le navi furono trattenute dal tiranno Aristodemo come
indennizzo delle proprietà dei Tarquini di cui egli era l'erede.
Presso i Volsci e nel Pontino non si riuscì nemmeno ad acquistarne: i
compratori di grano rischiarono addirittura di esser assaliti dai
locali. Dall'Etruria ne arrivò invece via fiume, lungo il Tevere, e
bastò per sfamare la plebe. In quel disastro generale si sarebbe venuta ad
aggiungere una quanto mai intempestiva guerra, se sui Volsci, già
pronti a scendere in campo, non si fosse abbattuta una tremenda pestilenza.
Vedendo il terrore che una simile decimazione aveva seminato, i Romani,
per far sì che il nemico non riuscisse a liberarsi completamente
della paura anche una volta uscito dall'epidemia, potenziarono con nuovi
invii la colonia di Velitra e ne fondarono una nuova a Norba, sulle
montagne, per avere una roccaforte nel Pontino. Sotto il consolato di Marco Minucio e
di Aulo Sempronio ci fu una massiccia importazione di grano dalla
Sicilia e il senato discusse il prezzo a cui avrebbe dovuto esser
venduto alla plebe. Molti pensavano fosse arrivato il tempo di dare un giro
di vite alla plebe e di recuperare i diritti che essa aveva estorto ai
senatori con le violenze della secessione. Uno dei più accesi,
Marzio Coriolano, nemico della potestà tribunizia, disse: «Se vogliono il
grano al prezzo di una volta, restituiscano ai senatori i loro
antichi diritti. È mai possibile che io debba vedere dei plebei magistrati e un
Sicinio dotato di poteri, io che son passato sotto il giogo e sono stato
riscattato da questa specie di delinquenti? Dovrò sopportare
più a lungo del necessario delle infamie del genere? Io che non avrei tollerato
Tarquinio come re, dovrei sopportare un Sicinio? Ci vada lui ora in secessione
e si porti la plebe con sé. La strada che porta al monte Sacro e agli
altri colli è libera. Rubino pure il frumento dai nostri campi come due
anni fa. Si godano la carestia frutto della loro follia. Non ho paura
di affermare che, domati da questa piaga, preferiranno andare a lavorare i
campi piuttosto che, come fecero durante la secessione, impedire con la
violenza che gli altri lavorino.» Io credo che i patrizi avrebbero
potuto, mettendo delle condizioni all'abbassamento dei prezzi, liberarsi
del potere dei tribuni e di tutti quei diritti concessi loro malgrado.
Solo che non è altrettanto facile dire se avrebbero dovuto farlo. 35 Il discorso sembrò
eccessivamente duro anche al senato. Nei plebei suscitò una reazione così
violenta da farli quasi ricorrere alle armi. Sostenevano che li si stava prendendo
per fame come fossero nemici, e che li si stava privando dei generi di
prima necessità per la sopravvivenza: avrebbero tolto loro di bocca anche
quel frumento di importazione, il solo alimento che un inatteso colpo di
fortuna aveva regalato, se i tribuni non si fossero consegnati in catene a Gneo
Marzio e se non gli si fosse data la possibilità di rifarsi sulla
pelle della plebe. Ai loro occhi era lui il nuovo boia saltato fuori a
costringerli a una scelta obbligata tra la morte e la schiavitù. E gli
sarebbero saltati addosso fuori dell'ingresso della curia, se i tribuni, quanto mai
tempestivamente, non lo avessero citato in giudizio. Il provvedimento
sedò la rabbia: ciascuno si vedeva già giudice del nemico e padrone
di scegliere per lui tra la vita e la morte. All'inizio Marzio stette ad
ascoltare con aria sprezzante le minacce dei tribuni, sostenendo che
essi erano dei magistrati di supporto e non avevano alcuna autorità
penale, cioè appunto si trattava di tribuni della plebe e non di senatori. Ma la
plebe aveva il dente così avvelenato che i senatori dovettero sacrificare un
loro membro per placarne l'ira. Ciò nonostante tennero testa
all'odio degli avversari facendo ricorso alle capacità dei singoli e alle
risorse dell'intero ordine. La prima mossa fu questa: mandarono in giro dei loro
clienti col compito di prendere da parte i singoli e di dissuaderli dal
partecipare alle riunioni e agli assembramenti, nella speranza che
potessero mandarne all'aria i piani. Poi l'intero ordine senatoriale si
presentò in pubblico (tutti senza eccezioni, come se avessero dovuto
rispondere di qualche reato) supplicando la plebe di restituirgli un
solo cittadino, un senatore: se poi non lo volevano assolvere, almeno
gli facessero la grazia di rimandarlo indietro come colpevole.
Visto che però alla data stabilita Marzio non ricomparve, la rabbia
divenne incontenibile. Condannato in contumacia, andò in esilio
presso i Volsci lanciando minacce al suo paese, verso il quale già da allora era
ostile. I Volsci lo accolsero amichevolmente e
la loro buona disposizione nei suoi confronti cresceva di giorno in giorno
in proporzione al progressivo aumento della rabbia di Marzio verso la
sua terra d'origine, alla quale riservava ora nostalgici lamenti ora
minacce. Era ospite di Azio Tullio, all'epoca una delle personalità
eminenti del popolo volsco e un anti-romano di antica data.
Così, spinti uno dall'odio di sempre e l'altro dal recente risentimento, studiano
insieme una guerra contro Roma. Sapevano che sarebbe stato difficile
convincere la loro gente a riprendere le armi per combattere un avversario
che già le aveva procurato tanti dispiaceri. Prima la serie di guerre e
poi la pestilenza ne avevano fiaccato gli entusiasmi portandosi via
il meglio della gioventù. L'odio risaliva ormai al passato: bisognava
ingegnarsi per trovare qualche nuovo motivo di risentimento che ravvivasse
gli antichi furori. 36 Casualmente a Roma si stavano
facendo i preparativi per ricominciare da capo i Ludi Magni. E li si ricominciava
per questa ragione: la mattina dei giochi, prima dell'inizio dello
spettacolo, un padrone non meglio identificato aveva fatto passare nel
mezzo del circo uno schiavo con forca al collo e lo aveva frustato. I giochi
erano poi cominciati, come se quell'episodio non avesse nulla a che
vedere con l'aspetto cerimoniale della manifestazione. Non molto tempo
dopo, un plebeo di nome Tito Latinio fece un sogno: vide Giove che gli
diceva di non aver gradito il primo ballerino ai giochi e che la
città sarebbe stata in pericolo se i giochi stessi non fossero stati ricominciati
da capo in modo grandioso. Quindi gli disse di andare a riferire la cosa
ai consoli. Benché il suo animo non fosse esente da scrupoli religiosi, il
timore reverenziale nei confronti dell'autorità consolare ebbe in
lui la meglio sulla paura di diventare lo zimbello di tutti. Questa esitazione
gli costò cara: nel giro di pochi giorni gli morì un figlio. E
perché non ci fosse nessun dubbio sulla natura della disgrazia, nel pieno del
lutto gli apparve di nuovo in sogno quella stessa figura che gli
domandò se il suo disprezzo per la divinità era stato adeguatamente ricompensato e
gli disse che era previsto un rincaro della dose se non si fosse
sbrigato a riferire ai consoli. La cosa incalzava ormai pericolosamente.
Tuttavia insistette nell'indugiare, finché lo colpì una malattia
implacabile accompagnata da un'improvvisa debolezza. Solo allora l'ira degli
dèi lo fece ragionare. Quindi, prostrato dalle disgrazie passate e
presenti, convocò una riunione di famiglia durante la quale espose ai
congiunti ciò che aveva visto e sentito, e cioè le diverse
apparizioni di Giove in sogno e le sue disgrazie personali seguite all'ira e
alle minacce della divinità. Quindi, con l'approvazione di tutti i parenti
convenuti, si fece trasportare su una lettiga in foro davanti ai consoli,
i quali gli concessero di entrare nella curia. Lì, mentre tra lo
stupore dei senatori ripeteva lo stesso racconto, ci fu un nuovo prodigio: si
racconta che l'uomo, completamente paralizzato e trasportato a braccia in
senato, una volta compiuta la propria missione, se ne tornò a
casa con le proprie gambe. 37 Il senato decretò che venissero
celebrati dei giochi con la maggior sontuosità possibile. Su
suggerimento di Azio Tullio, vi prese parte una nutrita delegazione di Volsci. Prima
dell'inizio della manifestazione, Tullio, seguendo il piano concertato
con Marcio a casa sua, si presentò ai consoli e disse di voler discutere
segretamente di una questione di pubblico interesse. Una volta
allontanati gli estranei, disse: «Mi rincresce dover dire dei miei
concittadini cose che non li mettono in buona luce. Tuttavia non sono venuto a
denunciarli per aver commesso qualche reato, ma per evitare che lo
commettano. Il carattere volubile del nostro popolo è superiore anche
ai miei desideri. Prova ne sia il numero delle nostre disfatte militari: se
esistiamo ancora non è merito nostro ma della vostra tolleranza. Attualmente ci
sono parecchi Volsci a Roma; ci sono i giochi; i cittadini saranno
concentratissimi sullo spettacolo. Ricordo benissimo la bravata dei
giovani sabini, sempre qui a Roma e in concomitanza di un'analoga occasione.
Ciò che mi spaventa è la possibilità di qualche gesto imprevedibile e
sconsiderato. Per questo, nel nostro comune interesse, ho ritenuto
opportuno, o consoli, mettervi sul chi vive riguardo a questa eventualità.
Quanto a me, ho intenzione di tornarmene subito a casa: non voglio, restando
qui, farmi complice di quel che si fa o si dice.» Detto questo, se ne
andò. I consoli riferirono al senato l'incerta informazione (proveniente
però da fonte certissima) e, come sempre succede in casi del genere, fu
più l'autorità della fonte che la notizia stessa a spingerli a prendere
misure precauzionali superiori alle reali necessità. Un decreto del
senato ingiunse ai Volsci di abbandonare Roma. Tramite degli araldi venne loro
ordinato di partire prima del calare della notte. La reazione immediata fu
il panico: si misero a correre all'impazzata per andarsi a riprendere
la loro roba nelle pensioni dov'erano alloggiati. Poi, mentre erano
già per strada, subentrò l'indignazione: li avevano trattati
alla stregua di criminali e scellerati, cacciandoli dai giochi in
quei giorni di festa e, in qualche modo, anche dal consesso degli
dèi e degli uomini. 38 Mentre procedevano in una fila quasi
ininterrotta, Tullio, il quale li aveva preceduti alla fonte Ferentina e
lì li stava aspettando, andò incontro ai concittadini più in
vista man mano che arrivavano e, rivolgendo loro parole di sdegno e
indignazione (ma adattissime alla loro grande rabbia per l'accaduto), grazie
all'influenza che essi esercitavano sugli altri, riuscì a condurli
tutti in un terreno che si trovava sotto la strada. Lì, parlando come se
fosse stato in un'assemblea, disse: «Dimentichiamoci pure tutto il resto,
gli affronti del passato e le disastrose disfatte militari inflitte
ai Volsci dal popolo romano: ma com'è possibile lasciar correre
lo sfregio di oggi e permettere che il nostro disonore sia sfruttato come
cerimonia di apertura dei giochi? Oppure non vi siete accorti che per
loro oggi è stato un trionfo su di voi? E che la vostra espulsione ha dato
spettacolo a tutti, cittadini e stranieri e a molti dei popoli con cui
confiniamo? Che le vostre mogli e i vostri figli sono sulla bocca di tutti?
E quelli che han sentito le parole degli araldi, quelli che hanno
assistito alla nostra partenza, quelli che per strada si sono imbattuti in questa
colonna della vergogna, cosa credete che abbiano pensato se non che
dovevamo aver di certo commesso una grave colpa, per la quale, con la
nostra presenza allo spettacolo, avremmo profanato i giochi e che eravamo stati
espulsi onde evitare che sedessimo accanto alla gente pia e partecipassimo
alla loro riunione? E poi, non vi rendete conto che siamo vivi perché non
ci abbiamo pensato due volte a partire? Ammettendo che non si tratti
di fuga. E non vi sembra di dover considerare questa città una
tana di nemici, dato che un solo giorno di permanenza sarebbe costato a tutti la
vita? Vi è stata dichiarata guerra: tanto peggio per chi l'ha dichiarata, se
voi siete degli uomini.» Così, già di per sé indignati ed
eccitati da quelle parole, rientrarono nelle rispettive città e ciascuno
infiammò a tal punto la propria gente da causare la rivolta dell'intera razza
volsca. 39 All'unanimità tutti i popoli
scelsero quali comandanti in capo per quella guerra Azio Tullio e Gneo
Marzio, l'esule romano, nel quale riponevano ancora maggiori speranze. Ed
egli non le deluse, dimostrando chiaramente che il punto di forza di
Roma non erano tanto le sue truppe quanto i suoi generali. Il primo
bersaglio fu Circei: ne cacciò i coloni romani e restituì la
città, ora libera, ai Volsci. Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli,
Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese
Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie,
catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine
da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque
miglia dalla città. Facendo base in questo punto, devastò l'agro
romano nei dintorni, preoccupandosi di inviare coi guastatori anche degli
uomini incaricati di salvaguardare le proprietà terriere dei patrizi.
Due le ragioni di questa mossa: dimostrare che la sua rabbia era maggiormente
diretta contro la plebe, e fare in modo di creare un nuovo urto tra le due
classi. E così sarebbe stato: infatti i tribuni, con le loro invettive, stavano
facendo di tutto per istigare la plebe, già di per sé infuriata,
contro i patrizi. Solo la paura del nemico, massimo vincolo di concordia
nonostante la diffidenza reciproca, riusciva a tenere uniti gli animi di
tutti. Su una questione non erano d'accordo: il senato e i consoli non
vedevano altre speranze che nelle armi, mentre la plebe avrebbe scelto
qualsiasi altra cosa piuttosto che la guerra. I consoli in carica erano
Spurio Nauzio e Sesto Furio. Mentre stavano passando in rassegna le legioni
e piazzando delle guarnigioni sulle mura e nei punti in cui avevano
stabilito di collocare dei posti di guardia e delle sentinelle, una folla
di dimostranti favorevoli alla pace, in un primo tempo li spaventò
con grida di rivolta e quindi li costrinse a convocare il senato perché inviasse
degli ambasciatori a Gneo Marzio. I senatori accolsero la proposta quando
si accorsero che il morale della plebe stava precipitando e mandarono a
Marzio degli inviati per trattare la pace. La risposta che riportarono fu
terribile: se il territorio dei Volsci veniva restituito, in quel caso
si poteva parlare di pace; ma se volevano la pace solo per godersi il
bottino di guerra, allora lui, Marzio, memore dell'ingiustizia subita
in patria e del'ospitalità offertagli in terra straniera, avrebbe
dimostrato che l'esilio aveva raddoppiato, e non infiacchito, le sue
energie. Gli inviati fecero un secondo tentativo ma non furono nemmeno
ammessi all'interno dell'accampamento. Pare che addirittura
i sacerdoti, con tutti i loro paramenti, si presentarono supplici
all'accampamento nemico ma che, come già gli ambasciatori, non
riuscirono a far cambiare idea a Marzio. 40 Allora le donne sposate andarono in
massa a trovare Veturia e Volumnia, rispettivamente madre e moglie di
Coriolano. Non mi è stato possibile ricostruire se ci fu un preciso ordine
ufficiale o semplicemente la paura delle donne. In ogni modo convinsero
l'anziana Veturia e Volumnia, con al suo séguito i due bambini avuti da
Marzio, ad accompagnarle nell'accampamento nemico: se Roma non
la si poteva difendere con le armi degli uomini, allora l'avrebbero difesa
le donne con le loro lacrime e le loro suppliche. Quando arrivarono
all'accampamento e venne annunciata a Coriolano la presenza di una massiccia
schiera di donne, egli, irremovibile di fronte alla
maestà dei rappresentanti dello Stato nonché di fronte all'aspetto venerando dei
sacerdoti - che tanto può sugli occhi e sullo spirito -, in un primo tempo si
mostrò ancora più ostinato nei confronti delle lacrime di quelle
donne. Poi, uno dei suoi amici più intimi, riconosciuta Veturia che
spiccava tra le altre per mestizia ed era in piedi tra la nuora e i nipotini, gli
disse: «Se la vista non m'inganna, quelli là sono tua madre, tua
moglie e i tuoi bambini.» Coriolano saltò giù come una furia dal suo
sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata
dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi:
voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo
accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre. Ecco fino a
che punto mi hanno trascinato questa mia lunga vita e questa infelice
vecchiaia: son costretta a vederti in esilio e addirittura nostro nemico.
Come hai potuto devastare questa terra che ti ha generato e nutrito? Anche se
eri partito con animo ostile e minaccioso, possibile non ti si sia
sbollita la rabbia una volta superati i confini? Possibile che con Roma
davanti agli occhi non ti sia venuto in mente di pensare "Dentro quelle
mura c'è tutto quello che mi appartiene, casa, penati, madre, moglie,
figli"? Allora, se io non ti avessi messo al mondo, Roma adesso non sarebbe
assediata. Se non avessi avuto figli, sarei morta libera in una libera patria.
D'altra parte, oramai non mi attende più nulla che possa peggiorare
la mia miseria e il tuo disonore: se ho toccato il fondo della disgrazia non ho
più molto tempo per rimanerci. È a loro che devi pensare: se ti ostini in
questa direzione, gli toccherà o una morte immatura o una lunga
servitù.» Allora la moglie e i figli lo abbracciarono e il pianto levatosi da
tutte le donne e i loro lamenti per la patria e se stesse alla fine
piegarono l'irremovibilità di Marzio. Abbracciò la sua famiglia
rimandandola a casa; quanto a lui, tolse l'accampamento da sotto le mura,
evacuò l'agro romano delle sue truppe e pare rimase ucciso proprio in quella
zona, vittima dell'odio che si era procurato. Non c'è accordo sulle
cause della morte: presso Fabio, di gran lunga la fonte più antica, ho
trovato che morì di vecchiaia. In ogni modo, egli riferisce che quando ormai era un
vecchio, Coriolano ripeteva spessissimo che l'esilio è
ancora più duro se si è avanti con gli anni. Gli uomini romani non invidiarono le
donne per il loro nobile gesto (tanto lontani si era allora dal vivere
nell'invidia della gloria altrui). Anzi, a ricordo dell'episodio, fu costruito e
consacrato un tempio alla Fortuna delle donne. In séguito i Volsci, alleatisi con gli
Equi, invasero di nuovo l'agro romano, ma gli Equi non accettarono
più Tullo Azio come comandante in capo. La questione - a chi cioè
affidare il comando dei due eserciti uniti - creò prima un aperto contrasto
per poi finire in un bagno di sangue. In quel caso la buona stella del popolo
romano annientò due eserciti nemici in una battaglia non meno rovinosa che
accanita. Consoli Tito Sicinio e Caio Aquilio. A
Sicinio toccarono i Volsci, ad Aquilio gli Ernici, scesi anche loro in
campo. Quell'anno gli Ernici
furono sconfitti. La guerra coi Volsci, dopo alterne fortune, si
risolse in un nulla di fatto. 41 I consoli successivi furono Spurio
Cassio e Proculo Verginio. Fu stipulato un trattato con gli Ernici in
base al quale Roma si annetteva i due terzi del loro territorio. Il
console Cassio era dell'avviso di darne metà ai Latini e metà ai
plebei. E a questa donazione voleva aggiungere parte della terra che teoricamente
risultava essere di demanio pubblico e che invece, secondo la sua accusa, era
detenuta abusivamente da privati. Questa proposta terrorizzava molti
senatori che, essendo essi stessi i proprietari, si vedevano minacciati
nelle proprie sostanze. Ma i senatori, visto il ruolo da essi ricoperto in
ambito pubblico, temevano che con quella donazione il console potesse
acquistare un'influenza pericolosa per la libertà. Allora, per la prima
volta, fu promulgata una legge agraria: da quella data fino ai giorni nostri
non c'è stata volta che il ritorno sulla stessa questione non abbia
causato gravi disordini politici. L'altro console si opponeva alla donazione e
aveva dalla sua parte i senatori senza nel contempo trovarsi di fronte
l'ostilità di tutta la plebe, la quale aveva sùbito mostrato di
non gradire che la donazione fosse stata estesa dai cittadini ai semplici
alleati. E in più sentiva spesso che il console Verginio denunciava
pubblicamente la perniciosità della elargizione proposta dal collega,
sostenendo che quella terra avrebbe ridotto in schiavitù chiunque ne
avesse beneficiato e avrebbe rappresentato una strada diretta verso
la monarchia. Che ragioni c'erano di includere nella spartizione gli
alleati e il popolo latino? A che pro rendere agli Ernici, fino a ieri
nemici, un terzo della terra conquistata, se non perché quelle genti al posto di
Coriolano avessero Cassio? Da quel momento, lui che era stato l'oppositore
della legge agraria, cominciò a diventare popolare. In séguito, tra i
due consoli, si assistette quasi a una gara di attenzioni verso la plebe:
Verginio si diceva pronto ad accettare la donazione a patto che
interessasse soltanto i cittadini romani; Cassio, poiché con la promessa
di donazione agraria si era reso popolare presso gli alleati,
conquistandosi però lantipatia dei suoi concittadini, per riconciliarsene i
favori con un altro dono, ordinò di rimborsare al popolo il denaro pagato
per il frumento siciliano. Ma la plebe respinse sdegnosamente l'offerta
giudicandola un tentativo di comprarsi in contanti il potere
monarchico. E per questo sospetto istintivo voltavano sprezzanti le spalle
ai suoi doni, come se avessero tutto in eccesso. A fine mandato -
è un fatto su cui non ci sono dubbi -, fu condannato a morte e ucciso. Alcuni
sostengono che l'esecutore materiale della sentenza fu suo padre:
istituita la causa a domicilio, lo avrebbe fatto frustare a morte e ne
avrebbe consacrato i beni a Cerere. Poi avrebbe fatto scolpire una statua
con questa iscrizione: «Dono della famiglia Cassia.» Presso alcuni autori
ho trovato una versione diversa ma più aderente alla realtà:
i questori Cesone Fabio e Lucio Valerio lo avrebbero accusato di alto tradimento,
il popolo lo avrebbe riconosciuto colpevole e lo Stato avrebbe fatto
radere al suolo la casa. È la zona antistante al tempio della Terra. Sta
di fatto che la condanna, frutto di un processo pubblico o privato, fu
pronunciata durante il consolato di Servio Cornelio e Quinto Fabio. 42 Il risentimento popolare nei
confronti di Cassio non durò a lungo. La legge agraria, già allettante di
per se stessa, ora che era scomparso il suo promulgatore, affascinava tutti e
il desiderio che se ne provava fu accresciuto dalla meschinità dei
senatori, i quali, quell'anno, dopo una vittoria sui Volsci e sugli Ernici,
privarono i soldati del bottino. Tutto ciò che fu tolto al nemico il
console Fabio lo mise all'incanto e ne trasferì i proventi nelle casse
dello Stato. Il nome dei Fabi era impopolarissimo
proprio a causa di quest'ultimo console. Ciò nonostante, i
consoli riuscirono a ottenere che insieme a Lucio Emilio venisse eletto console
Cesone Fabio. Questo incrementò il rancore dei plebei che, a séguito dei
disordini causati in patria, fecero scoppiare un conflitto all'estero. E
con la guerra le discordie civili conobbero una tregua: patrizi e plebei
uniti, agli ordini di Emilio con una brillante vittoria sedarono una
ribellione dei Volsci e degli Equi. I nemici, tuttavia, ebbero più
perdite durante la ritirata che durante lo scontro, tanta fu l'ostinazione con la
quale i cavalieri li inseguirono mentre fuggivano sparpagliati. Il
quindici luglio di quello stesso anno venne consacrato a Castore il tempio
promesso dal dittatore Postumio durante la guerra latina: lo
dedicò suo figlio, eletto duumviro espressamente per questo ufficio. Anche quell'anno la plebe cedette al
richiamo allettante della legge agraria. I tribuni della plebe
cercavano di rinforzare la loro autorità popolare con una legge popolare: i
senatori, trovando che era già sufficiente la violenza spontanea della
plebe, vedevano le donazioni come un rischioso stimolo alla
temerarietà. I fautori più accesi dell'opposizione senatoriale furono i
consoli. Così la spuntarono proprio questi ultimi, e non solo nella
circostanza presente: infatti, l'anno successivo, riuscirono anche a portare
al consolato Marco Fabio, fratello di Cesone, e un personaggio ancora
più impopolare, Lucio Valerio, l'uomo cioè che aveva accusato Spurio
Cassio. Anche in quell'anno ci fu una grande
battaglia coi tribuni. La legge subì uno scacco totale, così come lo
subirono quanti l'avevano proposta promettendo cose immantenibili. La
famiglia dei Fabi si conquistò una grande stima con quei tre consolati
consecutivi, tutti caratterizzati da continui conflitti coi tribuni.
Così, visto che era considerato in mani sicure, l'incarico rimase abbastanza a
lungo presso quella famiglia. In séguito scoppiò una guerra con
Veio e i Volsci si ribellarono. Ma visto che per i conflitti esterni c'era un
eccesso di forze, le si impiegò malamente in quelli interni. Al
malessere generale vennero anche ad aggiungersi dei prodigi divini che,
quasi ogni giorno, si manifestavano a Roma e nelle campagne minacciando
sventure. Secondo le interpretazioni pubbliche e private, basate sulle viscere
degli animali e sul volo degli uccelli, l'ira degli dèi aveva
una sola spiegazione possibile: nelle cerimonie religiose non ci si era
attenuti alle prescrizioni rituali. Tutte queste paure non portarono ad
altro che alla condanna della vestale Oppia, accusata di aver violato il voto
di castità. 43 Quinto Fabio e Caio Giulio furono in
séguito eletti consoli. Quell'anno la lotta di classe che dilaniava la
città non fu meno accanita e accesa della guerra combattuta al l'estero.
Gli Equi presero le armi; le scorribande dei Veienti arrivarono fino
all'agro romano. La crescente inquietudine dovuta a queste campagne
è l'atmosfera in cui vengono eletti consoli Cesone Fabio e Spurio Furio.
Gli Equi stavano assediando Ortona, una città latina. I Veienti,
già carichi di bottino, minacciavano di attaccare Roma stessa. Tutti questi
campanelli d'allarme, invece di sedare l'animosità dei plebei, la
incrementarono ulteriormente. E ricominciarono con la politica del boicottaggio del
servizio militare, anche se non spontaneamente: infatti il tribuno
della plebe Spurio Licinio, vedendo nella crisi del momento un'occasione
propizia per imporre ai patrizi la promulgazione di una legge agraria, si
era messo in testa di ostacolare i preparativi di guerra. Da quel momento
in poi il tradizionale odio nei confronti del tribunato si
concentrò esclusivamente sulla sua persona: i consoli non lo attaccarono meno
animosamente dei suoi stessi colleghi e fu proprio grazie al loro sostegno che
riuscirono a organizzare la leva militare. Si reclutarono truppe per due campagne
contemporanee: Fabio sarebbe stato il comandante della spedizione contro
gli Equi, Furio di quella contro i Veienti. Quest'ultima non fece
registrare niente che meriti di essere ricordato. Nella campagna contro gli
Equi, Fabio ebbe in qualche modo più problemi con i suoi effettivi che con i
nemici. Fu soltanto quella grande figura, il console stesso, che resse le
sorti dello Stato, tradito in tutti i modi possibili dai soldati i
quali lo detestavano. Un solo esempio: dopo aver dimostrato in molte
altre occasioni grande abilità nella strategia e nella condotta delle
operazioni, quando il console operò una mossa che gli permise di
sbaragliare le linee nemiche con un assalto della sola cavalleria, la fanteria si
rifiutò di lanciarsi all'inseguimento dei fuggiaschi; e né
l'incitamento dell'odiato generale, né il disonore loro e la vergogna che
in quel momento ricadeva su tutti, né il rischio che il nemico potesse
riprendere coraggio e tornare sui propri passi, nessuno di questi fattori
li spinse ad accelerare l'andatura o, se non altro, a mantenersi
allineati. Così, nonostante gli ordini, ritornarono indietro e, con facce che
avresti detto di vinti, rientrano alla base maledicendo a turno il generale
e l'efficienza della cavalleria. Il comandante non riuscì a
rimediare in nessun modo a questo episodio, per quanto rovinoso fosse stato, e
ciò dimostra che le menti superiori hanno spesso maggiori problemi a imporre la
propria volontà politica ai cittadini che la propria legge militare
ai nemici. Il console ritorna quindi a Roma, non tanto carico di
gloria conquistata sul campo, quanto dell'odio esacerbato e
dell'esasperazione dei soldati nei suoi confronti. Ciò nonostante, i senatori
ottennero che il consolato rimanesse presso la famiglia dei Fabi; nominano console
Marco Fabio cui viene affiancato come collega Gneo Manlio. 44 Quell'anno vide un tribuno, Tiberio
Pontificio, proporre la legge agraria: seguendo pari passo le orme di
Spurio Licinio - come se a lui fosse andata bene -, per un certo
periodo riuscì a ostacolare la leva. Di fronte al rinnovarsi delle
preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse
che l'anno prima si era avuta la meglio sul potere dei tribuni e che
la vittoria in quella precisa occasione
potenzialmente valeva anche per i giorni a venire, in quanto allora si
era scoperto che esso poteva essere annientato proprio con le sue stesse
forze. Infatti ci sarebbe sempre stato un tribuno desideroso di ottenere
un successo personale ai danni del collega e disposto a conquistarsi il
favore del patriziato rendendo un servizio allo Stato. E, all'occorrenza,
un numero più consistente di tribuni non avrebbe esitato a
spalleggiare il console; d'altra parte sarebbe bastato uno contro tutti. La
sola cosa che i consoli e i senatori più in vista dovevano fare era
questa: cercare di portare, se non tutti, almeno qualcuno dei tribuni dalla parte
dello Stato e del senato. L'intero ordine senatoriale, seguendo le
istruzioni di Appio, cominciò a dimostrare ai tribuni gentilezza e
disponibilità; e gli ex consoli, contando
sull'influenza che ciascuno di essi vantava sui singoli, in parte con favori personali, in parte con
l'autorità di cui disponevano, fecero in modo che i tribuni mettessero i loro
poteri al servizio dello Stato. Così, quattro di essi, contro un solo e
ostinato avversario dell'interesse generale, collaborarono coi consoli
nella realizzazione della leva. Fatto questo, partì la
spedizione armata contro Veio, dove si erano concentrati dei contingenti provenienti
da tutta l'Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto
piuttosto perché c'era la speranza che le discordie interne potessero
accelerare il crollo della potenza romana. I capi di tutte le genti
etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che l'egemonia di Roma
sarebbe durata in eterno, se essi non avessero smesso di sbranarsi tra di
loro in tutte quelle lotte fratricide. Quello era l'unico veleno, la sola
rovina delle società fiorenti, nata per far conoscere ai grandi potentati il
senso della caducità. A lungo contenuto, vuoi per l'accorta gestione
dei senatori, vuoi per la rassegnazione della plebe, il male
stava ormai dilagando in maniera incontrollabile. Di uno stato se
n'erano fatti due, con tanto di leggi e magistrati autonomi in ciascuno di
essi. Nei primi tempi c'era un'opposizione accesa e sistematica
alla leva e poi, quando si trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai
comandanti. Qualunque fosse la situazione interna, bastava reggesse la
disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai
magistrati era diventata una moda che aveva coinvolto anche il mondo
militare romano. Che considerassero l'ultima guerra da loro combattuta:
quando lo schieramento allineato era già nel pieno dello scontro,
ecco che tutti i soldati avevano deciso di comune accordo di rimettere la vittoria
nelle mani degli ormai vinti Equi, di liberarsi delle insegne, di
abbandonare il comandante sul campo e di rientrare alla base contro ogni ordine
ricevuto. Nessun dubbio che se gli Equi avessero fatto ancora uno sforzo
Roma sarebbe crollata sotto i colpi dei suoi stessi soldati. Non ci voleva
molto: una semplice dichiarazione di guerra e una dimostrazione di
efficienza militare. Al resto avrebbero pensato il destino e il volere degli
dèi. Queste speranze spinsero gli Etruschi a scendere in guerra,
nonostante la lunga sequenza di alterne vittorie e sconfitte. 45 I consoli romani, a loro volta, non
temevano nulla quanto le proprie forze e le proprie truppe. Memori del
deplorevole incidente occorso nell'ultima guerra, eran terrorizzati
all'idea di scendere in campo per affrontare contemporaneamente la
minaccia di due eserciti. Così stazionavano all'interno
dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di quel doppio pericolo. Non era escluso
che il tempo e i casi della vita avrebbero ridotto la tensione degli
uomini e riportato il buon senso. Ma proprio per questo i loro nemici,
Etruschi e Veienti, stavano accelerando al massimo le operazioni: sulle prime
li provocarono a scendere in campo cavalcando nei pressi dell'accampamento
e sfidandoli a uscire; poi, visto il nulla di fatto, presero a insultare
a turno i consoli e la truppa. Dicevano che la storia della lotta di
classe era un pretesto per coprire la paura e che il dubbio più
grande dei consoli non era rappresentato tanto dalla lealtà quanto dal
valore dei loro uomini. Che razza di ammutinamento poteva essere una rivolta
di soldati di leva tutti buoni e silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano
altre, più o meno fondate, circa le recenti origini della loro
razza. I consoli non reagivano a questi insulti provenienti proprio da
sotto il fossato e le porte. La moltitudine, invece, meno portata a
simulare, passava dall'indignazione all'umiliazione più profonda e
si dimenticava degli attriti sociali: voleva farla pagare ai nemici e nel
contempo non voleva che i consoli e il patriziato potessero vantare una
vittoria. Il conflitto psicologico era tra l'odio per la classe avversaria e
quello per il nemico. Alla fin fine ebbe la meglio il secondo, tanto
insolente e arrogante era diventato lo scherno dei nemici. Si accalcano
davanti al pretorio, reclamano la battaglia, chiedono che si dia il
segnale. I consoli confabulano, come se fossero in piena riunione di consiglio.
La discussione dura a lungo. Il loro desiderio era combattere; nel
contempo, però, frenavano e dissimulavano il desiderio stesso in
odo tale che crescesse l'impeto dei soldati ostacolati e trattenuti. Gli
uomini si sentirono rispondere che attaccare sarebbe stato prematuro
perché gli sviluppi della situazione non erano ancora arrivati al punto giusto.
Quindi che rimanessero nell'accampamento. Seguì
l'ordine di astenersi dal combattere: se qualcuno, violando la consegna, avesse
combattuto sarebbe stato trattato come un nemico. Con queste parole li
congedarono: ma il loro apparente rifiuto fece crescere negli uomini
l'impazienza di buttarsi all'assalto. Quando i nemici vennero a sapere che il
console aveva interdetto ai suoi di scendere in campo, si accanirono
ulteriormente nella provocazione, infiammando così ancora di
più i soldati romani. Era evidente che li potevano schernire senza correre
rischi: godevano di così poca fiducia che venivano negate loro persino le armi.
La conclusione sarebbe stato un ammutinamento generale con il
conseguente crollo della potenza romana. Forti di queste convinzioni, vanno a
lanciare grida di scherno davanti alle porte dell'accampamento e si
trattengono a stento dall'assalirlo. A quel punto i Romani non poterono
sopportare oltre gli insulti e da tutti i punti del campo si riversarono di corsa
davanti ai consoli: le loro non erano più come prima richieste
disciplinate e presentate per bocca dei primi centurioni, ma un coro di voci
scomposte. La cosa era matura: tuttavia i consoli tergiversavano. Alla
fine, Fabio, vedendo che il collega, di fronte a quel crescente
tumulto, era sul punto di cedere per paura di una sommossa, chiamò un
trombettiere per imporre il silenzio e poi disse: «Questi uomini, Gneo Manlio,
possono vincere, te lo assicuro; che lo vogliano, ho qualche dubbio, e
per colpa loro. Quindi sono deciso a non dare il segnale di battaglia se
prima non giurano di ritornare vincitori. Le truppe, durante le fasi
di uno scontro, han tradito una volta il console romano: gli dèi
non li tradiranno mai». A quel punto, un centurione di nome Marco Flavoleio, tra
i più accaniti nel reclamare la battaglia, disse: «Tornerò
vincitore, o Marco Fabio!» Augurò che l'ira del padre Giove, di Marte Gradivo e degli
altri dèi potesse abbattersi su di lui in caso di fallimento. A seguire
giurarono tuti gli altri uomini, ripetendo ciascuno lo stesso augurio
nei propri confronti. Finito il giuramento si sente il segnale e tutti
corrono ad armarsi, pronti a scendere in campo con una carica di
rabbioso ottimismo. Ora sfidano gli Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno
sfida quelle male lingue a farsi sotto, ad affrontare il nemico adesso
che è armato di tutto punto! Quel giorno, patrizi e plebei senza
differenze, brillarono tutti per il grande coraggio dimostrato. Al di sopra di
ogni altro, però, il nome dei Fabi: con quella battaglia essi
riguadagnarono il favore popolare perso nel corso della lunga sequenza di lotte
politiche a Roma. 46 L'esercito viene schierato e né i
Veienti né le legioni etrusche si tirano indietro. La loro certezza quasi
assoluta era questa: i Romani non li avrebbero affrontati con maggiore
determinazione di quanta ne avevano dimostrata con gli Equi; oltretutto,
vista l'esasperazione degli animi e la totale incertezza dello scontro, non
era escluso che commettessero qualche nuovo e imprevedibile errore.
Ma le cose andarono in tutt'altra maniera: in nessuna delle guerre del
passato i Romani si erano prodotti in un attacco così violento, tanto
li avevano esasperati sia gli insulti del nemico sia gli indugi dei consoli. Gli
Etruschi avevano appena avuto il tempo di spiegare il proprio
schieramento che i Romani, nel pieno della concitazione iniziale, prima avevano
lanciato a caso le aste più che prendendo la mira, e poi erano arrivati
al corpo a corpo con la spada, cioè proprio il tipo più
pericoloso di duello. Nelle prime file le prodezze straordinarie dei Fabi erano
un esempio per i concittadini. Uno di essi, quel Quinto Fabio che era
stato console due anni prima, stava guidando l'attacco contro un gruppo
compatto di Veienti, quando un etrusco fortissimo e particolarmente esperto
nel maneggiare le armi lo sorprese mentre incautamente si spingeva tra un
nugolo di nemici e lo passò da parte a parte in pieno petto. E una
volta estratta la spada, Fabio crollò a terra riverso sulla ferita. Anche se
si trattava di un uomo solo, la notizia della sua morte fece scalpore
in entrambi gli schieramenti e i Romani stavano già per cedere,
quando il console Marco Fabio, scavalcandone il cadavere e
proteggendosi con lo scudo, gridò: «È questo che avete giurato, soldati? Fuggire e
ritornare al campo? Allora vuol dire che temete quei gran codardi dei nemici
più di Giove o Marte, in nome dei quali avete giurato? Benissimo: io non
ho giurato, eppure o tornerò indietro vincitore o cadrò
battendomi qui accanto a te, Quinto Fabio!» Alle parole del console replicò
allora Cesone Fabio, console l'anno precedente: «Credi, fratello, che diano
retta alle tue parole e tornino a combattere? Daranno retta agli
dèi, è su di loro che han giurato. Quanto a noi, per il rango sociale che occupiamo
e per il nome che portiamo (siamo o non siamo dei Fabi?), è nostro
dovere infiammare l'animo dei soldati più con l'esempio concreto che con tanti
discorsi». Detto questo, i due Fabi volarono in prima linea con le lance in
resta e si trascinarono dietro tutto l'esercito. 47 Così furono risollevate le
sorti della battaglia da quella parte. Dall'altra ala dello schieramento il
console Gneo Manlio stava impegnandosi con non meno ardore a
sostenere il combattimento, quando accadde un episodio quasi del tutto
analogo. Infatti, come prima Quinto Fabio all'ala opposta, così
adesso da questa parte Manlio, mentre stava guidando l'attacco impetuoso dei suoi
soldati contro il nemico già quasi allo sbaraglio, fu ferito gravemente e
dovette abbandonare la battaglia. La truppa, credendolo morto,
cominciò a vacillare e avrebbe ceduto la posizione se l'altro console, arrivato
al galoppo da quella parte con alcuni squadroni di cavalieri, gridando
che il suo collega era vivo e che egli stesso aveva piegato e messo in
fuga i nemici dall'altro versante dello schieramento, non avesse
raddrizzato la situazione. Anche Manlio, facendosi vedere in mezzo a loro,
contribuisce a rimettere in sesto la linea di battaglia. E il morale degli
uomini riprende sùbito quota appena riconoscono i lineamenti dei due
consoli. Nello stesso istante si riduce anche la pressione del nemico perché
essi, contando sulla superiorità numerica, avevano ritirato le riserve e
le avevano mandate ad attaccare l'accampamento romano. Lì la
resistenza è di breve durata, nonostante la violenza relativamente modesta
dell'urto. Mentre però i nemici si davano da fare col bottino più che
preoccuparsi degli sviluppi della battaglia, i triarii romani, che non erano stati
capaci di sostenere l'impeto iniziale, mandarono dei messaggeri per riferire
ai consoli come andavano le cose; quindi, riunitisi di nuovo nei pressi
del pretorio, lanciarono un contrattacco senza aspettare i rinforzi
e di loro spontanea volontà. Nel frattempo il console Manlio era
rientrato nell'accampamento e, piazzando degli uomini in corrispondenza di tutte
le porte, aveva tagliato al nemico ogni via d'uscita. Gli Etruschi allora,
in quella situazione disperata, invece di dare una dimostrazione di
coraggio, persero la testa. Infatti, dopo aver più volte tentato
invano di sfondare dove speravano che fosse possibile una sortita, un gruppo compatto
di giovani si lanciò dritto sul console, dopo averlo individuato per il
tipo di armamento che aveva addosso. I primi colpi furono parati
dai soldati del suo séguito, ma l'urto era troppo violento per poterlo
reggere più a lungo; e il console cadde, ferito a morte, mentre gli
uomini del suo presidio personale fuggirono. Gli Etruschi ripresero
allora coraggio e il panico si impadronì dei Romani che correvano all'impazzata
per l'accampamento: la situazione sarebbe veramente precipitata, se
alcuni ufficiali superiori, dopo essersi impadroniti del corpo del console, non
avessero dato via libera ai nemici da una delle porte. Fu di lì che
si lanciarono fuori, andando però a cozzare senza più nessun ordine
nel console vincitore che li massacrò di nuovo e quindi li disperse. Fu una grande vittoria, anche se
funestata dalla morte di due uomini di quella statura. Così il console,
quando il senato autorizzò il trionfo, disse in risposta che se le truppe lo
potevano celebrare senza il loro generale, egli avrebbe dato volentieri
il proprio consenso per l'eccellente prestazione da esse
offerta in quella guerra. Quanto a se stesso, con la famiglia in pieno lutto
per la morte del fratello Quinto Fabio e lo Stato mutilato in una delle
sue parti per la perdita dell'altro console, non avrebbe potuto accettare
la corona d'alloro in quel momento di grande cordoglio pubblico e privato.
Il rifiuto del trionfo fu un titolo di merito superiore a qualsiasi
altro trionfo mai celebrato, com'è vero che rifiutare la gloria al momento
giusto significa raddoppiarla col tempo. Poi celebrò uno dopo
l'altro i funerali del collega e del fratello, e in entrambi i casi pronunciò
l'orazione funebre: pur non togliendo ai due uomini alcun merito, riuscì
a concentrare su se stesso buona parte delle lodi. E senza perdere di vista
quella politica di riconciliazione con la plebe che era stata uno dei suoi
obiettivi principali all'inizio del consolato, affidò ai patrizi
il compito di curare i soldati feriti. La maggior parte toccò ai Fabi e le
attenzioni che essi ricevettero in questa casa non ebbero uguali nel resto della
città. Da quel momento i Fabi cominciarono a essere popolari presso
la plebe e fu soltanto servendo lo Stato che essi raggiunsero un simile
obiettivo. 48 Poi entrambe le parti, patrizi e
plebei, mostrano un'uguale propensione nel voler nominare console Cesone Fabio
accanto a Tito Verginio. Il primo, all'inizio del suo mandato, lasciando
da parte guerra, leva militare e ogni altro problema governativo, si
concentrò esclusivamente sulla realizzazione del suo progetto, fino a
quel momento solo abbozzato, della riconciliazione tra plebe e patriziato.
Così, nei primi mesi di quell'anno, per evitare che un qualche
tribuno saltasse fuori con proposte di legge agraria, suggerì ai
senatori di giocare d'anticipo e di agire autonomamente distribuendo alla plebe
la terra conquistata e facendolo nella massima imparzialità
possibile. Era giusto diventasse proprietà di quanti avevano dato sangue e sudore per
conquistarla. I senatori bocciarono la proposta e, anzi, alcuni
di loro arrivarono a dire che l'eccesso di gloria aveva insuperbito e
offuscato la mente di Cesone una volta molto lucida. In séguito il conflitto tra le classi
urbane conobbe un periodo di stallo. I Latini erano tormentati dalle
incursioni degli Equi. Cesone si recò allora con un esercito nel territorio
degli Equi per compiervi delle razzie. Gli Equi si arroccarono nella
loro città, al riparo delle fortificazioni, e fu per questo che non
ci fu nessuno scontro particolarmente memorabile. Coi
Veienti, invece, si registrò una disfatta solo a causa della temerarietà
dell'altro console: l'esercito sarebbe stato distrutto, se Cesone Fabio non
fosse arrivato per tempo in aiuto. Dopo questo episodio, i rapporti coi
Veienti non furono né pacifici né bellicosi, ma si limitarono a una sorta
di reciproca scorrettezza. Di fronte alle legioni romane, si arroccavano
nelle loro città; quando vedevano che le legioni si erano
ritirate, allora uscivano e facevano delle scorrerie nelle campagne,
eludendo alternativamente la guerra con una sorta di pace e la pace con la
guerra. In modo tale che la cosa non poteva né essere abbandonata né esser
portata a compimento. Quanto ai rapporti con gli altri popoli, si era
di fronte o a guerre imminenti (per esempio con Equi e Volsci, la cui
inattività non poteva durare più del tempo necessario per digerire il
dolore, ancora bruciante, per l'ultima disfatta) o a guerre destinate a
scoppiare di lì a poco (con i Sabini sempre ostili e con l'intera Etruria).
Ma i Veienti, tipo di nemici più ostinati che insidiosi e portati
maggiormente a provocare che a creare pericoli, faceva tenere il fiato in
sospeso perché non lo si poteva mai perdere di vista e impediva di
rivolgere altrove l'attenzione. Allora la gente Fabia si presentò di
fronte al senato e il console parlò a nome della propria famiglia: «Nella guerra
contro Veio, come voi sapete, o padri coscritti, la costanza dello
sforzo militare conta più della quantità di uomini impiegati.
Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate che i Fabi se la vedano coi Veienti.
Per quel che ci concerne, vi garantiamo di tutelare l'onore del
popolo romano: è nostra ferma intenzione trattare questa guerra alla
stregua di una questione di famiglia e di accollarcene tutte le
spese: lo Stato non deve preoccuparsi né dei soldati né del denaro.»
Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il console uscì dalla curia e se ne
tornò a casa scortato da un nutrito drappello di Fabi, i quali avevano
aspettato il verdetto del senato nel vestibolo della curia. Quindi, ricevuto
l'ordin di trovarsi il giorno dopo, armati di tutto punto, di fronte
alla porta del console, rientrarono tutti nelle proprie case. 49 La notizia fece il giro della
città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da
sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era
trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. Se in città
ci fossero state altre due famiglie così forti, una si
sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli Equi e il popolo romano si sarebbe
goduto beatamente la pace una volta sottomessi tutti i vicini. Il giorno
successivo i Fabi si presentano all'appuntamento armati di tutto punto.
Il console, uscito nel vestibolo in uniforme da guerra, vede schierati
tutti i membri della sua famiglia e, postovisi a capo, dà ordine di
mettersi in marcia. Per le vie di Roma non sfilò mai in passato nessun altro
esercito meno numeroso ma nel contempo così acclamato e ammirato dalla
gente. Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa famiglia, ciascuno
dei quali più che degno di esserne al comando, e capaci insieme di
formare, in qualsiasi momento, un'eccellente assemblea, avanzarono a
passo di marcia minacciando l'esistenza del popolo di Veio con le
forze di una sola famiglia. Li seguiva una folla in parte costituita
da parenti e amici - gente straordinaria che volgeva l'animo non
alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi - e in
parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di
entusiasmo e ammirazione. Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal
coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno
dell'impresa. E una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e
trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento. Quando passarono
davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte
le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano
loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di
restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti. Ma vane furono le
preghiere. Partiti lungo la Via Infelice e passati dall'arcata destra
della porta Carmentale, arrivarono alla riva del torrnte Cremera,
posizione che sembrò indicata per la costruzione di un campo fortificato. Dopo questi episodi furono eletti
consoli Lucio Emilio e Caio Servilio. Finché si trattò soltanto di
razzie, i Fabi non solo garantirono una sicura protezione al loro campo
fortificato, ma in tutta l'area di confine tra la campagna romana e quella etrusca
resero sicura la propria zona e, con continui sconfinamenti, crearono un
clima di pericolo costante nel territorio nemico. Quindi le razzie
cessarono per un breve tempo, finché i Veienti, reclutato un esercito in
Etruria, attaccarono il presidio di Cremera e le legioni romane agli ordini
del console Lucio Emilio li affrontarono in uno scontro all'arma
bianca. A dir la verità, i Veienti ebbero così poco tempo per
schierarsi in ordine di battaglia che, quando nel disordine delle manovre iniziali
era in corso l'allineamento dietro le insegne e la collocazione dei
riservisti al loro posto, la cavalleria romana li caricò all'improvviso
sul fianco, togliendo loro la possibilità non solo di attaccare per primi, ma
anche di mantenere la posizione. Respinti in fuga fino al loro
accampamento a Saxa Rubra, implorarono la pace. Ma per la debolezza tipica del
loro carattere, si pentirono di averla ottenuta prima che la
guarnigione romana avesse evacuato il campo di Cremera. 50 Il popolo di Veio si trovò di
nuovo nella necessità di vedersela coi Fabi, senza però essere meglio
preparato alla guerra. E non si trattava più soltanto di razzie nelle
campagne e di repentine rappresaglie contro i razziatori, ma si combatté non poche
volte in campo aperto e a ranghi serrati, e una famiglia romana, pur
misurandosi da sola, ebbe più volte la meglio su quella città etrusca
allora potentissima. Sulle prime ai Veienti ciò parve umiliante e penoso.
Poi però, studiando la situazione, decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico
irriducibile, anche perché vedevano con piacere che i reiterati
successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi. Così,
parecchie volte, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano
trovare loro, come per pura coincidenza, del bestiame sulla strada; vaste
estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti
inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più spesso
simulato che reale. E ormai i Fabi si erano fatti un'idea tale del nemico da non
ritenerlo in grado di sostenere le loro armi vittoriose, qualunque fossero
stati l'occasione e il luogo dello scontro. Quest'illusione li
portò ad uscire allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare
una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera.
Dopo aver superato, senza però rendersene conto vista la
velocità con cui procedevano, un'imboscata proprio sulla loro strada, si
dispersero nel tentativo di catturare il bestiame che, come sempre succede
quando reagisce spaventato, correva all'impazzata in tutte le direzioni.
Proprio in quel momento, si trovarono all'improvviso di fronte i nemici
saltati fuori dovunque dai loro nascondigli. Prima fu il terrore per
l'urlo di guerra levatosi intorno a loro, poi cominciarono a volare
proiettili da ogni parte. E mentre gli Etruschi con una manovra centripeta li
chiusero in una fila ininterrotta di uomini, in modo che a ogni loro
passo avanti corrispondeva una riduzione dello spazio concentrico in
cui i Romani si potevano muovere, questa mossa ne mise in chiara luce
l'inconsistenza numerica esaltando invece la massa compatta degli Etruschi
che sembravano il doppio in quella stretta fascia di terra. Allora,
rinunciando alla resistenza che avevano sostenuto in tutti i settori, si
concentrarono in un unico punto dove, grazie alla forza d'urto e alla loro
perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo. In
quella direzione arrivarono a un'altura appena accennata, dove in un
primo tempo riuscirono a resistere. Poi, dato che la posizione sopraelevata
permise loro di tirare il fiato e di riprendersi dal grande spavento,
respinsero anche i nemici che pressavano da sotto. Quel pugno di
uomini stava avendo la meglio grazie alla posizione vantaggiosa, quando i
Veienti spediti ad aggirare l'altura emersero da dietro sulla cima e
permisero ai compagni di riprendere in mano la situazione. I Fabi vennero
massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato. Nessun
dubbio: morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, pco
più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita la stirpe dei Fabi e a diventare per
Roma, nei momenti più cupi in pace e in guerra, un sostegno fondamentale. 51 Al momento di questo disastro, Gaio
Orazio e Tito Menenio erano già consoli. Menenio fu subito inviato a
fronteggiare gli Etruschi esaltati dalla vittoria. Ancora una volta la
spedizione ebbe un esito sfavorevole e i nemici occuparono il Gianicolo. E
avrebbero addirittura assediato Roma, messa alle strette non solo dalla
guerra ma da una carestia in atto (infatti gli Etruschi avevano
attraversato il Tevere), se il console Orazio non fosse stato richiamato dal
paese dei Volsci. La guerra stava minacciando le mura così da
vicino che avevano già avuto luogo una prima battaglia dall'esito incerto presso il
tempio della Speranza e una seconda davanti alla porta Collina. Lì,
i Romani ebbero la meglio, anche se di poco; tuttavia questa battaglia
restituì ai soldati il coraggio dei giorni migliori in vista degli scontri a
venire. Aulo Verginio e Spurio Servilio
diventano consoli. Dopo la sconfitta subita di recente, i Veienti evitarono
il confronto in campo aperto e optarono per la tecnica della
scorribanda: utilizzando il Gianicolo come campo base, facevano incursioni qua e
là nella campagna romana e tutti, bestiame e contadini, erano in
pericolo. Ma dopo un po' di tempo furono vittime della stessa trappola nella
quale erano caduti i Fabi: mentre stavano inseguendo i capi di bestiame
utilizzati intenzionalmente come esca, caddero in un'imboscata; siccome
però eran più numerosi dei Fabi, le proporzioni del massacro furono
maggiori. Questo disastro, suscitando la loro rabbiosa reazione,
rappresentò l'inizio e la causa di una ben più grave disfatta. Infatti, attraversato
il Tevere in piena notte, si buttarono all'assalto del campo del
console Servilio. Respinti però con ingenti perdite, riuscirono a riparare
faticosamente sul Gianicolo. Senza indugiare un attimo, il console
passò a sua volta il Tevere e piazzò un campo fortificato sotto il Gianicolo.
All'alba del giorno successivo, esaltato in parte dal successo del
giorno prima, ma soprattutto costretto dalla carestia a optare per soluzioni
spericolate purché di rapido effetto, arrivò a una tale
temerarietà da spingere le sue truppe su per le pendici del Gianicolo fino al campo
nemico: la sconfitta fu peggiore di quella subita dai Veienti il giorno
precedente e, soltanto grazie all'intervento del collega, lui e le
sue truppe ne uscirono incolumi. Gli Etruschi, presi tra due eserciti,
dovendo dare le spalle ora all'uno ora all'altro, subirono un vero massacro.
Così, grazie a un'imprudenza dalle conseguenze fortunate, la guerra contro
Veio venne soffocata. 52 A Roma, col ritorno della pace,
anche i prezzi degli alimentari tornarono a un livello ragionevole, sia
per l'importazione di frumento dalla Campania sia perché, una volta
cessato in tutti il terrore di una nuova carestia, vennero rimesse in
circolazione le derrate nascoste durante i tempi bui. Però, con
l'abbondanza e l'inattività tornò di nuovo negli animi un'atmosfera di malessere
e, visto che all'estero non c'era più nulla che potesse
impensierire, si presero a rispolverare in patria gli attriti di un tempo. I tribuni
sobillavano i plebei con il veleno di sempre, cioè la legge agraria;
li incitavano contro la resistenza del patriziato, e non solo contro l'intera
classe, ma anche contro i singoli individui. Quinto Considio e Tito
Genucio, promotori della legge agraria, citarono in giudizio Tito Menenio. Lo
si accusava di aver abbandonato la roccaforte di Cremera, quando lui, in
qualità di console, aveva un accampamento fisso non lontano da quel
punto. Questo episodio gli costò carissimo, pur essendosi i senatori
fatti in quattro per lui non meno che per Coriolano e pur essendo ancora
solidissima la popolarità di suo padre Agrippa. Nella richiesta della pena i
tribuni non vollero esagerare: nonostante avessero chiesto la pena di
morte, si limitarono tuttavia a condannarlo a un'ammenda di duemila
assi. Questo gli costò comunque la vita: si dice che non riuscendo a
sopportare un disonore così doloroso, si ammalò e ne morì. Durante il consolato di Caio Nauzio e
Publio Valerio, proprio all'inizio dell'anno, ci fu un altro processo,
questa volta ai danni di Spurio Servilio, appena uscito di carica.
Citato in giudizio dai tribuni Lucio Cedicio e Tito Stazio, contrariamente a
Menenio che aveva adottato come linea di difesa le suppliche sue e dei
senatori, Servilio parò le accuse dei tribuni con la grande fiducia nella
propria innocenza e nel favore che vantava presso il popolo. Anche lui era
accusato per la battaglia con gli Etruschi lungo le pendici del
Gianicolo. Ma, dimostrandosi uomo di grande temperamento non meno nel perorare la
propria causa che nella difesa della patria, con un discorso coraggiosissimo
confutò non solo le accuse dei tribuni ma anche la plebe; a essa
rinfacciò di aver preteso la condanna a morte di Tito Menenio quando era
proprio grazie a suo padre che i plebei tempo addietro erano stati ricondotti a
Roma e avevano ottenuto quei magistrati e quelle stesse leggi di cui
ora abusavano. E fu proprio la sua audacia a salvarlo. Un grande aiuto lo
ebbe anche dal collega Verginio che, prodotto in qualità di
teste, divise con lui i propri meriti. Ma l'orientamento dell'opinione pubblica
era così cambiato che l'elemento decisivo a suo discapito fu la condanna
di Menenio. 53 Niente più lotte di classe a
Roma e di nuovo guerra contro i Veienti, questa volta coalizzati coi Sabini. Il
console Publio Valerio fu inviato a Veio a fronteggiarli con le sue truppe
e con reparti ausiliari forniti da Ernici e Latini. Avendo sùbito
assalito l'accampamento sabino situato di fronte alle mura nemiche, vi
gettò un tale scompiglio che, mentre le compagnie uscivano alla rinfusa per
respingere l'attacco nemico, egli si impadronì di quella stessa porta
che era stata il primo obiettivo della sua azione di forza. Quel che
seguì all'interno del campo non fu una battaglia quanto un vero massacro. Il
grande trambusto arrivò di lì fino alla città e gli abitanti, in
preda al panico come se Veio fosse stata catturata, corsero alle armi. Parte di
essi andò in soccorso ai Sabini, parte si buttò a corpo morto sui
Romani che, concentrati esclusivamente su quanto avveniva all'interno del campo,
ebbero un momentaneo disorientamento. Poi, dopo che essi si
furono stabilizzati in una posizione di doppio contenimento,
sopraggiunse la cavalleria agli ordini del console e disperse gli Etruschi
costringendoli alla ritirata. Nello stesso momento gli eserciti dei due
vicini più potenti erano stati sconfitti. Mentre erano in corso queste
operazioni contro Veio, i Volsci e gli Equi si erano accampati nel territorio
latino e avevano razziato i dintorni. I Latini, soltanto con i
propri mezzi e il sostegno degli Ernici, senza ricevere da Roma né un
comandante né truppe di rinforzo, li scacciarono dall'accampamento e, oltre
a recuperare quello che apparteneva loro, si impossessarono di un grande
bottino. Da Roma, tuttavia, fu inviato contro i Volsci il console Gaio
Nauzio. Non era gradito, credo, che gli alleati decidessero e
conducessero le guerre da soli, senza un esercito e un generale romani. Nei
confronti dei Volsci non si andò per il sottile con le distruzioni e le
provocazioni: ciò nonostante, risultò impossibile costringerli a uno scontro
aperto. 54 I consoli successivi furono Lucio Furio
e Gaio Manilio. A quest'ultimo toccarono i Veienti. Tuttavia non si
arrivò a combattere in quanto, su loro espressa richiesta, venne concessa
una tregua di quarant'anni in cambio di denaro e frumento. Alla pace
con l'estero successe immediatamente una ripresa dei
disordini interni. I tribuni aizzavano la plebe con l'arma della legge agraria. I
consoli, per nulla spaventati al ricordo della condanna di Menenio e del
pericolo corso da Servilio, resistevano con grande forza. Al
termine però del loro mandato, il tribuno della plebe Gneo Genucio li
trascinò in giudizio. Lucio Emilio e Opitro Verginio entrano
quindi in carica come consoli. In alcuni annali ho trovato Vopisco Giulio
al posto di Verginio. In quell'anno - chiunque fossero i consoli
- Furio e Manilio, accusati di fronte al popolo, andarono in giro
vestiti a lutto visitando non meno i plebei che i giovani senatori. Li
mettevano in guardia e li dissuadevano dall'assumere cariche onorifiche e dal
lasciarsi invischiare nella gestione dello Stato; cercavano di far
capire loro che le fasce consolari, la toga pretesta e la sella curule non
erano nient'altro che accessori da pompe funebri: quegli splendidi
ornamenti valevano le bende sulla fronte delle vittime, e portarli significava
avviarsi alla morte. Se il consolato li affascinava tanto, almeno si
rendessero conto che ormai esso era ostaggio e schiavo dello strapotere
tribunizio e che il console, ridotto al rango di subalterno dei tribuni, era
costretto a subordinare ogni suo movimento al cenno e agli ordini dei
tribuni stessi; qualunque suo movimento, qualunque segno di reverenza
nei confronti dei senatori, qualunque concezione che non
contemplasse la plebe come unica presenza all'interno dello Stato, avrebbe dovuto
fare i conti con l'esilio di Gneo Marzio e con la condanna a morte di
Menenio. Infiammati da queste parole, i
senatori cominciarono a tenere riunioni che non avevano carattere pubblico ma si svolgevano in privato e
all'insaputa della maggior parte dei cittadini. Durante questi incontri
una sola era la parola d'ordine: gli imputati andavano sottratti al
giudizio ricorrendo a procedure lecite o meno; di conseguenza, più una
proposta era turbolenta, più incontrava il favore dei convenuti e non mancavano
anche i fautori di gesti assolutamente temerari. Così, il
giorno del giudizio, con la plebe in piedi nel foro (nessuno osava fiatare
nell'attesa), sulle prime ci fu un'ondata di stupore per la mancata
comparsa del tribuno e poi, quando la sorpresa si trasformò in
sospetto, tutti cominciarono a pensare che il magistrato si fosse venduto ai patrizi
e avesse proditoriamente abbandonato la causa dello Stato. Alla
fine, quelli che erano andati ad aspettare il tribuno davanti alla porta
tornarono dicendo che lo avevano trovato morto in casa. Appena la
notizia si diffuse in tutta l'assemblea, come un esercito che si squaglia quando
il comandante cade sul campo, così la folla si disperse in tutte le
direzioni. I più terrorizzati erano però i tribuni, perché la morte del collega
aveva chiaramente dimostrato la scarsa protezione che veniva loro
garantita dalla legge sull'inviolabilità. Né i
senatori riuscirono a mascherare la propria soddisfazione: il crimine commesso
suscitò così pochi sensi di colpa che addirittura gli innocenti volevano far
vedere di avervi preso parte e tutti ormai parlavano della violenza
come unico antidoto al potere dei trbuni. 55 Subito dopo questa vittoria, che
costituiva un pericoloso avvertimento, viene bandita una leva militare che i
consoli riescono a portare a termine senza la minima opposizione da parte
degli spaventatissimi tribuni. In quell'occasione la plebe andò su
tutte le furie più per il silenzio dei tribuni che per l'autorità dei
consoli e cominciò a sostenere che la sua non era più libertà, che
si era tornati ai soprusi di una volta e che con Genucio il potere tribunizio era morto
e sepolto in un colpo solo. Per resistere ai patrizi bisognava adottare
e impiegare una tecnica diversa. La sola via praticabile sembrava
però questa: difendersi da soli visto che mancava ogni altra forma di aiuto. La
scorta dei consoli consisteva di ventiquattro littori e anch'essi erano
uomini del popolo. Niente più disprezzabile e più instabile di
costoro, se solo ci fosse stato qualcuno capace di disprezzarli. Era l'idea che
ciascuno si era fatta di loro a renderli imponenti e inquietanti.
Quando ormai gli uni e gli altri si erano reciprocamente infiammati con
questi discorsi, i consoli mandarono un littore ad arrestare Volerone
Publilio, un plebeo che non voleva essere arruolato come soldato semplice in
quanto sosteneva di essere stato
centurione. Volerone si appella ai tribuni. Ma dato che nessuno di
essi si presentò a sostenere la sua
causa, i consoli ordinarono di spogliarlo e di farlo frustare. Allora Volerone disse:
«Mi appello al popolo, perché i tribuni preferiscono assistere alla
fustigazione di un cittadino romano piuttosto che lasciarsi trucidare da
voi nel loro stesso letto». E più si agitava e dava in escandescenze,
più il littore si accaniva a spogliarlo e a strappargli le vesti. Allora
Volerone, già di per sé possente e in più coadiuvato da quanti aveva fatto
intervenire in suo soccorso, si scrollò di dosso il littore e, andandosi a
rifugiare nel mezzo della mischia tra quelli che urlavano con più
accanimento, disse: «Mi appello al popolo e invoco la sua protezione! Aiuto,
concittadini! Aiuto, commilitoni! Non contate sui tribuni: sono loro che han
bisogno del vostro aiuto!» La gente, quanto mai eccitata, si prepara
come per andare in battaglia: era chiaro ce la situazione poteva avere
qualsiasi tipo di sviluppo e che nessun diritto pubblico o privato
sarebbe stato rispettato. I consoli, dopo aver tenuto testa a quella bufera,
si resero conto di quanto sia insicura l'autorità senza
l'impiego della forza. I littori furono malmenati e i loro fasci fatti a pezzi;
quanto poi ai consoli stessi, vennero spinti dal foro nella curia,
senza sapere fino a che punto Volerone avrebbe voluto sfruttare quella
vittoria. Quando poi, a disordini finiti, essi convocarono il senato, si
lamentarono dell'affronto subito, della violenza popolare e della
sfrontatezza di Volerone. Nonostante molti interventi veementi, ebbe la meglio la
volontà dei più anziani, ai quali non andava affatto a genio uno scontro
tra la rabbia dei senatori e l'irrazionalità della plebe. 56 Alle elezioni successive, Volerone,
divenuto un beniamino della plebe, fu nominato suo tribuno per quell'anno
che ebbe come consoli Lucio Pinario e Publio Furio. Contrariamente a quanto
tutti si aspettavano, e cioè che egli avrebbe usufruito della carica per
dare addosso ai consoli uscenti, Volerone diede invece la precedenza
all'interesse popolare rispetto al risentimento privato e, senza il benché
minimo attacco verbale ai consoli, presentò al popolo un progetto
di legge secondo il quale i magistrati della plebe avrebbero dovuto essere
eletti dai comizi tributi. Benché a prima vista sembrasse un provvedimento
del tutto innocuo, si trattava di cosa serissima perché avrebbe tolto al
patriziato la possibilità di far eleggere i tribuni di suo gradimento
attraverso il voto dei clienti. Questa proposta, salutata con
entusiasmo dalla plebe, si scontrò con l'opposizione incrollabile dei
senatori; dato però che né l'influenza dei consoli né quella dei cittadini
più in vista riuscì a ottenere il veto di uno dei membri del collegio (ed era
questo l'unico tipo di ostruzionismo praticabile), la questione, a causa
della sua intrinseca delicatezza, fu il principale argomento di discussione
per l'intera durata dell'anno. La plebe rielegge Volerone tribuno: i senatori,
pensando che si sarebbe arrivati ai ferri corti, eleggono
console Appio Claudio, figlio di Appio e già subito detestato e malvisto
dalla plebe per le battaglie antidemocratiche sostenute dal padre.
Come collega gli assegnano Tito Quinzio. All'inizio dell'anno non si parlava
d'altro che di quella legge. E come Volerone ne era stato il promotore,
così il suo collega Letorio la sosteneva con ancora più
entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo del suo prestigioso servizio militare perché come
soldato dava dei punti a tutti i coetanei. Mentre Volerone non aveva
altro argomento che la legge ma si asteneva da ogni forma di attacco
contro le persone dei consoli, Letorio, invece, lanciatosi in una filippica
contro Appio e le crudeltà antipopolari della sua arrogantissima
famiglia, arrivò ad accusare i patrizi di aver eletto non un console
ma un carnefice chiamato a torturare e a fare a pezzi la plebe; solo che la
rozzezza del suo linguaggio da caserma non era in grado di sostenere
la franchezza del suo sentire. Così, mancandogli le parole, disse: «Visto
che i gran discorsi non sono il mio forte, o Quiriti, vediamo di mettere in
pratica quel che ho detto e troviamoci qui domani. Quanto a me, o
vi morirò davanti agli occhi, o farò passare la legge.» Il giorno successivo
i tribuni occupano i rostri, mentre i consoli e i patrizi rimangono
in piedi in mezzo alla gente, col preciso intento di impedire
l'approvazione della legge. Letorio ordina di allontanare tutti i non aventi diritto
di voto. I giovani nobili rimanevano al loro posto senza dar
retta agli uscieri. Allora Letorio ordina di arrestarne qualcuno. Il
console Appio replicò che l'autorità dei tribuni era ristretta alla plebe in
quanto non si trattava di una magistratura del popolo ma della plebe;
se anche poi si fosse trattato di una magistratura del popolo, stando
alla tradizione, non aveva alcun diritto di ordinare l'allontanamento di
nessuno in quanto la formula era questa: «Se non vi dispiace, Quiriti,
allontanatevi.» Spostando la discussione sulla sfera del diritto e
facendolo in maniera sprezzante, Appio poteva facilmente provocare
Letorio. Così, livido dalla rabbia, il tribuno inviò il suo messo al
console, mentre quest'ultimo gli mandò un littore gridando che Letorio era
soltanto un privato cittadino senza alcun potere o magistratura. E il tribuno
avrebbe pero la propria inviolabilità, se l'intera assemblea non avesse preso
le sue parti dando minacciosamente addosso al console, e una folla coi
nervi a fior di pelle non si fosse riversata nel foro da tutti i quartieri
della città. Ciò nonostante, Appio si ostinava a tener testa a un tumulto
di quelle proporzioni e la cosa sarebbe finita in un bagno di sangue se
Quinzio, l'altro console, non avesse incaricato gli ex-consoli di
afferrare il collega e di trascinarlo fuori dal foro con la forza (nel caso
fosse stato necessario), e se egli stesso non avesse ora supplicato la
folla di calmarsi ora richiesto ai tribuni di aggiornare la seduta, in
modo da far sbollire i furori. Il tempo non li avrebbe privati della
forza: anzi, ad essa avrebbe aggiunto la capacità di riflettere e i
senatori avrebbero fatto la volontà del popolo come il console quella del
senato. 57 Fu difficile per Quinzio placare la
folla, ma ancora più difficile fu per i senatori placare l'altro console.
Aggiornata finalmente l'assemblea popolare, i consoli convocarono il
senato. Durante la seduta, ci furono interventi di senso opposto, a seconda
del prevalere ora della rabbia ora della prudenza. Col passare del tempo,
però, l'animosità si trasformò in riflessione e tutti rinunciarono alla
spigolosità dell'inizio: a tal punto che arrivarono a ringraziare Quinzio
per aver placato con il suo intervento i furori della folla. Ad
Appio si richiese di accettare che l'autorità dei consoli non
superasse il limite di tollerabilità all'interno di un paese caratterizzato
dall'armonia: finché i tribuni e i consoli accentravano ogni cosa nelle
proprie persone, c'era un vuoto di forze nel mezzo e lo Stato si riduceva
a contrasti e a divisioni interne, visto che il problema centrale non era
come garantire la sicurezza ma in quali mani stesse il potere. Da parte
sua Appio, invocando la testimonianza degli dèi e degli
uomini, dichiarò che era colpa della codardia se lo Stato stava andando alla
deriva abbandonato a se stesso; che non era il console a mancare al
senato ma il senato a mancare al console e infine che si stavano
accettando condizioni più dure di quelle accettate sul monte Sacro. Tuttavia,
piegato alla fine dall'unanimità dei senatori, si placò e la legge
passò senza particolari opposizioni.
58 Allora, per la prima volta, i tribuni vennero eletti dai comizi tributi. Stando a quanto si trova in
Pisone, il loro numero fu aumentato di tre, come se in passato fossero
stati due. Ci riferisce anche i nomi dei neoeletti: Gneo Siccio, Lucio
Numitorio, Marco Duilio, Spurio Icilio, Lucio Mecilio. Mentre Roma era in piena sedizione,
scoppiò una guerra coi Volsci e con gli Equi. Essi avevano devastato le
campagne in maniera da poter offrire asilo alla plebe nel caso di qualche
secessione. Una volta però compostasi la controversia, ritirarono le loro
truppe. Appio Claudio fu mandato contro i Volsci, mentre a Quinzio
toccarono gli Equi. Appio dimostrò di avere in campo militare lo stesso
rigore che aveva a Roma in quello politico, e qui godeva anche di
maggiore libertà perché non era frenato dalle interferenze dei tribuni. Odiava
la plebe ancor più di quanto non l'avesse odiata suo padre: ne era stato
sconfitto; durante il suo mandato di console eletto appositamente per
fronteggiare la plebe era stata approvata una legge che i consoli
precedenti, sui quali il senato non faceva troppo affidamento, erano
riusciti a non far passare senza affannarsi eccessivamente. L'ira
repressa e l'indignazione istigavano il suo carattere aggressivo a imporsi alle
truppe con un'autorità soffocante. La violenza non fu sufficiente a
domarle, in quell'ubriacatura di odio reciproco. Mettevano in pratica ogni
disposizione con pigrizia, lentezza, negligenza e ostinazione: non c'erano
amor proprio e paura capaci di metterli in riga. Se lui dava ordine di
accelerare il passo, i soldati rallentavano apposta; se andava di
persona a esortarli sul lavoro, smettevano subito tutti ciò che
avevano spontaneamente intrapreso. In sua presenza abbassavano gli occhi, al suo
passaggio lo maledivano sotto voce, così che l'animo di quell'uomo,
irremovibile nel suo odio verso la plebe, ne era a volte scosso. Dopo aver
sperimentato senza risultati tutte le sfumature del suo rigore, non voleva
più avere nulla a che fare con la truppa: diceva che era colpa dei
centurioni se l'esercito era corrotto e ogni tanto, per deriderli, li chiamava
«tribuni della plebe» e «Voleroni». 59 I Volsci, al corrente di tutti
questi aspetti, aumentarono così la pressione sperando che l'esercito
romano manifestasse nei confronti di Appio la stessa disposizione
all'ammutinamento mostrata nei confronti del console Fabio. Ma gli uomini furono
molto più duri con Appio che con Fabio. Infatti non si limitarono, come
nel caso di quest'ultimo, a non volere la vittoria, bensì
desiderarono la sconfitta. Una volta schierati in ordine di battaglia, riguadagnarono
l'accampamento con una vergognosa fuga e si fermarono soltanto quando
videro i Volsci lanciarsi all'attacco delle loro fortificazioni e seminare la
morte nella retroguardia. Fu allora che i soldati romani,
respingendo a viva forza dalla trincea il nemico già vincitore,
dimostrarono che la sola cosa che stesse loro veramente a cuore era salvare
l'accampamento, ma per il resto salutarono
con entusiasmo la disfatta subita e la vergogna. Queste cose non scoraggiarono minimamente
l'aggressività di Appio. Quando però decise di ricorrere a mezzi ancora più
rigidi sul piano disciplinare e di convocare l'adunata, i suoi diretti subalterni e
i tribuni accorsero a frotte da lui e gli consigliarono di non fare ricorso
a un'autorità il cui fondamento risiedeva nel consenso di quelli che
dovevano obbedire. Pare che i soldati non volessero comparire in adunata e
qua e là si sentissero voci di chi reclamava l'evacuazione del territorio
dei Volsci. Il nemico vincitore era poco tempo prima arrivato a due passi
dagli ingressi e dalla trincea e un disastro di enormi proporzioni non era
più soltanto un'ipotesi probabile ma una realtà concreta di fronte
ai loro occhi. Alla fine cedette, ma la punizione dei colpevoli era soltanto
rimandata; quindi, dopo aver sospeso l'adunata, diede ordine di mettersi in
marcia il giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, il trombettiere
diede il segnale di partenza. Proprio quando la colonna stava uscendo
dal campo, i Volsci, come svegliati di soprassalto da quello
stesso segnale, piombarono sulle retrovie. Di qui il disordine si
diffuse tra le prime linee; drappelli e compagnie erano in preda a un terrore
tale che non era più possibile né sentire gli ordini né allinearsi. Il
pensiero di tutti fu la fuga. ra mucchi di corpi e di armi abbandonate
il fuggi-fuggi generale fu così disordinato che l'inseguimento dei
nemici cessò prima della ritirata dei Romani. Quando al termine di quella
rotta scomposta i soldati ritrovarono un assetto, il console, che li aveva
seguiti tentando invano di richiamarli al proprio dovere, li fece
accampare in una zona sicura. Poi, convocata l'adunata, se la prese - e
non a torto - con la truppa per l'insubordinazione alla disciplina
militare e per l'abbandono delle insegne. Rivolgendosi ai singoli
uomini, domandava che fine avessero fatto le insegne e le armi. I soldati privi
di armi, i signiferi che avevano perso l'insegna e inoltre i centurioni
e i duplicari colpevoli di aver abbandonato la propria posizione furono
fustigati e quindi decapitati. Quanto alla massa dei soldati semplici,
uno su dieci fu estratto a sorte e giustiziato. 60 Nella campagna contro gli Equi, al
contrario, si assistette a una gara di gentilezze e di buoni propositi tra
console e truppa. Quinzio aveva un carattere più mite, e, visti i
pessimi risultati dell'autoritarismo del collega, era ancora più
soddisfatto della propria indole. Gli Equi, di fronte a una simile sintonia tra
comandante e truppa, non osarono scendere in campo e lasciarono che il nemico
devastasse e razziasse in lungo e in largo le loro campagne. Infatti, in
nessun'altra guerra del passato si era messo insieme un bottino così
ricco. Tutto fu dato alla truppa; si aggiunsero anche gli elogi, che - si sa
- toccano l'anima del soldato non meno delle ricompense. Al rientro
dell'esercito, non solo il comandante, ma grazie al comandante addirittura i
senatori erano visti in una luce diversa, in quanto gli uomini
sostenevano di aver avuto dal senato un padre e non un tiranno come l'altra
parte dell'armata. In questa altalena di incerti episodi
militari e di disordini a Roma e all'estero, l'anno appena concluso si
segnalò soprattutto per la creazione dei comizi tributi, evento ben
più importante per l'esito favorevole della lotta che per i suoi risultati pratici.
Infatti la riduzione di prestigio dei comizi, dovuta all'allontanamento
dei patrizi, fu più significativa che il reale aumento di forze da parte
della plebe o la sottrazione di esse al patriziato. 61 L'anno successivo, sotto i consoli
Lucio Valerio e Tito Emilio, ci furono disordini più gravi,
dovuti tanto allo scontro tra le classi in materia di legge agraria, quanto al
processo a carico di Appio Claudio. Acerrimo avversario della legge e
sostenitore della causa di coloro che avevano il possesso dell'agro pubblico,
come se fosse stato un terzo console, fu citato in giudizio da Marco
Duilio e da Gneo Siccio. Di fronte al popolo, in passato, non era mai
stato processato nessun imputato così inviso alla plebe e carico come lui era
del risentimento procuratosi di persona e di quello suscitato dal
padre. I patrizi, da parte loro, non si erano mai dati tanto da fare per nessun
altro. E non a caso, visto che in lui vedevano il difensore del senato,
il guardiano della loro autorità e
l'uomo che si era opposto a tutte le agitazioni dei tribuni e dei
plebei, lo stesso personaggio che in quel
momento era esposto alle ire della plebe, soltanto per avere oltrepassato
la misura nel mezzo dello scontro. Uno solo tra i senatori, lo stesso
Appio Claudio, aveva un atteggiamento di completa indifferenza nei confronti
dei tribuni, della plebe e del suo processo. Né le minacce della plebe né
le suppliche del senato ebbero su di lui alcun effetto: infatti non
soltanto rimase vestito com'era e rifiutò di andare a implorare la
pietà della gente, ma, all'atto di presentare la propria difesa di fronte
all'assemblea, non si peritò neppure di smorzare o almeno di
contenere la sua notissima virulenza verbale. Stessa espressione disegnata
sul viso, stessa smorfia arrogante sulle labbra e stessa veemenza
infiammata nella parola: il tutto così esasperato che gran parte della plebe
temeva Appio da imputato non meno di quanto lo avesse temuto da console.
Perorò la propria causa in una sola circostanza, ma con quello stesso tono
accusatorio che era la sua caratteristica peculiare in ogni
circostanza. E la fermezza dimostrata impressionò a tal punto plebe e
tribuni da portarli ad aggiornare la seduta di propria spontanea
volontà e a permettere che la pratica si trascinasse per le lunghe. Non
passò tuttavia molto tempo:prima però della data stabilita, Appio si ammalò
gravemente e morì. Dato che un tribuno cercò di impedire che se ne
pronunciasse l'orazione funebre, la plebe non volle che una personalità simile
fosse privata dell'onore solenne proprio l'ultimo giorno e non solo ne
ascoltò il suo elogio funebre con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato
l'accusa contro di lui quando era vivo, ma partecipò in massa al suo
funerale. 62 Quello stesso anno il console
Valerio guidò una spedizione contro gli Equi. Visto però che non
riusciva a portare il nemico a uno scontro aperto, si dispose ad attaccarne
l'accampamento, ma fu bloccato da una tremenda tempesta con grandine e tuoni
rovesciati giù dal cielo. Le sorprese non erano però finite:
infatti, non appena venne dato il segnale della ritirata, il tempo ritornò
così calmo e sereno che, come se una divinità avesse voluto
proteggere l'accampamento, la superstizione li dissuase dal rinnovare l'attacco. Tutta
la furia della guerra si volse a devastare le campagne. L'altro console,
Emilio, guidò una campagna contro i Sabini. Anche lì, siccome il
nemico se ne stava rintanato all'interno delle mura, il territorio fu razziato.
Solo quando venne dato fuoco non solo ad alcune fattorie ma anche a
villaggi popolosi, i Sabini, usciti all'aperto, si imbatterono nei
predatori e, dopo uno scontro dall'esito incerto, il giorno successivo
spostarono l'accampamento in una zona più sicura. Il console, considerata questa
mossa un pretesto sufficiente per ritenere il nemico battuto e
abbandonarlo sul posto, si ritirò senza essere arrivato a un punto decisivo
della campagna. 63 Durante queste guerre e con gli
scontri di classe ancora in atto a Roma, vennero eletti consoli Tito
Numicio Prisco e Aulo Verginio. Era chiaro che la plebe non avrebbe
tollerato ulteriori dilazioni alla legge agraria e si sarebbe decisa a un'azione
di forza definitiva, quando le colonne di fumo che si alzavano dalle
fattorie in fiamme e il fuggi-fuggi dei contadini preannunciarono
l'avvicinarsi dei Volsci. Questa notizia soffocò sul nascere i fermenti
di rivolta ormai prossimi a un'imminente esplosione. I consoli, chiamati
d'urgenza dal senato a occuparsi della spedizione difensiva, guidando fuori
Roma la gioventù, contribuirono a portare una certa tranquillità
nel resto della plebe. Quanto ai nemici, dopo essersi limitati a mettere i
Romani sul chi vive con un falso allarme, si ritirarono a marce forzate.
Numicio fece rotta su Anzio contro i Volsci, Verginio guidò le
truppe contro gli Equi. In questa campagna si sfiorò il massacro a séguito di
un'imboscata, ma il coraggio dei soldati riuscì a rimettere in piedi la
situazione compromessa dalla negligenza del console. Le operazioni contro i Volsci
furono condotte con maggiore scrupolo: i nemici, sbaragliati al
primo scontro, furono messi in fuga e costretti a riparare ad Anzio,
all'epoca uno dei centri più ricchi dei dintorni. Non osando per questo
attaccarla, il console tolse agli Anziati un'altra città, Cenone,
però molto meno prospera. Mentre Equi e Volsci tenevano occupate le truppe romane, i
Sabini arrivarono fino alle porte di Roma con le loro scorribande. Pochi
giorni dopo, però, quando entrambi i consoli invasero infuriati il loro
territorio, subirono dai due eserciti più perdite di quelle che
avevano causato. 64 L'anno si chiuse con uno spiraglio
di pace, ma, come in tutte le precedenti occasioni, si trattò
di una situazione appesa a un filo per la rivalità tra patrizi e plebei.
La plebe, indignata, non volle prendere parte ai comizi consolari; grazie ai
voti dei senatori e dei loro clienti vennero nominati consoli Tito Quinzio e
Quinto Servilio. L'anno del loro mandato assomigliò a quello
appena trascorso: disordini all'inizio, e alla fine una guerra esterna a mettere a
posto ogni cosa. I Sabini, attraversando a marce forzate i campi
Crustumini, seminarono morte e devastazione intorno al fiume Aniene;
furono respinti soltanto a due passi dalla porta Collina e dalle mura, non
prima però di aver messo insieme un consistente bottino di prigionieri e di
bestiame. Il console Servilio, buttatosi all'inseguimento con un
contingente armato, non riuscendo a raggiungere le loro schiere in un punto
pianeggiante, si diede a devastare la zona con una tale
meticolosità che nulla venne risparmiato e egli ritornò con un bottino nemmeno
lontanamente paragonabile a quello fatto dai Sabini. Nella campagna contro i Volsci
brillarono per efficienza tanto il comandante quanto i soldati. Sulle
prime ci fu uno scontro in aperta pianura ed entrambe le formazioni
lamentarono moltissime perdite e un gran numero di feriti. E i Romani, colpiti
più a fondo da quelle perdite a causa dell'inferiorità numerica,
avrebbero cominciato a ritirarsi, se il console, ricorrendo a una coraggiosa
menzogna, non avesse ridato forza e convinzione urlando che il nemico stava
fuggendo dall'altra parte dello schieramento. Si buttarono così
al contrattacco e, credendosi vincitori, ottennero la vittoria. Il console,
ritenendo che un inseguimento troppo insistito avrebbe riacceso la
battaglia, fece dare il segnale della ritirata. Per qualche giorno, in una
specie di tacito accordo, entrambe le parti non si mossero. Nel frattempo, un
ingente schieramento di rinforzi reclutato tra tutte le tribù dei
Volsci e degli Equi raggiunse il loro accampamento, con la certezza che i
Romani sarebbero partiti nel cuore della notte se lo fossero venuti a
sapere. Così, intorno a mezzanotte, mossero all'attacco dell'accampamento.
Quinzio, dopo aver placato il trambusto seguito all'improvviso
spavento, diede ordine ai soldati di rimanere tranquillamente nelle proprie
tende; quindi guidò sugli avamposti una coorte di Ernici e, dopo aver fatto
montare a cavallo i suonatori di corno e i trombettieri, ordinò
di suonare i loro strumenti di fronte alla trincea e di tenere il nemico sul chi
vive fino all'alba. Per il resto della notte, nell'accampamento la calma
fu così totale che anche i Romani riuscirono a dormire. Quanto ai Volsci,
intravedendo quelle figure di fanti armati (che essi ritenevano molto
più numerosi e romani) e sentendo il nitrito e lo scalpitare dei cavalli
imbizzarriti per la novità della cavalcatura e per quel suono assordante
nelle orecchie, rimasero in stato di allerta come di fronte all'imminenza
di un attacco nemico. 65 Alle prime luci del giorno, i
Romani, freschissimi e riposati dopo il sonno, vennero disposti in ordine di
battaglia per fronteggiare i Volsci, i quali invece erano stremati per la
notte passata in piedi e a occhi aperti: vennero così sbaragliati
al primo urto, anche se a dir la verità non si trattò di una vera e
propria disfatta ma di una sorta di ritirata in quanto si trovarono alle spalle
delle alture dove, con la copertura delle prime linee, si andarono a
mettere al sicuro i resti intatti del loro esercito. Il console, dato che era
arrivato in un luogo sfavorevole, ordinò di fermarsi. Gli uomini,
trattenuti a stento, reclamavano a gran voce l'autorizzazione di incalzare il
nemico già in ginocchio. E i cavalieri erano ancora più
accaniti: accalcandosi intorno al comandante, gridavano di volersi spingere oltre le
insegne. Mentre il console tentennava, sicuro del valore dei
propri uomini ma poco convinto della posizione, essi gridarono che sarebbero
andati e le urla furono subito seguite dall'azione. Piantate le lance
a terra, in modo da essere più leggeri in salita, vanno su di corsa. I
Volsci, avendo utilizzato le loro armi a lunga gittata durante il primo
scontro, lanciarono addosso ai nemici i sassi che si trovavano tra i
piedi e riuscirono a disunirli con una pioggia di colpi dalla loro
posizione sopraelevata. E l'ala sinistra della cavalleria romana sarebbe stata
schiacciata, se il console, chiamando quelli che stavano
indietreggiando ora codardi ora scriteriati, non avesse ridato loro coraggio facendo
leva sul senso dell'onore. Si fermarono immediatamente, decisi a
resistere a ogni costo. Quindi, vedendo che col mantenere quella posizione
riprendevano forza, osarono anche spingersi avanti e, alzando di nuovo il
grido di guerra, si misero in movimento tutti insieme. Quindi, con un
ulteriore slancio, si buttarono all'assalto ed ebbero ragione della
posizione sfavorevole. Ormai erano a un passo dalla vetta, quando i nemici
volsero le spalle: lanciatisi in una corsa disordinata, fuggiaschi e
inseguitori arrivarono mescolati all'accampamento dei Volsci e lo
catturarono nel pieno del panico. I Volsci che riuscirono a fuggire si
rifugiarono ad Anzio. Anche i Romani marciarono su Anzio. Dopo qualche
giorno d'assedio, la città si arrese, non per qualche nuova azione di forza
da parte degli assedianti, ma per la demoralizzazione seguita all'infelice
battagla e alla perdita dell'accampamento. Libri 3-4: Lotte civili e
conquiste militari LIBRO III 1 Dopo la presa di Anzio, vengono
eletti consoli Tito Emilio e Quinto Fabio. Quest'ultimo era quel Fabio
unico superstite della famiglia andata distrutta presso il Cremera. Nel suo
precedente consolato, Emilio si era già fatto promotore della donazione
di terre alla plebe; e proprio per questo, anche durante il suo secondo
mandato, i fautori della distribuzione agraria avevano
ricominciato a sperare nella legge e i tribuni, pensando di poter ottenere con
l'aiuto di un console quello che non avevano ottenuto per l'opposizione
dei consoli, li sostenevano. Tito Emilio rimaneva della sua idea. I
proprietari terrieri e gran parte dei senatori, lamentandosi che il
più autorevole cittadino assumesse atteggiamenti tribunizi e si
conquistasse la popolarità con elargizioni di proprietà altrui, avevano
trasferito dalle persone dei tribuni a quella del console il risentimento provocato
dall'intera faccenda. E di lì a poco lo scontro sarebbe diventato durissimo,
se Fabio non avesse risolto la questione con una proposta che non
scontentava nessuna delle parti in causa: sotto il comando e gli auspici
di Tito Quinzio, l'anno prima era stata tolta ai Volsci una notevole
porzione di terra. Ad Anzio, centro strategico sulla vicina costa, si
poteva fondare una colonia. Così facendo la plebe avrebbe ottenuto la terra
senza suscitare le proteste dei proprietari e per la città
sarebbe stata la pace interna. Questa proposta fu accolta. In qualità di
triumviri addetti alla distribuzione delle terre Fabio nomina Tito Quinzio, Aulo
Verginio e Publio Furio. L'ordine era che gli interessati all'assegnazione di un
appezzamento andassero a dare il
proprio nome. Ma, come spesso accade, l'abbondanza delle terre a disposizione creò una sorta di
ripulsa e le iscrizioni furono così limitate che si dovettero aggiungere
dei coloni volsci per completare il numero. Il resto del popolo
preferì chiedere la terra a Roma piuttosto che riceverne altrove. Gli Equi cercarono
di ottenere la pace da Quinto Fabio - egli era giunto là con
l'esercito -, ma poi furono loro stessi a mandare tutto in fumo con un'improvvisa incursione
in terra latina. 2 Quinto Servilio, inviato l'anno
successivo contro gli Equi - era infatti console insieme a Spurio Postumio -
pose un accampamento permanente in terra latina, dove una pestilenza
costrinse l'esercito a una sosta forzata. Quando diventarono consoli
Quinto Fabio e Tito Quinzio la guerra entrava nel suo terzo anno. L'incarico
di condurla venne affidato in via del tutto straordinaria a Fabio, in
quanto era stato proprio lui a concedere la pace agli Equi dopo averli
vinti. Partito con la precisa convinzione che la fama legata al suo
nome avrebbe placato gli Equi, ordinò agli ambasciatori inviati
all'assemblea di quel popolo di riferire questo messaggio: il console Quinto
Fabio mandava a dire che, dopo aver portato la pace dagli Equi a Roma, ora
portava la guerra da Roma agli Equi con quella stessa mano - adesso armata
- che prima era stata tesa loro in segno di amicizia. Ciò accadeva
per la loro malafede e la loro perfidia: gli dèi ne erano adesso i
testimoni e presto ne sarebbero stati i vendicatori. Quanto a lui, comunque
fosse andata la cosa, preferiva che gli Equi si pentissero adesso piuttosto
che costringerli a subire un trattamento da nemici. Se si fossero
pentiti, avrebbero potuto trovare un rifugio sicuro nella clemenza romana
già precedentemente sperimentata. Se invece avessero continuato a
compiacersi della propria malafede, si sarebbero trovati a combattere l'ira
degli dèi ancor più che i nemici. Queste parole ebbero così scarsa
presa sui presenti che gli ambasciatori vennero quasi malmenati e l'esercito
inviato sull'Algido per affrontare i Romani. Quando queste cose furono
annunciate a Roma, l'oltraggio, più che l'effettivo pericolo, fece uscire dalla
città l'altro console. Così due eserciti consolari schierati in ordine
di battaglia marciavano alla volta del nemico con lo scopo di affrontarlo
sùbito. Ma dato che per caso stava già quasi per fare buio, dalla
postazione dei nemici ci fu uno che gridò: «Questo, o Romani, è
un'esibizione che non ha nulla a che vedere con la guerra vera e propria. Vi siete messi
in ordine di battaglia con la notte alle porte: ma per uno scontro come
quello che si annuncia abbiamo bisogno di più ore di luce. Tornate a
schierarvi domattina all'alba. Occasioni per combattere ce ne saranno a migliaia,
non temete.» Irritati da queste parole, i soldati vengono ricondotti al
campo nell'attesa del giorno successivo, con in mente l'idea che la
notte imminente - destinata a fare da preambolo alla battaglia - sarebbe
stata molto lunga. Intanto si ristorarono con cibo e sonno. Quando
apparve l'alba del giorno successivo, l'esercito romano si schierò in
ordine di battaglia con un buon anticipo. Alla fine si fecero vedere anche gli
Equi. Si combatté accanitamente da entrambe le parti: i Romani si
buttarono nella mischia con la forza dell'odio e della rabbia; quanto agli
Equi, erano costretti a tentare il tutto per tutto, sapendo di esser
responsabili del pericolo in cui si trovavano ed essendo quasi certi che in
futuro nessuno avrebbe prestato loro fede. Tuttavia gli Equi non
riuscirono a sostenere l'attacco romano. E, dopo essersi ritirata nel proprio
territorio in séguito alla sconfitta, la moltitudine bellicosa e per niente
incline alla pace se la prese con i comandanti rinfacciando loro di aver
accettato la battaglia in campo aperto nella quale i Romani
eccellevano; invece gli Equi erano più portati alle scorrerie e alle razzie e molte
unità sparse avrebbero condotto la guerra meglio che non la mole
ingombrante di un solo esercito. 3 Lasciato quindi un presidio armato
nell'accampamento, gli Equi fecero un'incursione così profonda in
territorio romano da seminare il terrore addirittura a Roma. E un gesto
così inaspettato incrementò l'apprensione, perché non c'era nulla di più
inquietante di un nemico che, pur essendo vinto e quasi assediato all'interno del
proprio accampamento, si faceva venire in mente l'idea di
un'incursione. La gente di campagna, spinta dalla gran paura a riversarsi
attraverso le porte, non riferiva di saccheggi e di piccole bande di
razziatori, ma, ingigantendo ogni cosa per il terrore, andava in giro urlando che
intere armate in assetto di guerra si precipitavano sulla città.
Quelli che si trovavano lì riferivano ancor più dilatate le imprecise
notizie udite da costoro. La corsa disordinata e il trambusto di quelli che gridavano
«Alle armi!» non erano molto diversi dal terrore che regna in una città
caduta in mani nemiche. Il caso volle che il console Quinzio fosse rientrato
a Roma dall'Algido. E fu proprio questo il rimedio contro la paura.
Placato il tumulto, Quinzio disse indignato che il nemico tanto temuto
era stato vinto e collocò dei presidi in prossimità delle porte.
Quindi convocò il senato, e con un decreto votato dai senatori, proclamò la
sospensione delle attività giudiziarie. Poi, dopo aver lasciato Quinto Servilio
in qualità di prefetto della città, partì per
difendere i confini, senza però trovare traccia del nemico nelle campagne attraversate.
L'altro console condusse le cose egregiamente: prevedendo il punto dove
il nemico sarebbe passato, lo assalì mentre arrancava oberato
dal peso del bottino, rendendo ben funesto agli Equi il loro saccheggio. Furono in
pochi i nemici che riuscirono a scampare all'imboscata. Quanto invece
al bottino, esso fu tutto recuperato. Col ritorno in città
del console Quinzio ebbe fine anche la sospensione delle attività
giudiziarie, rimasta in vigore per quattro giorni. In séguito venne fatto il
censimento e Quinzio ne celebrò il sacrificio conclusivo. Pare che i cittadini
registrati - fatta eccezione per orfani e vedove - ammontassero a
104.714. Dopo questi avvenimenti, nel territorio degli Equi non ci fu alcuna
iniziativa degna di esser menzionata: la gente si rifugiò
nelle città, lasciando che la propria campagna fosse devastata e data alle
fiamme. Il console, dopo aver compiuto con le sue schiere alcune
sortite per saccheggiare il territorio nemico in tutta la sua estensione,
ritornò a Roma coperto di gloria e di bottino. 4 I consoli successivi furono Aulo
Postumio Albo e Spurio Furio Fuso (alcuni autori scrivono Fusio al posto
di Furio: ne faccio menzione perché nessuno debba prendere per una
sostituzione di uomini quella che invece è una semplice questione di nomi). Non
c'erano dubbi che uno dei consoli avrebbe fatto guerra agli Equi i quali,
di conseguenza, si rivolsero ai Volsci di Ecetra per ottenere appoggio
militare. Siccome esso venne concesso con grande slancio - tale era
infatti l'odio che i due popoli da sempre nutrivano nei confronti del
nemico romano - i preparativi di guerra fervevano febbrili. Gli Ernici lo
vennero a sapere e comunicarono preventivamente ai Romani che la gente
di Ecetra era passata dalla parte degli Equi. Sospetta divenne anche la
colonia di Anzio, visto che al tempo della presa della città
moltissimi si erano rifugiati presso gli Equi. E infatti, durante la guerra con i
Volsci, gli Anziati combatterono con estremo accanimento. Quando poi gli
Equi vennero ricacciati nelle loro città fortificate, questa massa
di sbandati fece ritorno ad Anzio e lì rese avversi ai Romani quei coloni che
erano già di per sé infidi. Dato che al senato venne riferito che si stava
preparando una defezione, anche se la cosa non era ancora matura, i
consoli ebbero l'ordine di convocare a Roma i notabili della colonia per
chiedere loro notizie sulla situazione. Questi si presentarono senza fare
difficoltà, ma alle domande che vennero loro rivolte una volta introdotti dai
consoli in senato, risposero in maniera tale che, all'atto della
partenza, risultarono più sospetti di quanto non fossero parsi al momento
dell'arrivo. Di lì in poi non ci furono più dubbi sulla guerra.
Spurio Furio, uno dei consoli, al quale era toccato quest'incarico, partì
per affrontare gli Equi. Nel territorio degli Ernici trovò i nemici
intenti a saccheggiare. Ignorandone però il numero - non li si era infatti mai
visti prima tutti insieme -, espose avventatamente alla battaglia
l'esercito, inferiore per forze. Respinto al primo assalto, dovette riparare
all'interno dell'accampamento. Ma questa mossa non pose fine allo stato
d'allarme. Infatti, sia quella notte che il giorno successivo l'accampamento venne
assediato e assalito con tanto accanimento che nemmeno un messaggero
poté uscire per andare a Roma. Gli Ernici riferirono che lo scontro aveva
avuto un cattivo esito e che il console e le sue truppe erano
assediati. Il racconto terrorizzò i senatori a tal punto che si diede all'altro
console Postumio l'incarico di provvedere perché la Repubblica non
patisse alcun danno; questa forma di deliberazione del senato veniva sempre
adottata in situazioni di estrema necessità. La migliore delle
risoluzioni sembrò che il console stesso rimanesse a Roma ad arruolare tutti
coloro che fossero in grado di portare le armi. In soccorso all'accampamento
assediato sarebbe stato invece inviato Tito Quinzio, dotato di poteri
consolari, con una formazione di alleati. Per completarne i ranghi,
Latini, Ernici e la colonia di Anzio ebbero ordine di fornire a Quinzio dei
contingenti d'emergenza (questo il nome dato allora agli ausiliari
arruolati su due piedi). 5 Nei giorni che seguirono ci fu un
gran numero di manovre e di assalti da una parte e dall'altra: i nemici
infatti, forti della superiorità numerica, cominciarono a tormentare con
continui attacchi da ogni direzione le forze romane, nella
speranza che queste non sarebbero bastate a tutto. E mentre cingevano d'assedio
l'accampamento, nel contempo parte delle truppe venne inviata a
saccheggiare le campagne romane e ad attaccare Roma stessa, qualora se ne
fosse presentata l'opportunità. Lucio Valerio fu lasciato a difesa della
città. Il console Postumio venne invece inviato a proteggere i confini da
eventuali incursioni. Vigilanza e sforzi rivolti alla difesa non furono
trascurati in nessun punto: sentinelle furono disposte in città, corpi
di guardia di fronte alle porte, presidi armati lungo le mura e - cosa
necessaria in mezzo a una confusione di quel genere - per alcuni giorni fu sospesa
l'attività giudiziaria. Nel frattempo il console Furio, dopo aver
sulle prime subito in maniera passiva l'assedio all'interno
dell'accampamento, fece una sortita improvvisa dalla porta decumana,
piombando sul nemico che non si aspettava una simile manovra. Ma poi, pur potendo
buttarsi all'inseguimento, si fermò per paura che il campo
rimanesse esposto a un possibile attacco dalla parte opposta. La corsa
trascinò troppo in là il luogotenente Furio, fratello del console: nello slancio
dell'inseguimento non si accorse che i suoi si stavano ritirando e che i
nemici rivenivano su di lui da tergo. Tagliato così fuori dalla
ritirata, dopo svariati ma vani tentativi di aprirsi una breccia in direzione del
campo, cadde combattendo con accanimento. Quando il console venne
informato che il fratello era stato accerchiato, si buttò nella
mischia con maggior temerarietà che accortezza. La vista di lui ferito,
sollevato da terra e portato in salvo a fatica da quelli che gli stavano
vicino, gettò nello sconforto i suoi uomini e rese più accaniti i
nemici. Infiammati dalla morte del luogotenente e dalla ferita inflitta al
console, essi da quel momento in poi divennero così incontenibili
da schiacciare di nuovo i Romani nell'accampamento, con prospettive e
risorse non certo equilibrate tra i due schieramenti. Addirittura l'esito
finale dell'intera guerra avrebbe rischiato di essere compromesso, se non
fosse sopraggiunto Tito Quinzio con dei contingenti stranieri -
composti cioè di Ernici e Latini. Avendo trovato gli Equi intenti ad assediare il
campo romano e a mostrare con arroganza la testa del luogotenente, li
assalì alle spalle proprio mentre quelli dell'accampamento si producevano
in una sortita a un segnale da lui dato quando si trovava ancora lontano,
riuscendo così a circondarne una grande quantità. Gli Equi che si
trovavano in territorio romano subirono una disfatta di minori proporzioni ma
dovettero impegnarsi in una fuga più prolungata: mentre stavano saccheggiando
la zona sparpagliati in gruppi, vennero attaccati da Postumio in alcuni
punti dove aveva opportunamente collocato delle guarnigioni armate.
Lanciatisi quindi in una fuga disordinata e priva di meta, i
saccheggiatori si imbatterono in Quinzio che tornava vincitore insieme al
console ferito. Fu allora che con una gloriosa battaglia le truppe consolari
vendicarono la ferita del loro comandante insieme al massacro del
luogotenente e delle sue coorti. In
quei giorni entrambe le parti inflissero e subirono gravi perdite:
risulta difficile, trattandosi di un episodio
così remoto, stabilire in maniera esatta il numero preciso dei
combattenti e dei caduti. Ciononostante Valerio Anziate si avventura a fornire
cifre precise: dice che nel territorio degli Ernici i Romani
lasciarono 5800 uomini e che degli Equi che vagavano saccheggiando all'interno
dei confini romani 2400 vennero uccisi dal console Aulo Postumio. Quanto
invece al resto della spedizione andata a cozzare nelle truppe di
Quinzio, Valerio sostiene che essa subì un massacro senza precedenti: dei suoi
componenti - e qui si arriva a spaccare il capello - ne vennero
abbattuti 4230. Quando l'esercito rientrò a Roma
e venne ripristinato il normale corso della giustizia, si videro ovunque
fuochi nel cielo, mentre altri prodigi o vennero realmente individuati da
occhi umani o furono la vana illusione di osservatori suggestionati dalla
paura. Per stornare il panico collettivo vennero indetti tre giorni
di festa durante i quali tutti i templi furono invasi da folle di uomini
e donne che imploravano la benevolenza degli dèi. In
séguito le coorti di Latini e di Ernici vennero rinviate in patria, dopo aver ricevuto
il ringraziamento del senato per l'abnegazione dimostrata durante la
campagna. Mille soldati di Anzio, rei di essere corsi in aiuto quando ormai
la battaglia era finita, furono invece rispediti a casa quasi con il
bollo dell'infamia. 6 Dalle successive elezioni uscirono
consoli Lucio Ebuzio e Publio Servilio. Il primo agosto - data che
allora rappresentava l'inizio dell'anno - entrano in carica. Si era
nella stagione malsana e il caso volle che quello fosse un anno di
pestilenza tanto a Roma quanto nelle campagne, e sia per gli uomini che per
il bestiame. Ad accrescere la virulenza dell'epidemia
contribuì poi la gente che, terrorizzata da possibili saccheggi, cominciò a
ricoverare in città mandrie e relativi pastori. Questo miscuglio eterogeneo di
animali tormentava col suo insolito odore i cittadini, mentre la
gente di campagna, stipata in dimore
anguste, soffriva per il caldo e la mancanza di sonno. E poi lo
scambio di servizi e il contatto stesso
contribuivano a diffondere l'infezione. Proprio in quel momento - e cioè
con i Romani appena in grado di sopportare il peso di queste
calamità - arrivarono dagli Ernici degli ambasciatori ad annunciare che gli
eserciti congiunti di Volsci ed Equi si erano accampati nel loro territorio e
che da quella base saccheggiavano le campagne con un impressionante spiegamento
di forze. Non solo lo scarso numero di senatori rimasti rendeva
manifesto agli alleati che la città era prostrata dalla pestilenza, ma mesta fu
anche la risposta che ebbero: gli Ernici, insieme con i Latini,
difendessero da soli i loro possedimenti perché Roma, per l'improvvisa ira degli
dèi, era devastata dall'epidemia. Se quel male si fosse placato, allora
sarebbero intervenuti in aiuto degli alleati, come nell'anno precedente e in
tutte le altre occasioni. Gli alleati partirono riportando in patria
in cambio di un triste annuncio uno ancora più triste: il loro
popolo doveva infatti affrontare da solo una guerra che avrebbe sostenuto a fatica
anche col potente sostegno dei Romani. I nemici non si trattennero
più a lungo nel territorio degli Ernici. Di lì avanzarono infatti
con intenti bellicosi nella campagna romana che subì danni e
devastazioni anche senza le violenze della guerra. Nessuno si fece loro incontro - nemmeno
un uomo disarmato - e poterono così penetrare in un territorio
privo ormai non solo di guarnigioni armate, ma anche di campi coltivati;
Volsci ed Equi arrivarono fino al terzo miglio della Via Gabinia. Il
console Ebuzio era morto. Per il suo collega Servilio c'erano ben poche
speranze. Il contagio aveva colpito quasi tutti i maggiorenti, buona parte
dei senatori e pressappoco la totalità di quanti erano in
età militare. Così il loro numero non solo non bastava per le spedizioni rese
necessarie dalla situazione allarmante, ma arrivava appena a coprire l'organico
dei posti di guardia. Il servizio di vigilanza toccò allora a quei
senatori che per età e condizioni di salute erano in grado di prestarlo. Le ronde
armate toccarono invece agli edili della plebe, ai quali erano passati
anche il potere supremo e l'autorità consolare. 7 Senza un capo e senza forze, la
città spopolata fu protetta dai suoi numi tutelari e dalla sua buona stella,
che ispirò a Volsci ed Equi un comportamento da predoni più che
da nemici. Infatti il loro animo era così lontano dal nutrire una qualche
speranza non solo di conquistare ma addirittura di avvicinarsi alle mura di
Roma e la vista da lontano dei tetti e dei colli sovrastanti aveva
fuorviato le loro menti tanto, che l'intero esercito cominciò a
esser percorso da mormorii di disapprovazione: si domandavano perché
dovessero sprecare il tempo inoperosi in un'area desolata e
abbandonata, dove non c'erano opportunità di bottino, ma solo cadaveri di uomini
e di bestie, mentre avrebbero potuto invadere una terra ricca di ogni
ben di Dio e inviolata quale la zona di Tuscolo. Per questo si misero
rapidamente in marcia e per vie traverse che passavano in mezzo alla
campagna labicana si spostarono sulle colline di Tuscolo per concentrarvi
tutto l'impeto e la furia della guerra. Nel frattempo Ernici e Latini,
spinti non solo dalla pietà ma anche dalla vergogna che certo
avrebbero provato se non si fossero opposti ai nemici comuni lanciatisi in assetto
di guerra contro Roma e non fossero intervenuti a fianco degli alleati stretti
d'assedio, unirono i propri eserciti e si misero in marcia verso
Roma. Qui, non avendo trovato nemici ma fidandosi delle informazioni avute
per strada e seguendo le tracce del loro passaggio, li incontrarono mentre
da Tuscolo stavano scendendo nella valle di Alba. Si combatté con forze
impari e la loro lealtà per il momento portò poca fortuna agli
alleati. A Roma la strage dovuta all'epidemia non fu di proporzioni
minori di quella patita dagli alleati a colpi di spada. L'unico console rimasto
era nel frattempo deceduto. Così come morti erano pure altri personaggi
illustri quali gli àuguri Marco Valerio e Tito Verginio Rutulo e il
capo delle curie Servio Sulpicio. La malattia aveva colpito con tutta la sua
violenza anche la folla anonima. E il senato, non potendo più
contare sull'aiuto degli uomini, spinse il popolo a rivolgere le preghiere agli
dèi, ordinando che tutti, con mogli e bambini, andassero nei templi a supplicare
il cielo e a chiedere la pace. Così, indotti
dall'autorità pubblica a fare le cose a cui già li costringevano le proprie sventure, i
cittadini si affollarono in tutti i santuari. Dovunque le matrone, piegate
a spazzare coi capelli sciolti i pavimenti dei templi, implorano gli
dèi adirati e li supplicano di porre fine alla pestilenza. 8 Da quel momento in poi, a poco a
poco, sia per la pace ottenuta dagli dèi sia per il progressivo
esaurirsi della stagione malsana, i corpi nei quali il corso della malattia si era
compiuto cominciavano a tornare in salute, mentre le menti si rivolgevano
ai problemi dello Stato. Dopo alcuni interregni, Publio Valerio
Publicola, il terzo giorno del suo interregno, nomina consoli Lucio
Lucrezio Tricipitino e Tito Veturio Gemino (o Vetusio, se questo era il suo
nome). Entrano in carica tre giorni prima delle idi del mese
Sestile, con il paese in condizioni di salute ormai così rassicuranti
da potersi permettere non solo di allestire una difesa armata ma addirittura di
lanciare delle offensive. Perciò, quando gli Ernici vennero ad annunciare
che i nemici avevano varcato i loro confini, senza alcuna esitazione
fu loro promesso aiuto. Una volta arruolati due eserciti consolari,
Veturio fu inviato a portare la guerra nel territorio dei Volsci. Tricipitino
invece, incaricato di salvaguardare quello alleato da incursioni selvagge,
non si spinge più in là della terra degli Ernici. Veturio sbaraglia e mette
in fuga i nemici al primo scontro. A Lucrezio sfuggì invece un
contingente di predoni nemici che dalle alture di Preneste marciava in direzione delle
campagne. Dopo aver devastato i terreni coltivati intorno a Preneste e
Gabi, questo gruppo di guastatori piegò dalla zona di Gabi verso i
colli di Tuscolo. La cosa fu motivo di grande apprensione pure a Roma, anche
se più per l'imprevedibilità della mossa che per l'effettiva penuria di
risorse difensive. A capo della città c'era in quel frangente Quinto Fabio:
armando i giovani e disponendo presidi nei punti nevralgici, rese ogni
cosa tranquilla e sicura. Così i nemici, dopo aver fatto razzie negli
immediati dintorni, non osarono avvicinarsi a Roma e ripresero, sia pur
con diversioni, la strada di casa. Mentre cresceva in loro un senso di
sicurezza a mano a mano che aumentava la distanza da Roma, si imbatterono nel
console Lucrezio che, già al corrente della direzione di marcia
scelta dai nemici, li attendeva pronto a dare battaglia. Così i Romani,
pur essendo in inferiorità numerica, attaccarono con giusta disposizione
d'animo i nemici in preda invece a un improvviso attacco di paura. Quindi,
dopo averne sbaragliato il possente schieramento e averli messi in fuga
verso certe valli poco spaziose da dove era difficile sfuggire, li
accerchiarono. Lì poco mancò che il nome dei Volsci venisse cancellato dalla
faccia della terra. In alcuni annali ho trovato che tra fuga e battaglia ci
furono 13.470 morti, che 1750 vennero catturati vivi e che le insegne
conquistate ammontarono a 27. Anche se tali cifre risentono di una
certa tendenza all'esagerazione, ciononostante si trattò
indubbiamente di un grande massacro. Il console vincitore tornò con un enorme
bottino all'accampamento. Allora i due consoli si accamparono insieme, mentre
Volsci ed Equi facevano confluire in un unico esercito i propri decimati
reparti. La battaglia che seguì fu la terza nel corso dell'anno. La
vittoria arrivò grazie alla stessa buona sorte: dopo aver disperso i nemici, ne
conquistarono anche l'accampamento. 9 La potenza romana tornò
così alla situazione di un tempo e l'esito favorevole della guerra suscitò
all'improvviso dei contrasti interni in città. Quell'anno Gaio
Terentilio Arsa era tribuno della plebe. Pensando che l'assenza dei consoli fosse per i
tribuni la migliore occasione per darsi da fare, egli passò alcuni
giorni a lagnarsi presso la plebe dell'arroganza patrizia, inveendo
soprattutto contro l'autorità consolare, ritenuta eccessiva e intollerabile per un
libero Stato. Tale potere era infatti a sua detta solo formalmente
meno detestabile - ma di fatto più crudele - di quello dei re: al posto di
un padrone adesso ne avevano due che, godendo di un'autorità
priva di restrizioni e vivendo in uno stato di sfrenatezza non sottoposta a controlli,
rovesciavano sulla plebe il terrore suscitato dalle leggi e dalle
punizioni. Perché i consoli non dovessero godere in eterno di quella condizione
privilegiata, il tribuno disse di voler far passare una legge
che prevedesse la nomina di cinque magistrati con l'incarico di approntare
delle leggi che regolassero l'autorità consolare. I consoli
avrebbero così goduto del potere assegnato loro dal popolo, ma non avrebbero
potuto trasformare in legge quello che invece era il loro capriccio o il loro
arbitrio. In séguito alla presentazione di questa legge, siccome
i senatori temevano che l'assenza dei consoli li costringesse a
sottostare a un simile giogo, il prefetto della città convocò il
senato e lì attaccò la proposta e il suo autore con una tale veemenza che, se entrambi i
consoli fossero stati presenti e avessero circondato il tribuno in
maniera ostile, non avrebbero potuto aggiungere nulla alla virulenza delle
sue minacce. Chi davvero a sua detta rappresentava un'insidia concreta per
il paese era Terentilio, reo di esser passato all'attacco sfruttando le
circostanze. Se l'anno prima - quando cioè la pestilenza e la
guerra infuriavano sulla città - la rabbia divina avesse imposto un tribuno simile
a lui, la situazione sarebbe stata insostenibile. Coi due consoli morti e
la città in preda all'infuriare del morbo e alla confusione generale,
Terentilio avrebbe proposto una legge volta a privare lo Stato del potere
consolare e avrebbe guidato Equi e Volsci all'assedio di Roma. Ma alla fin
fine dove voleva arrivare? Se i consoli si erano macchiati di arroganza
o di crudeltà nei confronti di qualche cittadino, non era forse lecito
trascinarli in giudizio e accusarli di fronte a un corpo
giudicante che annoverasse tra i suoi membri chi aveva subito l'ingiustizia?
Non il potere dei consoli, ma l'autorità dei tribuni
Terentilio rendeva invisa e insopportabile. Quella stessa autorità che si era
pacificata e riconciliata col senato, adesso ricadeva di nuovo negli antichi mali.
Ciononostante Fabio non lo avrebbe pregato di abbandonare quanto
intrapreso. «Esorto,» gridò, «voialtri tribuni a riflettere sul fatto che
questa autorità vi è stata assegnata per soccorrere i singoli individui e
non per danneggiare la comunità tutta. Voi siete stati eletti tribuni
della plebe, non nemici del senato. Che lo Stato privo dei suoi difensori
subisca attacchi è triste per noi, ma odioso per voi. Non diminuirete le
vostre prerogative, ma la vostra impopolarità, se farete in modo
che il vostro collega rinvii fino al ritorno dei consoli la questione nei
termini in cui oggi si trova. Quando l'anno passato l'epidemia ci
privò dei consoli, anche Equi e Volsci ci risparmiarono una guerra crudele e
impietosa.» I tribuni fanno pressione su Terentilio. Quindi, dopo un
apparente rinvio della proposta di legge trasformatosi poi in aperto ritiro,
vennero immediatamente convocati i consoli. 10 Lucrezio tornò con un enorme
bottino e con ancora maggiore gloria. Questa subì poi un ulteriore
incremento quando, una volta arrivato, egli espose per tre giorni il bottino lungo
tutta l'estensione del Campo Marzio, in maniera tale che ciascuno
potesse ritirare ciò che riconosceva come proprio. Gli oggetti che non
furono rivendicati dai legittimi proprietari vennero messi all'incanto.
Sul fatto che il console meritasse il trionfo erano d'accordo tutti: la
cosa fu però rinviata per la proposta avanzata dal tribuno che, agli occhi di
Lucrezio, appariva di primaria importanza. Del provvedimento si
discusse per alcuni giorni prima in senato e poi di fronte al popolo. Alla
fine il tribuno decise di sottostare all'autorità del
console e lasciò perdere. Solo allora l'esercito e il comandante ricevettero
gli onori dovuti: Lucrezio ottenne il trionfo su Volsci ed Equi e nel
corteo trionfale venne accompagnato dalle sue legioni. All'altro console fu
concesso di entrare a Roma con gli onori dell'ovazione ma privo dei
soldati. L'anno successivo la legge terentiliana
venne di nuovo presentata dall'intero collegio dei tribuni contro
i consoli appena eletti Publio Volumnio e Sergio Sulpicio. Quell'anno
si videro prodigi di fuoco nel cielo e la terra venne sconvolta da un
terremoto di notevole intensità. Si credette che una vacca avesse parlato,
cosa a cui nell'anno precedente nessuno aveva prestato fede. Tra gli
altri eventi prodigiosi si assistette anche a una pioggia di carne che, a
quanto pare, venne intercettata da un enorme stormo di uccelli finito in volo
proprio lì nel mezzo. Quel che invece cadde a terra rimase
sparpagliato sul suolo per alcuni giorni senza però imputridire. I duumviri
addetti ai riti sacri consultarono i libri sibillini e predissero che un gruppo di
stranieri sarebbe stato motivo di pericolo e avrebbe sferrato un attacco
alla cittadella con conseguente spargimento di sangue. Ammonirono anche
di astenersi dagli scontri tra fazioni. I tribuni li accusavano di
averlo suggerito per ostacolare la legge e lo scontro si annunciava senza
esclusione di colpi. Ma poi - ogni anno si ripetono le stesse cose - ecco
arrivare gli Ernici con l'annuncio che Volsci ed Equi, pur dopo le recenti
perdite, stavano rimettendo in sesto i rispettivi eserciti, che Anzio
era il centro delle operazioni, che a Ecetra coloni di Anzio tenevano
apertamente delle riunioni; quello era il punto di riferimento, quelle le
forze della guerra. Una volta ascoltate queste comunicazioni in senato, si
indice una leva militare. Quanto poi alla gestione della guerra, i consoli
ricevono l'ordine di organizzarla in maniera tale da occuparsi uno dei
Volsci e l'altro degli Equi. I tribuni si misero invece a urlare in pieno foro
che la guerra contro i Volsci era solo una commedia inscenata apposta e
che gli Ernici erano stati preparati per recitarvi una parte. Ormai la
libertà del popolo romano non era come un tempo soffocata a séguito di uno
scontro leale, ma veniva ignorata con espedienti. Dato che non si poteva
più far credere che Volsci ed Equi - quasi totalmente annientati -
decidessero spontaneamente di mettersi sul piede di guerra, si andavano a cercare
nuovi nemici e una colonia vicina e leale veniva infamata. Si dichiarava
guerra agli innocenti Anziati, ma in realtà si faceva guerra alla
plebe romana: i consoli infatti l'avrebbero caricata di armi e condotta a marce
forzate fuori della città; si sarebbero così vendicati dei
tribuni mandando in esilio e relegando i cittadini. I plebei dovevano
convincersi che l'unico scopo di tutto questo era mettere a tacere la legge e che
ciò si poteva evitare - finché le cose erano agli inizi ed essi si trovavano
ancora in patria in abiti civili - operando in modo da non essere esclusi
dal controllo della città e da non piegarsi al giogo. Se solo avessero
osato farlo, certo non sarebbe venuto loro meno l'aiuto, dato che i tribuni
erano tutti dello stesso avviso. Non c'erano minacce esterne, né pericoli in
vista. L'anno prima gli dèi avevano fatto in modo che la
libertà potesse esser difesa senza correre rischi. Queste furono le parole dei
tribuni. 11 Dall'altra parte i consoli, posti i
loro sedili di fronte ai tribuni, facevano la leva. I tribuni arrivano di
corsa trascinandosi dietro la folla. Non appena - quasi si volesse
tastare il terreno - vengono fatti i nomi di alcuni cittadini, ecco che
scoppiano sùbito disordini. Ogni qualvolta il littore, su ordine del
console, ne prendeva uno, un tribuno ordinava di rilasciarlo. E la condotta
di ognuno non era regolata da un diritto effettivo, ma dalla fiducia nei
propri mezzi fisici: di conseguenza quello che si aveva in
mente lo si doveva ottenere con la forza. All'ostruzionismo praticato dai tribuni
per ostacolare la leva militare i senatori contrapposero un atteggiamento
di aperta ostilità alla legge che veniva riproposta tutti i giorni
dedicati alle assemblee. La rissa scoppiava quando i tribuni ordinavano
alla gente di separarsi per votare e i patrizi non permettevano che li si
allontanasse. I senatori più anziani quasi non prendevano parte alla cosa
perché non si poteva venirne a capo con l'uso della ragione, ma tutto era
affidato all'avventatezza e alla temerarietà. Anche i consoli
cercavano di non lasciarsi coinvolgere per evitare che nel trambusto generale la
solennità del ruolo rivestito potesse essere esposta all'ingiuria di
qualcuno. C'era un giovane, Cesone Quinzio, imbaldanzito non solo dai
nobili natali ma anche dalla sua struttura possente e dalla sua forza
fisica. A questi doni piovuti dal cielo egli aveva aggiunto molte imprese
gloriose in guerra e una tale dialettica forense, da non essere
ritenuto inferiore a nessuno in città per prontezza tanto di mano quanto di
lingua. Piantato in mezzo al gruppo di senatori e sovrastandoli come se
stesse brandendo con la voce e con la forza tutto il potere dei dittatori e
dei consoli, Cesone riusciva a sostenere da solo l'attacco dei tribuni
e l'impeto disordinato della folla. Con lui alla testa degli
aristocratici, i tribuni vennero più volte allontanati dal foro e la plebe
addirittura sbaragliata e dispersa. Chi se lo trovava per caso faccia a faccia
finiva malmenato e senza uno straccio addosso. Ed era chiaro che se le cose
continuavano così, per la legge c'erano ben poche speranze. Allora,
quando ormai gli altri tribuni avevano subito diverse forme di intimidazione,
un membro del loro collegio, un certo Aulo Verginio, trascina Cesone in
tribunale chiedendo per lui la pena capitale. Ma, invece di terrorizzare
Cesone, questa iniziativa accese il suo animo fiero, portandolo a
ostacolare la legge con maggiore accanimento, e a stuzzicare la plebe e
ad attaccare i tribuni come se si fosse trattato di una guerra vera e
propria. L'accusatore lasciava che l'accusato si rovinasse da sé,
attizzando il risentimento popolare e fornendo così nuova materia alle
proprie incriminazioni. Nel frattempo continuava a insistere sulla legge, non
tanto nella speranza di vederla passare, quanto per spingere Cesone a
commettere qualche gesto avventato. In quei frangenti, molte delle cose
dette e fatte a sproposito dai giovani aristocratici ricaddero sulla sola
persona di Cesone a causa dei sospetti ingenerati dalla sua indole.
Ciononostante egli continuava a opporsi alla legge. E Aulo Verginio insisteva,
rivolgendosi alla plebe in questi termini: «Immagino che vi rendiate
ormai perfettamente conto, o Quiriti, di non potere avere nel contempo Cesone
come concittadino e la legge che tanto desiderate. Ma perché poi parlo
di legge? È alla libertà che costui cerca di opporsi, superando in
arroganza l'intera genia dei Tarquini. Aspettate che quest'uomo diventi
console o dittatore, lui che già ora, pur essendo un privato cittadino, ci mette
i piedi in testa a colpi di soprusi e insolenze.» Molti che si lamentavano
delle percosse subite erano d'accordo e incitavano il tribuno a
portare la cosa fino in fondo. 12 Il giorno del processo si avvicinava
ed era ormai chiaro che, a giudizio di tutti, la libertà
dipendeva dalla condanna di Cesone. Questi allora, pur considerandola
un'iniziativa spregevole, fu alla fine costretto a cercare l'appoggio dei
singoli. Al suo séguito c'erano gli amici, e cioè le
personalità più in vista dell'intero paese. Tito Quinzio Capitolino, che in passato era stato
per tre volte console, parlando dei molti onori toccati a lui stesso e alla
sua famiglia, sosteneva che, né all'interno della gens Quinzia, né nel
resto della cittadinanza romana, si era mai vista una personalità
così spiccata e provvista di tante assennate qualità. Cesone era stato il suo
migliore soldato: spesso lo aveva visto lanciarsi contro il nemico proprio
davanti ai suoi occhi. Spurio Furio rilasciò questa testimonianza:
inviatogli da Quinzio Capitolino, Cesone era intervenuto in suo aiuto in una
situazione pericolosa. A sua detta non c'era nessun altro che, al pari di
Cesone, avesse contribuito a ristabilire le sorti dello scontro.
Lucio Lucrezio, console l'anno precedente e nel fulgore della recente
gloria, divideva i propri meriti con Cesone, ne ricordava le azioni
militari, ne menzionava le non comuni imprese, tanto nel corso delle
spedizioni, quanto nei combattimenti. Ed esortava la gente a preferire che quel
giovane straordinario, provvisto d'ogni dono fornito dalla natura e dalla
sorte, nonché capace di diventare il punto di forza di qualunque paese lo
avesse accolto, fosse un concittadino loro piuttosto che di
altri. Ciò che in lui poteva infastidire (eccesso di ardore e
impulsività) col passare degli anni si sarebbe attenuato. Ciò che
invece gli mancava (ossia la prudenza) sarebbe cresciuto giorno dopo giorno. La gente
avrebbe dovuto accettare che un uomo simile - nel quale
l'intensità dei difetti era destinata ad affievolirsi insieme al progressivo
maturare delle virtù - invecchiasse nel pieno possesso della cittadinanza
romana. Tra i suoi difensori c'era anche il padre, Lucio Quinzio,
soprannominato Cincinnato. Questi, evitando di ribadire gli elogi rivolti al figlio
per non accrescerne l'impopolarità, ma implorando
clemenza per errori imputabili alla giovane età, chiedeva al popolo di
assolvere il figlio come favore dovuto al padre che non aveva mai offeso nessuno, né
con gli atti, né con le parole. Ma alcuni, o per imbarazzo o per paura, si
rifiutavano di dare ascolto alle sue implorazioni, mentre altri,
lamentandosi delle percosse subite o di quelle toccate agli amici, facevano
capire con interventi durissimi il voto che avrebbero espresso. 13 Oltre alla diffusa
impopolarità, un'accusa pesava in maniera particolare sull'imputato: un testimone
oculare, Marco Volscio Fittore, che era stato tribuno della plebe
alcuni anni addietro, sosteneva di essersi imbattuto - non molto tempo
dopo che la pestilenza aveva colpito la città - in un gruppo di
giovani che imperversava con violenza nella Suburra. Lì era scoppiata una
rissa e suo fratello maggiore, non ancora pienamente guarito dalla malattia, era
stramazzato al suolo colpito da un pugno di Cesone. Trasportato a casa in
fin di vita, a detta di Volscio, era poi morto a séguito di quel colpo.
Tramite i consoli degli anni precedenti non gli era stato possibile
avere soddisfazione di un gesto tanto efferato. Le parole concitate di
Volscio infiammarono gli animi della gente a tal punto che Cesone per
poco non fu vittima della furia popolare. Verginio dà ordine di
arrestarlo e di chiuderlo in prigione. I patrizi rispondono con la forza alla
forza. Tito Quinzio urla che un uomo su cui pende un'imputazione passibile
della pena capitale, e che tra breve dovrà comparire in tribunale,
non può essere sottoposto a violenza prima di essere condannato, prima ancora di
aver subito un regolare processo. Ma il tribuno replica di non volerlo
punire senza prima averlo processato. Tuttavia sostiene che lo si debba
tenere in prigione fino al giorno del processo, in maniera tale che al popolo
romano venga data facoltà di punire un uomo colpevole di omicidio.
Ma i tribuni ai quali ci si appella decidono di esercitare il proprio
diritto di veto, proponendo una soluzione di compromesso: proibiscono
che l'imputato sia incarcerato; esigono che questi compaia in giudizio
e versi al popolo una cauzione per il caso in cui non compaia. Siccome non
era chiaro quale fosse la somma giusta da concordare, la questione viene
portata di fronte al senato. In attesa che i senatori decidano, Cesone
viene guardato a vista. Si stabilì di nominare dei mallevadori, fissando
la cauzione a 3.000 assi per ciascuno di loro. Ai tribuni venne
lasciata la facoltà di determinare il numero dei mallevadori: decisero che
fossero dieci. E tanti furono i mallevadori che diedero all'accusatore
le dovute garanzie. Quello di Cesone fu il primo caso di impegno
cauzionale in attesa del processo. Essendogli stato concesso di
abbandonare il foro, la notte successiva partì per l'esilio in terra
etrusca. Il giorno del processo, l'assenza di Cesone venne giustificata, adducendo la
tesi dell'esilio volontario, ma ugualmente Verginio tentò di
convocare l'assemblea, che fu invece invalidata a séguito di un appello
presentato ai suoi colleghi. La cauzione venne pretesa senza alcuna
pietà dal padre di Cesone che, costretto a vendere tutti i propri
beni, per un certo periodo andò a vivere come un esiliato in un tugurio
fuori mano al di là del Tevere. 14 Mentre sul fronte esterno tutto
taceva, la città era in preda a continue agitazioni per il processo in
corso e per la promulgazione della legge. I tribuni, visto il brutto colpo
subito dai patrizi con l'esilio di Cesone, credevano di essere usciti
vincitori e pensavano che il passaggio della legge fosse a quel punto quasi
scontato. E se per parte loro i senatori più anziani avevano
ormai abbandonato ogni pretesa di controllo del paese, i più giovani - in
special modo quelli che avevano fatto parte del sodalizio di Cesone - aumentarono
il proprio risentimento nei confronti della plebe, senza mai perdersi
d'animo. Ma ottennero i risultati migliori sforzandosi di
moderare in qualche maniera i loro attacchi. Quando la legge venne
ripresentata per la prima volta dopo l'esilio di Cesone, si fecero trovare
pronti allo scontro e con una
massiccia schiera di clienti aggredirono i tribuni non appena questi
ne offrirono l'occasione cercando di
allontanarli: nell'assalto nessuno riuscì a primeggiare per gloria
o per impopolarità, ma la plebe si lamentava che al posto di un solo
Cesone adesso ce ne fossero mille. Nei giorni di intervallo nei quali i
tribuni non si occupavano della legge, niente era più pacifico e
tranquillo di loro: salutavano educatamente i plebei, si fermavano a chiacchierare,
li invitavano a casa, li difendevano nel foro e addirittura permettevano,
senza interferire, che i tribuni tenessero altre assemblee. Non avevano
mai atteggiamenti arroganti né in pubblico né in privato, eccetto quando
saltava fuori la questione della legge. In altre occasioni agivano in
maniera apertamente democratica. I tribuni non si limitarono soltanto a
portare avanti senza intralci le altre loro iniziative, ma vennero anche
rieletti per l'anno successivo. I giovani senatori non alzavano neppure la
voce, né tantomeno arrivavano alla violenza fisica. Così,
agendo con delicatezza e tatto calcolati, riuscirono ad ammansire la plebe.
Grazie a questi espedienti, la legge venne schivata per l'intera durata
dell'anno. 15 I consoli Gaio Claudio, figlio di
Appio, e Publio Valerio Publicola ricevono una città più
tranquilla. L'anno nuovo non aveva portato novità. Una doppia preoccupazione regnava in
Roma: da una parte l'ansia di veder passare la legge, dall'altra il terrore
di doverne accettare l'approvazione. Quanto più i
giovani senatori cercavano di ingraziarsi il favore della plebe, tanto più i
tribuni si sforzavano di renderli sospetti agli occhi della plebe stessa,
accumulando accuse a loro carico. Era stata nel frattempo ordita una congiura:
Cesone si trovava a Roma, il piano era quello di eliminare i tribuni e di
massacrare la plebe. I senatori più anziani avevano affidato ai giovani il
cómpito di abolire la potestà tribunizia facendo sì che la
città ritornasse alle condizioni esistenti prima della secessione sul monte Sacro.
C'era poi anche la paura suscitata da Volsci ed Equi, il cui attacco si
era ormai trasformato in una ricorrenza quasi puntuale e fissata. Ma
una nuova inaspettata sciagura arrivò da una zona ben
più vicina a Roma: un contingente di 2.500 esuli e schiavi, agli ordini del sabino Appio
Erdonio, occupò nottetempo il Campidoglio e la cittadella. Qui fecero
súbito strage di quelli che si rifiutavano di prendere parte attiva
alla congiura, combattendo al loro fianco. Alcuni, però, sfruttando
il grande trambusto, riuscirono a sfuggire al massacro e in preda al
panico si buttarono di corsa in direzione del foro. Si udivano varie
voci gridare: «Alle armi!» o «Il nemico è in città!». I
consoli, ignorando la provenienza di quell'attacco repentino (lo avevano lanciato degli
stranieri o dei Romani?), e non potendolo quindi attribuire con
certezza al risentimento della plebe o a un'insurrezione di schiavi, non
sapevano se convenisse o meno armare il popolo. Tentavano di sedare la rivolta,
anche se coi loro sforzi la fomentavano ulteriormente:
l'autorità di cui erano investiti non era infatti sufficiente per controllare la
folla in preda al panico e allo spavento. Ciononostante le armi vennero
consegnate, anche se non proprio a tutti, ma in maniera tale che,
nell'incertezza legata all'identificazione del nemico, si potesse contare su una
guarnigione sufficientemente sicura e pronta a ogni evenienza. In preda
all'ansia e all'incertezza intorno alla provenienza e alle proporzioni
numeriche del nemico, questi reparti impiegarono il resto della notte ad
allestire picchetti armati in tutti i punti strategici della città. La
luce del giorno poi rivelò quale guerra fosse e chi la guidasse. Dal Campidoglio
Appio Erdonio incitava gli schiavi a conquistare la
libertà: si era addossato la causa di tutti i diseredati per ricondurre in patria gli
esuli ingiustamente banditi e affrancare gli schiavi dal giogo
opprimente della schiavitù. Certo preferiva che tutto accadesse con
l'approvazione del popolo romano: se però da quella parte non c'erano
speranze, allora avrebbe chiamato in causa Volsci ed Equi, deciso a non
scartare le soluzioni estreme. 16 La situazione divenne così
più chiara per i senatori e i consoli. Oltre a tutto ciò che incombeva
minacciosamente sul paese, essi temevano che si trattasse di un'iniziativa dei Veienti
o dei Sabini, e che, con tutti quei nemici in città, le truppe
etrusche e sabine potessero arrivare da un momento all'altro, a compimento di un
piano preordinato; o ancora che i nemici di sempre, Volsci ed Equi, si
rifacessero vivi, non più come prima solo per saccheggiare le campagne romane,
ma spingendosi fino a Roma, considerata ormai quasi conquistata.
Molteplici e diversi erano quindi i motivi di forte apprensione. Tra tutti
spiccava però per intensità quello suscitato dal problema degli schiavi:
ognuno sospettava di avere un nemico in casa, di cui non era sicuro
continuare a fidarsi; e d'altronde, togliendogli la fiducia, c'era il
rischio di accrescerne l'ostilità. Sembrava che neppure con la concordia
si sarebbe potuto rimediare alle difficoltà. Le disgrazie del momento
superavano e offuscavano tutto il resto in maniera così netta che
ormai nessuno temeva più i tribuni e la plebe: questo male minore, sempre
pronto a saltar fuori tra una disgrazia e l'altra, ora sembrava essere stato
placato dal terrore seguito all'attacco straniero. E invece fu
proprio questo annoso problema a farsi sentire in quei momenti critici:
infatti i tribuni arrivarono a un punto tale di dissennata esaltazione da sostenere
che il Campidoglio non era stato oggetto di un vero e proprio
attacco militare, ma di una finta guerra inscenata per distogliere gli
animi della plebe dal pensiero fisso della legge. Se la legge fosse passata,
gli amici e i clienti dei patrizi si sarebbero resi conto
dell'inutilità di quella messinscena e se ne sarebbero ritornati a casa ancora
più silenziosamente di come erano venuti. Perciò, dopo aver
richiamato il popolo sottraendolo agli obblighi militari, convocarono un'assemblea con
l'intento di far approvare la legge. Nel frattempo i consoli, certo
più preoccupati dalle mosse dei tribuni che non dall'attacco notturno
dei nemici, tennero una seduta del senato. 17 Quando arrivò la notizia che
gli uomini stavano abbandonando le armi e i posti di guardia, Publio Valerio,
dopo aver lasciato al collega il cómpito di impedire ai senatori di
abbandonare la seduta, si precipitò fuori dalla curia diretto al luogo dove
i tribuni stavano tenendo la loro assemblea. E lì disse loro:
«Tribuni, cosa significa tutto questo? Avete intenzione di mettervi agli ordini di
Appio Erdonio e di sovvertire sotto la sua guida l'ordine costituito?
È riuscito così bene a corrompere voi uno che non è stato nemmeno in
grado di far sollevare degli schiavi? Possibile che col nemico sopra le teste
vi venga in mente di buttare le armi e di mettervi a proporre leggi?»
Poi, rivolgendosi alla folla, disse: «Se la situazione in cui versa la
vostra città, o Quiriti, non desta in voi la benché minima preoccupazione,
abbiate almeno rispetto dei vostri dèi finiti in mano al nemico!
Giove Ottimo Massimo, Giunone Regina e Minerva, insieme a tutte le altre
divinità, si trovano in stato d'assedio; un campo di schiavi circonda i vostri
Penati. Vi sembra questa una condizione normale per una
città? Abbiamo torme di nemici dappertutto: non solo all'interno delle mura, ma anche
sulla cittadella e al di sopra del foro e della curia. Nel frattempo il
popolo è riunito in assemblea nel foro, mentre nella curia è in
corso una seduta del senato: come in pieno regime di pace, i senatori stanno esprimendo
la loro opinione e gli altri Quiriti vanno al voto. Non sarebbe
giusto che tutti insieme, patrizi e plebei dal primo all'ultimo, e consoli,
tribuni, uomini e dèi unissero le proprie forze e, una volta armati,
corressero in Campidoglio per riportare pace e libertà nella venerabile
dimora di Giove Ottimo Massimo? O padre Romolo, infondi nei tuoi discendenti
quell'energia inesauribile con la quale un giorno riconquistasti la
cittadella finita nelle mani di questi stessi Sabini con l'inganno dell'oro!
Ordina loro di seguire la via percorsa dalle tue truppe con te al
comando! Ecco, io che sono il console, sarò il primo - per quel poco
che un mortale può nell'emulare un dio - a seguire te e le tue orme!» Per finire
disse che sarebbe andato ad armarsi e incitò tutti i Quiriti a fare
altrettanto. Se qualcuno avesse opposto resistenza, egli non avrebbe più
tenuto conto dell'autorità consolare, né della potestà tribunizia o delle
leggi garantite dai vincoli della sacralità: chiunque fosse stato
renitente e dovunque si fosse trovato, in Campidoglio o nel foro, avrebbe avuto
il trattamento riservato ai nemici. I tribuni, siccome avevano proibito di
attaccare Appio Erdonio, ordinassero pure alla plebe di
rivolgere le armi contro il console Publio Valerio: questi non avrebbe esitato a
scagliarsi contro i tribuni, così come il capostipite della sua famiglia
non aveva esitato a farlo contro i re. Era chiaro che presto si sarebbe
arrivati all'uso della forza e che i Romani avrebbero offerto ai nemici lo
spettacolo di uno scontro intestino. Così, né fu possibile far
passare la legge, né il console riuscì a salire sul Campidoglio. La notte pose fine
allo scontro. Al calar delle tenebre, i tribuni si ritirarono, impauriti
dallo schieramento di forze mostrato dai consoli. Una volta allontanatisi i
veri responsabili della sommossa, i senatori si andarono a mischiare alla
gente comune e, inserendosi all'interno di vari gruppi, si
rivolgevano alla gente con toni e parole appropriati alla delicatezza della
situazione e invitavano gli interlocutori a considerare lo stato di
estremo pericolo nel quale il loro comportamento aveva trascinato l'intero
paese. Cercavano di far capire loro che non si trattava di uno scontro
tra patrizi e plebei, ma che patrizi e plebei insieme, la
cittadella, i santuari degli dèi, i Penati dello Stato e delle case private, tutto
rischiava di finire in mano ai nemici. Mentre nel foro i senatori si
sforzavano di sedare la discordia con questi discorsi, i consoli, temendo
che Sabini e Veienti si mettessero in movimento, erano in giro a
ispezionare le porte e le mura. 18 Quella stessa notte anche a Tuscolo
arrivò la notizia che la cittadella era stata conquistata, che il
Campidoglio si trovava in stato d'assedio e che nel resto di Roma regnava il
disordine. Lucio Mamilio era allora dittatore a Tuscolo. Dopo aver
immediatamente convocato il senato e aver fatto entrare in sala i messaggeri,
sostenne con calore che non si doveva aspettare l'arrivo da Roma di inviati
con richieste d'aiuto: lo esigevano la situazione di grave pericolo, le
divinità che sancivano il vincolo di alleanza e la fedeltà ai patti.
Gli dèi non avrebbero più offerto un'occasione così propizia di
guadagnarsi la gratitudine di una città tanto potente e vicina. Si decide
quindi di portare aiuto e con questo scopo si organizza una leva di giovani
e si danno loro delle armi. Quando alle prime luci del giorno le truppe di
Tuscolo vennero avvistate da lontano in assetto di marcia, furono
scambiate per contingenti nemici. Sembrò che Equi e Volsci
stessero arrivando. Una volta però dissipati i falsi timori, gli uomini di Mamilio
sono accolti in città e incolonnati scendono al foro. Qui Publio Valerio,
affidato al collega il presidio delle porte, stava già
schierando le truppe. Con il peso della sua autorità, il console aveva
convinto il popolo con queste dichiarazioni. Una volta riconquistato il Campidoglio
e ristabilita la pace in città, se solo gli fosse stato concesso di
smascherare l'inganno celato nella legge proposta dai tribuni, memore dei propri
antenati e del soprannome col quale essi gli avevano tramandato come
in eredità il dovere di preoccuparsi del popolo, non avrebbe
impedito l'assemblea della plebe. Seguendolo quindi come loro comandante,
nonostante le vane proteste dei tribuni, gli uomini cominciano a salire
su per il colle del Campidoglio. A loro si aggiunge la legione di Tuscolo.
Tra alleati e Romani fu allora una vera gara di valore per vedere a chi
sarebbe toccato l'onore di riconquistare la cittadella. I
comandanti dei due schieramenti esortavano a gran voce le proprie truppe. In quel
momento i nemici si fecero prendere dall'affanno perché non potevano
contare che sulla posizione occupata. Mentre il panico serpeggiava tra le
loro file, ecco arrivare l'attacco di Romani e alleati. Gli attaccanti erano
già penetrati nel vestibolo del tempio, quando Publio Valerio rimase
ucciso proprio mentre guidava l'assalto nelle prime file.
L'ex-console Publio Volumnio lo vide cadere. Dopo aver ordinato ai suoi di
proteggerne il corpo, si butta a occupare la posizione tenuta dal console. Nell'ardore
dell'impeto i soldati non si accorsero nemmeno di un fatto
così clamoroso e arrivarono a conquistare la vittoria ancor prima di essersi resi
conto di combattere ormai privi del comandante. Il sangue dei molti esuli
massacrati insozzò le pareti dei templi: parecchi furono catturati vivi,
mentre Erdonio rimase ucciso. Fu così che il Campidoglio
tornò in mani romane. Quanto ai prigionieri, a ciascuno di essi toccò una pena
commisurata alla loro condizione, a seconda che si trattasse di uomini
liberi o di schiavi. I Tuscolani vennero ringraziati e il Campidoglio fu
purificato con riti espiatori. Pare che i plebei andassero a gettare
un quadrante a testa nella casa del console morto, perché fosse sepolto con
esequie più sontuose. 19 Una volta ristabilita la pace, i
tribuni cominciarono a incalzare i senatori chiedendo loro di mantenere la
promessa fatta da Publio Valerio. A Gaio Claudio rivolgevano invece
l'invito a liberare gli dèi Mani del collega dall'ombra dell'inganno,
permettendo così di riavviare la discussione sulla legge. Ma il console
replicò che non avrebbe permesso di ricominciare il dibattito sulla legge
fino a quando non gli fosse stato affiancato un collega regolarmente
eletto. Queste schermaglie tennero banco fino alle elezioni consolari. A
dicembre, grazie allo straordinario zelo dimostrato dai senatori, Lucio
Quinzio Cincinnato, padre di Cesone, viene nominato console ed entra
immediatamente in carica. La plebe era spaventata all'idea di avere un console
accecato dal rancore nei suoi confronti, e oltretutto forte del
favore senatoriale e del proprio valore, nonché di altri tre figli, nessuno dei
quali era inferiore a Cesone per abnegazione e coraggio, ma tutti
superiori a lui nella capacità di usare la moderazione e l'assennatezza nelle
occasioni in cui erano necessarie. Appena entrato in carica, Cincinnato non
perdeva occasione di arringare la gente dai banchi del tribunale, e
mostrava nel reprimere la plebe un'energia pari a quella mostrata nel
muovere aspre censure al senato. A sua detta, proprio a causa dell'apatia
dell'ordine senatoriale i tribuni della plebe esercitavano ormai una
sorta di tirannide permanente, a parole e con azioni nefaste, lecita in una
casa privata ormai allo sfacelo, ma non nella gestione degli affari del
popolo romano. Con suo figlio Cesone, il coraggio, la forza e tutte le nobili
qualità della gioventù in pace e in guerra erano state cacciate da Roma
e messe in fuga. E invece, dei parolai pronti solo a seminare zizzania
e sedizioni erano stati eletti tribuni per una seconda e una terza
volta e vivevano con magnificenza regale, grazie alle loro pessime arti.
«Aulo Verginio,» disse, «che sul Campidoglio non c'era, meritava forse
una punizione più lieve di quella toccata ad Appio Erdonio? Se si considera
attentamente l'andamento dei fatti, per Ercole, ne meriterebbe una
molto più dura! Erdonio, se non altro, professandosi nemico, in qualche
modo vi intimò di prendere le armi. Costui invece, sostenendo che non
ci fosse una guerra in atto, vi tolse di mano le armi esponendovi
inermi ai vostri schiavi e agli esuli. E non è forse vero - sia detto
questo con buona pace di Gaio Claudio e del defunto Publio Valerio - che vi buttaste
all'attacco su per il Campidoglio prima di aver liberato il foro dai
nemici? Una vergogna di fronte agli dèi e agli uomini. Quando sulla cittadella
e sul Campidoglio c'erano i nemici e il capo degli esuli e degli schiavi
si era installato, per colmo di profanazione, addirittura nei penetrali
del tempio di Giove Ottimo Massimo, i Tuscolani avevano preso le
armi prima dei Romani. Quanto poi alla liberazione della cittadella, si
è arrivati a dubitare se essa vada attribuita a Lucio Mamilio comandante
delle truppe di Tuscolo oppure ai consoli Publio Valerio e Gaio Claudio.
E noi che prima di quell'episodio non avevamo mai permesso ai Latini di
mettere le mani sulle armi, neppure in caso di autodifesa o di fronte a
un'invasione nemica, in quel frangente saremmo stati catturati e distrutti se
i Latini non fossero intervenuti di loro spontanea volontà. Ma
è questo, o tribuni, quello che voi chiamate soccorrere la plebe, e cioè
consegnare della gente inerme in pasto al nemico? È ovvio che se il
più insignificante membro della vostra plebe - cioè di quella porzione di
popolazione che voi avete trasformato in una vostra patria, in una cosa vostra, dopo
averla sradicata dal resto del popolo -, se uno di questi individui
fosse venuto a riferirvi di avere la casa assediata dai propri schiavi
armati, voi vi sareste sentiti in dovere di intervenire in suo aiuto: ma Giove
Ottimo Massimo assediato da una banda armata di esuli e schiavi non
meritava forse il soccorso degli uomini? E costoro pretendono poi di
essere considerati sacri e inviolabili, quando ai loro occhi
neppure gli dèi in persona lo sono! E infatti, pur essendovi macchiati di
orrende colpe nei confronti di uomini e dèi, vi ostinate a ripetere
che quest'anno voi farete passare la legge. Ma, per Ercole, il giorno che sono
stato eletto console diventerà una data funesta per il paese, ancor più
di quella in cui morì il console Publio Valerio, se riuscirete a far passare la
legge! Prima di ogni altra cosa,» concluse, «io e il mio collega abbiamo
in mente di guidare le legioni contro Volsci ed Equi. Non so per quale
destino il favore degli dèi ci arride più quando siamo sul
piede di guerra che non in tempo di pace. Il pericolo che questi popoli avrebbero
potuto rappresentare se fossero venuti a sapere dell'assedio del
Campidoglio da parte degli esuli è meglio cercare di desumerlo dalle esperienze
passate piuttosto che sperimentarlo dal vivo.» 20 Il discorso del console aveva
impressionato la plebe. E i senatori, rinfrancati, pensavano che lo Stato
fosse tornato alla stabilità di un tempo. L'altro console, che per indole
era incline più a collaborare con passione ad iniziative altrui che a
proporne di nuove, pur accettando di buon grado che il collega lo avesse
preceduto nella presentazione di
misure così importanti, ciononostante, reclamava per sé,
all'atto della loro realizzazione pratica, la sua
parte di potere consolare. I tribuni allora, facendosi beffe del discorso di
Quinzio come se le sue fossero state parole prive di efficacia,
cominciarono ad andare in giro a chiedere in che modo i consoli avrebbero messo
insieme un esercito da portare in guerra, quando a nessuno passava per la
testa di permettere loro l'effettuazione di una leva. «Non abbiamo
bisogno di nessuna leva,» disse Quinzio, «perché quando Publio Valerio
armò la plebe per riconquistare il Campidoglio, tutti giurarono che si
sarebbero presentati attenendosi agli ordini del console e che senza il suo
ordine non se ne sarebbero andati. Pertanto le nostre disposizioni sono
queste: voi tutti che avete prestato giuramento domani trovatevi armati al
lago Regillo.» Allora i tribuni, volendo liberare il popolo dalla
sacralità dell'impegno assunto, trovarono dei cavilli; dicevano che Quinzio era
un privato cittadino quando essi avevano prestato giuramento. Ma allora
non si era ancora imposto quel disprezzo per gli dèi che domina
invece ai giorni nostri e nessuno cercava di adattare alle proprie esigenze leggi
e giuramenti, ma piuttosto si sforzava di conformare a questi ultimi
il proprio comportamento. Pertanto i tribuni, siccome non c'era nessuna
speranza di riuscire a ostacolare l'iniziativa, si impegnarono nel
tentativo di ritardare la partenza. Correva voce che agli àuguri
fosse stato ordinato di presentarsi al lago Regillo per consacrare uno spazio dove
fosse lecito convocare il popolo, dopo aver tratto i regolari auspici. Il
tutto per far sì che in quel contesto potesse essere abrogato dai
comizi centuriati tutto ciò che a Roma aveva ottenuto l'approvazione per
la violenza dei tribuni. Tutti dichiararono che si sarebbero
conformati alla volontà del console. E infatti, trovandosi a più di un
miglio di distanza da Roma, non esisteva possibilità d'appello e anche i
tribuni, qualora si fossero presentati lì, sarebbero stati soggetti
all'autorità dei consoli come tutti gli altri Quiriti. Queste cose facevano paura. Ma
quel che spaventava di più gli animi era che Quinzio avesse più
volte dichiarato di non voler tenere le elezioni consolari. La città
versava ormai in condizioni così gravi che non era possibile pensare di poterla
curare ricorrendo ai rimedi consueti: la repubblica aveva bisogno di un
dittatore, in modo che chiunque si fosse mosso per suscitare la rivolta nella
città sapesse che la dittatura non prevedeva possibilità d'appello.
21 Il senato si trovava in Campidoglio. Qui viene raggiunto dai
tribuni e dalla plebe in preda all'agitazione.
Con un coro di voci disordinate, la moltitudine implora la protezione ora
dei consoli, ora dei senatori. Ma non riuscirono a distogliere il console
dal suo fermo proposito, prima che i tribuni avessero promesso di
sottomettersi in futuro all'autorità dei senatori. Dopo che il console ebbe
riferito le richieste dei tribuni e della plebe, il senato stabilì
che i tribuni quell'anno non avrebbero ripresentato la legge, e che i consoli
non avrebbero guidato un esercito fuori dalla città. Inoltre, per
quanto concerneva i giorni a venire, il senato giudicò dannoso per lo
Stato che le magistrature potessero essere prolungate nel tempo e che gli stessi
tribuni venissero rieletti. I consoli si piegarono
all'autorità dei senatori, ma i tribuni, nonostante le proteste dei consoli, furono
rieletti. Anche i patrizi, per non fare alcuna concessione alla plebe,
desideravano il rinnovo della magistratura a Lucio Quinzio, che pronunciò
un discorso di una durezza mai dimostrata in nessun'altra occasione nell'intero
arco dell'anno. «E io dovrei stupirmi,» disse Quinzio, «o senatori,
se il vostro potere non ha alcuna efficacia sulla plebe? Ma se siete voi
che lo screditate quando, di fronte alla plebe che viola il decreto
senatoriale sul prolungamento delle magistrature, vi mettete anche voi a
violarlo per tener dietro all'impudenza della folla, come se
l'essere più incostanti o l'agire in maniera più arbitraria nei
confronti della legge significasse gestire maggiore potere all'interno della
città. Infatti è certo un comportamento più irresponsabile e stupido
violare i propri decreti e le proprie risoluzioni piuttosto che quelli degli
altri. Imitate pure, o senatori, la folla inconsulta e, anche se dovreste
essere voi d'esempio agli altri, continuate a sbagliare adeguandovi
all'esempio altrui, invece di far sì che gli altri operino rettamente
seguendo il vostro. Io però, se non vi spiace, non ho intenzione di imitare i
tribuni né di farmi rieleggere console contro la volontà del
senato. Quanto a te, Gaio Claudio, ti esorto affinché tu faccia il possibile per
liberare il popolo romano dal dilagare dell'arbitrio e ti prego di credere
che, per quanto mi riguarda, non sei stato un ostacolo alla mia carica, ma
hai contribuito a incrementare il peso del mio rifiuto e che, così
facendo, l'impopolarità destinata a seguire l'eventuale rinnovo della
magistratura ora non rappresenta più un rischio.» Quindi, di comune accordo,
decretano che nessuno voti Lucio Quinzio come console. Se qualcuno
l'avesse fatto, non avrebbero tenuto conto di quel voto. 22 Vennero eletti consoli Quinto Fabio
Vibulano (per la terza volta) e Lucio Cornelio Maluginense. Quell'anno
venne effettuato un censimento della popolazione, ma a causa della
presa del Campidoglio e della morte del console fu considerato un atto
sacrilego il concluderlo con il tradizionale rito di purificazione. Il consolato di Quinto Fabio e Lucio
Cornelio nacque all'insegna del disordine: i tribuni istigavano la
plebe, mentre Latini ed Ernici annunciavano che Volsci ed Equi erano
in procinto di lanciare un grande attacco e che ad Anzio c'erano
già delle legioni di Volsci. Oltretutto era diffuso il timore di una defezione da
parte della colonia stessa di Anzio e con enorme fatica si ottenne dai
tribuni che lasciassero la precedenza alla guerra. Poi i consoli si
spartirono i còmpiti: a Fabio venne dato l'incarico di guidare le legioni ad
Anzio, mentre a Cornelio venne affidato quello di difendere Roma con
le armi, per evitare che una parte dei nemici - com'era abitudine degli
Equi - venisse a saccheggiare. Ad Ernici e Latini fu invece dato ordine
di fornire dei contingenti armati secondo le clausole contenute nel
trattato, così che alla fine l'esercito risultò formato per due terzi da
alleati e per un terzo da cittadini romani. Quando il giorno prestabilito
arrivarono gli alleati, il console decise di accamparsi fuori della porta
Capena. Di lì, dopo aver purificato l'esercito con un sacrificio rituale,
partì alla volta di Anzio e si appostò non lontano dalla
città e dal quartier generale dei nemici. I Volsci in quel momento non osavano
affrontare uno scontro perché privi dei contingenti degli Equi che non li
avevano ancora raggiunti, così cercarono di proteggersi restando tranquilli al
riparo di una trincea fortificata. Il giorno dopo Fabio, invece di
mescolare Romani e alleati in un'unica schiera, ne piazzò intorno alla
trincea nemica tre, rispettivamente formate da contingenti dei tre diversi
popoli, riservando per se stesso e per le legioni romane il centro dello
spiegamento. Quindi ordinò loro di aspettare il segnale, in maniera tale
che alleati e Romani dessero inizio in sincronia all'operazione e fossero
pronti a ritirarsi insieme, qualora venisse suonata la ritirata. Inoltre
collocò la cavalleria dietro le prime file di ciascuna schiera. Lanciatosi
così all'assalto da tre direzioni diverse, circondò l'accampamento
e, incalzandoli da ogni parte, scacciò dalla trincea i Volsci incapaci di
sostenere l'urto. Quindi, una volta superate le fortificazioni, allontana
dall'accampamento la massa spaventata dei nemici che ripiega in
un'unica direzione. Allora i cavalieri, che per la difficoltà
di superare la trincea avevano assistito da spettatori alla battaglia, non
avendo più davanti a sé alcun tipo di ostacolo, si conquistarono parte del
merito della vittoria abbattendosi sui nemici terrorizzati. Il massacro
dei fuggitivi fu tremendo sia all'interno dell'accampamento che oltre
le fortificazioni. Ma ancora più grande fu il bottino: i nemici
riuscirono a portare con sé a malapena le armi. E anche il loro esercito sarebbe
stato distrutto se il bosco non avesse offerto riparo a chi fuggiva. 23 Mentre ciò accadeva nei
pressi di Anzio, gli Equi, mandato avanti il meglio dei loro giovani, con
un'improvvisa sortita notturna si impossessano della cittadella di
Tuscolo. Con il resto dell'esercito si attestano non lontano dalle mura della
città per impegnare su più fronti le truppe nemiche. Quando queste
notizie - dopo aver velocemente raggiunto Roma - arrivarono all'accampamento nei
pressi di Anzio, i Romani ne furono sconvolti come se fosse stata
annunciata l'occupazione del Campidoglio. Il ricordo del recente gesto meritorio
compiuto dai Tuscolani e l'analoga situazione di pericolo esigevano che si
contraccambiasse l'aiuto da loro prestato. Fabio, mettendo in secondo piano
ogni altra cosa, trasporta rapidamente il bottino
dall'accampamento ad Anzio e, lasciato qui un modesto presidio armato, a marce
forzate si precipita a Tuscolo. Ai soldati non permise di prendere con sé
nient'altro che le armi e il cibo già pronto e a portata di mano
(gli approvvigionamenti li trasportò infatti il console Cornelio da Roma).
La guerra di Tuscolo durò alcuni mesi. Con parte dell'esercito il
console assediava l'accampamento degli Equi, mentre un'altra parte l'aveva
affidata ai Tuscolani per riconquistare la cittadella. Ma in
questo punto non si riuscì mai a entrare con la forza: fu la fame che
alla fine scacciò i nemici di là. Quando furono allo stremo, i Tuscolani
li costrinsero tutti, senza armi e nudi, a passare sotto il giogo. E
mentre con una fuga vergognosa cercavano di riparare in patria, il console
romano li intercettò sul monte Algido uccidendoli dal primo all'ultimo. Il
vincitore, fatto ritirare l'esercito, si accampa presso Colume (questo
è il nome del luogo). L'altro console, dopo che la sconfitta nemica aveva
allontanato il pericolo dalle mura di Roma, si mise in marcia anche lui dalla
città. Così, entrati nei territori nemici da due direzioni, i consoli con
un'aspra lotta devastarono da una parte le terre dei Volsci e dall'altra
quelle degli Equi. Presso la maggior parte degli autori ho trovato
che in quello stesso anno ci fu una rivolta degli Anziati; avrebbe condotto
la guerra contro di loro e preso la città il console Cornelio. Ma
a dir la verità non me la sento di confermare la notizia perché gli
storici più antichi non menzionano l'episodio. 24 Appena finita questa guerra,
un'altra, suscitata in patria dai tribuni, semina il panico tra i patrizi. I
tribuni protestavano a gran voce che era una truffa tener lontano dalla
città l'esercito: quello era un espediente per boicottare la legge. Essi si
impegnavano a portare a compimento l'iniziativa. Ciononostante, il
prefetto della città Lucio Lucrezio ottenne che i tribuni procrastinassero
ogni loro mossa fino all'arrivo dei consoli. Era sorta una nuova ragione di
discordia: i questori Aulo Cornelio e Quinto Servilio avevano
citato in giudizio Marco Volscio, accusandolo di testimonianza
indubbiamente falsa nel processo a carico di Cesone. Era emerso da numerose prove
che il fratello di Volscio, da quando si era ammalato, non soltanto non era
mai stato visto in giro, ma non si era mai ristabilito e si era spento
consumato da un male durato molti mesi; e che nei giorni in cui il
testimone aveva collocato il delitto, Cesone non era stato visto a Roma (come
affermavano i suoi commilitoni, i quali sostenevano che in quel periodo
egli era sempre stato con loro al fronte, senza mai beneficiare di
licenze). Per provare la veridicità di queste affermazioni, molti erano
disposti a proporre a Volscio un arbitro privato. Ma siccome egli non osava
comparire in giudizio, tutti questi elementi insieme congiurarono contro di
lui, rendendo la condanna di Volscio non meno dubbia di quanto lo
era stata quella di Cesone dopo la testimonianza di Volscio. I tribuni
prendevano tempo e dicevano che non avrebbero permesso ai questori di
tenere comizi sull'accusato se prima non si tenevano quelli sulla legge.
Così entrambe le questioni vennero rinviate fino all'arrivo dei consoli.
Quando questi entrarono in città con l'esercito vincitore, siccome non si
parlava affatto della legge, molta gente pensò che i tribuni si
fossero dati per vinti. Ma i tribuni, visto che l'anno era ormai agli sgoccioli,
puntando a essere riconfermati nella carica per la quarta volta, avevano
concentrato tutti i loro sforzi sui comizi elettorali, e nonostante
l'accesa opposizione dei consoli - i quali si accanivano contro la riconferma dei
tribuni con non meno livore di quanto ne avrebbero dimostrato se si
fosse trattato di una legge volta a diminuire la loro autorità -,
nello scontro ebbero la meglio i tribuni. In quello stesso anno gli Equi chiesero
e ottennero la pace. Venne portato a termine il censimento iniziato l'anno
precedente. Pare che quello fosse il decimo sacrificio lustrale compiuto
dalla fondazione di Roma. I cittadini censiti risultarono essere
117.319. Per i consoli fu un anno di grande gloria tanto in politica interna
che in àmbito militare: infatti, durante il loro mandato, non soltanto
si arrivò ad ottenere la pace coi popoli confinanti, ma anche in
città, pur non arrivando a una perfetta armonia tra le parti, ci furono meno
tensioni del solito tra le classi. 25 Lucio Minucio e Gaio Nauzio, eletti
consoli, ricevettero in eredità le due questioni lasciate in sospeso
l'anno precedente. Come già successo in passato, i consoli cercavano di
insabbiare la legge e i tribuni il processo a carico di Volscio. Ma i
nuovi questori erano uomini di tutt'altro temperamento e influenza.
Collega del questore Marco Valerio, figlio di Manio e nipote di Voleso, era
Tito Quinzio Capitolino, già tre volte console in passato. Questi, non
potendo restituire Cesone alla famiglia, né un giovane così
eccezionalmente dotato al paese, si era impegnato in una guerra giusta e
sacrosanta contro il falso testimone che aveva impedito a un innocente di
perorare la propria causa. Mentre fra i tribuni soprattutto Verginio si
impegnava di più per quella legge, ai consoli vennero dati due mesi di tempo
per esaminarla in maniera tale che,
dopo aver spiegato alla gente quali insidie nascondeva, potessero dare
il via alle operazioni di voto. La
concessione di questo intervallo riportò la calma in città. Ma gli Equi
non lasciarono che la pace durasse troppo a lungo: violando infatti il trattato
stipulato coi Romani l'anno precedente, affidano il comando a
Gracco Clelio, allora la personalità di gran lunga più in vista tra gli
Equi. Guidati da Gracco, invadono e
saccheggiano senza pietà prima la zona di Labico e quindi quella di Tuscolo, per
poi andarsi ad accampare, carichi del bottino, sull'Algido. Da Roma
giunsero in quel campo in qualità di inviati Quinto Fabio, Publio Volumnio e
Aulo Postumio per chiedere ragione delle offese arrecate e per pretendere,
come previsto dal trattato, la restituzione di quanto razziato. Ma il
comandante degli Equi intimò loro di andare a riferire alla quercia
qualunque messaggio avessero ricevuto dal senato di Roma nel mentre egli si
sarebbe occupato d'altro. Un'enorme quercia sovrastava il pretorio che
aveva sede sotto la sua densa ombra. Allora uno dei legati, ormai sul punto
di andarsene, disse: «Che questa quercia sacra e le presenze divine del
luogo - qualunque esse siano - sentano che siete stati voi a violare
il trattato. Possano essere favorevoli ora alle nostre lamentele e
presto alle nostre armi, quando vendicheremo la vostra contemporanea
violazione dei diritti divini e umani.» Quando gli ambasciatori
rientrarono a Roma, il senato ordinò che uno dei consoli guidasse l'esercito
sull'Algido, contro Gracco, mentre all'altro diede l'incarico di mettere a
ferro e fuoco il territorio degli Equi. I tribuni, com'era ormai loro
abitudine, si misero a ostacolare la leva. E questa volta ce l'avrebbero
quasi fatta se non fosse sopraggiunto all'improvviso un nuovo e inquietante
allarme. 26 Ingenti forze sabine si spinsero a razziare fin sotto le mura:
le campagne vennero devastate e in città fu súbito il terrore.
Allora la plebe prese di buon grado le armi e, tra le vane proteste dei tribuni,
vennero arruolati due grandi eserciti. Con uno di essi Nauzio attaccò i
Sabini. Dopo aver sistemato l'accampamento a Ereto, sfruttando per
lo più la tecnica delle incursioni notturne affidate a pattuglie armate,
provocò tali devastazioni nella campagna sabina che, al confronto,
quella romana sembrava quasi non aver risentito della guerra. Minucio non
ebbe invece, nel corso della campagna, la stessa buona sorte, né
dimostrò analogo temperamento. Infatti, dopo essersi accampato non lontano dal
nemico, pur non avendo subìto alcuna grave sconfitta, continuava a rimanere
pavidamente all'interno dell'accampamento. Quando i nemici se
ne resero conto, la loro audacia crebbe, come sempre succede, per i
timori dell'avversario e, nel cuore della notte, assalirono l'accampamento.
Fallito però l'attacco diretto, il giorno successivo circondano il luogo
con fortificazioni. Ma prima che queste, erette lungo tutto il perimetro
della trincea, potessero precludere ogni via d'uscita, cinque
cavalieri riuscirono a incunearsi attraverso le postazioni nemiche e
portarono a Roma la notizia che il console e l'esercito eran stretti
d'assedio. In quel frangente non poteva succedere nulla di più inopinato
e imprevedibile. Il panico e lo smarrimento furono così grandi,
come se i nemici assediassero la città e non l'accampamento. Fu richiamato il
console Nauzio. Ma siccome la sua protezione non sembrava sufficiente e
alla gente andava a genio la nomina di un dittatore capace di rimediare a
una situazione più che critica, tutti si trovarono d'accordo sul nome
di Lucio Quinzio Cincinnato. Quanto segue merita l'attenzione di
quelli che, eccetto il denaro, disprezzano tutte le cose umane e
credono che non ci sia spazio per i grandi onori e per le virtù se
non dove c'è profusione di ricchezze. Lucio Quinzio, unica speranza rimasta al
popolo romano per l'affermazione del proprio dominio, coltivava un
appezzamento di quattro iugeri al di là del Tevere (zona oggi nota come Prati
Quinzi), proprio di fronte al luogo dove adesso ci sono i cantieri navali. E
lì fu trovato dagli inviati: se poi stesse scavando una fossa piegato sulla
pala oppure stesse arando, una cosa è certa, e ben nota a
tutti: era intento a un lavoro agricolo. Dopo uno scambio di saluti, gli venne
chiesto di mettersi la toga e di ascoltare quello che il senato gli
mandava a dire, sperando che ciò si risolvesse nel bene suo e in quello
della repubblica. Stupito domandò: «Va tutto bene, vero?» Quindi ordinò
alla moglie Racilia di andare súbito a prendere la sua toga dentro la capanna.
Ripulitosi dalla polvere e deterso il sudore, si fece avanti con la toga
addosso. Gli inviati lo salutano dittatore, si congratulano, lo invitano
a tornare in città e gli illustrano l'allarmante situazione in
cui versa l'esercito. Ad attenderlo era pronta una imbarcazione allestita a
spese dello Stato. Dopo aver attraversato il fiume, sulla riva opposta
gli andarono incontro i tre figli, seguiti da altri parenti e amici
e poi dalla maggior parte dei senatori. Accompagnato da quella folla
e preceduto dai littori, venne quindi scortato a casa sua. Accorsero
numerosi anche i plebei; ma non gioirono troppo alla vista di Quinzio,
perché ritenevano eccessivo il potere dittatoriale, e troppo
autoritario l'uomo a cui quel potere era stato affidato. E quella notte in
città non si fece altro che vegliare. 27 Il giorno successivo il dittatore si
presentò nel foro prima dell'alba e qui nominò maestro di
cavalleria Lucio Tarquinio che, pur vantando origini patrizie, a causa della sua
povertà aveva militato tra i fanti, meritandosi però sul campo la
palma del migliore tra la gioventù romana. Arrivato in assemblea col suo nuovo
maestro di cavalleria, il dittatore sospende l'attività giudiziaria,
ordina la chiusura di tutte le botteghe cittadine e vieta a chiunque di occuparsi
di qualsiasi faccenda privata. Inoltre tutti coloro che erano in
età militare dovevano presentarsi in Campo Marzio con viveri per cinque
giorni e dodici pioli a testa. A quelli che per l'età troppo avanzata
non erano in grado di prestare servizio militare, ordinò di preparare il
rancio caldo ai vicini mobilitati, mentre questi ispezionavano le armi e
cercavano i pioli. Così i giovani si buttarono alla ricerca dei pioli: ciascuno
li andò a prendere nel punto più vicino, senza mai trovare
resistenza nella gente. E tutti furono puntualmente a disposizione come
richiesto dal dittatore. Così, una volta organizzati gli uomini in maniera tale
da averli pronti tanto alla marcia quanto al combattimento, qualora ce ne
fosse stata la necessità, il dittatore in persona si mise a capo
delle legioni, mentre il maestro di cavalleria andò a porsi alla
testa dei suoi cavalieri. In entrambi gli schieramenti si udivano le incitazioni che
le circostanze richiedevano. L'ordine era: accelerare il passo;
bisognava fare presto per arrivare a contatto col nemico entro la notte. Il
console e l'esercito romano erano intanto circondati dal nemico e ormai
si trattava del terzo giorno dall'inizio dell'assedio. Cosa ogni
giorno e ogni notte portino è difficile prevederlo. E il semplice
istante rappresenta spesso la svolta per eventi di grandissima importanza.
Anche i soldati, per compiacere i rispettivi comandanti, si gridavano tra
di loro frasi come: «Portabandiera, accelera!» o «Uomini,
seguitemi!». A mezzanotte arrivano sull'Algido e, intuendo di essere ormai
prossimi al nemico, si fermano. 28 Lì il dittatore andò a
ispezionare a cavallo l'estensione e la conformazione dell'accampamento, per
quanto si poteva vedere di notte. Quindi ingiunse ai tribuni militari di
far ammassare in un unico punto i bagagli e di far ritornare poi gli
uomini nei rispettivi ranghi coi paletti e le armi. Quando i comandi
furono eseguiti, egli, continuando a mantenere lo stesso ordine tenuto
durante la marcia, con l'intero esercito inquadrato in lunghe colonne circonda
l'accampamento nemico. Quindi ordina che tutti, a un determinato segnale,
gridino con quanta voce hanno in gola e, dopo aver gridato, scavino un buco
di fronte alla propria posizione e infine piantino dentro un paletto.
All'ordine seguì sùbito il segnale. I soldati mettono in atto le parole del
dittatore e le loro voci risuonano tutt'intorno al nemico, arrivando fino
all'accampamento del console, dopo aver attraversato quello avversario.
L'urlo semina da una parte il terrore, mentre dall'altra scatena
un'immensa gioia. I Romani assediati, rendendosi conto che a gridare erano
dei loro concittadini e che quindi erano arrivati i soccorsi, si
rallegrarono e ricominciarono a spaventare i nemici dai posti di guardia e dalle
altane. Il console disse che non c'era un minuto da perdere: quell'urlo non
indicava soltanto l'arrivo dei rinforzi, ma anche che questi ultimi
avevano iniziato a combattere. Anzi sarebbe stato strano se essi non
avessero già assalito alle spalle l'accampamento nemico. Perciò
ordina ai suoi di prendere le armi e di seguirlo. Quando si buttarono nella
mischia era notte fonda: con un urlo fecero capire alle legioni del
dittatore che anche da quella parte era cominciato lo scontro. Gli Equi si
stavano già preparando a impedire l'accerchiamento delle fortificazioni,
quando si videro investiti dagli assediati. Per evitare una sortita
attraverso il loro accampamento, girarono la schiena a quelli che
stavano costruendo la palizzata e si concentrarono sull'attacco proveniente
dall'interno, lasciando che la costruzione procedesse indisturbata per
il resto della notte e combattendo contro le truppe del console fino alle
prime luci dell'alba. Quando fu giorno, erano ormai chiusi dal vallo
del dittatore e riuscivano a malapena a tener testa a un solo esercito.
Allora gli uomini di Quinzio, tornati rapidamente alle armi dopo aver finito
la costruzione, si buttano all'assalto della trincea nemica. Qui
ci fu una nuova battaglia, mentre l'altra cominciata prima continuava a
infuriare. E allora i nemici, pressati dalla doppia minaccia che
incombeva su di loro e passati dall'assalto armato alle più
disperate implorazioni, supplicavano ora il dittatore, ora il console di non
trasformare la vittoria in un massacro, ma di lasciarli andar via di lì
senza le armi. Il console ordinò loro di andare dal dittatore che, in un accesso
di rabbia, aggiunse condizioni infamanti. Cincinnato ordina infatti di
condurgli in catene il comandante Gracco Clelio e gli altri capi, e di
evacuare la città di Corbione. Disse che del sangue degli Equi poteva
benissimo fare a meno; avrebbe concesso loro di andarsene, ma, perché
finalmente ammettessero che il loro popolo era stato sottomesso e domato, essi
avrebbero dovuto passare sotto il giogo. Venne allestito un giogo con tre
aste, due erano piantate nel terreno, mentre la terza era legata di
traverso sopra le altre. Sotto a questo giogo il dittatore fece passare
gli Equi. 29 Dopo essersi impossessato
dell'accampamento nemico che straripava d'ogni bendidio perché i suoi occupanti ne
erano stati cacciati senza nulla addosso, Cincinnato divise
l'intero bottino esclusivamente tra i suoi uomini. Poi, rimproverando
l'esercito del console e il console stesso, disse: «Voi, o soldati, non
parteciperete alla spartizione del bottino di quel nemico che per poco non
ha fatto di voi la sua preda. Quanto a te, Lucio Minucio, finché non
comincerai ad avere un animo degno di un console, comanderai queste
legioni col grado di luogotenente.» Minucio rinuncia così al
consolato, pur rimanendo con l'esercito in ottemperanza all'ordine ricevuto. Ma
gli animi erano così pacificamente rivolti a obbedire ai comandi del
migliore che l'esercito, memore dei benefici ricevuti più che
dell'umiliazione subita, decretò al dittatore una corona d'oro del peso di una
libbra: il giorno della sua partenza le truppe lo salutarono come loro
protettore. A Roma intanto, in una seduta convocata dal prefetto della
città Quinto Fabio, il senato ordinò a Quinzio di fare un ingresso trionfale
in città con le sue truppe. Davanti al carro vennero fatti avanzare i
comandanti nemici e le insegne militari conquistate. Dietro li seguiva
l'esercito carico di bottino. Stando a quanto si dice, di fronte a tutte le
case furono imbandite delle tavole e i soldati, innalzando l'inno trionfale
e scambiandosi le tradizionali battute mentre marciavano festosi,
seguirono il carro come se fossero in piena baldoria. Quel giorno Lucio
Mamilio Tuscolano ottenne la cittadinanza con l'approvazione di
tutti. Il dittatore avrebbe immediatamente rinunciato all'incarico,
se il processo per falsa testimonianza a carico di Marco Volscio
non lo avesse costretto a rimandare la propria decisione. Il
timore del dittatore indusse i tribuni a non interferire nella cosa. Volscio
fu condannato e andò in esilio a Lanuvio. A sedici giorni di distanza dalla
nomina, Quinzio rinunciò alla dittatura che aveva assunto per un
semestre. In quel periodo il console Nauzio combatté valorosamente ad Ereto
contro i Sabini, così alla devastazione dei campi si aggiunse per
i Sabini questa sconfitta. Fabio venne inviato sull'Algido come
successore di Minucio. Verso la fine dell'anno ci furono altre agitazioni
provocate dai tribuni per la questione della legge. Ma data la
contemporanea assenza dei due eserciti, i senatori ottennero che nessuna
proposta venisse portata di fronte al popolo. La plebe riuscì invece a
far eleggere per la quinta volta gli stessi tribuni. Pare che sul
Campidoglio furono visti dei lupi inseguiti da cani e che per tale prodigio il
Campidoglio stesso venne sottoposto a un rito di purificazione. Questo
è quanto accadde quell'anno. 30 I consoli successivi furono Quinto
Minucio e Marco Orazio Pulvillo. All'inizio dell'anno, mentre coi paesi
stranieri regnava la pace, in patria gli stessi tribuni e la stessa
legge continuavano invece a causare disordini. E si sarebbe arrivati a
chissà quali estremi - tanta era l'eccitazione degli animi - se, quasi a
farlo apposta, non fosse arrivata la notizia che il presidio armato di
Corbione era finito in mano agli Equi a séguito di un assalto notturno. I
consoli convocano il senato; fu dato loro l'ordine di arruolare un esercito
in fretta e furia e di condurlo sull'Algido. Accantonato quindi lo
scontro sulla legge, ecco saltar fuori una nuova contesa sul problema della
leva. E l'autorità dei consoli stava per avere la peggio per l'intervento
dei tribuni, quando si venne ad aggiungere un nuovo terrore: un
esercito sabino era calato in territorio romano per compiervi razzie e di
là si dirigeva verso Roma. Questa notizia suscitò uno spavento tale che i
tribuni permisero l'arruolamento, non senza aver prima ottenuto - siccome per
cinque anni erano stati presi in giro riuscendo così di ben poco
aiuto alla plebe - la garanzia che in futuro sarebbero stati eletti dieci
tribuni. I patrizi furono costretti ad accettare, assicurandosi però
con una clausola di non rivedere più, da quel giorno in poi, gli stessi tribuni.
Si passò poi sùbito alla nomina dei tribuni, per evitare che quella
promessa, come tutte le altre in passato, non venisse mantenuta una
volta finita la guerra. A 36 anni di distanza dai primi, furono allora
nominati dieci tribuni, due per ciascuna classe, e si stabilì che in
futuro l'elezione avrebbe seguito la stessa procedura. Una volta effettuata la
leva, Minucio marciò contro i Sabini, ma non trovò tracce del nemico.
Orazio, siccome gli Equi, dopo aver eliminato il presidio di Corbione,
avevano conquistato anche Ortona, li affronta sull'Algido, uccidendone una
gran quantità e riuscendo a cacciarli non solo dall'Algido ma anche
da Corbione e da Ortona. Corbione la rase addirittura al suolo per aver
consegnato il presidio al nemico. 31 Vennero in séguito eletti consoli
Marco Valerio e Spurio Verginio. La situazione si mantenne tranquilla in
città e all'estero. Ci furono però problemi di approvvigionamento
alimentare dovuti all'eccesso di piogge. Venne approvata una legge sull'apertura
dell'Aventino all'insediamento privato. I tribuni della plebe furono
riconfermati in carica. L'anno successivo, sotto il consolato di Tito
Romilio e Gaio Veturio, in tutti i comizi tenuti non perdevano occasione
per riportare il discorso sul tema della legge. Dicevano che si sarebbero
vergognati dell'aumento di effettivi assegnato alla loro
magistratura, se la legge durante il biennio del mandato avesse continuato a dormire
com'era successo nei cinque anni precedenti. Mentre perseguivano questo
scopo con determinazione, arrivano da Tuscolo dei messaggeri che in preda
all'agitazione annunciano la presenza di Equi nel territorio di
Tuscolo. Per le recenti benemerenze di quel popolo si ebbe ritegno a ritardare
gli aiuti. Inviati entrambi i consoli con un esercito, essi trovarono
il nemico nel suo solito alloggiamento sul monte Algido. Lo
scontro avvenne lì. Più di 7.000 nemici furono uccisi, gli altri messi in fuga.
L'ingente bottino, per le pessime condizioni finanziarie del paese, fu
posto all'incanto dai consoli. La cosa creò tuttavia malcontento
nelle file dell'esercito, fornendo così ai tribuni materia per accusare i consoli
di fronte alla plebe. Per questo, quando allo scadere del
loro mandato divennero consoli Spurio Tarpeio e Aulo Aternio, Romilio e Veturio
vennero trascinati in tribunale rispettivamente dal tribuno della plebe
Gaio Calvio Cicerone e dall'edile della plebe Lucio Alieno. Con grande
indignazione dei patrizi, furono entrambi condannati a pene pecuniarie:
Romilio a 10.000 assi e Veturio a 15.000. La disavventura dei
predecessori non aveva comunque affievolito l'energia dei nuovi consoli:
sostenevano che avrebbero sì potuto subire una condanna, ma di certo i tribuni e
la plebe non sarebbero riusciti a far passare la legge. I tribuni,
lasciata da parte la legge che a forza di essere presentata aveva ormai perso
tutto il suo potere d'urto, adottarono maggiore moderazione nei confronti dei
patrizi, invitandoli a porre fine agli scontri. Se le leggi proposte dai
plebei non andavano a genio ai patrizi, questi avrebbero dovuto almeno
consentire l'elezione collegiale di legislatori provenienti sia dalla
plebe sia dal patriziato, in maniera tale che le proposte risultassero
vantaggiose per entrambe le parti e assicurassero una pari libertà.
I patrizi non disprezzavano l'iniziativa, ma sostenevano che le leggi non le
poteva presentare nessuno che non fosse patrizio. Siccome c'era accordo sulle
leggi, ma non su chi doveva proporle, vennero inviati ad Atene
Spurio Postumio Albo, Aulo Manlio e Publio Sulpicio Camerino con l'ordine
di trascrivere le celebri leggi di Solone e di studiare a fondo le
istituzioni, i costumi e i principi giuridici delle altre città
greche. 32 Se quell'anno non venne turbato da
guerre con paesi stranieri, l'anno successivo - sotto il consolato di
Publio Curiazio e Sesto Quintilio - fu ancora più povero di conflitti per
il lungo silenzio dei tribuni dovuto innanzitutto all'attesa del ritorno dei
legati che erano andati ad Atene e delle leggi straniere che essi
avrebbero portato con sé, e in secondo luogo per due atroci calamità
abbattutesi contemporaneamente, cioè la fame e una pestilenza, funesta tanto per gli
uomini quanto per gli animali. Le campagne si spopolarono, mentre la
città si svuota per i continui funerali; molte famose famiglie erano
in lutto. Morì il flàmine di Quirino Servio Cornelio e l'àugure Gaio
Orazio Pulvillo, al cui posto il collegio degli àuguri nominò con
entusiamo Gaio Veturio perché era stato condannato per volere della plebe. Morirono il
console Quintilio e quattro tribuni della plebe. L'anno fu funestato da
molte sciagure ma il nemico rimase tranquillo. I consoli successivi furono
Gaio Menenio e Publio Sestio Capitolino. Neppure quell'anno vi
furono guerre con paesi stranieri, ma scoppiarono disordini interni. Nel
frattempo gli inviati erano tornati con le leggi dell'Attica. E proprio per
questo i tribuni insistevano con sempre maggiore accanimento affinché si
arrivasse finalmente a una codificazione scritta delle leggi. Si
decise di nominare dei decemviri non soggetti al diritto d'appello e di non
avere quell'anno nessun altro magistrato al di fuori di loro. Se i
plebei avessero dovuto o meno prendere parte alla cosa fu argomento a
lungo dibattuto. Alla fine ebbero la meglio i patrizi, a patto
però che non venissero abrogate la legge Icilia riguardante l'Aventino e le
altre leggi sacrate. 33 L'anno 302 dalla fondazione
segnò per Roma una nuova trasformazione dell'assetto costituzionale: il potere
supremo passò dai consoli ai decemviri, così come in
precedenza era passato dai re ai consoli. Non si trattò di un cambiamento
particolarmente significativo perché fu di breve durata. Dopo un felice inizio tale
magistratura conobbe degli eccessi e, di conseguenza, l'innovazione
tramontò rapidamente, ripristinando così l'uso di affidare a due uomini il
titolo e l'autorità di consoli. Decemviri furono eletti Appio Claudio,
Tito Genucio, Publio Sestio, Tito Veturio, Gaio Giulio, Aulo Manlio,
Publio Sulpicio, Publio Curiazio, Tito Romilio e Spurio Postumio. A Claudio e
a Genucio, dato che erano stati eletti consoli per quell'anno, la
carica venne assegnata come compensazione dell'altra. Sestio, uno
dei consoli dell'anno precedente, ebbe invece la nomina per aver portato
l'iniziativa di fronte al senato nonostante l'opposizione del collega.
Accanto a essi ebbero il privilegio di questa magistratura i tre senatori
inviati ad Atene: la loro nomina non era soltanto il riconoscimento per una
missione in terre tanto lontane, ma anche la garanzia che l'approfondimento
delle leggi straniere maturato laggiù sarebbe stato di grande
utilità nell'elaborazione di un nuovo sistema giuridico. Gli altri quattro
eletti servirono a completare il numero. Si dice che le ultime nomine
vennero affidate a uomini piuttosto anziani perché si opponessero con meno
energia alle misure proposte dagli altri. Grazie al favore della plebe, il
collegio dei decemviri era praticamente guidato da Appio: egli
aveva mutato il suo carattere così nettamente che, dopo un passato da
violento e inflessibile avversatore del popolo, da un giorno all'altro divenne
un fedele amico della plebe, attentissimo a captarne gli alterni
umori. A turno, ogni dieci giorni, ciascun magistrato amministrava la
giustizia di fronte al popolo: in quel giorno, chi presiedeva la corte aveva
diritto ai dodici fasci, mentre a ciascuno dei suoi nove colleghi toccava
un unico messo. Dalla singolare armonia tra loro - accordo che talvolta
non è di alcuna utilità per i privati cittadini - derivava la loro
estrema equità nei confronti degli altri. A riprova di questa moderazione,
sarà sufficiente citare un unico esempio. Pur essendo stati eletti a una
magistratura che non prevedeva diritto d'appello, quando venne
rinvenuto e portato di fronte all'assemblea un cadavere sepolto nella
casa di Lucio Sestio, un patrizio, data l'atrocità manifesta della
cosa, il decemviro Gaio Giulio citò Sestio in giudizio, accusandolo di fronte al
popolo di un reato di cui era giudice legittimo, e rinunciò
così a un suo diritto, che egli tolse al potere del magistrato per accrescere la
libertà del popolo. 34 Mentre tutti i cittadini - dal
più autorevole al meno in vista e senza alcuna parzialità - accoglievano
questa giustizia tempestiva e incontaminata come se provenisse da un
oracolo, i decemviri erano nel contempo alle prese con la rifondazione
di un nuovo codice. Fra la grande attesa della gente, dopo aver esposto
dieci tavole, convocarono il popolo in assemblea. E, augurandosi che
ciò fosse buono e fausto per la repubblica, per loro e per i loro
figli, ordinarono a tutti di andare a consultare di persona le leggi
proposte. Per quanto era stato possibile alle capacità intellettuali di
dieci uomini, dissero di aver messo sullo stesso piano i diritti di tutti, dai
cittadini più altolocati a quelli meno in vista. Certo le menti e le
proposte di molti avrebbero sortito esiti più efficaci. Che si
considerasse dunque ogni singolo punto, se ne discutesse e alla fine si venisse a
esporre di fronte a tutti gli eccessi e le inadeguatezze eventualmente
riscontrati nei singoli articoli. Il popolo romano doveva avere delle leggi
che sembrassero non solo essere state approvate, ma addirittura
proposte dal consenso unanime della comunità. Quando sembrò che le leggi
avessero subito sufficienti emendamenti alla luce delle opinioni espresse dalla
gente sulle singole sezioni, i comizi centuriati approvarono e adottarono
definitivamente le Leggi delle X Tavole, che ancor oggi, in questo
immenso guazzabuglio di leggi accatastate caoticamente l'una
sull'altra, restano la fonte di tutto il diritto pubblico e privato. In séguito cominciò a circolare
la voce che mancassero ancora due tavole, aggiunte le quali il corpo del diritto
romano si sarebbe potuto definire realizzato. Con le elezioni ormai alle
porte, la speranza di completare le leggi fece crescere nella gente il
desiderio di eleggere di nuovo dei decemviri. La plebe, al di là
del fatto che detestava il nome dei consoli almeno tanto quanto quello dei re,
ormai non andava nemmeno più a cercare l'aiuto dei tribuni, visto che in caso
di appello i decemviri cedevano reciprocamente l'uno nei confronti
dell'altro. 35 Ma quando venne annunciato che le
elezioni dei decemviri si sarebbero tenute il terzo giorno di mercato, si
scatenarono a tal punto le ambizioni che anche i cittadini più in
vista - credo per paura che un simile potere, una volta lasciato libero il campo,
potesse finire in mani non sufficientemente degne - cominciarono a
sollecitare gli elettori, implorando da quella stessa plebe, con
la quale avevano avuto non pochi scontri, una carica che avevano
avversato con ogni mezzo. La prospettiva di dover lasciare in quel momento la
posizione raggiunta, alla sua età, e dopo le cariche occupate, spronava
Appio Claudio. Non si sapeva se annoverarlo tra i decemviri o tra i
candidati. A volte si comportava come un aspirante alla magistratura e non
come chi già la deteneva; diffamava gli ottimati, portava alle stelle i
candidati più insignificanti e di bassi natali, andava girando qua e
là per il foro in compagnia di ex-tribuni, con Duilii e Icilii,
facendosi raccomandare da questi ultimi alla plebe. Finché anche i colleghi, i
quali fino ad allora avevano dimostrato una straordinaria devozione
nei suoi confronti, cominciarono a guardarlo stupiti, domandandosi che
cosa gli passasse per la testa. Era chiaro che non agiva sinceramente: in
un'indole così altezzosa tanta affabilità non era di certo
senza scopo. Il suo troppo abbassarsi e il mescolarsi con privati cittadini non
erano tanto gli atteggiamenti di uno ansioso di abbandonare una
magistratura, quanto di uno che cercasse la strada migliore per prorogare la sua
carica. Non osando opporsi apertamente alla sua sfrenata
ambizione, cercano di frenarne gli slanci, assecondandolo. Essendo egli il collega
più giovane, concordemente gli impongono di convocare i comizi. Si
trattava di uno stratagemma per impedirgli di autoeleggersi, cosa che
al di fuori dei tribuni della plebe - e questo era di per sé il peggiore
dei precedenti - non aveva mai osato fare nessuno. Ma Appio, in
realtà, pur avendo promesso con una preghiera augurale di presiedere le elezioni,
riuscì a trasformare un ostacolo in un'occasione propizia. In un primo
tempo, grazie ad alleanze elettorali, mise da parte nella corsa alla
candidatura i due Quinzi, Capitolino e Cincinnato, suo zio paterno Gaio
Claudio, da sempre partigiano della causa aristocratica, nonché altri cittadini
dello stesso rango. Proclamò decemviri invece degli individui che
per eccellenza di vita non stavano alla pari degli esclusi, e primo se
stesso, cosa questa che i cittadini onesti disapprovarono: nessuno avrebbe
creduto che osasse arrivare a tanto. Insieme a lui furono eletti
Marco Cornelio Maluginense, Marco Sergio, Lucio Minucio, Quinto Fabio
Vibulano, Quinto Petilio, Tito Antonio Merenda, Cesone Duilio, Spurio Oppio
Cornicino e Manio Rabuleio. 36 Fu allora che Appio depose la
maschera. Da quel momento in poi ricominciò a essere se stesso e
a plasmare a sua immagine e somiglianza i nuovi colleghi, ancor prima che
entrassero in carica. Si incontravano tutti i giorni lontano dagli sguardi
indiscreti e mettevano a punto programmi spregiudicati che maturavano
in segreto. Ormai non cercavano nemmeno più di nascondere la
loro arroganza, si lasciavano avvicinare di rado e facevano i difficili con chi
rivolgeva loro la parola: così continuarono fino alle Idi di maggio.
In quel tempo le Idi di maggio erano la data tradizionale per l'inizio delle
magistrature. Così, appena assunto il potere, essi resero memorabile il
primo giorno di magistratura con un'iniziativa terribilmente minacciosa.
Infatti, mentre i predecessori nel decemvirato si erano attenuti con
scrupolo alla disposizione secondo la quale soltanto un membro del collegio
aveva diritto a portare i fasci e questa insegna regale doveva passare a
turno a ciascuno di loro, i nuovi eletti si presentarono all'improvviso
in pubblico ciascuno con dodici fasci. I 120 littori avevano invaso il
foro brandendo davanti a sé le scuri tenute insieme dai fasci. I
decemviri spiegarono che non c'era nessuna ragione di rimuovere le scuri
perché la magistratura cui erano stati nominati non contemplava il
diritto d'appello. Sembravano dieci re e ciò accrebbe il terrore non solo
nei cittadini più umili, ma anche nei membri più influenti del senato,
i quali sospettavano che i decemviri stessero cercando qualche pretesto per
procedere a una strage: se qualcuno avesse osato, in senato o di fronte al
popolo, intervenire in favore della libertà, verghe e scuri
sarebbero state sciolte, magari solo per intimorire il resto della gente. Il
popolo non aveva più alcuna garanzia dopo la soppressione del diritto
d'appello; come se non bastasse, all'unanimità i decemviri
eliminarono anche il diritto di opposizione interna, mentre i predecessori avevano
tollerato che le sentenze da loro emesse venissero modificate su
richiesta di un collega, accettando anche che talune cause, apparentemente di
stretta competenza dei decemviri, venissero portate di fronte al popolo.
Per un certo periodo il terrore fu uguale per tutti. Poi, a poco a poco,
cominciò a concentrarsi interamente sulla plebe: i patrizi venivano
lasciati in pace; i decemviri infierivano sui più umili con arbitraria
crudeltà. Era tutta questione di persone, non di cause, visto che per quegli individui,
invece dell'equità, contava l'influenza esercitata dal singolo.
Manipolavano in privato le sentenze per poi andarle a pronunciare nel foro.
Se qualcuno si appellava a uno di loro, se ne veniva via da quello a cui
si era rivolto, pentendosi di non aver accettato la sentenza del primo.
Nel frattempo si era anche diffusa una diceria di provenienza non
accertata, secondo la quale i decemviri non si sarebbero limitati a concertare un
operato criminoso per la sola durata della carica, ma, grazie a un patto
giurato in segreto, avrebbero anche deciso di non tenere le elezioni e di
conservare per sempre il potere conquistato una volta per tutte,
protraendo così all'infinito il decemvirato. 37 Allora i plebei cominciarono a
studiare con circospezione i volti dei patrizi, cercando di captare un soffio
di libertà proprio in quella parte di cittadinanza che, per aver fatto
loro balenare lo spettro della schiavitù, li aveva portati a
ridurre il paese in quello stato. I capi dell'aristocrazia odiavano sia i
decemviri sia la plebe. Non approvavano certo quello che si faceva, ma
credevano anche che quel che accadeva la gente se lo meritasse. Non avevano
alcuna intenzione di aiutare quanti, lanciati in una corsa dissennata verso
la libertà, erano invece scivolati nella schiavitù, non volevano
nemmeno aggiungere altri soprusi, nella speranza che il disgusto per la
situazione facesse nascere il desiderio del ritorno ai due consoli e allo stato
delle cose di un tempo. L'anno era ormai quasi alla fine, alle dieci
tavole dell'anno precedente se n'erano aggiunte altre due, né c'era più
alcun bisogno di considerare necessaria al paese quella magistratura, specie se
quelle stesse leggi venivano approvate dai comizi centuriati. Si
viveva nell'attesa che venissero indette le elezioni dei consoli. La
plebe invece aveva un solo pensiero: trovare il modo di ristabilire
l'autorità dei tribuni, che era la vera roccaforte della sua libertà e
che in quel periodo era sospesa. Nel frattempo non si faceva alcun accenno a
possibili elezioni. E i decemviri, che all'inizio - per la popolarità
di un simile gesto - si erano fatti vedere dalla plebe in compagnia di
ex-tribuni, ora si circondavano di giovani patrizi le cui bande
stazionavano di fronte ai tribunali. Trattavano con impudenza la plebe e ne
saccheggiavano le proprietà, visto che era sempre il più forte ad
avere ragione, qualunque capriccio gli fosse passato per la testa. Ormai non
avevano più rispetto nemmeno per le persone: si frustava e persino si
decapitava. Perché poi la crudeltà non fosse fine a se stessa, all'esecuzione
del proprietario seguiva la confisca dei beni. Corrotti da questi
allettamenti, i giovani nobili non solo non si opponevano ai soprusi, ma
dimostravano di preferire la propria sfrenatezza alla libertà di
tutti. 38 Le Idi di maggio arrivarono. Senza
preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri -
ora privati cittadini - apparvero in pubblico facendo capire di non voler
assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di volersi
privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza dubbio
il loro sembrava un vero e proprio dispotismo. Si piange la libertà
come perduta per sempre; non c'è, e sembra che non ci possa essere nemmeno
in futuro, chi sappia rivendicarla. Non si trattava soltanto di uno
scoramento generale della popolazione: i paesi dei dintorni avevano infatti
cominciato a disprezzare i Romani, ritenendo indegno che l'egemonia
toccasse a un popolo privo di libertà. I Sabini fecero un'incursione in
territorio romano con un largo spiegamento di truppe. Dopo aver devastato la
campagna in lungo e in largo, riuscirono a portarsi via il bottino di uomini e
bestiame, in tutta sicurezza. Quindi, al termine di varie scorrerie
nel circondario, si andarono a chiudere ad Ereto, dove si accamparono,
nella speranza che le discordie a Roma ostacolassero l'arruolamento. A
creare scompiglio e agitazione non contribuivano soltanto i messaggeri in
arrivo, ma anche le masse di contadini riversatesi in città
dalle campagne. I decemviri, abbandonati al loro destino dall'odio tanto dei
patrizi quanto dei plebei, si interrogano
sul da farsi. La cattiva sorte aggiunse un altro motivo di terrore:
gli Equi, provenienti da un'altra
direzione, si andarono ad accampare sull'Algido e di lì, con rapide
incursioni, si misero a devastare la zona di Tuscolo. Queste notizie arrivarono a
Roma con i messaggeri inviati da Tuscolo per implorare aiuto. I
decemviri furono così spaventati - due guerre contemporaneamente incombevano
sulla città - che convocarono il senato. Ordinano di far chiamare i senatori
nella curia, pur non ignorando quale ondata di risentimento covava nei
loro confronti: tutti li avrebbero ritenuti responsabili delle
devastazioni subite dalle campagne e dei pericoli che incombevano. Ciò
avrebbe portato al tentativo di abolire la loro magistratura, se di comune accordo
non avessero opposto resistenza e se, esercitando pesantemente la loro
autorità nei confronti dei pochi veramente accaniti, non avessero
represso le velleità degli altri. Quando nel foro si sentì la voce del
banditore convocare i senatori nella curia presso i decemviri come se fosse una
novità - l'usanza di consultare il senato era stata da tempo abbandonata -
questo annuncio attirò una folla stupita che si domandava cosa mai fosse
successo per spingere i decemviri a ripristinare una pratica da tempo
desueta. Bisognava dire grazie ai nemici e alla guerra se succedeva
qualcosa di assolutamente normale per una città libera. Si guardava in
tutte le parti del foro per individuare dei senatori, ma raramente se ne vedeva
qualcuno. Poi si guardava dentro la curia dove i decemviri se ne stavano
tutti soli. Si interpretava in maniera diversa il fatto che i senatori
non si fossero presentati: i decemviri sostenevano che ciò
dipendesse dall'odio unanime nei confronti della loro carica, mentre la plebe
sosteneva che i decemviri, essendo dei privati cittadini, non avevano il
diritto di convocare il senato. Un vero passo avanti coloro che rivendicavano
la libertà lo avrebbero fatto se la plebe avesse collaborato col senato, e
se, come i senatori che non si erano presentati in senato, pur essendo
stati convocati, così la plebe avesse rifiutato di arruolarsi. Questo
vociferava la gente. Quasi nessuno dei senatori era nel foro, pochi erano
presenti in città. Indignati per la situazione, si erano ritirati in
campagna, e si curavano dei loro affari privati trascurando invece l'interesse
della comunità. I senatori pensavano infatti che tanto più
sarebbero stati sicuri quanto più avessero evitato contatti e rapporti con i
tirannici padroni al potere. Quando, nonostante la convocazione, essi non si
presentarono, vennero inviati alle loro case dei pubblici ufficiali con il
duplice cómpito di effettuare pignoramenti a titolo di sanzione e di
chiedere se quelle assenze erano deliberate. I messi tornarono riferendo
che i senatori erano in campagna. I decemviri accolsero la notizia con
maggiore piacere di quanto ne avrebbero avuto se fosse stato
annunciato loro che si trovavano in città, ma non avevano intenzione di attenersi
alle disposizioni. Ordinano quindi una convocazione generale e fissano una
seduta del senato per il giorno successivo; e i senatori vennero
più numerosi di quanto essi non avessero sperato. Ma proprio per questo motivo
la plebe pensava che la libertà era stata tradita dai senatori: essi, come
se l'ingiunzione fosse legale, avevano obbedito a uomini che non erano
più magistrati e che, senza l'uso della forza, sarebbero stati dei
privati cittadini. 39 Ma l'obbedienza dimostrata nel
presentarsi in senato fu, a quanto si dice, superiore alla remissività
con la quale esposero il proprio punto di vista. Si racconta che Lucio Valerio
Potito, dopo la proposta avanzata da Appio Claudio e prima che i senatori
venissero chiamati in successione a esporre le proprie opinioni, chiese di
essere autorizzato a parlare della situazione in cui versava lo Stato. Ma
siccome i decemviri cercavano di impedirglielo ricorrendo
all'intimidazione, Valerio fece scoppiare un pandemonio dichiarando di volersi
presentare di fronte al popolo. Nel dibattito Marco Orazio Barbato non
dimostrò minor veemenza: chiamò i decemviri dieci Tarquini, ricordando
loro che erano stati i Valeri e gli Orazi a scacciare i re. E non era stato
il nome di re ciò che allora aveva disgustato la gente, in quanto proprio
con quel nome era consuetudine chiamare Giove, così come
Romolo, fondatore della città, e in séguito i suoi successori, e il nome poi si era mantenuto
come titolo solenne in àmbito religioso. No, quello che
il popolo aveva detestato nelle persone dei re erano state l'arroganza e la
crudeltà. E se queste caratteristiche si erano allora rivelate insopportabili
in un re o nel figlio di un re, adesso chi le avrebbe potute tollerare
in tanti privati cittadini? Che stessero quindi bene attenti a non
privare della libertà di parola i presenti in curia, costringendoli ad
alzare la voce fuori dalla curia. E poi non riusciva a vedere come fosse meno
lecito a lui - un privato cittadino - convocare il popolo in
assemblea di quanto non lo fosse a loro costringere il senato. Avrebbero potuto
verificare in qualsiasi momento quanto più forte potesse essere
l'esasperazione di un uomo chiamato a rivendicare la propria libertà
rispetto alla smodata ingordigia di chi difende un potere fondato
sull'ingiustizia. E loro, i decemviri, venivano poi a parlare della guerra contro i Sabini,
come se per il popolo romano qualunque guerra potesse essere
più importante di quella da combattersi contro coloro che, eletti proprio per
proporre delle leggi, non avevano lasciato nemmeno le tracce della
legalità all'interno del paese, spazzando via le regolari assemblee, le
magistrature annue, l'avvicendamento del potere - unica garanzia di uguale
libertà -, arrivando fino a insignirsi delle fasce e del potere dei re, pur
essendo privati cittadini. Dopo la cacciata dei re, c'erano stati dei
magistrati patrizi, mentre a séguito della secessione della plebe la nomina
era toccata anche ai plebei: ma loro, i decemviri - si domandava
Valerio -, di quale parte erano? Popolare? Ma cosa avevano mai fatto per
il popolo? O erano forse degli aristocratici? Loro che, per quasi un
anno, non avevano convocato il senato, ora che lo avevano riunito
impedivano di dibattere il problema dello Stato? Che non ponessero troppa
speranza nell'altrui terrore: quello di cui ora soffriva sembrava ormai alla
gente più gravoso di quello che temeva per il futuro. 40 Di fronte all'attacco di Orazio, i
decemviri non sapevano se era il caso di indignarsi o di lasciar
perdere, e non capivano quale piega avrebbe preso la cosa. Gaio Claudio,
che era lo zio paterno di Appio Claudio, pronunciò un discorso
più simile a un'implorazione che a una requisitoria. In nome dei Mani di suo
fratello, padre di Appio, supplicò il nipote di ricordarsi del consorzio
civile all'interno del quale era nato piuttosto che dello scellerato
patto stipulato insieme ai colleghi. Questa supplica gliela rivolgeva
più nel suo interesse che non in quello del paese. Perché la repubblica avrebbe
rivendicato il proprio diritto contro la loro volontà, se i
decemviri non erano in grado di garantirlo spontaneamente. Ma grandi scontri di
solito generano grandi rancori: e Claudio ne temeva gli esiti. Benché i
decemviri volessero evitare che il dibattito si spostasse su temi estranei
a quelli posti all'ordine del giorno, tuttavia non ebbero il coraggio
di interrompere Claudio. Egli quindi espresse il parere che il senato
non doveva prendere alcuna decisione. Così tutti compresero
che Claudio riteneva i decemviri privati cittadini. E molti degli ex-consoli si
dimostrarono d'accordo. Un'altra proposta, apparentemente più
spregiudicata ma di fatto molto meno drastica della precedente, invitava i patrizi a
riunirsi per nominare un interré. Varando infatti un qualsiasi
provvedimento, venivano riconosciuti magistrati quelli che avevano convocato
il senato, mentre sarebbero rimasti privati cittadini se invece si
accettava la proposta di chi caldeggiava la completa astensione
dall'attività. Mentre la posizione dei decemviri era sempre più in
bilico, Lucio Cornelio Maluginense, fratello del decemviro Marco Cornelio, cui era
stato intenzionalmente riservato l'ultimo intervento nel dibattito, in
un primo tempo si mise a difendere il fratello e il resto del collegio
fingendo di essere in apprensione per la guerra, e poi disse di essersi curiosamente
domandato in base a quale fatalità avesse potuto succedere
che contro i decemviri si fossero scagliati - soltanto o soprattutto -
proprio quelli che avevano puntato al decemvirato; e perché mai, mentre nel
corso di tutti quei mesi di pace interna nessuno di loro aveva posto in
discussione la legittimità dei magistrati preposti alle più
alte cariche, e soltanto adesso, coi nemici ormai quasi alle porte, si mettessero
ad alimentare dissensi tra i cittadini; a meno che non pensassero
che in uno stato di confusione i reali motivi del loro comportamento si
sarebbero rivelati meno perspicui. Quanto al resto, non era forse meglio
non pregiudicare una questione tanto importante quando le menti erano
occupate da un pensiero ben più grave? Intorno all'accusa mossa da Valerio e
Orazio secondo la quale i decemviri avrebbero dovuto uscire di carica prima
delle Idi di maggio, Cornelio disse che a suo parere la questione
andava dibattuta in senato, non prima però di aver posto fine alle
guerre incombenti e di aver riportato la pace nello Stato. Appio Claudio si tenesse
pronto già fin da allora a rendere conto dei comizi per elezioni dei
decemviri che egli stesso, un decemviro, aveva presieduto: se erano stati
nominati per un anno oppure fino a quando non fossero state approvate le leggi
mancanti. Quanto poi al presente, l'opinione di Cornelio era che ci si
dovesse occupare esclusivamente della guerra. Se poi le voci riguardanti la
guerra si dimostravano infondate e i senatori ritenevano che non solo i
messaggeri romani ma anche gli ambasciatori dei Tuscolani avessero
riferito delle notizie prive di senso, allora - questo quanto lui suggeriva -
sarebbe stato necessario inviare sul posto delle pattuglie di
ricognizione perché riportassero informazioni più sicure dopo aver
attentamente esaminato la situazione. Se invece si prestava fede ai messaggeri romani e
agli ambasciatori, si facesse al più presto la leva, i decemviri guidassero
gli eserciti dove sarebbe parso più opportuno a ciascuno di loro; si desse
alla guerra la precedenza assoluta su ogni altra questione. 41 I giovani senatori erano ormai
riusciti a far prevalere questa proposta. Allora Valerio e Orazio, con
maggior furore, chiesero gridando che fosse loro concesso di parlare
sulla situazione dello Stato. Avrebbero parlato al popolo, se con raggiri non
fosse stato loro concesso di farlo in senato. Infatti dei privati
cittadini non potevano certo opporsi né nella curia né nell'assemblea: essi non
si sarebbero fermati di fronte ai loro fasci che rappresentavano un
potere del tutto inesistente. Appio allora, pensando che la sua
autorità avesse ormai i minuti contati, se non reagiva con audacia pari alla loro
violenza, disse: «Fareste bene ad aprire bocca soltanto sugli argomenti
sui quali vi consultiamo!» E siccome Valerio sosteneva di non poter essere
zittito da un privato cittadino, Appio ordinò a un littore di
mettersi al suo fianco. E mentre Valerio dal fondo della curia implorava l'aiuto dei
Quiriti, Lucio Cornelio andò a trattenere Appio e, fingendo di
intervenire a favore dell'altro, pose fine alla contesa. Così, grazie a
Cornelio, a Valerio fu concesso di trattare i temi che più gli stavano a
cuore; ma poiché non ebbe altra libertà che quella di parlare, i decemviri
ottennero ciò che si erano prefissati. Perfino gli ex-consoli e i senatori
più anziani, a causa dell'odio che continuavano a nutrire nei confronti
del potere dei tribuni - a loro detta rimpianto dalla plebe più del
potere consolare -, preferivano che col tempo i decemviri rinunciassero
volontariamente alla carica piuttosto che il risentimento nei loro confronti
portasse a una nuova insurrezione della plebe. Se il potere fosse tornato ai consoli
gradatamente e senza tumulti di piazza, essi, grazie allo scoppio di
qualche guerra o in virtù della moderazione dimostrata dai consoli
nell'esercizio delle proprie funzioni di comando, sarebbero riusciti a far
dimenticare alla plebe i tribuni. Viene bandita la leva senza opposizioni
da parte dei senatori. Siccome il decemvirato non ammetteva il diritto
d'appello, i giovani rispondono alla chiamata. Una volta arruolate le
legioni, i decemviri si consultano tra di loro per decidere chi debba andare in
guerra e a chi tocchi il comando delle truppe. Tra i decemviri
più autorevoli erano Quinto Fabio e Appio Claudio. Ma la guerra intestina dava
l'impressione di essere più preoccupante di quella col nemico. Il
carattere impetuoso di Appio sembrò loro più adatto a reprimere le
sommosse cittadine. L'indole di Fabio era invece più incostante nel bene
che solerte nel male. E Fabio - distintosi in passato tanto per meriti civili
quanto militari - era stato trasformato in maniera così profonda dalla
carica di decemviro e dai colleghi che adesso preferiva essere simile ad Appio
piuttosto che a se stesso. Gli venne affidata la campagna contro i
Sabini e come colleghi ebbe Manio Rabuleio e Quinto Petelio. Marco
Cornelio fu invece inviato sull'Algido insieme a Lucio Minucio, Tito Antonio,
Cesone Duilio e Marco Sergio. Ad Appio Claudio affidarono come aiutante
nella difesa di Roma Spurio Oppio, conferendo lo stesso potere a tutti i
decemviri. 42 Il paese, adesso che era in guerra,
non conobbe una gestione migliore di quella avuta in tempo di pace. La
sola colpa dei comandanti fu quella di essersi resi invisi agli occhi dei
cittadini. Il resto della responsabilità gravava quasi per
intero sulle spalle dei soldati i quali, volendo evitare che sotto la guida e
gli auspici dei decemviri qualunque iniziativa avesse esito favorevole, si
lasciavano sconfiggere di proposito, coprendo di ignominia se
stessi e i loro comandanti. Gli eserciti vennero così
sbaragliati sia dai Sabini a Ereto, sia dagli Equi sull'Algido. Da Ereto, fuggendo nel
silenzio della notte, si andarono ad
accampare nei pressi di Roma, in un punto leggermente rialzato a
metà strada tra Fidene e Crustumeria.
Incalzati dai nemici, non si avventuravano mai a combattere in campo
aperto, ma si facevano difendere dalla natura del luogo e dalla trincea,
non dal loro valore e dalle armi. Sul monte Algido il disonore fu ancora
più grande e più grave la sconfitta: perduto l'accampamento e
privati di tutto l'equipaggiamento, i soldati ripararono a Tuscolo, sperando
nel sostegno e nella sincera compassione degli ospiti che in
verità non vennero loro a mancare. A Roma erano arrivate notizie così
allarmanti che i patrizi, lasciando da parte l'odio verso i decemviri, ritennero
opportuno disporre delle sentinelle in città e ordinare che tutti gli
uomini in età di portare le armi andassero a proteggere le mura e costituissero
posti di guardia in prossimità delle porte. Quindi decisero che s'inviassero
rinforzi a Tuscolo, che i decemviri scendessero dalla cittadella
di Tuscolo e trattenessero i soldati nell'accampamento, che l'altro
campo fosse spostato da Fidene alla campagna sabina; il ritorno
all'offensiva avrebbe distolto il nemico dal proposito di assediare Roma. 43 Ai disastri dovuti al nemico, i
decemviri aggiunsero anche due orrendi crimini, sul campo di battaglia e in
patria. Nelle truppe opposte ai Sabini militava Lucio Siccio. Questi,
facendo leva sul risentimento nei confronti dei decemviri, si sarebbe
messo a solleticare la massa dei soldati arringandoli in segreto con
discorsi sulla necessità di eleggere dei tribuni e di ripetere la
secessione. Per questo i comandanti lo mandarono a cercare un luogo adatto
all'accampamento, dando disposizione agli uomini scelti per accompagnarlo
nella spedizione di eliminarlo non appena si fossero trovati in una zona
adatta. Ma Siccio non morì senza vendicarsi. Infatti, mentre cercava di
difendersi battendosi come poteva, sul campo rimasero accanto al suo i
cadaveri di alcuni dei sicari, perché, pur essendo stato circondato, era
fortissimo e lottava con un coraggio pari alla gagliardia fisica. Gli
scampati, al ritorno nell'accampamento, riferirono di esser caduti in
un'imboscata, sottolineando che Siccio era morto combattendo valorosamente e che
con lui erano caduti anche altri. Sulle prime si credette a questa
versione dei fatti. Quando in séguito, col permesso dei decemviri, gli uomini di
una coorte vennero inviati sul luogo dell'imboscata per seppellire i
cadaveri, notando che i corpi non presentavano tracce di spoliazione e
che quello di Siccio giaceva armato nel mezzo con tutti gli altri disposti
intorno e rivolti verso il suo, e vedendo che non c'erano cadaveri di
nemici né tracce della loro ritirata, ne riportarono indietro la salma,
affermando con assoluta certezza che era stato ucciso dai suoi stessi compagni.
L'indignazione pervase l'accampamento: e anche se tutti erano
dell'avviso che il corpo di Siccio dovesse essere immediatamente portato a
Roma, i decemviri si affrettarono a far celebrare un funerale militare a
spese dello Stato. Siccio venne sepolto nel cordoglio generale, e la
fama dei decemviri peggiorò agli occhi di tutti. 44 A questo orribile episodio ne
seguì in città un altro, nato dalla libidine. Le conseguenze non furono
tuttavia meno disastrose di quelle che, a causa dello stupro e del
suicidio di Lucrezia, avevano in passato portato alla cacciata dei Tarquini dal
trono e da Roma. Così non soltanto la fine dei decemviri e dei re fu
uguale, ma uguale fu anche la causa della perdita del potere. Appio Claudio
venne preso dalla smania di possedere una vergine plebea. Il padre
della ragazza, un uomo esemplare in pace e in guerra, comandava con onore
una centuria sull'Algido. Nello stesso modo era stata educata sua
moglie e la stessa educazione ricevevano i figli. Egli aveva promesso in sposa
la figlia all'ex-tribuno Lucio Icilio, un uomo risoluto e di provato
coraggio nelle lotte a favore della plebe. Appio, innamorato pazzo della
ragazza - ormai adulta e straordinariamente bella - tentò
di sedurla con proposte di denaro e con promesse. Ma, quando si rese conto che
il pudore della ragazza gli precludeva ogni via, decise di
ricorrere a una crudele e arrogante violenza. Diede disposizione a un suo
cliente di nome Marco Claudio di andare a reclamare la ragazza come sua
schiava e di non cedere di fronte a chi ne chiedesse la libertà
provvisoria, pensando che l'assenza del padre fosse una circostanza favorevole a quel
sopruso. Così, mentre la ragazza si stava recando nel foro - dove, nei
padiglioni, avevano sede le scuole - il mezzano della libidine del decemviro
le mise le mani addosso dicendo che era una schiava, figlia di una sua
schiava, e le ordinò di seguirlo: se avesse opposto resistenza l'avrebbe
trascinata via con la forza. La ragazza, sbigottita, rimase senza
parole, ma le urla della nutrice, che implorava a gran voce la protezione dei
Quiriti, fecero súbito accorrere molta gente. I nomi di Verginio, il
padre, e di Icilio, il fidanzato, erano sulla bocca di tutti. Per la
stima di cui essi godevano presero le parti della ragazza i conoscenti, per
l'indegnità dell'affronto la folla. La ragazza era ormai al sicuro dalla
violenza, quando colui che la reclamava protestò dicendo che
tutta quella gente non aveva alcun motivo di agitarsi: egli procedeva legalmente
e non con la forza. Quindi citò la
ragazza in giudizio. Siccome gli astanti che l'avevano aiutata le consigliarono di seguirlo, si
presentarono tutti di fronte al tribunale di Appio. Lì l'accusatore
inscenò una commedia ben nota al giudice - proprio lui ne aveva congegnato la trama -: la
ragazza, nata nella sua casa, era in séguito stata rapita e portata in
quella di Verginio, al quale era stata fatta passare per figlia sua.
Diceva di avere le prove e di essere in grado di dimostrarlo al giudice,
anche se fosse stato Verginio in persona, al quale toccava il danno
maggiore. Per il momento era giusto che la schiava seguisse il padrone. I
difensori della ragazza dissero che Verginio non era in città perché
serviva la repubblica: se fosse stato informato, tempo due giorni, si sarebbe
presentato. Siccome era ingiusto che si trovasse coinvolto in una
controversia legata ai figli proprio durante la sua assenza, chiesero ad
Appio di sospendere il giudizio fino al ritorno del padre, in maniera tale
che, in base alla legge fatta approvare proprio da lui, si garantisse
la libertà provvisoria alla ragazza, e non si permettesse
così che la reputazione di una giovane illibata potesse esser messa in
pericolo ancor prima che venisse emanato un giudizio circa la sua
libertà. 45 Appio prima di pronunziarsi
sottolineò quanto egli fosse favorevole alla libertà: lo dimostrava
proprio la legge invocata dagli amici di Verginio per sostenere la loro
richiesta. Tuttavia tale legge avrebbe continuato a essere una garanzia sicura
per la libertà, solo a patto che non subisse modifiche a seconda delle
situazioni e delle persone: infatti nei casi di rivendicazione della
libertà - visto che chiunque poteva intentare una simile azione legale - la
libertà provvisoria era un diritto garantito. Ma, nel caso di una donna
che si trovava sotto l'autorità paterna, allora la sola persona a
favore della quale il padrone doveva rinunciare al possesso era appunto il
padre. Di conseguenza sentenziò di farlo chiamare. Nel frattempo colui che
la rivendicava non avrebbe dovuto esser privato del diritto di portarsi a
casa la ragazza, promettendo però di farla comparire una volta che fosse
arrivata la persona che sosteneva di esserne il padre. Contro l'ingiustizia della decisione si
levò un mormorio di disapprovazione, senza però che
neppure uno osasse opporvisi apertamente. A questo punto arrivarono Publio
Numitorio, lo zio materno della ragazza, e il fidanzato Icilio. La folla fece
loro largo poiché pensava che Icilio, col suo intervento, potesse opporsi ad
Appio; un littore disse che ormai il verdetto era stato emesso e
allontanò con la forza Icilio che protestava a gran voce. Un affronto
tanto crudele avrebbe infiammato anche un temperamento mite. «Se vuoi
cacciarmi via di qua, o Appio, sperando di far passare sotto silenzio ciò
che non vuoi venga alla luce,» gridò Icilio, «dovrai ricorrere alle armi.
Questa ragazza diventerà mia moglie e per ciò io voglio che sia pura
il giorno delle nozze. Dunque chiama pure tutti i littori, anche quelli dei
colleghi, ordina che si tengano pronti con le verghe e con le scuri, ma stai
pur sicuro che la promessa sposa di Icilio non passerà la notte
fuori dalla casa di suo padre. Se siete riusciti a togliere alla plebe romana
il sostegno dei tribuni e il diritto di appello, due baluardi a difesa della
libertà, non per questo è stato concesso alla vostra lussuria pieno
potere sui nostri figli e sulle nostre mogli. Infierite pure sulle nostre
spalle e sulle nostre teste, ma almeno lasciate stare la castità delle
donne. Se invece cercherete di violarla con l'uso della forza, allora a difesa
della mia promessa sposa io invocherò l'aiuto dei Quiriti
qui presenti, Verginio, per proteggere la sua unica figlia, quello dei
commilitoni e tutti noi quello degli dèi e degli uomini, mentre tu non riuscirai a
eseguire questa sentenza senza versare il nostro sangue. Io ti chiedo,
Appio, di valutare con estrema attenzione la strada che hai intenzione
di percorrere. Verginio deciderà cosa fare per la figlia non appena
sarà qui. Ma di una cosa soltanto stai pur certo: se si piegherà alle
pretese di quest'uomo, dovrà cercare un altro marito per la figlia. Quanto a
me, nel rivendicare la libertà della mia promessa sposa, rinuncerò
prima alla vita che alla parola data.» 46 La folla era in fermento e sembrava
imminente uno scontro. I littori avevano circondato Icilio, pur senza spingersi
al di là delle minacce, benché Appio dicesse che lo scopo di Icilio
non era di difendere Verginia ma, da uomo turbolento e ribollente di spirito
tribunizio, di cercare un pretesto per suscitare disordini. Lui, quel
giorno, non gliene avrebbe comunque fornito l'occasione. Ma sapesse sin da
ora che il trattamento di favore veniva concesso non alla sua insolenza,
ma all'assenza di Verginio, al nome di padre e alla libertà.
Lui, Appio, quel giorno non avrebbe emanato un verdetto né anticipato alcuna
decisione; avrebbe chiesto a Marco Claudio di rinunciare al suo diritto e
di lasciare libera la ragazza fino al giorno seguente. Se poi l'indomani
il padre non si fosse presentato, rendeva noto a Icilio e a quelli come
lui che né il legislatore sarebbe venuto meno alla propria legge né la
fermezza sarebbe venuta meno al decemviro. Non avrebbe fatto ricorso ai
littori dei colleghi: per domare i responsabili dei disordini sarebbero
bastati i suoi. Dato che il sopruso era stato differito
e i difensori della ragazza se ne erano andati, si decise che prima di
tutto il fratello di Icilio e il figlio di Numitorio, due giovani
risoluti, si dirigessero in fretta verso la porta della città e poi
corressero all'accampamento a chiamare Verginio. La salvezza della ragazza era
legata al suo presentarsi il giorno seguente a vendicare il torto
subìto. Partiti al galoppo con questa missione da compiere, i due giovani
riferiscono il messaggio a Verginio. Siccome l'individuo che rivendicava la
ragazza insisteva perché Icilio ne richiedesse la libertà
provvisoria e desse dei garanti e Icilio rispondeva che stava occupandosi proprio di quello
- anche se a dir la verità faceva del suo meglio per prendere tempo, in
modo tale che i messaggeri inviati all'accampamento potessero guadagnare
del vantaggio - tra la folla si alzarono mani da ogni parte e tutti si
dichiararono pronti a farsi mallevadori per Icilio. Egli, in preda
alla commozione, disse: «Vi sono riconoscente: domani ci sarà
bisogno del vostro aiuto. Di garanti ora ne ho più che a sufficienza.»
Così, grazie alla malleveria dei congiunti, a Verginia venne garantita la
libertà provvisoria. Appio aspettò un poco, per non dare l'impressione di essersi
seduto solo per quella causa. Quindi, visto che non si presentava
più nessuno (la gente, avendo dimenticato tutto il resto, aveva ormai
un solo pensiero per la testa), se ne tornò a casa dove scrisse una
lettera ai colleghi che si trovavano nell'accampamento, pregandoli di non
concedere licenze a Verginio e di metterlo addirittura agli arresti. Ma
il suo piano malvagio venne - come giustamente meritava - messo in pratica
troppo tardi: Verginio aveva già ottenuto il permesso ed era partito
all'imbrunire, mentre la lettera che gli doveva impedire la partenza fu
consegnata inutilmente la mattina successiva. 47 A Roma stava albeggiando quando la
gente, in piedi in trepida attesa nel foro, vide arrivare insieme a una
folla di sostenitori Verginio vestito a lutto e con al braccio la
figlia - anche lei vestita senza la minima cura -, e accompagnati da alcune
matrone. Lì egli cominciò ad andare in giro in mezzo alla folla e a
sollecitare i singoli, non limitandosi a chiedere aiuto per
misericordia, ma esigendolo come cosa dovuta. Diceva di essere ogni giorno in
prima linea a difesa dei loro figli e delle loro mogli, e sosteneva
che di nessun altro soldato si potevano menzionare gesta più
coraggiose e audaci compiute in guerra. A cosa giovava se, in una città
incolume, i suoi figli dovevano subire gli estremi mali che si temono in una
città conquistata? Si aggirava tra la gente dicendo queste cose come se fosse
stato nel pieno di un'arringa. Appelli del tutto simili venivano
lanciati da Icilio. Ma il pianto silenzioso delle donne che li
accompagnavano commuoveva più di qualsiasi discorso. Di fronte a tutte queste
manifestazioni, Appio, con un pensiero fisso - tanta era la forza della
follia, non dell'amore, che gli aveva sconvolto la mente -, salì sul
banco del tribunale. E mentre colui che rivendicava la ragazza si stava
brevemente lamentando perché il giorno precedente non gli era stata resa
giustizia per brighe illegali, prima ancora che avesse completato la
richiesta o Verginio avesse avuto l'opportunità di ribattere,
Appio lo interruppe. Forse qualche versione tramandata dagli antichi autori del
discorso che egli premise alla sentenza risponde al vero. Ma dato che,
per l'enormità della sentenza, non mi è stato possibile trovarne
una che fosse plausibile, mi sembra opportuno riferire i nudi fatti
riconosciuti da tutti; cioè che Appio accordò la schiavitù
provvisoria. Dapprima lo stupore destato da una simile atrocità paralizzò
tutti e per qualche minuto fu il silenzio generale. Poi, quando Marco Claudio,
che si era fatto largo tra le matrone per afferrare la ragazza, venne accolto
dal coro di singhiozzi e di lacrime delle donne, Verginio, minacciando
Appio con il pugno chiuso, gridò: «Mia figlia, Appio, l'ho
promessa a Icilio e non a te, e l'ho allevata per le nozze, non per lo
stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano
a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero
che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!» Quando l'individuo che reclamava la
ragazza venne respinto dal gruppo di donne e di conoscenti che le stavano
attorno, un araldo ordinò di fare silenzio. 48 Il decemviro allora, pazzo
di libidine, dicendo di non basarsi soltanto sugli schiamazzi di
Icilio del giorno prima e sulla violenza di Verginio (di cui era stato
testimone il popolo romano), ma avvalendosi anche di certe informazioni
avute, affermò di sapere per certo che durante tutta la notte si erano
tenute in città delle riunioni con l'intento di organizzare una rivolta.
Essendo quindi al corrente di quel progetto bellicoso, era sceso nel foro
accompagnato da una scorta armata, certo non per usare violenza ai
cittadini pacifici, ma, conformandosi alle attribuzioni della sua carica, per
schiacciare chi turbava la quiete pubblica. «Da questo momento in poi,
sarà meglio non agitarsi troppo. Vai, littore,» gridò quindi,
«allontana la folla e lascia libero il passaggio al padrone perché possa prendere la sua
schiava!» Dopo che Appio ebbe rabbiosamente tuonato queste parole, la
folla si disperse spontaneamente, e la ragazza rimase sola, preda
dell'ingiustizia. Allora Verginio, rendendosi conto di non poter
più contare su alcun sostegno, disse: «Innanzitutto, Appio, ti prego di
perdonare il dolore di un padre se poco fa ho inveito contro di te con molta
durezza. In secondo luogo permettimi di domandare alla nutrice, qui in
presenza della ragazza, come stanno le cose, cosicché se mi si è dato
del padre e non era vero, almeno io possa andarmene con l'animo un po' più
sollevato.» Ottenuto il permesso, prese con sé figlia e nutrice e le
portò presso il tempio di Venere Cloacina, vicino alle botteghe che adesso si
chiamano Nuove. Lì, dopo aver afferrato un coltello da macellaio, disse:
«Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell'unico modo a mia
disposizione!» Detto questo, trafisse il petto della ragazza e quindi,
rivolgendo lo sguardo al tribunale, gridò: «Con questo sangue, Appio, io consegno
te e la tua testa alla vendetta degli dèi!» L'urlo che
seguì questo atroce episodio attirò l'attenzione di Appio il quale ordinò l'arresto
di Verginio. Questi però, facendosi largo col ferro dovunque passava e con la
protezione della folla che gli faceva da scorta, riuscì a raggiungere
la porta della città. Icilio e Numitorio sollevarono il corpo esanime della
ragazza e lo mostrarono al popolo, lamentando la scelleratezza di Appio,
la bellezza funesta di Verginia e la necessità che aveva portato il padre
a un simile gesto. Dietro di loro le urla disperate delle matrone che in
lacrime si domandavano se fossero quelle le condizioni nelle quali i
bambini venivano messi al mondo e se fosse quello il premio della
castità. E insieme a queste aggiungevano altre parole che il dolore infonde
nelle donne in simili frangenti, un dolore tanto più degno di
compassione quanto più emerge triste da un animo debole. Gli uomini, invece, e soprattutto
Icilio, si richiamavano all'autorità tribunizia, al
diritto d'appello al popolo, soppresso a forza, alle manifestazioni di sdegno
pubblico. 49 L'agitazione della folla era dovuta
in parte all'atrocità del delitto e in parte alla speranza di sfruttare
l'occasione per riconquistare la libertà. Appio in un primo tempo
ordina di far chiamare Icilio, poi, visto che questi si opponeva alla
convocazione, ingiunge di arrestarlo. Ma alla fine, siccome i suoi subalterni non
potevano passare, si slancia egli stesso in mezzo alla folla alla testa
di una schiera di giovani patrizi, e ordina di condurlo in prigione. In quel
frangente Icilio aveva dalla sua parte non solo il popolo, ma anche i
suoi capi: Lucio Valerio e Marco Orazio, i quali respinsero il littore
sostenendo che se Appio agiva nel rispetto della legge, essi proteggevano
Icilio dalle pretese di un privato. Se si ricorreva alla forza,
anche in quel caso non sarebbero stati da meno. Queste parole fecero
scoppiare una rissa tremenda. Il littore del decemviro si avventa su
Valerio e Orazio, ma la gente fracassa i fasci. Appio allora sale sulla
tribuna seguito da Valerio e Orazio. La folla ascolta questi ultimi, ma
disturba le parole del decemviro. E Valerio, come se fosse investito del
potere, stava ordinando ai littori di allontanarsi da un privato cittadino,
quando Appio, in preda al panico e temendo per la sua vita, si
coprì la testa e, senza farsi notare dagli avversari, andò a rifugiarsi in
una casa vicina al foro. Spurio Oppio, per dare aiuto al collega, irruppe nel foro
dalla parte opposta, ma si rese conto che l'autorità dei
decemviri stava soccombendo davanti alla violenza. Considerati poi i molti
suggerimenti che gli venivano da ogni parte e non sapendo a quale affidarsi,
finì con l'ordinare la convocazione del senato. Questa decisione - giacché
l'operato dei decemviri sembrava non incontrare il favore di buona parte
dei senatori - contribuì a placare la folla, facendo balenare la speranza
che i senatori ponessero fine a quella magistratura. Il senato ritenne
opportuno non esasperare la plebe ed evitare che il rientro di Verginio
provocasse disordini all'interno delle truppe. 50 Per questo motivo,
vennero inviati all'accampamento, situato in quel momento sul monte
Vecilio, alcuni giovani senatori, che avvertirono i decemviri di impedire a
tutti i costi ai soldati di sollevarsi. Ma lì Verginio fece scoppiare
disordini ben più gravi di quelli che aveva lasciato a Roma. Non solo era stato
visto arrivare con una scorta di 400 uomini che, indignati per
l'ingiustizia, si erano offerti di andare con lui, ma con il coltello ancora in mano
e gli schizzi di sangue sul corpo, e questo aveva attirato l'attenzione
dell'intero accampamento. E poi, la vista di toghe un po' in tutti i punti
del campo aveva fatto apparire il numero di civili lì presenti
molto più alto di quanto realmente non fosse. A chi gli domandava cosa fosse
accaduto, Verginio per lungo tempo non riuscì a rispondere, soffocato
com'era dal pianto. Ma alla fine, quando cessò lo scompiglio della folla
che a poco a poco si era venuta radunando e ci fu silenzio, Verginio
raccontò l'accaduto secondo l'ordine dei fatti. Poi, alzando le mani al cielo come se
stesse pregando, e rivolgendosi ai commilitoni, li supplicò di non
attribuire a lui il crimine, ma a Appio Claudio, e di non respingerlo alla
stregua di chi aveva ammazzato i propri figli. La vita della figlia gli sarebbe
stata più a cuore della sua, se la ragazza avesse avuto la
possibilità di vivere libera e pura. Ma quando se l'era vista portar via come una schiava
destinata allo stupro, pensando che fosse meglio esser privati dei
figli dalla morte piuttosto che dall'oltraggio, la compassione lo aveva
portato a commettere un atto in apparenza crudele. Non sarebbe
però sopravvissuto alla figlia, se non avesse sperato di poterne vendicare la
morte con l'aiuto dei commilitoni. Anche loro avevano figlie, sorelle e
mogli: la libidine di Appio non si era certo spenta insieme con sua
figlia, ma sarebbe divenuta più sfrenata se non fosse stato punito. La disgrazia
toccata a un altro avvertiva ognuno di loro che stesse in guardia da
un simile sopruso. Quanto poi a lui, la moglie gliel'aveva portata via
il destino, mentre la figlia, visto che non avrebbe più potuto
vivere conservando la castità, era andata incontro alla morte triste, ma onorata.
Nella sua casa non c'era più posto per la libidine di Appio: da altre
violenze di costui, avrebbe difeso la propria persona con lo stesso animo con
cui aveva difeso la figlia. Che gli altri provvedessero quindi a se
stessi e ai propri figli. Mentre Verginio urlava queste cose, la
folla gridava che non avrebbe dimenticato il suo dolore, né mancato
di difendere la propria libertà. E i civili, mescolati alla massa dei
soldati, ripetevano le stesse cose, insistendo su quanto più indegni
sarebbero loro parsi i fatti se, invece di sentirseli raccontare, li avessero
visti coi propri occhi, e dicendo che a Roma i decemviri avevano ormai le
ore contate. Ma nel frattempo l'arrivo di altri civili con la notizia
che Appio aveva quasi perso la vita ed era andato in esilio indusse
gli uomini a gridare «Alle armi», a prendere le insegne e a partire alla
volta di Roma. I decemviri allora, turbati non solo da quello che avevano
sotto gli occhi ma anche da quanto si riferiva fosse successo a Roma,
cominciarono a girare per il campo - uno da una parte e uno dall'altra - nel
tentativo di sedare i disordini appena scoppiati. A quelli di loro che
agivano con cautela non si rispondeva. Se però qualcuno si
azzardava a fare ricorso all'autorità, gli rispondevano che loro erano uomini e
che erano armati. Marciano quindi i soldati inquadrati alla volta di Roma e
prendono possesso dell'Aventino, esortando ogni plebeo che incontravano
a riconquistare la libertà e a rieleggere i tribuni della plebe. Non
si udì in giro nessun'altra proposta violenta. Spurio Oppio convoca il
senato. Si decide di non usare alcun rigore, dato che i responsabili della
sommossa erano proprio loro. Tre ex-consoli - Spurio Tarpeio, Gaio
Giulio e Publio Sulpicio - vengono inviati a chiedere a nome del senato
per ordine di chi avessero lasciato l'accampamento, e che cosa si
prefiggessero occupando l'Aventino con le armi e abbandonando la guerra contro il
nemico per catturare la propria patria. Le risposte non mancavano di
certo: quel che mancava era chi avesse il cómpito di darle, visto che
non esisteva ancora un capo vero e proprio e i singoli non osavano esporsi
a possibili rappresaglie. Ma dalla folla si alzò un grido unanime:
che fossero mandati Marco Orazio e Lucio Valerio; a loro avrebbero dato le loro
risposte. 51 Congedati i tre inviati, Verginio fa
notare ai soldati che, pur essendosi trattato di una questione di
importanza non grandissima, poco prima c'era stata una gran confusione
perché la moltitudine non aveva ancora un capo. Anche se poi la
risposta data era stata soddisfacente, ciononostante si era trattato di un
fortuito consenso più che di una decisione comune. La sua idea era
quella di eleggere dieci uomini da porre ai vertici del comando e da insignire
del grado militare di tribuni dei soldati. Siccome il primo cui si voleva
conferire questa carica era proprio Verginio, egli disse: «Questi
segni di apprezzamento nei miei confronti riservateli a tempi migliori
per me e per voi. Quanto a me, non c'è titolo che possa rendermi
felice fino al giorno in cui la morte di mia figlia non sarà vendicata. Né
può risultare di grande utilità che in questo momento di crisi per il paese vi
guidino degli individui inevitabilmente destinati a essere
impopolari. Se posso essere in qualche modo utile alla causa comune, non lo
sarò certo di meno come privato cittadino.» Così nominano dieci
tribuni militari. Ma neppure in terra sabina l'esercito
romano rimase inerte. Anche lì, su istigazione di Icilio e Numitorio,
scoppiò una rivolta contro i decemviri: infiammò gli animi il ricordo
dell'assassinio di Siccio, inasprito dalla recente notizia della ragazza
così vergognosamente disonorata per soddisfare la libidine. Quando Icilio
venne a sapere che sull'Aventino avevano nominato dei tribuni militari,
per evitare che le assemblee cittadine si allineassero alle scelte
di quelle militari, eleggendo tribuni della plebe gli stessi uomini,
essendo esperto di questioni legate al popolo e aspirando egli stesso a
quella carica, fece in modo che prima di marciare alla volta di Roma i suoi
ne eleggessero un ugual numero e con uguale potere. Entrati in città
dalla porta Collina con le insegne, raggiunsero l'Aventino attraversando
incolonnati il centro della città. Dopo essersi lì ricongiunti con
l'altro esercito, affidarono ai venti tribuni militari il cómpito di
nominarne due all'interno di loro, ai quali poi delegare il potere assoluto. La
scelta cadde su Marco Oppio e Sesto Manilio. I senatori, in allarme per la
situazione generale, tenevano ogni giorno una seduta, ma molto spesso si
perdevano in battibecchi invece di deliberare. Ai decemviri rinfacciavano
l'uccisione di Siccio, la libidine di Appio e le disonorevoli azioni
militari. Si decideva di inviare Valerio e Orazio sull'Aventino, ma essi si
rifiutavano, se i decemviri non abbandonavano le insegne di quella
magistratura dalla quale erano decaduti già nel corso dell'anno
precedente. I decemviri, lamentandosi di venir sottoposti a una vera degradazione,
decidevano che non avrebbero rinunciato al potere prima
dell'approvazione di quelle leggi per redigere le quali erano stati eletti. 52 Informata da Marco Duillio, un
ex-tribuno della plebe, che dagli interminabili battibecchi non veniva
fuori nulla, la plebe si spostò dall'Aventino sul monte Sacro; lo
stesso Duillio affermava che i patrizi non si sarebbero preoccupati fino a quando
non avessero visto la città abbandonata. Il monte Sacro avrebbe
ricordato loro quanto incrollabile fosse la volontà della plebe, e
si sarebbero finalmente resi conto che il ritorno alla concordia civile non era
possibile se non si ristabiliva l'autorità dei tribuni. Partiti
lungo la via Nomentana, che allora si chiamava Ficulense, si accamparono sul
monte Sacro e, imitando la moderazione dei loro antenati,
evitarono ogni devastazione. All'esercito tenne dietro la plebe, e nessuno tra
quelli cui l'età lo permetteva si rifiutò di andare. Li
accompagnarono sino alle porte anche i figli e le mogli, che, tra i lamenti, chiedevano a
chi avessero lasciato il cómpito di difenderli in una città dove
ormai neppure la libertà e la castità erano sacre. A Roma lo spopolamento aveva reso la
città una desolazione e nel foro si vedeva solo qualche vecchio. Quando,
nel corso di una seduta del senato, il foro apparve ancora più
deserto ai senatori, furono in molti - oltre a Orazio e Valerio - a esprimere il
proprio malcontento. «Che cosa state aspettando, padri coscritti? Se i
decemviri persistono nella loro ostinazione, intendete tollerare che
tutto si deteriori e vada in rovina? E che cos'è mai, decemviri,
questo potere a cui vi aggrappate tanto? Volete dettar legge a tetti e muri? Non
vi vergognate vedendo che nel foro i vostri littori sono più numerosi
degli altri cittadini? Cosa fareste se il nemico attaccasse la città?
Oppure se tra breve la plebe ci assalisse armi alla mano, rendendosi conto che
anche con la secessione non riesce a ottenere gran che? Volete che il vostro
potere finisca col crollo della città? Eppure bisogna, o non
avere la plebe, o accettare i tribuni della plebe. Verranno meno prima a noi i
magistrati patrizi che a loro quelli plebei. Quando riuscirono a strapparlo
con la forza ai nostri padri, il tribunato era un potere nuovo e non
ancora sperimentato. Ma ora, dopo averne assaporato una volta il fascino,
sarà ancora più difficile per loro non desiderarlo, tanto più che
noi non moderiamo il nostro potere, in modo
che i plebei sentano meno la necessità di un aiuto.» Dato che
queste cose venivano ripetute da ogni parte, i
decemviri, sopraffatti dalla volontà comune, affermarono che, se quella era
giudicata la soluzione migliore, essi si sarebbero assoggettati
all'autorità dei senatori. Questa soltanto fu la loro richiesta e la loro
raccomandazione: essere protetti dal risentimento popolare, perché con il
loro sangue la plebe non si abituasse a punire i senatori.
53 A Valerio e a Orazio venne allora affidato il cómpito di riportare
in città la plebe alle condizioni
che fossero loro parse più opportune, nonché quello di rimettere a posto le
cose e di proteggere i decemviri dalla rabbia e dalla violenza della
gente. Partiti alla volta dell'accampamento, sono accolti dalla
plebe con grandi manifestazioni di gioia, come liberatori, sia per aver
dato inizio alla rivolta, sia per l'esito della stessa. Per questi
motivi, non appena misero piede nel campo, furono ringraziati. Icilio prese
la parola a nome di tutti. Quando poi si passò a discutere delle
condizioni fissate e gli inviati domandarono quali fossero le richieste
della plebe, Icilio stesso, attenendosi a quanto stabilito di
comune accordo prima dell'arrivo dei legati, pose i termini della questione
in maniera tale da far risultare con evidenza che le speranze dei plebei
erano riposte molto più sull'equità delle proposte che
non sul ricorso alle armi. Chiedevano fosse ripristinato il potere dei tribuni e il
diritto d'appello - cose queste che erano state il sostegno della plebe
prima dell'elezione dei decemviri. E inoltre che a nessuno recasse danno
l'aver incitato i soldati o la plebe a riconquistarsi, con la secessione, la
libertà. Una sola richiesta fu durissima: quella riguardante la pena
da infliggere ai decemviri. I plebei ritenevano infatti giusto che i
decemviri venissero loro consegnati e minacciavano di bruciarli vivi. I
legati allora risposero: «Le vostre richieste - dettate certo dal giudizio
- sono così ragionevoli che avrebbero dovuto già trovare
soddisfazione. Perché con queste richieste voi esigete delle garanzie di
libertà e non l'autorizzazione arbitraria ad assalire gli altri. La vostra rabbia
deve essere più scusata che assecondata: per l'odio della
crudeltà precipitate nella crudeltà, e ancor prima di essere liberi voi stessi
volete già tiranneggiare sugli avversari. Ma per la nostra
città verrà mai il giorno in cui cesseranno le condanne inflitte dai patrizi alla
plebe o dalla plebe ai patrizi? Più che una spada a voi serve uno scudo.
È già abbastanza, o fin troppo, abbassato chi vive in una città dove tutti
hanno gli stessi diritti, senza subire e senza infliggere ingiustizie. E anche
se un giorno arriverete a farvi temere, quando, dopo aver recuperato le
vostre magistrature e le vostre leggi, avrete l'autorità di
giudicare le nostre persone e i nostri beni, allora emetterete i vostri giudizi
valutando caso per caso. Ora è sufficiente riconquistare la
libertà.» 54 Siccome venne loro concesso di agire come ritenevano più
opportuno, i legati dichiararono che sarebbero ritornati dopo aver concluso l'accordo.
Quindi partirono ed esposero ai senatori le richieste della plebe. Gli
altri decemviri, quando si resero conto che, al di là di ogni
speranza, non si accennava minimamente a punizioni nei loro confronti, non
fecero alcuna obiezione; ma Appio, che era violento di natura e sapeva di
essere particolarmente impopolare, misurando l'odio degli altri verso di
lui dall'odio che egli nutriva nei loro riguardi, disse: «Non sono certo
ignaro della sorte che mi attende. Mi rendo però conto che
l'attacco contro di noi sarà ritardato fino al momento in cui le armi verranno
consegnate ai nostri avversari. L'odio vuole il suo sangue. Tuttavia non
esiterò neppure io a rinunciare al decemvirato.» Il senato approvò
quindi un decreto in base al quale i decemviri avrebbero dovuto dimettersi
al più presto, al pontefice massimo Quinto Furio sarebbe toccato il cómpito
di nominare i tribuni della plebe e nessuno avrebbe dovuto subire delle
conseguenze a séguito della secessione delle truppe e della plebe. Approvati questi decreti e sciolta la
seduta, i decemviri si presentano di fronte all'assemblea popolare e
rinunciano alla propria magistratura fra il tripudio generale. La notizia
è riferita alla plebe. Tutti quelli che erano rimasti in città
accompagnano gli inviati. A questa folla andò incontro un'altra folla festante che
veniva dall'accampamento. Si congratularono reciprocamente per il
ritorno del paese alla libertà e alla concordia. Gli inviati di fronte
all'assemblea dissero: «Perché il bene, la buona sorte e la felicità
possano di nuovo essere con voi e la repubblica, tornate in patria, alle
vostre case, dalle mogli e dai figli! Ma visto che vi siete comportati con
moderazione qui, dove nessuna proprietà è stata violata
nonostante che molte fossero le cose necessarie a un così elevato numero di
persone, ebbene, portate la stessa moderazione in città. Tornate sull'Aventino
da dove siete venuti. In quel fausto luogo, da dove avete mosso i primi
passi verso la libertà, potrete nominare dei tribuni della plebe. Per
tenere i comizi avrete a disposizione il pontefice massimo.»
Grande fu il consenso, unanime l'entusiasmo. Levano le insegne e
partono alla volta di Roma, facendo a gara in manifestazioni di allegria con
la gente che incontrano. Armati attraversano la città e in
silenzio raggiungono l'Aventino. Qui, durante i comizi sùbito tenuti dal
pontefice massimo, elessero i tribuni. Il primo degli eletti fu Lucio Verginio, al
quale fecero poi séguito Lucio Icilio e Publio Numitorio, zio materno di
Verginia, cioè i due artefici della secessione. Quindi Gaio Sicinio,
discendente di quel Sicinio che, stando alla tradizione, sarebbe stato il primo
a essere eletto tribuno della plebe sul monte Sacro, e Marco Duillio,
figura di spicco come tribuno prima dell'avvento dei decemviri e che
non aveva mai abbandonato la plebe negli scontri coi decemviri stessi.
Infine, non per i meriti ma per quello che si sperava da loro, vennero eletti
Marco Titinio, Marco Pomponio, Gaio Apronio, Appio Villio e Gaio Oppio.
Entrato in carica, Icilio propose e fece approvare alla plebe che a nessuno
fosse imputata come colpa la secessione contro i decemviri. Súbito
dopo Marco Duillio presentò una proposta di legge che prevedeva
l'elezione di consoli il cui potere fosse limitato dal diritto d'appello. Tutto
questo venne portato a termine dall'assemblea della plebe tenutasi nei
prati Flamini, prati che oggi si chiamano Circo Flaminio. 55 Poi, tramite l'interré, vennero
eletti consoli Lucio Valerio e Marco Orazio che entrarono immediatamente in
carica. Il loro consolato, di orientamento popolare, non fece alcuna
ingiustizia nei riguardi dei patrizi, tuttavia provocò il
loro malcontento. Infatti, qualunque cosa si facesse per la libertà della
plebe, essi credevano che diminuisse il loro potere. Prima di tutto, poiché era
controverso giuridicamente se i senatori dovessero attenersi ai decreti
della plebe, i consoli presentarono nei comizi centuriati una
legge in base alla quale ciò che la plebe aveva approvato nei comizi
tributi vincolava tutta la popolazione. Questa legge diede alle richieste dei
tribuni un'arma assai temibile. Quanto poi all'altra legge - quella
cioè relativa al diritto d'appello, unica garanzia di libertà
abolita dai decemviri -, non solo fu ripristinata, ma resa più
efficace per il futuro con una nuova legge in base alla quale non sarebbe stato
più possibile nominare i magistrati non soggetti al diritto d'appello. Chiunque
avesse violato tale disposizione, avrebbe potuto essere ucciso secondo le
leggi umane e divine, e per quel crimine non vi sarebbe stata la pena di
morte. Dopo aver fornito alla plebe sufficienti garanzie sia col
diritto d'appello sia con l'aiuto dei tribuni, i consoli, nell'interesse dei
tribuni stessi, ristabilirono il principio della loro
inviolabilità, cosa di cui ormai si era persa memoria, riattivando le cerimonie
rituali abbandonate da lungo tempo: li resero infatti inviolabili non solo sul
piano religioso ma anche con una legge, in base alla quale coloro che
avessero recato danno ai tribuni della plebe, agli edili, e ai giudici
decemviri sarebbero stati maledetti e affidati alla vendetta di Giove e i
loro beni sarebbero stati venduti al tempio di Cerere, Libero e Libera. Oggi i giuristi sostengono che in base
a questa legge nessuno era veramente sacro e inviolabile, ma che
essa semplicemente sanciva la maledizione per chi avesse oltraggiato
una delle predette autorità. Un edile poteva essere arrestato e
imprigionato da magistrati di rango superiore. Questa procedura, pur
essendo illegittima (infatti danneggiava chi, in base a detta legge, non era
lecito danneggiare), tuttavia costituisce la prova che un edile non
era sacro e inviolabile. Invece i tribuni lo erano, in base all'antico
giuramento fatto dalla plebe quando per la prima volta creò quella
magistratura. Ma ci fu pure chi argomentò che per la stessa legge Orazia anche
consoli e pretori godevano della medesima protezione, visto che questi
ultimi venivano eletti con gli stessi auspici consultati per la nomina
dei consoli. E infatti un tempo i consoli erano chiamati giudici. Tale
tesi è però confutata dal fatto che in quel periodo non c'era ancora
l'abitudine di chiamare giudice il console, bensì pretore. Furono queste le leggi proposte dai
consoli, i quali stabilirono anche che i decreti del senato venissero affidati
agli edili della plebe nel tempio di Cerere, mentre in passato venivano
occultati o falsificati secondo l'arbitrio dei consoli. In séguito il
tribuno della plebe Marco Duillio propose alla plebe, e la plebe lo
approvò, un provvedimento in base al quale chi avesse lasciato la plebe
senza tribuni o avesse eletto dei magistrati il cui potere non fosse
limitato dal diritto d'appello veniva condannato alla fustigazione o alla
decapitazione. Tutte queste misure, pur non avendo ottenuto il consenso dei
patrizi, vennero comunque approvate senza incontrare opposizione
da parte loro, perché fino a quel momento non si infieriva ancora contro
nessuno in particolare. 56 In séguito, consolidata
l'autorità tribunizia e la libertà della plebe, i tribuni, pensando che ormai fosse
arrivato il tempo di procedere contro i singoli senza correre eccessivi
rischi, scelsero Verginio come primo accusatore e Appio come primo imputato.
Verginio citò quindi Appio in giudizio. E quando Appio si
presentò nel foro scortato da una schiera di giovani aristocratici, appena la gente
se lo trovò davanti agli occhi insieme alle sue guardie del corpo, si
rinnovò súbito nella memoria di tutti il ricordo di quell'infame
potere. Allora Verginio disse: «L'oratoria è stata inventata
per le cause incerte: perciò, né io starò a perdere tempo sciorinandovi le accuse a
carico di un uomo dalla cui crudeltà vi siete liberati da
soli con le armi, né permetterò che costui aggiunga agli altri suoi crimini
l'impudenza di difendersi. Dunque ti faccio grazia, Appio Claudio, di tutte
le turpi ed empie nefandezze che, una dopo l'altra, hai osato compiere
nel corso di due anni. Ma per una sola di esse io ordinerò di
metterti in prigione, se non sceglierai un giudice e gli dimostrerai di aver a
buon diritto negata la libertà provvisoria a una libera cittadina
rivendicata come schiava.» Appio non riponeva alcuna speranza né nell'aiuto
dei tribuni, né nel verdetto del popolo. Ciononostante si appellò
ai tribuni e, quando una guardia lo afferrò, senza che nessuno si
opponesse, Appio disse: «Mi appello al popolo.» Quella parola, che da sola
garantisce la libertà, uscita dalla bocca da cui poco tempo prima era stata
pronunciata una sentenza contro la libertà, provocò un
grande silenzio. Dentro di sé ciascuno mormorava che alla fin fine gli dèi esistevano
e non trascuravano i casi umani; che, anche se in ritardo, tuttavia pene non
lievi colpivano l'arroganza e la crudeltà; che si appellava colui
che l'appello aveva abolito; che invocava il popolo colui che aveva privato il
popolo di ogni diritto; che era incarcerato e privato della
libertà colui che aveva condannato alla schiavitù una persona libera.
Tra il mormorio dell'assemblea si udì la voce dello stesso Appio implorare la
protezione del popolo romano. Ricordava i servigi resi alla patria
dai suoi antenati in pace e in guerra, la sua sfortunata opera a
favore della plebe romana, in conseguenza della quale, per rendere le
leggi uguali per tutti, aveva rinunciato al consolato con grande
rammarico dei patrizi, e infine le sue leggi, che erano ancora in vigore
mentre si conduceva in carcere chi le aveva proposte. Quanto poi al bene e al
male commessi, Appio disse che li avrebbe presi in esame quando gli fosse
stata concessa l'opportunità di perorare la propria causa. Per il
momento, in qualità di cittadino romano, secondo il comune diritto di
cittadinanza, Appio chiese che, fissata la data, gli fosse permesso di parlare in
propria difesa per poi affrontare
il giudizio del popolo romano. Non temeva l'odio nei suoi confronti
tanto da non riporre più alcuna
speranza nell'equità e nella compassione dei suoi concittadini. Se invece fosse
finito in carcere senza che gli fosse accordato di difendersi, allora si
sarebbe di nuovo appellato ai tribuni della plebe, avvertendoli di non
imitare quelli che essi avevano detestato. Se poi i tribuni si dicevano
obbligati a negargli l'appello in base all'accordo che essi rimproveravano
ai decemviri di aver preso in segreto, allora si sarebbe appellato al
popolo, chiamando in causa le leggi sul diritto d'appello proposte
quello stesso anno sia dai consoli che dai tribuni. Chi infatti poteva
ricorrere in appello, se questo diritto non era concesso a un cittadino
che non era ancora stato giudicato e del quale non si era sentita la
difesa? Quale plebeo, quale modesto cittadino avrebbe potuto trovare
sostegno nelle leggi, se esse non lo garantivano ad Appio Claudio? Il suo
caso avrebbe stabilito se con le nuove leggi si era consolidata la
tirannide oppure la libertà, e se il diritto d'appello al popolo e il
ricorso contro le ingiustizie dei magistrati erano veramente concessi o
erano chiacchiere senza fondamento. 57 Ma Verginio replicò che Appio
Claudio era l'unico uomo a trovarsi al di là della legge e a non avere
alcun rapporto col consorzio umano e civile. Invitò poi la gente a rivolgere
lo sguardo al tribunale, ricettacolo di ogni crimine: lì quel decemviro
a vita, acerrimo nemico dei cittadini e dei loro beni, delle loro persone e del
loro sangue, che minacciava tutti con verghe e scuri, senza portare alcun
rispetto a dèi e uomini. Circondato com'era non di littori ma di
carnefici, aveva ormai spostato i suoi interessi dalle razzie e dagli
assassini alla libidine: così, di fronte agli occhi di tutto il popolo
romano, aveva strappato dalle braccia
del padre una ragazza di condizione libera e, trattandola alla stregua
di una prigioniera di guerra, l'aveva data
in dono a un cliente che in casa sua gli faceva da cameriere. Sui banchi
di quel tribunale Appio, con una sentenza disumana e un'assegnazione
nefanda, aveva armato la mano destra di un padre contro la figlia. Sempre in
quel tribunale, mentre il fidanzato e lo zio sollevavano da terra
il corpo esanime della giovane, aveva ordinato che fossero imprigionati,
infuriato più per l'impedimento dello stupro che per l'uccisione della
ragazza. Anche per Appio era stato costruito quel carcere che lui amava
definire residenza del popolo romano. Perciò, anche se avesse
continuato ad appellarsi all'infinito, all'infinito Verginio gli avrebbe
intimato di presentarsi di fronte a un giudice per dimostrare di non aver
pronunciato una sentenza di schiavitù provvisoria nei riguardi di una libera
cittadina. Se poi Appio non fosse comparso di fronte al giudice, allora
avrebbe dato ordine di portarlo in prigione come se fosse stato
condannato. Fu condotto in carcere; anche se nessuno si alzò per esprimere
disapprovazione, ciononostante grande fu il disagio, perché la punizione di una
personalità così importante faceva sembrare alla plebe eccessiva la sua
stessa libertà. Il tribuno aggiornò la causa. Nel frattempo Latini ed Ernici
inviarono a Roma ambasciatori per congratularsi dell'accordo tra patrizi
e plebei e per questo accordo portarono in dono a Giove Ottimo
Massimo sul Campidoglio una corona d'oro non molto pesante perché non c'erano
allora molte ricchezze e le cerimonie religiose erano celebrate più
con la devozione che con la sontuosità. Da questa stessa delegazione si venne a
sapere che Equi e Volsci si stavano preparando alla guerra con grande
impegno. Perciò ai consoli fu ordinato di spartirsi gli incarichi: a Orazio
toccarono i Sabini, a Valerio gli Equi. Quando bandirono la leva in
previsione di quei conflitti, fu tanto il favore della plebe che, non solo i
più giovani, ma anche una grande quantità di volontari tra i
militari in congedo si misero a disposizione dando i propri nomi ai consoli, in modo
tale che l'esercito, grazie all'immissione dei veterani, si
rinforzò sia per il numero, sia per la qualità dei soldati. Prima che
l'esercito lasciasse la città, furono esposte in pubblico, incise sul bronzo,
le leggi nate per volontà dei decemviri, conosciute come Leggi delle
XII Tavole. Alcuni autori scrivono che quell'incarico sarebbe toccato agli
edili su ordine dei tribuni. 58 Gaio Claudio, aborrendo i crimini
dei decemviri e particolarmente ostile all'arroganza del nipote, si era
ritirato a Regillo, luogo d'origine della sua famiglia. Pur
essendo ormai avanti negli anni, era tornato a Roma per tentare di salvare
proprio l'uomo i cui vizi lo avevano indotto a fuggire. Accompagnato da
familiari e clienti, andando in giro per il foro vestito a lutto, fermava
uno per uno i cittadini e li supplicava di non permettere che alla
famiglia Claudia toccasse il marchio infamante di aver meritato l'arresto e
la detenzione. Un uomo la cui immagine sarebbe stata fatta oggetto
dei più alti onori da parte delle generazioni future, il legislatore e il
fondatore del diritto romano, in quel momento giaceva incatenato tra
ladri notturni e tagliagole comuni. Per il momento rivolgessero l'animo
dall'ira alla comprensione e alla riflessione e, di fronte alle preghiere
di tanti Claudi, ne perdonassero uno solo, piuttosto che respingere un
numero così alto di suppliche, esclusivamente per l'odio verso
quell'uno. Claudio aggiunse che lui stesso compiva quel gesto per il buon nome
della famiglia, ma che non si era riconciliato con l'uomo al quale
cercava di portare soccorso nella mala sorte. Col coraggio era stata
riconquistata la libertà, con l'indulgenza si poteva ristabilire l'armonia tra le
classi sociali. Alcuni furono toccati più dal suo attaccamento
alla famiglia che dalla causa di colui per il quale si stava adoperando. Ma
Verginio li invitava ad aver compassione piuttosto di lui e di sua
figlia, pregandoli di dare ascolto più che alle suppliche della
famiglia Claudia, che si era arrogata il diritto di tiranneggiare la plebe, a
quelle dei parenti di Verginia, e cioè i tre tribuni che, eletti
per sostenere la plebe, ora dalla plebe imploravano sostegno e protezione. Alla
gente sembrò che queste lacrime fossero più giuste. Persa quindi
ogni speranza, Appio si suicidò prima che arrivasse il giorno fissato per il
processo. Sùbito dopo Publio Numitorio
fece arrestare Spurio Oppio, il più odiato dei decemviri dopo Appio, perché
presente in città quando il collega aveva pronunciato l'ingiusta sentenza di
schiavitù provvisoria. A dir la verità provocarono il risentimento popolare
nei confronti di Oppio più i misfatti commessi che quelli che non aveva
impedito. Venne prodotto un teste che passò in rassegna le ventisette
campagne militari a cui aveva partecipato meritandosi otto volte decorazioni
speciali; dopo aver esibito queste decorazioni davanti al popolo, si
strappò la tunica mostrando la schiena straziata dalla frusta e
dichiarò che, se l'imputato era in grado di menzionare qualche sua colpa,
scatenasse di nuovo, benché ora privato cittadino, la sua rabbia su di lui.
Così anche Oppio finì in carcere, dove si tolse la vita prima del giorno del
processo. I tribuni confiscarono le proprietà di Claudio e di Oppio.
Gli ex-colleghi di decemvirato andarono in esilio e i loro beni vennero
confiscati. Anche Marco Claudio, l'uomo che aveva rivendicato la
proprietà di Verginia, fu processato e condannato. Essendogli stata
risparmiata la pena di morte per l'intercessione dello stesso Verginio,
fu rilasciato e andò in esilio a Tivoli. Così i Mani di Verginia
- certo più fortunata da morta che da viva -, dopo aver vagato tra tante case per chiedere
vendetta, ora che nessun colpevole era rimasto impunito, ebbero
finalmente pace. 59 I patrizi erano ormai in preda al
panico e i tribuni cominciavano ad assomigliare sempre più ai
decemviri, quando il tribuno della plebe Marco Duillio decise di porre un salutare
freno a quell'eccessivo potere. «Accontentiamoci della nostra
libertà e delle pene inflitte ai nemici di un tempo,» dichiarò Duillio.
«Perciò, nel corso di quest'anno, non permetterò che alcuno sia citato
in giudizio, né che sia incarcerato. Non è infatti giusto andare a
ricercare vecchie colpe di cui non ci si ricorda nemmeno più, dato che i reati
recenti sono stati espiati con le condanne inflitte ai decemviri, e dato che le
energie continuamente profuse da entrambi i consoli per proteggere la
vostra libertà ci possono garantire che non verranno commessi crimini di
tale gravità da richiedere l'intervento dell'autorità
tribunizia.» Questa moderazione da parte del tribuno liberò innanzitutto i
patrizi dalla paura, ma incrementò anche il loro risentimento nei confronti dei
consoli, perché avevano dimostrato un tale attaccamento alla causa della
plebe, che l'incolumità e la libertà dei patrizi era stata più a
cuore a un magistrato plebeo che a uno patrizio; e poi perché i loro nemici si
erano saziati di infliggere condanne, prima che i consoli avessero
dato l'impressione di volersi opporre alle loro sfrenatezze. Molti
dissero che avevano agito senza il necessario rigore perché proprio i
senatori avevano votato le leggi proposte dai consoli, e non c'era
dubbio che, in quel difficile momento in cui si era venuta a trovare la
repubblica, i senatori si erano piegati alle circostanze. 60 Sistemata la situazione in
città e consolidata la posizione della plebe, i consoli partirono per le
rispettive destinazioni. Valerio, incaricato di fronteggiare Volsci ed
Equi, che nel frattempo avevano già unito le proprie truppe sull'Algido, di
proposito ritardò l'inizio delle ostilità. Se infatti avesse
sùbito tentato la sorte, nel diverso stato d'animo in cui si trovavano allora i
nemici e i Romani, dopo le disastrose imprese dei decemviri, non so se il
combattimento non si sarebbe risolto in una grave sconfitta. Dunque, posto
l'accampamento a un miglio di distanza dagli avversari, vi trattenne
le truppe. I nemici si andarono più volte a schierare nello spazio di terra
tra i due accampamenti, ma nessuno dei Romani raccolse le provocazioni.
Alla fine, stanchi di attendere invano l'inizio delle ostilità,
Equi e Volsci, credendo che i Romani avessero quasi quasi rinunziato alla
vittoria, se ne andarono a razziare parte i territori latini e parte quelli
degli Ernici, lasciandosi alle spalle un contingente più adatto
a presidiare l'accampamento che non a sostenere lo scontro. Quando il console
se ne rese conto, schierò le truppe in ordine di battaglia e prese a
provocare i nemici, terrorizzandoli come prima era stato
terrorizzato lui. Poiché quelli, consci di non avere forze sufficienti,
evitavano di venire alle armi, súbito crebbe il coraggio nei Romani
che davano già per vinti i nemici rannicchiati dentro il vallo. Dopo
esser stati pronti a battersi per tutto il giorno, al calar della notte si
ritirarono. E mentre da una parte i Romani, pieni di speranza, si
rifocillavano, dall'altra parte, animati da tutt'altro spirito, i nemici
preoccupati inviarono messaggeri in varie direzioni per richiamare quanti si
erano dati alle razzie. Fu possibile far tornare chi si trovava nelle
vicinanze, ma quelli che erano andati più lontano non riuscirono a raggiungerli.
Alle prime luci del giorno i Romani uscirono dall'accampamento con
l'intento di dare l'assalto al vallo, se non avessero avuto la
possibilità di combattere. Poiché buona parte della mattinata se n'era già andata
senza che i nemici avessero dato alcun segnale di volersi muovere, il console
ordinò di avanzare. Quando l'esercito si mosse, Equi e Volsci
provarono sdegno vedendo che la difesa dei loro eserciti vittoriosi era
affidata a un vallo e non al coraggio e alle armi. Pertanto anch'essi chiesero
e ottennero dai loro comandanti il segnale di dar battaglia. Parte degli
uomini era già uscita dalle porte, seguita in ordine dagli altri che
andavano a occupare ciascuno la propria posizione, quando il console romano,
senza aspettare che lo schieramento nemico si rafforzasse completando i
ranghi, si buttò all'assalto. Avendo sferrato l'attacco quando non tutti gli
avversari erano ancora usciti e quelli che lo avevano già fatto
non si erano ancora dispiegati lungo la linea, piombò su una massa
fluttuante di disperati che correvano in tutte le direzioni e si lanciavano l'uno con
l'altro occhiate piene di sconforto. Le urla e l'impeto dei
Romani aggravarono poi la loro agitazione. Così, sulle prime, i
nemici furono costretti a retrocedere, ma dopo, quando ripresero animo e
sentirono da ogni parte i comandanti inferociti chiedere loro se avessero
intenzione di cedere a dei vinti, riuscirono a ristabilire le sorti della
battaglia. 61 Il console, dall'altra parte,
invitava i Romani a ricordarsi che quel giorno, per la prima volta,
combattevano da liberi per una libera Roma e che avrebbero vinto per se stessi, e
non per essere, da vincitori, il premio dei decemviri. Alla loro testa
non c'era Appio, bensì il console Valerio, discendente da uomini che
avevano liberato Roma e lui stesso liberatore. Che dimostrassero quindi
come gli insuccessi nelle precedenti battaglie fossero dovuti all'imperizia
dei comandanti e non a quella dei soldati. Sarebbe stato vergognoso aver
dimostrato più coraggio contro i concittadini che contro il nemico, e
aver temuto più la schiavitù interna che quella proveniente dall'esterno. In
tempo di pace era toccato alla sola Verginia veder minacciata la
propria castità, così come Appio era stato il solo cittadino la cui libidine
avesse costituito una minaccia. Se però la guerra avesse preso una
brutta piega, allora il pericolo per i figli di tutti sarebbe venuto da molte
migliaia di nemici. Ma non voleva presagire cose che né Giove né il padre
Marte avrebbero permesso in una città fondata con simili
auspici. Ricordando loro l'Aventino e il monte Sacro, li invitava a riportare intatto
il potere là dove pochi mesi prima era nata la libertà, a dimostrare
che nei soldati romani, dopo la cacciata dei decemviri, c'era l'identica tempra
di prima che i decemviri venissero eletti e, infine, che il valore del
popolo romano non era diminuito con l'uguaglianza dei diritti. Dopo aver
pronunciato queste parole, circondato dai vessilli della fanteria,
volò verso i cavalieri e disse loro: «Avanti, giovani, cercate di superare i fanti in
atti di valore, così come già li superate nel grado militare e nel ceto
sociale. Al primo scontro la fanteria ha costretto i nemici a
retrocedere. Adesso tocca a voi: caricateli coi cavalli e spazzateli via
dal campo. Non reggeranno l'urto, visto che anche ora temporeggiano
più che resistere.» Quelli spronano i cavalli, li lanciano contro i nemici,
già stravolti dallo scontro con i fanti, sfondano le linee e avanzano
fino alla retroguardia: una parte di loro aggira i nemici in campo aperto,
impedisce il ritorno all'accampamento al grosso degli Equi e
dei Volsci che già fuggiva da ogni parte e, cavalcando davanti a loro, li
respinge e li tiene lontani. La fanteria e il console, con tutte le
forze a disposizione, irrompono nell'accampamento e lo conquistano,
seminando la morte e portandosi via un grande bottino. La notizia di questa vittoria
arrivò non solo a Roma, ma anche all'altro esercito impegnato in territorio
sabino: in città fu celebrata con esplosioni di gioia, nell'accampamento
accese gli animi dei soldati, spingendoli a emulare quelle gesta
gloriose. Orazio, mettendoli alla prova con incursioni improvvise e scaramucce
di poco peso, li aveva abituati ad avere fiducia in se stessi, a
dimenticare le ignominie subite sotto il comando dei decemviri. E quei piccoli
scontri avevano riacceso in loro la speranza di avere la meglio nello
scontro finale. Ma neppure i Sabini, imbaldanziti dal successo dell'anno
precedente, lesinavano le provocazioni e le minacce. Soprattutto si
domandavano perché mai i Romani perdessero tutto quel tempo in modeste incursioni
e ritirate, degne di ladruncoli, e spezzassero tutta la guerra in una
serie di scaramucce. Perché non scendevano a combattere in campo
aperto, lasciando che la sorte decidesse una volta per tutte a chi doveva andare
la vittoria? 62 Oltre ad aver già recuperato
di per sé sufficiente fiducia nei propri mezzi, i Romani ardevano anche di
sdegno: mentre in quel momento l'altro esercito stava rientrando vittorioso a
Roma, loro erano ancora lì a farsi insultare e sbeffeggiare dal nemico. Ma
quando sarebbero stati all'altezza dei nemici, se non lo erano allora?
Appena il console si rese conto che tra gli uomini circolavano questi
mormorii, convocò l'adunata e disse: «Immagino, soldati, che abbiate sentito
come sono andate le cose sull'Algido. L'esercito si è
comportato come si addice all'esercito di un popolo libero. La vittoria è
arrivata grazie all'intelligenza del mio collega e al valore dei soldati. Quanto
a me, la mia strategia e il mio coraggio dipenderanno esclusivamente
dal vostro comportamento. Si può ritardare la guerra con vantaggio o
concluderla in fretta. Se si deve ritardarla io, continuando con la
tattica adottata sinora, farò in modo che, giorno dopo giorno, crescano le
vostre speranze e il vostro coraggio. Ma se invece siete già
sufficientemente coraggiosi e volete farla finita súbito con questa guerra, allora, a
testimonianza della vostra volontà di vittoria e del vostro sicuro valore,
alzate qui nell'accampamento il grido che alzereste sul campo di battaglia.»
Sull'onda dell'entusiasmo il grido non si fece attendere. Poi il console,
augurando il migliore esito all'impresa, disse che li avrebbe
assecondati e che il giorno successivo li avrebbe guidati in battaglia. Il
resto della giornata venne impiegato nella preparazione delle armi. Il giorno dopo, appena i Sabini, che
già da molto tempo erano impazienti di venire alle armi, videro i Romani
schierarsi, uscirono anch'essi allo scoperto. Fu una di quelle battaglie in
cui si scontrano due eserciti
animati dalla stessa fiducia nelle proprie capacità: se infatti
questo poteva vantare un'antica e ininterrotta
gloria, quello aveva il morale alle stelle per l'ultima, ancora
recente vittoria. I Sabini accrebbero la loro pericolosità con un
ingegnoso stratagemma: dopo aver infatti disposto lo schieramento su un fronte che aveva
la stessa estensione di quello avversario, fecero uscire dai ranghi
2.000 uomini perché, durante la battaglia, assalissero il fianco sinistro
dell'esercito romano. Ma quando con un attacco laterale stavano quasi
per accerchiare e sopraffare l'ala dell'esercito nemico, i cavalieri di
due legioni romane, circa seicento, scendono da cavallo e si buttano nelle
prime file dove i loro stavano già indietreggiando; si oppongono al nemico
e nello stesso tempo infiammano gli animi dei fanti, prima
condividendone il pericolo, poi puntando sul sentimento dell'onore. Era infatti
vergognoso che il cavaliere combattesse la propria e l'altrui battaglia e che
il fante non fosse all'altezza neppure del cavaliere sceso da cavallo. 63 I fanti ritornano al combattimento
che dalla loro parte era stato abbandonato e riconquistano la posizione
dalla quale si erano ritirati. E in un attimo non solo vennero
ristabilite le sorti della battaglia, ma l'ala sabina fu costretta a ripiegare.
I cavalieri, coperti dalle linee della fanteria, rimontano a cavallo.
Arrivati al galoppo dall'altra parte dello schieramento, comunicano ai
compagni la notizia della vittoria e nel contempo caricano i nemici, già
in preda al panico per la rotta della loro ala più forte. In quella
battaglia nessuno brillò per valore più dei cavalieri. Il console pensava a tutto:
distribuiva elogi ai forti e urlava improperi se in qualche parte la lotta
era più fiacca. Gli uomini su cui cadeva il suo biasimo sùbito si
trasformavano in valorosi, ed erano spinti dalla vergogna, quanto gli altri dalle
lodi. Dopo aver di nuovo alzato tutti insieme il grido di guerra, con
uno sforzo comune misero in fuga il nemico. E da quel momento in poi non fu
più possibile contenere l'impeto dei Romani. I Sabini vennero dispersi
per le campagne circostanti, e lasciarono l'accampamento in preda agli
avversari, che lì non recuperarono, come sull'Algido, i beni
degli alleati, ma si ripresero i propri, perduti durante le incursioni
nei loro campi. Per la doppia vittoria riportata in due
battaglie diverse, il senato meschinamente decretò soltanto
un giorno di ringraziamenti ufficiali in nome dei consoli. Ma il popolo,
contrariamente a quanto era stato disposto, andò in gran numero a
pregare anche il giorno successivo. E questa spontanea manifestazione di
popolo fu, a causa dell'entusiasmo generale, quasi più affollata
dell'altra. I consoli, di comune accordo, rientrarono in città proprio in
quei due giorni, e convocarono il senato in Campo Marzio. Lì, mentre
discutevano delle loro imprese, i senatori più autorevoli si lamentarono che il senato
fosse stato convocato in mezzo alle truppe col preciso intento di
spaventarli. I consoli allora, per non dare adito ad accuse infondate,
spostarono la seduta nei prati Flamini, cioè là dove oggi
c'è il santuario di Apollo e che era già chiamato Apollinare. E qui, poiché i senatori
concordi volevano rifiutare il trionfo, il tribuno della plebe Lucio
Icilio portò di fronte al popolo la questione riguardante il trionfo dei
consoli, benché molti si facessero avanti per dissuaderlo e più di
tutti Gaio Claudio. Egli urlava che i consoli volevano celebrare un trionfo
non sui nemici ma sui patrizi, e quello che chiedevano non era un
riconoscimento al valore quanto piuttosto un favore in cambio di un servizio reso
ai tribuni a titolo del tutto privato. Mai prima si era discusso del
trionfo con il popolo; valutare il merito e decretare quell'onore era
stato sempre cómpito del senato. Neppure i re avevano osato privare di
quella prerogativa il più alto ordine dello Stato. Che i tribuni non
dilatassero l'estensione del proprio potere a tal punto da non permettere
più l'esistenza di nessuna pubblica assemblea. Solo se ciascun ordine
avesse mantenuto le prerogative garantite dalla legge e la propria
autorità, la città sarebbe stata finalmente libera e le leggi uguali per
tutti. Dopo gli interventi anche degli altri senatori più anziani
che parlarono prolissamente per sostenere la stessa tesi, tutte le tribù
votarono per la proposta del tribuno. Fu in quell'occasione che un trionfo, pur non
avendo avuto l'autorizzazione del senato, venne per la prima volta
celebrato per volontà del popolo. 64 Questa volta la vittoria conquistata
dai tribuni e dalla plebe per poco non degenerò in un pericoloso
stato di sfrenatezza. Infatti i tribuni raggiunsero in segreto un accordo in
base al quale i detentori di quella magistratura sarebbero stati
riconfermati in carica. E inoltre, per evitare che la loro sete di potere
risultasse evidente, stabilirono di rinnovare il mandato anche ai consoli.
Il pretesto che veniva addotto era l'accordo realizzato dai senatori i
quali, con l'offesa arrecata ai consoli, avevano attentato ai diritti
della plebe. Che cosa sarebbe successo se, quando le leggi non erano
ancora consolidate, i consoli, appoggiati dalla loro fazione, avessero
assalito i nuovi tribuni? Perché di certo i consoli non sarebbero sempre
stati uomini dello stampo di Valerio e Orazio, che anteponevano ai
propri interessi la libertà della plebe! Ma in quella circostanza una
fortunata concomitanza di eventi volle che a presiedere alle elezioni la sorte
chiamasse Marco Duillio, uomo prudente e capace di prevedere il
risentimento che la rielezione degli stessi magistrati avrebbe provocato.
Quando Duillio si rifiutò di prendere in considerazione la candidatura dei
tribuni in carica, i suoi colleghi diedero battaglia perché concedesse il
voto libero alle singole tribù, oppure cedesse l'incarico di presiedere
alle elezioni ai colleghi, che le avrebbero tenute attenendosi alle leggi
e non secondo le indicazioni dei senatori. Nell'accesa discussione che
seguì, Duillio convocò i consoli presso i banchi delle tribune e chiese
loro che intenzioni avessero riguardo alle elezioni consolari.
Siccome essi risposero che avrebbero eletto nuovi consoli, Duillio, avendo
trovato il sostegno popolare a una proposta certo non popolare, si
presentò all'assemblea in compagnia dei consoli. Lì, quando furono di
fronte al popolo, gli venne chiesto come si sarebbero comportati se il popolo
romano, memore della libertà riconquistata in patria grazie a loro
nonché dei successi militari, li avesse riconfermati in carica. Siccome
i consoli risposero che non sarebbero tornati sulla propria
decisione, Duillio prima li elogiò per la fermezza con la quale si erano fino
all'ultimo sforzati di non assomigliare ai decemviri, e quindi
tenne i comizi. Eletti cinque tribuni, poiché, per la palese brama a essere
rieletti di nove tribuni, nessun altro candidato ottenne i voti
necessari, Duillio sciolse la seduta, senza più riconvocarla per le
elezioni. Disse che si era agito nel pieno rispetto della legge la quale in
nessuna parte definiva il numero, prescriveva solo che fossero eletti dei
tribuni e imponeva che i neoeletti si scegliessero i colleghi. Diede
quindi lettura della formula prevista dalla legge che diceva: «Se
proporrò la nomina di dieci tribuni della plebe e se oggi voi qui eleggerete meno
di dieci tribuni, quelli che gli eletti avranno cooptato come colleghi
per questa stessa legge siano legittimi tribuni della plebe,
così come lo sono quelli che oggi voi chiamerete a ricoprire tale carica.»
Duillio, sostenendo fino alla fine che la repubblica non poteva avere
quindici tribuni della plebe, ed essendo nel contempo riuscito ad avere
ragione dell'ingordigia politica dei colleghi, uscì di carica
dopo essersi reso gradito tanto ai patrizi quanto ai plebei. 65 I nuovi tribuni nella cooptazione
dei colleghi assecondarono i desideri degli aristocratici; infatti scelsero
anche Spurio Tarpeio e Aulo Aternio, due nobili che in passato erano stati
consoli. Quanto poi ai nuovi consoli, Spurio Erminio e Tito
Verginio, entrambi privi di particolari inclinazioni nei confronti della plebe
o del patriziato, mantennero la pace in patria e all'estero. Il tribuno
della plebe Lucio Trebonio, risentito nei confronti dei patrizi
perché sosteneva di esser stato da loro tratto in inganno e tradito dai
colleghi nella cooptazione dei tribuni, propose una legge in base alla
quale chi avesse convocato la plebe romana alle elezioni dei tribuni
avrebbe dovuto continuare a presiedere la seduta fino a quando non
fossero stati eletti i dieci tribuni della plebe previsti. Trebonio,
per tutta la durata del suo mandato, incalzò i patrizi con
una tale insistenza che gli fu dato il soprannome di Aspro. I consoli successivi Marco Geganio
Macerino e Gaio Giulio sedarono le contese sorte tra i tribuni e i giovani
nobili, senza accanirsi contro il potere di quei magistrati e conservando
il prestigio dei senatori. Per evitare poi che la plebe si lasciasse
andare a episodi di violenza, sospesero la leva militare indetta per
la guerra contro Volsci ed Equi, affermando che, se in città
regnava la pace, anche all'estero tutto rimaneva tranquillo, mentre le
discordie intestine facevano alzare la testa ai popoli vicini. La salvaguardia
della pace fu causa anche della concordia interna. Ma una delle due
classi era sempre pronta a sfruttare la moderazione dell'altra. E fu
così che, mentre la plebe era quieta, i giovani patrizi cominciarono a
commettere soprusi. Quando i tribuni tentavano di spalleggiare i più
deboli, il loro intervento approdava a poco. Poi neppure i tribuni riuscivano
a sottrarsi alla violenza fisica, specie negli ultimi mesi del mandato,
perché i più potenti si coalizzavano per imporre l'ingiustizia, ma anche
perché il potere di ogni magistratura verso la fine dell'anno solitamente
s'indebolisce. Ormai la plebe poteva riporre qualche speranza nel tribunato
soltanto a condizione di avere tribuni come Icilio, ma negli ultimi
due anni si erano avuti solo dei tribuni di nome. Dal canto loro, i
patrizi più anziani, pur sapendo che i loro giovani erano troppo violenti,
preferivano che - se da qualche parte si doveva superare la misura - gli
eccessi di animosità li facessero registrare i loro piuttosto che gli
avversari. Nella lotta per difendere la libertà la moderazione
è veramente difficile: infatti, pur ostentando di volere una forma di equilibrio,
ciascuno tende a innalzare se stesso soffocando gli altri. Cercando poi di
non essere intimoriti, alla fine gli uomini si trasformano nell'oggetto
delle altrui paure. E mentre il sopruso ci disgusta, come se fosse inevitabile
o commetterlo o subirlo, finisce che siamo noi a fare dei torti agli altri. 66 Vennero poi eletti consoli Tito
Quinzio Capitolino, per la quarta volta, e Agrippa Furio. A costoro non
toccarono né disordini interni né conflitti all'esterno, benché sia gli
uni, sia gli altri incombessero. Infatti non era più possibile
contenere la discordia civile, visto il risentimento nutrito da plebe e tribuni
nei confronti degli aristocratici, e in considerazione del fatto che i
processi a carico di questo o di quell'altro nobile provocavano sempre
nuovi disordini che turbavano le assemblee. Non appena si verificarono i
primi contrasti, come se fossero stati un segnale, Volsci ed Equi
presero le armi; i loro comandanti, avidi di bottino, li avevano persuasi che a
Roma nel biennio precedente non era stato possibile indire la leva perché
la plebe rifiutava ormai ogni tipo di disciplina: per quel motivo non era
stato inviato alcun esercito contro di loro. La dissolutezza aveva ormai
sbriciolato ogni tradizione militare, e Roma non era più la patria
comune. Tutta la rabbia e il rancore che un tempo avevano nei riguardi degli
stranieri, ora li riversavano su se stessi. Quella era l'occasione per
sterminare quei lupi accecati da una rabbia che li spingeva l'uno contro
l'altro. Così, dopo aver unito i propri eserciti, Volsci ed Equi
cominciarono col devastare le campagne latine. Poi, quando videro che nessuno
accorreva in aiuto di quelle popolazioni, fra l'esultanza di quanti
avevano fomentato la guerra, di razzia in razzia, arrivarono fin sotto
le mura di Roma in direzione della porta Esquilina, e qui cominciarono a
sbeffeggiare gli abitanti indicando
loro le campagne devastate. Dopo che si furono ritirati impuniti procedendo a passo di marcia in
direzione di Corbione e con il bottino bene in vista alla testa dello
schieramento, il console Quinzio convocò l'assemblea del popolo. 67 Lì - almeno a quanto ho
trovato io - parlò in questi termini: «Benché io sia conscio di non aver alcuna
colpa, o Quiriti, ciononostante è con estrema vergogna ch'io mi presento al
cospetto di questa assemblea. Voi sapete, e un giorno verrà
tramandato ai posteri, che, durante il quarto consolato di Tito Quinzio, Volsci ed
Equi - un tempo appena all'altezza degli Ernici - sono giunti impunemente
fin sotto le mura di Roma con le armi in pugno. Benché ormai da tempo la
situazione sia tale da non lasciar presagire nulla di buono,
ciononostante, se solo avessi saputo che l'anno ci riservava un episodio così
funesto, avrei evitato questa ignominia, anche a costo di andare in esilio o di
togliermi la vita, ove non mi restassero altri mezzi per sottrarmi a
questa carica. Se fossero stati uomini degni di questo nome quelli che
si sono presentati con le armi in pugno di fronte alle nostre porte, Roma
avrebbe potuto esser presa sotto il mio consolato! Avevo avuto onori a
sufficienza e vita a sufficienza, anzi fin troppo lunga: avrei dovuto
morire durante il mio terzo consolato. Ma a chi hanno riservato il loro
disprezzo i nostri più vili nemici? A noi consoli, oppure a voi, o Quiriti? Se la
colpa è nostra, allora privateci di un'autorità della quale non
siamo degni. E se poi questo non basta, aggiungete anche una punizione. Se
invece la responsabilità ricade su di voi, l'augurio è che né gli
dèi né gli uomini vi facciano pagare i vostri errori, ma siate soltanto voi stessi a
pentirvene. I nemici non hanno disprezzato la codardia che è in
voi, ma nemmeno riposto eccessiva fiducia nel proprio coraggio. A dir la
verità è toccato loro molte volte di essere sbaragliati e messi in fuga, privati
dell'accampamento e di parte del territorio, nonché di passare sotto il
giogo, e conoscono voi e se stessi! No, sono la discordia delle classi e
gli eterni contrasti - vero veleno di questa città - tra patrizi e
plebei, che hanno risollevato il loro animo, perché noi non moderiamo il nostro
potere e voi la vostra libertà, voi siete insofferenti nei confronti dei
patrizi e noi nei confronti delle magistrature plebee. Ma in nome degli
dèi, cosa volete? Morivate dalla voglia di avere dei tribuni della
plebe, in nome della concordia sociale ve li abbiamo concessi. Desideravate i
decemviri: ne abbiamo autorizzato
l'elezione. Vi siete stancati dei decemviri, li abbiamo costretti ad abbandonare la carica. Continuavate a
odiarli anche quando erano ormai tornati dei privati cittadini, abbiamo
tollerato che uomini molto nobili e onorati venissero condannati a morte e
all'esilio. Poi vi è di nuovo venuta la voglia di eleggere dei
tribuni, li avete eletti, e di nominare consoli dei membri della vostra parte e
noi, pur sembrandoci ingiusto nei confronti dell'aristocrazia, siamo
arrivati al punto di vedere quella grande magistratura patrizia offerta in
dono alla plebe. L'intromissione dei tribuni, l'appello di fronte al
popolo, i decreti approvati dalla plebe e imposti al patriziato, i nostri
diritti calpestati in nome dell'eguaglianza delle leggi, tutto
abbiamo sopportato e sopportiamo. In che modo potranno mai avere fine i
contrasti? Verrà mai il giorno in cui sarà possibile avere una sola
città unita e considerarla la patria comune? Noi, che ne usciamo sconfitti, accettiamo
la situazione con animo più sereno di quanto non facciate voi, che
pure siete i vincitori. Non vi basta che noi dobbiamo temervi? Contro
di noi è stato preso l'Aventino, contro di noi è stato occupato
il monte Sacro. Abbiamo visto l'Esquilino quasi preso dal nemico e i Volsci
apprestarsi a scalare le mura di Roma: nessuno ha avuto il coraggio di andarli
a ricacciare indietro. Solo contro di noi voi siete dei veri uomini, solo
contro di noi impugnate le armi. 68 Forza dunque: visto che siete
riusciti ad assediare la curia, a trasformare il foro in una tana di
insidie e a riempire le patrie prigioni di uomini eminenti, dimostrate la
stessa audacia, uscite dalla porta Esquilina. Ma se non siete neppure
all'altezza di un gesto del genere, allora andate a vedere dall'alto delle
mura i vostri campi messi a ferro e fuoco, le vostre cose portate via e il
fumo degli incendi che sale qua e là nel cielo dalle case in
fiamme. Ma voi potreste obiettare che chi sta peggio è lo Stato, con le
campagne che bruciano, la città assediata e la gloria militare lasciata solo ai
nemici. E con questo? Credete che i vostri interessi privati non si trovino
nella stessa situazione? Presto dalla campagna arriverà a
ciascuno di voi la notizia delle perdite subite. Che cosa c'è qui in patria, in
grado di risarcirle? Ci penseranno i tribuni a restituirvi quel che avete
perduto? Vi prodigheranno a sazietà parole e chiacchiere, accuse contro
cittadini in vista, leggi su leggi e concioni. Ma da quelle concioni nessuno
di voi è mai tornato a casa più ricco di beni e di denaro. O c'è
mai stato qualcuno che abbia riportato a moglie e figli altro che risentimento,
antipatie e gelosie pubbliche e private dalle quali siete stati
protetti non certo per il vostro valore e la vostra integrità, ma per
l'aiuto ricevuto da altri? Ma, per Ercole, quando eravate al servizio di noi
consoli e non dei tribuni, e nell'accampamento invece che nel Foro,
quando il vostro urlo spaventava il nemico in battaglia e non i senatori
romani in assemblea, dopo aver fatto bottino e dopo aver conquistato terre
al nemico, tornavate a casa, ai vostri Penati, carichi di preda,
coperti di gloria e di successi conquistati per la patria e per voi
stessi! Ora invece permettete che i nemici se ne vadano carichi delle
vostre ricchezze. Tenetevele strette le vostre assemblee e continuate pure a
vivere nel Foro: ma la necessità di prendere le armi - da cui rifuggite -
vi incalza. Vi pesava marciare contro Equi e Volsci? Ora la guerra
è alle porte. Se non si riuscirà ad allontanarla, presto si
trasferirà all'interno delle mura e salirà fino alla rocca del Campidoglio,
perseguitandovi anche dentro le case. Due anni or sono il senato bandì una leva
militare e poi diede ordine di condurre le truppe sull'Algido: noi ora ce ne
stiamo qui oziosi, litigando come donnicciole, contenti della pace del
momento e incapaci di prevedere che da questo breve periodo di tregua la
guerra risorgerà mille volte più grande. So benissimo che ci sono cose
molto più piacevoli a dirsi. Ma a parlare di cose vere anziché di
gradite, anche se non mi ci inducesse il mio carattere, mi obbliga la
necessità. Vorrei davvero piacervi, o Quiriti, ma preferisco di gran lunga
vedervi sani e salvi, qualunque sia il sentimento che nutrirete in futuro
nei miei confronti. Dalla natura è stato disposto così: chi parla
in pubblico per interesse personale è più gradito di chi ha invece al vertice dei
suoi pensieri solo l'interesse dell'intera comunità; a meno che
per caso non crediate che tutti questi adulatori del popolo e questi demagoghi
che oggi non vi permettono né di combattere né di starvene tranquilli vi
incitino e vi stimolino nel vostro interesse. La vostra agitazione
è per loro titolo di merito o ragione di profitto; e siccome quando regna la
concordia tra le classi essi sanno di non essere nulla, preferiscono mettersi
a capo di tumulti e sedizioni, preferiscono fare azioni malvage
piuttosto che nulla. Se esiste una possibilità che alla fine tutto
ciò arrivi a disgustarvi e che vogliate tornare alle vostre abitudini di un
tempo e a quelle dei vostri antenati, rinunciando alle funeste innovazioni,
vi autorizzo a punirmi se nel giro di pochi giorni non sarò
riuscito a sbaragliare questi devastatori delle nostre campagne dopo averli sradicati
dall'accampamento, e a trasferire da sotto le nostre mura alle loro
città questa paura di un conflitto che ora vi paralizza.» 69 Raramente, in altre occasioni, il
discorso di un tribuno popolare ebbe presso la plebe un'accoglienza
più entusiastica di quella toccata allora alla durissima requisitoria del
console. Perfino i giovani, che in situazioni così critiche avevano
di solito nella renitenza alla leva l'arma più affilata contro il
patriziato, guardavano invece con impazienza alle armi e alla guerra. E siccome i
contadini fuggiti dopo essere stati depredati e feriti mentre si trovavano
nella campagna riferivano di atrocità ben più gravi di
quelle che erano sotto gli occhi, un'ondata di sdegno travolse l'intera città.
Quando si riunì il senato, a dir la verità tutti si voltarono verso Quinzio,
guardandolo come il solo vendicatore della maestà di Roma. I senatori
più autorevoli dichiararono che il suo discorso era stato all'altezza
dell'autorità consolare, degno cioè dei molti consolati detenuti in passato e
dell'intera sua vita, che era stata piena di riconoscimenti a lui spesso
tributati e anche più spesso da lui meritati. Altri consoli avevano in
passato o adulato la plebe tradendo la dignità dei senatori oppure,
insistendo in un'accanita difesa dei diritti della loro classe, avevano esasperato
la massa cercando a tutti i costi di soggiogarla; nel suo discorso Tito
Quinzio aveva tenuto conto della dignità dei senatori, della
concordia tra le classi e - soprattutto - della situazione di fatto. Implorarono
lui e il suo collega di prendere in mano le redini dello Stato e pregarono
i tribuni di predisporsi ad agire di conserva con i consoli, nel
tentativo di allontanare la guerra dalle mura di Roma, supplicandoli anche di
fare in modo che in circostanze così allarmanti la plebe accettasse di
obbedire ai senatori. Dissero inoltre che la patria comune, vedendo le
devastazioni nelle campagne e la città quasi stretta d'assedio, si rivolgeva
ai tribuni invocandone l'aiuto. All'unanimità venne quindi
decretata e sùbito messa in pratica la leva militare. Di fronte all'assemblea i
consoli proclamarono che non c'era tempo per valutare i motivi per
esentare dal servizio, e dunque i più giovani - nessuno escluso - dovevano
presentarsi in campo Marzio all'alba del giorno successivo; solo a guerra
finita si sarebbe trovato il tempo di valutare la giustificazione di chi non
era andato ad arruolarsi; e quanti avessero addotto delle motivazioni poi
giudicate non sufficientemente valide avrebbero ricevuto il
trattamento riservato ai disertori. Il giorno successivo tutti i giovani si
presentarono. Ciascuna coorte si scelse autonomamente i propri centurioni e due
senatori vennero posti al comando di ognuna di esse. Ho trovato che
questi preparativi furono portati a termine così rapidamente che,
nel corso di quella stessa giornata, le insegne furono prelevate dai questori
nell'erario, trasferite in Campo Marzio e di là, alla quarta ora
del giorno si misero in movimento. E il nuovo esercito, scortato
volontariamente da poche coorti di veterani, alla sera si accampò a dieci miglia
da Roma. Il giorno successivo venne avvistato il nemico, e gli accampamenti
vennero a trovarsi uno a ridosso dell'altro, nei pressi di Corbione. Il
terzo giorno, dato che i Romani erano in preda alla rabbia e gli altri
- che si erano già più volte ribellati - consci delle proprie colpe
e disperati, nessuno tentò di ritardare in alcun modo la battaglia. 70 Benché nell'esercito romano i due
consoli avessero la stessa autorità, tuttavia in quell'occasione Agrippa
lasciò il comando supremo al collega, il che è molto utile quando si
devono prendere decisioni di estrema importanza. E il prescelto Tito Quinzio
ricambiò il generoso gesto comunicando al collega, che si era
posto volontariamente in sottordine, i propri piani, e condividendone i
meriti, e considerandolo a lui pari ancorché ormai inferiore di grado.
Nello schieramento sul campo Quinzio tenne l'ala destra e Agrippa la
sinistra. Al luogotenente Spurio Postumio Albo fu affidato il centro, a capo
della cavalleria fu posto Publio Sulpicio, l'altro luogotenente. All'ala
destra la fanteria si batté con estremo accanimento, ma la resistenza
dei Volsci non fu da meno. Publio Sulpicio fece breccia con la cavalleria
nel centro dello schieramento nemico. Avrebbe potuto rientrare nei
ranghi dalla stessa parte e prima che il nemico avesse avuto il tempo di
riformare le linee sconvolte: invece ritenne più opportuno prendere i
Volsci alle spalle. Caricandoli da dietro avrebbe disperso in un attimo i nemici
atterriti da due attacchi simultanei se i cavalieri dei Volsci e
degli Equi, impegnandolo separatamente, non lo avessero
contenuto per un po'. Ma in quell'istante Sulpicio gridò che non c'era
più tempo da perdere e che sarebbero stati circondati e tagliati fuori dal resto
dei compagni, se con tutte le loro forze non avessero concluso quello
scontro tra cavallerie. Non sarebbe stato sufficiente mettere in fuga i
nemici permettendo che ne uscissero incolumi: dovevano distruggere uomini e
cavalli, in maniera tale che nessuno potesse rituffarsi nello
scontro e dare nuovo vigore alla battaglia. I nemici non potevano certo
tener loro testa, se prima la schiera compatta dei fanti aveva dovuto
cedere al loro sfondamento. Non aveva parlato a sordi. Con un'unica
carica i Romani sbaragliarono l'intera cavalleria nemica: dopo avere
disarcionato moltissimi cavalieri, li trafissero insieme ai cavalli,
servendosi delle lance. Fu questa la conclusione della battaglia equestre.
Dopo essersi sùbito buttati all'assalto della fanteria, mandarono
dei messaggeri ai consoli per riferir loro del successo ottenuto,
mentre il fronte nemico già stava per cedere. La notizia aumentò
l'ardire dei Romani che stavano avendo la meglio, e seminò lo scompiglio
tra le fila degli Equi in ritirata. La loro rotta cominciò nel centro dello
schieramento, nel punto in cui l'irruzione della cavalleria aveva sconvolto le
linee. Poi però anche l'ala sinistra cominciò a cedere di fronte al
console Quinzio. Sul versante destro lo sforzo fu tremendo. Qui il giovane e
prestante Agrippa, vedendo che la battaglia ovunque aveva esiti migliori
che dalla sua parte, strappò le insegne ai vessilliferi e
cominciò a brandirle lui stesso, gettandone anche qualcuna tra le linee compatte
dei nemici. Allora i suoi uomini, spinti dal timore della vergogna, si
rovesciarono sugli avversari, e così la vittoria fu uguale in ogni settore.
In quel momento arrivò da Quinzio la notizia che egli, ormai vincitore,
stava già minacciando l'accampamento nemico, ma non voleva assaltarlo prima
di aver ricevuto la notizia che anche all'ala sinistra le cose erano
finite per il meglio. Se Agrippa aveva già sbaragliato i nemici,
allora che andasse ad unire le truppe alle sue, perché nel medesimo momento l'intero
esercito potesse mettere le mani sul bottino. E il vittorioso Agrippa
raggiunse il collega vittorioso di fronte all'accampamento nemico e
lì ci fu uno scambio di congratulazioni. Messi in fuga in un baleno i pochi
rimasti a presidiare il campo, i due consoli senza far uso delle armi
irrompono nelle trincee e riconducono in patria l'esercito carico di un ingente
bottino, e che inoltre aveva recuperato i propri beni andati perduti
durante il saccheggio delle campagne. Da quanto sono riuscito ad
appurare, né i consoli richiesero il trionfo né il senato lo decretò;
non ci viene tramandato il motivo per il quale un simile riconoscimento fu dai
vincitori disdegnato o non sperato. Per quanto posso arguire, dopo
così tanto tempo, siccome il trionfo era stato negato dal senato ai consoli
Valerio e Orazio i quali, oltre ad aver sconfitto Volsci ed Equi, si erano
coperti di gloria anche nella guerra contro i Sabini, Agrippa e Quinzio si
vergognarono di chiederlo per un'impresa ch'era metà di
quella; se lo avessero ottenuto, poteva sembrare che si fosse tenuto conto più
degli uomini che dei meriti. 71 L'onorevole vittoria conseguita sui
nemici fu inquinata a Roma da un'infame sentenza del popolo in merito
ai territori degli alleati. I cittadini di Ardea e di Aricia erano
spesso giunti allo scontro per una fascia di terra la cui appartenenza era
controversa; stanchi delle molte reciproche sconfitte, scelsero quale
giudice il popolo romano. Presentatisi in città per
perorare le rispettive cause ed essendo stata convocata dai magistrati l'assemblea,
si ebbe un'accanita disputa. E quando, dopo esser stati prodotti i
testimoni, si era ormai prossimi alla convocazione delle tribù e al
voto da parte del popolo, Publio Scapzio, un plebeo piuttosto anziano, si
alzò a parlare e disse: «Se mi è concesso, o consoli, di parlare nell'interesse del
paese, io non permetterò che in questa causa il popolo commetta un
errore.» I consoli dissero che, inattendibile qual era, non c'erano
ragioni per ascoltarlo, e dato che continuava a sbraitare che si tradiva
l'interesse del paese, avevano ordinato di allontanarlo. Ma egli si
appellò ai tribuni. Questi, abituati quasi sempre a essere guidati dalla
plebe anziché a guidarla, concessero alla folla impaziente di sentire quello
che Scapzio aveva in mente di dire. Il vecchio cominciò
così a parlare dicendo di avere 83 anni e di aver militato proprio nella zona che in
quel momento era al centro del dibattito, e non da giovane, ma come
uno che al tempo della campagna di Corioli aveva già vent'anni di
servizio alle spalle. Per questo si riferiva a un episodio che, pur essendo
ormai caduto nel dimenticatoio perché successo così indietro
nel tempo, si era comunque impresso nella sua memoria: la terra oggetto della
disputa era stata parte del territorio dei Coriolani. Poi, una volta presa
Corioli, era per diritto di guerra diventata proprietà del popolo
romano. Si meravigliava quindi moltissimo della sfrontatezza con la quale Aricini
e Ardeati speravano di togliere al popolo romano - trasformandolo da
proprietario in giudice - una fascia di terra sulla quale essi non avevano mai
esercitato alcun tipo di diritto quando lo stato di Corioli era ancora
indipendente. Gli restava poco da vivere, tuttavia non si poteva
convincere che, dopo aver fatto la sua parte di soldato nel conquistare con le
armi quella terra, ora da vecchio non dovesse difenderla con la parola,
la sola forza rimasta a sua disposizione. Perciò invitava
vivamente il popolo a non danneggiare la propria causa solo per un inutile
pudore. 72 Quando i consoli si accorsero che
Scapzio non solo era ascoltato in silenzio, ma anche otteneva consenso,
chiamando a testimoni gli dèi e gli uomini che si stava per commettere
un'enorme ingiustizia, fecero venire i senatori più autorevoli. E
andando con loro in giro tra le tribù, pregavano che, come giudici, non si
macchiassero di una simile infamia e non dessero un esempio ancora peggiore
risolvendo quella causa a loro vantaggio. Ammesso che fosse lecito a
un giudice badare al proprio interesse, appropriandosi della terra
contesa essi non venivano a guadagnare più di quanto in
realtà perdevano, dato che si sarebbero alienati con un sopruso le simpatie
degli alleati: la loro reputazione e la loro affidabilità avrebbero
subito danni ben maggiori del prevedibile. Il fatto lo avrebbero riferito in
patria gli inviati, si sarebbe divulgato, avrebbe raggiunto le
orecchie di alleati e nemici, con dolore per i primi e gioia per i secondi.
Credevano forse che i popoli confinanti ne avrebbero ritenuto responsabile
Scapzio, un vecchio ciarlatano assembleare? Certo per questo aspetto
Scapzio sarebbe diventato famoso, ma il popolo romano avrebbe fatto la
figura del delatore per interesse e del rapinatore. E infatti quale giudice,
nell'àmbito di una causa privata, era mai arrivato ad aggiudicare a se stesso
l'oggetto della controversia? Neppure Scapzio in persona, pur avendo
ormai superato ogni limite di decenza, sarebbe stato capace di tanto. Queste erano le cose che senatori e
consoli si sgolavano a dire, ma l'avidità e Scapzio, che tale
avidità aveva scatenato, ebbero la meglio. Le tribù chiamate al voto
decisero che la fascia di terra era pubblica proprietà del popolo romano. Non
si esclude che l'esito sarebbe stato il medesimo se altri fossero stati i
giudici. Ma nel presente caso, la bontà della causa non attenuò per
nulla l'infamia della sentenza, che non sembrò meno vergognosa e amara agli Aricini e
agli Ardeati di quanto non lo fosse stata ai senatori romani. Il resto
dell'anno trascorse quieto, senza disordini in città e
all'esterno. LIBRO IV 1 A questi uomini successero i consoli
Marco Genucio e Gaio Curzio. Fu un anno difficile, sia in patria sia
fuori. Infatti, all'inizio dell'anno, il tribuno della plebe Gaio Canuleio
presentò una proposta di legge sul matrimonio tra patrizi e plebei, con la
quale i patrizi pensavano si contaminasse il loro sangue e si
sovvertissero i diritti gentilizi. Inoltre, fu suggerita - prima molto
cautamente da parte dei tribuni - un'altra proposta in base alla quale
sarebbe stato lecito che uno dei consoli fosse di estrazione plebea. Ma
la cosa prese in séguito una tale consistenza da spingere ben nove
tribuni a presentare una proposta di legge che garantiva al popolo la
facoltà di nominare i consoli scegliendoli sia fra la plebe, sia tra
i patrizi. E questi ultimi credevano che, se ciò fosse
accaduto, non solo alla più alta carica avrebbero avuto accesso i più
infimi, ma essa sarebbe stata del tutto tolta agli aristocratici per affidarla
ai plebei. Perciò fu per i patrizi un grande sollievo sentire che il popolo
di Ardea si era ribellato per l'infamia con la quale gli era stata
portata via la terra, che i Veienti avevano messo a ferro e fuoco le
campagne alla frontiera romana e che Volsci ed Equi stavano fremendo per la
fortezza di Verrugine: i patrizi preferivano una guerra dall'esito
magari funesto a una pace vergognosa. Perciò, esagerando ancor
più queste notizie - per far cessare, nell'agitazione di tante guerre, le
iniziative dei tribuni -, ordinano di organizzare le leve e di preparare la
guerra e le armi, con il massimo impegno e, se possibile, con ancor
maggiore sollecitudine di quella con cui erano state preparate sotto il
console Tito Quinzio. Allora Gaio Canuleio, in poche frasi, dice ai
senatori che i consoli, continuando a spaventare senza motivo, non sarebbero
riusciti, né a distogliere la plebe dal pensiero delle nuove leggi, né a
realizzare, finché lui era vivo, la leva militare, almeno non prima che la
plebe avesse espresso il proprio voto sulle proposte di legge presentate
da lui e dai suoi colleghi. Detto questo, convocò súbito
l'assemblea. 2 Nello stesso tempo i consoli
istigavano il senato contro il tribuno, e il tribuno il popolo contro i consoli.
Questi ultimi sostenevano che non era possibile tollerare più a
lungo i colpi di testa dei tribuni: si era ormai arrivati a toccare il limite
estremo e c'erano più focolai di guerra all'interno della città che
all'esterno. E se adesso le cose stavano così, la colpa era tanto della plebe quanto
del patriziato e tanto dei tribuni quanto dei consoli. In ogni paese si
sviluppa col massimo incremento ciò che viene ricompensato: così,
sia in pace che in guerra, si formano i buoni cittadini. Ma a Roma ciò
che aveva maggiore successo erano le sedizioni: da sempre esse tornavano ad
onore sia dei singoli che della moltitudine. Che ricordassero la
maestà del senato quale l'avevano ricevuta dai loro padri e quale
l'avrebbero consegnata ai figli, e come invece la plebe potesse vantarsi di
aver accresciuto la propria autorità e importanza. Né si intravedeva una fine
a questo, nemmeno per il futuro, finché le sedizioni avessero continuato
ad aver fortuna e i loro autori avessero continuato a ricevere tanti
riconoscimenti. Quali iniziative aveva preso Gaio Canuleio, e quanto
importanti! Cercava di mescolare il sangue delle famiglie aristocratiche,
di creare confusione negli auspici pubblici e privati, perché niente di
puro, niente di incontaminato si salvasse, così che, soppressa
ogni distinzione, nessuno potesse essere in grado di riconoscere se stesso e i
suoi. Perché quale altro effetto possono avere i matrimoni misti, se non
la diffusione di accoppiamenti, come tra animali, di patrizi e plebei?
Così i figli nascendo non avrebbero saputo qual era il loro sangue, quale
il loro culto; sarebbero stati per metà patrizi e per metà
plebei, senza trovare accordo neppure dentro di loro. Ma che fosse completamente
sconvolto l'ordine delle cose divine e di quelle umane sembrava ancora poco: i
sobillatori del volgo puntavano già al consolato. E mentre in un primo tempo
avevano cercato di ottenere solo coi discorsi che uno dei consoli fosse
plebeo, ora presentavano la proposta che fosse il popolo a
eleggere, a suo piacimento, i consoli tra i patrizi o tra i plebei. E senza dubbio
avrebbero sempre eletto tra la plebe i più facinorosi: dunque
sarebbero diventati consoli dei Canulei e degli Icili. Ma Giove Ottimo Massimo
non avrebbe permesso che una carica investita di regale maestà
cadesse così in basso. Essi sarebbero morti mille volte piuttosto di tollerare che
si commettesse una simile infamia. Erano sicurissimi che anche i loro
antenati, se avessero potuto prevedere che, assecondando ogni richiesta della
plebe, l'avrebbero resa non più mite ma solo più dura, e che
alle prime concessioni avrebbero fatto séguito nuove e sempre più
ingiuste pretese, all'inizio avrebbero accettato di affrontare qualsiasi
scontro piuttosto che subire l'imposizione di quelle leggi. Ma
siccome avevano ceduto allora sulla questione dei tribuni, si dovette
cedere altre volte. I cedimenti non potevano aver fine se nella stessa
città continuavano a coesistere tribuni della plebe e patrizi: bisognava
eliminare quella classe o quella magistratura; bisognava opporsi -
meglio tardi che mai - all'arroganza e alla temerarietà. Com'era
possibile che, dopo aver fatto scoppiare le guerre con i vicini a forza di seminare
zizzania, avessero poi impedito alla città di armarsi per
difendersi dalle guerre che loro avevano fatto scoppiare? O ancora che, dopo aver
quasi invitato i nemici, in séguito non avessero permesso che si arruolassero
gli eserciti per affrontarli? E che Canuleio fosse così sfrontato da
dichiarare in senato che se i patrizi avessero impedito l'approvazione delle
leggi da lui proposte, come se fossero quelle di un trionfatore,
avrebbe impedito la realizzazione della leva militare? Cos'altro era quella se
non la minaccia di tradire il proprio paese, accettando che subisse
un attacco e finisse in mani nemiche? Quelle parole sì
sarebbero state un bell'incoraggiamento, ma non per la plebe, per Volsci, Equi e Veienti;
non avrebbero forse sperato di salire fino sul Campidoglio e sulla
cittadella con Canuleio alla testa? Se insieme ai diritti e alla
dignità i tribuni non avevano sottratto ai patrizi anche il coraggio, allora i
consoli erano pronti a guidare la lotta contro le scelleratezze dei
concittadini, prima ancora che contro le armi dei nemici. 3 Proprio mentre in senato era in pieno
svolgimento il dibattito su questi temi, Canuleio pronunciò questo
discorso in difesa delle sue proposte di legge e contro i consoli: «Quanto i
patrizi vi odino, o Quiriti, e come vi considerino indegni di vivere accanto a
loro all'interno delle mura di una stessa città, a esser sincero mi
sembra di averlo già rilevato più volte in passato. E ora più che mai,
poiché i patrizi dimostrano un livore senza precedenti nei confronti delle nostre
proposte di legge; ma noi cosa facciamo con esse se non avvertirli che
siamo loro concittadini e che, pur non avendo pari ricchezze, abitiamo
nella medesima patria? Con uno dei provvedimenti chiediamo il diritto a
quel matrimonio che si suole concedere ai popoli confinanti e agli
stranieri; noi abbiamo assicurato anche ai nemici vinti la cittadinanza,
che è ben più del diritto al matrimonio. Con il secondo non
chiediamo nulla di nuovo, ma ci limitiamo a esigere e rivendicare un diritto del
popolo, e cioè che il popolo romano possa eleggere i candidati che preferisce.
Ma allora per quali ragioni i patrizi hanno deciso di mettere
sottosopra cielo e terra? E perché mai poco fa io sono stato quasi assalito in
senato? Perché hanno dichiarato di non voler limitare il ricorso alla
forza, minacciando di violare la nostra sacrosanta autorità? Se al
popolo romano fosse garantita la libertà di voto, così che possa affidare il
consolato a chi desidera, e se anche il plebeo non fosse privato della speranza
di assurgere ai massimi onori - qualora ne fosse degno -, credete che
la stabilità di questo nostro paese risulterebbe compromessa? È la
fine per lo Stato romano? Che un plebeo possa diventare console, equivale forse
a dire che un console diventerà un liberto o un servo? Ma vi rendete conto
in mezzo a quanto disprezzo vivete? Se solo potessero, vi
porterebbero via anche parte della luce del giorno! Non sopportano che respiriate,
che parliate e che abbiate forma umana, e arrivano - pensate un po'! - a
definire sacrilega l'elezione di un console plebeo. Ora, ditemi, anche
se noi del popolo non siamo ammessi alla consultazione dei Fasti e dei
libri tenuti dai pontefici, forse per questo ignoriamo quello che anche gli
stranieri sanno, e cioè che i consoli presero il posto dei re e che
non hanno alcun diritto o autorità che non siano già stati dei re?
Pensate che nessuno abbia sentito parlare di Numa Pompilio, che, pur non essendo
patrizio e nemmeno cittadino romano, fu chiamato dalle campagne
della Sabina per volontà del popolo e regnò su Roma col beneplacito
dell'aristocrazia? Oppure che in séguito Lucio Tarquinio, il quale non
apparteneva a una stirpe romana né italica, figlio di Demarato di Corinto e immigrato
da Tarquinia, fu eletto re, anche se i figli di Anco erano ancora
vivi? O che dopo di lui Servio Tullio, figlio di una prigioniera di
Cornicolo, di padre ignoto e con una schiava per madre, riuscì a
reggere il regno grazie soltanto al suo ingegno e al suo valore? Per non
parlare di Tito Tazio, associato al potere da Romolo in persona, il padre
di questa città! Quando non si disdegnava alcuna stirpe nella quale
brillasse qualche virtù, la potenza di Roma continuò a crescere. E
ora non dovrebbe andarvi a genio un console plebeo, quando i nostri antenati non
rifiutarono re venuti da fuori e neppure dopo la cacciata dei re la
città chiuse le porte alla virtù straniera? Prendete la famiglia Claudia
che veniva dai Sabini: dopo la cacciata dei re, non solo l'abbiamo
accolta in città, ma l'abbiamo anche inclusa nel novero dei patrizi. Dunque
uno straniero può diventare prima patrizio e poi console, e invece un
cittadino romano, se proviene dalla plebe, sarà privato della
speranza di arrivare al consolato? Dobbiamo forse ritenere impossibile che un uomo
forte e coraggioso in pace e in guerra, simile a Numa, a Lucio Tarquinio
e a Servio Tullio, sia di estrazione plebea? Oppure, se ve ne
fosse uno, gli impediremo di arrivare al timone dello Stato e dovremo avere
consoli simili ai decemviri - i più turpi tra gli uomini, pur provenendo
tutti dai patrizi -, invece che simili ai migliori tra i re, anche se
venuti dal nulla? 4 Ma, in realtà, dai tempi della
cacciata dei re nessun plebeo è mai stato console. E allora? Non si deve
introdurre nessuna novità? E ciò che non è ancora stato fatto - e in un paese recente
le cose non ancora fatte sono certo moltissime - non bisogna farlo
nemmeno se è utile? Ai tempi del regno di Romolo non esistevano né
pontefici né àuguri: fu Pompilio a crearli. Non c'era censo né divisione
in centurie basata sul censo: li introdusse Servio Tullio. Non c'erano
mai stati dei consoli: furono creati dopo la cacciata dei re. Il nome e il
potere del dittatore non c'erano: cominciarono a esserci al tempo dei nostri
padri. Non esistevano né tribuni della plebe né edili, né
questori: si stabilì di averne. Nell'arco degli ultimi dieci anni, abbiamo eletto
decemviri incaricati di redigere le leggi e poi li abbiamo allontanati
dalla repubblica. Chi potrebbe dubitare che, in una città
fondata per durare in eterno e che cresce smisuratamente, si debbano istituire
nuovi poteri, nuovi sacerdoti e nuovi diritti delle genti e dei singoli
uomini? Questo stesso divieto di contrarre matrimoni tra patrizi e
plebei non lo introdussero i decemviri qualche anno or sono, causando pessimi
effetti sulla comunità e danneggiando ingiustamente la plebe?
Esiste forse affronto più grande e infamante di questo che considera una
parte della popolazione indegna del matrimonio, come se fosse infetta? Che
cos'è questa se non una segregazione all'interno delle mura
della propria città? I patrizi fanno di tutto per evitare che intrecciamo
rapporti con loro di affinità e di parentela, non vogliono che si mescoli
il sangue. E che? Se un simile contatto è in grado di
contaminare questa vostra nobiltà - che la maggior parte di voi, date le origini albane e
sabine, non possiede per lignaggio o per sangue, ma per essere stata
cooptata nel patriziato, o scelta dai re o per volontà del popolo dopo la
cacciata dei re -, non potevate mantenerla intatta con accorgimenti
privati, non prendendo in moglie donne plebee e impedendo che le vostre figlie
e sorelle sposassero uomini estranei all'aristocrazia? Nessun
plebeo violenterebbe mai una ragazza patrizia: è una libidine tipica
dei nobili. Nessuno costringerebbe un altro a stipulare un contratto
matrimoniale contro la sua volontà. Ma impedire con la legge matrimoni tra
patrizi e plebei, annullare quelli già celebrati, questo sì che
è un vero affronto alla plebe! Perché allora non proponete che non ci sia diritto di
matrimonio tra poveri e ricchi? Ciò che sempre e dovunque si è
lasciato alla decisione privata - ossia che una donna andasse in sposa nella casa dove
si era convenuto e che l'uomo potesse prendere moglie dalla casa in
cui aveva stretto l'accordo - voi volete assoggettarlo ai vincoli di una
legge dispotica, per creare una frattura all'interno della
società, spaccando in due lo Stato. Perché non decretate che il plebeo non possa stare
accanto al patrizio, non possa camminare per la stessa strada, non
possa sedersi alla stessa tavola né trovarsi nello stesso foro? Che
differenza ci può mai essere se un patrizio sposa una plebea o un plebeo
una patrizia? Contro quale diritto si andrebbe? I figli seguono naturalmente
i padri. Volendoci unire in matrimonio con voi, non chiediamo altro
che far parte del consesso umano e civile, e voi non avete nessuna buona
ragione per impedircelo, a meno che vi piaccia gareggiare a chi ci
oltraggia e ci umilia di più. 5 Ma infine il supremo potere
appartiene al popolo romano o a voi? La cacciata dei re ha fruttato la
tirannide a voi o un'uguale libertà a tutti? Al popolo romano, se questo
è il suo desiderio, deve essere consentito di votare una legge, oppure,
ogni qualvolta verrà presentata una nuova proposta, voi per reazione
indirete una leva militare? E non appena io, in qualità di
tribuno, chiamerò le tribù al voto, tu súbito, in qualità di console, costringerai
i più giovani a prestare il giuramento militare e li porterai al campo,
distribuendo minacce alla plebe e ai suoi tribuni? Che cosa succederebbe se non
aveste già sperimentato per ben due volte quanto poco valgano queste minacce
di fronte al consenso unanime della plebe? È - vero che avete
evitato di scontrarvi per venire incontro alle nostre esigenze, oppure non si
è combattuto perché la parte più forte era anche la più moderata? Non
ci sarà scontro neppure adesso, o Quiriti: i patrizi continueranno sempre a
saggiare il vostro coraggio, ma non arriveranno mai a mettere alla prova la
vostra forza. Perciò, o consoli, la plebe è pronta ad affrontare
queste guerre - vere o false che siano -, solo se voi, ripristinato il diritto al
matrimonio, finalmente riunirete questa città; se i plebei
potranno fondersi, unirsi e mescolarsi con voi in base a legami privati di parentela;
se ad uomini valorosi e forti sarà data la speranza di accedere alle
cariche pubbliche; se sarà consentito a tutti di partecipare alla gestione
della cosa pubblica; se, uguali nella libertà, si avrà
l'opportunità di governare e di obbedire a turno, secondo l'avvicendamento annuale delle
magistrature. Se qualcuno dovesse respingere queste condizioni, voi
consoli potrete parlare di guerre e moltiplicarle coi vostri discorsi:
nessuno di noi andrà a iscriversi, nessuno imbraccerà le armi,
nessuno combatterà per dei padroni arroganti, coi quali non ha nulla in comune: né
riconoscimenti nella vita pubblica, né matrimoni in quella privata.» 6 Anche i consoli si erano presentati a
parlare in assemblea e qui, dopo interminabili interventi, il dibattito
si trasformò in un alterco. Al tribuno che chiedeva perché mai un
plebeo non dovesse diventare console, Curiazio - forse giustamente, ma poco
opportunamente date le circostanze -, rispose che nessun plebeo aveva il
diritto di prendere gli auspici e che per questo i decemviri avevano
vietato i matrimoni misti, perché gli auspici non fossero turbati in caso di
discendenza incerta. Di fronte a queste parole, presa da grande
indignazione, la plebe s'infiammò, perché le si negava la possibilità di
trarre gli auspici, come se fosse in odio agli dèi immortali. Siccome la
plebe, che aveva trovato nel tribuno un difensore accanito della causa comune,
gareggiava con lui in ostinazione, lo scontro si concluse solo quando i
patrizi cedettero, accettando finalmente una proposta di legge sul
diritto di matrimonio; essi erano pienamente convinti che in tal modo i
tribuni avrebbero abbandonato definitivamente la questione dei
consoli plebei o almeno l'avrebbero rimandata alla fine della guerra, e che
la plebe, soddisfatta per il diritto di matrimonio, sarebbe stata
disposta ad arruolarsi. Essendo cresciuto molto il prestigio di
Canuleio per la vittoria sui patrizi e per il favore della plebe,
gli altri tribuni, incoraggiati alla lotta, si impegnano con tutte le forze
per far passare la loro proposta e impediscono la leva, benché ogni giorno
di più prendano consistenza le voci di guerra. I consoli, non potendo per
il veto dei tribuni far prendere deliberazioni al senato,
tenevano riunioni private con i membri più autorevoli. Era chiaro che
sarebbe stato inevitabile lasciare la vittoria o ai nemici o ai concittadini.
Tra gli ex-consoli soltanto Valerio e Orazio non prendevano parte a
quelle riunioni. Gaio Claudio parlava di armare i consoli contro i
tribuni, mentre i due Quinzi, Cincinnato e Capitolino, erano
assolutamente contrari a uccidere e usare violenza contro coloro che, in
virtù del patto stipulato con la plebe, avevano dichiarato sacri e inviolabili.
A séguito di queste riunioni si arrivò ad accordare l'elezione
di tribuni militari con potere consolare, da scegliersi indifferentemente tra
patrizi e plebei, mentre nulla doveva essere mutato per quanto riguardava
l'elezione dei consoli. Di questo furono contenti i tribuni e la plebe.
Vengono quindi indetti i comizi per l'elezione di tre tribuni con potere
consolare. Non appena ne fu annunciata la data, tutti quelli che
avevano detto o fatto qualcosa di sedizioso (e soprattutto gli
ex-tribuni), cominciarono a sollecitare la gente e, vestiti col bianco dei candidati,
andarono in giro per tutto il foro a caccia di voti. E lo fecero per
scoraggiare i patrizi che, in primo luogo non avevano alcuna speranza di
raggiungere quella carica per via dell'irritazione della plebe, e poi
erano indignati all'idea di dover dividere la magistratura con loro. Ma
alla fine furono costretti dai loro membri più autorevoli a scendere
in gara per non dar l'impressione di aver rinunciato al controllo della cosa
pubblica. L'esito delle elezioni dimostrò come sia diverso il
comportamento degli uomini quando lottano per la libertà e l'onore rispetto a
quando giudicano a mente fredda gli eventi, una volta deposte le contese.
Il popolo infatti elesse tre tribuni, tutti patrizi, bastandogli che
l'opinione dei plebei fosse stata presa in considerazione. Ma oggi dove
si potrebbe trovare in un solo individuo quel senso di equità,
quella moderazione e quella nobiltà d'animo che allora erano nell'intera
popolazione? 7 Nell'anno 310 dalla fondazione di
Roma, per la prima volta, entrano in carica, al posto dei consoli, i tribuni
militari: si chiamavano Aulo Sempronio Atratino, Lucio Atilio e Tito
Clelio. Durante il loro mandato, la concordia interna garantì la pace
anche all'esterno. Alcuni autori, sulla base di una guerra con Veio
venutasi ad aggiungere a quelle con Volsci ed Equi nonché alla ribellione
degli Ardeati, sostengono che i tre tribuni militari furono eletti proprio
perché i due consoli non sarebbero stati in grado di far fronte
contemporaneamente a tanti conflitti, e non fanno alcun accenno alla proposta di
legge sull'elezione di consoli plebei, pur menzionando però che
i tribuni ebbero l'autorità e le insegne dei consoli. In ogni caso, la nuova
magistratura non poggiava ancora su basi sicure perché, a soli tre mesi di
distanza dal giorno dell'investitura, i tre dovettero
rinunciare alla carica per decreto degli àuguri, come se la loro nomina
non fosse regolare, in quanto Gaio Curiazio, che aveva presieduto alle
elezioni, non aveva scelto il luogo giusto per la tenda augurale. Da Ardea arrivarono a Roma ambasciatori
per lamentarsi del torto subito; facevano però capire che, se
fosse stata loro restituita la terra, avrebbero continuato a essere alleati e
amici dei Romani. Il senato rispose loro di non avere la
facoltà di abrogare una sentenza del popolo, e non soltanto per la mancanza di
precedenti e di autorità specifica, ma anche a causa dell'armonia tra le
classi: se gli Ardeati volevano aspettare l'occasione propizia
affidando al senato la facoltà di decidere il modo con cui ripagarli dell'offesa
subita, un giorno si sarebbero rallegrati di aver controllato il
proprio risentimento e avrebbero capito quanto ai senatori stesse a cuore che
non si commettesse alcuna ingiustizia nei loro confronti, e che
quella che già c'era stata non durasse a lungo. Così, dopo aver
assicurato che avrebbero riferito la cosa nei particolari, gli ambasciatori
vennero cortesemente congedati. Siccome la repubblica era priva di
magistrature curuli, i patrizi si riunirono e nominarono un interré.
L'interregno durò parecchi giorni, perché non si riusciva a decidere se si
dovessero nominare i consoli o i tribuni militari. L'interré e il senato
volevano che si eleggessero i consoli, e invece i tribuni della plebe
e la plebe volevano i tribuni. Ebbero la meglio i senatori, sia perché
la plebe, che era disposta a dare entrambe le cariche ai patrizi, si
astenne dall'inutile lotta, sia perché i membri più autorevoli della
plebe preferivano i comizi dai quali erano esclusi come candidati a quelli in cui
potevano essere lasciati da parte come indegni. Anche i tribuni della
plebe abbandonarono una lotta per loro inutile per procurarsi un titolo di
merito di fronte ai senatori più eminenti. L'interré Tito Quinzio
Barbato nomina quindi consoli Lucio Papirio Mugillano e Lucio Sempronio
Atratino. Durante il loro consolato venne rinnovato il trattato con gli
Ardeati. Proprio questo episodio è l'unica prova che essi furono consoli
in quell'anno, visto che non se ne trova menzione negli antichi annali né
nelle liste dei magistrati. Personalmente credo che, essendoci i
tribuni militari all'inizio dell'anno, i nomi dei consoli eletti al
loro posto non sono stati registrati, come se i tribuni fossero
rimasti in carica per l'intera durata dell'anno. Licinio Macro attesta
che i nomi di quei consoli erano sia nel trattato con gli Ardeati sia
nei libri lintei conservati nel tempio di Giunone Moneta. La situazione
rimase tranquilla sia in città che all'esterno, nonostante le frequenti
minacce delle popolazioni dei dintorni. 8 Sia che ci fossero stati solo
tribuni, sia che i tribuni fossero stati successivamente sostituiti da consoli,
a quell'anno ne seguì un altro in cui si ebbero i consoli Marco Geganio
Macerino, per la seconda volta, e Tito Quinzio Capitolino, per la quinta.
Quello stesso anno vide l'avvio
della censura, carica modesta in origine, ma che acquistò in
séguito un tale prestigio da sottoporre alla
propria autorità il controllo dei costumi e della condotta dei Romani,
così come il giudizio sulla rettitudine o meno del senato e delle
centurie dei cavalieri. Ma alla discrezione di chi deteneva questa
carica erano affidati anche il diritto decisionale sulle proprietà
pubbliche e private e la cura dell'approvvigionamento alimentare del
popolo romano. La censura si era resa necessaria non solo perché non si
poteva più rimandare il censimento che da anni non veniva più
fatto, ma anche perché i consoli, incalzati dall'incombere di tante guerre, non
avevano il tempo per dedicarsi a questo ufficio. Fu presentata in senato
una proposta: l'operazione, laboriosa e poco pertinente ai consoli,
richiedeva una magistratura apposita, alla quale affidare i compiti
di cancelleria e la custodia dei registri e che doveva stabilire le
modalità del censimento. E pur trattandosi di una carica modesta, i
senatori la accolsero contenti perché avrebbe incrementato il numero di
magistrati patrizi all'interno della repubblica e inoltre, com'è mia
opinione per altro confermata da quello che accadde poi, perché pensavano che
in poco tempo il prestigio delle persone che la detenevano avrebbe
aggiunto alla carica autorità e rispettabilità. E anche i
tribuni, considerando quella magistratura più necessaria che onorifica - come infatti
era in quel tempo -, per evitare un inopportuno ostruzionismo in
questioni di poco conto, non fecero alcuna opposizione. Siccome i cittadini
più autorevoli disdegnarono la carica, il popolo decretò di affidare il
censimento a Papirio e a Sempronio (sul consolato dei quali persistono dubbi),
in maniera tale che con quella magistratura potessero integrare un
consolato incompleto. Dalla loro funzione presero il nome di censori. 9 Mentre a Roma succedevano queste
cose, arrivarono da Ardea ambasciatori a implorare aiuto per la loro
città sull'orlo della rovina, in nome dell'antichissima alleanza e del
trattato rinnovato di recente. Infatti non godevano più della pace,
saggiamente mantenuta invece con il popolo romano, a causa di una guerra civile
originata, per quel che se ne sa, dalla rivalità tra le fazioni,
che, per buona parte dei popoli, furono e saranno ben più esiziali delle
guerre esterne, delle carestie, delle pestilenze, e di tutte le altre cose,
calamità e pubblici disastri che vengono attribuiti all'ira divina. Una
ragazza di origini plebee, famosa per la sua bellezza, aveva due giovani
pretendenti: uno era della stessa condizione e contava sull'appoggio dei
tutori di lei, anch'essi della stessa classe, l'altro, nobile, era
attratto esclusivamente dalla bellezza. La causa di quest'ultimo era
appoggiata dal favore degli ottimati, e così la lotta tra
fazioni entrò anche nella casa della ragazza. La madre preferiva il nobile
perché voleva per sua figlia il più sontuoso dei matrimoni; i tutori,
invece, pensando anche in quella circostanza in termini di parte,
sostenevano il pretendente plebeo. Siccome la cosa non poté essere risolta
tra le mura domestiche, si ricorse al tribunale. Dopo aver ascoltato le
ragioni della madre e dei tutori, i magistrati stabilirono che spettasse
alla madre decidere ciò che riteneva più giusto riguardo alle nozze.
Ma la violenza ebbe il sopravvento. I tutori infatti, dopo aver arringato in
pieno foro gli uomini della loro parte, mettendo l'accento
sull'iniquità del verdetto, formarono un gruppo e rapirono la ragazza dalla casa della
madre. Contro di loro mosse una schiera di patrizi ancora più
inferociti e guidati dal giovane fuori di sé per l'oltraggio subito. Lo scontro fu
durissimo. La plebe respinta - in niente simile alla plebe romana - esce
armata dalla città, occupa un colle e di lì opera incursioni nelle
terre dei patrizi, le mette a ferro e fuoco. La plebe si prepara ad assediare
la città: l'intera corporazione degli artigiani, compresi quelli che
fino ad allora non avevano preso parte agli scontri, era stata
richiamata dalla speranza di bottino. E non mancava nessuno degli orrori bellici,
come se la città fosse stata contagiata dalla rabbia dei due giovani
che cercavano nozze funeste dalla rovina del loro paese. A nessuna delle
due parti parve che in patria ci fossero già abbastanza armi e
guerra: gli ottimati chiamarono i Romani in aiuto della città assediata, i
plebei si rivolsero ai Volsci per conquistare Ardea con il loro sostegno.
I Volsci comandati da Equo Cluilio arrivarono per primi ad Ardea e
costruirono una trincea davanti alle mura nemiche. Quando a Roma arrivò la
notizia, il console Marco Geganio partì immediatamente con l'esercito e, giunto a
tre miglia di distanza dal nemico, scelse un luogo adatto per
porre l'accampamento; poi, siccome stava rapidamente calando la notte,
diede ordine ai soldati di riposarsi. Alle tre di notte, si mise in movimento
e, iniziata la costruzione di una trincea, la completò così
velocemente che al sorgere del sole i Volsci si resero conto di essere stati circondati
dai Romani con una fortificazione più solida di quella da loro costruita
intorno alla città. In un settore il console aveva poi aggiunto un
terrapieno collegato alle mura di Ardea, in maniera tale che i suoi potessero
andare e venire dalla città al campo. 10 Il comandante dei Volsci, che fino ad
allora aveva sfamato i suoi col frumento preso giorno per giorno
razziando le campagne circostanti e non con scorte accumulate in precedenza,
quando, circondato dal vallo, all'improvviso si trovò del
tutto privo di risorse, invitò il console a colloquio e gli disse che, se i Romani
erano lì per liberare Ardea dall'assedio, lui avrebbe portato via i
Volsci. Il console replicò che i vinti devono subire le condizioni e non
dettarle. I Volsci erano venuti ad assediare gli alleati del popolo romano
di loro spontanea volontà, però ora non potevano andarsene nella stessa
maniera. Ordinò che consegnassero il comandante e che deponessero le
armi, dichiarandosi vinti e obbedienti ai suoi ordini. In caso contrario lui
sarebbe stato un nemico pericoloso sia per chi se ne andava, sia per chi
rimaneva, deciso com'era a riportare a Roma una vittoria sui Volsci
piuttosto che una pace incerta. I Volsci, non avendo altre vie d'uscita,
tentarono l'unica cosa che restava da fare, lo scontro armato. Siccome, oltre a
tutti gli altri svantaggi, si trovavano in un luogo poco adatto al
combattimento e ancor meno alla fuga, vennero massacrati da ogni parte.
Abbandonata la lotta per implorare invece salvezza, dopo aver consegnato
il comandante e cedute le armi, furono fatti passare sotto il giogo e
quindi, con addosso un solo indumento per ciascuno, rimandati in
patria carichi di vergogna per la disfatta. Accampatisi non lontano da
Tuscolo, inermi com'erano, furono sopraffatti dai Tuscolani, che da lungo
tempo li odiavano. Così dura fu la punizione che quasi non rimasero
superstiti a riferire la notizia del disastro. Ad Ardea il console romano
ristabilì l'ordine sconvolto dalla sedizione, facendo decapitare i capi e
confiscando i loro beni a beneficio dell'erario degli Ardeati. Questi
pensavano che il grande servigio prestato loro dal popolo romano avesse
riparato l'affronto del verdetto relativo alla terra contesa; ciò
nonostante al senato di Roma sembrava che ci fosse ancora qualcosa da fare per
cancellare il ricordo di quella avidità dello Stato romano. Il
console tornò a Roma in trionfo, facendo camminare davanti al suo carro il
comandante dei Volsci Cluilio e mettendo in mostra le spoglie strappate
all'esercito nemico che, disarmato, era stato da lui costretto a passare sotto
il giogo. Il console Quinzio, rimasto in patria,
riuscì ad eguagliare, cosa non facile, i riconoscimenti ottenuti dal
collega in campo militare: ebbe cura della pace e della concordia interne,
regolando i diritti dei cittadini dal ceto più umile al più
alto in modo tale che i patrizi lo considerarono un console energico e i plebei
abbastanza moderato. E anche nei rapporti coi tribuni ricorse alla sua
autorità piuttosto che allo scontro aperto. Cinque consolati esercitati sempre
nello stesso modo e tutta una vita degna di un console facevano sì
che l'uomo imponesse maggiore rispetto della carica. Perciò, durante
quel consolato, non si fece alcun accenno a tribuni militari. 11 Furono eletti consoli Marco Fabio
Vibulano e Postumio Ebuzio Corniceno. Questi due magistrati si rendevano
conto di succedere a uomini che si erano coperti di gloria con imprese
compiute in patria e fuori, e soprattutto giudicavano che l'anno
trascorso sarebbe rimasto memorabile, per i vicini alleati e per i nemici,
poiché con tanta sollecitudine si era intervenuti in soccorso degli Ardeati
in un momento per loro difficile; a maggior ragione i due consoli avevano
intenzione di impegnarsi per cancellare completamente dall'animo
degli uomini l'infamia della sentenza che aveva tolto agli Ardeati il loro
territorio. Proprio per questo fecero approvare dal senato un decreto in base
al quale, poiché la popolazione di Ardea era stata decimata dalla rivolta
intestina, sarebbero stati inviati dei coloni per difenderla dai Volsci.
Questo decreto fu registrato pubblicamente affinché al popolo e ai
tribuni sfuggisse il piano architettato per annullare la sentenza.
Ma i senatori avevano tra loro convenuto di iscrivere tra i coloni un
numero più cospicuo di Rutuli che di Romani e di non spartire alcuna
terra se non quella già in passato sottratta in séguito alla vergognosa
decisione. Infine avevano stabilito che a nessun romano doveva andare anche
una sola zolla, prima che tutti i Rutuli avessero avuto quanto spettava
loro. Così la terra tornò agli Ardeati. In qualità di triumviri
preposti alla fondazione della colonia di Ardea vennero designati Agrippa
Menenio, Tito Cluilio Siculo e Marco Ebuzio Elva. Questi, oltre a dover
svolgere un cómpito per nulla popolare, non solo offesero la plebe assegnando
agli alleati la terra che il popolo romano aveva già sancito essere
di sua proprietà, ma non riuscirono nemmeno a incontrare il favore dei
patrizi più eminenti perché non avevano compiuto favoritismi. E dunque,
avendoli i tribuni citati in giudizio di fronte al popolo, evitarono queste vessazioni,
rimanendo nella colonia che rappresentava la migliore testimonianza
della loro integrità e della loro giustizia. 12 Ci fu pace in città e
all'esterno in quell'anno e in quello successivo, durante il consolato di Gaio Furio
Paculo e di Marco Papirio Crasso. In quell'anno furono celebrati i giochi
promessi dai decemviri a séguito di un decreto del senato, ai tempi della
secessione dei plebei dai patrizi. Petelio cercò invano di far
scoppiare disordini: egli era stato nominato di nuovo tribuno della plebe,
preannunziando quel minaccioso programma, ma non riuscì a ottenere che i
consoli in senato proponessero di assegnare le terre alla plebe. E quando, dopo uno
scontro accesissimo, ottenne che si consultassero i senatori per sapere se
si dovevano tenere comizi per eleggere i consoli o i tribuni, fu
deciso di eleggere i consoli. Erano oggetto di scherno le minacce del
tribuno, di impedire la leva, perché i popoli confinanti se ne stavano quieti e
non c'era bisogno né di fare la guerra, né di prepararla. A questo periodo di tranquillità
seguì un anno, quello del consolato di Proculo Geganio Macerino e di Lucio
Menenio Lanato, caratterizzato da molte morti e da notevoli pericoli, da
rivolte, carestia; allettati da elargizioni, quasi si rischiò di
finire sotto il giogo della monarchia. Mancò solo una guerra esterna:
se essa fosse venuta ad aggravare la situazione, forse non sarebbe bastato
l'aiuto di tutti gli dèi per resistere. Tutti i mali cominciarono
con una spaventosa carestia, dovuta o all'annata poco propizia al raccolto o
all'abbandono delle campagne avvenuto per l'attrattiva esercitata
dalle assemblee e dalla vita cittadina: vengono infatti riportate
entrambe le cause. I patrizi accusavano la plebe d'indolenza, mentre
i tribuni della plebe accusavano ora di disonestà, ora d'incuria
i consoli. Infine, senza incontrare l'opposizione del senato, i tribuni
spinsero la plebe a eleggere prefetto dell'annona Lucio Minucio il quale, in
quella magistratura, doveva avere più successo nella salvaguardia
della libertà che nell'esercizio delle sue funzioni, anche se alla fine ottenne
gratitudine non immeritata e gloria per aver fatto calare il prezzo del
grano. Egli, nonostante avesse mandato per mare e per terra ambascerie ai
paesi confinanti, non era riuscito a migliorare la situazione annonaria,
fatta eccezione per una modesta quantità di frumento giunta
dall'Etruria. Perciò era tornato a distribuire lo scarso grano di cui disponeva,
costringendo la gente a dichiarare le scorte di frumento e a vendere la quantità
che eccedeva i bisogni di un mese. Diminuì la razione
giornaliera degli schiavi, incriminò i mercanti di frumento, esponendoli alla rabbia
popolare. Solo che, con i suoi metodi da inquisitore, invece di contenere la
carestia, la rivelò a tutti, e il risultato fu che molti plebei, perduta
ogni speranza, dopo essersi coperti il capo, si buttarono nel Tevere
piuttosto che soffrire continuando a vivere. 13 Allora Spurio Melio, che apparteneva
all'ordine equestre ed era molto ricco per quei tempi, prese
un'iniziativa utile di per sé, ma di pessimo esempio e ispirata da un disegno ancora
peggiore. Infatti, avendo a sue spese comprato grano in Etruria grazie
all'interessamento di amici e clienti - questa iniziativa credo che
abbia ostacolato i tentativi dello Stato per alleviare la carestia -
ordinò di distribuire frumento gratuitamente. Così, ammirato ed
esaltato oltre il limite consentito a un privato cittadino, ovunque andasse si
trascinava dietro la plebe sedotta dalla sua generosità; le
aspettative e il favore della plebe erano una garanzia quasi certa per il
conseguimento del consolato. Ma egli - l'animo umano non è mai sazio di ciò
che la fortuna gli promette - cominciò ad aspirare a traguardi ancora più
alti e irraggiungibili. Siccome anche il consolato avrebbe dovuto strapparlo
all'opposizione dei senatori, iniziò a pensare al regno: infatti soltanto il
trono sarebbe stato una ricompensa adeguata alla grandiosità dei
suoi progetti e alla dura fatica che avrebbe dovuto sostenere. I comizi per
l'elezione dei consoli erano ormai alle porte e questa scadenza lo sorprese
quando i suoi piani non erano ancora completi né sufficientemente
perfezionati. Fu eletto console per la sesta volta Tito Quinzio Capitolino, un uomo
davvero poco favorevole a chi aveva intenzioni rivoluzionarie. Come collega
gli fu assegnato Agrippa Menenio detto Lanato. Lucio Minucio fu o
rieletto prefetto dell'annona, oppure gli venne affidato l'incarico per un
periodo indeterminato, fino a quando la situazione lo richiedesse. Nient'altro
infatti risulta, se non che il suo nome è registrato nei libri
lintei nella lista dei magistrati, in qualità di prefetto dell'annona per entrambi
gli anni. Questo Minucio, che ufficialmente esercitava le stesse
funzioni che Melio esercitava in privato (e il medesimo tipo di
individui frequentava le case dell'uno e dell'altro), denunciò al senato
quello che aveva scoperto: che si raccoglievano armi a casa di Melio, che
egli vi teneva riunioni segrete e che sicuramente progettava di
restaurare la monarchia. Il momento dell'azione non era stato ancora
deciso, ma tutto il resto era già stato convenuto: col denaro erano stati
corrotti i tribuni perché tradissero la libertà e cómpiti specifici
erano stati assegnati ai capipopolo. Quanto a lui, aveva denunciato il complotto
forse più tardi di quel che la sicurezza avrebbe richiesto, per non
dare informazioni approssimative o infondate. Dopo aver sentito le parole
di Minucio, i senatori più influenti rimproverarono i consoli
dell'anno precedente per aver tollerato quelle elargizioni e quelle riunioni
della plebe in abitazioni private; ai consoli appena eletti rimproverarono di
aver aspettato che una macchinazione così preoccupante
venisse denunciata al senato dal prefetto dell'annona, quando invece sarebbe
stato cómpito del console non solo denunciarla, ma anche reprimerla.
Allora Quinzio replicò che si rimproveravano ingiustamente i consoli,
i quali, vincolati com'erano dalle leggi sul diritto di appello, approvate
solo per indebolire la loro autorità, non avevano forze
adeguate alla loro intenzione di punire quel crimine in ragione della sua
gravità: c'era bisogno di un uomo non soltanto forte, ma anche libero e
sciolto dai vincoli delle leggi. Per questo avrebbe proposto come dittatore
Lucio Quinzio, uomo dotato di un temperamento consono a quell'enorme
potere. Nonostante tutti approvassero la proposta, Quinzio sulle prime rifiutò
e chiese come potessero pensare di buttarlo, vecchio com'era, in uno
scontro così aspro. Ma poi, visto che da ogni parte gli dicevano che in
quella tempra di vecchio c'era non solo più saggezza, ma anche
più coraggio che in tutti gli altri, e che lo coprivano di elogi non certo
immeritati, siccome il console non desisteva, alla fine Cincinnato, dopo aver pregato
gli dèi immortali che la sua vecchiaia non portasse danno e disonore
alla repubblica in quelle delicate circostanze, fu proclamato dittatore
dal console. Cincinnato poi nominò maestro della cavalleria Gaio Servilio
Aala. 14 Il giorno successivo, dopo aver
disposto i presìdi, scese nel foro attirandosi gli sguardi della plebe
sorpresa e stupita. I seguaci di Melio e il loro stesso capo avevano capito
che l'onnipotenza di quella magistratura era diretta contro di
loro, e quelli che erano all'oscuro del complotto monarchico, si chiedevano
quale disordine, quale improvvisa guerra avessero resa necessaria
l'autorità di un dittatore o la nomina dell'ottantenne Quinzio a reggere la
repubblica. Il maestro della cavalleria Servilio, mandato dal
dittatore, disse a Melio: «Il dittatore ti convoca.» Quando Melio, in preda al
panico, chiese che cosa volesse da lui Cincinnato, Servilio gli rispose
che avrebbe dovuto perorare la propria causa difendendosi da un'accusa
presentata da Minucio di fronte al senato. Allora Melio, rifugiatosi nel
gruppo dei seguaci, cercò sulle prime di prendere tempo guardandosi
intorno. Ma poi, quando il littore inviato dal maestro della cavalleria
stava per condurlo via, fu sottratto all'arresto dall'intervento dei suoi.
Mentre tentava di scappare, chiedeva supplice la protezione del popolo
romano, sostenendo di essere vittima di una congiura dei patrizi per il bene
che aveva fatto alla plebe. Implorò i presenti di aiutarlo in quel pericolo
estremo e di non permettere che lo trucidassero davanti ai loro occhi. E
mentre così gridava, Aala Servilio lo raggiunse e lo uccise; poi, ancora
grondante di sangue e scortato da un gruppo di giovani patrizi,
riferì al dittatore che Melio, convocato a comparire alla sua presenza, aveva
respinto il littore e quindi aveva avuto la giusta pena mentre tentava di
sobillare il popolo. Allora il dittatore gli disse: «Gloria a te, Gaio
Servilio, perché hai liberato la repubblica!» 15 Poi, siccome la folla era in tumulto
non sapendo come interpretare l'accaduto, Cincinnato ordinò di
convocare l'assemblea del popolo. Lì dichiarò che l'uccisione di
Melio era stata legittima perché, anche se non fosse stato colpevole del crimine di
aspirare al regno, non si era presentato di fronte al dittatore
quando era stato convocato dal comandante della cavalleria. Disse
anche di essersi seduto in tribunale per istruire la causa: se il processo
avesse avuto luogo, a Melio sarebbe toccato un verdetto conforme agli esiti
del dibattito. Ma siccome Melio si preparava a ricorrere alla violenza per
evitare il processo, con la violenza era stato punito. E non
sarebbe stato giusto trattarlo come un cittadino perché, nato in un popolo
libero, con diritti e leggi, in una città da cui, come lui sapeva
benissimo, erano stati cacciati i re e dove, nel corso dello stesso anno, essendo
stata scoperta una congiura volta a riaccogliere in città i re,
erano stati fatti decapitare dal padre i figli della sorella del re e del console che
aveva liberato il paese, dove al console Tarquinio Collatino, soltanto
per l'odio verso il nome che portava, era stato imposto di
rinunciare alla magistratura e di andare in esilio, e dove, alcuni anni dopo, a
Spurio Cassio era stata comminata la pena capitale per aver ordito un
complotto per diventare re, dove di recente ai decemviri era toccata la
confisca dei beni, l'esilio e la pena di morte per essersi comportati con la
tracotanza dei re, Spurio Melio aveva nutrito, in quella stessa
città, la speranza di salire al trono. Ma che uomo era? Anche se nessuna
nobiltà, nessuna carica, nessun merito può spianare ad alcuno la strada alla
tirannide, almeno i Claudi e i Cassi avevano concepito ambizioni illecite
spinti dai consolati e dai decemvirati, dalle cariche ricoperte da
loro stessi e dai loro antenati. Spurio Melio, un ricco commerciante di
grano che avrebbe dovuto desiderare il tribunato della plebe più che
sperare di ottenerlo, si era illuso di aver comprato la libertà dei
suoi concittadini con due libbre di farro e aveva creduto, dando un po' di cibo, di
poter ridurre in schiavitù un popolo che aveva sottomesso tutti i
vicini. E tutto questo nella speranza che un paese, che era riuscito a
malapena a digerirlo come senatore, lo accettasse come re, investito del
potere e delle insegne del fondatore Romolo, che discendeva dagli dèi
e che agli dèi aveva fatto ritorno. Un fatto del genere doveva essere
considerato, più che un delitto, una vera mostruosità: e il sangue di
Melio non sarebbe bastato a espiarlo, se non venivano demoliti il tetto e le pareti
all'interno delle quali era stato concepito un proposito tanto insano e
se non si confiscavano quei beni contaminati dal denaro speso per
comprare il regno. Cincinnato ordinò poi ai questori di vendere quei beni e di
versare il ricavato nel pubblico erario. 16 Poi il dittatore ordinò di
radere súbito al suolo la casa di Melio, affinché l'area dove sorgeva ricordasse
perennemente il fallimento di quel nefasto progetto. Quel luogo fu
chiamato Equimelio. A Lucio Minucio venne donato fuori della porta Trigemina un
bue dalle corna dorate e senza che la plebe si opponesse, visto che
Minucio aveva distribuito ai plebei il frumento di Melio al prezzo di un asse
per moggio. Presso alcuni autori ho trovato che questo Minucio passò
dal patriziato alla plebe e che, dopo essere stato cooptato come undicesimo
tribuno della plebe, placò i disordini seguiti all'uccisione di
Melio. Ma sembra poco credibile che i senatori abbiano concesso di aumentare
il numero dei tribuni, che questo precedente sia stato introdotto proprio
da un patrizio, e che la plebe, ottenuta tale concessione, non l'abbia
conservata o almeno non abbia fatto di tutto per conservarla. Ma la prova
più schiacciante contro l'autenticità dell'iscrizione
posta sotto il suo ritratto è che pochi anni prima era stata emanata una legge che
vietava ai tribuni di cooptare un collega. Quinto Cecilio, Quinto Giunio e Sesto
Titinio furono gli unici membri del collegio dei tribuni a non sostenere la
legge sulle onorificenze da tributare a Minucio, e ad accusare di
fronte alla plebe ora Minucio stesso e ora Servilio, senza mai smettere di
lamentarsi per l'ingiusta fine di Melio. Così riuscirono a
ottenere che si tenessero i comizi per l'elezione dei tribuni militari invece che per
l'elezione dei consoli, sicuri com'erano che dei sei posti disponibili -
questo era già allora il numero consentito - qualcuno sarebbe toccato
ai plebei, se avessero promesso di vendicare la morte di Melio. La plebe,
benché in quell'anno fosse stata agitata da molti e vari disordini, non
elesse più di tre tribuni militari con potere consolare. Tra questi c'era
anche Lucio Quinzio, figlio di Cincinnato, all'odiata dittatura del
quale si faceva risalire la causa dei disordini. Quinzio fu preceduto per
numero di voti da Mamerco Emilio, un uomo di grande prestigio. Terzo fu
eletto Lucio Giulio. 17 Durante la loro magistratura, la
colonia romana di Fidene passò a Larte Tolumnio re dei Veienti. Ma alla
defezione si aggiunse un delitto ancora peggiore: infatti, su ordine di
Tolumnio, furono uccisi gli inviati romani Gaio Fulcino, Clelio Tullo, Spurio
Aurio e Lucio Roscio, venuti a chiedere il motivo di quella strana decisione.
Alcuni autori cercano di attenuare la responsabilità del re,
dicendo che una frase ambigua, da lui pronunciata dopo un colpo di dadi
fortunato, venne interpretata dai Fidenati come l'ordine di ucciderli:
questa sarebbe stata la causa della morte degli inviati. Ma sembra
piuttosto improbabile che all'arrivo dei Fidenati, i suoi nuovi alleati venuti a
chiedergli lumi su un assassinio destinato a infrangere il diritto delle
genti, il re non abbia distolto l'attenzione dal gioco, e che in
séguito non abbia attribuito il delitto a un malinteso. È più
facile credere che Tolumnio volesse coinvolgere i Fidenati nella responsabilità di
un crimine tanto atroce in modo che non avessero più alcuna speranza di
riconciliazione con i Romani. In memoria degli inviati uccisi a Fidene lo Stato
fece collocare a sue spese delle statue nei rostri. Con Veienti e Fidenati, non solo per la
vicinanza geografica a Roma, ma anche per l'atto esecrabile con il
quale avevano scatenato la guerra, si annunciava uno scontro durissimo. Di
conseguenza, poiché nell'interesse generale plebe e tribuni rimasero
tranquilli, non si ebbe alcuna opposizione all'elezione dei consoli
Marco Geganio Macrino, al suo terzo mandato, e Lucio Sergio Fidenate.
Questi fu così soprannominato, credo, dalla guerra che in séguito condusse.
Fu infatti lui il primo a combattere con successo, al di qua dell'Aniene,
contro il re dei Veienti, ma si trattò di una vittoria cruenta.
Così fu più grande il dolore per i cittadini caduti che la gioia per i
nemici vinti e il senato, com'è normale in circostanze difficili,
ordinò che Mamerco Emilio fosse nominato dittatore. E quest'ultimo nominò
maestro della cavalleria Lucio Quinzio Cincinnato, giovane degno del padre,
che l'anno precedente era stato suo collega in qualità di tribuno
militare con potere consolare. Alle truppe arruolate dai consoli furono aggiunti
dei centurioni che erano veterani di grande esperienza militare, e furono
colmati i vuoti aperti dall'ultima battaglia. Il dittatore ordinò a
Tito Quinzio Capitolino e a Marco Fabio Vibulano di seguirlo in qualità
di luogotenenti. Il maggiore potere e il prestigio dell'uomo che lo deteneva
indussero i nemici a ritirarsi dalla campagna romana, al di là
dell'Aniene; essi trasferirono il campo sulle colline tra Fidene e l'Aniene, e di
lì non scesero a valle prima che arrivassero le legioni inviate in loro
aiuto dai Falisci. Soltanto allora gli Etruschi si accamparono di fronte
alle mura di Fidene. Anche il dittatore romano si accampò
nelle immediate vicinanze, sulle rive dove i due fiumi confluiscono, in quel punto
dove la modesta distanza tra i due fiumi gli permise di costruire una
fortificazione tra sé e il nemico. Il giorno successivo schierò
l'esercito in ordine di battaglia. 18 Tra i nemici c'erano punti di vista
molto diversi. I Falisci volevano súbito lo scontro perché avevano
fiducia in se stessi e mal sopportavano di combattere lontano da casa. I
Veienti e i Fidenati riponevano invece maggiori speranze in un prolungamento
della guerra. Tolumnio, pur condividendo il parere dei suoi uomini,
per evitare che i Falisci dovessero sobbarcarsi a operazioni
destinate ad andare per le lunghe, annunciò che avrebbe affrontato
il nemico il giorno successivo. Intanto era cresciuto il coraggio nel dittatore
e nei Romani perché il nemico evitava lo scontro. Il giorno dopo,
quando i soldati sdegnati già minacciavano di assalire l'accampamento
e la città se non si offriva occasione per battersi, entrambi gli
eserciti avanzarono nello spazio di terra compreso tra i due accampamenti.
Siccome il capo dei Veienti disponeva di molti uomini, mandò
delle truppe ad aggirare le alture perché, nel corso della lotta,
prendessero alle spalle il campo romano. L'esercito dei tre popoli nemici era
schierato in modo che i Veienti tenessero l'ala destra, i Falisci la
sinistra e i Fidenati il centro. Il dittatore mosse sulla destra contro i
Falisci, Quinzio Capitolino sulla sinistra contro i Veienti. Il maestro
della cavalleria si dispose con i suoi cavalieri all'attacco del centro.
Per qualche tempo vi fu silenzio e quiete perché da una parte gli Etruschi
non avevano intenzione di lanciarsi nella battaglia, se non vi erano
costretti, e dall'altra il dittatore romano fissava con insistenza
la cittadella, da dove gli àuguri dovevano inviare il segnale convenuto,
non appena i presagi fossero stati propizi. Come vide il segnale, levato
il grido di guerra, lanciò contro il nemico per primi i cavalieri, seguiti
dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le
legioni etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri
offrivano la resistenza più tenace e il re in persona - il più
forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro
i Romani, mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga
dell'inseguimento. 19 Vi era allora, tra le fila dei
cavalieri, il tribuno militare Aulo Cornelio Cosso; la sua straordinaria
bellezza era pari al coraggio e alla forza. Orgoglioso del nome della sua
stirpe, che aveva ereditato già insigne, fece in modo che diventasse
per i suoi discendenti ancora più nobile e glorioso. Essendosi reso conto
che Tolumnio, dovunque si buttasse all'assalto, seminava lo scompiglio tra
gli squadroni romani, e avendolo riconosciuto mentre galoppava col suo
abito regale su e giù per la linea di battaglia, urlò: «È
lui che ha violato il patto stipulato tra gli uomini e infranto il diritto delle
genti? Allora, se gli dèi vogliono che su questa terra ci sia ancora qualcosa
di sacro, io lo offro come vittima sacrificale ai Mani degli ambasciatori
uccisi!» E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro
quel solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla
lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi,
Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente,
lo inchiodò al suolo con la lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi
tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta dell'asta, volse in
fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re. Così
anche la cavalleria, che da sola aveva reso incerte le sorti dello scontro, fu
disfatta. Il dittatore si buttò all'inseguimento delle legioni in fuga
e, dopo averle spinte verso l'accampamento, le massacrò. La
maggior parte dei Fidenati, conoscendo i luoghi, riuscì a fuggire sulle
montagne. Cosso attraversò il Tevere con la cavalleria, riportando a Roma un
ingente bottino razziato nel territorio di Veio. Mentre la battaglia era in
pieno svolgimento, si combatté anche nei pressi dell'accampamento romano,
dove ci fu lo scontro con le truppe inviate, come già detto, da
Tolumnio proprio in quella direzione. Fabio Vibulano in un primo tempo difese la
trincea disponendo gli uomini a semicerchio. Poi, mentre i nemici erano
concentrati sul vallo, fece una sortita dalla porta principale sulla
destra con i triarii e assalì gli avversari all'improvviso. Il panico che
s'impossessò di loro provocò una strage minore che nella battaglia vera
e propria perché erano in pochi, ma la fuga non fu meno precipitosa. 20 Siccome l'impresa aveva avuto pieno
successo, per decreto del senato e per volontà del popolo, il
dittatore poté tornare a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più
grande fu la vista di Cosso che avanzava reggendo le spoglie opime del re
ucciso; in onore di Cosso i soldati cantavano rozzi inni nei quali lo
paragonavano a Romolo. Egli, con la dedica rituale, appese in dono le
spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle conquistate da Romolo,
che erano state le prime, e fino a quel momento le uniche, ad essere
chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli
dal cocchio del dittatore, così che la gloria di quel giorno fu quasi tutta
sua. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove
sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi
hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde
spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare.
Ma, al di là del fatto che opime sono per tradizione soltanto le
spoglie strappate da un comandante a un altro comandante e che il solo che
noi riconosciamo come comandante è quello sotto i cui auspici viene
condotta una guerra, l'iscrizione stessa posta su quelle spoglie confuta la tesi
degli altri e la mia, dimostrando che Cosso quando le strappò era
console. Ma quando ho sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di
tutti i nostri templi, raccontare di essere entrato nel santuario di Giove
Feretrio - da lui fatto ricostruire perché in rovina ormai con l'andar del
tempo - e di aver letto questa iscrizione sulla corazza di lino, ho
ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue
spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio.
Dove poi sia l'errore, per quale motivo tanto gli annali antichi quanto
le liste dei magistrati (quelle che, scritte su lino e conservate nel
tempio di Giunone Moneta, sono continuamente citate da Licinio Macro
come fonte) riportino il consolato di Aulo Cornelio Cosso insieme a Tito
Quinzio solo sei anni dopo, è una questione sulla quale è giusto
che ciascuno abbia una sua opinione personale. Ma un altro valido motivo
per non spostare in quell'anno una battaglia così famosa è
che il consolato di Aulo Cornelio cadde in un triennio nel quale non ci fu alcuna
guerra, a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali
riportano solo i nomi dei consoli, catalogando l'annata come funesta. Due
anni dopo il consolato, Cosso fu tribuno militare con potere consolare e
nello stesso anno maestro della cavalleria, e mentre ricopriva quella
carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. Su questo punto
è possibile fare molte congetture, anche se a mio parere inutili. Ognuno
può credere quello che vuole, fatto sta che il vero protagonista del
combattimento, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra
sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo -
testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera
-, si sottoscrisse: Aulo Cornelio Cosso console. 21 Durante il consolato di Marco
Cornelio Maluginense e Lucio Papirio Crasso, gli eserciti romani furono
condotti nelle campagne dei Veienti e dei Falisci, riportandone un
consistente bottino di uomini e di bestiame. In quelle zone non riuscirono mai a
imbattersi nei nemici e non ci furono occasioni di venire alle armi. Tuttavia
i centri abitati non vennero assediati perché una pestilenza si
abbatté sulla popolazione. E poi a Roma erano scoppiati dei disordini, privi
però di conseguenze: il tribuno della plebe Spurio Melio, il quale, per la
popolarità del suo nome, pensava di poter suscitare sommosse, aveva citato
in giudizio Minucio e proposto la
confisca dei beni di Servilio Aala, sostenendo che Melio era stato
vittima delle false accuse di Minucio e
incolpando Servilio dell'uccisione di un cittadino non ancora condannato. Queste
accuse ebbero presso il popolo minor credito dell'uomo che le
lanciava. Erano motivo di ben più grande preoccupazione il progressivo
aggravarsi dell'epidemia, e alcuni inquietanti prodigi, soprattutto perché
circolava notizia di case crollate nelle campagne per continue scosse di
terremoto. Per queste ragioni il popolo rivolse una supplica agli
dèi secondo la formula suggerita dai duumviri. L'anno successivo, sotto il consolato
di Gaio Giulio, al suo secondo mandato, e di Lucio Verginio, la
pestilenza si aggravò; tanto fu il terrore dello spopolamento da essa
creato a Roma e nelle campagne che nessuno usciva al di fuori del
territorio romano per compiere razzie; né patrizi né plebei pensavano a muovere
guerre; inoltre, come se non bastasse, i Fidenati, rimasti fino a
quel momento o sulle montagne o all'interno delle loro città
fortificate, scesero a saccheggiare il territorio romano. Dopo aver fatto
venire un esercito da Veio - i Falisci non si lasciarono convincere a
riprendere le ostilità né dalle calamità dei Romani, né dalle pressioni degli
alleati -, i due popoli attraversarono l'Aniene, avanzando fin
quasi sotto la porta Collina. In città non meno che nelle
campagne fu súbito il panico. Mentre il console Giulio dispone i suoi uomini sulla
cinta muraria e sul terrapieno, Verginio consulta il senato nel tempio
di Quirino. Si decide di nominare dittatore Quinto Servilio, che alcuni
sostengono fosse soprannominato Prisco e altri Strutto. Verginio prese
tempo per consultarsi col collega, e, ottenutone il consenso,
ratificò nella notte la nomina del dittatore. Questi nominò maestro della
cavalleria Postumio Ebuzio Elva. 22 Il dittatore ordinò a tutti
di trovarsi fuori dalla porta Collina alle prime luci del giorno. Quelli che
avevano forze sufficienti per portare armi si misero tutti a disposizione. Le
insegne vennero prese dall'erario e consegnate al dittatore. Mentre si
svolgevano tali preparativi, i nemici si ritirarono su posizioni più
elevate. Il dittatore puntò contro di loro con le truppe pronte a dare battaglia e
non lontano da Nomento si scontrò con le legioni etrusche mettendole in fuga.
Di lì le costrinse a riparare nella città di Fidene che
circondò con un vallo. Ma la città, alta e ben fortificata, non poteva essere presa
nemmeno con l'uso di scale, e l'assedio non serviva a nulla perché il
frumento precedentemente raccolto non solo bastava alle necessità
interne, ma avanzava. Perduta così ogni speranza sia di espugnare la
città, sia di costringerla alla resa, il dittatore - che conosceva benissimo
quella zona per la sua vicinanza a Roma - ordinò di scavare una
galleria verso la cittadella, partendo dalla parte opposta della città, che
risultava essere la meno vigilata essendo già ben protetta dalla sua
stessa configurazione naturale. Poi, avanzando contro la città da punti
diversissimi, dopo aver diviso in quattro gruppi le forze a disposizione - in maniera
tale che ciascuno di essi potesse avvicendare l'altro durante la
battaglia -, combattendo ininterrottamente giorno e notte il dittatore riuscì
a distrarre l'attenzione dei nemici dallo scavo. Finché, scavato tutto il
monte, fu aperto un passaggio dal campo alla cittadella. E mentre gli
Etruschi continuavano a concentrarsi su vane minacce, senza rendersi conto
del vero pericolo, l'urlo dei nemici sopra le loro teste fece loro capire
che la città era stata presa. Quell'anno i censori Gaio Furio Paculo
e Marco Geganio Macerino collaudarono in Campo Marzio un
edificio pubblico nel quale ebbe luogo per la prima volta il censimento della
popolazione. 23 Presso Licinio Macro ho trovato che
l'anno successivo furono rieletti gli stessi consoli: Giulio per la terza
volta, Verginio per la seconda. Valerio Anziate e Quinto Tuberone
riportano invece che i consoli di quell'anno furono Marco Manlio e Quinto
Sulpicio. Però, nonostante la discrepanza, sia Tuberone che Macro
citano come fonte i libri lintei. Inoltre nessuno di questi due autori
nasconde che gli antichi scrittori parlavano per quell'anno di tribuni
militari. Mentre Licinio segue, senza alcuna riserva, i libri lintei,
Tuberone è incerto su quale sia la verità. Perciò, tra le tante questioni
rimaste irrisolte, perché riguardano tempi lontani, mettiamoci anche questa. Dopo la presa di Fidene, l'Etruria
viveva in stato d'allarme: infatti, in séguito a un tale massacro, erano
terrorizzati non soltanto i Veienti, ma anche i Falisci, i quali, benché non li
avessero sostenuti quando avevano ripreso le ostilità, ricordavano
di essere stati al loro fianco agli inizi della guerra. Così, quando
questi due popoli inviarono ambasciatori alle dodici città confederate e
ottennero che si convocasse un raduno di tutte le genti etrusche presso il tempio di
Voltumna, il senato, presentendo gravi torbidi, ordinò di
nominare per la seconda volta dittatore Mamerco Emilio. Questi scelse Aulo Postumio
Tuberto come maestro della cavalleria.
Così si diede inizio ai preparativi di guerra con uno sforzo
tanto più grande della volta precedente, in
quanto maggiore era il pericolo provenendo dall'intera Etruria e non da
due popoli. 24 Ma questa faccenda finì per
essere più tranquilla di quanto tutti si aspettassero. Alcuni mercanti
riferirono che ai Veienti era stato negato ogni aiuto e che erano stati invitati a
proseguire unicamente con le loro forze la guerra che avevano scatenato
per iniziativa personale e a non cercare nelle avversità come
alleati coloro con i quali non avevano voluto dividere la speranza, non ancora
compromessa, di successo. Di conseguenza il dittatore, per dimostrare di non
essere stato eletto invano, pur non avendo più la possibilità
di conquistare gloria in guerra, ma desiderando compiere ugualmente in pace qualche
impresa che suggellasse per sempre nel ricordo la propria dittatura,
studiò il modo di indebolire la censura. E questo sia perché ne giudicava eccessivo il
potere, sia perché era infastidito, più ancora che
dall'importanza, dalla durata di quella carica. Così, dopo aver
convocato l'assemblea, disse che gli dèi immortali si erano assunti il cómpito di
provvedere all'interesse della repubblica all'esterno e di rendere tutto sicuro.
Quanto a lui, avrebbe fatto il necessario all'interno delle mura per
salvaguardare la libertà del popolo romano. Ora, la maggiore garanzia di
libertà era che le cariche più importanti non si protraessero troppo a
lungo e che si ponesse un limite di tempo a quelle magistrature delle
quali non si poteva limitare l'autorità. Mentre le altre
cariche erano annuali, la censura era invece quinquennale; era gravoso vivere per
tanti anni, per una gran parte dell'esistenza, sottoposti alle stesse
persone. Per questo egli avrebbe presentato una legge che riduceva la
durata della censura a non più di un anno e mezzo. Il giorno successivo,
quando la legge venne approvata col consenso quasi unanime del popolo, il
dittatore disse: «Perché voi, o Quiriti, abbiate la prova di quanto mi
siano sgraditi gli incarichi che durano troppo a lungo, rinuncio alla
dittatura.» Deposta la sua magistratura dopo aver fissato un
limite a quella altrui, fu riaccompagnato a casa tra le
dimostrazioni di gioia e il plauso del popolo. Ma avendo i censori sopportato
di malanimo che Mamerco avesse sminuito l'importanza di una magistratura
del popolo romano, lo radiarono dalla sua tribù e lo iscrissero
tra gli erarii, tassandolo per un censo otto volte maggiore. Riferiscono che
Mamerco abbia sopportato il colpo con grande forza d'animo, dando maggiore
importanza alla causa di quella umiliazione che non all'umiliazione
stessa. I capi dei patrizi, benché contrari a ridurre il potere della
censura, rimasero colpiti da questo esempio di durezza censoria, perché
ciascuno vedeva che sarebbe stato soggetto passivo della censura
più spesso e più a lungo che non soggetto attivo. Sta di fatto che - almeno
stando a quanto si racconta - l'indignazione del popolo arrivò
a un punto tale che dovette intervenire Mamerco, con la sua autorità,
per proteggere i censori dalla violenza della folla. 25 Continuando a frapporre ostacoli, i
tribuni della plebe riuscirono a impedire i comizi per le elezioni
consolari. E alla fine, quando si era ormai prossimi all'interregno, ebbero
la meglio ottenendo che si eleggessero i tribuni militari con
potere consolare. Ma quella vittoria non fu premiata, come si sperava,
dall'elezione di alcun plebeo: tutti gli eletti, Marco Fabio Vibulano, Marco
Folio e Lucio Sergio Fidenate, erano patrizi. Nel corso di quell'anno una
pestilenza distrasse l'attenzione da tutti gli altri problemi. Perché la
popolazione potesse guarire venne fatto voto di erigere un tempio ad
Apollo. I duumviri, consultando i libri sibillini, tentarono molte vie per
placare l'ira degli dèi e per allontanare dal popolo le cause
dell'epidemia. Ciononostante le perdite furono ingentissime in città e
nelle campagne, per il flagello che colpiva sia gli uomini sia il bestiame. Temendo
che all'epidemia seguisse anche la fame, visto che i contadini non erano
stati risparmiati dal contagio, si mandò a cercare frumento in
Etruria, nell'agro Pontino, a Cuma e alla fine anche in Sicilia. Non ci furono accenni
alle elezioni consolari; vennero eletti tribuni militari con potere
consolare Lucio Pinario Mamerco, Lucio Furio Medullino e Spurio Postumio Albo,
tutti patrizi. Quell'anno la violenza dell'epidemia diminuì e
non si rischiò nemmeno di rimanere senza frumento, grazie alle precauzioni prese
in anticipo. Nelle assemblee dei Volsci e degli Equi e in Etruria presso
il tempio di Voltumna in Etruria si parlò di muovere guerra. Ma
in quest'ultimo raduno si decise di rinviare le operazioni all'anno
successivo e si stabilì, con un decreto, di evitare ogni assemblea prima di
allora, benché i Veienti si fossero lamentati sostenendo che sulla loro
città incombeva la stessa sorte della distrutta Fidene. Nel frattempo a Roma i capi della
plebe, che già da tempo nutrivano la vana speranza di ottenere cariche
più importanti, mentre all'esterno vi era pace, cominciarono a organizzare
riunioni nelle case dei tribuni. Lì discutevano piani segreti e si
lamentavano di essere tenuti dalla plebe in così poco conto che, pur essendo
stati eletti per tanti anni dei tribuni militari con potere consolare, nessun
plebeo era mai arrivato a ricoprire quella carica. I loro antenati avevano
visto lontano impedendo ai patrizi di accedere alle magistrature plebee,
altrimenti si sarebbero trovati dei patrizi come tribuni; a tal punto erano
disistimati dai loro, ed erano disprezzati dalla plebe, non meno che
dai patrizi. Alcuni giustificavano la plebe scaricando ogni colpa sui
patrizi: si doveva ai loro intrighi elettorali e ai loro raggiri se alla
plebe era preclusa la strada verso quella magistratura. Se alla plebe
veniva concesso di riprender fiato dalle loro preghiere miste a minacce,
andando alle urne essa si sarebbe ricordata dei propri uomini e, ottenuto
il loro sostegno, sarebbe arrivata a conquistare anche il potere. Così, per eliminare gli intrighi
elettorali, si stabilì che i tribuni presentassero una legge che vietava ai
candidati di indossare vesti bianche. Oggi sembrerà una cosa
di poco conto e a stento si potrà prenderla sul serio. Ma in quei tempi
scatenò uno scontro furibondo tra patrizi e plebei. Alla fine i tribuni
riuscirono a far approvare la legge. Ed era evidente che la plebe irritata
avrebbe sostenuto i suoi. Ma perché non le fosse concesso di agire
liberamente, il senato decretò che si tenessero i comizi per l'elezione dei
consoli. 26 Il pretesto fu la rivolta di Volsci
ed Equi, riferita a Roma da Latini ed Ernici. Vennero eletti consoli Tito
Quinzio Cincinnato, figlio di Lucio - lo stesso a cui si aggiunge il
soprannome di Peno -, e Gneo Giulio Mentone. La guerra e le sue paure non
furono rimandate oltre. Fatta la leva militare ricorrendo a una legge
sacrata - che presso quei popoli era lo strumento di gran lunga più
efficace per l'arruolamento forzato delle truppe -, da entrambi i paesi si misero
in marcia due forti eserciti che si congiunsero sull'Algido. Qui Equi e
Volsci si accamparono in punti diversi e i rispettivi comandanti si
dedicavano con una meticolosità senza precedenti alla costruzione di
fortificazioni e all'addestramento degli uomini. E quando a Roma arrivarono
queste notizie, il panico si fece più grande. Il senato decise allora di
nominare un dittatore perché quei popoli, nonostante le numerose
sconfitte, si stavano adesso preparando a una nuova guerra con uno spiegamento di
mezzi senza precedenti; e poi una parte della gioventù romana se
l'era portata via la pestilenza. Le cose che spaventavano maggiormente erano i
difetti dei consoli, il loro disaccordo e i contrasti durante tutte
le assemblee. Secondo alcuni autori la ragione per la quale si
nominò un dittatore fu una sconfitta subita sull'Algido da quei consoli. Una cosa
risulta chiara: nonostante il dissenso su altri problemi, su di uno i
consoli avevano identiche vedute, e cioè nell'opporsi, contro il
volere dei senatori, alla nomina del dittatore. Ma quando arrivarono
notizie, una più terribile dell'altra, e i consoli non rispettavano le decisioni
del senato, Quinto Servilio Prisco, che aveva ricoperto egregiamente le
massime cariche, disse: «Data l'estrema gravità della
situazione, è a voi, o tribuni della plebe, che il senato fa appello perché in questo
momento così pericoloso per la repubblica, usando la vostra
autorità, costringiate i consoli a nominare un dittatore.» Sentendo queste parole,
i tribuni, convinti che si presentasse l'occasione per aumentare
la loro autorità, dopo essersi consultati a parte dichiararono a nome
del collegio che i consoli dovevano attenersi scrupolosamente alle
direttive del senato. Se poi i consoli avessero continuato a opporsi alla
volontà unanime del più importante tra gli ordini sociali, allora ne avrebbero
ordinato l'arresto. I consoli preferirono cedere ai tribuni piuttosto
che al senato. Ricordarono che i senatori avevano tradito le prerogative
della massima magistratura e che il consolato veniva fatto passare sotto
il giogo del potere tribunizio, dal momento che i consoli potevano
subire le imposizioni di un tribuno per via del suo potere, e perfino essere condotti
in carcere (e c'era forse qualcosa che un privato cittadino
potesse temere di più?). Siccome i colleghi non erano riusciti a
intendersi nemmeno su questo, il cómpito di nominare un dittatore toccò in
sorte a Tito Quinzio. Egli nominò il suocero Aulo Postumio Tuberto, un
comandante intransigente, il quale a sua volta designò come maestro della
cavalleria Lucio Giulio. Si ordinò subito la leva militare e la sospensione
dell'attività giudiziaria, e in città
non ci si occupò di altro che dei preparativi di guerra.
L'esame delle richieste di esonero dal servizio
militare viene rinviato a dopo la guerra. Così anche quelli che
erano incerti decidono di arruolarsi. A Ernici e Latini fu imposto di fornire
soldati ed entrambi i popoli obbedirono scrupolosamente al
dittatore. 27 Tutti questi preparativi furono
portati a termine con estrema rapidità. Il console Gneo Giulio venne lasciato a
difesa della città. Al maestro della cavalleria Lucio Giulio venne
invece affidato il cómpito di provvedere alle più immediate
necessità belliche, in modo che la mancanza di qualcosa non costringesse le truppe
a rimanere nell'accampamento. Il dittatore, ripetendo la formula
suggeritagli dal pontefice massimo Aulo Cornelio, promise in voto, per la
guerra appena scoppiata, di indire giochi solenni. Poi, dopo aver diviso
le truppe con il console Quinzio, lasciò Roma e raggiunse il
nemico. Appena videro che i due accampamenti dei nemici erano posti a poca distanza
l'uno dall'altro, i comandanti romani decisero anch'essi di accamparsi
a circa un miglio di distanza, il dittatore nella zona di Tuscolo e il
console verso Lanuvio. Così i quattro eserciti e le rispettive fortificazioni
avevano nel mezzo una pianura, abbastanza vasta non solo per le
scaramucce che precedono la battaglia, ma anche per lo spiegamento delle schiere
da entrambe le parti. Dal momento in cui gli accampamenti vennero posti
l'uno di fronte all'altro, fu un continuo susseguirsi di piccoli
scontri; il dittatore era contento che i suoi uomini misurassero le loro forze
e, sperimentando il successo in queste rapide sortite, nutrissero
speranze nella vittoria finale. I nemici, abbandonata ogni speranza di
avere la meglio in una battaglia regolare, nella notte assalirono
l'accampamento del console, affidandosi al caso e al rischio. Il clamore sorto
all'improvviso svegliò dal sonno non solo le sentinelle del console e
tutto il suo esercito, ma anche il dittatore. In quell'occasione, in cui
le circostanze richiedevano una reazione immediata, il console
dimostrò di non difettare né di coraggio né di accortezza: con parte dei suoi
uomini rinsaldò i posti di guardia agli ingressi e dispose in cerchio il resto
delle truppe a protezione della trincea. Nell'altro accampamento,
quello del dittatore, essendoci meno trambusto, fu più facile
considerare il da farsi. Vennero súbito inviati rinforzi al campo del console,
affidandone il comando al luogotenente Spurio Postumio Albo. Il dittatore
invece, a capo di un contingente, con una breve diversione raggiunge una
posizione defilata rispetto al luogo di attacco per assalire il nemico di
sorpresa. A comandare l'accampamento lascia il luogotenente Quinto Sulpicio,
mentre all'altro aiutante Marco Fabio affida la cavalleria,
ordinandogli però di non muoversi prima dell'alba, perché sarebbe stato
difficile mantenere il controllo di quelle truppe nella confusione della notte.
Tutte le cose che un capo militare saggio e sollecito avrebbe ordinato e
messo in pratica in una situazione del genere, il dittatore le
ordinò e le mise ordinatamente in pratica. Ma una singolare prova di coraggio, di
accortezza e di qualità non comuni fu l'avere mandato Marco Geganio con
coorti scelte ad attaccare l'accampamento nemico dal quale
risultassero usciti i nemici in maggior numero. Geganio, assaliti gli uomini
rimasti nel campo, mentre intenti a seguire la sorte dei compagni in
pericolo non si preoccupavano per se stessi e avevano trascurato di porre le
sentinelle e i posti di guardia, conquistò l'accampamento ancora
prima che i nemici si rendessero conto dell'attacco. Poi, com'era stato
convenuto, fu dato il segnale col fumo; quando il dittatore lo vide, urlò
che l'accampamento nemico era stato preso e ordinò di riferire
ovunque la notizia. 28 Già albeggiava e tutto era
chiaro davanti agli occhi. Fabio si era buttato alla carica con la cavalleria e
il console aveva fatto una sortita dal campo contro i nemici ormai in
preda al panico. Il dittatore invece, dall'altra parte, assaliti i rinforzi e
la seconda linea, aveva opposto ovunque al nemico che ripiegava
incalzato da grida confuse e attacchi improvvisi, la fanteria e la cavalleria
vittoriose. Ormai completamente circondati, avrebbero tutti pagato,
fino all'ultimo uomo, il prezzo della nuova aggressione, se non fosse stato
per Vezio Messio, un volsco famoso più per le sue gesta che per la
sua stirpe, il quale rimproverò i suoi compagni che già si disponevano
a cerchio: «Avete deciso,» gridò, «di offrirvi al ferro dei nemici senza
difendervi e senza vendicarvi? Ma allora perché mai avete preso le armi e
fatto scoppiare una guerra senza essere provocati, voi che siete
turbolenti in tempo di pace e fiacchi sul campo di battaglia? In che cosa sperate
rimanendo qui fermi? Credete che ci penserà qualche dio a
proteggervi e a portarvi via da qui? Con la spada bisogna aprirci la via. Avanti,
guardate dove vado io e seguitemi, se ci tenete a rivedere le vostre case, i
genitori, le mogli e i figli! Davanti non ci sono né muri né fortificazioni,
ma solo uomini armati come voi. Per
coraggio siete pari a loro, ma superiori per la forza della
disperazione, che è l'ultima e la più
potente arma.» Detto questo, mise súbito in pratica le sue parole. E i compagni,
alzando di nuovo il grido di guerra, gli tennero dietro lanciandosi
all'attacco là dove Postumio Albo aveva schierato le sue coorti. Riuscirono a
far arretrare i vincitori fino a quando non sopraggiunse il dittatore in
aiuto dei suoi che già si ritiravano: in quel luogo si
concentrò l'intera battaglia. Le sorti del nemico sono affidate a un solo uomo:
Messio. Da entrambe le parti molte sono le ferite, molte le stragi; ormai
neanche i comandanti romani combattono illesi. Tuttavia solo
Postumio, colpito da un sasso, lasciò la battaglia con il cranio fratturato. Ad
allontanare dalla battaglia così in bilico il dittatore non bastò
una ferita alla spalla, né furono sufficienti a Fabio un femore quasi
inchiodato nel fianco del cavallo e al console un braccio troncato. 29 Messio, trascinato dallo slancio
attraverso i corpi esanimi dei nemici, con un gruppo di giovani fortissimi
riuscì ad arrivare fino al campo dei Volsci che non era ancora stato preso.
In quella direzione ripiega tutto l'esercito. Il console insegue i nemici
mentre fuggono disordinatamente fino al vallo e assale il campo stesso
e il vallo. Ma anche il dittatore, proveniente da un'altra direzione,
conduce i suoi uomini in quel punto. L'assalto non è meno violento
della battaglia. Si tramanda che il console abbia scagliato l'insegna dentro al
vallo perché i soldati irrompessero con più ardore, e che sia stato
lanciato il primo assalto per recuperarla. Il dittatore, dopo aver fatto breccia
nella palizzata, aveva già spostato la battaglia all'interno
dell'accampamento. Allora i nemici cominciarono da tutte le parti a buttare le armi e
ad arrendersi. Così alla fine venne conquistato anche l'accampamento e
tutti i nemici, eccetto i senatori, furono venduti come schiavi. Fu
restituito a Latini ed Ernici quella parte del bottino che riconobbero come loro,
l'altra parte il dittatore la vendette all'asta. Lasciato il console
a capo dell'accampamento, il dittatore tornò poi in trionfo a
Roma dove rinunciò alla dittatura. Rendono triste il ricordo di questa
gloriosa dittatura quanti raccontano che Aulo Postumio fece decapitare il
figlio, pur vincitore, perché, attirato dall'occasione di farsi onore
combattendo, aveva abbandonato senza l'ordine il suo posto. Preferisco
non credere a una cosa simile, ed è lecito perché diverse sono le
versioni tramandate. E c'è un argomento a favore: esistono ordini chiamati
'manliani' e non 'postumiani', in quanto il primo a dare un esempio così
atroce era logicamente destinato a ottenere quel terribile titolo di
crudeltà. A Manlio fu dato anche il soprannome di 'Imperioso', mentre
Postumio non è marchiato da nessun funesto appellativo. Siccome il collega era assente, il
console Gneo Giulio inaugurò il tempio di Apollo senza ricorrere al sorteggio.
Quando, dopo aver congedato l'esercito, Quinzio fece ritorno a
Roma, prese a male la cosa, ma inutilmente si lamentò in
senato. In quell'anno, rimasto famoso per tali
eventi, va aggiunto un episodio che in quel tempo sembrò non avere
alcuna importanza per la potenza romana: i Cartaginesi, destinati a diventare
nostri acerrimi nemici, inviarono allora per la prima volta un esercito
in Sicilia per sostenere una delle due fazioni che si affrontavano nelle
lotte tra Siculi. 30 A Roma dai tribuni della plebe fu
agitata la questione relativa alla nomina di tribuni militari con potere
consolare, ma senza alcun successo. Furono eletti consoli Lucio Papirio
Crasso e Lucio Giulio. Gli ambasciatori inviati dai Volsci al
senato per chiedere un trattato d'alleanza, ricevendo in luogo del
trattato una proposta di resa, chiesero e ottennero una tregua di otto anni.
Oltre alla disfatta patita sull'Algido, i Volsci erano in quel
momento invischiati in uno scontro senza fine tra i fautori della pace e i
fautori della guerra, che provocò disordini e sedizioni: per i Romani
ciò significò pace da ogni parte. I consoli, venuti a sapere, grazie alla
denuncia di uno dei membri del collegio dei tribuni, che questi stavano
per presentare una legge, molto gradita al popolo, sulla determinazione
in denaro delle ammende, si affrettarono a proporla per primi. I consoli successivi furono Lucio
Sergio Fidenate, per la seconda volta, e Ostio Lucrezio Tricipitino. Durante il
loro consolato nulla accadde che sia degno di menzione. I successori
furono Aulo Cornelio Cosso e Tito Quinzio Peno, al secondo mandato. I
Veienti fecero delle incursioni in territorio romano. Corse voce che a quelle
scorrerie avessero preso parte alcuni giovani di Fidene, e l'indagine
sul fatto venne affidata a Lucio Sergio, a Quinto Servilio e a Mamerco
Emilio. Alcuni Fidenati furono confinati a Ostia perché non era
sufficientemente chiaro per qual motivo fossero assenti da Fidene proprio in
quei giorni. Fu aumentato il numero dei coloni ai quali venne assegnata la
terra dei caduti in guerra. Quell'anno la siccità
creò molti disagi e non soltanto vennero a mancare le piogge, ma anche la terra, privata della
sua naturale umidità, riuscì a malapena ad alimentare i fiumi perenni.
In alcuni luoghi la mancanza di acqua decimò, intorno alle fonti
e ai torrenti inariditi, il bestiame che moriva di sete. Altri animali furono
uccisi dalla scabbia, poi le malattie contagiarono gli uomini: prima
colpirono la gente di campagna e gli schiavi, poi la città ne fu
piena. Non soltanto i corpi furono infettati, ma anche le menti suggestionate da riti
magici di ogni genere di provenienza per lo più
straniera, perché coloro che speculano sugli animi vittime della superstizione, con i loro
vaticini riuscivano a introdurre nelle case strane cerimonie
sacrificali; finché dello scandalo ormai pubblico non si resero conto le
personalità più autorevoli della città, quando videro che in tutti i quartieri
e in tutti i tempietti venivano offerti dei sacrifici espiatori,
forestieri e insoliti, per implorare la benevolenza degli dèi.
Perciò diedero disposizione agli edili di controllare che non si venerassero
divinità al di fuori di quelle romane e che i riti fossero soltanto quelli
tramandati dai padri. La vendetta contro i Veienti fu rimandata
all'anno successivo, in cui furono consoli Gaio Servilio Aala e
Lucio Papirio Mugillano. Ma anche allora lo scrupolo religioso
impedì che si dichiarasse súbito guerra e che si inviassero truppe. Si decise di
mandare prima i feziali a chiedere soddisfazione. Coi Veienti ci si era
scontrati poco tempo prima a Nomento e Fidene, e a quell'episodio aveva
fatto séguito non la pace ma una tregua; il termine era ormai scaduto e,
prima del termine, quelli avevano ripreso le ostilità. Ciononostante
vennero inviati i feziali, ma quando questi, dopo aver giurato secondo il
rito dei padri, chiesero soddisfazione, le loro parole non
vennero nemmeno ascoltate. Si discusse allora se la guerra andava dichiarata
su decisione del popolo o se bastava un decreto del senato. I tribuni,
minacciando di impedire la leva, riuscirono a ottenere che il console
Quinzio portasse di fronte al popolo la questione della guerra. Votarono
tutte le centurie. La plebe ebbe la meglio anche su di un altro punto:
ottenne che non si eleggessero consoli per l'anno successivo. 31 Vennero così nominati quattro
tribuni militari con potere consolare: Tito Quinzio Peno, già console,
Gaio Furio, Marco Postumio e Aulo Cornelio Cosso. Di loro Cosso ebbe il governo
della città, mentre gli altri tre, portata a compimento la leva militare,
partirono alla volta di Veio e dimostrarono quanto in guerra sia
dannoso dividere il comando tra più persone. Ciascuno prediligeva il
proprio piano e siccome ognuno vedeva le cose in maniera diversa dagli altri,
finirono con l'offrire al nemico l'occasione di un colpo di mano.
Infatti, mentre le truppe erano disorientate perché c'era chi ordinava
di dare la carica e chi la ritirata, i Veienti li assalirono
sfruttando il momento propizio. Fuggendo disordinatamente i Romani ripararono
nel vicino accampamento: si patì il disonore più che la sconfitta.
La città, non abituata alle sconfitte, piombò nella costernazione; si
odiavano i tribuni, si chiedeva un dittatore nel quale riporre le speranze
di tutto il paese. Poiché anche in quella circostanza era di ostacolo lo
scrupolo religioso, non potendo il dittatore essere nominato se non dal
console, si consultarono gli àuguri che tolsero quello scrupolo. Aulo
Cornelio nominò dittatore Mamerco Emilio che a sua volta lo scelse come maestro
della cavalleria. Così, quando il paese ebbe veramente bisogno di un uomo
di qualità superiori, la punizione a suo tempo inflitta dai censori non
impedì che il timone dello Stato fosse affidato a una famiglia
ingiustamente bollata di infamia. Trascinati dal successo, i Veienti
mandarono messaggeri ai popoli dell'Etruria ad annunciare pomposamente
la loro vittoria su tre comandanti romani in una sola battaglia. Pur non
essendo riusciti a ottenere alcuna alleanza ufficiale dalla
confederazione, tuttavia attirarono da ogni parte volontari mossi dalla speranza del
bottino. Soltanto i Fidenati decisero di riaprire le ostilità e,
pensando che non fosse lecito iniziare una guerra se non con un delitto, come già
prima con gli ambasciatori così ora macchiarono le loro spade col sangue
dei nuovi coloni. Quindi si unirono ai Veienti. E poco dopo i capi dei due
popoli si consultarono per scegliere, tra Veio e Fidene, come
teatro di operazioni. Parve più opportuna Fidene, e i Veienti,
attraversato il Tevere, trasferirono a Fidene il loro apparato bellico. A Roma
regnava la paura. Richiamato da Veio l'esercito demoralizzato per la
sconfitta, si pose l'accampamento di fronte alla porta Collina, si
distribuirono uomini armati sulle mura, si sospese l'attività giudiziaria
nel foro e si chiusero le botteghe: cose queste che dettero a Roma l'aspetto di
un campo militare più che di una città. 32 E il dittatore,
mandati i banditori in giro per i quartieri, convocò in assemblea i cittadini
smarriti e li rimproverò di essersi persi d'animo per un così lieve
mutamento della sorte; per aver subito un piccolo scacco, oltretutto non dovuto
al valore dei nemici o all'ignavia dell'esercito romano, ma alla mancanza
di intesa tra i generali, avevano timore dei Veienti, da loro in passato
già sconfitti ben sei volte, e di Fidene, città più spesso
espugnata che assediata. Sia i Romani che i nemici erano gli stessi da molte
generazioni: stesso carattere, stessa forza fisica, stesse armi. E anche lui
era lo stesso dittatore Mamerco Emilio che, poco tempo prima, aveva
sbaragliato a Nomento gli eserciti di Veienti e Fidenati, ai quali si erano
uniti i Falisci; come maestro della cavalleria in campo di battaglia ci
sarebbe stato quello stesso Aulo Cornelio che nella guerra precedente,
come tribuno militare, aveva ucciso davanti a due eserciti il re dei
Veienti Larte Tolumnio, e ne aveva portato poi le spoglie opime nel tempio
di Giove Feretrio. Prendessero quindi le armi, ricordandosi che dalla
parte loro c'erano i trionfi, le spoglie e la vittoria, mentre da quella
del nemico l'orrendo assassinio degli ambasciatori uccisi contro il
diritto delle genti, il massacro in tempo di pace dei coloni di Fidene, la
rottura della tregua e la settima ribellione destinata a non avere
successo. Non appena i due eserciti si fossero trovati a contatto, quegli
infami nemici non si sarebbero rallegrati a lungo, ne era sicuro,
dell'umiliazione inflitta all'esercito romano e il popolo romano avrebbe
capito quanto più meritevoli verso la repubblica fossero quelli che lo
avevano nominato dittatore per la terza volta di coloro che avevano bollato di
infamia la sua seconda nomina, perché aveva tolto potere ai censori.
Quindi parte, dopo aver pronunciato solenni voti agli dèi, e si
accampa a un miglio e mezzo da Fidene, protetto dalle alture a destra e dal
fiume Tevere a sinistra. Al suo luogotenente Quinzio Peno ordina di
occupare i monti e di prendere posizione su di un colle situato alle
spalle dei nemici e fuori dalla loro vista. Il mattino dopo, quando gli Etruschi
avanzarono in ordine di battaglia, resi euforici dal successo del giorno
precedente, dovuto più alla fortuna che al valore, il dittatore
temporeggiò fino a quando le vedette gli riferirono che Quinzio aveva raggiunto
la sommità del colle vicino alla cittadella di Fidene. Allora diede
ordine di muoversi, guidando lui stesso a passo di carica la fanteria in
assetto di guerra contro il nemico. Al
maestro della cavalleria diede disposizione di combattere solo al suo comando: quando avesse avuto bisogno
dell'intervento della cavalleria avrebbe dato un segnale; allora
sì Aulo Cornelio avrebbe dovuto dimostrare sul campo di non aver dimenticato la
vittoria sul re etrusco, il dono opimo, Romolo e Giove Feretrio! Lo
scontro tra le due armate fu tremendo. Infiammati dall'odio, i Romani chiamano
traditori i Fidenati e predoni i Veienti; dicono che sono violatori di
tregue, macchiati del barbaro assassinio degli ambasciatori e con le
mani ancora sporche del sangue dei loro stessi coloni, alleati infidi e
nemici imbelli. Così, con i fatti e con le parole, saziano il loro odio. 33 Avevano fatto vacillare la
resistenza dei nemici già al primo urto, quando all'improvviso si spalancarono
le porte di Fidene e dalla città fuoriuscì uno strano esercito,
inaudito e inusitato fino a quel momento; un'immensa moltitudine armata di
fuochi, tutta sfavillante di torce ardenti che, lanciata in una corsa
folle, si riversò sul nemico. Per un momento quell'insolito modo di
combattere sbigottì i Romani. Allora il dittatore chiamò a sé il maestro
della cavalleria coi suoi uomini e Quinzio dalle alture. Quindi,
ravvivando egli stesso la battaglia, si precipitò all'ala sinistra che,
come se si fosse trovata nel mezzo di un incendio più che in un
combattimento, aveva cominciato a ripiegare terrorizzata dalle fiamme, e
gridò: «Vinti dal fumo come uno sciame di api, cacciati dalla vostra posizione,
cederete a un nemico senz'armi? Non volete spegnere il fuoco con la spada?
Se c'è da combattere col fuoco e non con le armi, perché non andate a
strappare tutte quelle torce e non attaccate il nemico con le sue stesse
armi? Avanti! Memori del nome di Roma e del coraggio dei vostri padri e
vostro: deviate quest'incendio sulla città nemica e distruggete
con le sue stesse fiamme Fidene, che con i vostri benefici non siete riusciti a
placare! Vi spingono a farlo il sangue dei vostri ambasciatori e dei
coloni e la vostra terra messa a ferro e fuoco!» Tutto l'esercito si
mise in moto agli ordini del dittatore. Raccolsero le torce che
erano state lanciate, altre le strapparono con la forza ai nemici,
così ora entrambi gli eserciti erano armati di fuoco. Il maestro della
cavalleria da parte sua escogita un nuovo tipo di battaglia equestre.
Ordina di togliere il morso ai cavalli, e per primo, dato di sprone, a briglia
sciolta si getta in mezzo alle fiamme; e gli altri cavalli, spronati a
correre senza più alcun impedimento, trascinano i cavalieri contro
il nemico. La polvere che si alza, mista al fumo delle torce,
offusca la vista a uomini e cavalli. Ma lo spettacolo inatteso che poco prima
aveva atterrito i soldati non atterrì i cavalli, così i
cavalieri seminarono morte e devastazione dovunque passavano. Si udì un
nuovo clamore di guerra che attirò l'attenzione di entrambi gli eserciti.
E il dittatore gridò allora che il luogotenente Quinzio aveva attaccato il
nemico alle spalle. Poi, lui stesso, ripetuto l'urlo di guerra, si
butta all'assalto con più accanimento. Due eserciti, con due
diversi modi di combattere, incalzavano e circondavano, di fronte e alle
spalle, gli Etruschi, che non avevano alcuna possibilità di ritirarsi
nell'accampamento o sulle alture, dove era spuntato a frapporsi un nuovo
contingente nemico. Mentre i cavalli, non più trattenuti dal morso,
avevano trascinato da ogni parte i cavalieri, la maggior parte dei Veienti
disordinatamente si dirige verso il Tevere, e i Fidenati superstiti cercano di
raggiungere la città di Fidene. La fuga porta quegli uomini terrorizzati
incontro alla morte: alcuni cadono trucidati sulle rive del fiume, altri,
costretti a buttarsi in acqua, vengono travolti dalla corrente. Anche
gli esperti nuotatori sono sopraffatti dallo sfinimento, dalle
ferite e dalla paura. Fra tanti solo pochi riescono a raggiungere a nuoto la
riva opposta. L'altra parte dell'esercito ripara in città
passando attraverso l'accampamento. Trascinati dall'impeto, anche i Romani
si buttano in quella direzione, specialmente Quinzio e i soldati che,
appena scesi con lui dalle alture, sono più freschi e pronti alle
fatiche, perché giunti alla fine dello scontro. 34 Entrati in città mescolati ai
nemici, gli uomini di Quinzio salgono sulle mura da dove danno ai compagni il
segnale che la città è stata presa. Appena il dittatore lo vide -
era anche lui già penetrato nell'accampamento deserto dei nemici -,
conduce verso la porta i soldati impazienti di precipitarsi sul bottino,
facendo loro balenare la speranza di ottenerne molto di più in
città. E, accolto all'interno delle mura, marcia senza indugi in direzione della
cittadella, dove vedeva riversarsi la massa scomposta dei fuggitivi. In
città il massacro non fu certo minore che in battaglia; infine i nemici,
gettate le armi, si consegnano al dittatore, chiedendo soltanto di aver
salva la vita. Città e accampamento vengono messi a sacco. Il giorno dopo,
tra cavalieri e centurioni venne sorteggiato un prigioniero a testa. Due
ne toccarono a quanti avevano dato prova di grandissimo valore. Il resto
dei nemici venne venduto all'asta e il dittatore ricondusse in trionfo a
Roma l'esercito vincitore e coperto di prede. Dopo aver ordinato al maestro
della cavalleria di dimettersi dalla carica, abdicò anche lui,
restituendo dopo quindici giorni in pace, quel potere che aveva accettato in
guerra, quando la situazione era critica. Alcuni nei loro annali hanno
riportato che presso Fidene ci fu anche una battaglia navale coi Veienti.
La cosa è però assai improbabile perché neppure oggi il fiume è
sufficientemente largo, e allora - come ci informano gli antichi - era assai
più stretto. A meno che, come spesso succede, lo scontro fortuito di alcune
navi che cercavano di impedire il guado del fiume, non sia stato
esagerato per attribuirsi il vanto, ingiustificato, di una vittoria navale. 35 L'anno successivo furono tribuni
militari con potere consolare Aulo Sempronio Atratino, Lucio Quinzio
Cincinnato, Lucio Furio Medullino e Lucio Orazio Barbato. Ai Veienti fu
concessa una tregua di vent'anni, agli Equi di tre, anche se la loro richiesta
era stata per un periodo più lungo; e le lotte interne ebbero
tregua. L'anno dopo, senza guerre all'esterno
né in città, fu reso memorabile dai giochi che si era fatto voto di indire
durante la guerra, e che furono allestiti con straordinario sfarzo dai
tribuni militari e richiamarono una grande quantità di gente dai
paesi vicini. I tribuni militari con potere consolare erano Appio Claudio Crasso,
Spurio Nauzio Rutilio, Lucio Sergio Fidenate e Sesto Giulio Iulo. Per la
cortese ospitalità di cui tutti si erano fatti carico, la manifestazione
riuscì molto gradita ai visitatori. A giochi conclusi, i tribuni della
plebe organizzarono dei comizi turbolenti nel corso dei quali si
scagliarono contro la moltitudine perché, subendo stupidamente il fascino
di coloro che in realtà odiava, continuava in eterno a mantenersi
schiava, e non solo non osava sperare di partecipare al consolato, ma persino
quando si trattava di eleggere i tribuni militari - magistratura aperta
a patrizi e a plebei - dimenticava se stessa e i propri candidati. Che
smettessero di domandarsi perché mai nessuno si preoccupava degli interessi
della plebe. Si fatica e si affronta il rischio solo quando
c'è la speranza di ricavarne vantaggio e onore. Non vi è nulla che gli
uomini non intraprendano se a chi tenta grandi imprese si riservano grandi
premi. Ma non si poteva certo pretendere, né sperare, che qualche
tribuno della plebe si buttasse alla cieca, con molto rischio e senza alcun
frutto, in scontri che gli avrebbero procurato l'implacabile
ostilità dei patrizi contro i quali lottava, mentre la plebe per la quale
combatteva non avrebbe minimamente aumentato la considerazione nei suoi
riguardi. Solo i grandi onori rendono grandi gli animi: nessuno dei plebei
avrebbe più disprezzato se stesso, se gli altri avessero cessato di
disprezzarlo. Con qualcuno bisognava pur sperimentare se c'era un plebeo in
grado di occupare un'alta carica, oppure l'esistenza di un uomo forte e
valoroso venuto fuori dalla plebe era un prodigio, un miracolo. Con uno
sforzo immenso si era arrivati a ottenere che i tribuni militari con
potere consolare venissero scelti anche tra la plebe. Avevano avanzato la
propria candidatura uomini di provate qualità civili e
militari: nei primi anni erano stati derisi, respinti e sbeffeggiati dai patrizi.
Poi alla fine avevano smesso di esporsi agli insulti. Non vedevano
perché non si dovesse abrogare quella legge che assicurava un diritto che non
avrebbe mai potuto realizzarsi. Certo per loro sarebbe stato meno
vergognoso venir esclusi per l'ingiustizia della legge e non perché
giudicati indegni. 36 Discorsi di questo genere, ascoltati
con viva partecipazione, spinsero alcuni a candidarsi al tribunato
militare e a promettere che una volta eletti avrebbero presentato questa o
quella proposta a favore della plebe. Si faceva balenare la speranza di
distribuire l'agro pubblico, di fondare colonie, di erogare per la paga dei
soldati una somma ottenuta imponendo un tributo ai possessori di terre. I
tribuni militari, allora, atteso il momento in cui molta gente era via
dalla città, dopo aver convocato i senatori con un avviso segreto per una
data stabilita, in assenza dei tribuni della plebe, fecero emanare dal
senato un decreto in base al quale, giacché circolava voce che i
Volsci avevano saccheggiato il territorio degli Ernici, i tribuni
militari dovevano andare a controllare la situazione, e si dovevano tenere i
comizi per le elezioni dei consoli. I tribuni partirono lasciando come
prefetto della città Appio Claudio, figlio del decemviro, un uomo molto
energico e, fin dalla culla, imbevuto di odio verso i tribuni della plebe.
Così i tribuni della plebe non poterono protestare né contro i
promotori del decreto del senato, perché erano assenti, né contro Appio, perché
ormai la cosa era approvata. 37 Furono eletti consoli Gaio Sempronio
Atratino e Quinto Fabio Vibulano. In quell'anno, a quanto si dice,
accadde un episodio che, pur riguardando un paese straniero, merita ugualmente
di essere menzionato. Volturno, la città etrusca oggi nota come
Capua, cadde in mano dei Sanniti e fu chiamata Capua dal loro comandante Capi
o, com'è più probabile, dal terreno pianeggiante in cui si trova. I
Sanniti la presero dopo esser stati in un primo tempo invitati dagli
Etruschi, stremati dalla guerra, a dividere con loro i benefici della
cittadinanza e la proprietà delle terre. Poi, nella notte successiva a un
giorno di festa, i nuovi coloni assalirono i vecchi abitanti immersi
nel sonno dopo le gozzoviglie, e li massacrarono. I consoli sopra menzionati entrarono in
carica alle idi di dicembre, dopo che erano avvenuti questi fatti. Ormai,
non soltanto gli uomini che erano stati inviati per informarsi erano
già ritornati con la notizia che i Volsci erano sul piede di guerra, ma
anche gli ambasciatori di Latini ed Ernici riferivano che mai i Volsci,
prima di allora, si erano tanto impegnati nella scelta dei comandanti e
nell'arruolamento di un esercito; la gente continuava a dire che
bisognava o dimenticare una volta per tutte le armi e la guerra sottomettendosi al
giogo nemico, oppure non essere inferiori per valore, resistenza e
disciplina militare a coloro con i quali si era in lotta per la
supremazia. Le informazioni rispondevano a verità, ma i patrizi non le
tennero nella dovuta considerazione. E Gaio Sempronio, a cui era toccata in sorte
quella provincia, confidando nella costanza della fortuna, giacché guidava
un popolo di vincitori contro dei vinti, dimostrò una
sconsideratezza e un'incuria tali che vi era più disciplina nell'esercito volsco che in
quello romano. Come spesso in altre occasioni, al valore si accompagnò
la fortuna. All'inizio della battaglia, affrontata da Sempronio con leggerezza
e imprudenza, si andò all'attacco senza aver rinforzato lo schieramento
con le riserve e senza aver disposto opportunamente la cavalleria. Il primo indizio
sugli esiti della battaglia fu l'urlo di guerra che si levò
forte e continuo dalla parte dei nemici, confuso, ineguale e ripetuto
fiaccamente da parte dei Romani. L'esercito, con quell'incerto grido, tradì
la paura degli animi. Perciò il nemico si buttò all'assalto con ancora
più accanimento, premendo con gli scudi e facendo lampeggiare le spade.
Dall'altra parte, ondeggiano gli elmi dei soldati che si guardano attorno, e, non
sapendo cosa fare, si agitano, si accalcano nel fitto della schiera. Le
insegne un po' restano sul posto abbandonate dai soldati della prima
fila, un po' sono riportate nell'interno dei manipoli. Non era
ancora una vera fuga, non era ancora una vittoria. I Romani, più che
combattere, cercavano di proteggersi. I Volsci si buttavano all'assalto,
premevano contro le truppe romane, ma vedevano più nemici morti che in
fuga. 38 Ormai si cede da ogni parte. Inutili
sono i rimproveri e gli incitamenti del console Sempronio. A
nulla servivano il potere e l'autorità, e presto i suoi
uomini avrebbero volto le spalle ai nemici, se Sesto Tempanio, un decurione di
cavalleria, non fosse intervenuto con grande prontezza di spirito quando
ormai la situazione stava per precipitare. Dopo aver urlato ai
cavalieri di scendere da cavallo, se volevano salvare la repubblica - e i
cavalieri di tutti gli squadroni avevano obbedito come a un comando del
console -, egli aggiunse: «Se questa coorte armata di piccoli scudi
non riesce a frenare l'impeto dei nemici, è la fine della nostra
supremazia. Seguite la punta della mia lancia come se fosse un vessillo.
Mostrate a Volsci e Romani che non c'è cavalleria che possa starvi a pari
quando siete in sella, né fanteria quando vi trasformate in fanti!»
Siccome al suo incitamento seguì un urlo di approvazione, Tempanio avanza
reggendo alta la punta della lancia. Dovunque passano, si fanno breccia con
la forza. Proteggendosi con gli scudi, accorrono dove vedono i compagni
in maggiore difficoltà. Le sorti della battaglia si risollevano in tutti
i punti dove il loro slancio li trascina. E se quel pugno di uomini
avesse potuto buttarsi dovunque simultaneamente, non c'era dubbio che i
nemici si sarebbero dati alla fuga. 39 Quando ormai da nessuna parte si
poteva resistere al loro attacco, il comandante dei Volsci ordina di lasciar
libero il passo a quella singolare coorte di nemici armati di scudi
leggeri finché, trascinata dal suo impeto, non si trovasse tagliata fuori
dai compagni. Allorché l'ordine venne eseguito, i cavalieri,
intrappolati, non riuscirono più a sfondare là dove erano passati, perché i
nemici erano andati a serrarsi proprio nel punto dove i cavalieri avevano fatto
breccia. Così, quando il console e le legioni romane non videro più
gli uomini che poco prima avevano protetto
l'intero esercito, tentarono il tutto per tutto per evitare che il
nemico annientasse, dopo averli intrappolati,
tanti valorosi soldati. I Volsci, divisi in due fronti, da una parte
tenevano testa al console e alle legioni e dall'altra incalzavano
Tempanio e i suoi cavalieri. Questi ultimi, nonostante i ripetuti
tentativi, non erano riusciti ad aprirsi un varco verso i compagni, e, occupata
un'altura, si difendevano disposti in cerchio, non senza ribattere colpo su
colpo. La battaglia durò fino al calar della notte. Anche il console
continuò a impegnare il nemico in uno scontro senza soste finché rimase un
barlume di luce. La notte separò i contendenti quando la battaglia era
ancora incerta. L'impossibilità di prevederne l'esito provocò in
entrambi gli accampamenti un tale terrore che tutti e due gli eserciti, dopo aver
abbandonato i feriti e gran parte dei bagagli, ripararono, come se
fossero stati vinti, sulle alture vicine. Tuttavia la collina fu assediata fino
oltre la mezzanotte. Ma quando agli assedianti arrivò notizia che il
loro accampamento era stato abbandonato, pensando che i compagni fossero stati
vinti, fuggirono anch'essi nelle tenebre, ognuno dove lo portava la
paura. Tempanio, temendo un'imboscata, tenne fermi i suoi fino all'alba. Poi,
sceso in ricognizione con pochi uomini, informandosi presso alcuni
nemici feriti, venne a sapere che l'accampamento dei Volsci era stato
abbandonato. Felice per questa notizia, gridò ai suoi uomini di
scendere dalla collina ed entrò nel campo romano. Ma avendo qui trovato tutto
deserto, abbandonato e nella stessa desolazione dell'accampamento nemico,
prima che i Volsci, rendendosi conto dell'errore, tornassero indietro, prese
con sé i feriti che gli era possibile trasportare e, ignorando in
che direzione fosse andato il console, si avviò per la strada
più breve verso la città. 40 Là era già arrivata
notizia della sconfitta e dell'abbandono dell'accampamento e, più di ogni
altra cosa, era stata accolta con manifestazioni di lutto pubblico e
privato la perdita dei cavalieri. Il console Fabio, siccome anche a Roma
regnava la paura, stava di guardia alle porte; quando in lontananza furono
avvistati i cavalieri, ci fu un momento di panico perché non si sapeva
chi fossero. Ma appena furono riconosciuti, trasformarono la paura in
una gioia così grande che la città tutta si riempì delle grida di
chi esultava per il ritorno dei cavalieri salvi e vittoriosi. E dalle case che
poco prima in lutto avevano pianto la morte dei loro, la gente si
riversò per le strade; le madri e le mogli trepidanti, dimentiche per la gioia del
loro decoro, corsero incontro allo squadrone e si abbandonarono, con
l'anima e col corpo, nelle braccia dei congiunti, riuscendo a stento a
controllarsi per la felicità. I tribuni della plebe, che avevano citato in
giudizio Marco Postumio e Tito Quinzio ritenendoli responsabili della
sconfitta subita presso Veio, colsero al volo l'occasione del recente
risentimento nei confronti di Sempronio per rinfocolare l'odio della gente verso di
loro. Così, convocata l'assemblea, andavano proclamando che a Veio la
repubblica era stata tradita dai suoi generali e che in séguito, visto che i
generali non erano stati puniti, anche il console aveva tradito l'esercito,
impegnato a combattere coi Volsci, mentre gli eroici cavalieri
erano stati esposti al massacro e l'accampamento vergognosamente
abbandonato. Allora Gaio Giunio ordinò di far chiamare il cavaliere Tempanio e,
una volta avutolo di fronte, gli disse: «Sesto Tempanio, io ti chiedo se
pensi che il console Sempronio sia entrato in battaglia al momento
opportuno, se abbia rinsaldato il suo schieramento con le riserve, e se abbia
in qualche modo adempiuto ai doveri di un buon console; se sei stato
proprio tu che, quando le legioni romane erano ormai vinte, di tua
iniziativa hai appiedato i cavalieri e risollevato le sorti della battaglia. E
poi, quando tu e i tuoi cavalieri siete rimasti tagliati fuori dal resto
delle nostre truppe, se il console è intervenuto di persona in
vostro aiuto o se ha mandato rinforzi. E ancora, se il giorno successivo hai
infine ricevuto qualche soccorso, o se tu e la tua coorte vi siete aperti la
strada verso il campo solo con il vostro valore. E se nell'accampamento
avete trovato traccia del console e dell'esercito, o soltanto soldati
feriti abbandonati in mezzo alla desolazione. Oggi devi dire queste
cose, in nome del tuo coraggio e della tua lealtà grazie ai quali
soltanto in questa guerra la repubblica non è crollata. Devi dire dove si trovano
adesso Gaio Sempronio e le nostre legioni, se sei stato abbandonato o se
tu hai abbandonato il console e l'esercito; e infine se siamo vinti o
vincitori.» 41 In risposta, si racconta, il
discorso di Tempanio fu senza fronzoli e serio, alla maniera dei militari; senza
vane lodi per sé, né compiacimento per le altrui colpe. Per quanto
riguardava la perizia bellica di Gaio Sempronio, disse che non spettava certo
a un soldato esprimere un giudizio su un generale, ma era spettato al
popolo romano quando nei comizi lo aveva scelto come console.
Perciò non era a lui che si doveva chiedere un giudizio sui piani di un comandante o
sulle astuzie di un console, cose queste che avrebbero richiesto una
profonda riflessione anche da parte di persone di grande cuore e intelligenza.
Ma poteva riferire quello che aveva visto. Prima di rimanere isolato
dal resto delle truppe, aveva visto il console combattere in prima linea,
incoraggiare i suoi e aggirarsi tra le insegne romane e i dardi nemici. In
séguito, tagliato fuori dalla vista dei suoi, dallo strepito e dalle urla
aveva capito che la battaglia era durata fino al calar della notte, e
riteneva che, data la gran quantità di nemici, non fosse stato possibile
sfondare in direzione della collina dove lui si era attestato. Ignorava dove si
trovasse l'esercito. Ma come nel momento critico lui e i compagni erano
andati a mettersi al riparo sfruttando le difese naturali della
posizione, supponeva che anche il console, per salvare l'esercito, fosse
andato ad accamparsi in un luogo più sicuro. A suo parere i
Volsci non versavano in condizioni migliori di quelle dei Romani. L'oscurità e
le circostanze avevano tratto in errore entrambi gli eserciti. E avendo infine
pregato che non lo trattenessero più a lungo, stremato com'era
dalla fatica e dalle ferite, fu congedato con grandi elogi, non solo per il
coraggio, ma anche per la moderazione. Nel frattempo il console era già
arrivato al tempio della Quiete sulla via Labicana. E lì dalla
città furono inviati carri e bestie da soma per riportare indietro l'esercito sfibrato
dalla battaglia e dalla marcia notturna. Poco dopo il console
entrò in città e si affrettò a ricoprire Tempanio di meritate lodi più
che a discolpare se stesso. Mentre la città era in angustie per l'insuccesso e
sdegnata nei confronti dei comandanti, Marco Postumio, che a Veio era stato
tribuno militare con potere consolare, fu offerto come imputato e
condannato al pagamento di 10.000 assi pesanti. Il suo collega Tito
Quinzio, che era uscito vincitore sia contro i Volsci come console sotto il
comando del dittatore Postumio Tuberto, sia contro Fidene come
luogotenente dell'altro dittatore Mamerco Emilio, riversando sul collega
già condannato tutta la responsabilità di quella giornata, fu assolto da tutte le
tribù. Si dice che gli siano stati di aiuto il ricordo del padre
Cincinnato, uomo degno di grande rispetto, e Quinzio Capitolino, allora già
molto avanti negli anni, il quale supplicava di evitare che proprio a
lui, che aveva poco da vivere, toccasse riferire a Cincinnato una
notizia così triste. 42 Il popolo elesse tribuni della
plebe, nonostante fossero assenti, Sesto Tempanio, Marco Asellio, Tiberio
Antistio e Spurio Pullio, che i cavalieri, su proposta di Tempanio,
avevano scelto come centurioni. Il senato, rendendosi conto che il
risentimento nei confronti di Sempronio aveva reso detestabile il nome di
console, decretò che si eleggessero dei tribuni militari con potere consolare.
Furono nominati Lucio Manlio Capitolino, Quinto Antonio Merenda e
Lucio Papirio Mugillano. All'inizio dell'anno, il tribuno della plebe Lucio
Ortensio citò in giudizio Gaio Sempronio, che era stato console l'anno
prima. Quattro colleghi lo implorarono di fronte a tutto il popolo
romano di non infierire sul loro incolpevole comandante, al quale non si
poteva imputare nulla eccetto la cattiva sorte; Ortensio si
irritò, pensando che volessero mettere alla prova la sua fermezza e che l'imputato
confidasse non tanto nelle suppliche dei tribuni, ostentate soltanto
per salvare le apparenze, quanto piuttosto nel loro appoggio legale. E
così, rivolgendosi a Sempronio, gli chiedeva dove fosse il famoso orgoglio
dei patrizi e dove l'animo sicuro e convinto della propria innocenza: un
ex-console si rifugiava sotto la protezione dei tribuni! E rivolgendosi
ai colleghi: «Quanto a voi, che cosa intendete fare se io proseguo
nell'accusa fino alla condanna? Volete privare il popolo dei suoi diritti o
distruggere il potere dei tribuni?» Ma essi ribatterono che il giudizio su
Sempronio e su chiunque altro spettava all'autorità assoluta
del popolo romano, e che essi non volevano e non potevano sopprimere il giudizio
del popolo. Ma, se le preghiere in favore del comandante, che per loro era
come un padre, non fossero servite, avrebbero indossato con lui la
veste da supplici. Allora Ortensio disse: «La plebe romana non
vedrà i suoi tribuni in gramaglie. Ritiro la mia accusa contro Gaio Sempronio, visto
che mentre comandava è riuscito a farsi amare così tanto dai suoi
soldati.» La compassione dei quattro tribuni non fu per la plebe e per i
senatori meno gradita dell'arrendevolezza di Ortensio di
fronte a giuste richieste. La buona sorte cessò di arridere
agli Equi, che avevano salutato come propria la dubbia vittoria conseguita
dai Volsci. 43 L'anno successivo divennero consoli Numerio Fabio
Vibulano e Tito Quinzio Capitolino, figlio di Capitolino. Sotto il comando di
Fabio, cui erano toccate in sorte le operazioni contro gli Equi, non ci
furono episodi degni di nota. Gli Equi erano appena riusciti a mettere in
mostra un timido schieramento di battaglia che i Romani li sbaragliarono,
senza quindi grande gloria per il console. Perciò gli venne negato
il trionfo, ma per aver cancellato l'onta della disfatta subita da Sempronio, gli
fu concesso di entrare in città con gli onori dell'ovazione. Mentre la guerra si era conclusa con
uno scontro di dimensioni ridotte rispetto a quanto si temeva, in
città la calma fu interrotta da contrasti di imprevista gravità tra plebei
e patrizi, dovuti alla proposta di raddoppiare il numero dei questori.
Questa proposta, che prevedeva si eleggessero, oltre ai due questori
urbani, altri due destinati ad assistere i consoli
nell'amministrazione bellica, era stata avanzata dai consoli, e i senatori l'avevano
appoggiata con entusiasmo. Ma i tribuni della plebe diedero battaglia perché
una parte dei nuovi questori, che fino a quel giorno erano stati eletti
solo fra i patrizi, fosse scelta tra la plebe. Sulle prime sia i consoli che
i senatori fecero di tutto per opporsi a questa rivendicazione. In
séguito concessero che, così come nell'elezione dei tribuni militari con
potere consolare, allo stesso modo nella nomina dei questori il popolo
avesse libertà assoluta di scelta. Poi, vedendo gli scarsi risultati
ottenuti, abbandonano del tutto la proposta di aumentare il numero dei
questori. I tribuni riprendono la proposta che era stata abbandonata, e
inoltre altre proposte sediziose, tra cui anche quella di una legge
agraria. A causa di tali contrasti il senato preferì eleggere i
consoli anziché i tribuni militari. Ma dato che l'intervento dei tribuni non permise di
emanare un decreto, la repubblica passò dal consolato
all'interregno. Nemmeno questo fu però esente da gravi disordini, perché i tribuni impedivano
ai senatori di riunirsi. La maggior parte dell'anno successivo si
trascinò in scontri tra i nuovi tribuni e alcuni interré: a seconda infatti del
momento, i tribuni impedivano ai senatori di riunirsi per nominare un
interré, o all'interré di emanare un decreto senatoriale sull'elezione dei
consoli. Alla fine fu nominato interré Lucio Papirio Mugillano il
quale, stigmatizzando sia i senatori, sia i tribuni della plebe, ricordava
che la repubblica, abbandonata e trascurata dagli uomini, ma sostenuta
dalla provvidenza e dalla cura degli dèi, continuava a reggersi in
piedi grazie alla tregua con i Veienti e alle esitazioni degli Equi. Tuttavia,
se da quella parte fossero arrivati allarmanti segnali, erano contenti che
la repubblica, priva di magistrati patrizi, venisse schiacciata? Che non
ci fossero né un esercito né un comandante per arruolarlo? O avrebbero
respinto una guerra esterna con una guerra civile? Se l'una e l'altra
fossero esplose insieme, a stento con l'aiuto degli dèi si sarebbe
potuto evitare che la potenza romana venisse travolta. Perché invece, rinunciando
ciascuno a una parte dei propri diritti, non si sforzavano di trovare
un accordo su una posizione intermedia, i senatori accettando che
al posto dei consoli fossero eletti i tribuni militari, e i tribuni della
plebe non opponendosi all'elezione di quattro questori scelti
indistintamente tra patrizi e plebei con il libero voto del popolo? 44 Si tennero prima i comizi per
l'elezione dei tribuni. Furono eletti tribuni con potere consolare Lucio
Quinzio Cincinnato, per la terza volta, Lucio Furio Medullino, per la seconda,
Marco Manlio e Aulo Sempronio Atratino, tutti patrizi. Quest'ultimo
tenne i comizi per le elezioni dei questori. Benché, tra i non pochi
plebei, aspirassero alla carica il figlio del tribuno della plebe Aulo
Antistio e il fratello dell'altro tribuno Sesto Pompilio, né
l'autorità e né l'appoggio di costoro poterono impedire che la gente desse la sua
preferenza, per la loro nobiltà, a uomini i cui padri e i cui antenati
aveva visto consoli. Tutti i tribuni erano fuori di sé, e in particolare
Pompilio e Antistio, indignati per lo scacco subito dai congiunti. Che cosa
significava l'accaduto? Com'era possibile che i servigi da loro
prestati, gli abusi compiuti dai patrizi o il piacere di esercitare un diritto che
prima non era mai stato concesso, non avessero indotto il popolo a
eleggere, se non un tribuno militare, almeno un solo questore plebeo! Non
erano dunque servite a nulla le preghiere di un padre per il figlio e
di un fratello per il fratello, pur essendo entrambi tribuni della plebe,
rivestiti di quel sacrosanto potere creato per la salvaguardia della
libertà. In tutta quella faccenda c'erano senz'altro degli imbrogli e Aulo
Sempronio nei comizi si era valso più dell'astuzia che della lealtà.
Sostenevano che i loro congiunti erano stati privati della carica per i
raggiri di Sempronio. Siccome non potevano attaccare lui personalmente,
protetto com'era dalla sua fama di onestà e dalla magistratura che
in quel momento deteneva, rivolsero la loro rabbia contro Gaio Sempronio,
cugino di Atratino, e, con l'appoggio del collega Marco Canuleio, lo citarono
in giudizio per l'umiliazione subita nella guerra contro i Volsci. In
séguito gli stessi tribuni portarono in senato la questione della
distribuzione delle terre, misura alla quale Gaio Sempronio si era sempre
opposto con accanimento; pensavano, e a ragione, che Sempronio o
avrebbe perso credito presso i patrizi abbandonando la causa, o
continuando a sostenerla fino al giorno del processo avrebbe scontentato la
plebe. Egli preferì esporsi all'odio e nuocere alla propria causa piuttosto
che all'interesse del paese, e rimase fedele all'opinione che non si dovesse
fare alcuna elargizione, perché ciò avrebbe solo aumentato la
popolarità dei tribuni. Questi ultimi non cercavano di ottenere terra per la
plebe, ma risentimento contro la sua persona. Egli avrebbe affrontato anche
quella tempesta con animo forte; quanto al senato, non doveva avere, nei
confronti suoi o di qualsiasi altro cittadino, tanto riguardo da
danneggiare la collettività per salvare un solo individuo. Con animo non meno
deciso, quando venne il giorno del processo, perorò di persona la
propria causa e, nonostante i molti tentativi fatti dai senatori per
placare la plebe, Sempronio fu condannato a una multa di 15.000 assi. Quello stesso anno la vergine Vestale
Postumia fu processata per amore sacrilego. Pur essendo innocente,
attirò su di sé i sospetti della gente per il suo modo di vestire troppo
raffinato e per il comportamento più libero di quanto convenisse a una
vergine. La causa fu prima rinviata, poi la donna fu assolta, ma il pontefice
massimo a nome di tutto il collegio le ordinò di astenersi dalle
frivolezze e di coltivare più la santità che l'eleganza. Nel corso di quello stesso
anno, i Campani conquistarono Cuma, città che allora era in mano dei
Greci. L'anno successivo ebbe come tribuni
militari con potere consolare Agrippa Menenio Lanato, Publio Lucrezio Tricipitino
e Spurio Nauzio Rutilio. 45 Grazie alla fortuna del popolo romano,
fu quello un anno memorabile più per il grande pericolo corso che per il
danno subito. Gli schiavi congiurarono di appiccare fuoco alla
città in punti tra loro distanti, e di occupare in armi la cittadella e il
Campidoglio mentre la gente era intenta qua e là a portar
soccorso alle case. Ma Giove sventò questi piani scellerati e, grazie alla delazione di
due partecipanti alla congiura, i colpevoli vennero arrestati e puniti. I
delatori furono ricompensati con 10.000 assi pesanti pagati dall'erario
- una somma allora considerata una vera fortuna - e con la concessione
della libertà. Gli Equi ricominciarono a fare preparativi
di guerra e da fonti degne di fede arrivò a Roma la notizia
che nuovi nemici, i Labicani, si erano alleati con quelli di un tempo.
All'ostilità degli Equi la città era ormai abituata come a un anniversario. Ma,
siccome la delegazione inviata a Labico era tornata con risposte
ambigue, dalle quali si intuiva che non preparavano ancora la guerra, ma che la
pace non sarebbe durata a lungo, i Romani affidarono ai Tuscolani il
cómpito di controllare che a Labico non sorgessero nuove minacce di guerra. I tribuni militari con potere consolare
per l'anno successivo, Lucio Sergio Fidenate, Marco Papirio Mugilano
e Gaio Servilio, figlio di Prisco, il dittatore che aveva conquistato
Fidene, súbito dopo essere entrati in carica, ricevettero la visita di
ambasciatori da Tuscolo. Riferivano che i Labicani avevano impugnato le armi e si
erano accampati sull'Algido, dopo aver devastato la campagna di Tuscolo
insieme a contingenti di Equi. Fu allora dichiarata guerra ai Labicani.
Avendo il senato decretato che due tribuni partissero per la guerra e che
uno rimanesse invece a capo della città, súbito scoppiò un
litigio fra i tribuni perché ciascuno vantava la
propria superiorità in campo militare e disprezzava il governo
della città, considerandolo un compito
sgradito e inglorioso. Mentre i senatori assistevano sbalorditi a quell'alterco
non certo decoroso tra colleghi, Quinto Servilio esclamò: «Visto
che non avete alcun rispetto né per questo consesso né per la repubblica,
dirimerà questa contesa l'autorità paterna: mio figlio governerà la
città senza che si debba ricorrere all'estrazione a sorte. Spero soltanto che chi aspira
al comando in guerra sappia usare maggiore ragionevolezza e concordia nel
reggerlo che nel desiderarlo.» 46 Si decise di non organizzare una
leva militare che coinvolgesse tutta la popolazione; furono estratte a sorte
solo dieci tribù, all'interno delle quali i due tribuni scelsero i
più giovani e li condussero a combattere. Gli attriti sorti in
città tra i tribuni si riaccesero nell'accampamento per la stessa,
insaziabile sete di comando. Non erano d'accordo su nulla; lottavano per far
prevalere la propria opinione; ciascuno esigeva che solo i suoi piani
e i suoi ordini fossero approvati. Si disprezzavano a vicenda. Finché,
dopo una reprimenda dei loro luogotenenti, decisero di esercitare il
supremo comando a giorni alterni. Quando queste notizie arrivarono a
Roma, si dice che Quinto Servilio, ammaestrato dall'età e
dall'esperienza, abbia implorato gli dèi immortali perché la discordia dei tribuni non
fosse tanto dannosa per la repubblica quanto lo era stata a Veio. E come se
una disfatta imminente fosse ormai certa, insistette con il figlio perché
arruolasse dei soldati e preparasse le armi. Non fu cattivo profeta.
Infatti, quando i Romani agli ordini di Lucio Sergio, a cui quel giorno toccava
il comando, si vennero a trovare in una posizione svantaggiosa sotto
l'accampamento nemico, dove li aveva trascinati la speranza infondata di
espugnarlo - visto che gli avversari si erano ritirati al di là della
palizzata di protezione fingendo di essere in preda al panico -, un attacco
improvviso degli Equi li ricacciò giù lungo il pendio di una
valle. Molti furono raggiunti e massacrati mentre, più che fuggire,
ruzzolavano verso il basso. Quel giorno riuscirono a stento a difendere
l'accampamento, mentre quello successivo, ormai quasi circondati dai nemici, lo
abbandonarono fuggendo vergognosamente attraverso la porta sul
lato opposto. I comandanti con i luogotenenti e le forze rimaste
abbarbicate alle insegne si diressero a Tuscolo. Altri, dopo essersi dispersi
per le campagne, per vie diverse raggiunsero Roma, portando la notizia
di una sconfitta maggiore di quella subita. La reazione fu però
più contenuta del previsto, giacché tutti erano preparati al disastro e le
riserve su cui contare in una situazione di emergenza erano già state
preparate dal tribuno militare. Per disposizione di quest'ultimo, i
magistrati di rango inferiore riportarono l'ordine in città, e gli
osservatori mandati in gran fretta tornarono con la notizia che i comandanti e
l'esercito erano a Tuscolo e che il nemico non aveva spostato l'accampamento.
Quello che però più di ogni altra cosa riuscì a infondere coraggio, fu
la nomina a dittatore, per decreto del senato, di Quinto Servilio Prisco, uomo
di cui il paese aveva potuto apprezzare la lungimiranza già
in molte altre passate circostanze, ma anche in occasione di quella guerra,
perché soltanto lui aveva previsto in anticipo i pessimi risultati della
rivalità tra i tribuni. Dopo aver nominato maestro della cavalleria il
figlio, dal quale - quando questi era tribuno militare - era stato proclamato
dittatore (è questa la tesi di alcuni storici, altri scrivono che
quell'anno fu Servilio Aala maestro della cavalleria) Quinto Servilio
partì per la guerra con un nuovo esercito e, fatti venire gli uomini che
si trovavano a Tuscolo, pose il campo a due miglia dal nemico. 47 In séguito al successo ottenuto,
erano passati agli Equi l'arroganza e la negligenza già dei comandanti
romani. Così il dittatore, buttatosi all'assalto con la cavalleria e avendo
scompigliato sin da súbito le prime linee dei nemici, ordinò alle
legioni di avanzare rapidamente e uccise uno dei suoi vessilliferi che esitava. Le
truppe si gettarono nella mischia con tale accanimento che gli Equi non
riuscirono a reggere l'urto, e, sconfitti sul campo, si diressero con
una fuga disordinata verso l'accampamento; questo fu espugnato dai
Romani in meno tempo e lotta che nella battaglia. Preso e saccheggiato
l'accampamento, il dittatore concesse il bottino ai soldati. I
cavalieri, che avevano inseguito i nemici fuggiti dal campo, riferirono
che tutti i Labicani vinti e buona parte degli Equi si erano rifugiati a
Labico. Il giorno dopo l'esercito giunse a Labico; la città,
circondata, fu presa facendo uso di scale e saccheggiata. Il dittatore
riportò a Roma l'esercito vincitore e rinunciò alla carica otto giorni dopo essere
stato eletto. Poi, opportunamente, prima che i tribuni della plebe
fomentassero disordini per la legge agraria proponendo la distribuzione del
territorio labicano, il senato, a grande maggioranza, stabilì di
fondare una colonia a Labico. Mille e cinquecento coloni furono inviati da
Roma e ciascuno di loro ricevette 2.000 iugeri di terra. Dopo la conquista di Labico si ebbero
come tribuni militari con potere consolare Agrippa Menenio Lanato, Gaio
Servilio Strutto e Publio Lucrezio Tricipitino, tutti per la seconda volta, e
Spurio Rutilio Crasso; l'anno successivo Aulo Sempronio Atratino, per
la terza volta, Marco Papirio Mugillano e Spurio Nauzio Rutilio,
entrambi per la seconda volta. Per due anni vi furono rapporti tranquilli con
l'esterno e disordini interni dovuti alle leggi agrarie. 48 Chi
fomentava il volgo erano i tribuni della plebe Spurio Mecilio, al quarto
mandato, e Marco Metilio, al terzo, entrambi eletti pur non essendo a Roma.
Essi avevano presentato una proposta di legge in base alla quale la
terra tolta al nemico doveva essere divisa un tanto a testa; questo
decreto del popolo avrebbe portato alla confisca delle fortune di gran
parte dei nobili; infatti, com'era normale per una città situata su
suolo altrui, non esisteva probabilmente un solo palmo di terra che non fosse
stato conquistato con le armi e la plebe non possedeva altro se non gli
appezzamenti venduti o assegnati dallo Stato, per questo si profilava
uno scontro durissimo tra plebe e patrizi. Né in senato, né nelle
riunioni private che tenevano con le personalità più in vista,
i tribuni militari riuscivano a trovare sulla questione una via d'uscita. Allora
Appio Claudio, nipote dell'Appio Claudio che era stato tra i decemviri
addetti alla stesura delle leggi, pur essendo il più giovane fra i
senatori, disse, a quanto si racconta, che da casa portava un espediente
antico e familiare. Infatti era stato il suo bisavolo Appio Claudio a indicare
ai patrizi come unico mezzo per annientare la potestà tribunizia
l'opposizione dei colleghi. Gli uomini nuovi alle cariche pubbliche, diceva,
facilmente si lasciano indurre a cambiar idea dall'autorità dei
maggiorenti qualora questi adattino i loro discorsi una volta tanto alle
circostanze e non alla dignità del loro rango. Gli umori di persone come i
tribuni mutano secondo la situazione: non appena avessero visto come il
favore popolare andava tutto a quei colleghi che, senza lasciare spazio a
loro, promuovevano per primi qualche iniziativa, allora avrebbero
abbracciato senza alcuna esitazione la causa del senato, per guadagnarsi le simpatie
dell'intero ordine e soprattutto quelle dei senatori più
autorevoli. Tutti approvarono e in particolare Quinto Servilio Prisco lodò il
giovane perché non aveva tralignato dalla stirpe dei Claudi. Quindi a ciascuno,
per quel che poteva, venne dato l'incarico di indurre al veto qualche
membro del collegio dei tribuni. Tolta la seduta, i senatori
cominciarono ad avvicinare i tribuni. Con argomenti persuasivi, con esortazioni e
con l'assicurazione che il loro gesto sarebbe risultato gradito ai
singoli e a tutto il senato, riuscirono a convincere sei tribuni a porre il
veto. Quando il giorno dopo - come precedentemente convenuto - si
riferì al senato la sedizione fomentata da Mecilio e Metilio con la loro deleteria
proposta di riforma agraria, il tenore dei discorsi pronunciati dai
senatori più autorevoli era tale che ciascuno, per parte sua, diceva di non
saper ormai quale suggerimento dare e di non vedere nessun'altra soluzione
se non nell'aiuto dei tribuni: la repubblica ormai in stato d'assedio si
affidava alla loro protezione, come un cittadino bisognoso d'aiuto. Era
motivo di onore per i tribuni e per la loro carica che il tribunato non si
opponesse ai colleghi malvagi con minore decisione di quanta ne
dimostrasse nell'attaccare il senato e nel suscitare discordie tra i diversi
ordini sociali. Per tutto il senato sorse allora un mormorio e da ogni
parte della curia si invocavano i tribuni. Poi, una volta tornato il
silenzio, i tribuni predisposti dalle pressioni dei capi patrizi dichiararono
di esser pronti a opporre il proprio veto alla proposta presentata
dai colleghi, proposta che il senato riteneva potesse sovvertire la
repubblica. Il senato ringraziò coloro che avevano opposto il veto. I tribuni che
invece avevano presentato la proposta di legge, convocata
l'assemblea, chiamarono i colleghi traditori degli interessi della plebe e servi dei
consoli, e, dopo aver inveito contro di loro con parole ancora
più dure, rinunciarono all'iniziativa. 49 L'anno successivo - durante il quale
furono tribuni militari con potere consolare Publio Cornelio Cosso, Gaio
Valerio Potito, Quinto Quinzio Cincinnato e Numerio Fabio Vibulano -,
ci sarebbero state due guerre se non fosse stata ritardata da uno
scrupolo religioso dei loro capi quella contro i Veienti, le cui terre furono
devastate dallo straripamento del Tevere che travolse soprattutto le
fattorie nelle campagne. Nello stesso periodo, la disfatta subita tre anni
prima non consentì agli Equi di portare aiuto ai Bolani, una
popolazione che apparteneva alla loro stirpe. Costoro avevano fatto delle incursioni
nel limitrofo territorio di Labico e attaccato i nuovi coloni. Ma, mentre
avevano sperato che tutti gli Equi approvassero e difendessero quel
misfatto, abbandonati dai loro, persero terre e città in una guerra che non
merita neppure di essere descritta perché si ridusse a un assedio da nulla
e a una sola battaglia. Il tentativo del tribuno della plebe Lucio
Decio di far passare una legge in base alla quale anche a Bola - come
già a Labico - si sarebbero inviati dei coloni, fallì per
l'opposizione dei colleghi, i quali dichiararono che non avrebbero permesso il passaggio di
alcun decreto del popolo privo dell'autorizzazione del senato. L'anno seguente gli Equi
riconquistarono Bola e, dopo avervi mandato coloni, la protessero con nuove forze,
mentre a Roma erano tribuni militari con potere consolare Gneo
Cornelio Cosso, Lucio Valerio Potito, Quinto Fabio Vibulano, per la seconda
volta, e Marco Postumio Regillense. La campagna contro gli Equi fu affidata
a quest'ultimo, uomo di indole malvagia, anche se essa si
manifestò più nell'ora della vittoria che durante la guerra. Arruolato
tempestivamente un esercito, egli lo condusse a Bola e, dopo aver fiaccato con
scaramucce la baldanza degli Equi, fece irruzione nella città. Quindi
spostò la lotta dai nemici contro i concittadini e, sebbene durante
l'assedio avesse dichiarato che il bottino sarebbe stato dei soldati, una volta
conquistata la città mancò di parola. Per quanto mi riguarda credo che fu
proprio questa la causa del risentimento delle truppe, e non la
scarsità, rispetto alle promesse del tribuno, del bottino trovato in una
città saccheggiata poco tempo prima e aperta di recente a nuovi coloni.
L'irritazione crebbe quando Postumio rientrò a Roma richiamato dai
colleghi a causa dei disordini provocati dai tribuni, e pronunciò in assemblea
una frase stupida e insensata: mentre il tribuno della plebe Marco Sestio, che
proponeva una legge agraria, disse che nel contempo avrebbe avanzato anche
la proposta di inviare coloni a Bola - perché era giusto che la
città e le terre di Bola andassero a chi le aveva conquistate con le armi -,
Postumio esclamò: «Guai ai miei soldati se non staranno tranquilli!»
Questa frase irritò i senatori non meno dei partecipanti all'assemblea. Il
tribuno della plebe, uomo energico e non privo di eloquenza, avendo
trovato un avversario dal carattere arrogante e dalla lingua sfrenata, che,
aizzato e punzecchiato, avrebbe finito per usare espressioni tali da
rendere odiose non solo la sua persona, ma anche la sua causa e
l'intera classe patrizia, cercava di trascinare a discutere Postumio
più di ogni altro membro del collegio dei tribuni militari. Quando ebbe udito
quella frase brutale e spietata, subito Marco Sestio esclamò: «Ma
lo sentite, o Quiriti, che minaccia di punire i suoi soldati come se fossero
schiavi? E tuttavia questa belva vi sembrerà più degna di
alti onori di quelli che vi regalano terre e città, vi aprono colonie, vi procurano una
casa per la vecchiaia, e per fare i vostri interessi combattono contro
nemici tanto feroci e arroganti? Cominciate a domandarvi perché pochi
ormai abbracciano la vostra causa. E cosa dovrebbero aspettarsi da voi?
Forse le cariche che preferite affidare ai vostri avversari, piuttosto che ai
difensori del popolo romano? Poco fa vi ha ferito sentire le parole di
costui. Ma ciò ha importanza? Se doveste votare ora, preferireste costui, che
minaccia di punirvi, a quanti vogliono assicurarvi terre, case e
patrimoni.» 50 Quando la frase di Postumio
arrivò alle orecchie dei soldati, suscitò nell'accampamento un'indignazione
ancora più grande: l'uomo che era ricorso alla frode per togliere il bottino
alle sue truppe, ora minacciava anche di punirle? Poiché si mormorava
apertamente, il questore Publio Sestio, pensando che quella sedizione
potesse essere repressa con la stessa violenza con la quale era
scoppiata, inviò un littore ad arrestare un soldato che sbraitava. Allora si
sentirono urla e ingiurie; il questore, colpito da un sasso, dovette
allontanarsi dalla mischia, mentre l'uomo che lo aveva colpito gridava che
al questore era toccata la punizione che il comandante aveva
minacciato di infliggere ai soldati. Richiamato da questo tumulto, Postumio
aggravò la situazione con duri interrogatori e crudeli punizioni.
Quando le urla di quelli che erano stati condannati a morte con il
graticcio richiamarono una gran folla, egli, non riuscendo a frenare la
collera, corse giù come un forsennato dai banchi del tribunale verso coloro che
protestavano contro la pena. Non appena littori e centurioni si
buttarono sulla folla cercando di disperderla, la rabbia proruppe a tal
punto che il tribuno militare venne lapidato dalle sue truppe. Quando a
Roma arrivò la notizia di questo terribile episodio, i tribuni militari
proposero di aprire un'inchiesta senatoriale sulla morte del collega, ma i
tribuni della plebe si opposero. Lo scontro però aveva un'altra
origine: i patrizi, temendo che la plebe, spaventata dall'inchiesta e accecata
dalla rabbia, volesse nominare tribuni militari appartenenti alla
propria classe, facevano il possibile perché venissero eletti i consoli. Dato
che i tribuni della plebe non permettevano al senato di emanare il
decreto sull'inchiesta e opponevano il proprio veto ai comizi per le elezioni
consolari, si tornò all'interregno. Ma alla fine la
vittoria fu dei patrizi. 51 Nei comizi tenuti dall'interré Quinto Fabio
Vibulano furono eletti consoli Aulo Cornelio Cosso e Lucio Furio Medullino. Durante il loro mandato, all'inizio
dell'anno si approvò un decreto del senato in base al quale i tribuni
avrebbero dovuto portare al più presto di fronte al popolo la questione
dell'omicidio di Postumio e la plebe avrebbe potuto far condurre l'inchiesta
da chi voleva. La plebe decise all'unanimità di affidare
l'incarico ai consoli. Ed essi, dimostrando particolare moderazione e clemenza,
mandarono a morte soltanto pochi che, com'è opinione diffusa, si
suicidarono; ma non riuscirono a evitare che la plebe si indignasse per il loro
operato: infatti i plebei si lamentavano che le proposte avanzate nel loro
interesse giacevano a lungo senza ricevere attenzione, mentre la legge
promulgata per spargere sangue e morte tra la plebe era stata applicata
in fretta e con tanta energia. Ora che i responsabili dei disordini erano
stati puniti, ai patrizi si presentava un'occasione molto propizia
per placare gli animi: la spartizione delle terre di Bola; in
questo modo avrebbero diminuito il desiderio della legge agraria,
destinata a privare i patrizi dell'agro pubblico ingiustamente posseduto.
Quello che tormentava gli animi era proprio questa ingiustizia: che i
nobili non solo si tenessero le terre pubbliche occupate con la forza, ma si
rifiutassero anche di distribuire alla plebe la terra ancora da
assegnare, strappata da poco al nemico e che presto sarebbe divenuta - come tutto il
resto - preda di pochi. Quello stesso anno il console Furio
guidò le legioni contro i Volsci che razziavano il territorio degli Ernici.
Ma, non avendo trovato in quella zona il nemico, prese Ferentino, dove
si era radunato un gran numero di Volsci. Il bottino fu minore di quanto
ci si aspettava perché i Volsci, avendo poche speranze di difendere la
città, durante la notte l'abbandonarono dopo aver portato via
ogni cosa. Il giorno dopo, quando i Romani la occuparono, era un deserto.
La città e le terre circostanti furono date in dono agli Ernici. 52 A un anno trascorso in pace grazie
alla moderazione dei tribuni fece séguito il tribunato della plebe di
Lucio Icilio, sotto il consolato di Quinto Fabio Ambusto e Gaio Furio
Paculo. Mentre sin dai primi giorni dell'anno Icilio, proponendo leggi
agrarie, fomentava disordini, come se fosse un suo dovere, per il nome che
portava e per la famiglia cui apparteneva, scoppiò una
pestilenza non tanto grave quanto minacciosa, che distolse le menti degli uomini dal foro
e dalle lotte politiche per rivolgerle alla cura delle case e dei
corpi. Qualcuno pensa che la pestilenza fu meno dannosa dei
disordini che sarebbero potuti scoppiare. Alla pestilenza di quell'anno, dalla
quale la città uscì con molti ammalati ma pochissimi morti, sotto il
consolato di Marco Papirio Atratino e Gaio Nauzio Rutilio, seguì,
come spesso accade, una carestia, dovuta al fatto che si era trascurata la
coltivazione dei campi. La fame avrebbe avuto conseguenze ben più
disastrose della pestilenza, se non si fosse provveduto all'approvvigionamento di
viveri inviando delegati presso tutti i popoli che vivevano lungo il mare
etrusco e le rive del Tevere, per comprare frumento. I Sanniti che
occupavano Cuma e Capua, con insolenza, impedirono l'acquisto del grano agli
inviati. I tiranni della Sicilia, invece, generosamente li aiutarono. Ma
la parte più consistente di derrate alimentari fu trasportata lungo il
Tevere grazie alla buona disposizione dei popoli etruschi. I consoli si
resero conto di come si fosse spopolata la città per il morbo, quando
non trovarono che un solo senatore per ogni ambasceria e furono costretti ad
aggiungervi due cavalieri. Se si eccettuano la pestilenza e la carestia,
nel corso di quei due anni non ci furono altri problemi, né in
città né fuori. Ma non appena queste preoccupazioni scomparvero si
manifestarono nuovamente i mali che da sempre turbavano la città: la
discordia interna e la guerra con l'esterno. 53 Durante il consolato di Marco Emilio
e Gaio Valerio Potito gli Equi stavano preparando una guerra e i
Volsci, pur non avendo preso le armi in maniera ufficiale, partecipavano alla
campagna come mercenari. Saputo che i nemici erano già entrati nei
territori dei Latini e degli Ernici, il console Valerio cercò di
organizzare il reclutamento, ma il tribuno della plebe Marco Menenio, autore di un
progetto di legge agraria, cercava di impedirglielo e per l'appoggio del
tribuno nessuno poteva venir costretto a prestare giuramento. Ma
all'improvviso arrivò la notizia che la cittadella di Carvento era caduta in
mano ai nemici. Quest'umiliante episodio non solo rese odioso ai
senatori Menenio, ma offrì anche al resto dei tribuni - per altro già
convinti a opporsi col veto alla legge agraria -
un motivo più giusto per fare resistenza al collega. Di discussione in
discussione, la disputa andò per
le lunghe. I consoli chiamarono a testimoni dèi e uomini che la
colpa per la vergogna di qualunque sconfitta, già subita o incombente
da parte dei nemici, sarebbe ricaduta soltanto su Menenio che impediva la
leva; mentre Menenio, a sua volta, protestava a gran voce che avrebbe
smesso di ostacolare la leva soltanto se i proprietari avessero rinunciato al
possesso illegittimo dell'agro pubblico. A questo punto gli altri nove
tribuni posero fine allo scontro con un decreto e dichiararono, a nome
del collegio, che si sarebbero schierati con il console Gaio Valerio
se egli, nella realizzazione della leva, avesse fatto ricorso, contro il
veto del loro collega, a sanzioni pecuniarie o ad altre forme di
coercizione nei confronti dei renitenti. Forte di questo decreto, il console
fece prendere per il collo quei pochi che si appellavano al tribuno, e allora
tutti gli altri, intimoriti, prestarono giuramento. L'esercito venne
condotto sotto la cittadella di Carvento. Qui, pur essendoci odio tra
console e soldati, i Romani al primo assalto scacciarono di slancio la
guarnigione posta a difesa e ripresero la cittadella; l'occasione per
attaccarla era stata offerta dalla negligenza dei nemici che avevano
abbandonato il presidio per darsi alle razzie. Il bottino non fu trascurabile,
perché il frutto delle frequenti incursioni era stato tutto quanto
ammassato in quel luogo considerato sicuro. Il console ordinò ai
questori di metterlo all'incanto e di versarne il ricavato nelle casse dello
Stato, dichiarando che gli uomini avrebbero partecipato alla spartizione
del bottino quando non si fossero rifiutati di prestare servizio
militare. Per questo si accrebbe il risentimento della plebe e dei soldati
verso il console. Così, quando quest'ultimo fece ingresso a Roma con
l'onore dell'ovazione decretata dal senato, i soldati, con la licenza
consueta in tali occasioni, intonarono rozzi canti nei quali alternavano
salaci frecciate al console ad aperte lodi a Menenio, e ogni volta che veniva
fatto il nome del tribuno, la gente accalcata lungo la strada
gareggiava in acclamazioni e applausi con i canti dei soldati. Questo
preoccupò i patrizi più della sfrenatezza dei soldati nei confronti del console, che
era un'usanza ormai quasi consolidata. E, sembrando certo che
Menenio sarebbe stato eletto tribuno militare qualora avesse presentato la
sua candidatura, per escluderlo furono convocati i comizi consolari. 54 Vennero eletti consoli Gneo Cornelio
Cosso e, per la seconda volta, Lucio Furio Medullino. Prima di allora
la plebe non si era mai indignata tanto perché non le erano stati
affidati i comizi per l'elezione dei tribuni militari. Mostrò di
lì a poco il suo sdegno vendicandosi nei comizi per l'elezione dei questori,
quando per la prima volta furono nominati a questa magistratura dei
plebei. Infatti, su quattro posti disponibili, uno solo toccò a un
patrizio, Cesone Fabio Ambusto, mentre a giovani di famiglie nobilissime furono
preferiti tre plebei: Quinto Silio, Publio Elio e Gaio Papio. Ho trovato
che chi spinse il popolo a esprimere un voto così libero furono gli
Icili: tre membri di quella famiglia tanto ostile al patriziato erano stati eletti
tribuni della plebe per l'anno in corso. Essi avevano promesso una grande
quantità di cose di cui il popolo era avidissimo, ma anche dichiarato che
non avrebbero preso iniziative se almeno nell'elezione dei questori - la
sola carica lasciata aperta dal senato sia a patrizi, sia a plebei - il
popolo non avesse avuto sufficiente coraggio per realizzare
quanto aveva così a lungo desiderato e che era consentito dalle leggi. Agli occhi della plebe la cosa
sembrò un grande successo: non veniva presa in considerazione la questura solo in
base alla sua importanza, ma si credeva che la strada verso i consolati
e i trionfi fosse stata finalmente aperta a uomini nuovi. I patrizi invece
scalpitavano come se quelle cariche pubbliche non le condividessero
con i plebei, ma le avessero perse per sempre. Dicevano che, in una
situazione del genere, non valeva la pena di allevare dei figli i quali, scacciati
dal posto degli avi e costretti a vedere altri in possesso delle loro
cariche, si sarebbero ridotti a fare i Salii o i Flàmini e a celebrare
sacrifici pubblici senza più autorità e potere. Da entrambe le parti gli animi
erano irritati. Mentre la plebe aveva preso coraggio perché ora aveva
tre uomini illustri a sostenere la causa del popolo, i patrizi, rendendosi
conto che tutte le elezioni nelle quali la plebe avrebbe potuto scegliere
i candidati dell'una e dell'altra parte sarebbero state molto simili a
quella dei questori, cercavano di arrivare alle elezioni consolari che
non erano ancora aperte a entrambe le classi sociali. Gli Icili, al
contrario, sostenevano che si dovessero nominare dei tribuni militari e
dicevano che alla plebe toccava finalmente accedere alle cariche. 55 Tra le
iniziative dei consoli non ce n'era nemmeno una che i tribuni potessero
bloccare per realizzare ciò che desideravano. Ma all'improvviso, per
uno straordinario colpo di fortuna, arrivò la notizia che Volsci ed
Equi avevano sconfinato in territorio latino ed ernico per compiervi razzie.
Quando, per decreto senatoriale, i consoli avviarono le operazioni di
arruolamento in vista della guerra, i tribuni si opposero con tutte le
proprie forze, dicendo che quello era un colpo di fortuna per loro e per la
plebe. Erano tutti e tre uomini agguerriti e ormai di stirpe nobile,
benché appartenessero alla plebe. Due di loro si assunsero il còmpito
di tenere sotto costante controllo i consoli, uno per ciascuno. Al terzo
venne affidato l'incarico di trattenere o di aizzare la plebe a
seconda delle circostanze. Così né i consoli riuscivano a realizzare la
leva, né i tribuni a ottenere le elezioni desiderate. E quando ormai la
fortuna stava pendendo dalla parte della plebe, arrivarono messaggeri ad
annunciare che, mentre i soldati di presidio alla cittadella di Carvento si
erano disseminati a far prede nei dintorni, gli Equi avevano conquistato
la rocca dopo aver eliminato i pochi uomini rimasti di guardia; alcuni
poi erano stati uccisi mentre rientravano nella fortezza, altri
ancora dispersi nelle campagne. La sciagura toccata alla città
aggiunse forza all'azione dei tribuni. Infatti, inutilmente pregati di cessare
la loro opposizione alla guerra, non cedettero né di fronte al pericolo
che minacciava il paese, né di fronte all'odio che si attiravano,
così ottennero che il senato decretasse l'elezione di tribuni militari, con la
condizione che non venissero computati i voti dati a chi in
quell'anno era tribuno della plebe e che nessun tribuno della plebe fosse
riconfermato per l'anno seguente. Era evidente che in tal modo il senato
voleva prendere di mira gli Icili, accusati di aspirare al consolato come
ricompensa per il loro sedizioso tribunato. Allora, con il consenso di
tutti gli ordini si dette inizio alla leva e ai preparativi bellici. Non
è chiaro, e fonti discordano, se entrambi i consoli partirono per la
rocca di Carvento, oppure se uno rimase per presiedere ai comizi. Di una
cosa si può essere sicuri, perché non esiste voce di dissenso: dopo un
lungo e inutile assedio, ci si ritirò dalla rocca di Carvento e con lo stesso
esercito si riconquistò Verrugine nel territorio dei Volsci, e poi
vennero devastate le campagne degli Equi e
dei Volsci. 56 A Roma, la vittoria della plebe era
consistita nell'ottenere le elezioni che preferiva, ma da queste
elezioni uscirono vincitori i patrizi. Infatti, contrariamente a ogni
previsione, furono eletti tribuni militari con potere consolare Gaio Giulio
Iulo, Publio Cornelio Cosso e Gaio Servilio Aala, tutti e tre
patrizi. Pare che i patrizi fossero ricorsi a un espediente del quale
già allora gli Icili li accusavano: mescolando a quelli degni molti
candidati indegni avrebbero finito per allontanare dai candidati plebei il
popolo, disgustato dalle infamanti bassezze di alcuni di loro. In séguito
si diffuse la notizia che Volsci ed Equi - vuoi indotti a sperare
dall'efficace difesa di Carvento, vuoi infuriati per la perdita del presidio
armato di Verrugine - si stavano impegnando con tutte le forze alla
guerra. A capo della coalizione armata c'erano gli Anziati; i loro
ambasciatori avevano fatto la spola tra i popoli di entrambe le nazioni,
rinfacciando loro la viltà dell'anno precedente, quando, rinchiusi fra le
mura, avevano permesso che i Romani scorrazzassero per le campagne a far
razzie e che fosse annientato il presidio di Verrugine. Ora, dicevano,
non solo i Romani mandavano truppe in armi nei loro territori ma perfino
coloni. E i Romani non solo si tenevano, dopo averlo spartito, quanto
era di loro proprietà, ma avevano anche regalato Ferentino agli Ernici,
dopo averla strappata ai Volsci. Siccome questi discorsi accendevano gli
animi, là dove arrivavano gli inviati moltissimi giovani si
arruolavano. La gioventù di tutti quei popoli si radunò ad Anzio, dove
venne posto l'accampamento in attesa che arrivasse il nemico. Quando queste
notizie giunsero a Roma, suscitando più allarme del dovuto, il senato súbito
ordinò di nominare un dittatore, misura estrema alla quale si ricorreva
in circostanze critiche. Dicono che Giulio e Cornelio abbiano sopportato di
mal animo questa decisione; la cosa fu discussa animatamente: i
patrizi più autorevoli, dopo essersi invano lamentati perché i tribuni
militari non si assoggettavano all'autorità del senato, alla
fine fecero appello ai tribuni della plebe, ricordando che in casi analoghi la loro
autorità aveva frenato l'ardore dei consoli. I tribuni, felici della
discordia tra i senatori, dicevano di non avere alcun aiuto da dare a chi non
li considerava nel novero dei cittadini, né in quello degli uomini.
Se un giorno le magistrature fossero state aperte a tutti, garantendo
così anche ai plebei di partecipare alla cosa pubblica, allora avrebbero
vigilato perché i decreti senatoriali non divenissero vani per la prepotenza dei
magistrati. Nel frattempo i patrizi, liberi dal rispetto per le
leggi e i magistrati, esercitassero da soli anche il potere tribunizio. 57 Questa disputa, sorta nel momento
meno opportuno, mentre era in corso una guerra importante, aveva occupato i
pensieri della gente. Ma quando Giulio e Cornelio a turno ebbero
ripetutamente sostenuto che non era giusto che li si privasse del mandato
affidato loro dal popolo, essendo sufficientemente idonei a condurre
quella guerra, il tribuno militare Servilio Aala disse di aver taciuto per
tanto tempo non perché non avesse una opinione ben ferma (e infatti quale
buon cittadino separava il proprio interesse privato da quello pubblico?),
ma piuttosto perché avrebbe preferito che i suoi colleghi cedessero
spontaneamente all'autorità del senato, invece di tollerare che si
invocasse contro di loro la potestà tribunizia. Anche allora, se la
situazione lo avesse permesso, avrebbe dato ai colleghi il tempo per recedere
da quell'ostinata presa di posizione. Ma, siccome le
necessità della guerra non aspettano le decisioni degli uomini, egli avrebbe
anteposto il pubblico interesse al favore dei colleghi; se il senato non
cambiava idea, la notte successiva avrebbe nominato un dittatore. Se poi
qualcuno si fosse opposto al decreto del senato, lui si sarebbe attenuto
alla semplice volontà del senato. Avendo con ciò ottenuto elogi
non immeritati e riconoscenza da parte di tutti, nominò dittatore Publio
Cornelio, dal quale venne a sua volta scelto quale maestro della cavalleria;
fornì così un esempio, a chi considerava il suo caso e quello dei
colleghi, di come spesso popolarità e successo arridano più facilmente
a chi non li ricerca ansiosamente. La guerra non fu memorabile: in un'unica e
per di più facile battaglia i nemici furono sbaragliati nei pressi di
Anzio. L'esercito vincitore devastò il territorio dei Volsci
ed espugnò una fortezza situata vicino al lago Fucino, dove furono catturati
3.000 nemici, mentre i Volsci superstiti, ricacciati all'interno
delle mura, non poterono difendere le campagne. Il dittatore, dopo aver
condotto la guerra in maniera tale da dar l'impressione di aver semplicemente
usufruito dell'occasione propizia, tornò in città famoso per
la sua fortuna più che per la sua gloria, e quindi depose la magistratura. I
tribuni militari, senza fare alcun accenno ai comizi per le elezioni dei
consoli, irritati, credo, per la nomina del dittatore, indissero invece
i comizi per l'elezione dei tribuni militari. Allora una più grave
preoccupazione si insinuò nei patrizi, che vedevano la propria causa tradita dai
loro. Così come l'anno prima, candidando i peggiori, erano riusciti a
scatenare il disgusto nei confronti di tutti i plebei, anche i
più degni, ora, presentando i patrizi più autorevoli e che godevano
del favore popolare, si assicurarono tutti i posti, senza che ai plebei ne toccasse
neanche uno. Furono eletti quattro che già avevano detenuto quella
magistratura: Lucio Furio Medullino, Gaio Valerio Potito, Numerio Fabio Vibulano
e Gaio Servilio Aala. Quest'ultimo fu riconfermato in carica, oltre che
per le altre sue qualità, per la popolarità che si era di recente
conquistata grazie alla sua singolare moderazione. 58 In quell'anno, poiché era scaduto il
termine della tregua col popolo dei Veienti, si chiese soddisfazione
tramite gli ambasciatori e i feziali. Quando questi arrivarono al confine,
andò loro incontro una delegazione di Veienti. Costoro chiesero che non si
andasse a Veio prima che essi si fossero presentati di fronte al senato
romano. E il senato, poiché scontri intestini travagliavano i Veienti,
concesse che non si richiedesse loro alcun risarcimento: tanto si era
lontani dal profittare delle disgrazie altrui. Ma nel paese dei Volsci i
Romani subirono una sconfitta: la perdita del presidio di Verrugine. In
quell'occasione ebbe un peso decisivo la mancanza di
tempestività: si sarebbero potute aiutare le truppe che, assediate dai Volsci,
chiedevano soccorso, se si fosse intervenuti in fretta; l'esercito
inviato a dare manforte arrivò giusto in tempo per sorprendere i nemici sparpagliati
a raccogliere prede, a massacro già concluso.
Responsabili del ritardo furono, più che il senato, i tribuni: essendo stato loro riferito
che gli assediati resistevano strenuamente, non tennero presente che
non esiste valore capace di andare oltre il limite della resistenza umana.
Ma quegli eroici combattenti non rimasero invendicati, né da vivi né
dopo la morte. L'anno successivo, che vide come
tribuni militari con potere consolare Publio e Gneo Cornelio Cosso, Numerio
Fabio Ambusto e Lucio Valerio Potito, venne dichiarata guerra a Veio,
a séguito dell'arrogante risposta data dal senato di quella città,
il quale, agli ambasciatori che chiedevano soddisfazione, ordinò
di rispondere che, se i Romani non se ne fossero andati al più presto
dalla città e dal territorio di Veio, avrebbero dato loro ciò che
Larte Tolumnio aveva già dato ai loro predecessori. I senatori si indignarono
e ingiunsero ai tribuni militari
di proporre al più presto al popolo di dichiarare guerra ai
Veienti. Appena la proposta fu resa nota, i
giovani cominciarono a mormorare, lamentandosi che la guerra con i Volsci
non era ancora finita; che pochi giorni prima erano stati annientati due
presidi, mentre gli altri venivano mantenuti ancora, ma a prezzo di
continui rischi; che non c'era anno in cui non si dovesse scendere in campo,
e, come se non fossero bastati i problemi già esistenti, ecco che
si dava inizio a una nuova guerra con uno dei popoli più potenti dei
dintorni, che sicuramente avrebbe aizzato contro di loro l'intera Etruria. I tribuni della plebe esasperarono
ancor più la tensione sorta spontaneamente: essi andavano dicendo
che la guerra più grande era quella condotta dai patrizi contro la plebe, a
bella posta vessata dal servizio militare e esposta a farsi trucidare
dal nemico; la tenevano lontana da Roma, per evitare che nella pace,
memore della libertà e delle colonie, si agitasse pensando all'agro pubblico e a
libere elezioni. Prendendo i veterani, enumeravano le campagne
militari, le ferite e le cicatrici di ciascuno di loro, domandando quale
parte del corpo era ancora integra per ricevere nuove ferite e quanto sangue
potessero ancora versare per la repubblica. Poiché, con questi
argomenti, ripetuti nei loro discorsi e nei loro comizi, i tribuni erano riusciti a
dissuadere la plebe dall'intraprendere un nuovo conflitto,
la proposta di legge sull'entrata in guerra fu rinviata, perché sembrava
destinata a essere respinta se fosse stata esposta all'ostilità
popolare. 59 Nel frattempo fu deciso che i
tribuni militari conducessero l'esercito in territorio volsco. A Roma fu
lasciato soltanto Gneo Cornelio. I tre tribuni, quando risultò evidente
che i Volsci non erano accampati da nessuna parte e che non avrebbero
affrontato il rischio di una battaglia, divisero in tre l'esercito e quindi si
sparsero a devastare la zona. Valerio si diresse su Anzio, Cornelio
su Ecetra: dovunque passavano, saccheggiavano campi e abitazioni in
lungo e in largo, per tenere divise le forze dei Volsci. Fabio, senza
compiere alcun saccheggio, andò ad assediare Anxur, che era l'obiettivo
principale della campagna. Anxur, l'attuale Terracina, era una
città declinante verso un terreno paludoso. Fabio simulò un attacco da
quella parte; le quattro coorti affidate a Servilio Aala con l'ordine di aggirare
la zona si impossessarono di una collina che dominava la città.
Quindi, da questa posizione sovrastante, in un settore dove non vi era alcun
presidio, tra tumulto e alte grida assalirono le mura. Quelli che
difendevano la parte più bassa della città contro Fabio, sorpresi da
quell'offensiva repentina, lasciarono agli attaccanti il tempo per accostare le
scale alle mura. Sùbito la città si riempì di nemici; a lungo durò
la terribile strage, sia di chi fuggiva, sia di chi cercava di resistere, di
armati e di inermi. I vinti furono costretti a partecipare alla lotta,
perché non vi era speranza per chi si ritirava. Ma all'improvviso venne dato
l'ordine di risparmiare chi non era armato e allora tutti i superstiti
deposero volontariamente le armi; così circa 2.500 furono catturati vivi.
Fabio impedì ai suoi uomini di mettere le mani sul bottino finché non fossero
arrivati i colleghi, dicendo che Anxur era stata presa anche da quegli
eserciti, perché non avevano permesso agli altri Volsci di
proteggere quella posizione. Quando i colleghi arrivarono, i tre eserciti
saccheggiarono la città, che era molto ricca perché aveva goduto di un lungo
periodo di prosperità. Quel gesto magnanimo da parte dei comandanti fu il
primo segnale di riconciliazione tra plebei e patrizi. Si aggiunse poi
un dono che fu il più opportuno di tutti quelli fatti dai maggiorenti al
popolo: prima che la plebe e i tribuni vi facessero accenno, il senato
decretò che i soldati venissero pagati attingendo direttamente alle
casse dello Stato, mentre fino a quel giorno ciascun soldato prestava
servizio a proprie spese. 60 Si tramanda che mai nessuna
concessione fu accolta dalla plebe con tanto entusiasmo. Una gran folla si
riunì davanti alla curia, afferrando le mani di coloro che uscivano e chiamandoli
veri 'Padri', dichiarando che di conseguenza per una patria tanto
generosa nessuno avrebbe esitato a dare il proprio corpo, il proprio
sangue, finché gli fosse rimasto un briciolo di forze. Se da una parte si
presentava il lieto vantaggio che il patrimonio di ciascuno era al sicuro
nel periodo in cui la persona era consacrata al servizio del paese,
dall'altra il fatto che quella concessione fosse stata spontanea - non
rivendicata dai tribuni, né richiesta con insistenza nei comizi -
moltiplicava la soddisfazione e accresceva la riconoscenza per quel
gesto. I tribuni della plebe, i soli a non partecipare alla gioia e
all'armonia che in quei giorni accomunavano i due ordini, sostenevano che una tale
misura non sarebbe stata tanto gradita ai patrizi, né tanto favorevole
per l'intera cittadinanza, come tutti credevano; si trattava di una
decisione che a prima vista sembrava migliore di quanto l'esperienza avrebbe
dimostrato. E infatti, il denaro necessario come avrebbe potuto essere
messo insieme, se non imponendo un nuovo tributo al popolo? I senatori
avevano elargito a terzi il denaro altrui. E anche se tutti i cittadini
avessero accettato, i veterani ormai in congedo non avrebbero tollerato che
altri prestassero il servizio militare in condizioni migliori di
quelle toccate a loro, né che gli stessi che avevano già pagato
per il proprio servizio militare pagassero anche per quello di altri. Facendo leva
su questi argomenti, riuscirono a influenzare parte della plebe. Quando
poi il tributo fu fissato, i tribuni della plebe dichiararono che avrebbero
offerto il loro appoggio a chiunque si fosse rifiutato di versare il
tributo per la paga dei soldati. I patrizi continuarono a sostenere la
loro fortunata iniziativa, contribuendo per primi al pagamento del
tributo. Dato che non si coniavano ancora monete d'argento, alcuni fecero
portare all'erario carri pieni di assi di una libbra, rendendo
così più appariscente la loro contribuzione. Dopo che i membri del senato ebbero
scrupolosamente contribuito secondo il censo, anche i plebei più in
vista, essendo amici dei nobili, cominciarono a versare la propria quota, com'era
stato convenuto. Quando la folla vide che questi uomini venivano elogiati dai
patrizi e considerati probi cittadini da quanti erano in età
militare, rifiutato l'appoggio dei tribuni, fece a gara per pagare. Venne
poi approvata la legge sulla dichiarazione di guerra ai Veienti e i
nuovi tribuni militari con potere consolare condussero a Veio un esercito
composto in gran parte di volontari. 61 I tribuni erano Tito Quinzio
Capitolino, Quinto Quinzio Cincinnato, Gaio Giulio Iulo, al secondo mandato,
Aulo Manlio, Lucio Furio Medullino, al terzo, e Manio Emilio Mamerco.
Furono loro i primi ad assediare Veio. All'inizio di questo assedio gli
Etruschi tennero un'affollata assemblea presso il tempio di Voltumna, ma non
riuscirono a decidere se tutte le genti etrusche dovessero entrare in
guerra accanto ai Veienti. Nell'anno successivo l'assedio divenne più
fiacco perché parte dei tribuni e dell'esercito venne richiamata dalla
guerra contro i Volsci. Quell'anno ebbe come tribuni militari con potere
consolare Gaio Valerio Potito, per la terza volta, Manio Sergio Fidenate,
Publio Cornelio Maluginense, Gneo Cornelio Cosso, Gaio Fabio Ambusto e
Spurio Nauzio Rutilio, al suo secondo mandato. Coi Volsci ci fu una battaglia
campale presso Ferentino ed Ecetra, nella quale i Romani ebbero la
meglio. Poi i tribuni cominciarono ad assediare Artena, città dei
Volsci. Quindi, ricacciato in città il nemico che tentava una sortita, i
Romani ebbero l'opportunità di fare irruzione e occuparono tutto, tranne la
rocca. In essa, trattandosi di una fortificazione naturale, si era
asserragliato un gruppo di armati, mentre in basso molti furono uccisi o fatti
prigionieri. Ebbe inizio l'assedio, ma non si poteva espugnarla perché il
presidio era più che sufficiente, data la ristrettezza del luogo; né si
poteva sperare nella resa, visto che l'intera scorta pubblica di grano era
stata portata all'interno della rocca prima che la città
cadesse. Stanchi di non venirne a capo, i Romani avrebbero rinunciato, se un servo
traditore non avesse consegnato loro la fortezza. Questi fece infatti entrare
da un passaggio scosceso i soldati che la conquistarono. Dopo che le
sentinelle caddero sotto i colpi, tutti gli altri, in preda al panico, si
arresero. Rase al suolo la città e la rocca di Artena, le legioni furono
richiamate dal territorio dei Volsci e tutte le forze romane furono
concentrate su Veio. Allo schiavo traditore, oltre alla libertà, furono dati
in premio i beni di due famiglie e gli fu attribuito il nome di Servio Romano.
Alcuni sostengono che Artena appartenesse ai Veienti e non ai
Volsci. L'errore è dovuto al fatto che tra Cere e Veio esisteva una
città con lo stesso nome. Solo che quell'Artena, che poi era dei Ceretani
e non dei Veienti, l'avevano già distrutta i re romani; quest'altra con
lo stesso nome, della cui distruzione si è appena detto,
si trovava nel territorio dei Volsci. Libri 5-6: Sacco di Roma e
lotte per il Consolato LIBRO V 1 Dopo essersi assicurati la pace sugli
altri fronti, Romani e Veienti erano pronti allo scontro con un
accanimento e un odio reciproco tali che era chiaro sarebbe stata la fine per
chi ne fosse uscito sconfitto. I due popoli tennero i comizi in maniera del
tutto diversa. I Romani aumentarono il numero dei tribuni militari con
potere consolare. Ne vennero eletti otto, cosa che non aveva precedenti in
passato: Manio Emilio Mamerco, Lucio Valerio Potito (rispettivamente
per la seconda e la terza volta), Appio Claudio Crasso, Marco Quintilio
Varo, Lucio Giulio Iulo, Marco Postumio, Marco Furio Camillo e Marco
Postumio Albino. I Veienti, invece, nauseati com'erano dal ripetersi anno
per anno delle beghe elettorali che nel frattempo erano state causa di
discordie interne, nominarono un re. Questo provvedimento indispettì
le popolazioni etrusche, meno per risentimento verso la monarchia che non
per antipatia nei confronti della persona scelta come sovrano eletto.
Questi infatti era già in precedenza risultato odioso al mondo etrusco a
causa della sua ricchezza e dell'arroganza, perché aveva interrotto
con la violenza i giochi solenni, che era considerato sacrilego
sospendere. Sdegnato per la sconfitta elettorale - i rappresentanti dei
dodici popoli etruschi gli avevano infatti preferito un altro candidato
per la carica di sacerdote -, nel pieno svolgimento dello spettacolo,
aveva fatto trascinare via all'improvviso gli attori, gran parte
dei quali erano suoi servi. Pertanto le popolazioni di ceppo etrusco, dedite
quanto nessun'altra alle pratiche religiose (poiché primeggiavano
nell'arte di celebrarle), decretarono che non sarebbero intervenute in aiuto dei
Veienti fino a quando questi ultimi fossero stati sottoposti a un re. A
Veio la notizia di tale decisione venne passata sotto silenzio per paura
del re, il quale avrebbe considerato non solo responsabile di
false informazioni ma anche promotore di sedizioni chi gli avesse riferito
una qualunque diceria di quel tipo. Anche se i Romani venivano informati
che in Etruria la situazione era tranquilla, ciò non ostante -
visto che a quanto si riferiva la cosa era il tema centrale di tutte le assemblee
- costruivano delle fortificazioni tali da garantire una protezione sui
due lati: da una parte verso la città e contro eventuali sortite degli
assediati, dall'altro in direzione dell'Etruria per tagliare la strada ai
rinforzi, nel caso ne fossero arrivati da quella parte. 2 Siccome i comandanti romani
riponevano maggiori speranze di successo nell'assedio piuttosto che
nell'assalto, venne iniziata la costruzione addirittura di baraccamenti invernali
(cosa del tutto ignota ai soldati romani), e si decise di continuare la
guerra rimanendo nei quartieri invernali. Quando la notizia
arrivò a Roma alle orecchie dei tribuni della plebe - i quali ormai da tempo non
avevano più alcuna occasione per suscitare disordini -, si precipitano
nell'assemblea e iniziano a sobillare gli animi della massa,
continuando a ripetere che era quello il motivo per il quale si era assegnato
uno stipendio ai soldati, e che essi non si erano sbagliati pensando che
quel dono dei loro avversari si sarebbe intinto di veleno. Era stata
messa in vendita la libertà della plebe: i giovani, tenuti in
continuazione lontani dalla città ed esclusi dalla partecipazione alla vita
politica, ormai non si ritiravano più nemmeno di fronte all'inverno e alla
cattiva stagione, né tornavano a vedere le proprie abitazioni e i propri
averi. Quale pensavano fosse la causa di un servizio militare che
durava all'infinito? Certo non ne avrebbero trovata nessun'altra al di
fuori di questa: e cioè per evitare che si discutessero, grazie alla
massiccia presenza di quei giovani nei quali erano riposte tutte le forze
della plebe, le questioni relative ai loro interessi. Inoltre essi subivano
un trattamento ben peggiore di quello riservato ai Veienti: mentre
infatti questi ultimi trascorrevano l'inverno al riparo delle loro case,
difendendo una città protetta da mura formidabili e dalla posizione naturale,
i soldati romani, oppressi dalla neve e dal gelo, dovevano resistere
nella faticosa costruzione di fortificazioni, riparandosi sotto tende
fatte di pelli, senza deporre le armi neppure in quella fase dell'anno -
e cioè l'inverno - che costituisce un'interruzione naturale a tutte le
guerre per terra e per mare. Una schiavitù come quella che li
costringeva a prestare servizio militare tutto l'anno non avevano osato imporla
né i re, né quei consoli arroganti che avevano preceduto la creazione del
tribunato, né l'odioso potere del dittatore, né tantomeno la
crudeltà dei decemviri. Il fatto era che i tribuni militari tiranneggiavano la
plebe romana. Che cosa avrebbero mai potuto fare in qualità di
consoli o di dittatori, quegli individui che avevano reso tanto odiosa e crudele una
semplice parvenza di potere consolare? Ma tutto ciò accadeva
non certo senza ragione: nemmeno su otto tribuni della plebe si era trovato
spazio per un plebeo. Prima i patrizi riuscivano di solito a occupare tre
posti con estrema fatica: adesso salivano al potere a colpi di otto per
volta e neppure in quella folla aveva trovato posto un qualche plebeo
che, se non altro, ricordasse ai colleghi che a prestare servizio
militare non erano degli schiavi ma degli
uomini liberi loro concittadini, che almeno in pieno inverno era
doveroso far rientrare nelle rispettive case e
dimore, permettendo loro - in un certo periodo dell'anno - di tornare a
rivedere genitori, figli e consorti, di godere della propria
libertà e di eleggere i magistrati. Mentre protestavano urlando queste
cose, i tribuni trovarono in Appio Claudio, lasciato dai colleghi in
città con il còmpito di reprimere i disordini causati dai tribuni, un
avversario alla loro altezza. Cresciuto nell'abitudine allo scontro diretto con
i plebei, Appio era un uomo che alcuni anni prima - come è stato
da me ricordato - aveva escogitato l'idea di piegare il potere dei tribuni
ricorrendo al veto dei loro colleghi. 3 E in quella circostanza Appio
Claudio, non solo pronto d'ingegno ma anche ricco di esperienza,
pronunciò un discorso di questo tenore: «Se si è mai dubitato, o Quiriti, che i
tribuni della plebe abbiano scatenato disordini in nome dei vostri o dei loro
interessi, io ho la certezza che quest'anno abbiamo smesso di nutrire
perplessità del genere. E se da un lato mi compiaccio che abbiate posto
fine a un errore durato tanto a lungo, dall'altro, siccome si è
arrivati a eliminarlo in un momento che vi è particolarmente propizio, mi
congratulo anche con voi e grazie a voi con la repubblica. Oppure c'è
qualcuno che potrebbe dubitare che i tribuni della plebe non siano mai stati tanto
in fermento e tanto sdegnati da ingiustizie commesse nei vostri
confronti - se mai ne sono state commesse - quanto della liberalità dei
patrizi verso la plebe il giorno in cui venne concesso uno stipendio fisso ai
soldati? Cos'altro credete che i tribuni temessero allora o intendano
oggi sconvolgere se non l'armonia tra le classi, che essi ritengono serva
soprattutto ad abbattere il potere tribunizio? Così, per Ercole,
come se fossero dei medici da strapazzo, costoro vanno in giro a cercare lavoro,
vogliono che nel paese ci sia sempre qualche malanno, perché voi li
facciate intervenire nella speranza di trovarne la cura. Ma voi tribuni la
plebe la difendete o la osteggiate? Siete contro i soldati o ne sostenete
la causa? A meno che non diciate: "qualunque cosa facciano i
patrizi, non è di vostro gradimento, sia che la facciano a favore o contro la
plebe", e come i padroni impediscono ai propri schiavi di avere rapporti con
estranei e ritengono giusto evitare nei loro confronti tanto di fare del
bene quanto del male, allo stesso modo voi impediate ai patrizi di avere
rapporti con la plebe, per evitare che noi nobili se ne possa guadagnare
il consenso con la liberalità e la munificenza, e che la plebe si dimostri
arrendevole o obbediente alle nostre parole. E infine, se in voi ci
fosse non dico del senso civico, ma un briciolo di umanità, non
sarebbe stato meglio favorire e, per quanto vi è possibile, assecondare la
liberalità dei patrizi e l'obbedienza della plebe? Se la concordia durasse in
eterno, chi non se la sentirebbe di garantire che questo paese
diventerà in breve tempo il più potente tra quelli dei dintorni? 4 Quanto poi non solo utile ma anche
inevitabile sia stata la decisione presa dai miei colleghi di non ritirare
le truppe da Veio senza prima aver portato a termine l'impresa, ve lo
spiegherò più avanti: adesso preferisco soffermarmi proprio sulle condizioni in
cui versano i soldati. Se questo discorso lo si pronunciasse non
soltanto di fronte a voi ma nel bel mezzo dell'accampamento e se la questione
venisse sottoposta al giudizio dell'esercito stesso, credo che le mie
parole darebbero l'impressione di essere più che ragionevoli. E se
durante la mia allocuzione non mi venisse in mente nulla da dire, mi basterebbero
le affermazioni degli avversari. Poco tempo fa essi sostenevano che non
si deve dare la paga ai soldati, perché non la si era mai data. Ma
allora come possono adesso indignarsi se quelli che hanno avuto una concessione
si son visti imporre come contropartita anche un nuovo onere? Non
si verifica mai il caso di un servizio prestato cui non corrisponda
un pagamento, né quello di un pagamento cui non corrisponda una
regolare prestazione d'opera. La fatica e il piacere, pur essendo diversissimi
per natura, sono reciprocamente legati da un qualche vincolo naturale.
In passato i soldati mal tolleravano di dover pagare a proprie
spese il servizio prestato allo Stato. Ciò non ostante erano
felici di coltivare il proprio appezzamento di terra, ricavandone il sostentamento
per se stessi e per i famigliari tanto in tempo di pace quanto in
guerra. Ora sono felici che lo Stato sia per loro motivo di guadagno e per
questo ricevono con gioia la paga. Sopportino dunque serenamente di stare
lontani un po' più a lungo dai propri beni, su cui non grava
più spesa alcuna. Se lo Stato li dovesse chiamare alla resa dei conti, non
avrebbe tutte le ragioni per dire: "Ricevete una paga annua? Allora
prestate servizio per tutto l'arco dell'anno; oppure ritenete giusto
ricevere l'intera paga per sei mesi solo di servizio?". Su questo punto del
mio discorso mi soffermo a malincuore, o Quiriti, perché così
dovrebbero esprimersi quanti utilizzano milizie mercenarie. Ma noi vogliamo trattare
come si tratta con dei cittadini e riteniamo giusto che si tratti con noi
come si tratta con la patria. O non bisognava iniziare la guerra, oppure la
si deve gestire in maniera conforme alla dignità del popolo
romano e portarla a termine quanto prima possibile. E la porteremo a termine se
non daremo tregua agli assediati, e se non ci ritiriamo prima di aver
coronato le nostre speranze con la presa di Veio. Qualora, per Ercole, non ci
fosse nessun'altra ragione, dovrebbe bastare l'indignazione da sola a
imporci la perseveranza! Un tempo l'intera Grecia assediò per
dieci anni una città a causa di una sola donna: ma quanto distava dalla patria
quella città? Quante terre e quanti mari c'erano di mezzo? A noi dà
invece fastidio reggere un anno d'assedio sotto una città che dista venti
miglia dalla nostra e che quasi la si vede da Roma. È chiaro: perché il
motivo che ha scatenato la guerra è insignificante e il risentimento che
proviamo non basta a farci perseverare. Sette volte hanno riaperto
le ostilità. In tempo di pace non sono mai stati leali. Hanno devastato
migliaia di volte le nostre campagne. Hanno spinto alla defezione
gli abitanti di Fidene, uccidendo i nostri coloni che risiedevano in quella
città. Contro il diritto costituito si sono macchiati
dell'orribile strage dei nostri ambasciatori. Volevano scatenarci contro l'intera
Etruria (mossa che oggi tentano di ripetere), e poco è mancato che
facessero violenza ai nostri ambasciatori inviati a chiedere soddisfazione. 5 Con nemici simili dovremmo gestire la
guerra dimostrandoci privi di determinazione e accettando di
trascinarla per le lunghe? Se non ci spinge un risentimento tanto giustificato,
allora, dico io, non basteranno nemmeno le cose che sto per dirvi? La
città è stata circondata da imponenti opere di fortificazione che
costringono il nemico all'interno delle mura, impedendogli così di
coltivare la terra, che, là dove coltivata, ha subìto le
devastazioni della guerra. Se ritiriamo le truppe, chi potrebbe dubitare che i Veienti,
spinti non solo dal desiderio di vendicarsi ma anche dalla
necessità stringente di razziare le campagne altrui dopo aver perso le proprie, non
invaderanno il nostro territorio? Se ascoltiamo i tribuni, la guerra non
la posticipiamo, ma ce la portiamo dritta in casa. Quanto poi ai soldati,
cui la bontà dei tribuni della plebe voleva poco fa togliere lo
stipendio del quale adesso, con un'improvvisa sterzata, esige invece
l'erogazione, in che situazione versano? Hanno scavato per un lungo
tratto un fossato e una trincea, faticando in maniera improba nella
realizzazione dell'una e dell'altra cosa. Hanno costruito dei fortini,
prima pochi e poi, con l'aumentare degli effettivi in zona, moltissimi.
Hanno realizzato opere di fortificazione non solo in direzione
della città, ma anche verso l'Etruria, per controllare l'eventuale
invio di rinforzi da quella parte. Che cosa dovrei dire poi delle torri,
delle "vigne", delle "testuggini" e di tutti gli altri dispositivi
utilizzati nell'assedio di città? Adesso che questo immane lavoro di
fortificazione è stato realizzato e lo si è ormai portato a compimento, volete
abbandonare tutto in maniera tale che poi l'estate prossima si debba di nuovo
sudare per ricostruire ogni cosa da capo? Non costerebbe meno conservare
quanto già realizzato e insistere con perseveranza per togliersi il
pensiero della guerra? Sarebbe davvero questione di poco, se scegliessimo di
agire con continuità e se non fossimo noi stessi a rallentare la
realizzazione delle nostre speranze con queste continue interruzioni e
dilazioni. Parlo dello spreco di tempo e di fatica. Ma che dire del pericolo cui
andiamo incontro ritardando la guerra? Ce lo fanno forse dimenticare
le continue assemblee nelle quali i popoli dell'Etruria discutono
sull'invio di rinforzi a Veio? Attualmente sono ancora irritati nei loro
confronti: li odiano e dicono che di aiuti non gliene manderanno. Per quel che
dipende da loro, nulla ci impedisce di catturare Veio. Ma chi può
garantire che manterrebbero la stessa disposizione d'animo, se la guerra
dovesse andare per le lunghe? Se infatti permetteremo ai Veienti di
tirare il fiato, essi invieranno sùbito ambascerie più numerose e
importanti, e ciò che al momento rappresenta un ostacolo nei rapporti con gli Etruschi
(ossia il re sul trono di Veio), potrebbe col tempo trasformarsi, o per
decisione unanime di tutta la cittadinanza per riconciliarsi
così con gli Etruschi, oppure per volontà del re in persona, deciso a non
ostacolare la sopravvivenza dei concittadini con la propria permanenza
sul trono. Considerate poi quante spiacevoli conseguenze comporterebbe
quel tipo di politica: la perdita di opere di fortificazione realizzate a
costo di tanta fatica, l'imminente devastazione del nostro territorio, lo
scoppio della guerra contro l'intera Etruria anziché con Veio. Le
vostre idee in proposito, o tribuni, sono queste: assomigliano, per Ercole,
a quelle di chi, di fronte a un malato sottoposto a cura energica e
avviato a pronta guarigione, ne renda la malattia lunga e probabilmente
incurabile assecondandone l'immediato desiderio di cibo e di bevande. 6 Se anche, parola mia, non avesse
nulla a che vedere con questa guerra, sarebbe certo molto utile per la
disciplina militare abituare i nostri soldati non soltanto ad approfittare di
una vittoria a portata di mano, ma ugualmente (nel caso di campagne
prolungate) a sopportarne la noia, ad aspettare che si concretizzino le
speranze anche nel caso debbano tardare a realizzarsi, e ancora ad attendere
l'inverno qualora la guerra non venga portata a compimento entro l'estate e a
non cercare sùbito un riparo e un nido, come fanno gli uccelli di passo
quando arriva l'autunno. Chiedo a voi, di grazia: la passione per la
caccia e il piacere che ne deriva trascinano gli uomini sui monti e nei
boschi coperti di neve e ghiaccio. Possibile che nelle necessità
della guerra non si riesca a ricorrere a quella capacità di sopportazione
che perfino il puro divertimento e il piacere riescono a suscitare? Dunque
riteniamo i fisici dei nostri soldati così delicati e i loro animi
così deboli da non essere in grado di resistere a un solo inverno in un
accampamento, alla lontananza dalla famiglia? O crediamo che si regolino come
se si trattasse di una guerra per mare, spiando le condizioni
atmosferiche e facendo attenzione alla stagione propizia, visto che non
riescono a sopportare né il caldo né il freddo? Arrossirebbero di sicuro se
qualcuno rinfacciasse loro queste cose e protesterebbero dicendo di avere doti
di sopportazione fisica e mentale degne di veri uomini, di poter
combattere tanto d'estate quanto d'inverno, di non aver affidato ai tribuni
l'incarico di difendere il loro lassismo e la loro pigrizia, e di ricordarsi
benissimo che i loro padri avevano creato quello stesso potere tribunizio
non certo all'ombra o al riparo delle pareti domestiche. Degno della
virtù dei vostri soldati e del nome di Roma è invece il non guardare
esclusivamente a Veio e a questa guerra che incalza, ma puntare a una fama che
duri nei giorni a venire per altre guerre e presso gli altri popoli.
Credete forse che da questa impresa nascerà una differenza
trascurabile di stima nei nostri confronti, se le genti confinanti giudicheranno il
carattere del popolo romano tale che una qualche città, dopo averne
sostenuto il primo e brevissimo assalto, non abbia più nulla da temere, o se,
invece, il nostro nome incuterà terrore, nella convinzione che l'esercito romano
non abbandona l'assedio di una città né per il lungo
trascinarsi dell'assedio stesso né per l'infuriare dell'inverno, e non conosce altro modo
di porre fine a una guerra se non con la vittoria e combatte con tenacia
non inferiore allo slancio? Caratteristiche queste che risultano
necessarie in ogni tipo di campagna militare e in particolare negli assedi
delle città, che essendo nella maggior parte dei casi inespugnabili
per la posizione naturale in cui si trovano e per le opere di
fortificazione, di solito vengono vinte o espugnate dal tempo con la fame e con
la sete - e il tempo espugnerà anche Veio, se i tribuni della plebe non si
metteranno dalla parte dei nemici, e se i Veienti non troveranno a Roma
quegli appoggi che invano cercano in Etruria. O forse potrebbe succedere
qualcosa di più gradito ai Veienti che il diffondersi di una serie di
disordini scoppiati prima a Roma e quindi diffusi a mo' di contagio all'interno
dell'accampamento? Ma, per Ercole, presso i nostri nemici regna un tale
senso di disciplina che né la stanchezza per l'assedio in corso, né
l'insofferenza nei confronti della monarchia li hanno spinti ad introdurre
delle innovazioni, né tantomeno il mancato invio di rinforzi da parte
degli Etruschi ne ha irritato gli animi. Infatti presso i Veienti viene
immediatamente condannato a morte chiunque si faccia promotore di
disordini e non è concesso a nessuno dire quelle cose che presso di voi si dicono
con la massima impunità. A chi diserta o lascia il campo viene
inflitta la pena di morte a bastonate. Costoro che invece istigano non uno o
due soldati, ma eserciti interi a disertare e a lasciare il campo vengono
ascoltati liberamente in assemblea. A tal punto, o Quiriti,
siete avvezzi a dare ascolto a qualunque cosa dica un tribuno della
plebe - anche se incita a tradire la patria e a distruggere la repubblica -,
e affascinati come siete da quell'autorità permettete che
qualunque misfatto si nasconda al riparo del suo potere. Ormai non resta loro altro
che diffondere tra i soldati e nell'accampamento le stesse cose che
blaterano qui, e mettersi a corrompere le truppe impedendo loro di
obbedire ai capi, visto che a Roma - ora come ora - libertà
significa non avere alcun rispetto per il Senato, per i magistrati, per le leggi, per le
tradizioni degli avi, per le istituzioni dei padri e per la
disciplina militare». 7 Ormai Appio teneva testa ai tribuni
della plebe anche nelle assemblee popolari, quando all'improvviso un
disastro subìto dall'esercito nei pressi di Veio (cioè da quella
zona dove meno lo si sarebbe previsto) fece prevalere la causa di Appio,
consolidando la concordia tra le classi e rinfocolando l'ardore degli animi nel
proposito di proseguire l'assedio di Veio con maggiore tenacia. Il
terrapieno costruito dai Romani era ormai vicinissimo alla città e ormai
restava soltanto da accostare le 'vigne' alle mura. Ma siccome l'impegno profuso
nei lavori era superiore a quello dedicato alla vigilanza notturna,
all'improvviso si spalancò una porta della città e ne
fuoriuscì una massa enorme di nemici armati soprattutto di torce accese, e nello spazio di
un'ora un incendio divorò contemporaneamente il terrapieno e le
vigne, costruite a prezzo di lunghi e spossanti sforzi. E lì molti
soldati che cercavano inutilmente di portare aiuto vennero uccisi dal fuoco
o dalle spade nemiche. Quando la notizia dell'incendio arrivò a
Roma, fu la costernazione generale. In Senato provocò invece grande
apprensione perché tutti temevano di non riuscire più a scongiurare il
pericolo di disordini tanto in città quanto nell'accampamento e di non poter
impedire ai tribuni della plebe di farsi beffe della repubblica come se questa
fosse stata vinta da loro stessi. Ma all'improvviso i cittadini di rango
equestre, cui non era stato assegnato un cavallo a spese dello Stato, dopo
essersi preventivamente riuniti in assemblea, si presentarono in Senato e,
una volta ottenuta la parola, dichiararono che avrebbero prestato
servizio militare con cavalli comprati a proprie spese. Il Senato li
ringraziò con parole sentite e la notizia di quel gesto cominciò a
diffondersi nel foro e per le vie della città. Súbito dopo una folla di plebei si
accalcò di fronte alla curia, dicendo che adesso toccava all'ordine della
fanteria offrire un servizio straordinario alla repubblica, sia che
li si volesse impiegare a Veio sia su qualunque altro fronte. Sostenevano
anche che, se fossero stati condotti a Veio, non avrebbero
abbandonato la zona prima di aver conquistato la città nemica.
Allora si riuscì a malapena a contenere l'esplosione di giubilo: il senato
infatti non diede ordine ai magistrati, così come aveva fatto con i
cavalieri, di elogiarli, né di convocarli all'interno della curia per dar loro
una risposta, e non rimase nemmeno all'interno della curia. Ma ciascun
senatore dall'alto della scala dimostrava con gesti e parole la
pubblica gioia alla folla in piedi in mezzo al comizio, e diceva che proprio
grazie a quell'armonia tra le classi Roma era felice, invincibile ed
eterna, lodava plebe e cavalieri, celebrava quella giornata e sosteneva
che la generosità e la liberalità del senato erano state superate. Plebei
e senatori facevano a gara nel versare lacrime di gioia. Poi i
senatori, richiamati nella curia decretarono che i tribuni militari,
dopo aver convocato l'assemblea plenaria, ringraziassero ufficialmente
fanti e cavalieri e dichiarassero che il Senato non avrebbe dimenticato
in futuro l'attaccamento alla patria dimostrato da quei due ordini. In base
allo stesso decreto, tutti coloro che avevano promesso di prestare
volontariamente quel servizio militare straordinario avrebbero continuato a
percepire la paga, mentre anche ai cavalieri venne garantita una
determinata somma di denaro. Fu quella la prima volta che i cavalieri prestarono
servizio con cavalli di loro proprietà. Le truppe di
volontari condotti nella zona di Veio non si limitarono a ricostruire le opere di
fortificazione appena distrutte, ma ne eressero anche di nuove. Da Roma si
provvide al trasporto di rifornimenti con maggiore cura di
quanta non ne fosse stata impiegata in precedenza, per evitare che a quell'esercito
così meritevole non venisse a mancare nulla di necessario. 8 I tribuni militari con potestà
consolare dell'anno successivo furono Gaio Servilio Aala (per la terza
volta), Quinto Servilio, Lucio Verginio, Quinto Sulpicio, Aulo Manlio e Manio
Sergio (entrambi per la seconda volta). Durante il loro mandato, mentre
l'attenzione di tutti era rivolta alla guerra con Veio, il presidio
armato di Anxur - negletto sia per le continue licenze concesse ai soldati di
stanza sia per l'abitudine ormai invalsa di accogliere mercanti volsci -
venne a tradimento sopraffatto in seguito a un improvviso attacco alle
sentinelle delle porte. Le perdite tra i soldati non furono gravissime
perché, fatta eccezione per gli ammalati, tutti i membri del
contingente erano in giro per le campagne e le città dei dintorni, impegnati
in traffici commerciali alla stregua di vivandieri. Ma neppure a Veio, che
costituiva in quel momento il centro delle preoccupazioni pubbliche, le cose
andarono meglio. Infatti i comandanti romani dimostravano di avere
più risentimento reciproco che coraggio contro i nemici, e le
proporzioni del conflitto vennero modificate dall'intervento improvviso
dei Capenati e dei Falisci. Questi due popoli dell'Etruria, essendo i
più vicini della zona, e credendo che una volta caduta Veio sarebbero stati i
più esposti alla minaccia di un'aggressione armata da parte di Roma
(e in particolar modo i Falisci, si sentivano in pericolo per aver
partecipato alla guerra dei Fidenati), dopo essersi scambiati ambascerie e aver
cementato col giuramento il vincolo che li legava, si presentarono
all'improvviso a Veio con gli eserciti. Per caso assalirono l'accampamento nella
zona comandata dal tribuno militare Manio Sergio e vi seminarono il
terrore, facendo credere ai Romani che l'intera Etruria, trascinata dalle sue
sedi, fosse scesa in campo con gran spiegamento di forze. La stessa idea
infiammò i Veienti chiusi in città. Così l'accampamento romano era
attaccato su due fronti: e pur trasferendo con corse disperate le varie
unità da una parte e dall'altra, non riuscivano né a contenere in maniera
sufficiente i Veienti nell'interno delle loro fortificazioni, né a
respingere l'assalto portato alle proprie difese e a resistere al nemico esterno.
La sola speranza era che arrivassero rinforzi dall'accampamento
centrale, in modo tale che le legioni, schierate su fronti diversi,
potessero le une combattere contro Capenati e Falisci e le altre arginare
la sortita degli assediati. Ma a capo dell'accampamento c'era Verginio
che per ragioni personali detestava e odiava Sergio. Verginio, non ostante
fosse arrivata la notizia che buona parte dei fortini era stata assalita,
che i dispositivi di difesa erano stati scavalcati e che i nemici si
stavano riversando nell'accampamento da una parte e dall'altra, trattenne gli
uomini con le armi in pugno, sostenendo che se il collega avesse
avuto bisogno di aiuto gliene avrebbe fatto richiesta. L'arroganza di
Verginio era pari all'ostinazione di Sergio, il quale, per non dare
l'impressione di chiedere aiuto al suo avversario, preferì lasciarsi
vincere dal nemico piuttosto che vincere grazie all'intervento di un
concittadino. Il massacro dei soldati romani presi nel mezzo durò a lungo.
Alla fine, quando ormai i dispositivi di difesa erano stati abbandonati, in
pochissimi ripararono nell'accampamento centrale, mentre la maggior parte dei
superstiti e lo stesso Sergio si diressero verso Roma. E lì, dato
che Sergio attribuiva al collega l'intera responsabilità del disastro,
venne stabilito di convocare Verginio dall'accampamento e di affidare il
comando ai suoi luogotenenti. La cosa venne poi discussa in senato e tra i
due colleghi fu una gara a base di insulti. Tra i senatori furono in pochi
a prendere le parti della repubblica. La maggior parte di essi
parteggiò invece o per l'uno o per l'altro, a seconda delle simpatie o dei
legami privati. 9 Sia che quel vergognoso massacro
fosse dovuto alla precisa responsabilità dei comandanti,
sia che andasse imputato alla loro cattiva stella, i senatori più influenti
stabilirono di non aspettare la data prevista per le elezioni, ma di
nominare súbito dei nuovi tribuni della plebe che entrassero in carica alle
calende di ottobre. Quando si passò alla votazione di questa proposta, gli
altri tribuni militari non ebbero alcuna obiezione da presentare. Ma a
dir la verità Sergio e Verginio, i
quali erano stati la causa palese del malcontento del senato nei
confronti dei magistrati di quell'anno, in un
primo tempo cercarono con preghiere di scongiurare la grave onta, poi
tentarono di opporsi al decreto del senato, dichiarando che prima delle idi di
dicembre, data ufficiale per l'inizio delle varie magistrature, non avrebbero
rinunciato alla propria carica. Nel frattempo i tribuni della plebe,
rimasti anche se controvoglia in silenzio fino a quando in città
c'era stata concordia tra le classi e le cose erano andate per il meglio,
all'improvviso si scagliarono con estremo accanimento contro i tribuni militari,
minacciando di farli arrestare se non si fossero piegati
all'autorità del senato. Fu allora che il tribuno militare Gaio Servilio Aala disse: «Per
quel che riguarda voi, o tribuni della plebe, e le vostre minacce, io
vorrei davvero dimostrare come né esse sono basate sul diritto né voi
avreste il coraggio di metterle in pratica. Ma opporsi all'autorità
del senato, ecco qual è il sacrilegio. Di conseguenza, voi smettete di cercare
nei nostri scontri un pretesto per i vostri abusi, e i miei due colleghi o
faranno ciò che il senato ha deciso, oppure, se continueranno testardamente
a opporsi, io nominerò immediatamente un dittatore che li
obblighi a dimettersi.» Siccome questo discorso riscosse l'approvazione
generale, e i senatori si rallegravano che senza dover ricorrere allo
spauracchio della potestà tribunizia si fosse trovato uno strumento ancora
più efficace nell'opera di coercizione dei magistrati, questi ultimi, cedendo
al consenso generale, organizzarono le elezioni dei tribuni militari che
sarebbero entrati in servizio alle calende di ottobre, e rinunciarono alla
propria carica prima ancora di quella data. 10 L'anno in cui furono tribuni
militari con potere consolare Lucio Valerio Potito (per la quarta volta),
Marco Furio Camillo (per la seconda volta), Manio Emilio Mamerco (per la
terza volta), Gneo Cornelio Cosso (per la seconda volta), Cesone Fabio
Ambusto e Lucio Giulio Iulo si verificarono episodi notevoli tanto a
Roma quanto sul fronte bellico. Nello stesso lasso di tempo ci fu
infatti una guerra su più fronti - e cioè contro Veio, Capena, Faleri
e i Volsci - per recuperare la piazzaforte di Anxur caduta in mani
nemiche, e contemporaneamente a Roma si ebbero difficoltà tanto per
la realizzazione della leva militare quanto per il pagamento di un tributo; inoltre
ci si scontrò sull'eventuale cooptazione di tribuni della plebe e
notevole agitazione venne suscitata da due processi intentati contro coloro
che poco tempo prima avevano detenuto il potere consolare. Innanzi
tutto i tribuni si occuparono della leva militare: vennero arruolati non
solo i più giovani ma anche i più anziani furono costretti ad iscriversi
per prestare servizio di vigilanza in città. Però quanto
più aumentava il numero degli effettivi, tanto maggiore diventava la somma necessaria
per il pagamento degli stipendi. E questo denaro i tribuni cercarono di
rastrellarlo con l'imposizione di una tassa che i cittadini rimasti a Roma
pagarono malvolentieri perché, dovendo già proteggere la
città, avevano anche il compito di sopportare le fatiche militari e servire la causa del
paese. Perché questa contribuzione, già di per sé
gravosa, sembrasse ancora più vergognosa, i tribuni della plebe pronunciarono dei
discorsi faziosi nei quali sostenevano che l'idea di corrispondere
una paga ai soldati avesse come unica motivazione il desiderio di
danneggiare parte della plebe inviandola al fronte e stremarne il resto con
l'imposizione di quella tassa. Ora era il terzo anno che trascinavano avanti
un'unica guerra, gestendola apposta nella peggiore delle maniere solo per
farla durare più a lungo. E ancora: con un'unica leva militare avevano
arruolato eserciti per quattro guerre, portandosi via anche vecchi e bambini.
Ormai non c'era più alcuna differenza tra estate e inverno, perché
la misera plebe non avesse più requie e adesso, come ultima trovata,
le si imponeva anche una tassa. Tutto in maniera tale che, una volta
riusciti a riportare a casa i corpi stremati dalla fatica, dalle ferite e
infine dall'età avanzata, i plebei trovassero i propri campi nello
squallore per la prolungata assenza dei proprietari e dovessero pagare una
tassa facendo ricorso ai loro patrimoni ormai dissanguati, restituendo
così più e più volte allo Stato, come se fossero stati ottenuti a usura, gli
stipendi guadagnati durante il servizio militare. Occupati com'erano tutti dalla leva,
dal problema della tassa e da altre questioni di ben diversa importanza, il
giorno delle elezioni non si riuscì a completare il numero
dei tribuni della plebe. Per questo motivo ci fu poi uno scontro sull'eventuale
cooptazione di patrizi nei ruoli rimasti vacanti. Fallito però
questo tentativo, tuttavia, giusto per far cadere la legge, si arrivò al
punto di cooptare, in qualità di tribuni della plebe, Gaio Lacerio e Marco
Acuzio, senza dubbio per via della grande influenza politica esercitata
dal patriziato. 11 Il caso volle che uno dei tribuni
della plebe di quell'anno fosse Gneo Trebonio che, per rispetto del nome
portato e della famiglia alla quale apparteneva, sembrava dovesse difendere
per forza la legge Treboniana. Dopo aver dichiarato che i tribuni
militari avevano alla fine estorto ciò che i senatori non erano riusciti a
conseguire con il loro tentativo di poco tempo prima, urlò che la
legge Treboniana era stata scavalcata e che i tribuni della plebe erano stati
cooptati non in base ai voti espressi dal popolo ma per ordine tassativo dei
patrizi. E poi si era arrivati a un punto tale che ormai i tribuni della
plebe dovevano essere di estrazione patrizia o almeno provenienti dal
séguito dei patrizi. Le loro leggi sacre erano state spazzate via e la
potestà tribunizia gli era stata strappata dalle mani. A tutto questo -
tuonò Trebonio - si era arrivati grazie ai raggiri dei patrizi e al tradimento
vergognoso dei suoi colleghi. Siccome un'ondata di acceso
risentimento si abbatté non solo sui patrizi ma anche sui tribuni della plebe (sia
quelli che erano stati cooptati sia quelli che li avevano cooptati), ecco
che tre membri del collegio, e cioè Publio Curiazio, Marco Metilio e Marco
Minucio, allarmati dalla situazione in cui si erano venuti a trovare, si
scatenarono contro Sergio e Verginio, tribuni militari dell' anno precedente:
dopo averli citati in giudizio, riuscirono a convogliare sui due
ex-magistrati la rabbia e il rancore che la plebe aveva maturato nei loro stessi
confronti. A coloro i quali avevano subìto il peso della
leva o della tassa, o che avevano dovuto sopportare un servizio militare
interminabile nonché il protrarsi della guerra, a coloro i quali avevano sofferto
per la disfatta di Veio e a quelli le cui case erano in lutto per
la perdita di figli, fratelli, parenti e congiunti, a tutte queste
persone i tre tribuni della plebe ricordavano di aver dato loro il
diritto e la facoltà di vendicare sulle teste dei due imputati il proprio
dolore privato e le pene sofferte dal paese. Perché Sergio e Verginio erano
la causa di tutti i mali. E questo più che sostenerlo gli
accusatori, lo confessavano apertamente gli imputati i quali, essendo colpevoli in
uguale maniera, si accusavano a vicenda, Verginio rinfacciando a Sergio
l'episodio della vergognosa fuga, e Sergio lamentando il tradimento di
Verginio. Il loro comportamento era stato così inverosimilmente
folle che sarebbe stato molto più plausibile credere che avessero agito di conserva
con i senatori attenendosi a un preciso accordo preso in partenza.
Erano stati proprio questi ultimi, solo per tirare per le lunghe la guerra, a
dare prima ai Volsci l'opportunità di incendiare i dispositivi d'assedio
costruiti e poi a tradire l'esercito e a consegnare in mano ai Falisci
l'accampamento romano. Tutto questo perché i giovani si logorassero sotto
le mura di Veio e per impedire che i tribuni presentassero al popolo
proposte di legge agraria e altre questioni relative agli interessi della
plebe, evitando che esponessero le loro iniziative di fronte ad assemblee
affollate e potessero così opporsi alla cospirazione ordita dai patrizi.
Contro gli imputati avevano già espresso in anticipo il loro giudizio
negativo tanto il senato quanto il popolo e i loro stessi colleghi. Il
senato li aveva rimossi con un decreto dalla carica. I colleghi invece,
vedendo che essi non avevano alcuna intenzione di rinunziarvi, li avevano
costretti a farlo minacciandoli di nominare un dittatore. Il popolo
romano, a sua volta, aveva eletto dei tribuni destinati a entrare in servizio
non alle idi di dicembre (cioè la data tradizionale), ma sùbito
alle calende di ottobre, nella ferma convinzione che il paese non potesse
reggere più a lungo con gente del genere ancora in carica. Ciò non
ostante, questi uomini, pur essendo già stati colpiti e affossati da un numero
così elevato di verdetti contrari, si presentarono in giudizio di fronte
al popolo con l'illusione di essere già stati penalizzati in maniera
più che sufficiente con il ritorno nella condizione di privati cittadini con due
mesi di anticipo, senza però rendersi conto di esser stati in
realtà privati della facoltà di provocare ulteriori danni e non colpiti da una
qualche condanna. Prova ne sia che anche i loro colleghi erano stati
destituiti, pur non essendosi macchiati di alcun misfatto. Che i Quiriti
rispolverassero quella risolutezza dimostrata dopo la recente disfatta,
quando avevano visto l'esercito sconfitto rientrare in città
attraverso le porte, smarrito per la fuga, coperto di ferite e pieno di terrore, e
accusare non la cattiva sorte o qualche divinità, ma i
comandanti della spedizione (i quali adesso sedevano sul banco degli imputati). E
di sicuro in quell'assemblea non c'era nessuno che in quel preciso
giorno non avesse maledetto ed esecrato le vite, le case e le fortune di Lucio
Verginio e di Manio Sergio. Non era quindi ragionevole che ciascuno degli
ascoltatori, godendo del diritto e del dovere morale di farlo, non
esercitasse il proprio potere nei confronti di quei due uomini contro i
quali aveva invocato l'ira vendicatrice degli dèi. Solo che
gli dèi non castigano mai direttamente i colpevoli: gli basta armare gli offesi
con l'occasione buona per la vendetta. 12 La plebe, infervorata da questi
discorsi, condannò ciascuno degli imputati a un'ammenda di 10.000 assi
pesanti. E a poco valse che Sergio accusasse contro la sorte e l'incerto
destino delle armi, e che Verginio implorasse di poter essere meno
sfortunato in patria di quanto non lo fosse stato al fronte. La rabbia del
popolo si riversò contro quei due e gli episodi della cooptazione dei
tribuni e della violazione della legge Trebonia furono quasi del tutto
dimenticati. I tribuni usciti vittoriosi dal
processo, perché la plebe avesse un riconoscimento immediato al giudizio
espresso, proposero una legge agraria e si opposero al pagamento dei tributi
di guerra, proprio mentre c'era immediato bisogno di retribuire il
numero elevatissimo degli uomini arruolati e le campagne militari in
svolgimento andavano così bene da non lasciar prevedere per nessuna di esse
il risultato sperato. Sul fronte di Veio i Romani avevano infatti
recuperato l'accampamento perduto rinforzandolo con nuove fortificazioni
e presidi armati agli ordini dei tribuni militari Manio Emilio e Cesone
Fabio. Siccome Marco Furio e Gneo Cornelio non trovarono tracce di nemici
fuori dalle mura rispettivamente nel territorio dei Falisci e nella
campagna di Capena, fecero del bottino qua e là incendiando fattorie e
devastando i raccolti, le città vennero
assalite, ma non assediate. Nel territorio dei Volsci, invece, dopo
aver saccheggiato le campagne, tentarono di
espugnare Anxur che era situata su una collina. Quando però si
resero conto dell'inefficacia dell'azione di forza, guidati da Valerio Potito cui
era toccato in sorte il comando dell'operazione, cominciarono ad
assediare la città costruendo un fossato e una trincea di protezione. Mentre le
operazioni sul fronte si trovavano a questo punto, a Roma scoppiarono dei
disordini ben più gravi delle guerre in corso. E visto che i tribuni
non permettevano di incassare il tributo militare e ai comandanti non
arrivava denaro per pagare gli uomini che reclamavano con impazienza le
proprie paghe, poco ci mancò che anche l'accampamento venisse contagiato dai
torbidi scoppiati in città. Nel pieno di questo risentimento della
plebe nei confronti dei senatori, anche se i tribuni dicevano che era ormai
tempo di consolidare la libertà e di trasferire a rappresentanti del popolo
energici e valorosi gli alti onori toccati a gente come Sergio e Verginio,
tuttavia - solo per esercitare il diritto di cui godevano - non si
andò più in là dell'elezione a tribuno militare con poteri consolari di un unico
plebeo di nome Publio Licinio Calvo. Gli altri eletti erano patrizi e
si trattava di Publio Manlio, Lucio Titinio, Publio Melio, Lucio
Furio Medullino e Lucio Publilio Volsco. La plebe stessa si stupì
di aver ottenuto un tale successo, non meno dell'eletto in persona, uomo privo
in precedenza di cariche, semplice senatore anziano e già piuttosto
avanti con gli anni. Non si conosce con certezza il motivo per il quale fosse toccato
proprio a lui l'onore di godere per primo dell'ebbrezza di quel
nuovo incarico. Alcuni storici ritengono che tale privilegio fosse
dovuto al fratellastro Gneo Cornelio il quale l'anno precedente era stato
tribuno militare e aveva distribuito ai cavalieri il triplo della paga
abituale, mentre altri sostengono dipendesse da un discorso tenuto con
tempestività da Licinio sulla concordia delle classi sociali e
risultato di gradimento tanto alla plebe quanto ai patrizi. Esultanti per il
trionfo ottenuto nelle elezioni, i tribuni della plebe cedettero sulla
questione del tributo militare, che per il governo rappresentava l'ostacolo
più grosso. L'importo previsto venne così pagato senza alcuna
opposizione e quindi inviato all'esercito. 13 La città di Anxur nel
territorio dei Volsci venne riconquistata quando, durante un giorno di festa, le
sentinelle allentarono la sorveglianza. Quell'anno rimase memorabile per l'inverno
che fu così gelido e nevoso da bloccare le strade e impedire la
navigazione sul Tevere. Ma il prezzo dei generi alimentari non aumentò
grazie alla grande quantità di provviste fatta prima della cattiva stagione. E
dato che Publio Licinio esercitò la sua carica come l'aveva ottenuta, senza
che si scatenassero disordini e riuscendo a entusiasmare la plebe
più di quanto non avesse creato malcontento tra i patrizi, ecco che il
popolo venne preso dal desiderio di nominare altri plebei alle successive
elezioni di tribuni militari. Marco Veturio fu l'unico candidato patrizio a
riuscire: le centurie, quasi all'unanimità, scelsero gli
altri tribuni militari con potere consolare tra i plebei: Marco Pomponio, Gneo
Duillio, Volerone Publilio, Gneo Genucio e Lucio Atilio. A quell'inverno così rigido
tenne dietro - vuoi per il repentino cambiamento di clima passato dal gelo
al suo estremo opposto, vuoi per qualche altro motivo - un'estate
opprimente e pestilenziale per uomini e animali. Siccome risultò
impossibile risalire alle cause di questo insanabile flagello (o almeno a trovare
una via d'uscita), per decreto del senato vennero consultati i libri
sibillini. Allora, per la prima volta nella storia di Roma, i duumviri
preposti ai riti sacri celebrarono il rito del lettisternio e per otto giorni
cercarono di riconciliarsi il favore di Apollo, Latona, Diana,
Ercole, Mercurio e Nettuno imbandendo tre letti con il massimo di
sontuosità possibile per l'epoca. Questo rito fu celebrato anche privatamente. In tutta
la città le porte rimasero aperte, nei cortili delle case vennero
collocati tavoli con ogni genere di vivande destinate a chiunque passasse, gli
estranei, noti e ignoti, erano (stando a quanto si racconta) dovunque i
benvenuti, la gente scambiava parole cortesi anche con i nemici personali e
ci si astenne dalle liti e dai diverbi. In quei giorni vennero tolte
le catene ai prigionieri e in séguito ci si fece scrupolo di
rimetterle a coloro a cui gli dèi avevano concesso quell'aiuto. Ma nel frattempo a Veio si
moltiplicarono gli allarmi dovuti a tre guerre contemporanee confluite in un unico
conflitto generale. Com'era infatti già successo in precedenza,
Capenati e Falisci arrivarono all'improvviso a dare manforte ai Veienti e così
i Romani combatterono con esito incerto, intorno alle fortificazioni, contro tre
eserciti contemporaneamente. Più di ogni altra cosa giovò il
ricordo della condanna inflitta a Sergio e a Verginio. Così,
dall'accampamento principale (proprio dove nella precedente occasione si era verificato
il fatale ritardo) vennero inviati dei rinforzi che, con una rapida
manovra di accerchiamento, aggredirono alle spalle i Capenati schierati di
fronte alla trincea dei Romani. L'inizio della battaglia da quel punto
seminò il panico anche tra i Falisci e bastò una sortita
tempestiva dall'accampamento per metterli in fuga nel pieno dello spavento. E mentre
si ritiravano, vennero raggiunti dai vincitori che li massacrarono senza
pietà. Poco tempo dopo, i Romani che stavano devastando il territorio di
Capena si imbatterono quasi per caso nei superstiti sbandati e li
sterminarono. Quanto ai Veienti, molti tentarono di rifugiarsi in
città, ma vennero uccisi davanti alle porte quando, per paura che i Romani
potessero riversarsi all'interno insieme a loro, da dentro sbarrarono gli ingressi
tagliando così fuori i compagni rimasti più indietro. 14 Ecco gli avvenimenti di quell'anno.
Le elezioni dei tribuni militari intanto erano ormai alle porte e i patrizi
se ne preoccupavano più di quanto non facessero per la guerra
perché si rendevano conto che le massime cariche del paese non erano
state soltanto divise con i plebei ma ormai quasi del tutto perse.
Perciò i patrizi, pur avendo di comune accordo deciso di presentare i membri
più insigni della loro classe - uomini che a loro detta era impossibile
non venissero presi in considerazione dall'elettorato -,
ciò non ostante essi stessi, senza lasciare nulla di intentato e come se
fossero tutti candidati, fecero intervenire non solo gli uomini ma
anche gli dèi, cercando di gettare l'ombra del sacrilegio sulle elezioni
di due anni prima. Dicevano che l'anno precedente l'inverno era stato
così rigido da sembrare un vero monito degli dèi e che il
successivo non aveva avuto semplici avvisaglie prodigiose ma vere realtà di
fatto: la pestilenza abbattutasi sulle campagne e sulla città era senza
dubbio il prodotto dell'ira degli dèi, che - come era emerso dalla
consultazione dei libri sibillini - andava placata per interrompere l'imperversare
dell'epidemia. Nelle elezioni tenute sotto i regolari auspici, agli
dèi era sembrato indegno che le cariche più importanti venissero
aperte a tutti e che non ci fosse più alcuna distinzione tra le famiglie.
Così, non solo per il grande prestigio dei candidati in lizza, ma anche per
gli scrupoli religiosi, la gente elesse tribuni militari con potere
consolare tutti patrizi, buona parte dei quali risultavano essere tra i
più illustri della classe. Si trattava infatti di Lucio Valerio Potito (per la
quinta volta), di Marco Valerio Massimo, di Marco Furio Camillo (per la
seconda volta), di Lucio Furio Medullino (per la terza volta), di
Quinto Servilio Fidenate e di Quinto Sulpicio Camerino (entrambi alla loro
seconda esperienza). Durante il loro mandato, sotto le mura di Veio non ci
furono iniziative degne di essere menzionate. L'intero spiegamento di
forze venne impiegato in saccheggi. I due comandanti in capo delle
operazioni, Potito e Camillo, portarono via rispettivamente da Faleri e da Capena
un enorme bottino, senza lasciare intatto nulla che potesse esser
distrutto dal ferro o dal fuoco. 15 Nel frattempo vennero annunciati
molti eventi prodigiosi, la maggior parte dei quali erano disprezzati e
tenuti in scarsissimo conto innanzitutto per il fatto che ciascun
fenomeno riportato vantava un unico testimone e poi, essendo in quel
frangente gli Etruschi dei nemici, perché a Roma c'era grande penuria di
aruspici, che di solito venivano impiegati per scongiurare i cattivi presagi. Il
solo fatto che destò preoccupazione fu l'inusuale innalzamento del livello
del lago situato all'interno del bosco Albano, fenomeno questo dovuto
non a normali precipitazioni atmosferiche o a qualche altra causa
che potesse escluderne l'origine miracolosa. Per scoprire cosa gli
dèi volessero preannunciare con quell'evento prodigioso, vennero
inviati degli ambasciatori all'oracolo di Delfi. Ma un interprete più
vicino venne offerto dal fato nella persona di un vecchio di Veio: costui, mentre i
soldati romani e quelli etruschi si prendevano in giro dai posti di guardia
e dalle garitte, annunziò in tono da vaticinio che i Romani non si
sarebbero mai impadroniti di Veio prima che le acque del lago Albano fossero
tornate al livello di sempre. Sulle prime le parole del vecchio vennero
catalogate con disprezzo come una battuta gettata lì e priva di
fondamento. Poi però si cominciò a discuterne, fino a quando un romano in
servizio presso uno dei posti di guardia domandò al Veiente che
gli stava più a portata di mano (la guerra durava ormai da così tanto tempo
che assediatori e assediati si parlavano a distanza) chi fosse mai quell'uomo
che osava proferire sentenze sibilline sul lago Albano. Quando si
sentì rispondere che si trattava di un aruspice, poiché egli stesso era
sensibile allo scrupolo religioso, adducendo come pretesto di volerlo
consultare - se gli era possibile - per una cerimonia purificatoria circa un
fatto prodigioso di natura privata, riuscì a indurre il vate a un
colloquio. E quando i due, disarmati e senza alcun timore, si furono allontanati un
po' a piedi dai rispettivi compagni, ecco che il romano,
più giovane e robusto, afferrò il vecchio debole davanti agli occhi di tutti e,
tra le vane e rabbiose proteste degli Etruschi, lo trascinò via
verso i propri commilitoni. Una volta portato di fronte al comandante, venne
da quest'ultimo inviato a Roma. E qui, ai senatori che gli domandavano
che cosa avesse voluto dire con quella frase sul lago Albano, egli
rispose che quel giorno gli dèi dovevano di certo essere infuriati con
il popolo di Veio perché avevano deciso di indurlo a rivelare il tragico
destino di distruzione riservato alla sua patria. Pertanto ciò
che in quell'occasione egli aveva vaticinato sull'onda dell'ispirazione divina ora
non poteva certo ritirarlo come se non fosse stato detto. E poi, tacendo
una cosa che gli dèi volevano fosse risaputa, probabilmente avrebbe
commesso un'empietà non meno che se avesse rivelato a viva voce ciò che era
destinato a rimanere nascosto. Così era scritto nei loro libri dei fati e
così era stato tramandato dall'arte divinatoria degli Etruschi: quando le
acque del lago Albano tracimassero, i Romani avrebbero avuto la meglio sui
Veienti se in quella precisa occasione avessero fatto defluire le
acque secondo la procedura rituale. Finché però non si fosse
verificato tutto questo, gli dèi non avrebbero abbandonato le mura di Veio. Il vecchio
passò poi a spiegare in che cosa consistesse lo scarico rituale
dell'acqua. Ma i senatori, dando scarso credito all'autorità di
quell'uomo e non considerandolo sufficientemente affidabile per una questione di tale
importanza, decisero di aspettare gli ambasciatori di ritorno da Delfi con il
responso della Pizia. 16 Prima che questi inviati fossero
rientrati a Roma e fosse stato trovato il modo di placare gli dèi per
il prodigio del lago Albano, entrarono in carica dei nuovi tribuni militari con
potere consolare, i cui nomi erano Lucio Giulio Iulo, Lucio Furio
Medullino (per la quarta volta), Lucio Sergio Fidenate, Aulo Postumio
Regillense, Publio Cornelio Maluginense e Aulo Manlio. In quell'anno spuntarono
all'orizzonte dei nuovi nemici: si trattava degli abitanti di Tarquinia. Essi,
vedendo che i Romani erano impegnati contemporaneamente su
più fronti di guerra (con i Volsci che stavano assediando il presidio armato
di Anxur, con gli Equi che avevano attaccato la colonia romana di Labico e
ancora con i Veienti, i Capenati e i Falisci), e constatando che
all'interno delle mura cittadine la situazione non era certo più
tranquilla a causa degli scontri tra patrizi e plebei, convinti che in mezzo a tutti
quei problemi ci fosse spazio per un'azione di disturbo, inviarono delle
truppe armate alla leggera a fare razzie nella campagna romana. I
Tarquinensi ritenevano che i Romani avrebbero incassato il colpo senza
tentare la vendetta per evitare il peso di un ulteriore fronte bellico, oppure
sarebbero scesi in campo con poche forze e perciò non all'altezza
della situazione. E invece i Romani, più che preoccuparsi dell'incursione fatta
dai Tarquinensi, reagirono indignandosi, senza perciò fare
grossi preparativi né tuttavia lasciare che la cosa andasse troppo per le
lunghe. Aulo Postumio e Lucio Giulio, non potendo ricorrere a una regolare
leva militare per la ferma opposizione dei tribuni della plebe, e
facendo ricorso a un contingente di uomini costituito quasi solo da
volontari raccolti a forza di appelli e accalorati proclami, marciarono per
scorciatoie attraverso la campagna di Cere e sorpresero i Tarquinensi che
stavano ritornando alla base carichi di bottino. Molti li massacrarono. Ma a
tutti tolsero il bagaglio, e rientrarono in città riportando
ciò che era stato depredato dalle loro campagne. Chi era stato derubato ebbe
tempo due giorni per identificare le sue proprietà. Tutti gli oggetti
che il terzo giorno non avevano trovato un padrone - si trattava per lo
più di roba dei nemici - venne venduto all'asta e il ricavato diviso tra i
soldati. Le altre guerre, e soprattutto quella
contro Veio, erano ancora in una fase di stallo. E mentre i Romani,
disperando ormai nell'aiuto che poteva arrivare dagli uomini, guardavano al
destino e agli dèi, gli inviati tornarono da Delfi con un responso che
coincideva con le parole dell'aruspice prigioniero: «O Romano,
non lasciare che l'acqua rimanga all'interno del lago Albano o che
finisca in mare seguendo un suo canale naturale. La farai defluire nei campi e
la disperderai dividendola in ruscelli. Fatto ciò, incalza con
forza e coraggio le mura nemiche, ricordandoti che dal destino che oggi
ti è stato rivelato ti sarà concessa la vittoria su quella città da
te assediata per così tanti anni. Una volta conclusa la guerra da vincitore, porta
al mio tempio un ricco dono, e i riti sacri della patria, che sono stati
negletti, rinnovali e ripetili secondo la tradizione di un tempo.» 17 Da quel momento l'aruspice
prigioniero cominciò a essere tenuto in grande considerazione e i tribuni
militari Cornelio e Postumio iniziarono a servirsi di lui sia in vista della
purificazione per il prodigio del lago Albano sia per ingraziarsi il
favore degli dèi attenendosi alla liturgia prestabilita. E finalmente si
scoprì in quale punto gli dèi ritenessero trascurate le cerimonie o
quale rito solenne non fosse stato celebrato. Si trattava di nient'altro
che questo: i magistrati eletti con qualche vizio di procedura non si erano
attenuti scrupolosamente alle procedure nel bandire le Ferie latine e
il sacrificio sul monte Albano. Il rimedio contro questa duplice
violazione era uno solo: i tribuni militari dovevano rinunciare all'incarico, gli
auspici andavano ricominciati da capo e era necessario un periodo di
interregno. Questi provvedimenti vennero messi in pratica a séguito di
un decreto del senato. I tre interré che si succedettero furono Lucio
Valerio, Quinto Servilio Fidenate e Marco Furio Camillo. Durante tutto quel
periodo si passò da un disordine all'altro perché i tribuni della plebe
impedirono lo svolgimento delle elezioni sostenendo che avrebbero
mantenuto il blocco fino a quando non ci si accordasse circa i tribuni militari:
la maggior parte di essi doveva venir scelta all'interno della plebe. Mentre a Roma succedevano questi fatti,
le genti di ceppo etrusco si riunirono in assemblea plenaria presso
il tempio di Voltumna. Durante la seduta, Falisci e Capenati proposero
che tutti i popoli etruschi unissero forze e strategie per liberare Veio
dall'assedio. I convenuti risposero però che una collaborazione del
genere in passato non era stata concessa ai Veienti, solo perché questi ultimi non
avevano il diritto di chiedere aiuto dopo aver rifiutato di chiedere
consigli su una questione di tale importanza. E adesso la penosa
situazione in cui versava l'Etruria era un argomento sufficiente per dire di no.
Infatti in quella parte dell'Etruria era adesso stanziata una stirpe mai
vista prima, dei nuovi vicini, i Galli, con i quali non c'erano né pace
sicura né guerra aperta. Ciò non ostante, dati i pericoli in vista e i
legami di parentela e di nome con i propri consanguinei, se c'era qualche
giovane tra di loro che voleva prendere spontaneamente parte a quel
conflitto, nessuno glielo avrebbe impedito. A Roma giunse la notizia che
quei nemici erano arrivati in gran numero. Perciò, come spesso
succede in simili stati di allarme per tutta la comunità, le discordie civili
cominciarono a mitigarsi. 18 E così non fu certo un
dispiacere per i patrizi quando la centuria prerogativa, senza che egli avesse posto la
sua candidatura, elesse tribuno militare Publio Licinio Calvo,
uomo che aveva già dato prova di grande moderazione durante il suo
precedente mandato, ma che in quel periodo era ormai piuttosto avanti
negli anni. Ed era chiaro che tutti i suoi colleghi in carica quello stesso
anno - e cioè Lucio Titinio, Publio Menio, Gneo Genucio e Lucio Atilio -
sarebbero stati riconfermati. Ma prima che venisse annunciata la loro
elezione da parte delle tribù chiamate a votare di diritto, Publio
Licinio Calvo chiese il permesso all'interré e rivolse loro queste
parole: «Mi rendo conto, o Quiriti, che voi state cercando di raggiungere con
questi vostri voti segnati dal ricordo della nostra precedente
magistratura un vero augurio di concordia per il prossimo anno. E la concordia
è la cosa più utile che ci sia in tempi come questi. Se però con i
miei colleghi voi scegliete gli stessi uomini di allora trovandoli ancora
migliorati grazie al peso dell'esperienza, in me invece non
potrete più avere lo stesso Publio Licinio di una volta perché di
quell'uomo adesso sono rimasti solo l'ombra e il nome. Il fisico non ha più
forza, vista e udito si sono indeboliti, la memoria vacilla e la lucidità
mentale si è affievolita». Poi, stringendo a sé il figlio, aggiunse:
«Eccovi un giovane che è il perfetto ritratto dell'uomo che tempo fa voi
avete voluto fosse il primo plebeo a ricoprire la carica di tribuno
militare. Questo giovane che io ho cresciuto secondo i miei
princìpi di vita lo offro e lo consacro al paese come mio legittimo sostituto e supplico
voi, o Quiriti, affinché affidiate a lui che la richiede e per il quale io
aggiungo le mie raccomandazioni questa carica che mi è stata
offerta senza che io la sollecitassi». Il caloroso invito del padre venne accolto
e così il figlio Publio Licinio fu nominato tribuno militare con potere
consolare insieme a quelli prima menzionati. I tribuni militari Titinio e Genucio
marciarono contro i Falisci e i Capenati, ma la loro condotta di guerra
fatta più di facili entusiasmi che di vera strategia militare li fece
finire in un'imboscata. Genucio, scontando con una morte onorevole
l'eccesso di imprudenza, cadde in prima linea davanti alle insegne. Titinio
invece, riuscì a riunire su un'altura i suoi uomini sparpagliatisi in preda
al panico e riordinò le file, ma non osò affrontare il nemico in
campo aperto. Più che una sconfitta si era subìto uno smacco, che per poco
non si trasformò in un grave disastro, tanto fu il panico diffusosi non solo a
Roma (dove erano arrivate le notizie più disparate), ma anche
nell'accampamento di fronte a Veio. Lì i comandanti riuscirono a malapena a
trattenere i soldati dalla fuga, perché si era sparsa in giro la voce che
Capenati, Falisci e tutta la gioventù etrusca, reduci dall'aver massacrato
l'esercito e i generali romani, non erano molto lontani. A Roma erano
arrivate notizie ancora più allarmanti: l'accampamento di fronte a Veio era
già in stato d'assedio e colonne di nemici pronte a battersi stavano ormai
marciando alla volta di Roma. Ci fu un accorrere scomposto di gente sulle
mura. Le matrone, richiamate fuori dalle case dalla paura generale, si
riversarono nei templi a rivolgere preghiere e suppliche agli dèi:
promettendo di ripristinare i riti sacri com'era prescritto, di scongiurare i
prodigi, esse imploravano le divinità di risparmiare le case, i templi e le
mura di Roma dalla distruzione e di scatenare contro i Volsci quell'ondata
di terrore. 19 Ormai i giochi e le feste latine
erano stati riorganizzati, l'acqua in eccesso era stata fatta defluire dal
lago Albano e il giorno fatale della fine di Veio era sempre più
vicino. E fu così che il generale chiamato dal destino a distruggere quella
città e a salvare il proprio paese, e cioè Marco Furio Camillo, venne eletto
dittatore e a sua volta nominò maestro della cavalleria Publio Cornelio
Scipione. Il cambio alla testa dell'esercito modificò in
maniera repentina ogni cosa: erano riapparsi la speranza e lo spirito di un tempo e
persino la fortuna di Roma sembrava diversa e rinnovata. Innanzitutto, il
dittatore si occupò di quei soldati che erano fuggiti da Veio nel pieno del
panico: punendoli con la severità prevista dal codice militare, fece
capire ai propri uomini come il nemico non fosse il peggiore spauracchio in
guerra. Poi, dopo aver indetto la leva militare per un giorno
determinato, nell'intervallo di tempo che lo separava da quella data corse a Veio
per incoraggiare le truppe. Quindi tornò a Roma dove arruolò
un nuovo esercito senza dover affrontare alcun caso di renitenza alla leva.
Addirittura, da fuori, dai Latini e dagli Ernici, si presentarono contingenti di
giovani e offersero il proprio contributo per quel conflitto: il
dittatore li ringraziò di fronte al Senato. E siccome tutto era pronto in
vista della guerra, in conformità a un decreto del Senato, Camillo promise
in maniera solenne che, qualora Veio fosse caduta in mano dei Romani,
avrebbe celebrato i Ludi Magni, restaurato e riconsacrato il tempio
della Madre Matuta, un tempo già consacrato dal re Servio Tullio. Quando
lasciò Roma alla testa dell'esercito, le aspettative della
gente superavano addirittura le speranze. Giunto nel territorio di
Nepi, il suo primo scontro armato fu con Falisci e Capenati. In
quell'occasione, come spesso succede, la sua condotta, strategicamente perfetta
sotto ogni aspetto, venne accompagnata anche dalla fortuna. Camillo non si
limitò però a sbaragliare i nemici in battaglia, ma li privò anche
dell'accampamento impadronendosi di un enorme bottino, la maggior parte del quale venne
consegnato al questore, lasciando così ben poca roba ai
soldati. Di lì guidò quindi l'esercito alla volta di Veio dove
incrementò le opere di fortificazione impiegandovi i soldati, ai quali vietò di
combattere senza ordini precisi, ponendo così termine alle frequentissime scaramucce
che si verificavano nello spazio compreso tra il muro della città
e il fossato dell'accampamento. Dette, poi, inizio a un lavoro molto
più importante e faticoso di tutti gli altri: un cunicolo sotterraneo diretto
verso la cittadella. Per evitare interruzioni nella costruzione ed
eccessi di fatiche sobbarcate sotto terra sempre dagli stessi uomini, il
dittatore li divise in sei squadre, ciascuna con un turno di sei ore. Si
poté così procedere in maniera incessante giorno e notte, fino a
quando il camminamento non ebbe raggiunto la cittadella nemica. 20 Il dittatore si rese conto che ormai
la vittoria era a portata di mano: una città ricchissima stava per
essere conquistata e la preda sarebbe stata enorme, quale non avevano dato
tutte le guerre precedenti messe insieme. Di conseguenza, per evitare di
incappare nel risentimento dei soldati per una spartizione taccagna
del bottino o di suscitare il malcontento dei senatori con una
divisione eccessivamente prodiga, scrisse una lettera al Senato nella quale
diceva che grazie al favore degli dèi immortali, alla sua condotta
strategica, alla costanza dello sforzo da parte delle truppe la città di
Veio sarebbe presto finita in mano al popolo romano. Che cosa ritenevano si
dovesse fare con il bottino? Il senato era diviso tra due diverse
risoluzioni. La prima, avanzata dall'anziano Publio Licinio (che,
stando alla tradizione, sarebbe stato il primo a parlare su richiesta del
figlio), suggeriva di proclamare pubblicamente al popolo che chi avesse
voluto partecipare alla spartizione del bottino si sarebbe dovuto recare
all'accampamento sotto Veio. L'altra fu sostenuta da Appio Claudio:
considerando quell'inedita elargizione eccessiva, avventata, e ineguale, egli
riteneva che, se il versare nelle casse dello Stato stremate dalle guerre
il denaro sottratto ai nemici veniva considerato un delitto, sarebbe
stato consigliabile utilizzare quella enorme somma per il pagamento
degli stipendi ai soldati, in maniera tale da alleviare in parte la plebe
dalla contribuzione di quella tassa. Con questo sistema tutte le famiglie
avrebbero risentito in maniera uguale del beneficio di quell'elargizione,
evitando così che gli sfaccendati della città, abituati com'erano
al saccheggio, mettessero le grinfie sui premi destinati ai combattenti valorosi
(poiché succede sempre che chi di solito cerca la parte più
rilevante di pericoli e fatiche poi risulta più lento quando si tratta di mettere le
mani sulla preda). Licinio sosteneva invece che quel denaro sarebbe sempre
stato motivo di sospetti e gelosie, offrendo così il destro per
accuse di fronte alla plebe, disordini e leggi rivoluzionarie. Sarebbe stato di gran
lunga preferibile riconciliarsi con quell'elargizione la simpatia dei
plebei, venendo loro in aiuto nello stato di prostrazione e miseria nella
quale erano stati trascinati da anni di tassazioni belliche, e offrendo
così nel contempo l'opportunità di
godere del frutto del bottino fatto in una guerra che li aveva visti
quasi diventar vecchi. Per tutti sarebbe
stata una gioia ben più forte riportarsi a casa ciò che
ciascuno di essi aveva strappato con le proprie mani al nemico, piuttosto che ottenere
un premio molto più grande ad arbitrio di altri. Oltretutto anche il
dittatore avrebbe evitato il malcontento e le accuse che ne
sarebbero derivate. E per questo aveva rimesso al Senato la decisione. Quindi
anche il Senato doveva delegare alla plebe la risoluzione che gli era
stata addossata, lasciando così che a ciascun combattente restasse
ciò che le sorti della guerra potevano aver dato. Questo suggerimento sembrò
il più sicuro in quanto avrebbe reso popolare il Senato. Perciò venne
annunciato che chi avesse voluto prendere parte alla spartizione del bottino di
Veio avrebbe dovuto recarsi all'accampamento del dittatore. 21 Un'enorme massa di persone si mise
in movimento e andò a riversarsi nell'accampamento. Il dittatore allora,
dopo aver tratto gli auspici, uscì dalla tenda e diede ordine alle truppe
di armarsi. «Sotto il tuo comando - disse poi -, o Apollo Pizio, e ispirato
al tuo volere, mi accingo a distruggere la città di Veio e a
te dedico la decima parte del bottino che ne verrà tratto. Ma nello stesso
tempo imploro te, o Giunone Regina, che adesso dimori a Veio, di seguire noi
vincitori nella nostra città presto destinata a diventare anche la tua,
dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza». Dopo aver
innalzato queste preghiere, il dittatore, forte di un numero soverchiante di
uomini, si buttò all'assalto della città aggredendola da ogni
parte, in maniera tale che gli abitanti si rendessero conto il meno possibile del
pericolo che incombeva sulle loro teste dalla galleria sotterranea. I
Veienti, non sapendo che tanto i vati di casa quanto gli oracoli stranieri li
davano già per spacciati e che alcune divinità erano già
state chiamate a dividere le loro spoglie, mentre altre, invitate con suppliche ad
abbandonare Veio, stavano già cominciando a vedere nei santuari dei
nemici le loro nuove dimore, e ignorando che quello era destinato ad
essere il loro estremo giorno di vita, siccome l'ultima cosa di cui
potevano aver paura erano l'idea di un cunicolo scavato sotto le
fortificazioni e l'immagine della cittadella ormai piena di nemici, si armarono
ciascuno per proprio conto e si andarono a riversare sulle mura. E si
chiedevano con meraviglia come mai, mentre per tanti giorni non c'era stato
un solo Romano che si fosse mosso dai posti di guardia, adesso, come
spinti da un furore improvviso, si riversassero in massa alla cieca contro
le mura. A questo punto si inserisce una
leggenda: mentre il re dei Veienti era intento a celebrare un sacrificio,
nella galleria si sarebbe udita la voce dell'aruspice dire che la vittoria
avrebbe premiato chi fosse riuscito a tagliare le viscere di quella vittima.
Questa voce avrebbe spinto i soldati romani a sfondare l'ingresso
della galleria e a impossessarsi delle viscere riportandole al
dittatore. Trattandosi di vicende così antiche sarei già contento se il
verosimile fosse accettato come vero: ma racconti come questo sembrano adatti al
palcoscenico di un teatro (dove c'è l'abitudine a compiacersi
del meraviglioso) più che alla credibilità di un'opera storica, e non vale la pena
né di rifiutarli in blocco né di accettarli passivamente. La galleria, piena com'era in quel
momento di truppe scelte, all'improvviso riversò il suo
carico di armati all'interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte
di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte
andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora
appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne
scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. Dappertutto echeggiavano clamori: alle
urla minacciose degli aggressori miste ai suoni spaventati degli
assaliti si univano le lacrime delle donne e dei bambini. In un attimo tutti gli
uomini armati vennero scaraventati giù dai vari punti delle mura e
le porte si spalancarono, permettendo così a parte dei Romani di riversarsi
all'interno in formazione compatta e ad altri di scalare le mura ormai prive di
difesa. La città straripava di nemici. Si combatteva dovunque. Poi,
quando il massacro era già arrivato all'estremo, la battaglia
cominciò a perdere d'intensità e il dittatore attraverso gli araldi ordinò
agli uomini di risparmiare chi non era armato. Questa mossa pose fine alla
carneficina. Quanti non portavano armi iniziarono allora a consegnarsi
spontaneamente, mentre i soldati romani ottennero dal dittatore via libera al
saccheggio. Poiché gli oggetti accatastati di fronte ai suoi occhi si
rivelarono più numerosi e preziosi di quanto non fosse dato sperare o
supporre, si racconta che il dittatore innalzò questa preghiera con le
mani levate al cielo: se la fortuna sua e del popolo romano sembrava eccessiva a
qualcuno tra gli dèi e tra gli uomini, che almeno quella gelosia
potesse venir placata con il minor danno per sé e per il popolo romano. Pare che
mentre si girava nel corso della preghiera agli dèi Camillo
scivolasse e perdesse l'equilibrio finendo a terra. Quando a fatti compiuti si
cominciò a congetturare sull'episodio, sembrò che quel sinistro
presagio dovesse esser messo in relazione tanto alla condanna inflitta in séguito a
Camillo, quanto alla catastrofica caduta di Roma avvenuta pochi anni
dopo. Nell'arco di quell'intera giornata, i Romani non fecero altro che
massacrare i nemici e saccheggiare le ricchezze infinite di quella
città. 22 Il giorno dopo il dittatore vendette
come schiavi tutti gli abitanti di condizione libera. La somma che se ne
ricavò fu il solo denaro finito nel tesoro dello Stato, non senza ira della
plebe. Quanto poi al bottino che i soldati riuscirono a portarsi a casa,
dissero di non doverlo né al comandante, reo di aver rimesso al
senato una decisione di sua competenza, per trovare dei responsabili per la sua
avara distribuzione, né tantomeno al senato, bensì soltanto alla
famiglia Licinia, tra i cui membri c'era stato un figlio relatore al senato di
una legge così favorevole al popolo e proposta dal padre. Quando i beni privati erano già
stati asportati da Veio, i vincitori cominciarono a portarsi via anche i
tesori degli dèi e gli dèi stessi, pur facendolo però con spirito di
autentica devozione e non con foga da razziatori. Infatti all'interno di
tutto l'esercito vennero scelti dei giovani che, dopo essersi lavati
accuratamente e aver indossato una veste bianca, ebbero l'incarico di trasferire
a Roma Giunone Regina. Una volta entrati nel tempio pieni di reverenza,
essi in un primo tempo accostarono piamente le mani al simulacro della dea
perché secondo la tradizione etrusca quell'immagine non doveva esser
toccata se non da un sacerdote proveniente da una certa famiglia. Poi,
quando uno di essi, vuoi per ispirazione divina, vuoi per celia
giovanile, disse, rivolto al simulacro: «Vuoi venire a Roma, Giunone?», tutti
gli altri gridarono festanti che la dea aveva fatto un cenno di assenso con
la testa. In séguito alla storia venne anche aggiunto il particolare che
era stata udita la voce della dea rispondere di sì. Di certo
però sappiamo che (come se la statua avesse voluto seguire volontariamente quel
gruppo di giovani) non ci vollero grossi sforzi di macchine per
rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera a
trasportarsi, la dea approdò integra sull'Aventino, in quella zona
cioè che le preghiere del dittatore avevano
invocato come la sede naturale a lei destinata per l'eternità e
dove in séguito Camillo le dedicò il tempio da lui stesso promesso nel pieno della
guerra. Questa fu la fine di Veio, la città più ricca di
tutto il mondo etrusco e capace di dare prova della propria grandezza anche nel momento
estremo della disfatta: dopo un assedio durato dieci estati e
altrettanti inverni durante i quali aveva inflitto perdite ben più gravose
di quante non ne avesse subite, alla fine, anche se incalzata ormai anche
dal destino avverso, ciò non ostante fu espugnata grazie all'ingegneria
militare e non alla forza vera e propria. 23 Quando a Roma arrivò la
notizia della caduta di Veio, anche se i prodigi erano stati espiati e tutti
ormai erano a conoscenza dei responsi degli aruspici e dell'oracolo della
Pizia, e per quanto i Romani, scegliendosi come comandante il
più grande generale che ci fosse in circolazione (e cioè Furio
Camillo), avessero fatto tutto quello che era in loro potere per sostenere la causa
comune, ciò non ostante - visto che la guerra si era trascinata con alterne
fortune per così tanti anni e le disfatte subite non erano state certo
poche - in città l'esplosione di gioia fu incontenibile come se
quell'esito fosse insperato. E prima ancora che il senato lo decretasse, i templi
tutti si riempirono di matrone romane che rendevano grazie agli
dèi. Il senato stabilì che le feste di ringraziamento durassero per quattro
giorni di séguito, cosa che non era mai successa in nessuna delle guerre
combattute in passato. Quando il dittatore rientrò in
città, venne anche a lui riservata un'accoglienza senza precedenti per il numero di
persone di ogni ordine sociale che gli andarono incontro riversandosi per le
strade. E per il trionfo fu la stessa cosa: gli onori riservati di
solito in simili occasioni superarono di gran lunga le proporzioni abituali.
Il dittatore, all'atto di fare il suo ingresso in città a bordo di
un cocchio trainato da cavalli bianchi, divenne l'elemento più in vista
di tutto il corteo, cosa questa che diede l'impressione di essere eccessiva non
solo per un cittadino ma anche per un semplice mortale, perché la gente
riteneva sacrilego il fatto che il dittatore, avendo utilizzato quel tipo
di cavalli, fosse stato messo sullo stesso piano di Giove e del Sole. E fu
soprattutto per questa ragione se il trionfo raccolse più
ammirazione per la magnificenza dell'apparato che ampiezza di consensi. Camillo, poi,
fece erigere un tempio a Giunone Regina sull'Aventino e ne dedicò
uno alla Madre Matuta. Adempiuti questi impegni di natura cultuale e materiale,
abbandonò spontaneamente la carica di dittatore. La questione della quale si dibatté
sùbito dopo fu il dono promesso ad Apollo. Camillo aveva dichiarato di
avergli promesso in voto la decima parte del bottino fatto a Veio e i
pontefici dicevano che il popolo doveva onorare quest'obbligo religioso ma non era
facile trovare come imporre alla gente di restituire il bottino,
per prelevarne la parte destinata e dovuta agli scopi sacri. Alla fine si
arrivò al rimedio più blando: chiunque avesse voluto, a nome proprio
e della propria casa, liberarsi dall'obbligo religioso, avrebbe dovuto
prima effettuare una valutazione del bottino toccatogli e quindi
versarne un decimo nel tesoro di Stato, in maniera tale da trasformare quella
contribuzione in un dono in oro degno della magnificenza del tempio e della
grandezza della divinità e in perfetta sintonia con la dignità
del popolo romano. Ma, anche così, la contribuzione alienò a Camillo
le simpatie della plebe. Nel frattempo Volsci ed Equi inviarono dei delegati a
intavolare trattative di pace: e se essa venne concessa, non fu tanto
perché ne fossero degni coloro che la richiedevano, quanto piuttosto perché
il paese avesse modo di riprendere fiato stremato com'era dopo una guerra così
lunga. 24 Nell'anno successivo alla presa di
Veio i tribuni militari eletti furono sei. Si trattava dei due Publii
Cornelii, cioè Cosso e Scipione, di Marco Valerio Massimo (per la seconda
volta), di Cesone Fabio Ambusto (per la terza), di Lucio Furio Medullino
(per la quinta volta) e di Quinto Servilio (per la terza volta). Il
sorteggio assegnò ai due Cornelii la guerra contro i Falisci, mentre a
Valerio e a Servilio riservò la campagna contro i Capenati. Essi non tentarono
l'assedio o l'attacco diretto ad alcuna città, preferendo invece
devastare la campagna dei dintorni e razziare i prodotti agricoli: non
rimasero in piedi nella zona alberi da frutta, non rimase intatto alcun
terreno coltivato: l'operazione piegò la resistenza dei Capenati. La loro
richiesta di pace venne sùbito accolta. Nel territorio dei Falisci invece si
combatteva ancora. A Roma erano nel frattempo scoppiati
disordini di vario genere: per sedarli si era deciso di dedurre una
colonia in territorio volsco dove si potevano inviare tremila cittadini
romani, a ciascuno dei quali i triumviri preposti al cómpito avevano
deciso di assegnare tre iugeri e sette dodicesimi di terra. Ma la gente
cominciò a guardare con disprezzo a questa donazione, considerandola come
un semplice contentino concesso al popolo per evitare che nutrisse la
speranza di raggiungere qualche traguardo più ambizioso. Perché
mai infatti relegare la plebe nel territorio dei Volsci, quando lì
davanti agli occhi c'erano la bellissima città di Veio e tutta la
campagna circostante (ben più fertile e grande di quella romana)? Arrivavano addirittura
- vuoi per la posizione in cui si trovava, vuoi per la sontuosità
degli edifici pubblici e privati e per la bellezza dei luoghi - a preferire la
città stessa a Roma. Anzi si cominciava già ad avanzare la
proposta, divenuta ben più popolare quando
anni dopo Roma finì in mano ai Galli, di trasferire la
popolazione a Veio. L'idea era che una parte della plebe e
un certo numero di senatori andassero a vivere a Veio, ritenendo
realizzabile l'ipotesi che il popolo romano potesse abitare in due diverse
città pur rimanendo unito lo Stato. Ma i patrizi si opposero a questa
proposta in maniera risoluta, dichiarandosi pronti a morire al
cospetto del popolo romano piuttosto che accettare la votazione di una qualsiasi
idea di quel genere. Se in una sola città c'erano infatti
già così tanti dissensi, che cosa sarebbe successo in due? Com'era possibile che
la gente preferisse una città vinta alla patria vittoriosa e accettasse che
Veio, una volta presa, avesse maggiore fortuna che non quando era
intatta? Insomma, essi avrebbero anche potuto essere abbandonati in patria dai
concittadini. Ma nessun atto di forza li avrebbe mai costretti ad
abbandonare la patria e i concittadini, seguendo a Veio Tito Sicinio, il
'fondatore' (era infatti stato lui, tra i tribuni della plebe, l'autore di quella
proposta), dopo aver abbandonato il dio Romolo, figlio di un dio, padre
e fondatore della città di Roma. 25 Siccome il dibattito sulla questione
procedeva facendo registrare liti incresciose (i patrizi, infatti, erano
riusciti a trascinare dalla propria parte anche qualche tribuno della
plebe), la sola cosa che frenasse la plebe dal ricorso alla forza bruta era
il fatto che, ogni qualvolta qualcuno alzava la voce per far
scoppiare una rissa, gli esponenti più in vista del Senato andavano per primi
incontro alla folla, e la invitavano a attaccarli, ferirli, ucciderli. Così,
mentre ci si asteneva dal mancare di rispetto alla loro età
veneranda, alla loro dignità e al loro prestigio politico, un senso di ritegno impediva
che si arrivasse ad altri tentativi di violenza in tutto simili. Nei discorsi che ripeteva di continuo e
dovunque alla gente, Camillo diceva che non era poi tanto strano se
si abbandonasse a tali eccessi una città che, pur essendo legata al
compimento di un voto, faceva di tutto tranne che preoccuparsi di liberarsi
dal vincolo religioso. All'offerta in denaro (che a essere sinceri era
un'elemosina più che una decima) non accennava mai, perché ciascuno si era
assunto l'impegno per la propria parte e il popolo non aveva quindi
alcun obbligo. La sua coscienza non era però disposta a passare sotto
silenzio un'unica cosa: e cioè che di tutto il bottino razziato a Veio si
calcolasse la decima parte riferendosi ai soli beni mobili e non si menzionassero
invece per nulla la città e il territorio circostante, entrambi
sottratti al nemico e inclusi a pieno titolo nel voto. Visto che la
controversia parve al senato di difficile soluzione, la si demandò ai
pontefici i quali, dopo aver sentito Camillo, deliberarono che avrebbe dovuto essere
consacrata ad Apollo la decima parte di tutto ciò che prima
della pronuncia del voto era appartenuto ai Veienti e che dopo il voto era passato
nelle mani dei Romani. Così anche la città e la terra dei dintorni
vennero incluse nella stima. Dall'erario venne prelevato del denaro e ai tribuni
militari di rango consolare fu affidato il cómpito di acquistare
dell'oro con quella somma. Siccome non ce n'era a sufficienza per soddisfare
la richiesta, le matrone, dopo essersi riunite in privato per
consultarsi sulla questione, decisero di comune accordo di fornire l'oro ai
tribuni, e per questo consegnarono al tesoro di Stato tutti i gioielli di
loro proprietà. Quel gesto fu gradito dal Senato più di ogni altro in
passato e per onorare tanta generosità d'animo - si dice - venne stabilito che
le matrone avrebbero potuto recarsi alle cerimonie cultuali e ai
giochi pubblici su una carrozza a quattro ruote, e girare su un cocchio a
due ruote tanto nei giorni festivi quanto in quelli feriali. Dopo che
dell'oro offerto dalle singole matrone venne fatta la dovuta stima per
stabilire l'equivalente in denaro, si decise di ricavarne un cratere d'oro da
portare in dono ad Apollo al santuario di Delfi. Non appena le menti si furono liberate
dallo scrupolo religioso, i tribuni della plebe ricominciarono a fomentare
i disordini interni, aizzando la popolazione contro tutto il patriziato
e in particolare contro la persona di Camillo, che essi ritenevano
colpevole di aver ridotto a una miseria tutto il bottino finito per sua
iniziativa nelle casse dello Stato e devoluto a opere religiose. Quando i
patrizi erano assenti, li attaccavano con estrema virulenza, mentre in loro
presenza, dovendone affrontare spontaneamente le ire, si trattenevano.
Non appena ci si rese conto che la questione si sarebbe trascinata ben
oltre la fine dell'anno, il popolo rielesse per quello successivo gli
stessi tribuni della plebe che avevano presentato la proposta di legge. Ma
anche i patrizi si adoperarono per mantenere in carica gli uomini che vi
si erano opposti. I tribuni della plebe eletti furono così per
buona parte gli stessi dell'anno precedente. 26 Quando arrivò il giorno delle
elezioni dei tribuni, i senatori riuscirono, anche se con uno sforzo
enorme, a ottenere la nomina di Marco Furio Camillo, adducendo come pretesto
la necessità di avere un comandante per le guerre (mentre in realtà
cercavano un uomo adatto a contrastare la prodigalità eccessiva dei
tribuni). Insieme a Camillo ottennero la carica di tribuni militari con potere
consolare Lucio Furio Medullino (per la sesta volta), Gaio Emilio, Lucio
Valerio Publicola, Spurio Postumio e Publio Cornelio (per la seconda volta).
All'inizio dell'anno i tribuni della plebe non presero alcuna
iniziativa, nell'attesa che Furio Camillo - cui era toccato il comando delle
operazioni - marciasse contro i Falisci. Poi, a forza di rinvii, la lotta
cominciò a perdere mordente, proprio mentre la figura di Camillo, di gran
lunga l'avversario più temibile per i tribuni, riacquistava prestigio grazie
alle gloriose imprese compiute contro i Falisci. All'inizio delle
operazioni, i nemici si erano asserragliati all'interno della cerchia
muraria, ritenendo questa tattica il sistema di difesa più sicuro.
Ma Camillo, dopo aver devastato le campagne dei dintorni e incendiato
delle fattorie, li costrinse ad uscire dalla città. Bloccati
però dal timore di sbilanciarsi troppo in avanti, i Falisci si andarono ad accampare a
circa un miglio di distanza dalla città, confidando come unica
risorsa nella difficoltà di raggiungere quel punto che si trovava in mezzo ad aspri
dirupi cui si poteva accedere tramite strade che erano o ripide o
strette. Ma Camillo, impiegando come guida un prigioniero che era proprio di
quelle parti, si mise in marcia nel cuore della notte e alle prime luci
del giorno apparve in un punto ben più alto. I Romani, divisi in
tre gruppi, cominciarono la costruzione di una trincea, mentre il resto
dell'esercito non impegnato nei lavori venne piazzato in posizione di combattimento.
E lì, quando i nemici tentarono di ostacolare la costruzione, vennero
sbaragliati e messi in fuga. Il panico dei Falisci in rotta disordinata fu
tale da spingerli a superare di slancio l'accampamento che era
là a due passi e a rifugiarsi in città. Molti di essi, in preda com'erano della
paura, vennero uccisi o feriti prima di esser riusciti a raggiungere
le porte. L'accampamento venne conquistato e il bottino consegnato ai
questori, anche se con grande ira dei soldati che, piegati dalla durezza
dell'ordine impartito, non poterono non ammirare e detestare nel contempo
la probità del loro comandante. Di lì a poco ebbe inizio l'assedio
della città con tanto di macchine, e di tanto in tanto, non appena se ne
presentava l'occasione, i Falisci facevano delle sortite contro i posti
di guardia romani, dando vita a brevi scaramucce. Il tempo passava
senza che le sorti della guerra pendessero verso l'uno e l'altro
contendente, perché le scorte di grano e le altre provviste accumulate dai
Falisci prima della guerra erano più sostanziose di quelle in possesso dei
Romani. Ormai si aveva l'impressione che l'assedio fosse destinato a durare
quanto quello sostenuto sotto Veio. E così sarebbe stato se la
fortuna non avesse concesso al generale romano l'opportunità di offrire una
dimostrazione delle sue ben note capacità in materia di strategia militare e
contemporaneamente un'immediata vittoria. 27 Presso i Falisci c'era l'abitudine
di servirsi della stessa persona in qualità di maestro e di
accompagnatore dei figli, così che, come ancora oggi si verifica in Grecia, più
ragazzi venivano affidati alle cure di un solo individuo. Il cómpito di istruire
i rampolli delle famiglie più in vista era assegnato, come di solito succede,
a un uomo che aveva fama di essere superiore a tutti per
profondità di dottrina. In tempo di pace questo maestro aveva preso l'abitudine
di portare i ragazzi a giocare e a fare ginnastica fuori dalla cerchia
delle mura, senza poi modificare in nulla questa abitudine una volta
scoppiato il conflitto. Siccome continuava a passeggiare coi suoi
discepoli in punti più o meno lontani dalle porte coinvolgendoli in giochi e
racconti sempre diversi, un giorno in cui la passeggiata si era spinta
più in là del solito, il maestro colse al volo l'opportunità di portare
i ragazzi in mezzo ai posti di guardia del nemico e di lì, una volta
attraversato l'accampamento romano, di arrivare fino alla tenda di Camillo. E
lì, aggiungendo un discorso ancor più efferato a un gesto che lo
era già di per sé, disse di aver consegnato la città di Faleri in mano ai
Romani poiché quei ragazzi erano i figli degli uomini che detenevano il potere
supremo in città. Al sentire quelle parole, Camillo disse: «Il popolo e il
comandante presso il quale tu, razza di scellerato, ti sei presentato
col tuo dono da scellerato, sappi che non ti assomigliano in nulla. Tra
noi e i Falisci non c'è alcun vincolo fondato su patti stipulati
dagli uomini, ma esiste e sempre esisterà per l'una e l'altra
parte quello voluto dalla natura. Anche la guerra, come la pace, ha le sue leggi e
noi abbiamo imparato a osservarle ricorrendo alla giustizia non meno che al
coraggio. Noi non usiamo le armi contro quell'età inerme che
viene risparmiata anche nelle città conquistate, ma contro chi si presenta
a sua volta armato e colpisce, come quelli che attaccarono l'accampamento
romano a Veio, pur senza esser stati né offesi né tantomeno provocati da
noi. Uomini di quella tacca tu li hai superati con un crimine che non ha
precedenti: io li vincerò alla maniera romana, usando, come successo con Veio,
solo il coraggio, le opere d'assedio e le armi.» Dopo aver fatto
spogliare il maestro, ordinò di legargli le mani dietro la schiena e
quindi lo affidò ai ragazzi perché lo riportassero indietro a Faleri e diede
loro delle verghe invitandoli a frustarlo durante il percorso
dall'accampamento alla città. L'insolito spettacolo richiamò sulle prime
una gran folla. Poi, durante una seduta dal senato convocata dai magistrati per
discutere del singolare episodio
successo, lo stato d'animo dell'intera popolazione subì un
cambiamento così netto che a quegli stessi
uomini che poco prima, sull'onda della rabbia e dell'odio, avevano dichiarato
di preferire la fine di Veio al trattato stipulato dai Capenati, adesso
l'intera città chiedeva a gran voce la pace. Nel foro e nella curia
tutti celebravano l'onestà romana e il senso di giustizia del generale.
Poi, col consenso generale, vennero inviati degli ambasciatori a Camillo che
dall'accampamento diede loro il permesso di recarsi a Roma, al senato,
dove, una volta introdotti, pare pronunciassero le seguenti parole: «O
padri coscritti, poiché voi e il vostro comandante avete ottenuto su di
noi una vittoria per la quale nessun uomo e nessun dio potrà
mai provare del risentimento, ci rimettiamo nelle vostre mani, convinti (niente
può essere per il vincitore motivo maggiore di gloria) di poter vivere
meglio sotto la vostra autorità che sotto le nostre leggi. L'esito di questo
conflitto ha offerto all'umanità due esempi più che utili: voi
avete anteposto la lealtà in guerra alla vittoria immediata; noi, sfidati da
questa prova di lealtà, vi abbiamo offerto liberamente la vittoria. Ci
rimettiamo nelle vostre mani: mandate pure degli uomini a prendere le nostre
armi, gli ostaggi e la città le cui porte sono già aperte. Voi non
avrete rimostranze circa la nostra lealtà così come noi non ne avremo riguardo
il vostro dominio.» Camillo venne ringraziato tanto dai nemici quanto dai
concittadini. Ai Falisci venne ordinato di provvedere alle paghe
militari di quell'anno, onde alleviare così il popolo romano dal
versamento di quella tassa. E una volta concessa la pace, l'esercito venne ricondotto a
Roma. 28 Camillo, dopo aver vinto i nemici
grazie al suo senso di equità e di lealtà, ritornò a Roma
salutato da consensi ben più calorosi di quanti non gliene fossero stati tributati quando
era passato in trionfo attraverso la città su un cocchio trainato da
cavalli bianchi. E il senato, pur non avendo sentito da parte di Camillo
alcun accenno alla cosa, volle che venisse affrancato, senza ulteriori
indugi, dal voto fatto. E così a Lucio Valerio, Lucio Sergio e Aulo Manlio
venne affidato il cómpito di portare a Delfi il cratere d'oro destinato in
dono ad Apollo. Ma siccome viaggiavano su una sola nave da guerra, i tre
inviati vennero catturati da pirati di Lipari nei pressi dello stretto di
Messina e quindi tradotti a Lipari. Sull'isola c'era l'abitudine di
dividere il bottino fatto, come se la pirateria fosse una sorta di
attività pubblica. Ma per puro caso la carica più importante del paese era
affidata quell'anno a un certo Timasiteo, uomo affine più ai Romani che
non ai propri conterranei. Pieno di rispetto per il titolo di ambasciatore, per il
dono che i tre stavano portando, ma anche per il dio cui esso era destinato
e le ragioni che ne motivavano l'invio, riuscì a trasferire
anche nel popolo, che di solito somiglia sempre moltissimo agli individui da cui
è governato, un giusto scrupolo di natura religiosa. E dopo aver offerto
pubblica ospitalità agli ambasciatori, organizzò anche
una scorta navale per accompagnarli a Delfi, da dove poi li fece riportare a Roma
sani e salvi. Un decreto del Senato sancì l'istituzione di un vincolo
di ospitalità con Timasiteo, cui vennero anche inviati dei doni a nome dello
Stato. Quello stesso anno si combatté contro
gli Equi: l'esito della guerra fu però così incerto che
tanto a Roma quanto presso gli eserciti stessi rimase il dubbio se si fosse avuta la
meglio o meno. I comandanti in capo della spedizione erano due tribuni
militari, e cioè Gaio Emilio e Spurio Postumio. All'inizio delle operazioni
agirono di conserva. Una volta sbaragliati i nemici in battaglia,
decisero invece che Emilio avrebbe presidiato Verrugine e Postumio messo a
ferro e fuoco le campagne dei dintorni. Mentre, nell'euforia del
recente successo, trascurava le precauzioni e lasciava che le truppe
marciassero in disordine, fu assalito dagli Equi che gettarono il panico tra
i suoi uomini costringendoli a riparare sulle colline più
vicine. Di lì lo stato di allarme si diffuse arrivando a contagiare anche la
guarnigione rimasta a Verrugine. Postumio, dopo aver guidato i suoi uomini in un
punto sicuro, convocò l'adunata generale e quando li ebbe tutti di
fronte a sé li rimproverò severamente per il panico dal quale si erano
lasciati prendere e per la fuga, rimproverandoli di essersi fatti
sbaragliare da un nemico di scarsissimo valore e sempre pronto a darsela a
gambe. La risposta dell'esercito echeggiò unanime: tutti gli
uomini ammisero di essersi meritati quei rimproveri, di essersi macchiati di
un'infamia, ma promisero anche che si sarebbero rifatti e che la gioia del
nemico non sarebbe durata a lungo. Chiedendo poi con insistenza di essere
guidati all'attacco dell'accampamento nemico (visibile da
quel punto perché piazzato nella piana sottostante la collina),
dichiararono che avrebbero accettato qualsiasi tipo di castigo se non
fossero riusciti a conquistarlo prima del tramonto. Dopo averli elogiati,
Postumio li invitò a riposare e a farsi trovare pronti prima dell'alba. Anche i
nemici, per impedire che durante la notte i Romani - dall'altura su cui
si erano attestati - tentassero la fuga per la strada diretta a Verrugine,
andarono loro incontro e la battaglia ebbe luogo prima del sorgere
del sole (ma quella notte c'era la luna piena e così si poté
combattere come se fosse stato di giorno). Il frastuono della battaglia arrivato fino
a Verrugine indusse i soldati a pensare che l'accampamento romano fosse
in balìa di un attacco nemico: ne seguì un tale scompiglio che gli
uomini, non ostante i reiterati tentativi di Emilio per mantenerne il controllo,
fuggirono disperdendosi in direzione di Tuscolo. Di lì fu
portata a Roma la notizia che Postumio e il suo esercito erano stati massacrati. E
invece Postumio, quando le prime luci del giorno ebbero dissipato ogni
dubbio circa eventuali imboscate nel caso di un inseguimento disordinato,
attraversando a cavallo le linee dei
suoi e ricordando loro la promessa fatta, infuse una tale carica che
gli Equi non riuscirono a reggere
più a lungo l'attacco. L'uccisione dei nemici in fuga - come sempre succede
quando si combatte spinti dall'ira più che dal valor militare - si
concluse con uno sterminio. Alla triste notizia che da Tuscolo aveva raggiunto
Roma precipitandone gli abitanti in un inutile panico fece séguito una
lettera ornata d'oro inviata da Postumio nella quale il generale annunciava
la vittoria del popolo romano e la disfatta dell'esercito degli Equi. 29 Siccome la proposta avanzata dai
tribuni della plebe non aveva ancora avuto una realizzazione pratica, i
plebei fecero di tutto per prolungare la magistratura ai sostenitori di
quell'iniziativa, mentre i patrizi si adoperarono per rieleggere quegli
stessi uomini che avevano cercato di ostacolarla. Ma la plebe nei suoi
comizi ebbe la meglio, cosa dolorosa, di cui i patrizi si vendicarono súbito
facendo votare in senato un decreto che prevedeva l'elezione di consoli,
cioè una magistratura da sempre in odio ai plebei. Così, dopo un
intermezzo di quindici anni vennero eletti consoli Lucio Lucrezio Flavo e Servio
Sulpicio Camerino. All'inizio dell'anno, mentre i tribuni della plebe
davano battaglia tutti insieme con estremo accanimento per far passare la
legge (approfittando del fatto che nessun membro del loro collegio era
intenzionato a opporsi con l'esercizio del veto), per lo stesso motivo i
consoli dimostravano non minore accanimento nell'opporsi al passaggio
della proposta. Così, mentre l'intera città era concentrata
su quell'unica questione, gli Equi si impadronirono della colonia romana di
Vitellia, situata nel loro territorio. La maggior parte dei coloni
riparò sana e salva a Roma grazie al fatto che, essendo stata la fortezza
presa durante la notte per tradimento, riuscirono a fuggire dalla
parte opposta dell'abitato. Il comando delle operazioni toccò
al console Lucio Lucrezio che partì a capo di un esercito e sbaragliò i
nemici in battaglia. Quindi rientrò da vincitore a Roma, dove lo attendeva uno
scontro ben più grave. Aulo Verginio e Quinto Pomponio, tribuni
della plebe dell'anno precedente, erano stati citati in giudizio e per
volontà unanime dei patrizi era per il senato motivo di onore accollarsene
la difesa. Infatti contro i due ex-magistrati non c'era alcuna altra
imputazione relativa a reati commessi nella vita privata o durante
l'esercizio delle proprie funzioni, se non quella di aver esercitato il proprio
diritto di veto contro la legge proposta dai tribuni e di averlo fatto
solo per compiacere i senatori. Ciò non ostante il risentimento della plebe
ebbe la meglio sull'influenza politica dei senatori e così,
con un pessimo precedente per gli anni a venire, degli innocenti vennero condannati
al pagamento di un'ammenda di 2.000 assi. Il verdetto suscitò
l'indignazione dei senatori. Camillo accusava apertamente la plebe di aver
commesso un delitto perché, essendosi ormai rivolta contro i suoi
stessi rappresentanti, non capiva di aver soppresso, grazie a quella
sentenza vergognosa contro i tribuni, il diritto di veto, e con la soppressione
del diritto di veto di aver abbattuto il potere tribunizio. Perché
se pensavano che i senatori avrebbero tollerato gli eccessi
sfrenati di quella magistratura, si sbagliavano di grosso. Se la prepotenza
dei tribuni non la si poteva impedire facendo ricorso all'intervento
dei tribuni stessi, allora i senatori avrebbero escogitato qualche
altro sistema per combatterla. Camillo rimproverava anche i consoli di
aver accettato senza protestare il fatto che fosse venuta meno la
protezione a quei tribuni che si erano attenuti all'autorità del
Senato. Continuando a esprimere questi concetti in pubblico, Camillo incrementava ogni
giorno di più l'esasperazione della gente. 30 Quanto poi al Senato, non cessava di
incitarne i componenti a opporsi alla legge: nel giorno destinato alla
votazione di quella proposta, discendessero nel foro con un solo
pensiero, e cioè ricordandosi di dover combattere per gli altari, i focolari,
i templi degli dèi e la terra nella quale erano nati. Per ciò che
invece lo riguardava personalmente - se mai era lecito chiamare in causa la propria
gloria nel momento in cui si affrontava una battaglia per la patria
-, sarebbe stato motivo di onore per lui vedere piena di gente la
città che aveva conquistata, godere ogni giorno ciò che testimoniava la
sua gloria, avere davanti agli occhi una città la cui immagine era stata
portata durante il suo trionfo, e rendersi conto che tutti camminavano sui luoghi
che recavano le tracce delle sue imprese illustri. Ma riteneva un
delitto che si andasse a abitare una città abbandonata dagli
dèi immortali, che il popolo romano si scegliesse per dimora una terra conquistata, dopo
aver accettato di sostituire alla patria vittoriosa una vinta. Trascinati da queste esortazioni, i
senatori più autorevoli, giovani e vecchi, quando la legge venne
sottoposta al voto, si presentarono inquadrati nel foro e, dopo essersi
divisi tra le singole tribù di appartenenza, ciascuno di essi
cominciò ad abbracciare i propri compagni di tribù, a scongiurarli
piangendo di non abbandonare la patria per la quale loro e i loro padri avevano
combattuto così strenuamente e con tanto successo. Mostravano il Campidoglio, il
santuario di Vesta e tutti gli altri templi degli dèi lì
intorno, pregandoli di non permettere che il popolo romano diventasse un esule
ramingo costretto a vivere in una città di nemici lontano dalla terra natale e
dagli dèi penati. Li imploravano di non spingere le cose al punto tale da
rimpiangere la caduta di Veio, se costava lo spopolamento di Roma.
Siccome i patrizi non facevano ricorso alla coercizione ma si limitavano alle
suppliche infarcendole di accenni agli dèi, la maggioranza
risentì dello scrupolo religioso e così la legge venne respinta per un solo voto di
differenza tra le tribù che ne caldeggiavano il passaggio e quelle che
invece la osteggiavano. Quella vittoria fu così gradita ai
patrizi che il giorno dopo, su proposta dei consoli, il Se nato varò un
decreto in base al quale a ciascun plebeo venivano assegnati sette iugeri della
terra di Veio, e non solo ai capifamiglia, ma calcolando anche tutti
gli uomini liberi di ogni casa, in modo da accrescere il desiderio di
allevare figli. 31 Siccome la plebe era stata placata
da quella donazione, non ci furono più scontri vòlti a
ostacolare le elezioni consolari che videro la nomina di Lucio Valerio Potito e di Marco
Manlio, in séguito soprannominato Capitolino. Questi due consoli
celebrarono i Ludi Magni, conforme al voto del dittatore Furio Camillo durante la
guerra contro Veio. Nel corso dello stesso anno venne anche consacrato a
Giunone Regina il tempio promesso dallo stesso dittatore e nella stessa
guerra, e si racconta che la consacrazione venne celebrata con
grande fervore dalle matrone. La guerra combattuta contro gli Equi sull'Algido
non fece registrare nulla di memorabile perché i nemici vennero
sbaragliati prima ancora che le ostilità vere e proprie avessero
avuto inizio. A Valerio venne concesso il trionfo per aver dimostrato grande
accanimento nel fare a pezzi i nemici in fuga, mentre a Manlio fu concesso
l'onore dell'ovazione all'ingresso in città. Quello stesso anno
scoppiò una nuova guerra: si trattava degli abitanti di Volsinii. Ma la carestia e
l'epidemia che colpirono le campagne romane a causa della
siccità e delle temperature eccessivamente elevate non permisero l'invio di un
esercito sul luogo del conflitto. Queste calamità fecero
ringalluzzire ancora di più i Volsiniesi che, grazie anche all'appoggio dei
Sapienati, fecero un'incursione in territorio romano. A quel punto venne
dichiarata guerra a entrambi i popoli. Morì il censore Gaio
Giulio e il suo posto venne preso da Marco Cornelio, cosa questa che in séguito
venne interpretata come un'offesa alla divinità perché Roma fu
presa proprio nell'arco di quel lustro. E da quel giorno non c'è più
stato nemmeno un caso di censori nominati al posto di colleghi morti. Siccome anche i
consoli vennero colpiti dal contagio, si deliberò di rinnovare gli
auspici con il ritorno all'interregno. E così, una volta che i consoli
ebbero rinunciato alla carica in ottemperanza al decreto del Senato,
venne eletto interré Marco Furio Camillo il quale scelse come proprio successore
Publio Cornelio Scipione che, a sua volta, passò la
carica a Lucio Valerio Potito. Quest'ultimo nominò sei tribuni militari con
potere consolare per evitare che lo Stato rimanesse a corto di magistrati anche
nel caso in cui qualcuno dei neoeletti si fosse ammalato. 32 Alle calende di luglio entrarono in
carica i tribuni appena eletti, e cioè Lucio Lucrezio, Servio
Sulpicio, Marco Emilio, Lucio Furio Medullino (per la settima volta), Agrippa Furio e
Gaio Emilio (per la seconda volta). Tra di essi, a Lucio Lucrezio e
a Gaio Emilio venne affidata la campagna contro i Volsiniesi, mentre ad
Agrippa Furio e a Servio Sulpicio toccarono i Sapienati. Si combatté
prima con i Volsinensi, in una guerra che pur risultando notevole per
spiegamento di nemici in campo, non certo dura militarmente. Infatti l'esercito
nemico venne sbaragliato al primo assalto e messo in fuga. Durante la
ritirata precipitosa, otto mila fanti, tagliati fuori dalla cavalleria romana,
gettarono le armi e si arresero. La notizia di quel combattimento
indusse i Sapienati a non rischiare lo scontro in campo aperto: e si andarono
a mettere al sicuro, pronti a difendersi al riparo delle loro
fortificazioni. I Romani, senza trovare alcuna resistenza alle proprie
scorrerie, razziarono qua e là tanto il territorio dei Sapienati quanto quello
dei Volsiniesi, finché questi ultimi non si stancarono della guerra e
ottennero una tregua ventennale a patto di restituire al popolo romano
quanto sottratto e di corrispondere ai soldati le paghe di quell'anno. Nel corso di quello stesso anno, un
plebeo di nome Marco Cedicio riferì ai tribuni di aver sentito nel cuore della
notte, mentre si trovava nella Via Nuova (dove oggi c'è un
tempietto al di sopra del tempio di Vesta), una voce ben più squillante di una
voce umana ordinargli di comunicare ai magistrati che i Galli si stavano
avvicinando a Roma. L'informazione data da Cedicio, come sempre succede, non
venne tenuta in alcuna considerazione a causa della bassa estrazione
dell'uomo che l'aveva riferita, e anche perché quella popolazione viveva troppo
lontano e proprio per questo non era gran che conosciuta. Così,
mentre il destino incombeva ormai minaccioso sul loro futuro, i Romani
non si limitarono a disprezzare i moniti provenienti dal cielo, ma
allontanarono anche dalla città il solo aiuto umano su cui potessero contare, e
cioè Marco Furio. Citato in giudizio dal tribuno della plebe Lucio
Apuleio in relazione al bottino di Veio e privato proprio in quello stesso
periodo di un figlio in tenera età, Camillo convocò a
casa sua tutti i compagni di tribù e i clienti (che per la maggior parte erano plebei) e ne
sondò gli animi. Siccome essi gli risposero che avrebbero raccolto la
somma necessaria per pagare l'eventuale ammenda comminatagli, ma
che non potevano assolverlo dalla colpa, egli partì alla volta
dell'esilio pregando gli dèi immortali che, se doveva subire, innocente,
quell'ingiustizia, i suoi ingrati cittadini sentissero al più presto il
desiderio di riaverlo tra loro. Fu condannato in contumacia a un'ammenda di 15.000
assi. 33 Una volta espulso quel cittadino la
cui presenza, se qualcosa di questa vita può mai dirsi certo,
avrebbe impedito la presa di Roma, proprio mentre il giorno della catastrofe si
faceva sempre più vicino, da Chiusi arrivarono degli ambasciatori a
chiedere aiuti contro i Galli. Tradizione vuole che questa gente, attratta dalla
dolcezza delle messi e soprattutto del vino - di cui allora non
conoscevano il piacere -, abbia attraversato le Alpi e si sia stanziata nelle terre
un tempo coltivate dagli Etruschi. A inviare quel vino in Gallia sarebbe
stato Arrunte di Chiusi col preciso intento di attirarne la popolazione per
vendicarsi di Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, non ostante ne
fosse stato il tutore. E Lucumone era un giovane così potente che
costringerlo a pagare per le sue colpe era impossibile senza ricorrere a un aiuto
esterno. Pare quindi che fu Arrunte a guidare i Galli attraverso le Alpi e
a suggerire loro di attaccare Chiusi. Io non voglio certo negare che
i Galli siano stati portati a Chiusi da Arrunte o da qualche suo
concittadino: ma è ormai assodato che i primi a valicare le Alpi non furono
quei Galli protagonisti dell'assedio di Chiusi. Infatti i Galli erano scesi
in Italia duecento anni prima dell'assedio di Chiusi e della presa di
Roma e non furono gli abitanti di Chiusi i primi Etruschi contro i quali
i Galli combatterono, perché molto tempo prima i loro eserciti si
scontrarono numerose volte con gli Etruschi che abitavano tra le Alpi e gli
Appennini. Prima dell'egemonia romana, la potenza
etrusca si estendeva largamente per terra e per mare. Per comprendere le
reali dimensioni di questo dominio sui due mari che cingono a nord e a sud
l'Italia rendendola simile a un'isola, basta guardare ai nomi con i
quali li si designa: le popolazioni italiche, infatti, chiamarono l'uno
Mare Etrusco e l'altro Atriatico dalla colonia etrusca di Atria. I Greci li
chiamano invece Tirreno e Adriatico. Gli Etruschi si stabilirono nelle terre
situate lungo i litorali di entrambi i mari in gruppi di dodici
città, prima al di qua dell'Appennino verso il Mare Tirreno, poi mandando
oltre l'Appennino altrettante colonie quante erano i ceppi d'origine, ed esse
andarono ad occupare tutta la zona situata al di là del Po fino
alle Alpi, eccetto l'angolo di costa adriatica abitato dai Veneti. Anche
alcune popolazioni alpine sono di origine etrusca, soprattutto i Reti
che, inselvatichitisi per la natura stessa dei luoghi, non hanno conservato
quasi nessuna delle caratteristiche antiche, salvo forse
l'inflessione della parlata, e neppure questa priva di contaminazioni. 34 Le notizie che abbiamo circa la
migrazione dei Galli in Italia sono queste. Durante il regno di Tarquinio
Prisco a Roma, i Celti - che sono uno dei tre ceppi etnici della Gallia -
si trovavano sotto il dominio dei Biturigi i quali fornivano un re al
popolo celtico. In quel tempo il re in carica era Ambigato, uomo potentissimo per
valore e ricchezza tanto personale quanto dell'intero paese,
perché sotto il suo regno la Gallia raggiunse un tale livello di abbondanza
agricola e di popolosità da sembrare che una tale massa di
individui la si potesse governare a mala pena. E siccome Ambigato era ormai
avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da
quell'eccesso di presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i
due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli
dèi, per mezzo degli augùrii, avrebbero loro indicato come
appropriate. Erano autorizzati a convocare tutti gli uomini che ritenevano
necessari all'operazione, in maniera tale che nessuna tribù potesse
impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto. La sorte assegnò allora a
Segoveso la regione della selva Ercinia, mentre a Belloveso gli dèi concedevano
un percorso ben più piacevole, e cioè la strada verso l'Italia. Prendendo con sé
gli uomini che risultavano in eccesso tra le tribù dei
Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui, degli Ambarri, dei Carnuti e degli
Aulerci, Belloveso si mise in marcia con un ingente schieramento di fanti e
cavalieri ed entrò nel territorio dei Tricastini. Lì si trovarono
di fronte le Alpi: e non c'è affatto da stupirsi che apparissero invalicabili,
visto che fino ad allora non c'erano valichi che ne permettessero
l'attraversamento (stando almeno alla tradizione storica e se non si vuole
credere alle leggende relative alle imprese di Ercole). Lì, mentre i
Galli, quasi rinserrati tra le alte montagne, si guardavano intorno
domandandosi dove mai sarebbero riusciti a passare in un altro mondo al di
là di quelle cime che arrivavano a toccare la volta del cielo, vennero trattenuti
anche da uno scrupolo religioso perché arrivò la notizia che
degli stranieri alla ricerca di terre erano stati attaccati dai Salluvi. Si
trattava dei Massiliesi, partiti via mare da Focea. I Galli allora, ritenendolo
un buon auspicio per il proprio futuro, li aiutarono, senza trovare
resistenza nei Salluvi, a fortificare il luogo in cui si erano attestati
sùbito dopo lo sbarco. Attraversarono quindi il territorio dei Taurini e
valicarono le Alpi nella zona della Dora. Poi, dopo aver sbaragliato in
campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e saputo che il punto
in cui si erano accampati si chiamava "territorio degli
Insubri" (nome identico a quello del cantone abitato dagli Edui), considerarono
questa coincidenza un segno beneaugurale del destino e fondarono in
quel luogo una città che chiamarono Mediolano. 35 Súbito dopo, un'altra ondata di Galli -
questa volta Cenomani guidati da Etitovio - seguì le orme dei
predecessori e, dopo aver valicato le Alpi nello stesso punto con l'appoggio di
Belloveso, si andò a stanziare là dove oggi si trovano le città di
Brescia e Verona. Dopo di loro, Libui e Salluvi si stabilirono presso l'antico
popolo dei Liguri Levi che vive nelle vicinanze del fiume Ticino.
Quando poi Boi e Lingoni superarono le Alpi Pennine e trovarono che tutte le
terre comprese tra il Po e le Alpi stesse erano già state occupate,
attraversarono il Po a bordo di zattere e scacciarono dalle loro terre non solo
gli Etruschi ma anche gli Umbri, senza però spingersi al di
là degli Appennini. Fu allora che i Senoni, gli ultimi Galli a invadere la penisola,
occuparono la zona compresa tra i fiumi Montone ed Esino. E stando a
quanto mi risulta, fu proprio questa la popolazione gallica che si
riversò su Chiusi e di lì su Roma. Rimane incerto se fossero soli oppure ebbero
aiuti da tutte le tribù della Gallia Cisalpina. Gli abitanti di Chiusi, atterriti da
questo strano conflitto, quando si trovarono di fronte quella massa di
uomini dalle caratteristiche somatiche e dalle armi mai viste prima,
sentendosi ripetere che quelle stesse orde avevano già più volte
sbaragliato le legioni etrusche da una parte e dall'altra del Po, pur non avendo coi
Romani alcun vincolo di alleanza e di amicizia (salvo forse il fatto di
non essere intervenuti a fianco dei consanguinei di Veio nella lotta contro
il popolo romano), inviarono ambasciatori a Roma per chiedere aiuto
al senato. Non riuscirono a ottenere nessun aiuto, ma i tre figli
di Marco Fabio Ambusto vennero inviati in qualità di
ambasciatori per trattare coi Galli, a nome del senato e del popolo romano, affinché
questi ultimi non attaccassero gli alleati e gli amici del popolo romano,
dai quali non avevano ricevuto alcun torto. Se le circostanze lo
richiedevano, i Romani erano pronti a difendere gli alleati e amici, anche a
costo di affrontare un conflitto. Ma siccome era parso più
opportuno evitare, se possibile, la guerra, Roma avrebbe preferito fare la conoscenza di
quel nuovo popolo - cioè i Galli - in una maniera pacifica piuttosto che
col ricorso alle armi. 36 Il messaggio aveva un tono
conciliante, ma era affidato ad ambasciatori arroganti e più simili a Galli
che a Romani. Quando i Galli li ebbero uditi esporre le loro disposizioni in
mezzo all'assemblea, risposero che, pur non avendo mai sentito prima il
nome dei Romani, li ritenevano dei guerrieri valorosi perché gli abitanti
di Chiusi ne avevano invocato l'intervento nel pieno dell'emergenza.
E, siccome i Romani avevano scelto di difendere i propri alleati
attraverso un'ambasceria piuttosto che con la spada, non avrebbero disprezzato la
pace offerta dai legati, a patto che gli abitanti di Chiusi - i quali
possedevano più terra di quanta non ne coltivassero effettivamente - ne
avessero ceduta una parte ai Galli che invece ne avevano bisogno.
Diversamente, la pace non poteva essere ottenuta. Aggiunsero che desideravano
una risposta in presenza dei Romani perché, se veniva loro negata la
concessione di appezzamenti di terra, avrebbero combattuto sotto gli occhi
dei Romani stessi, affinché potessero tornare in patria a raccontare quanto i
Galli fossero superiori per valore a tutti gli altri esseri umani. E
quando i Romani chiesero che razza di diritto desse ai Galli l'arbitrio di
esigere la terra dai legittimi proprietari ricorrendo alle minacce di
guerra e che cosa avessero essi a che fare con l'Etruria, i Galli
replicarono brutalmente che il loro diritto risiedeva nella spada e che
tutto apparteneva a chi aveva la forza. Così, essendosi inaspriti
gli animi da entrambe le parti, si passò alle armi e fu sùbito battaglia.
E mentre ormai si avvicinava inesorabile il giorno fatale di Roma, gli
ambasciatori presero le armi contravvenendo al diritto delle genti. La cosa non
poté certo passare inosservata perché quei tre dei più nobili e
coraggiosi giovani che Roma potesse vantare combattevano tra le prime linee
etrusche: a tal punto rifulgeva il loro valore. Anzi, Quinto Fabio, spintosi al
galoppo al di là delle prime linee, uccise trafiggendolo nel fianco
con l'asta il comandante dei Galli che si stava lanciando impetuosamente
contro le schiere etrusche. Mentre Fabio raccoglieva le spoglie del nemico
abbattuto, i Galli lo riconobbero e la notizia che si trattava
dell'ambasciatore romano fece il giro delle truppe. Lasciata da parte l'ira contro
gli abitanti di Chiusi, i Galli fecero suonare la ritirata, proferendo
minacce all'indirizzo dei Romani. Alcuni erano dell'avviso di marciare
immediatamente contro Roma. Ma prevalse la tesi dei più anziani
di mandare prima degli ambasciatori a Roma col cómpito di protestare per le
offese subite e di chiedere la consegna dei Fabii in quanto colpevoli
di aver violato il diritto delle genti. Quando gli inviati dei Galli
ebbero esposto le proprie rimostranze secondo le istruzioni ricevute, il
senato si trovò a disapprovare la condotta dei Fabii e riteneva che le
richieste avanzate dai barbari fossero un loro pieno diritto. Ma il
desiderio di non dispiacere a una famiglia di alta nobiltà
impedì che si propendesse per la decisione che era parsa più opportuna.
Così, per evitare che la responsabilità di un'eventuale sconfitta nella guerra
contro i Galli potesse ricadere su loro stessi, i senatori affidarono al
popolo il giudizio sulle richieste dei Galli. E in quella sede l'influenza
dei Fabi e le loro ricchezze ebbero tanto peso che gli uomini di cui
si discuteva l'eventuale punizione vennero eletti tribuni militari con
potere consolare per l'anno successivo. Di fronte a questo
verdetto, i Galli, com'era più che giusto, tornarono inferociti dai compagni
lanciando esplicite minacce di guerra. I tribuni militari eletti insieme ai tre
Fabii furono Quinto Sulpicio Longo, Quinto Servilio (per la quarta volta) e
Publio Cornelio Maluginense. 37 Incombeva un disastro di enormi
proporzioni. Eppure (a tal punto la Fortuna arriva ad accecare le menti dei
mortali quando non vuole resistenze ai suoi violenti colpi), la
città che contro Fidenati e Veienti e altri popoli dei dintorni in molte
occasioni era ricorsa alla nomina di un dittatore, ora, contro un nemico mai
visto e sentito nominare prima, che le muoveva guerra dagli angoli
più remoti della terra e dall'Oceano, quella stessa città non si
cercò un comandante, un aiuto eccezionale. Chi dirigeva le operazioni erano quei
tribuni per la cui temerarietà si era arrivati allo scontro armato: alla leva
militare essi dedicarono l'attenzione che di solito era tipica
delle campagne di ordinaria amministrazione, arrivando addirittura
a ridimensionare la gravità del conflitto. Nel frattempo i Galli, non
appena saputo che agli uomini responsabili di aver violato il diritto
delle genti erano toccate cariche pubbliche e che l'ambasceria inviata
era stata presa in giro, infiammati dall'ira (sentimento che quel popolo
non riesce assolutamente a dominare), tolsero immediatamente il campo e si
misero in marcia a tappe forzate. Siccome la loro avanzata velocissima e
tumultuante faceva correre alle armi le città atterrite e
costringeva alla fuga gli abitanti delle campagne, dovunque passavano i Galli
gridavano a gran voce che loro marciavano contro Roma: con i cavalli e
con le schiere di fanti spiegate sul terreno arrivavano a coprire
immensi spazi in lungo e in largo. Il celere sopraggiungere dei nemici, pur
essendo stata preceduta da voci e dai messaggeri prima da Chiusi e poi
dalle altre città, gettò Roma in un terrore così forte che ad
affrontare i Galli venne inviato ad appena undici miglia dalla città -
là dove il fiume Allia, scendendo dai monti Crustumini in una gola profonda, si
getta nel Tevere poco sotto la strada - un esercito più o meno
improvvisato e raccolto in fretta e furia. Ogni punto di quella zona straripava ormai
di nemici che, essendo inclini per natura a schiamazzi inutili, con urla
spaventose e versi di vario genere riempivano l'atmosfera di un orrendo
frastuono. 38 Lì i tribuni militari, senza
aver scelto in anticipo uno spazio per il campo e senza aver allestito una
trincea che potesse fungere da riparo in caso di ritirata, dimentichi, per non
dire degli uomini, anche degli dèi, non essendosi minimamente preoccupati
di trarre i dovuti auspici e di offrire sacrifici augurali, schierarono
l'esercito scegliendo una disposizione ad ali molto allargate per
evitare di essere circondati dalla massa dei nemici. Ciò non
ostante il fronte non raggiunse l'estensione di quello avversario, mentre
l'assottigliarsi dei ranghi nella parte centrale dell'esercito rese debole e poco
compatto quel settore. Sulla destra c'era un piccolo rilievo del terreno: i
Romani decisero di occuparlo con truppe di riserva, manovra questa che
segnò l'inizio del panico e della fuga e insieme costituì l'unica
salvezza per i fuggitivi. Infatti Brenno, il capo dei Galli, temendo che l'esiguo
manipolo di nemici mascherasse uno stratagemma, e pensando che i Romani
avessero occupato quell'altura per permettere ai contingenti di riservisti
di assalire il nemico al fianco e alle spalle non appena i Galli avessero
attaccato frontalmente lo schieramento romano, operò una
conversione e si diresse contro i
riservisti. Era sicuro che, se fosse riuscito a sloggiarli dalla
posizione occupata, lo strapotere numerico dei
suoi effettivi non avrebbe avuto difficoltà a ottenere la
vittoria nello scontro in pianura. A tal punto dalla parte dei barbari c'era non solo
la buona sorte ma anche la tattica militare. Dall'altra parte dello
schieramento non c'era nulla che assomigliasse a un esercito romano, né
a livello di comandanti né a livello di soldati. Il terrore e il
pensiero della fuga uniti alla totale dimenticanza di ogni cosa ne avevano
ormai pervaso gli animi a tal punto che la maggior parte delle truppe, non
ostante l'ostacolo costituito dal Tevere, si precipitò a Veio (una
città nemica) anziché fuggire direttamente a Roma tra le braccia di
mogli e figli. L'altura protesse per un po' di tempo i riservisti. Ma nel
resto dello schieramento, non appena l'urlo dei Galli arrivò dal
fianco alle orecchie dei più vicini e da dietro ai più lontani, i Romani,
quasi ancor prima di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza e senza
non dico tentare la lotta, ma addirittura senza far eco al grido di
battaglia, si diedero alla fuga integri di forze e illesi. In battaglia
non ci furono vittime. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad
avere la peggio perché, nel disordine della fuga, si intralciarono
reciprocamente combattendo gli uni contro gli altri. Sulla riva del Tevere, dove
erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu
un immenso massacro: moltissimi, non sapendo nuotare o stremati, gravati
dal peso delle corazze e dal resto dell'armamento, annegarono nella
corrente. Il grosso dell'esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a Veio.
E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno la notizia
della disfatta. Gli uomini schierati all'ala destra, che si era
mantenuta lontana dal fiume in un
punto più vicino alle pendici del monte, si diressero in massa
a Roma e lì, senza nemmeno preoccuparsi
di richiudere le porte, ripararono nella cittadella. 39 Ma anche i Galli, attoniti di fronte
a quella vittoria miracolosa ottenuta in maniera così
repentina, rimasero sulle prime immobili per lo sbigottimento, come se non riuscissero
a capacitarsi di quanto era successo. Poi cominciarono a temere
l'eventualità di un'imboscata. E infine si misero a spogliare i caduti,
accatastando, com'era loro abitudine, le armi che trovavano. Alla
fine, dopo aver rilevato che negli immediati dintorni non c'erano tracce
del nemico, si misero in marcia e poco prima del tramonto raggiunsero la
periferia di Roma. E quando i cavalieri inviati in avanscoperta
tornarono dicendo che le porte non erano chiuse, che davanti alle porte non
stazionavano sentinelle e che le mura non erano difese da armati, un nuovo
stupore simile a quello provato poco prima li trattenne. Temendo la notte e
la zona in cui si trovava quella città sconosciuta, si
attestarono tra Roma e l'Aniene e di lì inviarono lungo le mura e le altre porte dei
distaccamenti di ricognizione con il còmpito di scoprire quali fossero
i piani del nemico in quella situazione ormai disperata. Siccome tra i Romani
quelli che dal campo di battaglia erano riparati a Veio erano ben
più numerosi di quelli rientrati a Roma, in città si pensava che gli
unici superstiti fossero proprio quelli che si erano rifugiati a Roma e per questo
tutti piansero ugualmente tanto i vivi quanto i morti, riempiendo di lamenti
quasi tutta la città. Quando poi arrivò la notizia che i nemici
erano alle porte, il pericolo comune fece passare in secondo piano il dolore dei
lutti privati. E già si potevano sentire le urla e i canti stonati dei
barbari che vagavano a torme lungo le mura. Per tutto il tempo intercorso
da quel momento al sorgere del giorno successivo la gente all'interno
rimase in uno stato di ansia tale da attendersi più volte
imminente l'attacco nemico. Prima, quando i Galli apparvero all'orizzonte (visto che
erano arrivati a pochi passi dalla città): se infatti non avessero
avuto intenzione di buttarsi all'assalto, sarebbero certo rimasti sull'Allia.
Poi, verso il tramonto, siccome restava ormai ben poca luce, si
pensò che avrebbero attaccato prima del calar della notte. In séguito, si
affacciò l'idea che l'azione fosse stata spostata nel corso della notte per
incutere maggior terrore. Infine, le prime luci dell'alba gettarono tutti
nella costernazione. Quando le truppe nemiche varcarono le porte, alle paure
continue tenne dietro la cruda realtà dei fatti. Tuttavia, né
nel corso della notte né tantomeno durante la giornata che seguì, i
cittadini si comportarono come i protagonisti della tanto vergognosa fuga nei pressi
dell'Allia. Infatti, visto che non avevano la benché minima speranza di
difendere la città con l'esiguo contingente rimasto, si decise che i
giovani in età militare e i senatori ancora in forze si rifugiassero sulla
cittadella e sul Campidoglio insieme a mogli e figli, trasportandovi armi e
vettovaglie per poi difendere da quel punto fortificato gli dèi,
gli uomini e il nome di Roma. Si stabilì anche che il flamine e che le
sacerdotesse di Vesta portassero lontano dai luoghi presto teatro di massacri e
incendi gli oggetti sacri relativi ai riti pubblici, e che non se ne
abbandonasse il culto finché rimaneva in vista chi potesse celebrarlo. Se la
cittadella e il Campidoglio, sedi demandate degli dèi, se il
senato, vertice sommo della direzione del paese, se la gioventù in
età militare fossero sopravvissuti al disastro che ormai incombeva su Roma, la morte
dei moltissimi anziani rimasti in città - i quali erano comunque destinati
a morire - sarebbe stata una perdita di minimo conto. E per ottenere
che la gran massa dei plebei in età avanzata sopportasse con
maggior rassegnazione la decisione presa, i vecchi che avevano avuto l'onore del
trionfo e che erano stati consoli in passato affermarono di essere pronti a
morire al loro fianco e di non voler ridurre ulteriormente i viveri
già scarsi per quelli che combattevano consumandone le scorte con
quei loro corpi ormai incapaci di reggere il peso delle armi e di difendere
la patria. 40 Così gli anziani destinati a
morire cercavano di consolarsi gli uni con gli altri. Ma poi, rivolgendo le loro
esortazioni alla schiera di giovani che accompagnavano al Campidoglio e
nella rocca, affidarono al valore e alla vigoria giovanile di quei ragazzi
qualsiasi residuo di buona sorte riservato ancora a una città che
nell'arco di trecento sessant'anni era uscita vincitrice da ogni guerra
combattuta. Il distacco tra chi portava con sé ogni speranza di aiuto e chi
invece aveva spontaneamente deciso di non sopravvivere al crollo della
città, era già di per sé uno spettacolo miserando: il pianto delle donne, poi,
e il loro correre disordinato dietro ora a questi ora a quelli
domandando a figli e a mariti a quale destino le stessero abbandonando
aggiunse l'ultimo tocco a quel quadro completo di umana sventura. Ciò
non ostante, molte di esse seguirono i propri congiunti fin nella cittadella,
senza che nessuno le incoraggiasse o impedisse loro di farlo perché
ciò che avrebbe aiutato gli assediati a ridurre il numero dei non combattenti
sarebbe stato nello stesso tempo un gesto inumano. Un'altra massa di
persone - composta per lo più da plebei -, non potendo trovare posto nell'area
tanto ridotta del colle e non potendo essere sfamata in quel regime
di così grave penuria alimentare, sciamò disordinatamente fuori
dalla città e, dopo aver formato una sorta di linea continua, si incamminò
verso il Gianicolo. Di lì parte si disperse per le campagne, mentre parte
riparò nelle città dei dintorni, senza un capo o un piano concertato:
ognuno seguiva le proprie speranze e i propri progetti disperando della
sorte comune. Nel frattempo il flamine di Quirino e le vergini Vestali,
dimentichi delle proprie cose, si consultarono su quali oggetti sacri
fossero da portar via, quali fossero invece da abbandonare (non avendo essi
materialmente le energie necessarie per prendere ogni cosa), e in che luogo
quegli oggetti sarebbero stati più al sicuro. Alla fine decisero che la
soluzione migliore fosse quella di metterli dentro a piccole botti da
sotterrare poi nel santuario accanto all'abitazione del flamine di Quirino,
là dove oggi è considerato sacrilegio sputare. Il resto degli
oggetti, dividendosene il carico, li portarono via per la strada che conduce
dal ponte Sublicio al Gianicolo. Le vi de mentre salivano il colle un
plebeo di nome Lucio Albinio il quale stava portando via da Roma su un carro
la moglie e i figli in mezzo alla massa che lasciava la città
perché inutile alla causa della guerra. E siccome quell'individuo - osservando la
distinzione tra le cose divine e umane anche nel pieno della tragica
situazione -, riteneva fosse un sacrilegio che le sacerdotesse di Stato
andassero a piedi portando i sacri arredi del popolo romano mentre lui e i
suoi se ne stavano sul carro sotto gli occhi di tutti, ordinò a
moglie e figli di scendere e dopo aver fatto salire le vergini con gli oggetti sacri
le accompagnò fino a Cere, dove le sacerdotesse erano dirette. 41 A Roma nel frattempo, mentre ormai
ogni cosa era pronta per la difesa della cittadella (almeno per quel che
era possibile in un simile frangente), i moltissimi anziani fecero
ritorno alle proprie case ad attendere l'arrivo del nemico, con
animo deciso alla morte. Quanti tra essi erano stati detentori di
magistrature curuli, volendo morire con addosso le insegne dell'antica fortuna,
degli oneri e dei meriti, indossarono la veste augustissima
riservata a chi guida i carri sacri o celebra un trionfo, e si assisero su
seggiole d'avorio al centro delle loro case. Alcuni storici tramandano
che il pontefice massimo Marco Folio li guidò nella recita di un voto
solenne con il quale essi si offrirono in sacrificio per la patria e per i
cittadini Romani. I Galli, sia perché la notte precedente ne aveva raffreddato
gli ardori di guerra, sia perché né in battaglia avevano dovuto affrontare
momenti critici né adesso erano costretti all'uso della forza per
impossessarsi della città, senza rabbia e senza particolare accanimento il
giorno successivo entrarono a Roma attraverso i battenti spalancati della
porta Collina e si diressero verso il foro, volgendo gli sguardi in
direzione dei templi degli dèi e della cittadella che era l'unico punto che
desse ancora l'idea della guerra in corso. Poi, dopo aver lasciato di
guardia un modesto contingente al fine di evitare attacchi a sorpresa dalla
cittadella e dal Campidoglio mentre erano dispersi qua e là, si
buttarono alla caccia di bottino per le strade deserte dove nessuno andò a
sbarrargli il cammino. Parte di essi irruppe nelle abitazioni più vicine, gli
altri si spinsero fino alle case più lontane, come se soltanto quelle
fossero intatte e piene di preda da portar via. Ma poi, di nuovo spaventati
dalla solitudine che ugualmente vi regnava, temendo che qualche agguato
nemico li sorprendesse così sparpagliati, tornavano a riunirsi nel
foro e negli immediati dintorni. E qui, avendo trovato sprangate le porte
delle case plebee e spalancati gli atrii dei palazzi patrizi, esitarono
quasi di più a penetrare nelle abitazioni aperte che in quelle chiuse.
Tale era il sentimento non diverso dalla venerazione provato da essi al
vedere seduti nei vestiboli delle case uomini in tutto simili a
dèi non solo per gli abiti e gli ornamenti più sontuosi di quelli in uso
tra i mortali, ma anche per la maestà che spirava dai loro volti e la
gravità dell'espressione. Mentre i Galli li fissavano assorti come se fossero
statue, pare che uno di essi, Marco Papirio, quando uno dei barbari gli si
avvicinò per accarezzargli la barba (lunga come era d'uso in quel tempo),
ne scatenò la reazione rabbiosa colpendolo sulla testa con il bastone
d'avorio e diede così il via al massacro. Gli altri furono trucidati
sui loro seggi. Una volta completata la carneficina dei nobili, non ci fu
più pietà per nessuno: le abitazioni vennero saccheggiate e date alle fiamme
dopo esser state svuotate da cima a fondo. 42 Sia che non tutti i Galli avessero
voglia di distruggere la città, sia che i loro capi intendessero, con lo
spettacolo di qualche incendio, spaventare gli assediati e spingerli
così alla resa per l'attaccamento alle proprie dimore, e avessero deciso
di risparmiare qualche edificio, per conservare quanto restava in piedi
della città come ostaggio destinato a piegare la resistenza dei nemici,
comunque fossero andate le cose, il primo giorno il fuoco non si
propagò dappertutto o per ampie estensioni di spazio come di solito succede in una
città conquistata. I Romani, vedendo dall'alto della rocca la città
pullulare di nemici lanciati all'impazzata per le strade, mentre ora da una parte
e ora dall'altra si succedevano sempre nuovi disastri, non solo non
riuscivano a capacitarsene, ma neanche più a credere alle proprie
orecchie e alla propria vista. Volgevano lo sguardo e l'animo dovunque li
richiamasse il clamore dei nemici, il pianto di donne e bambini, il crepitare delle
fiamme e il fragore degli edifici che crollavano, essi, atterriti da
tutto, come se il destino li avesse piazzati lì, spettatori del
crollo della patria, costringendoli, dopo averli privati di tutti gli altri beni,
a non poter difendere nient'altro che le loro stesse persone fisiche,
tanto più degni di compassione di chiunque altro avesse subito assedi:
infatti i Romani, assediati fuori della patria, vedevano ogni loro cosa
in balìa delle mani nemiche. A un giorno così orribile tenne
dietro una notte che non fu certo più serena. Alla notte fece poi séguito un giorno
all'insegna dell'angoscia, durante il quale non ci fu un solo attimo privo
del sinistro spettacolo di disastri senza tregua. Tuttavia, pur
essendo così gravati e schiacciati dall'imperversare delle sventure, nulla
riuscì a piegare la risolutezza dei loro caratteri: pur vedendo tutto
raso al suolo dall'azione delle fiamme e dai crolli, continuavano a
difendere gagliardamente come estremo baluardo di libertà il colle su
cui si erano rifugiati, per quanto fosse piccolo e povero. E siccome ogni giorno
si ripetevano le stesse identiche scene, come se fossero avvezzi ormai
alla disgrazia, i Romani erano divenuti insensibili alla perdita dei
loro beni: e guardavano solo, come estremi brandelli di speranza, agli
scudi e alle spade impugnate nelle destre. 43 Da parte loro i Galli, dopo essersi
per giorni accaniti contro gli edifici della città senza
ottenere alcun risultato, quando si resero conto che in mezzo alle macerie sopravvissute
agli incendi non restavano altro che nemici armati fino ai denti (i
quali, per nulla terrorizzati da tanti disastri, davano l'impressione di non
poter essere piegati se non col ricorso alla forza), optarono per la
risoluzione estrema di un attacco alla cittadella. Così, quando
alle prime luci del giorno venne dato il segnale, l'intera massa dei Galli si
schierò nel foro con una formazione a testuggine e, dopo aver alzato il grido
di guerra, mosse all'attacco. Per contrastarli, i Romani attestati
sull'alto evitarono di lasciarsi prendere dall' avventatezza e dalla
precipitazione. Rinforzarono i posti di guardia in prossimità di tutti gli
accessi e là dove vedevano i nemici avanzare opposero i loro uomini più
validi, permettendo ai Galli di progredire nell'ascesa, convinti che sarebbe stato
tanto più facile respingerli giù dal pendio quanto più essi si
fossero spinti verso la cima. Così, attestandosi più o meno a
metà dell'erta, i Romani, dopo aver lanciato l'attacco da quella posizione
sopraelevata che quasi di per se stessa sembrava proiettarli contro il nemico,
sbaragliarono i Galli in maniera così netta e schiacciante da
convincerli a non ripetere quel tipo di attacco né con una parte né con
l'intero schieramento di forze a disposizione. Avendo quindi abbandonato
ogni speranza residua di salire sulla cittadella col ricorso alla forza
delle armi, i Galli si prepararono a cingerla d'assedio. Ma, non avendo
fino a quel preciso momento pensato a una simile soluzione, con gli incendi
appiccati all'interno della città avevano distrutto tutto il frumento che
vi si trovava in deposito, mentre quello che c'era ancora nei campi i
Romani l'avevano trasportato in fretta a Veio in quei giorni. Così,
dopo aver diviso l'esercito in due, decisero di affidare a una parte il
còmpito di razziare le terre dei popoli confinanti, impiegando il resto delle
truppe nell'assedio della cittadella, in maniera tale che gli
uomini impegnati nei saccheggi potessero provvedere
all'approvvigionamento degli assedianti. Quando i Galli partirono da Roma, la
mano del destino volle indirizzarli su Ardea (luogo dell'esilio di
Camillo), a far la prova delle virtù del popolo romano. In quella città
Camillo - afflitto più per i tristi casi della terra d'origine che per le
proprie sventure - stava consumando il meglio dei propri anni inveendo contro
uomini e dèi e domandandosi con sdegno stupito dove fossero finiti gli
uomini che insieme a lui avevano conquistato Veio e Faleri e che avevano
condotto altre guerre più con il proprio valore che con l'appoggio della
fortuna. Lì Camillo venne a sapere all'improvviso che l'esercito dei Galli
era alle porte e che gli abitanti di Ardea stavano deliberando in preda
al panico sul come affrontare la situazione. Spinto da un'ispirazione
non meno che divina, Camillo si presentò nel bel mezzo
dell'assemblea (lui che in precedenza si era sempre tenuto alla larga da quel tipo di
riunioni) e lì pronunciò questo discorso: 44 «Uomini di Ardea, miei vecchi amici
e ora anche miei nuovi concittadini (perché questo ha concesso la vostra
bontà e voluto la mia disgrazia), nessuno di voi pensi ch'io mi sia
presentato qui a parlare dimentico della condizione in cui verso. Ma le
circostanze e il pericolo comune chiamano ciascuno di noi, in questo frangente, a
mettere a disposizione di tutti l'aiuto che è in grado di
portare. E quando vi potrei ringraziare per i benefici di cui mi avete colmato, se
adesso mi tirassi indietro? Oppure quando potrei esservi utile, se non in
guerra? È proprio quest'arte che in patria è stata la mia fortuna. E
pur non avendo mai patito sconfitte in guerra, in tempo di pace venni cacciato
dall'ingratitudine dei concittadini. Ma voi, o uomini di
Ardea, adesso avete l'opportunità di ricompensare il popolo romano per i
suoi favori, tanto grandi quanto voi stessi li ricordate (e non vale di
sicuro la pena rinfacciarli a chi se li rammenta benissimo), mentre la vostra
città ha nel contempo la possibilità di un'eccezionale fama in campo
militare. Quello che si sta avvicinando in formazione disordinata è un
popolo che ha avuto in dono dalla natura corpi e animi più grandi che saldi:
proprio per tale ragione essi in ogni conflitto portano più terrore
che effettiva forza. Prova ne sia la disfatta inflitta ai Romani: quel
popolo ha conquistato una città con le porte spalancate; ma basta un modesto
contingente arroccato sulla cittadella e sul Campidoglio per
tenerli a bada. Ma ormai sopraffatti dalla noia dell'assedio se ne stanno andando,
disperdendosi per le campagne senza una meta precisa. Dopo
essersi riempiti di cibo e di vino ingurgitato d'un fiato, quando scende
la notte si coricano a terra qua e là come bestie selvagge accanto
a qualche corso d'acqua, senza mai preoccuparsi di costruire recinti
fortificati o di proteggersi con posti di guardia e sentinelle. E ora, dopo la
recente vittoria, sono ancora più incauti del solito. Se quindi avete
intenzione di difendere le vostre mura e
di evitare che tutto questo paese diventi Gallia, al primo turno di guardia prendete le armi in massa e
seguitemi per quello che dev'essere un massacro e non una semplice battaglia.
Se non ve li consegnerò immersi nel sonno da scannare come bestie, sono
pronto a subire ad Ardea la stessa sorte che mi è toccata a Roma.» 45 Tanto i sostenitori quanto i
detrattori erano persuasi che in quel periodo non c'era in circolazione un
uomo tanto dotato nell'arte della guerra. Sciolta l'assemblea, gli
Ardeati si rifocillarono, attendendo con impazienza il segnale. E non appena
quest'ultimo venne dato nel cuore della notte, si misero a disposizione
di Camillo in prossimità delle porte. Quando si trovavano a poca
distanza dalla città - così come Camillo aveva previsto - si imbatterono
nell'accampamento dei Galli: avendolo trovato privo di difese, e totalmente
all'aperto, lo assaltarono al grido di guerra. Non ci fu resistenza alcuna,
ma dovunque strage di corpi inermi trucidati nel sonno. I più
lontani, tuttavia, svegliatisi di soprassalto nei loro giacigli improvvisati,
atterriti e incapaci di capire la natura o l'origine dell'attacco in corso, si
diedero alla fuga disordinata. Alcuni di essi andarono a finire incautamente
dritti tra le braccia dei nemici; molti capitarono nella campagna di
Anzio, dove vagarono senza meta fino a quando vennero sopraffatti da una
sortita organizzata dagli abitanti della città. Nel territorio di Veio ci fu una strage
della stessa portata ma a danno di Etruschi. Questi ultimi, per una
città che era loro vicina da ormai quasi quattrocento anni e che aveva
subìto l'attacco di un nemico mai visto e sentito prima avevano provato
così poca pietà da scegliere proprio quella precisa circostanza per effettuare
delle incursioni in territorio romano e per progettare, carichi di bottino
razziato, un attacco alla guarnigione di Veio, ultima speranza rimasta al
popolo romano. I soldati romani li avevano visti prima rovesciarsi per le
campagne e poi a file serrate spingere innanzi le prede, e potevano
scorgerne l'accampamento piantato non lontano da Veio. Sulle prime i
Romani provarono pietà per se stessi. Poi subentrò lo sdegno che alla
fine lasciò spazio alla rabbia: possibile che anche gli Etruschi, che essi
avevano salvato dal furore bellico dei Galli a proprio scapito, si prendessero
gioco delle loro disfatte? La tentazione di attaccarli lì sul
momento venne contenuta a fatica. Frenati dal centurione Quinto Cedicio, l'uomo
che si erano scelti come capo, rinviarono l'azione al calar delle
tenebre. La sola cosa che mancò fu una personalità del livello di
Camillo: tutto il resto venne eseguito con lo stesso ordine e coronato dallo stesso
successo. Anzi, sotto la guida di alcuni prigionieri sopravvissuti al
massacro notturno, i Romani mossero contro un altro contingente di Etruschi
nella zona delle saline: li assalirono di sorpresa nella notte
successiva, ne trucidarono un numero ancora più grande, tornandosene
a Veio esultanti per la duplice vittoria. 46 Nel frattempo a Roma l'assedio si
trascinava stancamente e da entrambe le parti regnava il silenzio: e mentre
l'unica preoccupazione dei Galli era di evitare fughe di nemici
attraverso le proprie linee, ecco che all'improvviso un giovane romano
riuscì ad attirare su di sé l'attenzione dei concittadini e dei nemici. La
famiglia dei Fabii aveva l'obbligo annuale di offrire un sacrificio sul
colle Quirinale. Per celebrarlo, Gaio Fabio Dorsuone, con la toga stretta in
vita alla maniera di Gabi e reggendo in mano i sacri arredi, scese
dal Campidoglio, attraversò i posti di guardia del nemico e raggiunse il
Quirinale senza dare il minimo peso alle urla minacciose. Lì, dopo
aver devotamente compiuto tutti i riti previsti, tornò indietro
seguendo il percorso dell'andata con la stessa imperturbabilità di espressione
e con la stessa fermezza di passo, assolutamente sicuro di godere del
favore di quegli dèi dal cui culto nemmeno il terrore della morte era
riuscito a distoglierlo. Fece così ritorno incolume sul Campidoglio in
mezzo ai compagni, sia che i Galli rimanessero bloccati per la
straordinaria temerarietà del suo gesto o che li trattenesse lo scrupolo religioso,
sentimento questo che non lascia certo indifferente quella gente. A Veio nel frattempo crescevano giorno
dopo giorno non soltanto il coraggio ma anche le forze: e visto che
dalle campagne affluivano in città sia i Romani che avevano vagato senza
meta dal giorno della sconfitta presso l'Allia o dopo la caduta di
Roma, sia dei volontari arrivati dal Lazio nel desiderio di unirsi alla
spartizione del bottino, sembrò allora giunto il momento per riconquistare la
patria perduta strappandola alle mani del nemico. Ma a quel corpo in
perfetta salute mancava una testa. Gli stessi luoghi richiamavano alla memoria
della gente la persona di Camillo, e buona parte dei soldati avevano
combattuto con successo sotto il suo comando e i suoi auspici. Oltre a
questo Cedicio dichiarò che non avrebbe offerto il destro a nessuno tra gli
dèi o tra gli uomini di togliergli il comando, piuttosto che chiedere lui
stesso - memore com'era del proprio grado militare -, la nomina di un
generale. Fu così deciso all'unanimità di far venire Camillo da Ardea, ma non
prima di aver consultato il senato che si trovava a Roma. Tale era il
rispetto per la legge e la distinzione dei poteri anche in quel frangente
quasi disperato. Per superare i posti di guardia nemici bisognava affrontare
dei rischi enormi. Per questa missione si offrì Ponzio Comino,
un giovane coraggioso, il quale, disteso su un tronco di sughero, sfruttando la
corrente favorevole del Tevere raggiunse Roma. Lì, passando nel
punto meno distante dalla riva, salì sul Campidoglio lungo un tratto così
ripido che i nemici l'avevano lasciato incustodito e, portato di fronte ai
magistrati, consegnò loro il messaggio dell'esercito. Poi, ricevuto il decreto
del senato (secondo il quale i comizi curiati avrebbero dovuto
immediatamente richiamare Camillo dall'esilio, consentendo ai soldati di
scegliersi come comandante l'uomo che preferivano), Ponzio Comino
raggiunse Veio seguendo lo stesso percorso dell'andata. Di lì vennero
mandati degli ambasciatori ad Ardea per riportare Camillo a Veio, o piuttosto -
come io sono più propenso a credere, egli non lasciò Ardea
prima di aver appreso che la legge era stata votata, perché non poteva mutare
residenza senza un preciso ordine del popolo né trarre gli auspici
nell'esercito prima di essere nominato dittatore -. La legge fu approvata nei
comizi curiati ed egli fu eletto dittatore pur non essendo presente. 47 Mentre a Veio succedevano queste
cose, nel frattempo la cittadella di Roma e il Campidoglio corsero un
gravissimo pericolo. Infatti i Galli, o perché avevano notato orme umane nel
punto in cui era passato il messaggero giunto da Veio, o perché si
erano resi conto da soli che l'erta nei pressi del tempio di Carmenta
poteva essere superata senza difficoltà, una notte debolmente rischiarata
inviarono prima in avanscoperta un uomo disarmato per accertare che il
passaggio fosse praticabile; poi, passandosi le armi nei punti più
difficili, appoggiandosi a vicenda e spingendosi verso l'alto gli uni con
gli altri a seconda della natura del terreno, raggiunsero la cima in un tale
silenzio che non solo riuscirono a passare inosservati alle sentinelle, ma
non svegliarono nemmeno i cani che invece sono animali sensibilissimi ai
rumori notturni. Non sfuggirono però alla vigilanza delle oche che, non
ostante la grande penuria di viveri, erano state risparmiate perché sacre a
Giunone. E questo fatto salvò i Romani. Svegliato infatti dal verso e
dallo starnazzare delle oche, Marco Manlio, che era stato console tre anni
prima e si era sempre distinto in campo militare, afferrando le armi e
insieme chiamando gli altri a imitarlo, si fece avanti e mentre i
suoi compagni correvano in disordine a armarsi, con un colpo di scudo
ricacciò giù dal pendio un Gallo che era già riuscito a raggiungere la
sommità dell'erta. Ma siccome la sua caduta travolse quelli che gli venivano
dietro, altri Galli, colti dal panico, nel tentativo di aggrapparsi con le
mani alle rocce alle quali aderivano con il corpo, lasciarono cadere le armi
e finirono sotto i colpi di Manlio. Essendosi nel frattempo
aggiunti anche altri Romani, i nemici vennero ricacciati dalle rocce con lancio
di frecce e di pietre, così che l'intero contingente di Galli fu
respinto con successo franando rovinosamente giù dal
precipizio. Tornata la calma, per quanto era consentito a menti sconvolte dal
ricordo del pericolo anche se ormai passato, il resto della notte venne
dedicato al riposo. Alle prime luci del giorno, il suono delle trombe
chiamò i soldati all'adunata di fronte ai tribuni. E siccome era necessario
ricompensare chi aveva fatto il proprio dovere e punire chi invece non
era stato all'altezza, prima di ogni altra cosa Manlio venne elogiato
per il suo coraggio e premiato non solo dai tribuni dei soldati ma anche
all'unanimità dai soldati, ciascuno dei quali portò mezza libbra di
grano e un quarto di vino alla sua casa sulla cittadella: ricompensa modesta, a
parole, ma che in quella situazione di grave penuria era prova
di enorme affetto, in quanto ogni soldato, per onorare quell'unico uomo,
si privava di viveri, li sottraeva alla propria persona e
necessità. Poi vennero chiamati in giudizio le sentinelle di guardia nel punto in cui
i nemici erano riusciti a salire senza che nessuno se ne accorgesse. Il
tribuno Quinto Sulpicio annunciò di volerli punire tutti in base alla legge
marziale: ma trattenuto dalle concordi grida dei soldati che
addossavano la responsabilità dell'accaduto su un'unica sentinella,
risparmiò gli altri, e, col consenso di tutti, fece scaraventare dalla rupe Tarpea
l'uomo che senza dubbio era il responsabile di quella colpa. Da quel
momento in poi da entrambe le parti la vigilanza fu più accurata:
sia presso i Galli che erano venuti a sapere dell'avvenuto passaggio di messaggieri
tra Roma e Veio, sia presso i Romani, memori del pericolo corso
quella notte. 48 Ma più che da tutti i mali
dell'assedio e della guerra, entrambi gli eserciti erano tormentati dalla fame e
i Galli anche da un'epidemia dovuta al fatto che il loro accampamento si
trovava in un punto depresso in mezzo alle alture, bruciato dagli incendi e
pieno di esalazioni, dove bastava un alito di vento per sollevare polvere e
cenere. I Galli, non riuscendo a sopportare quelle esalazioni proprio
perché erano un popolo abituato al freddo e all'umidità, morivano
soffocati dal grande calore mentre il contagio si diffondeva come se si fosse
trattato di bestiame, per pigrizia di seppellire i cadaveri ad uno ad uno
li bruciavano a mucchi accatastati alla rinfusa, rendendo così in
séguito famoso quel luogo col nome di Tombe dei Galli. Venne poi stipulata una
tregua con i Romani e, con l'autorizzazione dei comandanti, si
iniziarono colloqui. Ma dato che durante queste conversazioni i Galli
non perdevano occasione per rinfacciare agli avversari la fame che
pativano e li invitavano ad arrendersi piegandosi a questa
necessità, pare che per far loro cambiare idea a tale riguardo venne gettato
giù da molti punti del Campidoglio del pane in direzione dei posti di guardia
nemici. Soltanto che ormai la fame non poteva più né essere
dissimulata né tollerata a lungo. E così, mentre il dittatore era impegnato a realizzare
di persona una leva militare ad Ardea, e dopo aver ordinato al maestro
di cavalleria Lucio Valerio di marciare da Veio a capo di un esercito
disponeva e preparava le truppe per affrontare i nemici in condizioni di
parità, nel frattempo gli uomini attestati sul Campidoglio, stremati dai
turni di guardia e dai picchetti armati, non riuscivano a superare
quell'unico ostacolo, la fame. La natura non permetteva di averne ragione non
ostante avessero già affrontato con successo tutti i mali che possono
capitare a degli esseri umani, spiavano di giorno in giorno se apparisse un
qualche aiuto da parte del dittatore; alla fine, quando ormai non solo il
cibo ma anche la speranza era venuta a mancare e i loro corpi indeboliti erano
quasi schiacciati dal peso delle armi nell'incalzare dei turni di
guardia, il dittatore ordinò loro di chiedere la resa e il riscatto a
qualunque condizione, anche perché i Galli avevano fatto sapere in maniera
più che chiara di essere disposti a togliere l'assedio a un prezzo per
nulla esorbitante. Allora si tenne una seduta del senato nella quale venne
dato ai tribuni militari l'incarico di definire i termini dell'accordo. La
questione venne regolata in un colloquio tra il tribuno militare
Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: il prezzo pattuito per un
popolo presto destinato a regnare sul mondo fu di mille libbre d'oro. A questa
trattativa già di per sé infamante venne aggiunto anche un
oltraggio: i Galli portarono dei pesi tarati in maniera disonesta e siccome
il tribuno protestò, l'insolente comandante dei Galli aggiunse al peso
la propria spada, pronunciando una frase insopportabile per le orecchie
dei Romani: «Guai ai vinti!». 49 Ma né gli dèi né gli uomini
tollerarono che i Romani sopravvivessero a prezzo di un riscatto. Infatti, per una
sorte provvidenziale, prima ancora che il vergognoso mercato fosse concluso,
mentre si era nel pieno delle trattative e l'oro non era stato pesato
del tutto, sopraggiunse il dittatore che ordinò di far
sparire l'oro e ingiunse ai Galli di andarsene. Siccome questi ultimi si
rifiutavano sostenendo di aver stipulato un accordo, Camillo disse che
non poteva avere validità un patto siglato, senza sua autorizzazione, dopo
che era stato nominato dittatore, da un magistrato di rango inferiore, e
intimò ai Galli di prepararsi alla battaglia. Ai suoi uomini diede
disposizione di accatastare i bagagli, di preparare le armi per riconquistare la
propria terra a colpi di spada e non al prezzo dell'oro, avendo davanti
agli occhi i templi degli dèi, le mogli e figli nonché il suolo della
patria segnato dalle atrocità della guerra e tutto ciò che era sacro
dovere riconquistare, difendere e vendicare. Poi schierò le truppe
in ordine di battaglia come la natura del suolo permetteva sul terreno di per sé
accidentato della ormai semidistrutta Roma, e prese tutte
quelle misure che l'arte militare permetteva di scegliere e di
predisporre in favore dei suoi uomini. Disorientati da questa iniziativa, i Galli
prendono le armi e si buttano all'assalto dei Romani più con
rabbia che con raziocinio. Ma ormai la sorte era cambiata e la potenza divina
e la saggezza umana erano dalla parte di Roma. Così, al primo
scontro, i Galli vennero sbaragliati con minore sforzo di quanto essi ne
avessero impiegato nella vittoria presso il fiume Allia. Poco dopo, in una
seconda e più regolare battaglia a otto miglia da Roma sulla Via Gabinia, dove
si erano raccolti dopo la fuga, vennero di nuovo sconfitti sempre sotto il
comando e gli auspici di Camillo. Lì il massacro non ebbe
limiti: venne preso l'accampamento e non fu lasciato in vita nemmeno un
messaggero che tornasse indietro a riferire della disfatta. Dopo aver recuperato la
patria strappandola al nemico, il dittatore tornò in trionfo a
Roma e, in mezzo ai lazzi grossolani improvvisati in quelle occasioni dai
soldati, con lodi non certo immeritate venne salutato come Romolo,
padre della patria e secondo fondatore di Roma. Dopo averla salvata in tempo di guerra,
Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di pace,
impedì un'emigrazione in massa a Veio, non ostante i tribuni - ora che Roma era un
cumulo di cenere - fossero più che mai accaniti in quest'iniziativa e la
plebe la appoggiasse già di per sé in maniera ancora più netta. Fu
questo il motivo per il quale egli non rinunciò alla dittatura dopo la
celebrazione del trionfo, visto che il senato lo implorava di non abbandonare
il paese in quel frangente così delicato. 50 Prima d'ogni altra cosa, scrupoloso
com'era nei confronti della sfera religiosa, Camillo fece discutere dal
senato i provvedimenti riguardanti gli dèi immortali e ottenne
l'emanazione del seguente decreto. Tutti i santuari, per il fatto di essere caduti
in mano nemica, avrebbero dovuto esser ricostruiti, ridelimitati nei
loro perimetri sacri e purificati; i duumviri avrebbero dovuto ricercare nei
libri sibillini le formule appropriate per questo rituale di
purificazione; inoltre lo Stato avrebbe stretto un vincolo di pubblica
ospitalità con gli abitanti di Cere che avevano accolto gli oggetti sacri e i
sacerdoti del popolo, e grazie ai cui buoni offici il culto degli
dèi immortali non aveva subìto interruzioni; si sarebbero tenuti i
Ludi Capitolini perché Giove Ottimo Massimo aveva protetto la propria
dimora e la cittadella del popolo romano in quel grave frangente; per questa
iniziativa il dittatore Marco Furio avrebbe dovuto nominare un collegio
composto da cittadini residenti sulla cittadella e sul Campidoglio. Venne
anche ricordata la necessità di espiare il prodigio di quella voce
notturna che si era sentita annunciare la disfatta prima della guerra coi
Galli ma che non era stata presa in considerazione, e fu ordinata
l'edificazione di un tempio dedicato ad Aio Locuzio sulla Via Nuova. L'oro che era
stato sottratto ai Galli e quello che in tutta fretta era stato raccolto
dagli altri santuari e convogliato nella cella del tempio di Giove, visto
che non ci si ricordava con certezza dove lo si sarebbe dovuto
riportare, venne ritenuto sacro e si ordinò di collocarlo sotto il
trono di Giove. Già in precedenza la cittadinanza aveva dato prova di grande
scrupolo religioso: quando infatti l'oro nelle casse dello Stato si era dimostrato
insufficiente per raggiungere la somma pattuita coi Galli
come riscatto, le autorità accettarono l'oro messo insieme dalle
matrone per evitare che venissero messe le mani su quello sacro. Le
matrone vennero ringraziate e in più fu loro garantito, come agli uomini,
l'onore dell'elogio solenne dopo la morte. Una volta prese queste misure
relative al culto degli dèi, che erano di competenza del senato,
soltanto allora Camillo, dato che i tribuni della plebe tenevano in
agitazione i plebei cercando di convincerli con continue assemblee ad
abbandonare le rovine di Roma per trasferirsi in una città pronta
ad accoglierli (e cioè Veio), egli, scortato dall'intero senato, si
presentò di fronte all'assemblea e lì pronunciò questo discorso: 51 «Gli scontri con i tribuni della
plebe sono per me, o Quiriti, così dolorosi che durante il mio tristissimo
esilio l'unico motivo di sollievo, per tutto il tempo che ho vissuto ad
Ardea, era l'essere lontano da queste controversie, che sono poi il motivo
per il quale io non sarei mai ritornato nemmeno se voi mi aveste
richiamato migliaia di volte con una delibera del senato o con il consenso
unanime del popolo. Ciò che adesso mi ha indotto a ritornare non è
stato un cambiamento del mio stato d'animo, ma il mutamento della vostra
sorte. Poiché proprio di questo si trattava, che la patria rimanesse nella
sua sede e non che io ad ogni costo vivessi in patria. E adesso me ne
starei ugualmente al mio posto e tacerei volentieri, se anche questa non
fosse una battaglia a favore della patria. Se il non prendervi parte
finché c'è vita sarebbe per altri una vergogna, per Camillo è un gesto
sacrilego. Ma allora perché abbiamo cercato di riprenderci la patria,
perché l'abbiamo strappata dalle mani del nemico quand'era in stato
d'assedio, se, dopo averla recuperata, siamo noi ad abbandonarla di nostra spontanea
volontà? Quando i Galli vincitori avevano occupato l'intera città,
ciò non ostante la cittadella e il Campidoglio erano in mano degli
dèi e degli uomini romani, ora che sono i romani ad avere la meglio e la
città è ritornata interamente nostra, verranno abbandonati anche la
cittadella e il Campidoglio, e la nostra buona sorte regalerà a questa
città più desolazione di quanta non ne abbia portata la cattiva? Certo è che
se non avessimo degli obblighi religiosi nati insieme alla fondazione di Roma e
tramandati di mano in mano nel corso dei secoli, tuttavia in
quest'occasione l'appoggio degli dèi alla causa romana è stato così
evidente da farmi credere inammissibile per gli uomini ogni forma di incuria nei
confronti del culto degli dèi. Considerate infatti uno dopo l'altro
gli avvenimenti positivi e negativi di questi ultimi anni: vi renderete
conto che tutto il bene è venuto finché ci siamo lasciati guidare dagli
dèi, il male invece quando li abbiamo trascurati. Prendiamo prima di
tutto la guerra contro Veio (per quanti anni si è trascinata e
con quanta sofferenza!): non se ne venne a capo fino a quando non drenammo, su
invito degli dèi, il lago Albano. Che dire poi del disastro senza precedenti
toccato di recente alla nostra città? È forse successa
prima che noi trascurassimo quella voce proveniente dal cielo che annunciava
l'arrivo dei Galli, o prima che il diritto delle genti venisse violato dai
nostri ambasciatori, o ancora prima che noi, invece di punire tale
violazione, la passassimo sotto silenzio sempre per quella stessa
trascuratezza nei confronti degli dèi? Perciò, vinti, fatti prigionieri
e riscattati a peso d'oro, siamo stati puniti dagli dèi e dagli uomini
in maniera così severa da servire d'esempio a tutto il mondo. In séguito
le avversità ci hanno richiamato agli obblighi religiosi. Siamo andati a
rifugiarci sul Campidoglio presso gli dèi, nella sede di Giove
Ottimo Massimo. Degli oggetti sacri, alcuni, quando la nostra situazione era
precipitata, li abbiamo nascosti sotto terra, altri, dopo averli rimossi, li
abbiamo trasferiti in città vicine perché fossero lontani dagli occhi dei
nemici. Pur essendo stati abbandonati dagli dèi e dagli
uomini, ciò non ostante non abbiamo mai tralasciato il culto degli dèi.
Per questo essi ci hanno restituito la patria, la vittoria e l'antico
splendore militare che avevamo perduto. E contro i nemici, rei - perché accecati
dall'avidità - di avere violato il trattato e la parola data pesando
l'oro, gli dèi hanno rivolto la paura, la fuga e la disfatta. 52 Vedendo queste testimonianze di
quanto valga nelle cose umane seguire la divinità o trascurarla, non
cominciate, o Quiriti, a intuire che empietà ci avviamo a commettere
pur essendo appena scampati dal naufragio di una sconfitta che è la
conseguenza della nostra colpa? Abbiamo una città fondata secondo i dovuti
auspici ed augùri. In essa non vi è un solo angolo che non sia permeato dall'idea
di religione e dalla presenza divina. Per i sacrifici solenni sono
fissi non meno dei giorni i luoghi nei quali devono essere offerti. Avete
dunque, o Quiriti, intenzione di abbandonare tutte queste
divinità tanto dello stato quanto delle famiglie? Come può esserci una qualche
somiglianza tra la vostra condotta e quella del nobile giovane di nome Gaio Fabio
che durante il recente assedio è stata ammirata non meno dai nemici che
da voi, quando scendendo dalla cittadella tra le armi dei Galli si
recò a compiere il rito prescritto alla famiglia Fabia sul colle
Quirinale? Siete disposti a non trascurare gli atti di culto gentilizi nemmeno in
tempo di guerra, e a abbandonare quelli di stato e gli dèi romani
anche in tempo di pace? Accettereste che i pontefici e i flamini abbiano per i
culti di stato minor cura di quanta non ne abbia avuta un privato cittadino
per un rito della propria famiglia? Qualcuno potrebbe forse dire
che questi culti li praticheremo a Veio oppure che di là invieremo
qui a Roma dei nostri sacerdoti col cómpito di praticarli. Nessuna delle
due soluzioni rispetta il rituale. E senza enumerare le singole cerimonie e
divinità, sarebbe possibile che durante il banchetto in onore di Giove
il lettisternio venga allestito in un altro punto al di fuori del
Campidoglio? Che dire poi del fuoco eterno di Vesta o della statua conservata
all'interno del suo tempio come pegno del nostro potere? Che dire dei vostri
scudi sacri, o Marte Gradivo, o tu, padre Quirino? Sareste dunque disposti
ad abbandonare su suolo non consacrato tutti questi oggetti che
sono coevi alla città e che in alcuni casi ri sultano ancora più
antichi della sua stessa origine? Considerate quale sia la differenza tra
noi e i nostri antenati: essi ci hanno tramandato alcuni riti da
compiere sul monte Albano e a Lavinio. Ma se essi considerarono sacrilego
trasferire dei riti da città straniere qui da noi a Roma, sarà mai possibile
trasferirli di qui in una città nemica, senza che se ne debba pagare le
conseguenze? Cercate, ve ne prego, di ricordare quante volte si sono
rinnovate le cerimonie perché qualcosa del rito dei padri, vuoi per incuria o vuoi
per fattori accidentali, era stato omesso. Poco tempo fa, dopo il prodigio
del lago Albano, cosa fu d'aiuto alla città travagliata dalla
guerra contro Veio se non il ripristino dei riti sacri e il rinnovamento degli
auspici? Ma oltre a ciò, dimostrandoci memori del passato fervore religioso,
non solo abbiamo introdotto a Roma delle divinità straniere, ma ne
abbiamo anche istituito delle nuove. A Giunone Regina, trasferita di recente
da Veio sull'Aventino, con che grandiosa magnificenza è stato
dedicato un tempio grazie alla cura zelante delle matrone! Abbiamo ordinato di
costruire un tempio in onore di Aio Locuzio per la voce udita nella Via
Nuova e proveniente dal cielo. Abbiamo aggiunto i Ludi Capitolini alle altre
manifestazioni solenni e per volere del senato abbiamo costituito a tal
fine un collegio speciale. Che bisogno c'era di introdurre queste
novità, se avevamo intenzione di abbandonare Roma insieme ai Galli, e se non per
nostra volontà siamo rimasti sul Campidoglio per tanti mesi d'assedio,
ma perché trattenuti dai nemici con la paura? Parliamo di riti e di templi.
Ma che dire dei sacerdoti? Non pensate mai al grave sacrilegio che si
commetterebbe? Per le Vestali non c'è che un'unica sede, e niente
le ha mai costrette ad abbandonarla se non la presa della città; per il
flamine Diale è un sacrilegio trascorrere anche una sola notte fuori da Roma; e
voi avete intenzione di far diventare questi sacerdoti Veienti
anziché Romani? Possibile che le tue Vestali vogliano, o Vesta,
abbandonarti, e che il flamine, abitando lontano da Roma, attiri notte dopo
notte su se stesso e sulla repubblica una simile empietà? Che dire poi
di tutti gli altri atti che di norma realizziamo quasi integralmente
all'interno del pomerio dopo aver preso gli auspici? A quale sorta di oblio o
di incuria li abbandoniamo? I comizi curiati che si occupano delle questioni
militari, e i comizi centuriati nei quali eleggete i consoli e i
tribuni militari, dove si possono tenere, in maniera conforme agli auspici, se
non nei luoghi tradizionali delle sedute? Li trasferiremo a Veio? Oppure
il popolo, in occasione dei comizi, si radunerà con grande disagio
in questa città abbandonata dagli dèi e dagli uomini? 53 Ma, voi mi direte, così
facendo tutto risulterebbe contaminato senza alcuna possibilità di
purificazione; tuttavia lo stato delle cose in sé e per sé ci obbliga ad abbandonare una
città trasformata in un deserto dagli incendi e dalle rovine, e a trasferirci
a Veio dove tutto è intatto, evitando così di vessare la
povera plebe con la ricostruzione qui della città. Eppure che questo sia un
semplice pretesto più che il motivo reale credo vi sia chiaro, o Quiriti, senza
che debba venirvelo a dire io; vi ricordate infatti benissimo di come,
prima dell'arrivo dei Galli (quando cioè gli edifici pubblici e
privati erano intatti e la nostra città era sana e salva), era già stata
discussa questa stessa proposta di trasferirci a Veio. E considerate quale
sia il divario tra il mio e il vostro modo di vedere le cose. Voi
ritenete che anche se allora la cosa non doveva essere messa in pratica,
adesso lo dev'essere comunque. Io al contrario - e non meravigliatevi delle
mie parole prima di averne colto il significato -, anche se allora fosse
stato giusto emigrare quando Roma era intatta, penso che adesso non dovremmo
abbandonare queste rovine. Perché allora la vittoria sarebbe stata per
noi e per i nostri discendenti un motivo glorioso per emigrare in una
città conquistata, mentre adesso questa emigrazione risulterebbe per noi
una umiliante vergogna, e una ragione di vanto per i Galli.
Sembrerà infatti non che abbiamo abbandonato il nostro paese da vincitori, ma che
l'abbiamo perduto da vinti; che la rotta presso l'Allia, la presa di Roma
e l'assedio del Campidoglio ci abbiano imposto di abbandonare i nostri
penati, condannandoci volontariamente all'esilio e alla fuga
da quella terra che non eravamo in grado di difendere. Bisognerà
lasciar credere che i Galli siano riusciti a distruggere Roma e che i Romani non
siano stati capaci di ricostruirla? E cosa vi resta da fare, qualora debbano
ripresentarsi con nuove truppe - si sa che il loro numero è
sterminato - e decidano di stabilirsi in questa città conquistata da loro e da
voi abbandonata, se non rassegnarvi? Se invece non i Galli ma i vostri nemici
di un tempo, Equi e Volsci, dovessero emigrare a Roma, vi
piacerebbe che essi diventassero Romani e voi Veienti? Oppure non preferite che
questo sia un deserto vostro piuttosto che una città dei
nemici? Non vedo cosa possa esserci di più abominevole. E voi sareste disposti a
tollerare queste scelleratezze e queste vergogne solo perché vi
infastidisce mettervi a ricostruire? Se in tutta la città non si
riuscirà a tirare su nessuna casa che sia più bella o più ampia della famosa capanna
del nostro fondatore, non sarebbe meglio abitare in capanne alla maniera di
pastori e contadini, ma in mezzo ai nostri penati e ai nostri riti
piuttosto che andare in esilio tutti insieme di comune accordo? I nostri
antenati, degli stranieri, dei pastori, anche se da queste parti
c'erano solo foreste e paludi, edificarono una città dal nulla
in pochissimo tempo. E a noi, anche se il Campidoglio e la cittadella sono
intatte e i templi degli dèi ancora in piedi, dà fastidio ricostruire
ciò che è stato distrutto dagli incendi? E ciò che ciascuno di noi avrebbe
fatto se fosse bruciata la sua casa, ci rifiutiamo di farlo insieme in questo
incendio che ha coinvolto tutti? 54 Un'altra cosa. Se per motivi dolosi
o per circostanze fortuite scoppiasse un incendio a Veio e le
fiamme portate dal vento dovessero, come facilmente succede, divorare buona
parte dell'abitato, emigreremo di lì a Fidene o a Gabi o in
un'altra qualsiasi città? Siamo dunque così poco attaccati al suolo della nostra patria
e a questa terra che chiamiamo madre, e il nostro amore verso la
patria si riduce alle travi e ai tetti? E ve lo confesso in tutta
sincerità - anche se non fa bene richiamare alla memoria il male che mi avete fatto -,
ma quando ero lontano, ogni volta che andavo col pensiero alla mia terra,
mi venivano in mente tutte queste cose: i colli, le campagne, il Tevere,
la regione familiare alla vista e questo cielo sotto il quale ero nato e
cresciuto. E vorrei, o Quiriti, che queste cose vi spingessero adesso, per
il loro potere affettivo, a rimanere nella vostra terra, piuttosto
che tormentarvi in futuro col desiderio nostalgico, quando le avrete
abbandonate. Non senza una ragione gli dèi e gli uomini scelsero
questo luogo per fondare la città: colli più che salubri, un fiume adatto per
trasportare il frumento dalle regioni dell'entroterra e per ricevere i
prodotti da quelle costiere, un mare vicino quanto basta per goderne i
vantaggi e nel contempo non esposto, per eccesso di contiguità, al
pericolo di flotte nemiche, una posizione nel centro dell'Italia, insomma un luogo
destinato esclusivamente allo sviluppo della città. Cosa
questa di cui fanno fede le dimensioni stesse di un centro tanto recente. Siamo
adesso, o Quiriti, nel trecentosessantacinquesimo anno di vita
della città. Voi è da moltissimo tempo che combattete in mezzo a popoli
antichissimi: eppure, in tutto questo periodo (per non parlare delle
singole città), né i Volsci insieme agli Equi, con tutte le loro
formidabili fortezze, né l'intera Etruria potente com'è per mare e per
terra e pur estendendosi per tutta l'ampiezza dell'Italia tra i due mari, riescono a
tenervi testa in guerra. Siccome le cose stanno in questi termini, quale
ragione vi spinge, dico io, dopo esperienze di tal genere, a cercarne
altre, dato che, se anche il vostro valore potrà essere trasferito
altrove, certo non lo potrà la fortuna di questo luogo? Il Campidoglio è
qui, dove un tempo, quando venne ritrovato un cranio umano, gli indovini
vaticinarono che sarebbe sorta la capitale del mondo e il comando supremo. Qui,
quando il Campidoglio doveva essere liberato dagli altri culti secondo
quanto stabilito dai riti augurali, Iuventa e Termine, con grandissima
gioia dei vostri antenati, non permisero di essere rimossi. Qui
c'è il fuoco sacro di Vesta, qui ci sono gli scudi mandati dal cielo, qui
abitano tutti gli dèi a voi propizi se decidete di rimanere.» 55 Pare che il discorso di Camillo, sia
nell'insieme, sia soprattutto nella parte attinente alla sfera
religiosa, suscitasse grande commozione. A dissipare ogni dubbio residuo furono
però delle parole pronunciate in maniera tempestiva: mentre, poco dopo,
il senato era riunito nella curia Ostilia per deliberare circa questo
problema, e alcune coorti, di ritorno dai posti di guardia, attraversavano
per puro caso a passo di marcia il foro, un centurione gridò nella
piazza del comizio: «O alfiere, pianta l'insegna: qui staremo benissimo.»
Udita questa frase, i senatori uscirono dalla curia e gridarono all'unisono di
voler accettare l'augurio e la plebe, accorsa tutta intorno,
approvò. Respinta quindi la proposta di legge, si iniziò a riedificare
la città senza un preciso progetto. Le tegole per i tetti vennero fornite a
spese dello stato. Ognuno venne autorizzato a prender pietre e tagliar
legname dovunque avesse voluto, a patto però di completare gli
edifici entro la fine dell'anno. La fretta liberò dalla preoccupazione di
tracciare vie diritte, e tutti, non essendoci più alcuna distinzione
tra le proprie e le altrui proprietà, costruivano là dove trovavano
spazi liberi. Ecco la ragione per cui le vecchie cloache, un tempo condotte
sotto le pubbliche vie, oggi passano in più punti sotto le case private,
e la pianta di Roma somiglia a quella di una città nella quale il terreno
sia stato occupato a casaccio più che diviso secondo un piano determinato. LIBRO VI 1
Ho esposto in cinque libri le gesta che i Romani hanno compiuto, dai tempi della fondazione della loro
città fino alla sua presa, prima sotto i re e poi sotto consoli e dittatori,
decemviri e tribuni consolari, nonché le guerre esterne e gli scontri
interni. Si tratta di vicende poco chiare non soltanto per il fatto di essere
successe in tempi antichissimi (e quindi simili a quegli oggetti che si
riescono a malapena a distinguere per la grande distanza a cui si trovano),
ma anche perché in quei tempi era raro e limitato l'uso della
scrittura, il solo sistema affidabile per conservare il ricordo degli eventi
passati, e anche perché, pur trovandosene accenni nei registri dei
pontefici e in altri tipi di documenti pubblici e privati, la
maggior parte dei dati esistenti andò distrutta nell'incendio di Roma. Da
questo punto in avanti, verranno esposti avvenimenti più chiari e
certi relativi alla storia civile e militare di Roma, che, dal momento in
cui nacque per la seconda volta, fu come se fosse risorta più
fiorente e rigogliosa dalle sue antiche radici. Ora Roma si resse in un primo tempo su
quello stesso supporto che le aveva permesso di rialzare la testa, e
cioè su Marco Furio, il suo cittadino più in vista, cui la gente non permise di
abdicare dalla dittatura se non allo scadere dell'anno. Il fatto che
presiedessero le elezioni per l'anno successivo quei tribuni sotto la cui magistratura
la città era stata presa non sembrò cosa molto saggia: si
tornò così all'interregno. Mentre la cittadinanza era occupata nelle
incessanti e faticose opere di ricostruzione della città,
Quinto Fabio, non appena uscito di carica, venne citato in giudizio dal tribuno
della plebe Gneo Marcio con l'accusa di aver violato il diritto delle genti
per aver combattuto contro i Galli ai quali era stato inviato in
qualità di ambasciatore; la morte gli fece evitare però il processo e fu
così tempestiva da far pensare alla maggior parte della gente che si fosse trattato
di suicidio. L'interregno cominciò: interrè fu
Publio Cornelio Scipione e dopo di lui Marco Furio Camillo. Questi nominò tribuni
militari con potere consolare Lucio Valerio Publicola (per la seconda volta), Lucio
Verginio, Publio Cornelio, Aulo Manlio, Lucio Emilio e Lucio Postumio. Entrati in carica immediatamente dopo
l'interregno, essi diedero la precedenza assoluta alla discussione in
senato delle questioni di natura religiosa. Uno dei primi provvedimenti
presi fu quello di ordinare la raccolta dei trattati e delle leggi
(quelle, cioè, delle dodici tavole e alcune leggi di età monarchica)
ancora reperibili. Alcune di esse vennero rese accessibili anche al pubblico:
quelle che però riguardavano la sfera cultuale furono tenute segrete dai
pontefici, più che altro per soggiogare l'animo della massa con i vincoli
religiosi. Poi si iniziò a discutere dei giorni nefasti. Il 18 luglio, giorno
famigerato per una duplice sciagura, ossia il massacro dei Fabi presso il
Cremera e il disastro militare dell'Allia con la conseguente
distruzione di Roma, da quest'ultima disfatta venne chiamato Alliense e
†distinto dagli altri come non adatto allo svolgimento di ogni tipo di
attività pubblica e privata†. Ma siccome il giorno successivo alle Idi di giugno
il tribuno militare Sulpicio non aveva offerto adeguati sacrifici e tre
giorni dopo l'esercito romano era stato opposto al nemico senza aver
ottenuto l' approvazione divina, alcuni ritengono che per questo motivo venne
imposto di tralasciare i riti religiosi anche il giorno successivo alle
Idi. Di lì si ritiene che divenne patrimonio tradizionale
osservare lo stesso divieto anche nei giorni successivi alle Calende e alle
None. 2 Ma ai Romani non venne concesso di
riflettere a lungo con serenità sui progetti di ricostruzione del paese
dopo un disastro tanto grave. Da una parte i Volsci, nemici di vecchia data,
avevano infatti preso le armi determinati a cancellare dalla faccia
della terra il nome di Roma. Dall'altra, stando a quanto riferivano
certi mercanti, i capi di tutti i popoli dell'Etruria si erano riuniti
presso il santuario di Voltumna e avevano stretto un patto di guerra. Un
nuovo motivo di allarme venne poi aggiunto dalla defezione di Latini ed
Ernici, che per quasi cent'anni, cioè dai tempi della battaglia
combattuta presso il lago Regillo, avevano mantenuto sempre una leale amicizia con
il popolo romano. Così, visto il gran numero di minacce provenienti da
ogni dove, ed essendo chiaro a tutti che ormai il nome di Roma non era
soltanto oggetto di odio da parte dei nemici, ma anche di disprezzo da parte
degli alleati, si decise di difendere il paese sotto gli auspici
dello stesso personaggio che ne aveva propiziato la riconquista, e di
nominare perciò dittatore Marco Furio Camillo. Questi, nella sua veste di
dittatore, scelse come proprio maestro di cavalleria Gaio Servilio Aala e,
dopo aver proclamato la sospensione dell'attività giudiziaria,
organizzò una leva militare di giovani, facendo in modo però di distribuire in
centurie, dopo un giuramento di obbedienza, anche i veterani dotati di un certo
vigore fisico. Dopo aver così arruolato ed
armato l'esercito, lo suddivise in tre parti. La prima, la stanziò nel
territorio di Veio col cómpito di fronteggiare gli Etruschi. Alla seconda diede ordine
di accamparsi di fronte a Roma, e ne affidò il comando al tribuno
militare Aulo Manlio, mentre pose a capo delle truppe inviate contro gli
Etruschi Lucio Emilio. La terza parte dell'esercitò la guidò
lui in persona contro i Volsci e poco distante da Lanuvio - in un punto che si chiama
Mecio - ne attaccò l'accampamento. I Volsci, che si erano buttati nella
guerra spinti dal disprezzo e dalla convinzione che quasi tutta la
gioventù romana fosse stata distrutta dai Galli, non appena seppero che il
comandante era Camillo, si spaventarono a tal punto da proteggere se stessi con
una palizzata e la palizzata con una barriera di tronchi d'albero, in
maniera che il nemico non potesse penetrare da nessuna parte all'interno
dei loro dispositivi di difesa. Quando Camillo se ne rese conto,
ordinò ai suoi uomini di dar fuoco allo sbarramento di tronchi. Si era levato,
per caso, un forte vento in direzione dei nemici, ed esso non solo
aprì la strada all'incendio, ma spingendo verso le tende le fiamme
miste al vapore, al fumo e al crepitio del legno verde che bruciava
spaventò a tal punto i nemici che i soldati romani trovarono minore
difficoltà nel superare la trincea fortificata dei Volsci di quanta non ne avessero avuta
nell'attraversare la barriera divorata dal fuoco. Sbaragliati e fatti
a pezzi i nemici, dopo aver assaltato vittoriosamente
l'accampamento, il dittatore concesse il bottino ai soldati, cosa che risultò
tanto più gradita alle truppe quanto meno attesa giunse, vista la scarsa
abitudine del comandante a tali largizioni. Quindi, dopo aver dato la caccia ai
fuggitivi devastando nel contempo l'intera campagna volsca, Camillo
costrinse finalmente i Volsci alla resa dopo settant'anni di guerra. Vittorioso
sui Volsci, Camillo si rivolse contro gli Equi che erano ugualmente
impegnati in preparativi di guerra. Piombò a sorpresa sul loro
esercito nei pressi di Bola e al primo assalto ne catturò non solo l'accampamento
ma anche la città. 3 Mentre le cose andavano più
che bene in quel settore dove c'era Camillo, pilastro dello Stato romano, un altro
settore era minacciato da un grosso pericolo. Quasi l'intera Etruria in
armi assediava Sutri, città alleata del popolo romano. Ambasciatori di
Sutri si erano presentati di fronte al senato con la richiesta d'aiuto in un
momento tanto critico, e si era decretato che il dittatore intervenisse
al più presto in loro soccorso. Ma gli assediati versavano in tali
condizioni da non poter attendere che questa speranza si realizzasse e i
pochi difensori erano ormai esausti per la fatica, per i turni di guardia e per
le ferite che toccavano sempre agli stessi uomini; così,
patteggiata la resa, avevano consegnato la città ai nemici, e stavano abbandonando
disarmati le loro case in una colonna straziante ciascuno con il solo vestito
che indossava. Proprio in quel momento, per puro caso arrivò
Camillo con l'esercito romano. Quella triste massa di profughi gli si gettò
ai piedi e i personaggi più influenti della città gli rivolsero parole di
supplica dettate dall'amara necessità e accompagnate dal pianto delle donne e
dei bambini che essi si trascinavano dietro come compagni del proprio
esilio, Camillo ordinò ai Sutrini di smettere di lamentarsi, dicendo che
erano gli Etruschi quelli a cui egli era venuto a portare lacrime e lutti.
Ordinò ai suoi di deporre i bagagli, ai Sutrini di fermarsi lì, sotto
la protezione di un modesto presidio, alle proprie truppe di portare con sé
le sole armi. Così, con l'esercito libero da impacci, partì alla
volta di Sutri dove trovò ciò che aveva supposto e cioè tutto
incustodito, come di solito accade dopo un successo: nessun uomo di guardia davanti alle
mura, le porte aperte, e i vincitori dispersi alla caccia di bottino nelle
case. Pertanto Sutri venne presa per la seconda volta nel corso di quello
stesso giorno. Gli Etruschi vincitori vennero trucidati qua e là dal
nuovo nemico, senza che venisse loro dato il tempo di inquadrarsi e di
raccogliere le forze o di prendere le armi. Quando tentarono, ciascuno per conto
proprio, di raggiungere le porte per vedere se mai riuscissero a fuggire per
i campi, le trovarono sbarrate (era stato quello il primo ordine di
Camillo). Così alcuni afferrarono le armi, mentre altri, casualmente sorpresi
dall'attacco improvviso con ancora le armi addosso, cercarono di
chiamare a raccolta i propri compagni per combattere. E lo scontro sarebbe
stato anche accanito vista la disperazione dei nemici, se degli
araldi inviati in giro per la città non avessero ingiunto di deporre le armi e
di risparmiare quelli che erano disarmati: nessuno, salvo quelli con le
armi addosso, doveva subire alcuna violenza. E allora, anche quanti
avevano deciso come estrema prospettiva di lottare sino alla morte, ora che
veniva loro offerta la speranza di salvarsi la vita, buttarono le armi
dove capitava e si presentavano disarmati al nemico (perché la sorte
volle fosse questa la soluzione meno pericolosa). Una grande quantità
di prigionieri venne distribuita tra i diversi posti di guardia. Prima del
calar della notte la città venne restituita ai Sutrini, intatta e del
tutto priva di tracce di guerra, perché non era stata presa con la forza
ma aveva capitolato. 4 Camillo tornò a Roma in
trionfo per le sue vittorie in tre guerre simultanee. La stragrande maggioranza
di prigionieri che fece marciare davanti al proprio carro erano
etruschi. Dalla loro vendita all'asta venne ricavata una tale quantità di
denaro che, dopo aver ripagato le matrone per l'oro offerto allo Stato, quanto
restava bastò per la costruzione di tre coppe d'oro sulle quali - come
è noto a tutti - venne inciso il nome di Camillo e che fino all'incendio del
Campidoglio furono conservate nella cella del tempio di Giove ai piedi
della statua di Giunone. Nel corso di quell'anno fu concessa la
cittadinanza a quanti, tra i Veienti, i Capenati e i Falisci, erano
passati dalla parte dei Romani durante quelle guerre e a questi nuovi
cittadini furono assegnati degli appezzamenti di terra. Con un decreto
del senato vennero richiamati in città anche coloro che, essendo
troppo pigri per ricostruire in Roma, si erano trasferiti a Veio andando ad
occupare delle case trovate vuote. Dapprima si levarono gli strepiti di
chi respingeva l'ingiunzione. Ma poi la designazione di una data precisa e
la minaccia di pena di morte per chi si fosse rifiutato di rientrare a Roma
piegò all'obbedienza, uno per uno, i recalcitranti in massa, non appena
ciascuno di essi cominciò a temere per se stesso. E non solo Roma cresceva
in numero di abitanti, ma dovunque sorgevano contemporaneamente nuovi
edifici: lo Stato contribuiva a coprire le spese di costruzione, mentre gli
edili sovrintendevano alle costruzioni come se si fosse trattato di lavori
pubblici e i privati cittadimi stessi - spinti dal desiderio di farne uso -
si sbrigavano a portare a termine l'opera. Così nell'arco di un
anno, venne tirata su una nuova città. A fine anno si tennero le elezioni di
tribuni militari con potestà consolare. L'incarico lo ottennero Tito
Quinzio Cincinnato, Quinto Servilio Fidenate (per la quinta
volta), Lucio Giulio Iulo, Lucio Aquilio Corvo, Lucio Lucrezio Tricipitino e
Servio Sulpicio Rufo. Essi guidarono un esercito contro gli Equi, non con
intenzioni belliche - gli Equi si definivano vinti -, ma spinti dall'odio
a devastarne il territorio per non lasciar loro alcuni risorsa da
impiegare in nuovi progetti di guerra. Con un secondo esercito, invasero invece il
territorio di Tarquinia, dove presero con la forza le città
etrusche di Cortuosa e Contenebra. A Cortuosa non vi fu lotta: con un
attacco a sorpresa la presero al primo urlo di guerra e al primo assalto, per
poi saccheggiarla e quindi darla alle fiamme. Contenebra resse invece
l'assedio per alcuni giorni, ma l'incessante impegno armato, giorno e
notte, senza alcuna tregua ebbe ragione dei suoi abitanti. Siccome
l'esercito romano era stato diviso in sei contingenti ciascuno dei quali
combatteva per sei ore a turno mentre gli assediati erano così pochi
che toccava sempre agli stessi uomini stremati il cómpito di opporsi a forze
sempre fresche, alla fine questi ultimi cedettero, e i Romani furono in
grado di irrompere in città. L'intezione dei tribuni sarebbe stata
quella di destinare il bottino alle casse dello stato, ma furono meno
pronti nell'impartire gli ordini che nel decidere: mentre tardavano, il bottino
era già in mano ai soldati e non poteva più esser loro sottratto
se non suscitandone il risentimento. Quello stesso anno, per evitare che
Roma crescesse soltanto nell'edilizia privata, il Campidoglio venne munito di
una sottostruttura di blocchi squadrati, un'opera che merita di essere
vista anche in mezzo agli attuali splendori della città. 5 Mentre la popolazione era impegnata
nelle opere di ricostruzione, i tribuni della plebe cercavano di
attirare quanta più gente possibile alle loro riunioni puntando sulle proposte
di leggi agrarie. Facevano balenare la speranza di avere l'agro pontino,
del quale allora - dopo cioè la vittoria di Camillo sui Volsci - Roma
ebbe per la prima volta pieno e indiscusso possesso. I tribuni formulavano
l'accusa che quelle terre erano minacciate dai nobili più di
quanto non lo fossero state dai Volsci. Questi ultimi, infatti, finché avevano
avuto forze e armi, si erano limitati a compiervi delle incursioni,
mentre i nobili anelavano al possesso dell'agro pubblico e, a meno
che le terre non venissero divise in lotti prima dell'occupazione da parte
degli ottimati, lì non ci sarebbe stato spazio per i plebei. Non
riuscirono però a fare grande presa sulla plebe perché essa non era molto numerosa nel
foro a causa delle preoccupazioni edilizie, sia perché era
schiacciata dalle spese di costruzione, e perciò non stava
a pensare alla terra, mancandole i mezzi per dotarla delle attrezzature
necessarie. La città era piena di scrupoli
religiosi. Ma in quel periodo, complice la recente sconfitta, essi si comunicarono
anche ai più alti magistrati e così si tornò
all'interregno per rinnovare gli auspici. La carica toccò in successione a Marco Manlio Capitolino, a
Servio Sulpicio Camerino e a Lucio Valerio Potito. Quest'ultimo,
alla fine, tenne i comizi per le elezioni di tribuni militari con potere
consolare. Furono eletti Lucio Papirio, Gaio Cornelio, Gneo Sergio,
Lucio Emilio (per la terza volta), Licinio Menenio e Lucio Valerio
Publicola (per la terza volta). Questi uomini entrarono in carica alla fine
dell'interregno. Nel corso di quell'anno il duumviro addetto ai riti
sacri Tito Quinzio consacrò il tempio promesso a Marte durante la
guerra contro i Galli. Vennero create quattro nuove tribù formate coi
nuovi cittadini: la Stellatina, la Tromentina, la Sabatina e la Arniense,
grazie alle quali il numero totale delle tribù raggiunse la quota
di venticinque. 6 La questione dell'agro Pontino venne
riproposta dal tribuno della plebe Lucio Sicinio al popolo ormai
più numeroso nelle assemblee e sempre più pronto che in precedenza a cedere al
desiderio di possedere la terra. In senato si accennò a una guerra
contro Ernici e Latini, ma la preoccupazione di un conflitto di ben
altre proporzioni (gli Etruschi erano infatti in armi) fecero differire
l'iniziativa. La faccenda fu di nuovo rimessa a
Camillo, tribuno militare con potestà consolare. Gli vennero assegnati cinque
colleghi: Servio Cornelio Maluginense, Quinto Servilio Fidenate
(per la sesta volta tribuno militare), Lucio Quinzio Cincinnato,
Lucio Orazio Pulvillo e Publio Valerio. All'inizio dell'anno
l'attenzione di tutti venne distolta dalla guerra con gli Etruschi perché una
turba di gente fuggita dall'agro Pontino arrivò all'improvviso in
città riferendo che gli Anziati erano in armi e che le comunità latine
avevano inviato i propri giovani a questa guerra, negando però che
l'iniziativa fosse il prodotto di una decisione ufficiale, visto che si erano limitati
a non impedire ai volontari di militare dove volevano. Ma i Romani
avevano ormai smesso di prendere alla leggera qualunque guerra. Così i
senatori ringraziarono gli dèi per il fatto che Camillo fosse in quel momento
in carica: in caso contrario, se cioè fosse stato un privato
cittadino, avrebbero dovuto nominarlo dittatore. I suoi colleghi
riconoscevano che, nel caso di una qualche incombente minaccia di guerra, la guida
dello Stato toccava a un uomo solo: si dicevano quindi pronti a sottomettere
il loro potere a quello di Camillo e ritenevano che qualunque
concessione avessero dovuto fare all'autorità di quell'uomo non
sarebbe stata una riduzione della propria. I senatori elogiarono i tribuni e
Camillo stesso, profondamente commosso, ebbe parole di ringraziamento per loro.
Poi disse che eleggendolo per la quarta volta il popolo romano lo aveva
gravato di un'enorme responsabilità. E se da parte
del senato, con il suo lusinghiero giudizio, si trattava di una grossa
responsabilità, grossissima lo era per la deferenza manifestata verso di lui da
colleghi così degni di stima. Di conseguenza, se gli era possibile
aggiungere ancora altre fatiche e altre veglie, avrebbe gareggiato con se
stesso per conservare stabilmente l'altissima stima che i suoi
concittadini, unanimi, avevano dimostrato di possedere nei suoi riguardi. Quanto
alla guerra con gli abitanti di Anzio, a sua detta si trattava più di
minacce che di reali pericoli. Tuttavia, pur consigliando di non temere nulla,
invitava anche a non prendere nulla alla leggera. La città di Roma
era circondata dall'invidia e dal risentimento dei suoi vicini. Pertanto
lo Stato aveva bisogno dell'opera di più generali e di più
eserciti. «Il mio volere», disse, «è che tu, Publio Valerio, divida con me
l'autorità e le decisioni e mi affianchi alla guida dell'esercito contro gli
Anziati; quanto a te, Quinto Servilio, desidero che tu organizzi e tenga
pronto un secondo esercito, e che ti accampi vicino a Roma, stando
continuamente allerta, nel caso ci siano nel contempo dei movimenti sia da parte
dell'Etruria, come è successo poto tempo fa, sia dalla zona di questo
nuovo allarme, cioè Latini ed Ernici. Sono certo che condurrai l'operazione
in maniera degna di tuo padre, di tuo nonno, di te stesso e dei tuoi sei
tribunati. Lucio Quinzio arruoli poi un terzo esercito, composto di
riformati e veterani, col cómpito di presidiare la città e le mura.
Lucio Orazio si occupi invece di provvedere ad armi, proiettili, viveri e a tutto
quanto si richiede in tempo di guerra. Quanto a te, Servio Cornelio,
io e i tuoi colleghi ti preponiamo a questo consiglio di Stato, ti nominiamo
custode dei riti religiosi, delle elezioni, delle leggi e di tutte le
questioni relative alla città». Dopo che tutti ebbero garantito
lealmente di fare del proprio meglio nei rispettivi incarichi assegnati,
Valerio, che era stato associato al comando supremo, aggiunse che avrebbe
considerato Marco Furio in qualità di dittatore e che per quest'ultimo
egli stesso sarebbe stato alla stregua di un maestro di cavalleria. Di
conseguenza le speranze di vincere la guerra avrebbero dovuto essere in
proporzione alla fiducia nutrita nei confronti di quell'unico comandante. A
quel pun to i senatori, al colmo dell'entusiasmo, dichiararono di avere
la massima fiducia circa l'esito della guerra, la pace e il benessere
dell'intera comunità, aggiungendo che il paese non avrebbe avuto più
bisogno di un dittatore se le magistrature avessero continuato a detenerle
personalità di quel calibro, unite in un accordo armonioso di intenti, pronte
tanto ad obbedire quanto a comandare, e capaci di riferire gli elogi alla
collettività piuttosto che a sottrarli a quest'ultima per attribuirli a se
stesse. 7 Dopo aver proclamato la sospensione
di ogni attività giudiziaria e indetto una leva militare, Furio e
Valerio partirono alla volta di Satrico, dove gli Anziati avevano
raccolto non soltanto la gioventù dei Volsci, tratta dalla nuova generazione,
ma anche un massiccio contingente di Latini ed Ernici, popoli pieni di
vigore per via della lunga pace. Di conseguenza, l'aggiungersi di questo
nuovo nemico a quelli di un tempo fu motivo di apprensione per i soldati
romani. Quando i centurioni si presentarono a Camillo che stava
già schierando le truppe in ordine di battaglia riferendogli che gli uomini
erano demoralizzati, che avevano preso le armi senza entusiasmo, che
erano usciti dal campo esitanti e riluttanti, e che anzi si era anche sentito
qualcuno dire che in battaglia sarebbero stati uno contro cento e che
una massa simile di nemici la si sarebbe potuta a stento contenere se
disarmata e figurarsi con le armi in pugno, Camillo balzò in sella e
cavalcando in mezzo alle file davanti alle insegne si rivolse ai suoi uomini in
questi termini: «Che cosa significano queste facce tetre e questa insolita
titubanza? Non conoscete il nemico, o me, o voi stessi? I nemici che altro
sono per voi se non fonte inesauribile di gloria e di valore sul
campo? Lasciamo da parte la conquista di Faleri e di Veio, il
massacro inflitto alle legioni dei Galli quando Roma era in loro mano: sotto il
mio comando, voi avete poco tempo fa celebratoun triplice trionfo per tre
vittorie contemporanee ottenute su questi stessi Volsci ed Equi e
sull'Etruria. O forse non mi riconoscete come vostro comandante solo perché non
vi ho dato il segnale di battaglia in qualità di dittatore ma di
tribuno? Ma io non desidero avere la massima autorità su di voi, Nè
voi dovreste vedere nella mia persona nient'altro che me stesso. E infatti non è
mai stata la dittatura a infordermi coraggio, come non me l'ha tolto
l'esilio. Noi siamo quelli di prima, tutti, e siccome in questa guerra
impiegheremo le stesse qualità utilizzate nelle precedenti campagne,
dobbiamo attenderci gli stessi risultati. Non appena vi butterete all'assalto,
ciascuno di voi farà ciò che ha imparato ed è abituato a
fare: voi vincerete e loro si daranno alla fuga.» 8 Dopo aver quindi suonato la carica,
scese da cavallo e prendendo per mano l'alfiere più vicino lo
trascinò con sé verso il nemico gridando: «Avanti l'insegna, o soldato!». Quando
gli uomini videro Camillo in persona, ormai inabile alle fatiche per
l'età avanzata, procedere verso il nemico levarono l'urlo di guerra e si
buttarono all'assalto tutti insieme, ciascuno gridando per proprio conto
«Seguite il generale!». Si racconta anche che Camillo ordinò di
lanciare un'insegna tra le linee nemiche, e che gli antesignani furono incitati a
riprenderla. Allora gli Anziati cominciarono a ripiegare e il panico
non si diffuse soltanto tra le prime linee, ma anche tra le truppe di
riserva. Ciò che li turbava non era unicamente l'impeto dei Romani
accresciuto nella sua violenza dalla presenza del comandante, ma il fatto
che per i Volsci non c'era niente di più inquietante dell'apparire
qua e là di Camillo in persona. E per questo dovunque egli si rivolgeva, portava con
sé la vittoria sicura. Ciò fu chiaro soprattutto quando, essendo
l'ala sinistra ormai prossima a cadere, egli afferrò all'improvviso un
cavallo e dirigendosi al galoppo in quella direzione armato di uno scudo da
fanteria, ristabilì le sorti della battaglia con la sua sola presenza,
mostrando che il resto dell'esercito stava avendo la meglio. L'esito della
battaglia era già scontato, ma la grande massa dei nemici rappresentava
di per sé un ostacolo alla fuga e i Romani, stremati dalla fatica,
avrebbero dovuto compiere un lungo massacro per sterminare una simile moltitudine,
quando all'improvviso i rovesci d'acqua di una violentissima tempesta
interruppero quella che più di una semplice battaglia era ormai una
vittoria sicura. Venne quindi dato il segnale della ritirata e la notte che
seguì fu per i Romani immersi nel sonno la fine della campagna. Infatti
Latini ed Ernici abbondonarono i Volsci e se ne tornarono nei rispettivi
paesi, conseguendo un risultato all'altezza dei loro perfidi progetti.
E i Volsci, quando si resero conto di essere stati abbandonati da coloro
che li avevano indotti a ribellarsi e sui quali contavano, sgombrarono
l'accampamento e si andarono a barricare all'interno delle mura di
Satrico. Camillo sulle prime li fece isolare con la costruzione di una
palizzata e di un fossato, pensando di cingerli d'assedio. Quando però
vide che dall'interno non veniva effettuata alcuna sortita per impedire
la costruzione in atto, pensando che il nemico fosse così
scoraggiato da non giustificare una vittoria procrastinata nel tempo, esortò
i suoi uomini a non sprecare troppe energie in lunghi lavori di
fortificazione come se si fosse trattato dell'assedio di Veio, dato che ormai
avevano in mano la vittoria; grazie infatti all'enorme ardore dei soldati,
assalì le mura da ogni direzione e con l'uso di scale riuscì a
catturare la città. I Volsci gettarono le armi e si arresero. 9 Ma i pensieri del comandante erano
rivolti a una questione di ben altre proporzioni, e cioè ad Anzio,
capitale dei Volsci, e causa della recente guerra. Ma siccome una città
tanto potente non la si poteva prendere se non con l'impiego di un massiccio
spiegamento di macchine da guerra e di ordigni da lancio, Camillo, dopo aver
lasciato il comando dell'esercito al collega, partì alla volta di
Roma per spingere il senato a distruggere Anzio. Mentre egli stava parlando - ho
l'impressione che agli dèi stesse a cuore che la potenza di Anzio durasse
più a lungo -, da Nepi e da Sutri arrivarono ambasciatori per chiedere
aiuto contro gli Etruschi, insistendo sull'urgenza del soccorso. Così
la sorte rivolse in quella direzione la forza di Camillo allontanandola da
Anzio. Siccome quelle due città si trovavano sul confine con l'Etruria e
ne costituivano, per così dire, la chiave e le porte, gli Etruschi
facevano di tutto per occuparle, quando macchinavano qualcosa di nuovo, mentre
i Romani si preoccupavano di riprenderle e proteggerle. Pertanto il
senato decise di convincere Camillo a lasciar perdere Anzio e ad occuparsi
della guerra contro gli Etruschi, assegnandogli quelle legioni urbane che
erano state agli ordini di Quinzio. Camillo avrebbe preferito
l'esercito esperto e abituato al suo comando che al momento si trovava nel
territorio dei Volsci, ciò non ostante non fece alcuna obiezione, chiedendo
soltanto che gli venisse associato al comando Valerio. Quinzio e
Orazio vennero inviati a sostituire Valerio nella campagna
contro i Volsci. Partiti da Roma alla volta di Sutri,
Furio e Valerio trovarono però che parte della città era già
finita in mano degli Etruschi, e che nell'altra parte gli abitanti, dopo aver sbarrato
tutte le vie d'accesso, riuscivano a stento a contenere gli assalti del
nemico. L'arrivo di aiuti da Roma e in particolare la grandissima fama di
cui Camillo godeva presso nemici e alleati permisero di ristabilire
momentaneamente la situazione già compromessa e concessero il tempo
necessario per organizzare il soccorso. Diviso in due l'esercito, Camillo diede
disposizione al collega di operare una manovra di accerchiamento e di dare
l'assalto alle mura nel settore occupato dai nemici. La sua speranza
non era tanto di poter prendere la città con l'uso di scale, quanto
di richiamare i nemici in quel punto (concedendo così agli abitanti,
ormai stremati dal continuo combattere, un attimo di tregua), e di avere
l'opportunità di entrare in città senza combattere. Entrambe le operazioni
vennero messe in pratica simultaneamente: gli Etruschi
sentendosi minacciati da ambo le parti e vedendo che le mura erano attaccate con
estrema violenza e che i nemici erano ormai in città, colti da
terrore si gettarono in massa fuori dalla sola porta che casualmente non era
assediata. La fuga nei campi e all'interno della città
finì comunque in un bagno di sangue. La maggior parte di essi venne fatta a pezzi dai
soldati di Furio all'interno delle mura. Gli uomini di Valerio furono
più veloci nell'inseguimento e posero fine al massacro solo quando il calar
della notte tolse la visibilità. Dopo aver riconquistato e riconsegnato
Sutri agli alleati, l'esercito marciò alla volta di Nepi, che
essendosi ormai arresa era ora in completa balìa degli Etruschi. 10 La riconquista di quella
città sembrava fatica molto più dura, e non solo perché era interamente in mano
nemica, ma anche perché una fazione di Nepesini aveva tradito il proprio paese
pattuendo la capitolazione. Si decise comunque di mandare a dire alle
autorità cittadine di staccarsi dagli Etruschi e di dar prova di quella
stessa lealtà che avevano implorato dai Romani. Quando essi
risposero dicendo che non potevano far nulla, perché gli Etruschi
controllavano le mura e vigilavano alle porte, in un primo tempo i Romani misero a
ferro e fuoco le campagne per terrorizzare la gente in città.
Poi, quando fu evidente che la resa era per loro un legame più vincolante
di quanto non fosse l'alleanza, dopo aver raccolto nei campi dei rami secchi
e averne fatto fascine, le truppe romane vennero condotte sotto le mura e
lì, una volta riempiti i fossati, vi appoggiarono le scale e presero la città
alla prima carica sostenuta dal grido di guerra. Agli abitanti di
Nepi venne ingiunto di deporre le armi, e ai soldati di risparmiare
quelli che erano disarmati. Per gli Etruschi non furono fatte differenze:
vennero massacrati sia che fossero armati sia che non lo fossero. I
Nepesini responsabili della capitolazione vennero giustiziati: la popolazione che
non aveva colpe da scontare ebbe indietro le proprie cose, mentre in
città venne lasciato un presidio armato. Così, dopo aver ritolte al
nemico due città alleate, i tribuni ricondussero a Roma con grande gloria
l'esercito vincitore. Nel corso di quello stesso anno vennero
avanzate richieste di riparazione a Latini ed Ernici e fu loro domandato
per quale ragione, negli ultimi anni, essi non avessero fornito i
contingenti armati contemplati dai patti. L'assemblea plenaria di entrambi
i popoli fece sapere che lo stato non aveva colpe né
responsabilità attive nel fatto che alcuni dei loro giovani avessero militato nelle file
dei Volsci. Comunque, quei ragazzi avevano scontato caramente la loro
pessima iniziativa e nessuno di essi era tornato indietro. Quanto poi al non
aver fornito soldati, questo era dovuto alla costante paura nutrita nei
confronti dei Volsci (una maledizione sempre così alle
calcagna da non essere riusciti a liberarsene nemmeno con quella continua successione
di guerre). Questa risposta fu riferita ai senatori: e sembrò
ad essi che offrisse sì un motivo, ma non l'opportunità per scatenare un
conflitto. 11 L'anno successivo, quando
cioè erano tribuni militari con potere consolare Aulo Manlio, Publio Cornelio,
Tito e Lucio Quinzio Capitolino, Lucio Papirio Cursore e Gneo Sergio
(entrambi alla loro seconda esperienza), ci furono all'esterno una
guerra di una certa gravità e in patria dei disordini ben più
gravi. Alla guerra scatenata dai Volsci si aggiunse la defezione di Latini ed
Ernici; mentre i disordini scoppiarono là dove meno lo si sarebbe
previsto, e il responsabile fu Marco Manlio Capitolino, un patrizio che godeva di
larga rinomanza. Pieno di superbia, disprezzava il resto dei capi e ne
invidiava uno solo, Marco Furio, insigne per onori e meriti. Egli non
riusciva a tollerare che Camillo avesse raggiunto tanto tra i magistrati
quanto presso gli eserciti un tale grado di assoluta preminenza da
considerare al rango di servitori e non di colleghi quelli che erano stati eletti
sotto i suoi stessi auspici, quando - se uno avesse considerato la
questione in maniera obiettiva - Marco Furio non avrebbe mai potuto strappare
la patria dall'assedio nemico, se lui, Manlio, non avesse prima salvato
il Campidoglio e la rocca. Mentre Camillo aveva attaccato i Galli nel
momento in cui ricevevano l'oro e non stavano in guardia, pensando alla pace,
lui invece li aveva respinti quando armi in pugno erano sul punto di
impossessarsi della rocca. Buona parte della gloria di Camillo
apparteneva ai soldati che avevano conquistato la vittoria insieme a lui,
mentre tutti sapevano che Manlio non doveva dividere con nessun essere
mortale la propria vittoria. Imbaldanzito da queste idee ed essendo
anche impetuoso e violento di carattere, quando si rese conto di non
riuscire a emergere tra i senatori come egli riteneva di meritare, fu il
primo tra tutti i patrizi a passare dalla parte del popolo e ad accordarsi
coi magistrati plebei. Lanciando accuse ai senatori e cercando di
attirarsi il favore della plebe, non si lasciava più guidare dal
raziocinio ma dall'umore incostante della massa, e preferiva che la sua fama fosse
grande piuttosto che buona. E non contento delle leggi agrarie che ai
tribuni della plebe avevano sempre fornito materia per scatenare
disordini, cominciò un attacco sul pubblico credito: a suo dire i debiti erano un
tormento ben più fastidioso perché facevano rischiare non soltanto la
povertà e il disonore, ma terrorizzavano gli uomini di condizione
libera col pensiero della frusta e delle catene. E infatti c'era stato un
grande accumulo di debiti contratti con le opere di ricostruzione, che
anche ai ricchi avevano procurato enorme danno. E così la guerra
contro i Volsci, già di per sé preoccupante ma resa ancora più preoccupante
dalla defezione di Latini ed Ernici, venne utilizzata allo scopo di ottenere
maggiore potere. Ma soprattutto le rivoluzionarie idee di Manlio furono la
causa principale della nomina, voluta dal senato, di un dittatore.
Venne scelto per l'incarico Aulo Cornelio Cosso, il quale nominò
maestro di cavalleria Tito Quinzio Capitolino. 12 Pur rendendosi conto che la minaccia
di uno scontro interno era ben più preoccupante di quella proveniente
dall'estero, ciò non ostante il dittatore - sia perché la guerra
esigeva tempestività e sia perché pensava che con una vittoria e un conseguente
trionfo avrebbe potuto rinforzare la propria dittatura, appena effettuata la
leva militare, partì alla volta dell'agro Pontino, dove, stando alle
informazioni ricevute, i Volsci avevano concentrato l'esercito. A forza
di leggere in questi libri di tutte le guerre combattute in
continuazione con i Volsci, sono sicuro che i lettori - noia a parte - si
domanderanno meravigliati (com'è successo a me quando esaminavo le opere degli
storici più vicini ai tempi di questi avvenimenti) dove mai Volsci ed Equi,
che subivano una sconfitta dietro l'altra, trovassero i rimpiazzi per le
file dei loro eserciti. Ma visto che gli antichi hanno passato la
questione sotto silenzio, posso avanzare soltanto una semplice opinione
personale, alla quale ciascuno può arrivare per congettura? È probabile sia
che negli intervalli tra i vari conflitti essi utilizzassero per riprendere le
guerre sempre nuove generazioni di giovani - come oggi si verifica nelle
leve militari qui a Roma -; oppure non arruolavano gli eserciti attingendo
sempre alle stesse genti, anche se poi il popolo che faceva la guerra
risultava sempre lo stesso; o ancora non è escluso che la
quantità di uomini liberi fosse estremamente elevata in zone che oggi non hanno più
alcun peso quale vivaio militare e solo grazie agli schiavi romani non sono
ridotte a deserti. Di certo è che tutti gli storici concordano nel
definire enorme l'esercito dei Volsci, non ostante avesse poco tempo prima
subìto un notevole ridimensionamento numerico sotto il comando e gli auspici
di Camillo. A questa forza si erano aggiunti Latini ed Ernici, un
certo numero di abitanti di Circei e alcuni coloni romani provenienti da
Velletri. Quel giorno il dittatore si accampò. Il successivo, dopo
aver tratto gli auspici, uscì dalla tenda augurale e invocò il favore
degli dèi con l'offerta di una vittima sacrificale. Quindi si presentò
con volto lieto ai soldati che alle prime luci del giorno si stavano già
armando, come era stato loro ordinato di fare non appena avessero visto il
segnale convenuto per la battaglia. «O soldati», disse, «la vittoria è
nelle nostre mani, se gli dèi e i loro interpreti profetici sanno leggere nel
futuro. Perciò, come si conviene a uomini che sono sul punto di affrontare
con sicura fiducia nei propri mezzi degli avversari di forza impari,
deponiamo i giavellotti e armiamoci soltanto con le spade. Vorrei che
nessuno uscisse dai ranghi, ma che sosteneste l'impeto dei nemici
resistendo a pie' fermo. Quando i loro colpi saranno andati a vuoto ed essi si
getteranno in disordine contro di voi ben attestati al vostro posto,
allora brillino le spade e ciascuno si ricordi che gli dèi stanno dalla
parte dei Romani, e che sono stati gli dèi a mandarci in battaglia con
auspici favorevoli. Tu, Tito Quinzio, bada a tener ferma la cavalleria e aspetta
che inizi lo scontro. Quando vedrai le due schiere già impegnate nel
corpo a corpo, allora con i cavalieri aggiungi nuovo terrore alla paura che
già possiede i nemici e caricandoli semina lo scompiglio tra le loro fila.»
Tanto i cavalieri quanto i fanti combatterono com'era stato loro
ordinato. Né il generale venne meno alle sue legioni, né la fortuna al generale. 13 La massa dei nemici, confidando
esclusivamente nel numero e valutando a occhio entrambi gli schieramenti, si
buttò alla cieca in battaglia e alla cieca ne uscì. Esaurita la loro
irruenza nell'urlo di battaglia, nel lancio di proiettili e nel primo urto,
essi non riuscirono a sostenere le spade, lo scontro corpo a corpo e gli
sguardi dei nemici nei quali brillava l'ardore di autentici
guerrieri. La loro linea frontale venne sùbito sgranata e lo scompiglio
andò a ripercuotersi sulle retrovie. Anche i cavalieri fecero la loro parte nel
terrorizzare i nemici. Le file vennero sbaragliate in molti punti,
tutto era in movimento e l'intero schieramento somigliava a un fluttuare
di onde. Poi quando, caduti i soldati della prima fila, ciascuno si
rese conto che la morte non avrebbe tardato a raggiungerlo, fu una fuga
generale. I Romani incalzavano. Finché i nemici indietreggiavano con le armi
in pugno e in file serrate, l'inseguimento venne affidato alla
fanteria. Ma quando si vide che buttavano le armi dove capitava e che
l'esercito si disperdeva per i campi cercando la fuga, allora venne dato il
via libera agli squadroni di cavalleria con l'ordine di non
indugiare nell'eliminazione dei singoli, per non offrire al grosso delle forze
nemiche il modo di evitare il massacro. Già solo lanciando
proiettili li avrebbero terrorizzati ostacolandone la corsa: poi,
cavalcandogli intorno, li avrebbero potuti tenere sotto controllo, fino a quando
non fossero sopraggiunti i fanti a completare l'annientamento. La fuga e
l'inseguimento proseguirono fino al calar della notte. Dopo aver catturato
e distrutto quello stesso giorno l'accampamento dei Volsci, ai soldati
venne concesso tutto il bottino tranne gli uomini di condizione libera.
La maggior parte dei prigionieri erano Latini ed Ernici, e non tutti di estrazione
plebea (che si poteva credere avessero combattuto in
qualità di mercenari), ma vi si trovarono anche dei giovani delle famiglie
più illustri, prova questa che i rispettivi paesi avevano ufficialmente
supportato il nemico volsco. Alcuni vennero invece riconosciuti come
provenienti da Circei e dalla colonia di Velletri. Furono tutti inviati a Roma e
lì, ai senatori più eminenti che li interrogavano, rivelarono
apertamente le stesse cose già dette al dittatore, e cioè la defezione
dei rispettivi popoli. 14 Il dittatore teneva i suoi uomini
nell'accampamento, non nutrendo il minimo dubbio sul fatto che i senatori
avrebbero dichiarato guerra a questi popoli, quando in patria una
questione di ben altra gravità li costrinse a richiamarlo a Roma, mentre
la gravità dei disordini cresceva di giorno in giorno, e chi ne era
responsabile rendeva la cosa più preoccupante del solito. Infatti ormai
non solo i discorsi, ma anche le azioni di Marco Manlio, all'apparenza
volte ad appoggiare il popolo, erano in realtà sediziose se si
considerava quale ne era il principio ispiratore. Vedendo che stavano
portando via un centurione, famoso per le sue prodezze di soldato, ma condannato
per debiti, Manlio si precipitò in pieno foro con la sua banda di
sostenitori. Lì, dopo averlo afferrato con le mani per riscattarlo, ed essersi
messo a urlare frasi sull'arroganza dei patrizi, sulla crudeltà
degli usurai, sulle sofferenze della plebe e sulle qualità e sulle disgrazie
di quell'uomo, disse: «Allora non è proprio servito a nulla per me aver
salvato la rocca e il Campidoglio con questa destra, se adesso devo vedere un
mio concittadino e commilitone messo in catene e ridotto in
schiavitù come se fosse prigioniero dei Galli vincitori!». Poi pagò davanti a
tutti la somma dovuta al creditore, restituì la libertà al
commilitone riscattato, il quale implorava gli dèi e gli uomini affinché ringraziassero
Marco Manlio, suo liberatore e padre della plebe romana. Accolto
immediatamente in mezzo a quella massa turbolenta di gente, il commilitone
contribuiva di suo ad aumentare il disordine mostrando le cicatrici delle
ferite riportate nella guerra contro Veio, in quella contro i Galli e
nelle successive. Mentre stava combattendo, mentre era impegnato nella
ricostruzione della sua casa ridotta in macerie, era stato
schiacciato dall'usura, perché, pur avendo già più volte risarcito
il debito, gli interessi continuavano a divorarsi il capitale di partenza. Se ora vedeva
la luce, il foro e i volti dei concittadini, lo doveva all'intervento
generoso di Marco Manlio. Da lui aveva anche sperimentato tutto il bene
che può provenire dai genitori, a lui consacrava quanto gli restava di
forza, di vita e di sangue. Tutti i vincoli che lo legavano alla patria e
agli dèi Penati pubblici e privati, ora lo avrebbero legato a un uomo solo.
Infiammati da queste parole, i plebei pendevano dalle labbra di un
unico individuo, quand'ecco che Manlio tirò fuori un'altra iniziativa
studiata in maniera ancora più mirata al fine di creare disordine generale. Mise
infatti all'asta un fondo che egli possedeva nella zona di Veio e che
rappresentava la parte più consistente del suo patrimonio. Accompagnò
il gesto con questa frase: «Perché io non debba vedere che qualcuno di voi, o
Quiriti, finché mi resti qualcosa di mio, sia condannato come debitore
insolvente e ridotto alla condizione di schiavo!». Queste parole infiammarono
gli animi a tal punto da sembrare evidente che essi avrebbero seguito il
difensore della loro libertà in qualunque impresa, lecita o illecita
che fosse. Al di là di questo, Manlio
teneva a casa sua dei discorsi molto simili a comizi politici, pieni di accuse ai
danni dei patrizi. Tra l'altro, senza però curarsi minimamente se si
trattasse di affermazioni vere o false, egli insinuò il sospetto che i
patrizi tenessero nascosto l'oro dei Galli e che non contenti di possedere l'agro
pubblico, miravano a utilizzare a loro profitto il denaro delle casse
statali. Se la cosa fosse venuta alla luce, con quel denaro si sarebbe potuta
affrancare la plebe dai debiti contratti. Non appena venne fatta
balenare questa speranza, sembrò una vera vergogna il fatto che, quando si
era dovuto raccogliere oro per riscattare Roma presso i Galli, lo si
fosse messo insieme imponendo un tributo a tutti. E adesso quell'oro,
una volta sottratto ai nemici, era diventato preda di pochi. Per questo
essi non smettevano di chiedere dove fosse nascosta una così grande
refurtiva. Ma siccome Manlio rimandava sempre e diceva che l'avrebbe rivelato
a tempo debito, i patrizi lasciando da parte ogni altro pensiero, la gente
era concentrata esclusivamente su quella questione, ed era evidente che,
a seconda della fondatezza o meno della sua accusa, Manlio si sarebbe
guadagnato enorme riconoscenza o non minore risentimento. 15 Siccome la situazione era
così critica, il dittatore venne richiamato dal fronte e arrivò a Roma. Il
giorno successivo convocò una seduta del senato. Qui, dopo aver ben saggiato lo
stato d'animo generale, e dopo aver ingiunto ai senatori di non
allontanarsi, attorniato da un gran numero di essi, sistemò la sua sedia
curule nel comizio e inviò un messo a Marco Manlio. Questi, convocato dal
dittatore, dopo aver fatto segno ai suoi che lo scontro era imminente, si
presentò in tribunale accompagnato da un codazzo di sostenitori. Schierati come su
un campo di battaglia, il senato da una parte e la plebe dall'altra
tenevano gli occhi puntati sui rispettivi capi. Allora il dittatore,
dopo aver intimato il silenzio, disse: «Magari io e i senatori romani
riuscissimo a trovare un accordo con la plebe su tutte le altre questioni,
così come sono sicuro che ci accorderemo per quanto ti riguarda e
per la richiesta che sto per rivolgerti. So che tu hai fatto sperare
alla cittadinanza di poter pagare i debiti, senza attentare ai contratti,
attingendo a quei tesori dei Galli che alcuni tra i patrizi più in
vista starebbero nascondendo. Sono così lontano dall'ostacolare questa proposta
che ti esorto, o Marco Manlio, a liberare dall'usura la plebe romana e a
smascherare quelli che covano i tesori dello Stato, strappando loro la
preda nascosta. Se non lo farai, o perché hai tu stesso parte alla rapina
o perché la tua denuncia non ha alcun fondamento, io darò ordine
di arrestarti e non permetterò che tu possa sobillare più a lungo la
massa con false promesse.» A queste parole Manlio rispose che non
gli era sfuggito come il dittatore fosse stato nominato non tanto contro i
Volsci, considerati nemici ogni qualvolta conveniva ai patrizi, né
contro Latini ed Ernici, che con false accuse i nobili stavano spingendo ad
entrare in guerra, quanto piuttosto contro la propria persona e contro la
plebe romana. Ormai essi, dopo aver messo da parte il conflitto che era
stato un semplice pretesto, si accingevano ad attaccare lui: il
dittatore si professava già apertamente difensore degli usurai contro la plebe
e già si cercava di trovare nel favore popolare un motivo di accusa per
rovinare lui. «A te, o Aulo Cornelio, e a voi, o senatori», disse,
«dà forse fastidio la massa di persone che mi circonda? Perché non la
allontanate da me facendo del bene a ciascuno di essi, intervenendo a
favore dei debitori, sciogliendo i vostri concittadini dai ceppi,
impedendo che essi vengano processati e ridotti in schiavitù o
impiegando il superfluo delle vostre sostanze per venire incontro alle necessità
altrui? Ma perché chiedervi di spendere del vostro denaro? Accontentatevi di quanto
resta del debito, scalando dal capitale di partenza ciò che
è già stato interamente pagato in interessi, e vedrete che il mio seguito non
darà nell'occhio più di quanto non faccia quello di chiunque altro. Ma perché io
sono l'unico che si prende a cuore la sorte dei concittadini? La mia
risposta sarebbe identica a quella che darei se mi si domandasse perché sono
stato il solo a salvare il Campidoglio e la rocca. E come allora
ho fatto del mio meglio per aiutare tutta la comunità, così
adesso cercherò di aiutare dei singoli individui. Per quel che riguarda poi il tesoro dei
Galli, si tratta di una questione di per sé semplice ma resa difficile
dalle tue domande. Perché chiedete di una cosa che già sapete? Perché
ci ordinate di strapparvelo dalle tasche, invece di tirarlo fuori spontaneamente,
se non c'è sotto qualche inganno? Quanto più voi ci imponete di
smascherare i vostri giochi di prestigio, tanto più temo che vogliate
cavare gli occhi a chi vi osserva. Dunque non sono io che devo denunciare a voi le
vostre appropriazioni, ma siete voi che dovete renderle di pubblico dominio.» 16 Il dittatore gli ordinò
allora di lasciar da parte i giri di parole e lo costrinse o ad attribuire un
fondamento di verità alla sua denuncia oppure ad ammettere di aver accusato il
senato con una falsa imputazione e di avergli addossato l'odiosità
di un furto inesistente. Ma siccome Manlio disse che non avrebbe parlato ad
arbitrio dei propri avversari, il dittatore ordinò di arrestarlo.
Mentre veniva trascinato in prigione dall'ufficiale di servizio «Giove
Ottimo Massimo», disse, «e tu Giunone Regina e Minerva e voi, gli altri
dèi e dee che abitate sul Campidoglio e sulla rocca, dunque permettete che il
vostro campione e difensore sia così maltrattato dai suoi avversari? Questa
destra, con la quale ho cacciato i Galli dai vostri santuari, sarà
dunque stretta in ceppi e catene?». Quell'infame spettacolo era
intollerabile per le orecchie e gli occhi di ognuno. Ma c'erano certe regole che i
cittadini, profondamente sottomessi alla legittima autorità,
consideravano intoccabili. E né i tribuni della plebe, né la plebe stessa osavano
alzare gli occhi o proferire verbo di fronte all'autorità del
dittatore. Tuttavia, dopo che Manlio venne messo in carcere - lo si sa con certezza -
buona parte dei plebei si vestirono a lutto, molti uomini si lasciarono
crescere barba e capelli e una mesta folla cominciò ad aggirarsi di
fronte all'entrata della prigione. Il dittatore celebrò il trionfo
sui Volsci, ma il trionfo gli procurò più odio che gloria: la gente infatti
mormorava che egli l'aveva conquistato non sul campo di battaglia ma in patria
e non contro un nemico ma contro un cittadino. Una sola cosa gli era
venuta a mancare in quell'eccesso di superbia: Marco Manlio non era stato
fatto marciare davanti al suo carro. Ormai la situazione stava per
degenerare in una sommossa: per placare gli animi, senza però che nessuno ne
avesse fatto richiesta, il senato divenne all'improvviso generoso e ordinò
che due mila coloni romani fondassero una colonia a Satrico. A ciascuno di essi
vennero assegnati due iugeri e mezzo di terra. Ma siccome il gesto venne
interpretato come una donazione limitata in quantità e ristretta
a un àmbito di pochi e come ricompensa per l'abbandono di Marco Manlio, il
rimedio non fece che aggravare la tensione in atto. I sostenitori di
Manlio si facevano notare ancora più di prima per gli abiti a lutto e per
l'aspetto che assumevano di imputati, mentre la gente, liberata dalla paura
da quando il dittatore aveva rinunciato alla carica súbito dopo il
trionfo, si era rinfrancata nell'animo e nel dire. 17 Di conseguenza si cominciarono a
sentire le opinioni di chi criticava apertamente la massa poiché riteneva
che il favore popolare innalzasse i suoi campioni fino a vertici inauditi,
ma che poi, nel momento critico, li abbandonasse al loro destino.
Così era successo con Spurio Cassio (che aveva invitato la plebe a prender
possesso dei campi), con Spurio Mecilio (che tentava di allontanare a proprie
spese la fame dalla bocca dei concittadini) e ora succedeva con Marco
Manlio, consegnato agli avversari dopo essersi prodigato nel tentativo di
portare alla luce della libertà quella parte di cittadinanza sommersa e
schiacciata dai debiti. La plebe ingrassava i suoi campioni perché finissero
al macello. Era dunque questo che toccava a un ex - console se non
rispondeva a un cenno del dittatore? Supponessero pure che aveva mentito in
precedenza e che proprio per questo non sapesse poi cosa rispondere: quale
schiavo era mai stato condannato alla prigione per una bugia? Non se la
ricordavano quella notte che per poco non era stata l'ultima, eterna
notte del nome di Roma? Non era ancora vivo in loro il ricordo delle schiere
dei Galli che saliva su per la rupe Tarpea? Non quello dello stesso Marco
Manlio, così come l'avevano visto, quando armi in pugno, coperto di sudore
e di sangue aveva strappato Giove stesso, per così dire, dalle
mani dei nemici? Si era ringraziato il salvatore della patria con mezza libbra
di farro? Avevano intenzione di permettere che l'uomo da loro innalzato
a rango quasi divino e reso, almeno nel soprannome, pari a Giove
Capitolino, incatenato in carcere trascinasse i suoi giorni al buio in
balia di un carnefice? Lui, da solo, aveva aiutato tutti: e ora in tanti non
sapevano soccorrere lui solo? Ormai la folla non si allontanava da
quel luogo nemmeno di notte e anzi minacciava di voler forzare le porte
della prigione, quando all'improvviso, concedendo ciò
che essi stavano per strappare a forza, il senato decretò che Manlio
venisse rimesso in libertà (iniziativa questa che non pose certo fine alla sedizione,
ma fornì un capo ai sediziosi). In quegli stessi giorni arrivarono Latini ed
Ernici, insieme ai coloni di Circei e di Velletri, a discolparsi
dall'accusa di essersi associati in guerra coi Volsci e a chiedere la
consegna dei prigionieri per poterli punire con le proprie leggi. Le
risposte furono dure, specialmente per i coloni in quanto, pur essendo cittadini
romani, avevano preso la decisione di combattere contro la patria.
Perciò non fu loro soltanto negata la restituzione dei prigionieri, ma -
misura risparmiata agli alleati - il senato ingiunse loro di allontanarsi al
più presto dalla città, dalla vista e dagli occhi del popolo romano,
per timore che non trovassero protezione nelle prerogative concesse
agli ambasciatori, prerogative previste per gli stranieri e non per i
cittadini. 18 Mentre i disordini causati da Manlio
si stavano aggravando, verso la fine dell'anno ci furono delle elezioni
nelle quali risultarono eletti tribuni militari con potere consolare
Servio Cornelio Maluginense, Publio Valerio Potito, Servio Sulpicio Rufo,
Gaio Papirio Crasso, Tito Quinzio Cincinnato (tutti per la seconda volta)
e Marco Furio Camillo (per la quinta). La pace esterna della quale si
godette all'inizio di quell'anno fu estremamente vantaggiosa sia per la
plebe che per la nobiltà. E se per i plebei lo fu perché, non dovendo
prestare servizio militare, finché avevano dalla loro un capo prestigioso
come Marco Manlio, nutrivano la speranza di eliminare i debiti, per i
patrizi lo fu in quanto non desideravano che preoccupazioni
provenienti dall'esterno distogliessero gli animi dal pensiero di risanare i
mali interni. E così, visto che entrambe le parti si erano buttate
nella contesa con maggiore accanimento, l'ora dello scontro era ormai vicina.
Manlio invitava i plebei a casa sua e discuteva coi loro capi giorno e
notte progetti rivoluzionari, era più arrogante e irato di quanto non fosse
stato prima. L'umiliazione subìta di recente aveva infiammato la rabbia in
un animo non abituato agli affronti: il suo orgoglio era risvegliato dal
fatto che il dittatore non aveva osato agire nei suoi confronti come Quinzio
Cincinnato aveva agito contro Spurio Melio, e che non solo il dittatore con
la rinuncia alla dittatura si era voluto sottrarre all'ondata di sdegno
suscitata dal suo arresto, ma anche che neppure il senato aveva potuto
sostenerla. Nel contempo infiammato ed esacerbato da questi pensieri, Manlio
istigava gli animi già di per sé eccitati della plebe. «Fino a quando», chiedeva,
«continuerete a ignorare la vostra forza, cosa che la natura non consente nemmeno alle
fiere di ignorare? Fate almeno il conto del vostro numero e del numero
dei vostri avversari. Infatti quanti eravate in qualità di clienti
intorno a un solo patrono, altrettanti adesso sarete contro un solo nemico. Se
doveste affrontarli uno contro uno, anche così credo che
combattereste con maggiore accanimento voi per la libertà di quanto non
farebbero loro per il potere. Minacciate la guerra e avrete la pace. Fatevi vedere
che siete pronti a ricorrere alla forza, essi rinunceranno ai loro
diritti. Bisogna osare qualcosa tutti insieme. Oppure dovrete a uno a uno
sopportare tutto. Fino a quando starete a guardare me? Lo sapete
benissimo, io non abbandonerò mai nessuno di voi. Ma badate che la buona sorte
non abbandoni me. Io, il vostro difensore, quando è parso
opportuno ai miei nemici, sono stato annientato all'improvviso. E voi tutti avete visto
trascinare in prigione l'uomo che aveva allontanato le catene da ciascuno
di voi. Che cosa potrei sperare, se i nemici osassero di più nei
miei confronti? Una fine come quella di Cassio e di Melio? Fate bene a
pronunziare scongiuri. «Gli dèi non lo permetteranno!». Ma per me non
scenderanno mai dall'alto del cielo. Devono infondere a voi il coraggio di
impedirlo, così come a me hanno dato, in pace e in guerra, il coraggio
necessario per difendervi dalla barbarie dei nemici e dall'arroganza dei
concittadini. Questo grande popolo ha così poco carattere che per contrastare i
vostri nemici continuate ancora ad accontentarvi del diritto di ausilio e
non conoscete nessun altro tipo di lotta contro i patrizi, se non in quali
limiti permettere che spadroneggino su di voi? Anche questa
non è in voi una caratteristica congenita, ma vi lasciate dominare per
abitudine. Perché, vi domando, con i popoli stranieri combattete con tanta
animosità da ritenere giusto di ridurli in vostro potere? Perché con
loro siete abituati da sempre a combattere per la supremazia, mentre
contro i senatori siete avvezzi a combattere più per cercare di
ottenere la libertà che per difenderla. Tuttavia, qualunque sia stato il valore
specifico vostro e degli uomini che vi hanno guidato, fino a oggi avete
ottenuto, vuoi con la violenza, vuoi con l'aiuto della vostra buona
stella, tutto ciò che avete voluto. Ma ora è tempo di aspirare anche a
qualcosa di più grande. Mettete solo alla prova la vostra buona sorte e me (che,
lo spero, avete già messo alla prova con esiti felici). Vi
costerà meno fatica imporre ai patrizi qualcuno che li comandi di quanta non
ve ne sia costata l'imporre qualcuno che si opponesse al loro potere.
Bisogna fare tabula rasa del consolato e della dittatura, perché la plebe di
Roma possa alzare la testa. Perciò siate pronti: impedite che si
pronuncino le sentenze nelle cause per debiti. Io mi dichiaro protettore della
plebe, titolo del quale sono stato investito per il mio zelo e il mio
leale attaccamento alla causa: se voi deciderete di attribuirne al vostro
capo uno più prestigioso per autorità e dignità, egli avrà
maggiore potere per ottenere ciò che volete.» Fu allora, pare, che si cominciò a
parlare di monarchia. Ma dalla tradizione non risulta molto chiaro né chi fosse
implicato nel complotto, né fino a che stadio esso fosse stato portato
avanti. 19 Dall'altra parte i senatori stavano
discutendo di quelle riunioni segrete della plebe in una casa privata
(una casa che, per puro caso, si trovava anche sulla rocca) e del grave
pericolo che minacciava la libertà. La maggior parte di essi gridava che
c'era bisogno di un Servilio Aala, che non esasperasse i nemici pubblici
mettendoli in prigione, ma che con la soppressione di un solo cittadino
ponesse fine alla guerra civile. Si ricorse tuttavia a una decisione che,
pur risultando nei fatti ugualmente energica, dava l'impressione di essere
più moderata: venne ordinato ai magistrati di provvedere che la
repubblica non subisse alcun danno dai perniciosi progetti di Marco Manlio.
Allora i tribuni con potestà consolare e i tribuni della plebe
(messisi anch'essi a disposizione del senato in quanto consci del fatto che
la fine della libertà di tutti avrebbe coinciso con la fine del loro
potere) si consultarono collegialmente sulle misure da
prendere. Siccome nessuno era in grado di suggerire soluzioni che non
prevedessero il ricorso alla violenza e al sangue - il che avrebbe comportato,
evidentemente, uno scontro durissimo -, allora i tribuni della plebe Marco
Menenio e Quinto Publilio dissero: «Perché mai dobbiamo trasformare in uno
scontro tra patrizi e plebei quello che dovrebbe essere una lotta
tra la città e un solo, pericoloso cittadino? Perché lo affrontiamo
spalleggiati dalla plebe, quando sarebbe più sicuro attaccarlo servendoci
della plebe stessa per farlo crollare schiacciato dalle sue stesse forze? Non
c'è nulla di meno popolare che la monarchia. Non appena tutta quella
gente si renderà conto che non si combatte contro di loro, da sostenitori si
trasformeranno in giudici: quando l'accusa sarà sostenuta
da plebei contro un imputato patrizio, e ci sarà di mezzo il reato di voler
restaurare la monarchia, la plebe penserà prima di tutto a difendere la propria
libertà.» 20 Tutti approvarono
all'unanimità la proposta e decisero di citare Manlio in giudizio. L'applicazione di questo
provvedimento suscitò commozione tra i plebei, specialmente quando essi
videro che Manlio era in gramaglie e che ad accompagnarlo non solo non c'era
nemmeno un senatore ma mancavano tanto i parenti e i congiunti quanto
addirittura i fratelli Aulo e Tito Manlio: non era mai accaduto fino a
allora che in simili circostanze i parenti più stretti non
vestissero a lutto. Quando era finito in carcere Appio Claudio, Gaio Claudio, che pure
gli era ostile, e tutta la famiglia Claudia si erano messi in lutto. C'era,
dunque, un accordo per schiacciare l'amico del popolo, perché era stato il
primo patrizio a passare dalla parte della plebe. Arrivò il giorno del processo,
ma non ho trovato in nessun autore quali accuse gli siano state mosse in diretta
connessione al reato di tentata restaurazione della monarchia, se si
eccettuano le riunioni di massa, i discorsi sediziosi, le sue elargizioni
di denaro e la falsa denunzia. Comunque non doveva trattarsi di cose
di poco peso, perché la plebe tardò a condannarlo non tanto per motivi
riguardanti la causa, quanto per il luogo dove si teneva il processo.
È un particolare che mi sembra degno di essere menzionato, perché la gente
sappia quali e quanto grandi meriti siano diventati odiosi e spregevoli a
causa di una vergognosa brama del regno. Si dice che Manlio portò
di fronte alla corte circa quattrocento individui ai quali egli aveva prestato
denaro senza pretendere interessi, salvando così i loro beni dalla
vendita all'asta, e le loro persone dalla schiavitù. Inoltre, Manlio non
si limitò a richiamare alla memoria le proprie glorie militari, ma ne produsse
l'evidenza di fronte agli occhi di tutti, mostrando addirittura le spoglie
di trenta nemici uccisi, e quaranta decorazioni ottenute da
generali, tra le quali spiccavano due corone murali e otto civiche. Come se
non bastasse, Manlio avrebbe poi citato i concittadini da lui salvati,
menzionando all'interno di essi il nome del maestro di cavalleria Gaio
Servilio che però non era presente al processo. E dopo aver ripercorso le
proprie gesta militari con un discorso magnifico, degno dell'altezza
dell'impresa, ponendo sullo stesso piano i fatti e le parole, si sarebbe denudato
il petto segnato dalle cicatrici ricevute in battaglia; poi, guardando
fisso il Campidoglio e invocando Giove e gli altri dèi, li
avrebbe pregati di intervenire in suo aiuto e di ispirare - in quel momento tanto critico
- nel popolo romano quella stessa disposizione d'animo che essi avevano
ispirato in lui quando aveva difeso la cittadella e il Campidoglio per la
salvezza del popolo romano; infine si sarebbe rivolto ai singoli e alla
comunità tutta, chiedendo loro di fissare lo sguardo in direzione del
Campidoglio e della rocca e di giudicare il suo caso con il pensiero
rivolto agli dèi immortali. Mentre nel campo Marzio il popolo
veniva chiamato a votare per centurie e l'imputato, con le mani tese verso il
Campidoglio, stava rivolgendo le sue preghiere agli dèi dopo averle
rivolte agli uomini, ai tribuni apparve chiaro che, se non avessero allontanato
dagli occhi della gente il ricordo di una gloria così grande, le
giuste accuse rivolte contro Manlio non avrebbero mai fatto presa in animi
riconoscenti per il bene ricevuto in passato. Così, dopo aver
aggiornato la seduta, essi convocarono un'assemblea del popolo nel bosco
Petelino, fuori dalla porta Flumentana, da dove non era possibile vedere il
Campidoglio. Lì le accuse risultarono efficaci e, facendo forza a se stessi,
i cittadini pronunciarono una sentenza che risultò dura e
dolorosa anche per chi l'aveva emessa. Alcuni autori sostengono che Manlio venne
condannato da una commissione di duumviri nominata per far luce sul
reato di alto tradimento. I tribuni lo fecero gettare giù dalla rupe
Tarpea, e così lo stesso luogo fu per uno stesso uomo il ricordo perenne di una
straordinaria fama e dell'estremo supplizio. Dopo la sua morte, gli
furono inflitti due marchi di infamia: uno di natura pubblica, perché, siccome
la sua casa era dove adesso sorgono il tempio e la zecca di Giunone
Moneta, fu presentata al popolo una legge in base alla quale nessun
patrizio potesse più andare ad abitare sulla rocca o sul Campidoglio; l'altro
fu invece di natura gentilizia, perché i membri della famiglia Manlia
decretarono che in futuro nessuno portasse più il nome di Marco
Manlio. Fu questa la fine di un uomo che, se non fosse nato in una città
libera, avrebbe lasciato traccia duratura di sé. E in breve tempo il popolo - dato
che adesso Manlio non era più una fonte di pericolo - cominciò a
rimpiangerlo ricordandone soltanto le qualità. Poco dopo
scoppiò una pestilenza che causò un numero massiccio di decessi per i quali non si riuscivano a
trovare ragioni plausibili e che alla maggior parte della gente sembravano
una conseguenza dell'esecuzione di Manlio: si pensava infatti che il
Campidoglio fosse stato contaminato dal sangue del suo salvatore e che gli
dèi non avessero gradito che fosse stato punito quasi di fronte ai loro
stessi occhi l'uomo che aveva strappato i loro templi dalle mani del
nemico. 21 Alla pestilenza tenne dietro una
carestia di frumento e - quando, nel corso dell'anno successivo, si diffuse
la notizia delle due calamità abbattutesi su Roma - scoppiò
una serie di guerre. I tribuni militari con potere consolare erano Lucio Valerio
(per la quarta volta), Aulo Manlio, Servio Sulpicio, Lucio Emilio (tutti e
tre per la terza volta), Lucio Lucrezio e Marco Trebonio. Fatta
eccezione per i Volsci, che parevano destinati dalla sorte a tenere in
costante attività l'esercito romano, oltre le colonie di Circei e di
Velletri che stavano ormai da tempo meditando la ribellione, e il Lazio di
cui si sospettava, si levarono all'improvviso come nemici i Lanuvini,
che fino a quel momento avevano dato prove di assoluta fedeltà.
Ritenendo che il motivo di questo comportamento fosse il disprezzo
(dovuto al fatto che il tradimento dei loro concittadini di Velletri era
rimasto tanto a lungo impunito), i senatori decisero di presentare di
fronte al popolo, alla prima occasione possibile, la proposta di dichiarare
guerra a Lanuvio. Perché la plebe fosse meglio disposta nei confronti di
questa campagna, essi affidarono a cinque commissari il cómpito di
dividere l'agro Pontino e ad altri tre quello di fondare una colonia a Nepi.
Poi venne chiesto al popolo di dichiarare la guerra e fu vana
l'opposizione da parte dei tribuni: tutte le tribù votarono a favore. La
guerra venne preparata nel corso di quell'anno, ma a causa della pestilenza
le truppe non lasciarono Roma. Questo ritardo avrebbe così
concesso ai coloni l'opportunità di supplicare il senato di desistere. Buona parte di
essi era favorevole all'invio di una delegazione a Roma con il cómpito
di implorare il perdono del senato: ma, come succede di solito, il pericolo
cui erano esposti pochi, personalmente, coinvolse la
comunità: i responsabili della rivolta - spaventati all'idea di risultare gli
unici colpevoli e di venir consegnati come capro espiatorio all'ira dei
Romani - convinsero i coloni ad abbandonare il progetto di pace. E non
si limitarono esclusivamente ad opporsi nel loro senato all'idea della
delegazione, ma incitarono buona parte del popolo a uscire dalla
città e ad andare a razziare le campagne romane. Questo nuovo affronto fece
cadere ogni speranza di pace. Nel corso di quell'anno cominciarono ad arrivare
voci di una ribellione da parte degli abitanti di Preneste. Non ostante
Tuscolani, Gabini e Labicani, i cui territori erano stato invasi dai Prenestini,
li accusassero apertamente, la reazione del senato fu
così moderata da far pensare che si credeva poco a simili accuse e non si
voleva ritenerle vere. 22 L'anno seguente i nuovi tribuni
militari con potestà consolare Spurio e Lucio Papirio guidarono le legioni
contro Velletri, mentre i loro quattro colleghi Servio Cornelio Maluginense
(eletto per la terza volta), Quinto Servilio, Gaio Sulpicio e Lucio Emilio
(per la terza volta) rimasero a difendere la città, pronti
all'eventualità che nuovi movimenti venissero segnalati dall'Etruria, zona dove ormai
tutto era sospetto. Nei pressi di Velletri i Romani affrontarono, con
successo, truppe ausiliarie mandate dai Prenestini, il numero delle quali
quasi era superiore a quello degli stessi coloni. La vicinanza della
città fu la causa di una più rapida fuga dei nemici e fu per loro l'unico
riparo. I tribuni decisero di evitare l'assedio della piazzaforte sia per
l'incertezza dell'esito sia nella convinzione che non fosse giusto mirare
alla distruzione di una colonia. Nella lettera che fecero pervenire al
senato per annunciare la vittoria, essi usarono espressioni di maggiore
durezza nei confronti dei Prenestini che dei Veliterni. Così, per
decreto del senato e per ordine del popolo, venne dichiarata guerra ai Prenestini.
Questi ultimi, alleatisi l'anno successivo con i Volsci, attaccarono
Satrico, colonia del popolo romano, e, dopo averla espugnata con la forza
non ostante la strenua resistenza degli abitanti, abusarono della
vittoria comportandosi indegnamente nei confronti dei prigionieri. La cosa
indignò i Romani che decisero di nominare per la sesta volta tribuno
militare Marco Furio Camillo, cui vennero assegnati come colleghi Aulo e
Lucio Postumio Regillense, Lucio Furio, Lucio Lucrezio e Marco Fabio
Ambusto. Senza rispettare la regola, la guerra contro i Volsci venne
affidata con procedura straordinaria a Marco Furio, cui fu assegnato come
aiutante - estratto a sorte tra gli altri tribuni - Lucio Furio, non tanto
per il bene del paese quanto piuttosto perché potesse essere origine
di ogni tipo di elogio per il collega sia dal punto di vista
pubblico, visto che riuscì a rimettere in piedi la situazione compromessa dalla
temerarietà dell'altro, che da quello privato, perché utilizzò
l'errore di Lucio per ottenerne la riconoscenza piuttosto che procurarsi
della gloria per se stesso. Camillo, ormai avanti negli anni, era pronto, al
momento dell'elezione, a giurare secondo le formule di rito che ragioni
di salute lo obbligavano a rifiutare la carica: ma il popolo,
unanimemente, si oppose. In quel petto fervido albergava un carattere energico
e le sue facoltà vitali erano perfettamente intatte. Oltretutto, pur
non occupandosi più molto di politica, le cose della guerra lo
infiammavano ancora. Così, dopo aver arruolato quattro legioni di
quattromila uomini ciascuna, le convocò per il giorno successivo presso la porta
Esquilina e quindi partì alla volta di Satrico. Lì quelli che
avevano espugnato la colonia lo stavano aspettando senza il minimo timore
reverenziale, fiduciosi com'erano nella netta superiorità numerica che
vantavano. Non appena videro i Romani avanzare verso di loro, si schierarono
súbito in assetto di battaglia, decisi a non rimandare più oltre
uno scontro decisivo. Così facendo essi ritenevano che il numero ridotto dei
nemici non avrebbe trovato alcun supporto nell'abilità militare
del loro generale, che al momento ne rappresentava il solo punto di forza. 23 Lo stesso ardore animava l'esercito
romano e il secondo comandante, e le sole cose che ritardassero il
rischio di uno scontro immediato erano l'assennatezza e l'autorità di
un unico uomo, che, sforzandosi di prolungare la campagna, cercava
l'occasione per supplire all'inferiorità delle forze con qualche mossa tattica.
Per questo il nemico aumentava ancora di più la pressione e non
si limitava soltanto a spiegare le truppe di fronte all'accampamento, ma avanzava
anche in mezzo alla pianura e si spingeva quasi fino sotto il terrapieno
dei romani, ostentando un'orgogliosa fiducia nelle proprie
forze. I soldati romani mal tolleravano queste esibizioni, ma la
cosa costava ancora più fatica al secondo comandante, Lucio Furio, uomo
impetuoso per ragioni di età e di carattere, ed esaltato dalla speranza
della massa, cui la grande incertezza della situazione infondeva
coraggio. Anche se i soldati erano già di per sé infiammati, egli
li sobillava screditando il prestigio del collega nell'unico modo possibile, e
cioè sul piano dell'età. Continuava infatti a ripetere che le guerre sono
fatte per i giovani e che gli animi prendono vigore e sfioriscono con il
corpo. Il più accanito dei combattenti si stava trasformando in un
temporeggiatore, uno solito in passato a impadronirsi al primo assalto
degli accampamenti e delle città presso le quali arrivava, adesso se ne
stava a perder tempo, inerte, dentro al vallo. Cosa sperava? Di
accrescere le proprie forze o che diminuissero quelle nemiche? Quale
occasione propizia, quale momento favorevole stava attendendo, e quale
imboscata stava preparando? Le idee del vecchio erano fredde e lente.
Camillo aveva avuto lunga vita e gloria: ma allora perché permettere che le
forze di un paese destinato all'immortalità deperissero
insieme col corpo mortale di un unico uomo? Dopo essersi conquistato con discorsi
di questo tipo la simpatia di tutto l'accampamento, e poiché da ogni parte
si invocava la battaglia, Lucio Furio aggiunse: «Non possiamo, o Marco
Furio, frenare più a lungo l'entusiasmo dei soldati, mentre il
nemico, di cui abbiamo incrementato il coraggio a forza di indugiare, ormai ci
offende con un'intollerabile arroganza. Fatti da parte, visto che
sei solo contro tutti, e lasciati vincere dal buon senso, in modo da
vincere più rapidamente in guerra.» A queste parole Camillo replicò
che nelle guerre combattute fino a quel giorno sotto i suoi soli auspici, né il
popolo romano né lui stesso si erano mai pentiti delle sue risoluzioni
o della sua buona sorte; sapeva di avere ora un collega con pari diritti e
autorità, ma superiore per il vigore dovuto alla giovane età.
Perciò, pur essendo abituato - almeno in ciò che riguardava l'esercito -
a comandare e non a essere comandato, non aveva il potere di ostacolare
l'autorità del collega. Agisse, dunque, con l'aiuto degli dèi, come riteneva
più vantaggioso per la repubblica: egli, per parte sua, domandava di non andare
in prima linea in considerazione dell'età, garantendo però
che non sarebbe venuto meno agli obblighi di un anziano in guerra. Agli dèi
immortali chiedeva solo questo: che un disgraziato caso non facesse
rimpiangere i suoi piani. Ma né gli uomini dettero ascolto a
queste parole di salvezza, né gli dèi esaudirono una preghiera così
pia. Il fautore dello scontro schierò la prima linea, mentre Camillo
assicurò la copertura delle retrovie, disponendo un solido contingente di
fronte all'accampamento. Poi si andò a piazzare su un'altura, osservando con
attenzione i risultati dell'altrui strategia. 24 Appena risuonarono al primo scontro
le armi, i nemici indietreggiarono, non tanto per paura quanto per una
calcolata astuzia. Alle loro spalle c'era un lieve rialzo del terreno tra
il campo di battaglia e l'accampamento. Siccome avevano uomini
in eccesso, avevano schierato nell' accampamento alcune coorti armate, il
cui cómpito sarebbe stato quello di uscire allo scoperto nel caso in cui, a
battaglia già in pieno svolgimento, i nemici si fossero
avvicinati alla trincea. I Romani, essendosi buttati in maniera
disordinata all'inseguimento dei nemici in ritirata, vennero attirati in una
posizione svantaggiosa, esponendosi così a quel tipo di sortita. Il terrore
investì chi si credeva vincitore: sia per la comparsa del nuovo nemico, sia
per il declivio del fondovalle, la schiera romana cominciò a
cedere, incalzata dalle forze fresche dei Volsci che avevano operato la sortita, alle
quali si andarono ad aggiungere di rincalzo anche gli altri che si erano
ritirati simulando la fuga. I soldati romani non riuscivano
più a riprendersi. Dimentichi della baldanza di poco prima e delle antiche glorie,
volgevano le spalle da ogni parte e correvano all'impazzata in direzione
dell'accampamento. In quel preciso istante Camillo, fattosi mettere in
sella da quelli che gli stavano intorno, dopo aver buttato
frettolosamente nella mischia i riservisti ai suoi ordini: «È questo,»
gridò, «soldati, il tipo di battaglia che volevate? C'è qualcuno tra gli
uomini, tra gli dèi che ora possiate accusare? Vostra è stata la
temerarietà di prima, così come vostra è adesso la viltà. Avete seguito un
altro comandante: ora seguite Camillo e, com'è vostra abitudine quando
sono io al comando, vincete. Perché fissate la trincea e l'accampamento? Nessuno di
voi ci entrerà, se non da vincitore.» Prima la vergogna arrestò le truppe
in fuga. Poi, quando videro che gli stendardi si rivolgevano in avanti e
che le schiere puntavano contro il nemico, e che il loro comandante,
famoso per i molti trionfi ottenuti e venerando per età, si esponeva
al pericolo in mezzo ai vessilliferi, cioè là dove il rischio e
l'intensità della battaglia erano elevatissimi, cominciarono a incitarsi
reciprocamente, e il grido di mutuo incoraggiamento si diffuse per tutto
l'esercito con animoso clamore. Non venne a mancare l'apporto neppure
dell'altro tribuno. Anzi, inviato a incitare la cavalleria dal collega
impegnato nel frattempo a riordinare la fanteria, Lucio Furio, senza ricorrere
ai rimproveri - visto che la sua corresponsabilità nella loro
colpa avrebbe privato di efficacia un atteggiamento di quel tipo -, ma
passando dagli ordini alle preghiere, li scongiurò uno per uno e tutti
insieme di evitargli l'incriminazione come responsabile dell'infausta sorte di
quel giorno. «Non ostante», disse, «l'opposizione e la resistenza del mio
collega, ho preferito associarmi all'imprudenza di tutti piuttosto che
all'assennatezza di un solo uomo. Camillo, qualunque sia l'esito della
vostra battaglia, ne avrà gloria. Io invece, se la situazione non si
ristabilisce, avrò modo di sperimentare quanto di più infelice vi
può essere, e cioè dividere con voi tutti la sconfitta, ma subire da solo il peso
dell'infamia.» Siccome la linea del fronte ondeggiava, sembrò che la
cosa più opportuna fosse abbandonare i cavalli e attaccare il nemico a piedi.
Rifulgendo per le armi e il coraggio, i cavalieri appiedati si
diressero dove le schiere di fanti erano sottoposte alla massima
pressione. Né i comandanti né i soldati si concessero un attimo di tregua in
quello scontro durissimo, e l'apporto offerto dai loro sforzi valorosi si
fece sentire nell'esito finale. I Volsci vennero sbaragliati e costretti
a una vera fuga in quel punto dove prima avevano finto di ritirarsi per
paura. Gran parte di essi fu uccisa sia nel corso della battaglia, sia
durante la successiva fuga. Gli altri vennero ammazzati nell'accampamento,
conquistato a séguito di quella stessa carica. Tuttavia il numero dei
prigionieri superò quello dei caduti. 25 Durante la rassegna alcuni
prigionieri vennero riconosciuti come Tuscolani: furono separati dagli altri
e condotti di fronte ai tribuni, alle cui domande risposero di aver
preso parte a quella guerra a séguito di una deliberazione pubblica.
Preoccupato da una guerra con una popolazione così vicina, Camillo
dichiarò che avrebbe immediatamente portato i prigionieri a Roma, affinché
i senatori venissero informati che i Tuscolani avevano rotto l'alleanza.
Nel frattempo il collega, se non aveva nulla in contrario, assumesse il
comando dell'accampamento e dell'esercito. Un solo giorno era
bastato per insegnare a Lucio Furio a non anteporre la propria decisione a
progetti più assennati. Tuttavia né lui né nessun altro all'interno
dell'esercito supponeva che Camillo gli avrebbe tranquillamente lasciato
passare l'errore per cui il paese si era trovato in una situazione tanto
disperata. E non solo nell'esercito, ma anche a Roma tutti erano d'accordo
nell'affermare che, nella varia fortuna dell'azione contro i Volsci, la colpa
dell'insuccesso momentaneo e della fuga era di Lucio Furio, mentre
l'intero merito per la vittoria toccava a Camillo. Ma quando i prigionieri
vennero introdotti in senato e i senatori, dopo aver deciso di punire i
Tuscolani con la guerra, ne affidarono il comando a Camillo, questi
chiese di poter avere un collaboratore per quell'impresa, ed
essendogli stato concesso di scegliere il collega che preferiva, contro le
previsioni di tutti egli optò per Lucio Furio. E se con questo gesto di
moderazione Camillo cancellò il disonore del collega, nel contempo
procurò a se stesso grande gloria. Ma coi Tuscolani non si arrivò
alla guerra: grazie a una condotta stabilmente pacifica, essi evitarono la
violenza dei Romani a cui non avrebbero potuto resistere con le armi.
Quando i Romani fecero ingresso nel loro territorio, essi non fuggirono
dalle zone vicine alla direzione di marcia, non interruppero i lavori
nei campi, e lasciando aperte le porte della città, andarono
incontro ai comandanti in gran folla e vestiti in abiti civili. Dalla città e
dalle campagne vennero generosamente portati nell'accampamento viveri per
l'esercito. Posto il campo di fronte alle porte, Camillo, desiderando sapere
se anche all'interno delle mura appariva la stessa aria di pace che si
ostentava nelle campagne, entrò in città. Lì vide le porte
delle case spalancate, le botteghe aperte, con tutta la mercanzia bene in vista, gli
artigiani impegnati ciascuno nel proprio lavoro, le scuole che
risuonavano per le voci degli scolari, le strade piene di gente con donne e
bambini mescolati tra la folla e diretti là dove i rispettivi impegni li
chiamavano, il tutto senza avvertire da nessuna parte non solo alcun segno di
paura ma nemmeno di stupore. Camillo si guardava intorno con attenzione,
cercando di scoprire le tracce tangibili di una guerra imminente. Ma
non c'era alcun segno di cose spostate o preparate per l'occasione.
Anzi tutto era così immerso in una quiete pacifica e costante, che
sembrava impossibile vi fosse anche solo arrivata una qualche notizia della
guerra. 26 Vinto così dall'atteggiamento
passivo dei nemici, ordinò che venisse convocata una seduta del loro senato.
«Cittadini di Tuscolo,» disse, «fino a oggi voi siete stati i soli ad aver
scoperto quali siano le vere armi e le vere risorse con cui proteggere le
vostre cose dall'ira dei Romani. Andate a Roma e presentatevi al senato:
i senatori valuteranno se abbiate meritato più la punizione in
passato che non il perdono adesso. Io non voglio anticipare un beneficio che
dev'essere concesso dallo Stato. Ciò che potrete avere da me è
l'opportunità di chiedere perdono al senato, che si riserverà di esaudire le
vostre preghiere nella maniera che gli sembrerà più opportuna.» Quando i Tuscolani arrivarono a Roma e
i senatori di un popolo un tempo alleato fedele si presentarono mesti
nell'ingresso della curia, i membri del senato, colpiti da quella vista,
ordinarono di farli entrare immediatamente più come ospiti
che come nemici. Il dittatore di Tuscolo si
rivolse a loro con queste parole: «Noi, ai quali voi avete dichiarato
e portato guerra, o padri coscritti,
siamo andati incontro alle vostre legioni e ai vostri comandanti con le
stesse armi e la stessa preparazione con le quali adesso ci vedete qui in
piedi nel vestibolo della vostra curia. Questa è sempre stata e
continuerà a essere la caratteristica nostra e del nostro popolo, salvo i
casi in cui si prendano le armi su vostra richiesta e in vostra difesa. Ringraziamo
i vostri comandanti e le vostre truppe per essersi fidati
più degli occhi che delle orecchie, e per non aver dimostrato ostilità
là dove non ce n'era nei loro stessi confronti. A voi chiediamo quella pace
di cui noi abbiamo dato prova. La guerra vi preghiamo di rivolgerla
là dove ci sia. Se è destino che a noi tocchi sperimentare ciò di cui
sono capaci le vostre armi, allora lo sperimenteremo da disarmati. Queste
sono le nostre intenzioni, e vogliano gli dèi ch'esse siano tanto
fortunate quanto sincere. Per quel che poi concerne le accuse che vi hanno spinto
a dichiararci guerra, pur non servendo a nulla confutare a parole
ciò che i fatti hanno già smentito, tuttavia, anche se fossero state vere,
siamo dell'avviso che, di fronte a un pentimento tanto evidente quanto il
nostro, non sarebbe pericoloso dichiararsi colpevoli. Si commettano
pure delle mancanze nei vostri confronti, purché continuate a esser
degni di ricevere richieste di perdono quali la nostra.» Il discorso
dei Tuscolani fu più o meno di questo tenore. Per il momento venne
loro garantita la pace, mentre non molto tempo dopo ottennero anche la
cittadinanza. Le legioni vennero
richiamate da Tuscolo. 27 Camillo, copertosi di gloria sia per
il coraggio e il senno dimostrati nella guerra contro i Volsci nonché il
fortunato esito della spedizione contro Tuscolo, sia per l'indulgenza e
la moderazione avute nei confronti del collega in entrambe le occasioni,
abbandonò la propria carica quando vennero eletti tribuni militari per
l'anno successivo Lucio e Publio Valerio (il primo per la quinta e il
secondo per la terza volta), Gneo
Sergio (per la terza volta), Licinio Menenio, Publio Papirio e Servio Cornelio Maluginense. Quell'anno si
rese anche necessaria l'opera dei censori, soprattutto sulla base di
incerte voci circolanti sull'entità dei debiti, con i tribuni della plebe che
esageravano per accrescere il malcontento, mentre la sminuiva chi
aveva interesse a far sembrare la concessione di prestiti messa in
pericolo più dalla scarsa affidabilità dei debitori che dalla loro indigenza.
Vennero eletti censori Gaio Sulpicio Camerino e Spurio Postumio
Regillense, ma il censimento già iniziato venne interrotto per la morte
di Postumio, perché gli scrupoli religiosi vietavano di nominare un
collega in sostituzione. Così, avendo Sulpicio rinunziato alla carica,
vennero eletti dei nuovi censori, ma essendoci un vizio nell'elezione, non
entrarono in funzione. Gli scrupoli religiosi, fondati sulla convinzione
che gli dèi non volessero la censura per quell'anno, impedirono una terza
elezione. Ma i tribuni della plebe sostenevano di non poter tollerare che
li si prendesse in giro in quella maniera. A loro detta, il senato voleva
evitare che le tavole esposte in pubblico documentassero il censo
individuale, per impedire così che si venisse a conoscenza dell'ammontare del
debito, cosa questa destinata a dimostrare come metà del paese
fosse stata affossata dall'altra metà, mentre la plebe oberata dai debiti
veniva nel frattempo mandata allo sbaraglio contro un nemico dopo
l'altro. Ormai non c'era più alcun limite nel ricercare focolai di guerra
dappertutto: da Anzio le legioni erano state condotte a Satrico, da Satrico a
Velletri e di lì a Tuscolo. Adesso minacciavano di guerra i Latini, gli
Ernici e i Prenestini più per odio verso i cittadini romani che verso i
nemici, nell'intento di logorare i plebei con campagne militari impedendo
loro di tirare il fiato in città o di pensare con calma alla
libertà, o ancora di partecipare alle assemblee popolari, dove ogni tanto potessero
sentire la voce dei tribuni che reclamavano l'abolizione dell'usura e
la fine delle altre ingiustizie perpetrate nei loro confronti. Ma se i
plebei fossero stati in grado di ricordarsi della libertà dei
padri, non avrebbero permesso che alcun cittadino romano fosse aggiudicato come
schiavo per motivi di denaro preso in prestito, né che venissero
organizzate leve militari fino a quando, accertato l'importo dei debiti e
adottato qualche criterio per diminuirlo, ciascuno non sapesse cosa apparteneva a
lui e cosa agli altri, e se la sua persona era ancora libera o se anche
essa risultava destinata al carcere. Il premio proposto per i disordini li
fece scoppiare immediatamente. Infatti, mentre erano molti i debitori
assegnati come schiavi, e mentre i senatori avevano votato l'arruolamento
di nuove legioni sulla base di voci circa una guerra da parte di Preneste,
si cercò di ostacolare contemporaneamente questi due
provvedimenti con l'aiuto dei tribuni e il consenso della plebe: i tribuni infatti
non permettevano che i debitori insolventi venissero trascinati via, e
i più giovani non andavano a arruolarsi. Anche se i senatori si
preoccupavano per il momento meno di far valere la legge sul debito che non
della leva militare - e non a torto, visto che stando alle notizie
pervenute i nemici erano già partiti da Preneste e si erano accampati nel
territorio di Gabi -, questa stessa voce era stata per i tribuni della
plebe più un incentivo per la lotta intrapresa che un vero deterrente;
perché i disordini scoppiati in città si placassero fu necessario che la
guerra arrivasse a pochi passi dalle mura stesse di Roma. 28 Non appena i Prenestini vennero
informati che a Roma non era stato arruolato alcun esercito, che non era
stato designato un comandante e che patrizi e plebei erano in lotta gli uni
contro gli altri, i loro capi ne dedussero che si trattava
dell'occasione buona e, dopo aver messo rapidamente in movimento le truppe,
devastarono le campagne incontrate durante la marcia di avvicinamento e
avanzarono fino alla porta Collina. Grande fu il panico in città.
Venne dato l'allarme e si corse verso le mura e le porte. Poi, passati
finalmente dai disordini interni ad occuparsi della guerra, elessero
dittatore Tito Quinzio Cincinnato, che scelse come maestro di cavalleria Aulo
Sempronio Atratino. Appena la notizia si diffuse - tanto era il
terrore che questa magistratura riusciva a incutere -, immediatamente i nemici
si allontanarono dalle mura e i giovani romani in età militare
risposero alla leva senza più opporre resistenza. Mentre a Roma veniva arruolato
l'esercito, i nemici si andarono ad accampare non lontano dal fiume Allia.
Da quel punto saccheggiando in lungo e in largo le campagne dei
dintorni, si vantavano fra di loro di aver occupato una posizione fatale alla
città di Roma: a loro detta lì ci sarebbe stata un'altra rotta
spaventosa, simile a quella verificatasi durante la guerra contro i Galli. Se
infatti i Romani temevano quel giorno maledetto e reso celebre dal nome della
località, quanto più del giorno Alliense avrebbero essi temuto l'Allia
stesso, che era il ricordo tangibile di una così grande
disfatta? Erano sicuri che in quel luogo i Romani si sarebbero visti davanti agli
occhi i volti truci dei Galli e ne avrebbero riudito le urla con le
orecchie. A forza di perdersi in queste vacue riflessioni su vacui argomenti, i
Prenestini avevano riposto ogni loro speranza nella fortuna del luogo.
I Romani al contrario avevano l'assoluta certezza che, dovunque si
trovasse il nemico latino, si trattava pur sempre di quello stesso
nemico battuto presso il lago Regillo e costretto a una disonorevole pace per
un periodo di cent'anni. Un luogo la cui fama era legata al ricordo di
una disfatta li avrebbe stimolati a cancellare la memoria di quella
vergogna, piuttosto che a temere l'esistenza di un qualche infausto terreno
che negava la vittoria ai Romani. Non c'erano dubbi: se anche i
Galli stessi si fossero presentati lì, avrebbero combattuto come
quando avevano combattuto a Roma per riconquistare la patria o come il
giorno successivo a Gabi, quando avevano fatto in modo che nessun nemico entrato
all'interno delle mura di Roma potesse riportare in patria la notizia
della buona e della cattiva sorte. 29 Gli stati d'animo delle due parti
erano questi, quando si giunse all'Allia. Il dittatore romano, non
appena apparvero alla vista i nemici inquadrati in ordine di battaglia e
pronti a combattere, disse: «Non vedi, Aulo Sempronio, che si sono fermati
lungo l'Allia riponendo ogni loro speranza nella fortuna del luogo? Ma
gli dèi immortali non concedano loro nessun altro più sicuro motivo
di sicurezza né un aiuto più valido di questo! Tu confida invece nelle armi e
nel valore, e carica con la cavalleria il centro del loro
schieramento. Quanto a me, li attaccherò quando saranno sconvolti e spaventati.
O dèi, testimoni dei patti, assisteteci e fate scontare la pena
dovuta a coloro che hanno offeso empiamente voi e ingannato noi nel
vostro sacro nome.» I Prenestini non riuscirono a reggere l'urto né della
cavalleria né della fanteria. Le loro file vennero sbaragliate al primo
scontro accompagnato dall'urlo di guerra. Poi, visto che il loro
schieramento cedeva in ogni punto, si voltarono dandosi alla fuga. Nello
scompiglio lo spavento li spinse a superare addirittura l'accampamento e
non riuscirono a frenare la loro corsa disordinata se non quando
giunsero alla vista di Preneste. Lì i resti sparpagliati della rotta
occuparono una posizione con l'intento di fortificarla in fretta e furia, per
evitare che, andandosi a barricare all'interno delle mura, le campagne
venissero messe a ferro e fuoco e che dopo aver devastato ogni cosa, i Romani
assediassero la città. Ma appena apparvero i Romani reduci dalla
distruzione dell'accampamento nemico presso l'Allia, i Prenestini
abbandonarono anche quella posizione e, convinti che le mura garantissero ben
poca protezione, si barricarono all'interno della cittadella. Altre
otto città si trovavano sotto il dominio di Preneste. I Romani
allargarono la guerra contro questi centri e, dopo averli conquistati uno dopo
l'altro senza eccessivi sforzi, marciarono contro Velletri e la
conquistarono nella stessa maniera. Fu allora che tornarono a Preneste, vero
centro del conflitto, conquistandola però non con la forza ma a
séguito di volontaria capitolazione. Tito Quinzio, dopo aver trionfato in una
battaglia campale, catturato due accampamenti nemici, conquistato con la
forza nove città, e accettato la resa di Preneste, ritornò a
Roma, dove portò in trionfo sul Campidoglio la statua di Giove Imperatore da lui
sottratta a Preneste e che fu collocata all'interno del tempio, tra le celle di
Giove e di Minerva. Al di sotto della statua venne poi affissa una
tavoletta che a commemorazione delle sue gesta recava un'iscrizione contenente
più o meno queste parole: «Giove e tutti gli altri dèi concessero
al dittatore Tito Quinzio di conquistare nove città». A venti giorni di
distanza dall'elezione, egli rinunciò alla dittatura. 30 Si tennero poi le elezioni dei
tribuni militari con potestà consolare, nelle quali patrizi e plebei ebbero un
numero uguale di eletti. Tra i patrizi ottennero la nomina Publio e
Gaio Manlio insieme a Lucio Giulio; la plebe fornì invece come
magistrati Gaio Sestilio, Marco Albinio e Lucio Antistio. I due Manli erano superiori
ai colleghi plebei per nobiltà di natali e a Lucio Giulio per
autorevolezza. Così, con una procedura straordinaria, venne loro affidata la
campagna contro i Volsci, senza fare ricorso al sorteggio o all'accordo
preventivo tra i colleghi (assegnazione questa di cui in séguito si dovettero
pentire sia loro stessi sia i senatori che l'avevano concessa). Essi
inviarono delle coorti a fare rifornimento di foraggio senza
però aver prima effettuato delle ricognizioni. Giunta la falsa notizia
che le coorti erano state accerchiate, si affrettarono a portare
loro aiuto, e, senza nemmeno tener sotto sorveglianza l'informatore (si trattava
di un nemico latino che li aveva ingannati facendosi passare per
un soldato romano), caddero in un'imboscata. Mentre lì,
resistendo, anche se attestati in una posizione svantaggiosa, grazie al solo coraggio
degli uomini, subivano grosse perdite ma ne infliggevano altrettante,
dalla parte opposta i nemici attaccarono l'accampamento romano
situato in pianura. Nell'uno e nell'altro episodio, la causa romana
venne tradita dall'avventatezza e dall'inesperienza dei comandanti.
Ciò che restava della buona sorte del popolo romano, venne salvato dal sicuro
valore dei soldati che continuavano a battersi non ostante
fossero privi di una guida. Non appena giunse a Roma la notizia di questi avvenimenti,
la prima reazione fu quella di nominare un dittatore. Poi
però, quando si venne a sapere che nel territorio dei Volsci la situazione
era sotto controllo e risultò evidente che il nemico non aveva saputo
sfruttare la vittoria e l'occasione favorevole, vennero
richiamate le truppe e i comandanti che si trovavano in quella zona e da qual
momento in poi non ci furono più problemi almeno per quel che riguardava
i Volsci. L'unico motivo di allarme - verso la fine dell'anno - fu
rappresentato da una ribellione dei Prenestini che spinsero i popoli latini
alla rivolta. Nel corso di quello stesso anno vennero
iscritti dei nuovi coloni per la città di Sezia, visto che i suoi
abitanti si lamentavano della penuria di popolazione. Gli insuccessi in campo
militare vennero compensati dalla pace interna, ottenuta grazie
all'influenza e al prestigio di cui i tribuni militari plebei godevano presso
la plebe. 31 All'inizio dell'anno successivo,
sotto il tribunato militare di Spurio Furio, Quinto Servilio (per la seconda
volta), Lucio Menenio (per la terza), Publio Clelio, Marco Orazio e
Lucio Geganio, scoppiarono gravi disordini, il cui oggetto e la cui
causa erano rappresentati dai debiti. Spurio Servilio Prisco e Quinto Clelio
Siculo vennero nominati censori per poterne accertare l'entità, ma
la guerra impedì loro di accingersi al cómpito. Infatti prima dei messaggeri
spaventati, poi i villici in fuga dalle campagne riferirono che le
legioni dei Volsci avevano superato il confine e stavano dovunque mettendo a
ferro e fuoco la campagna romana. Non ostante questa situazione
d'allarme, la minaccia proveniente dall'esterno fu tanto lontana dal
frenare gli scontri interni, che al contrario i tribuni della plebe
ostacolarono la leva con ancora maggiore determinazione, fino a quando furono
imposte ai patrizi queste condizioni, che per tutta la durata del conflitto
nessuno avrebbe pagato il tributo di guerra né avrebbe potuto essere
processato per questioni di debiti contratti. Dopo aver ottenuto per la
plebe queste concessioni, cessò l'ostruzionismo alla leva. Una volta
arruolate le nuove legioni, si decise di inviare due eserciti nel territorio
dei Volsci, dividendo però le forze: Spurio Furio e Marco Orazio
marciarono verso destra, in direzione della costa e di Anzio, mentre Quinto
Servilio e Lucio Geganio si portarono a sinistra, verso le montagne
ed Ecetra. In nessuna delle due parti il nemico si fece incontro.
Pertanto si buttarono a saccheggiare le campagne, ma non in fretta e
disordinatamente, da banditi, come avevano fatto i Volsci, i quali contavano sulle
discordie degli avversari, ma ne temevano il valore, bensì come
un esercito legittimo, mosso da ira legittima e più devastante negli
effetti per il fatto di impiegare più tempo nell'operazione. Infatti i Volsci
avevano fatto scorrerie al limite estremo del territorio romano, per
paura che nel frattempo l'esercito avversario potesse uscire da Roma. Al
contrario i Romani si trattenevano in territorio nemico per attirare i Volsci
allo scontro. Così, dopo aver incendiato tutte le fattorie sparse nei
campi e anche alcuni villaggi, senza lasciare in piedi nemmeno un
albero da frutto e distruggendo i seminati che ancora potessero far
sperare nel raccolto, i due eserciti si portarono via come bottino tutti gli
uomini e gli animali catturati al di fuori delle mura e quindi tornarono a
Roma. 32 Ai debitori era stato dato un po' di
tempo per tirare il fiato. Ma non appena cessarono le ostilità, i
tribunali cominciarono di nuovo a funzionare a pieno ritmo, e la speranza
di essere alleggeriti dai vecchi debiti era così lontana che se
ne dovettero contrarre di nuovi per pagare una tassa imposta per la costruzione di
un muro di blocchi squadrati, opera appaltata dai censori. La plebe
fu costretta a piegarsi a questo onere fiscale perché i tribuni non
avevano alcuna leva militare da ostacolare. I nobili, grazie ai loro
potenti mezzi, riuscirono a costringere il popolo a eleggere
tribuni militari tutti patrizi. I loro nomi erano: Lucio Emilio, Publio
Valerio (eletto per la quarta volta), Gaio Veturio, Servio Sulpicio, Lucio e
Gaio Quinzio Cincinnato. Sempre grazie ai loro mezzi, i patrizi
riuscirono - senza che nessuno si opponesse - a far prestare giuramento a
tutti i giovani in età militare e ad arruolare così tre eserciti
da opporre a Latini e Volsci che avevano unito le proprie truppe e si erano
accampati nei pressi di Satrico. Un esercito era destinato alla difesa
della città. Il secondo doveva tenersi pronto per ogni improvvisa emergenza di
guerra, nel caso si fossero verificati da qualche parte dei
movimenti ostili. Il terzo, che era di gran lunga il più forte, fu
fatto marciare alla volta di Satrico agli ordini di Publio Valerio e di Lucio
Emilio. Avendo lì trovato il nemico schierato a battaglia in un luogo
pianeggiante, si venne súbito alle armi. E
anche se la vittoria non era ancora sicura, ciò non ostante lo scontro
faceva nutrire buone speranze, quando
venne interrotto da violenti scrosci di pioggia scatenatisi a séguito di un
grosso temporale. Venne ripreso il giorno dopo e per qualche tempo
soprattutto le legioni latine, abituate dalla lunga alleanza alla tecnica
militare romana, riuscirono a resistere con pari coraggio e fortuna. Ma
l'arrivo della cavalleria gettò lo scompiglio tra le file nemiche, e nel
pieno del disordine ci fu l'attacco della fanteria. Non appena le sorti
della lotta volsero in loro favore, l'impeto dei Romani divenne
insostenibile. I nemici, una volta sbaragliati, invece di ritirarsi
nell'accampamento, cercarono di raggiungere Satrico, che distava due
miglia da quel punto, e vennero massacrati soprattutto dai cavalieri.
Il loro accampamento fu preso e saccheggiato. Nel corso della notte
successiva alla battaglia, i nemici raggiunsero Anzio da Satrico con una
marcia che assomigliava molto a una fuga. E non ostante l'esercito romano
seguisse da vicino le loro tracce, la paura dimostrò di essere
più veloce dell'ira. Così i nemici riuscirono a entrare all'interno delle mura prima
che i Romani potessero agganciare o bloccare la loro retroguardia. Alcuni
giorni furono poi dedicati al saccheggio delle campagne dei dintorni,
perché i Romani non erano sufficientemente equipaggiati per
attaccare le mura e i nemici per affrontare il rischio di una battaglia. 33 Allora tra Anziati e Latini sorse
una contesa, perché i primi, schiacciati dalle proprie disgrazie e
logorati da una guerra che li aveva visti nascere e invecchiare, aspiravano
alla resa, mentre i secondi, ribellatisi di recente dopo un lungo
periodo di pace e interiormente ancora pieni di energie, erano quanto
mai decisi a continuare la guerra con accanimento. La contesa
terminò quando entrambe le parti si resero conto che nessuna delle due parti
poteva impedire in alcun modo all'altra di attuare le proprie decisioni. I
Latini se ne andarono, evitando di partecipare a quella che consideravano
una pace vergognosa. Gli Anziati, invece, una volta liberati da scomodi
arbitri dei loro salutari progetti, consegnarono la città e le
campagne ai Romani. La rabbia e il risentimento dei Latini, che non erano riusciti né a
danneggiare i Romani con la guerra né a convincere i Volsci a restare in
armi, esplosero con tale violenza da dare alle fiamme Satrico, la
città che era stata il loro primo rifugio dopo la sconfitta. Siccome lanciarono
le loro torce incendiarie senza distinzione alcuna tanto sugli edifici
profani quanto su quelli sacri, la sola costruzione di Satrico che rimase
in piedi fu il tempio della Madre Matuta. Stando alla leggenda,
ciò che li tenne lontani da questo edificio non fu né lo scrupolo religioso né la
reverenza nei confronti degli dèi, ma una voce spaventosa uscita dal
tempio che li minacciava di funeste conseguenze, nel caso in cui non
avessero tenuto il fuoco sacrilego a debita distanza dal santuario. Accesi
da quella feroce rabbia, i Latini rivolsero la propria furia contro
Tuscolo e i suoi abitanti, perché dopo aver abbandonato la comune unione dei
Latini, avevano accettato non solo di essere alleati, ma anche cittadini
di Roma. Trattandosi di un attacco del tutto imprevisto, le porte erano
aperte e così, al primo urlo di battaglia, la città venne
conquistata interamente, tranne la rocca. Lì si andarono a rifugiare i cittadini con
mogli e figli e di lì inviarono a Roma dei messaggeri per informare il
senato della loro situazione. Con una tempestività degna della
lealtà del popolo romano, venne inviato a Tuscolo un esercito agli ordini dei tribuni
militari Lucio Quinzio e Servio Sulpicio. Essi trovarono le porte di
Tuscolo chiuse e i Latini contemporaneamente nello stato d'animo
sia di assediati che di assedianti: da un lato proteggevano le mura della
città, dall'altro ne assediavano la rocca, e insieme minacciavano e
temevano. L'arrivo dei Romani aveva modificato l'umore di entrambe le
parti: i Tuscolani erano passati dalla disperazione più totale al
culmine della gioia, i Latini, dalla certezza quasi assoluta di prender presto la
rocca, in quanto si erano già impadroniti della città, a una
ben scarsa speranza di salvare se stessi. Dalla rocca i Tuscolani alzarono un
grido di guerra cui fece eco uno ancora più forte da parte
dell'esercito romano. Pressati da entrambe le parti, i Latini non riuscirono né a
sostenere la carica dei Tuscolani che si abbatterono su di loro calando
dall'alto della rocca, né a resistere ai Romani che stavano invece scalando le
mura e cercando di sfondare le porte sbarrate. Prima furono prese le mura,
con l'ausilio di scale. Poi furono spezzate le sbarre delle porte. Siccome
i Latini erano pressati sia alle spalle che di fronte e non avevano
più forza per combattere né spazio per darsi alla fuga, vennero presi nel
mezzo e massacrati dal primo all'ultimo. Dopo aver strappato Tuscolo
al nemico, l'esercito venne ricondotto a Roma. 34 Quanto più l'esito favorevole
delle guerre di quell'anno aveva assicurato la tranquillità
esterna, tanto più aumentavano in città giorno dopo giorno la violenza dei patrizi e
le sofferenze della plebe, poiché proprio l'obbligo di pagare i debiti
alla scadenza rendeva ancora più difficile la possibilità di
estinguerli. E così, siccome la gente non poteva più far fronte ai
pagamenti ricorrendo al proprio patrimonio, i debitori dichiarati colpevoli e
assegnati ai creditori come schiavi soddisfacevano i creditori con la
perdita dell'onore e della libertà, e la pena aveva rimpiazzato il pagamento. Di
conseguenza, non solo le persone più umili, ma anche i capi erano
così abbattuti e sottomessi che tra di loro non c'era più un solo uomo
che avesse la determinazione e l'intraprendenza necessarie non solo
per contendere il tribunato militare ai patrizi (privilegio questo per il
quale avevano lottato con così tanto accanimento), ma anche per aspirare
alle magistrature plebee ed esigerle. Sembrava che i patrizi avessero ripreso
per sempre possesso di una carica detenuta dai plebei soltanto per
qualche anno. Ma a non permettere che esultasse
troppo una sola delle due parti, un motivo da nulla, come spesso succede,
ingenerò conseguenze di grossa portata. Le due figlie di Marco Fabio
Ambusto, uomo di notevole influenza non solo all'interno del proprio gruppo
ma anche presso la plebe (i cui membri non lo consideravano
assolutamente uno che li disprezzava), erano andate in moglie la maggiore a Servio
Sulpicio, mentre la minore a Gaio Licinio Stolone, personaggio molto in
vista anche se di estrazione plebea. E il fatto stesso che Fabio non avesse
disdegnato questa parentela gli aveva acquisito il favore del popolo.
Per puro caso successe che, mentre le sorelle Fabie si trovavano in casa
di Servio Sulpicio allora tribuno militare e stavano chiacchierando, come
spesso succede alle donne, per far passare il tempo, un littore di
Sulpicio, tornando a casa dal foro, bussò alla porta - secondo l'usanza - con la
sua verga. Fabia, la minore, che non era abituata a quest'usanza, si
spaventò, e la sorella scoppiò a ridere, sorpresa di questa ignoranza.
Ma quella risata, dato che gli stati d'animo delle donne si lasciano
influenzare da cose da nulla, punse al vivo la giovane. Ma forse anche la
grande folla che accompagnava il tribuno e gli domandava se avesse
qualche ordine da dare le fece sembrare felice il matrimonio della sorella,
portandola a sentirsi scontenta del suo, per quell'insana voglia per cui
nessuno accetta di essere sorpassato dai propri parenti. Un giorno che lei
era ancora tormentata per la recente offesa al suo orgoglio, il padre che la
incontrò per caso le chiese se andasse tutto bene. Ma non ostante la
ragazza cercasse di nascondere il vero motivo del proprio risentimento,
considerandolo poco affettuoso nei confronti della sorella e non troppo
onorevole verso il marito, il padre, insistendo con dolcezza, riuscì
a farle confessare la causa del suo cruccio: essere unita a un uomo di
condizione inferiore alla sua, e di essersi sposata in una casa dove non
potevano entrare né gli onori né il prestigio. Cercando di consolare la
figlia, Ambusto le consigliò di stare di buon animo, garantendole che di
lì a poco avrebbe visto nella propria casa quegli stessi onori che vedeva
dalla sorella. Da quel momento in poi cominciò a fare progetti con il
genero, introducendo nelle loro riunioni anche Lucio Sestio, un giovane di
valore le cui aspirazioni erano tarpate soltanto dalla mancanza di sangue
patrizio. 35 Un'occasione per un rivolgimento
politico sembrava rappresentata dall'enorme carico di debiti, dal quale
la plebe non poteva sperare di essere alleviata se non arrivando a
collocare suoi rappresentanti nelle cariche di massimo prestigio. Era
quindi necessario rivolgere i propri sforzi in quella direzione. Grazie ai
continui sforzi e alle agitazioni, i plebei erano già arrivati
così in alto che, se solo avessero continuato a impegnarsi, potevano raggiungere il
vertice ed uguagliare i patrizi sul piano degli onori e del potere. Per il
momento si decise di eleggere i tribuni della plebe, magistratura che
avrebbe loro permesso di arrivare anche alle altre cariche. Vennero
eletti Gaio Licinio e Lucio Sestio, i quali proposero solo leggi volte a contrastare
l'influenza dei patrizi e a favorire gli interessi della plebe. Uno
di questi provvedimenti aveva a che fare con il problema dei debiti e
prescriveva che la somma pagata come interesse fosse scalata dal capitale di
partenza e che il resto venisse saldato in tre rate annuali di uguale
entità. Un'altra proposta riguardava la limitazione della proprietà
terriera, e prevedeva che non si potessero possedere più di 500 iugeri pro
capite. Una terza proponeva che non si eleggessero più tribuni militari
e che uno dei due consoli fosse comunque eletto dalla plebe. Si trattava, in
ciascuno dei casi, di questioni di estrema importanza e sarebbe stato
difficile ottenere il passaggio di leggi del genere senza uno scontro
durissimo. Siccome tutte le cose che gli esseri
umani desiderano nella maniera più smodata - e cioè le
proprietà terriere, il denaro e il successo politico - erano state messe simultaneamente in
pericolo, i senatori erano allarmatissimi. E dato che nel corso di
affannose riunioni pubbliche e private non si era arrivati a
escogitare nessun altro rimedio al di fuori dell'esercizio del veto già
sperimentato in molti altri scontri del passato, i senatori si assicurarono
degli appoggi tra i tribuni, in maniera tale che opponessero il loro
veto alle proposte dei colleghi. Quando questi ultimi videro che Licinio
e Sestio chiamavano le tribù al voto, protetti dalle guardie del corpo
dei patrizi, impedirono sia la lettura delle proposte sia lo
svolgimento di qualunque altra formalità prevista per consultare il volere della
plebe. E dopo una serie di inutili convocazioni dell'assemblea, essendo
praticamente già state respinte le proposte avanzate, Sestio disse:
«D'accordo. Visto che volete che il diritto di veto abbia così tanto
potere, sarà proprio quella l'arma che noi useremo per difendere la plebe.
Avanti, o senatori, bandite pure le elezioni per la nomina di tribuni
militari: farò in modo che non sia motivo di gioia alcuna questa parola
"veto" che ora vi dà così tanta soddisfazione ascoltare dal coro
concorde dei nostri colleghi.» Queste sue minacce non furono vane: fatta
eccezione per edili e tribuni della plebe, non si tenne alcuna elezione. Licinio e
Sestio vennero rieletti tribuni della plebe e non permisero la nomina
di alcun magistrato curule. Questa carenza di magistrati andò
avanti per cinque anni, poiché la plebe continuava a rieleggere i due tribuni e
questi ultimi a impedire l'elezione di tribuni militari. 36 Fortunatamente non scoppiarono altre
guerre. Ma i coloni di Velletri sempre più imbaldanziti ora che
c'era la pace e non vi era alcun esercito romano, effettuarono qualche scorreria
nel territorio di Roma, e si accinsero ad assediare Tuscolo. Questa
circostanza colpì nel vivo non solo i patrizi ma anche la plebe, che non se
la sentirono di respingere la richiesta d'aiuto presentata dai
Tuscolani, loro alleati di antica data e da poco concittadini. Venuta quindi
meno l'opposizione dei tribuni della plebe, un interrè presiedette le
elezioni, a séguito delle quali risultarono nominati tribuni militari
Lucio Furio, Aulo Manlio, Servio Sulpicio, Servio Cornelio, Publio e
Gaio Valerio. Essi trovarono la plebe molto meno disponibile nei confronti
della leva militare di quanto non fosse stata rispetto alle elezioni.
Messo insieme un esercito con molte difficoltà, partiti da Roma non
si limitarono ad allontanare i nemici da Tuscolo, ma li costrinsero addirittura
a barricarsi all'interno delle proprie mura, e Velletri subì un
assedio molto più duro di quello toccato a Tuscolo. Tuttavia la città non
venne espugnata da quegli uomini che ne avevano cominciato l'assedio: furono
prima eletti dei nuovi tribuni militari (e cioè Quinto
Servilio, Gaio Veturio, Aulo e Marco Cornelio, Quinto Quinzio e Marco Fabio), i quali,
a loro volta, non riuscirono a compiere nulla di memorabile intorno a
Velletri. In città la situazione era
più critica. Infatti, oltre a Sestio e Licinio che avevano avanzato le proposte di legge e
che erano in carica per l'ottava volta, anche il tribuno
militare Fabio, suocero di Stolone, sosteneva in maniera accanita quei
provvedimenti di cui era stato promotore. E anche se all'inizio otto
membri del collegio dei tribuni della plebe si erano opposti alle
proposte di legge, ora erano rimasti soltanto in cinque. E questi ultimi,
confusi e disorientati come di solito succede a chi abbandona la propria
fazione, facendosi eco di voci altrui giustificavano il proprio veto solo con
quanto gli era stato in privato imposto di dire: e cioè che gran
parte della plebe era assente da Roma perché impegnata a Velletri con
l'esercito, e che bisognava rinviare le assemblee al ritorno dei soldati, in
maniera tale che tutta la plebe potesse votare in questioni che la
riguardavano da vicino. Sesto e Licinio, insieme ad alcuni colleghi e
al solo Fabio tra i tribuni militari, esperti com'erano - dopo
tanti anni di pratica - nell'arte di manipolare gli animi della plebe, dopo
aver chiamato in pubblico i membri più eminenti dell'aristocrazia,
li assillavano con domande sulle singole proposte presentate al popolo: avevano
il coraggio di pretendere, quando la terra veniva assegnata alla plebe in
una proporzione di due iugeri a testa, l'autorizzazione a possederne
loro stessi più di cinquecento, e che a uno solo di loro toccasse la terra di
quasi trecento cittadini, mentre a un plebeo spettava un appezzamento in
cui c'era spazio a malapena per la casa o per la tomba? Oppure volevano
che i plebei, schiacciati dall'usura, abbandonassero i propri corpi alla
prigione e alla tortura, invece di pagare il debito, e che ogni giorno
frotte di debitori condannati alla schiavitù venissero trascinate
via dal foro, riempiendo così di prigionieri in catene le case dei
nobili, e trasformando in carcere privato ogni dimora patrizia? 37 Dopo aver riprovato questi
vergognosi e miserabili soprusi suscitando più indignazione in chi li
ascoltava (preoccupato per la propria stessa sorte) di quanta non ne avessero
provata loro parlando, affermavano che i patrizi non avrebbero mai smesso di
appropriarsi della terra e di taglieggiare il popolo con l'usura, se
la plebe non nominava un console plebeo, che ne tutelasse la
libertà. Ormai i tribuni erano disprezzati perché con l'arma del veto indebolivano
da sé medesimi il proprio potere. Non si poteva parlare di uguali diritti
là dove gli altri detenevano il potere, mentre loro stessi avevano a
disposizione soltanto la facoltà di opporsi. Fino a quando la plebe non
prendeva parte al governo, non avrebbe mai goduto di alcun peso nella vita
politica. E nessuno poteva ritenere sufficiente il fatto che i plebei
fossero ammessi come candidati nelle elezioni consolari: nessuno di essi
avrebbe mai ottenuto la nomina fino a quando non fosse stato stabilito per
legge che uno dei due consoli dovesse comunque essere plebeo. O forse si
erano già dimenticati che la nomina dei tribuni militari in luogo dei consoli
era stata decisa proprio perché fosse accessibile anche ai plebei la
più alta carica del paese, ma che per quarantaquattro anni nessun plebeo era
mai stato eletto tribuno militare? Come potevano credere che, con due
posti a disposizione, i patrizi avrebbero ora accettato volentieri di
condividere quella carica con la plebe, quando, all'atto di eleggere i
tribuni militari, essi avevano abitualmente preteso otto posti per
volta? Come potevano credere che i patrizi avrebbero loro concesso via
libera al consolato, quando avevano bloccato per così tanto tempo la
strada del tribunato? Bisognava ottenere con la legge quello che non era
possibile raggiungere nelle elezioni solo grazie al favore, e metter fuori
discussione che una delle due cariche consolari venisse destinata alla plebe
(perché, lasciandola nella competizione, avrebbe continuato a
essere appannaggio del più potente). Né ormai si poteva più sostenere -
come in passato i patrizi avevano avuto l'abitudine di fare - che tra i plebei
non ci fossero uomini degni delle magistrature curuli. Forse che la
gestione dello stato era stata più fiacca e trascurata dopo il tribunato
di Publio Licinio Calvo (primo plebeo ad aver ottenuto
quell'incarico), di quanto non fosse stata in tutti quegli anni nei quali tribuni
militari erano stati soltanto dei patrizi? Invece ad avere riportato
condanne dopo il tribunato erano stati parecchi patrizi, ma nemmeno un plebeo.
Come i tribuni militari, anche i questori si era iniziato non molti anni
prima a eleggerli tra i plebei, e di nessuno di essi il popolo romano si
era dovuto pentire. Ai plebei mancava unicamente il consolato: ed era
questa carica che rappresentava il baluardo della libertà, il suo
sostegno. Se essi avessero raggiunto quell'obiettivo, solo allora il popolo
romano avrebbe potuto convincersi di aver cacciato i re da Roma e trovato
un sicuro fondamento per la
propria libertà. Perché da quel giorno anche alla plebe
sarebbero toccati tutti i vantaggi per cui ora i patrizi
eccellevano: il potere e gli onori, la gloria in campo militare, il
lignaggio della stirpe, beni grandi di cui beneficiare di persona, ma ancora
più grandi da trasmettere ai propri figli. Rendendosi conto che discorsi di
questo tenore venivano accolti con grande favore, essi presentarono una
nuova proposta di legge, in base alla quale al posto dei duumviri
responsabili dei riti sacri si sarebbero dovuti eleggere dei decemviri dei quali
metà fossero plebei e metà patrizi. Il voto relativo a tutte
queste proposte di legge venne però rimandato fino al ritorno dell'esercito
impegnato nell'assedio di Velletri. 38 Passò un anno prima che le
legioni venissero richiamate da Velletri. Di conseguenza la questione delle leggi
rimasta in sospeso fu rimandata fino alla nomina di nuovi tribuni militari.
Quanto poi ai tribuni della plebe, il popolo rieleggeva sempre gli stessi
uomini, e in ogni caso i due che avevano presentato i disegni di legge.
Tribuni militari vennero eletti Tito Quinzio, Servio Cornelio, Servio
Sulpicio, Spurio Servilio, Lucio Papirio e Lucio Veturio. Nei primi
giorni dell'anno si arrivò súbito a uno scontro decisivo sulla questione delle
leggi. E dato che le tribù erano giù state chiamate a votare e il
veto dei colleghi non ostacolava più i promotori delle leggi, i patrizi
allarmati ricorsero ai due estremi rimedi: la più alta delle
cariche e il cittadino al di sopra di ogni altro. Decisero di nominare un
dittatore. La scelta cadde su Marco Furio Camillo, che scelse Lucio Emilio come
maestro di cavalleria. In opposizione a questo atto di forza
effettuato dagli avversari, anche gli stessi autori delle proposte sostennero
la causa della plebe proteggendola con il loro grande coraggio, e dopo
aver convocato un'assemblea della plebe chiamarono le tribù al
voto. Quando il dittatore, scortato da un
drappello di patrizi e carico di rabbia e minacce, prese posto, si
incominciò la discussione con l'ormai abituale dibattito tra i tribuni che presentavano
la legge e quelli che vi si opponevano esercitando il loro
diritto di veto. E non ostante il veto valesse di più sul piano del
diritto, esso stava soccombendo schiacciato dalla popolarità delle leggi e
degli uomini che le avevano presentate, e le prime tribù chiamate al voto
stavano dicendo: «come proponi». Allora Camillo disse: «O Quiriti, visto che
adesso siete influenzati non dal potere dei tribuni ma dal loro sfrenato
arbitrio e che vanificate il diritto di veto (conquistato in passato a
séguito della secessione della plebe) con quella stessa violenza con
la quale lo avete ottenuto, io, in qualità di dittatore, non tanto
per l'interesse dello Stato quanto per il vostro bene, interverrò a favore
del veto e tutelerò con la mia autorità questo sostegno che viene demolito.
Perciò, se Gaio Licinio e Lucio Sestio si piegheranno al veto dei loro
colleghi, non vi sarà la ben che minima intromissione di un magistrato patrizio
all'interno di un'assemblea del popolo. Ma se invece tenteranno,
calpestando il diritto di veto, di imporre le loro proposte come a un
paese conquistato, io non permetterò che il potere tribunizio si distrugga
con le sue stesse mani.» Poiché i tribuni, a dispetto di questi
avvertimenti, continuavano imperterriti a procedere nell'azione intrapresa,
allora Camillo, colmo d'ira, mandò i suoi littori a disperdere la plebe,
minacciando di far prestare giuramento a tutti i giovani in età
militare e di condurre súbito l'esercito fuori di Roma, nel caso di ulteriori resistenze.
I plebei si spaventarono moltissimo: ma nei loro capi il
discorso di Camillo accrebbe lo spirito combattivo invece di spegnerlo.
Tuttavia, prima ancora che la contesa avesse designato un vincitore tra le
due parti in causa, Camillo rinunciò al proprio incarico, sia perché - come
hanno scritto alcuni autori - la sua elezione non era stata regolare,
sia perché i tribuni della plebe proposero e la plebe si disse d'accordo
che, qualora Marco Furio avesse preso qualche iniziativa in
qualità di dittatore, gli sarebbe stata inflitta un'ammenda di 500.000 assi.
Che delle sue dimissioni siano responsabili gli auspici più che
un provvedimento privo di precedenti, me lo fa credere sia la natura stessa
dell'uomo, sia il fatto che Publio Manlio venne immediatamente nominato
dittatore al suo posto (che vantaggi avrebbe infatti portato questa nomina in
una lotta nella quale era uscito sconfitto Marco Furio?). Ma anche
perché l'anno successivo era di nuovo dittatore lo stesso Marco Furio, per il
quale sarebbe certamente stata una vergogna il riassumere una carica che
si era infranta l'anno precedente nella sua persona. Senza contare che,
nel periodo in cui, a quanto si dice, venne avanzata la proposta di
infliggergli un'ammenda, Camillo avrebbe potuto opporsi a una rogazione
che palesemente lo privava di ogni suo potere, oppure non sarebbe stato
nemmeno in grado di impedire l'approvazione delle leggi in difesa
delle quali era stato escogitato il provvedimento di ammenda. E poi, a
nostra memoria, gli scontri sono sempre avvenuti tra potere tribunizio e
autorità consolare, ma la dittatura ne è rimasta al di sopra. 39 Nell'intervallo tra la rinuncia alla
prima dittatura e l'inizio di quella di Manlio, i tribuni - come se si
fosse trattato di un interregno - convocarono un'assemblea del popolo che
mise in luce immediatamente quali delle misure proposte risultavano
più gradite alla plebe e quali ai promotori. Infatti le tribù
avevano intenzione di approvare i disegni di legge relativi ai debiti e alla terra,
e di respingere quello concernente l'elezione di un console plebeo. Ed
entrambe le questioni si sarebbero risolte così, se i tribuni non
avessero dichiarato di voler consultare la plebe sull'intero pacchetto di
proposte. Quando poi Publio Manlio divenne dittatore, impose alla questione una
piega favorevole alla plebe perché nominò maestro di cavalleria
Gaio Licinio che era stato tribuno militare ed era di origine plebea. Questa nomina
- a quanto ho trovato - disturbò i patrizi, ma il dittatore si scusava
abitualmente presso di loro adducendo come pretesto la propria parentela con
Licinio, e insieme affermando che il potere del maestro di cavalleria non
era superiore a quello di un tribuno consolare. Licinio e Sestio, quando vennero
bandite le elezioni per la nomina dei tribuni della plebe, pur dichiarando di
non voler essere rieletti, si comportarono in modo da accendere
fieramente la plebe a offrir loro ciò che essi fingevano di non volere.
Dicevano che ormai da nove anni continuavano a essere come in prima
linea contro i patrizi, con grossi rischi personali e scarsi vantaggi per
la comunità. E insieme a loro erano ormai invecchiate sia le proposte
presentate che l'intera forza d'urto del tribunato stesso. In un primo tempo ci
si era serviti del veto dei colleghi contro quelle leggi, poi della
relegazione dei giovani al fronte di Velletri: infine, erano stati essi
stessi minacciati dai fulmini del dittatore. Ma adesso non costituivano
più un ostacolo né i colleghi, né la guerra né il dittatore, perché
quest'ultimo, nominando maestro di cavalleria un plebeo, aveva fornito un
presagio augurale per l'elezione di un console plebeo. No, era la plebe che
adesso ostacolava se stessa e i suoi interessi. Se solo il popolo
avesse voluto, avrebbe potuto avere immediatamente la città e il
foro liberi dai creditori e le terre libere da abusi di proprietà. Ma quando
mai i plebei avrebbero apprezzato tutti questi servizi con sufficiente
gratitudine, se nel momento in cui approvavano le proposte volte a
tutelare i loro interessi toglievano ogni speranza di riconoscimenti politici
agli uomini che ne erano stati i promotori? Non era in linea con il
senso di equità del popolo romano chiedere di essere alleviato dai debiti
e reinsediato nelle terre ingiustamente possedute dai nobili,
lasciando che i tribuni, grazie ai quali essi avevano ottenuto quegli
obiettivi, invecchiassero non soltanto senza onori ma anche senza la speranza
di riceverli. Perciò cominciassero con lo stabilire con fermezza quali
fossero i loro desideri e quindi li rendessero noti in occasione
dell'elezione dei tribuni. Se volevano che i disegni di legge presentati dai tribuni
venissero votati nella loro integralità, allora c'erano
delle buone ragioni per rieleggerli tribuni della plebe (permettendo così
loro di far approvare le proposte che avevano avanzato); se invece volevano
veder accettati soltanto quei provvedimenti che favorivano gli
interessi privati dei singoli, allora non c'era nessun motivo valido per
prolungare un incarico così inviso. In tal caso, essi avrebbero fatto a meno del
tribunato e il popolo delle riforme proposte. 40 Sentendo i tribuni pronunciare
questo discorso tanto risoluto, mentre il resto dei patrizi, indignati per
quanto stava succedendo, era piombato da quel momento in un silenzio pieno di
stupore, si racconta che Appio Claudio Crasso, nipote del decemviro,
mosso più dallo sdegno e dalla rabbia che non dalla speranza, si fece
avanti per dissuaderli e si rivolse loro più o meno in questi
termini: «Non sarebbe né strano né sorprendente, o Quiriti, se anch'io ora dovessi udire
quello che la demagogia dei tribuni ha sempre rimproverato alla mia
famiglia, e cioè che la stirpe Claudia, sin dalle sue origini,
nell'ordinamento dello Stato nulla ha ritenuto più importante
dell'autorità dei patrizi, e si è sempre schierata contro gli interessi della plebe. Per
quanto riguarda la prima delle accuse, io non nego né rifiuto di
riconoscere che noi, fino dal momento in cui fummo accolti come cittadini e
patrizi, per quello che era in nostro potere, abbiamo moltiplicato gli sforzi
perché si potesse veramente affermare che l'autorità di
quelle famiglie nel cui novero avete voluto inserirci venisse accresciuta piuttosto
che diminuita attraverso il nostro operato. Quanto poi alla seconda
accusa, parlando per me e per i miei antenati, a meno che uno sostenga che
tutto il bene fatto per l'intero paese sia in netto contrasto con gli
interessi della plebe (come se i suoi membri fossero gli abitanti di un'altra
città), oserei affermare che noi non abbiamo mai fatto nulla, né da
privati cittadini né da magistrati, che volontariamente danneggiasse la plebe,
e che non si può citare nessuna nostra azione o nostra parola contraria
al vostro vantaggio, anche se alcuni di essi andavano contro ai
vostri desideri. Ma se io non fossi un membro della famiglia Claudia e non
avessi sangue patrizio nelle vene, ma fossi uno qualsiasi dei Quiriti, che
sappia soltanto di essere nato da due genitori liberi e di vivere in un paese
libero, potrei passare sotto silenzio che questi vostri Lucio Sestio
e Gaio Licinio, tribuni della plebe a vita (se così vogliono
gli dèi), nei nove anni del loro regno si sono arrogati una licenza tale da
affermare che non vi consentiranno di esercitare il vostro diritto di voto né
in sede elettorale né nell'approvazione delle leggi? "Ci rieleggerete - dice uno di
loro - tribuni per la decima volta, ma a un patto." Il che significa:
"L'onore che gli altri cercano di raggiungere noi lo disdegniamo a tal punto che non
lo accetteremo se non dietro una grossa ricompensa." Ma alla fin
fine qual è il prezzo per continuare ad avervi come tribuni della plebe?
"Che accettiate in blocco tutte le nostre proposte di legge, che vi piacciano o
no, utili o dannose che siano." Vi scongiuro, voi tribuni della plebe,
novelli Tarquini, fate conto che io sia un cittadino qualunque che gridi
dal centro dell'assemblea "Permetteteci, con buona pace, di
scegliere, all'interno delle proposte presentate, soltanto quelle che
riteniamo vantaggiose per noi, e di respingere le altre." "Tu -
risponderebbe uno di loro - vorresti approvare le misure che si riferiscono alla
questione dei debiti e della terra e che riguardano voi tutti, e non vorresti
invece che a Roma si verifichi la mostruosità di vedere consoli
Lucio Sestio e il qui presente Gaio Licinio (cosa questa da te ritenuta indegna e
abominevole). O accetti tutto, oppure io non presento nessuna
proposta." Come se a un affamato qualcuno mettesse del veleno nel cibo e poi gli
ordinasse di rinunciare a ciò che gli ridarebbe vita oppure di mescolare
la parte letale a quella in grado di rimetterlo in forze. Perciò,
se questa fosse una città libera, non ti avrebbero già gridato in
tantissimi nel pieno dell'assemblea: "Vattene di qua coi tuoi tribunati e le tue
proposte di legge?". Cosa? Se tu non proporrai ciò che il popolo ha
interesse di accettare, non ci sarà nessun altro in grado di farlo? Se un qualche
patrizio, se un qualche Claudio (cosa che a Sestio e Licinio
risulterebbe essere ancora più sgradita) dovesse dire "O accettate tutto,
oppure non proporrò nulla", chi di voi, o Quiriti, lo tollererebbe? Non vi
deciderete mai a guardare alla sostanza piuttosto che alle persone, e
accoglierete sempre con favore ciò che dice quel magistrato, e con prevenzione
ciò che dice uno di noi? Ma, per Ercole, ecco un discorso
indegno di un buon cittadino! E che tipo di proposta è quella per la
quale si sdegnerebbero se voi la respingeste? Assomiglia moltissimo al discorso in
questione, o Quiriti. "Propongo - dice uno di loro - che non vi sia
lecito eleggere i consoli che preferite." E non chiede la stessa
cosa chi pretende che uno dei due consoli sia comunque plebeo e non vi
lascia la possibilità di scegliere due patrizi? Se oggi dovesse scoppiare
una guerra del genere di quella combattuta contro gli Etruschi quando
Porsenna si impadronì del Gianicolo, o di quella recente contro i Galli,
durante la quale, salvo il Campidoglio e la rocca, tutto era in mano al
nemico, e un Lucio Sestio si candidasse al consolato insieme al qui presente
Marco Furio o a qualche altro patrizio, potreste tollerare che Lucio
Sestio fosse, senza discussione, console, e che Marco Furio corresse il
rischio di una sconfitta? È questo che voi chiamate avere gli onori in
comune? Che cioè venga autorizzata l'elezione di due plebei, e vietata la
scelta di due patrizi? Che uno dei due consoli debba per forza essere
plebeo, e che sia possibile escludere da entrambi i posti il candidato
patrizio? Che razza di comunanza, che razza di associazione è mai
questa? È poco aver parte di un diritto dal quale eravate esclusi in precedenza, e
chiedendo una parte volete avere tutto? "Ho paura - replicherebbe
uno di loro - che, se sarà permesso eleggere due patrizi, voi non
eleggerete nessun plebeo." Il che equivale a dire: "Dato che non eleggerete mai
di vostra spontanea volontà individui che non siano all'altezza, io vi
imporrò di eleggere i candidati che non sono di vostro gradimento." Cosa
ne conseguirebbe, salvo il fatto che non avrà obblighi di riconoscenza
nei confronti del popolo un plebeo che si candidi da solo insieme a due patrizi,
e potrà dichiarare di essere stato eletto non a séguito del voto ma in
base alla legge? 41 Cercano il modo non di ottenere, ma
di estorcere le cariche. Così si sforzano di raggiungere le più
alte in maniera tale da non avere il benché minimo dovere di riconoscenza per le
minori. Preferiscono cioè inseguire le cariche basandosi sulle circostanze
piuttosto che sui valori effettivi. C'è qualcuno che prova fastidio
a essere tenuto sotto controllo e a subire una qualche valutazione, che ritiene
giusto il fatto di essere il solo ad avere la sicurezza dell'elezione fra i
vari in lizza per le cariche, che si sottrae al vostro giudizio, o ancora
che rende il vostro voto da facoltativo a obbligatorio,
trasformandolo da libero in servile. Non parlo di Licinio e di Sestio, i cui anni di
continuo potere voi già contate come quelli dei re sul Campidoglio. Chi
c'è oggi di così bassa condizione tra i cittadini al quale questa legge non
conceda di accedere al consolato in maniera più agevole di quanto
non offra a noi e ai nostri figli, se davvero non potrete eleggerci anche
quando lo vorrete, mentre queste persone sarete costretti ad eleggerle
anche se non lo desidererete? Dell'indegna bassezza di questa cosa si
è detto abbastanza. Ma agli uomini si addice la dignità: che cosa
dovrei dire dei riti religiosi e degli auspici, disprezzando i quali si
offendono e si oltraggiano gli dèi immortali? Chi mai ignora che questa
città è stata fondata in base a degli auspici e che in base a degli auspici
si è sempre presa ogni decisione, in guerra e in pace, in patria e sul suolo
di battaglia? Ebbene? A chi spettano gli auspici in base alla
tradizione dei nostri padri? Ai patrizi, evidentemente. Infatti nessun
magistrato plebeo viene eletto dopo aver preso gli auspici. E gli auspici ci
appartengono in maniera così esclusiva che non solo i magistrati patrizi eletti
dal popolo possono essere eletti solo dopo aver preso gli auspici, ma
siamo sempre noi che, pur senza il voto del popolo, nominiamo l'interré in
base agli auspici e anche in qualità di privati cittadini
abbiamo il diritto di trarre gli auspici, dal quale costoro sono invece esclusi
addirittura nella loro veste di magistrati. Di conseguenza, chi
pretende di eleggere dei consoli plebei privando così degli auspici i
patrizi che sono gli unici ad avere il diritto di trarli, che altro fa se non
privarne l'intero paese? Se lo vogliono, adesso possono farsi beffe
degli scrupoli religiosi e dire: "Che cosa importa se i polli non mangiano,
se escono più lentamente dal pollaio o se un uccello emette un verso di
malaugurio?". Ma queste sono cose da poco: eppure, è proprio perché i
vostri antenati non hanno disprezzato cose da poco come queste se sono
riusciti a fare grande questo paese. E ora noi, come se non avessimo
più bisogno del favore degli dèi, stiamo profanando tutte le cerimonie. Allora
lasciamo pure che pontefici, àuguri e re dei sacrifici vengano eletti a
casaccio. Mettiamo pure sulla testa del primo venuto il copricapo del
flamine Diale, purché si tratti di un uomo, affidiamo pure gli scudi sacri, i
santuari, gli dèi e il loro culto a coloro cui non è lecito
affidare tutto ciò. Lasciamo che le leggi vengano approvate e i magistrati eletti
senza prima trarre gli auspici, e che tanto i comizi centuriati quanto quelli
curiati non abbiano l'approvazione dei senatori. Lasciamo
che Sestio e Licinio regnino a Roma come Romolo e Tazio, visto che vogliono
regalare il denaro e le proprietà altrui. È dunque così
forte la voglia di razziare i patrimoni degli altri? Non viene loro in mente che una delle
leggi presentate, cacciando i padroni dalle terre di loro
proprietà, creerà vasti deserti nelle campagne, e che l'altra
eliminerà la fiducia nella parola data e insieme ad essa ogni possibile rapporto tra gli
esseri umani? Per tutti questi motivi ritengo sia vostro dovere
respingere queste proposte. E possano gli dèi rendere propizio ciò
che farete.» 42 Il discorso di Appio riuscì
soltanto a ritardare il passaggio delle proposte di legge. Eletti per la decima
volta tribuni, Sestio e Licinio fecero approvare la legge sulla nomina
dei decemviri preposti ai riti sacri da scegliersi in parte tra i
plebei. Avendo nominato cinque patrizi e cinque plebei, il popolo ebbe
l'impressione che con questo passo la via al consolato fosse ormai aperta.
Soddisfatti per questo successo, i plebei, abbandonando per il momento la
discussione relativa al problema del consolato, concessero ai patrizi di
eleggere dei tribuni militari nelle persone di Aulo e Marco Cornelio
(per la seconda volta), di Marco Geganio, di Publio Manlio, di Lucio
Veturio e di Publio Valerio (per la sesta volta). Salvo l'assedio di Velletri - il cui
esito favorevole, anche se assai ritardato nel tempo, non poteva essere
messo in dubbio -, all'estero la situazione era tranquilla, l'improvvisa
notizia di una guerra da parte dei Galli portò il paese a eleggere
per la quinta volta dittatore Marco Furio. Questi scelse come maestro di
cavalleria Tito Quinzio Peno. Claudio riporta che nel corso di quell'anno si
combattè coi Galli nei pressi del fiume Aniene, e che ci fu il famoso
duello sul ponte, durante il quale Tito Manlio - sotto gli occhi dei due
eserciti - uccise un Gallo che lo aveva sfidato a duello e ne
spogliò il cadavere della collana. Ma io sono più propenso a credere, con la
maggior parte delle fonti, che questo episodio ebbe luogo non meno di dieci
anni più tardi, e che nell'anno del quale mi sto occupando il dittatore
Marco Furio affrontò i Galli nel territorio albano. E non ostante
l'enorme spavento ingenerato dai Galli e dal ricordo della vecchia disfatta, i
Romani conquistarono una vittoria che non fu né difficile né mai in
bilico. Molte migliaia di barbari vennero uccise nel corso della
battaglia e molte altre dopo la presa dell'accampamento. I sopravvissuti,
dispersi, ripararono soprattutto in Puglia, riuscendo a evitare i Romani
sia per la grande distanza della fuga, sia per il fatto di essersi
sparpagliati in preda al panico. Al dittatore venne concesso il trionfo per
volontà unanime del senato e della plebe. Camillo aveva appena portato a termine
quella guerra che in patria esplosero lotte più violente.
Dopo aspri conflitti, senato e dittatore ebbero la peggio, così che le
misure proposte dai tribuni furono approvate. Non ostante l'opposizione
dei patrizi, si tennero elezioni consolari nelle quali Lucio Sestio fu
il primo plebeo a essere eletto console. Ma neppure questa vittoria
pose fine ai contrasti. I patrizi dichiararono che non avrebbero
ratificato l'elezione e gli scontri intestini arrivarono molto vicino alla
nuova secessione della plebe e a nuove terribili minacce, quando alla
fine il dittatore riuscì a sedare i disordini con una soluzione di
compromesso: i patrizi diedero via libera alla plebe sulla questione del console
plebeo, mentre i plebei concessero ai patrizi di nominare pretore un loro
membro col cómpito di amministrare la giustizia in città. Tornata
così finalmente la concordia tra le classi dopo tutti quegli anni di ira, il
senato ritenne che quell'evento fosse un'occasione appropriata per onorare
gli dèi - cui spettava di pieno diritto in quel frangente, se mai altre
volte lo era stato - con la celebrazione dei Ludi Massimi e
l'aggiunta di un giorno ai tre previsti dalla tradizione. Dato che gli edili
della plebe rifiutarono quel cómpito, i giovani patrizi dichiararono che se
ne sarebbero occupati loro di buon grado per onorare gli dèi
immortali. Siccome tutta la popolazione dimostrò gratitudine nei loro confronti, il
senato emise un decreto in base al quale il dittatore avrebbe dovuto
chiedere al popolo l'elezione di due edili patrizi e i senatori ratificare tutte
le elezioni di quell'anno. Libri 7-8: Il conflitto con
i Sanniti LIBRO VII 1 Questo anno verrà ricordato
per il consolato raggiunto da un 'uomo nuovo' e per la creazione di due nuove
magistrature, la pretura e l'edilità curule. Cariche,
queste, che i patrizi pretesero per sé a risarcimento del console concesso alla
plebe. Quest'ultima assegnò il consolato a Lucio Sestio, grazie alla
cui legge esso era stato conquistato. I patrizi invece, in
virtù dell'influenza che vantavano in Campo Marzio, ottennero la pretura per
Spurio Furio Camillo, figlio di Marco, e l'edilizia per Gneo Quinzio
Capitolino e Publio Cornelio Scipione, uomini appartenenti a
famiglie della loro classe. In qualità di collega di Lucio Sestio venne scelto
dai patrizi Lucio Emilio Mamerco. All'inizio dell'anno cominciarono a
circolare voci circa i Galli (che, in un primo tempo dispersi in Apulia,
pareva si stessero riorganizzando in gruppi) e una defezione da parte degli
Ernici. Visto che i patrizi cercavano a bella posta di rimandare
ogni iniziativa per evitare che il console plebeo entrasse in azione, la
calma generale dette l'impressione che fosse stata proclamata la
sospensione dell'attività giudiziaria; senonché i tribuni non erano disposti a
tollerare in silenzio che i nobili, a fronte di un unico console
plebeo, si fossero assicurati tre magistrati patrizi che indossavano la
pretesta e sedevano sugli scanni curuli quasi fossero consoli, e che il
pretore amministrasse addirittura la giustizia e fosse stato eletto alla
stregua di un collega dei consoli, con i medesimi auspici: per cui il
senato non se la sentì di ordinare che gli edili venissero scelti tra i
patrizi. Così, in un primo tempo, si concordò di nominare, ad anni
alterni, edili di provenienza plebea. In séguito l'elezione avvenne senza
distinzioni. Il consolato successivo toccò a
Lucio Genucio e Quinto Servilio. La pace non era minacciata né da scontri tra
fazioni né da guerre. Ma, come se i Romani non potessero mai essere liberi
da paure e da minacce incombenti, ecco che scoppiò una terribile
pestilenza. Le fonti riferiscono che morirono un censore, un edile curule e
tre tribuni della plebe, e che il numero delle vittime nel resto della
popolazione fu analogamente elevato. Ma ciò che rese degna di menzione
quella pestilenza fu la morte di Marco Furio, dolorosissima per tutti non
ostante lo avesse raggiunto in età molto avanzata. Egli fu infatti uomo
assolutamente impareggiabile in qualunque circostanza della vita.
Eccezionale tanto in pace quanto in guerra prima di essere bandito da Roma,
si distinse ancor più nei giorni dell'esilio: lo testimoniano sia il
rimpianto di un'intera città che, una volta caduta in mani nemiche, ne implorò
l'intervento mentre era assente, sia il trionfo con il quale, riammesso
in patria, ristabilì nel contempo le proprie sorti e il destino della
patria stessa. Mantenutosi poi per venticinque anni - quanti ancora ne
visse da quel giorno - all'altezza di una simile fama, fu ritenuto degno di
essere nominato secondo fondatore di Roma dopo Romolo. 2 La pestilenza infuriò tanto in
questo quanto nell'anno successivo, durante il consolato di Gaio Sulpicio Petico
e Gaio Licinio Stolone. Di conseguenza non accadde nulla che sia
degno di essere menzionato, se non il fatto che, proprio per placare l'ira
degli dèi, venne celebrato un lettisternio, il terzo dalla fondazione
di Roma. Ma siccome non c'erano iniziative umane né aiuti divini che
riuscissero a frenare la violenza dell'epidemia, mentre già gli
animi erano in preda alla superstizione, si dice che tra i tanti tentativi fatti
per placare l'ira dei celesti vennero
anche istituiti degli spettacoli teatrali, fatto del tutto nuovo per
un popolo di guerrieri i cui unici
intrattenimenti erano stati fino ad allora i giochi del circo. Ma a dir la
verità si trattò anche di una cosa modesta, come per lo più accade
all'inizio di ogni attività, e per giunta importata dall'esterno. Senza parti in
poesia, senza gesti che riproducessero i canti, degli istrioni
fatti venire dall'Etruria danzavano al ritmo del flauto, con movenze non scomposte
e caratteristiche del mondo etrusco. In séguito i giovani
cominciarono a imitarli, lanciandosi nel contempo delle battute reciproche con
versi rozzi e muovendosi in accordo con le parole. Quel divertimento
entrò così nell'uso, e fu praticato sempre più frequentemente. Agli
attori professionisti nati a Roma venne dato il nome di istrioni, da ister che
in lingua etrusca vuol dire attore. Essi non si scambiavano più,
come un tempo, versi rozzi e improvvisati
simili al Fescennino, ma rappresentavano satire ricche di vari metri, eseguendo melodie scritte ora per
l'accompagnamento del flauto e compiendo gesti appropriati. Livio fu il primo, alcuni anni dopo, ad
abbandonare la satira e ad avventurarsi nella composizione di
un'opera dotata di trama unitaria. Attore egli stesso delle proprie opere
- come allora erano tutti -, pare che, colpito da un abbassamento di voce
per le ripetute chiamate in scena, dopo aver chiesto e ottenuto di far
cantare un ragazzo davanti al flautista, eseguì la sua monodia
con gesti di gran lunga più espressivi proprio perché non era impedito dal
dover usare la voce. Da allora gli attori cominciarono ad accompagnare le
parti cantate con gesti, riservando all'uso della voce soltanto le parti
dialogate. Ma quando, grazie a questo tipo di messe in scena, la
rappresentazione si scostò dallo scherzo spontaneo e dal lazzo gratuito e il
teatro si trasformò a poco a poco in una manifestazione artistica, la
gioventù abbandonò le recite agli attori di professione e riprese l'abitudine di
un tempo scambiando rozze battute in versi. Di qui nacquero quelle che in
séguito vennero chiamate farse finali e per lo più aggiunte
alle Atellane. Queste ultime, un tipo di rappresentazione importato dagli Osci,
i giovani romani le tennero per sé e non permisero che fossero contaminate
dagli attori professionisti. Di qui la norma per cui gli attori di
Atellane non possono essere rimossi dalla tribù di appartenenza e
prestano servizio militare, come se non avessero rapporti con il mondo della
scena. Tra gli inizi modesti di molte altre cose è parso opportuno
collocare anche i primi passi del teatro, perché si potesse vedere quanto fossero
sobri i primordi di un'arte che al giorno d'oggi ha raggiunto tali vertici
di scostumatezza da essere a malapena tollerata anche in regni
ricchissimi. 3 Tuttavia neppure l'introduzione degli
spettacoli teatrali destinata a placare l'ira degli dèi
riuscì a liberare le menti dalla superstizione o i corpi dal contagio. Tutt'altro. Proprio
mentre gli spettacoli erano in pieno svolgimento, uno straripamento
del Tevere rese impraticabile il Circo Massimo, il che causò il
panico, come se gli dèi avessero ormai voltato le spalle e disprezzassero i
tentativi fatti per placare la loro ira. E così, durante il consolato
di Gneo Genucio e di Lucio Emilio Mamerco (entrambi eletti per la seconda
volta), dato che la ricerca di rimedi praticabili preoccupava le menti
più di quanto la pestilenza non stremasse i corpi, si dice che i
cittadini più anziani richiamassero alla memoria il fatto di una pestilenza un
tempo placata da un chiodo infisso dal dittatore. E il senato, spinto da
questa credenza, ordinò di nominare un dittatore al fine di piantare il
chiodo. La scelta cadde su Lucio Manlio Imperioso il quale si scelse
come maestro di cavalleria Lucio Pinario. C'è un'antica legge, scritta con
parole e caratteri arcaici, la quale stabilisce che il più alto
magistrato in carica pianti un chiodo alle idi di Settembre. Questa legge era affissa
sul lato destro del tempio di Giove Ottimo Massimo, nel punto in cui
c'è il santuario di Minerva. Data la rarità della scrittura in quei
tempi, pare che il chiodo servisse per segnare il numero degli anni e che la
legge fosse stata consacrata nel santuario di Minerva perché il numero
è un'invenzione della dea. Lo storico Cincio, attento studioso di
quel tipo di testimonianze, afferma che anche a Volsinii nel tempio della dea
etrusca Nortia si possono ancora vedere dei chiodi piantati per indicare
il numero degli anni. Il console Marco Orazio, attenendosi a quella
legge, consacrò il tempio di Giove Ottimo Massimo l'anno successivo alla
cacciata dei re. In séguito la cerimonia solenne del piantare il
chiodo passò dai consoli ai dittatori, in quanto rappresentavano
un'autorità più alta. Col passare del tempo l'usanza era stata abbandonata.
Ciò non ostante in quel periodo sembrò essere di per se stessa motivo
sufficiente per la nomina di un dittatore. Per tale ragione venne eletto Lucio
Manlio il quale, come se fosse stato nominato per condurre una guerra e non
per assecondare una semplice superstizione, aspirando a portare
guerra agli Ernici, suscitò il malcontento dei giovani bandendo una
leva che non ammetteva esclusioni. Ma alla fine, quando tutti i tribuni della
plebe insorsero uniti contro di lui, si lasciò piegare dalla
forza o dalla vergogna e rinunciò alla dittatura. 4 Tuttavia, all'inizio dell'anno
seguente, durante il consolato di Quinto Servilio Aala e di Lucio Genucio, il
tribuno della plebe Marco Pomponio non ebbe esitazioni a citare in giudizio
Lucio Manlio. Il risentimento nei suoi confronti era dovuto alla
severità dimostrata nella leva, per la quale i cittadini avevano subito non
solo ammende pecuniarie ma anche violenze fisiche, alcuni essendo stati
frustati per non aver risposto alla chiamata, altri essendo stati gettati
in carcere. Ma ciò che più irritava erano la crudeltà del carattere
e il suo soprannome, Imperioso: era offensivo per un paese libero ed era
stato assunto come ostentazione della ferocia da lui mostrata tanto nei
confronti di estranei quanto verso gli amici più cari e i membri della
sua stessa famiglia. Tra le altre imputazioni il tribuno lo accusava del
comportamento tenuto nei riguardi del figlio: quest'ultimo, benché non
fosse stato riconosciuto colpevole di alcun reato, era stato bandito da Roma,
dalla casa paterna e dai penati; Manlio lo aveva allontanato dal foro,
privato della luce del giorno e della compagnia dei coetanei, costretto
a un lavoro da schiavo, come in un carcere, in un ergastolo, dove un
giovane di nobili natali e figlio di un dittatore potesse apprendere dalla
quotidiana sofferenza quanto fosse veramente imperioso il padre che
l'aveva generato. E quale era stata la sua colpa? La scarsa eloquenza e
prontezza di lingua. Ma non sarebbe stato cómpito del padre, se in lui ci fosse
stato qualcosa di umano, correggere questo difetto di natura invece di
peggiorarlo con punizioni e tormenti? Perfino gli animali allo stato brado,
se uno dei loro piccoli è meno fortunato, non di meno continuano a
nutrirlo e a curarsi di lui. Ma, per Ercole, Lucio Manlio il male che
affliggeva il figlio lo aumentava facendogli del male, e in più
soffocandone lo sviluppo dell'indole già poco pronta. E se poi in lui restava
qualcosa della naturale vitalità, Manlio la spegneva costringendo il
giovane a vivere in maniera selvaggia e a crescere tra le bestie. 5 Queste accuse suscitarono
l'indignazione di tutti, salvo che del giovane stesso, il quale invece soffriva al
pensiero di essere causa di ulteriore risentimento e accuse nei confronti del
padre. E perché tutti in cielo e in terra sapessero che egli aveva
preferito aiutare il padre piuttosto che i nemici del padre, organizzò un
piano che, pur frutto di un'indole rozza e selvaggia e ben lontano dal risultare
un esempio di condotta civica, era tuttavia elogiabile per l'attaccamento
dimostrato al padre. Senza che nessuno lo sapesse, alle prime luci del
giorno venne in città armato di coltello e dalla porta raggiunse in un
attimo la casa del tribuno Marco Pomponio. Al portinaio disse di dover
vedere immediatamente il suo padrone e lo pregò di riferire che si
trattava di Tito Manlio, il figlio di Lucio. Fatto entrare senza esitazione - Marco
sperava che a spingerlo fosse la rabbia nei confronti del padre o che
fosse venuto a riferire qualche nuova accusa o a suggerire un piano -, dopo
un reciproco scambio di saluti, il giovane disse che c'erano degli
argomenti di cui voleva discutere con lui lontano da occhi indiscreti. Dopo che a
tutti i presenti venne ordinato di allontanarsi dalla stanza,
afferrò il coltello e, fermo in piedi sopra il letto del tribuno con in mano l'arma
pronta a colpire, minacciò di pugnalarlo lì sul momento, se
Pomponio non avesse giurato, nei termini che egli stesso avrebbe imposto, di non aver
alcuna intenzione di convocare un'assemblea popolare per mettere suo
padre sotto accusa. Il tribuno, in preda al panico, vedendo il bagliore
della lama davanti agli occhi e rendendosi conto di essere da solo e
disarmato di fronte a un giovane nel pieno delle forze e - cosa questa non
meno preoccupante - brutalmente imbaldanzito dalla consapevolezza della
propria forza, giurò secondo la formula che gli era stata dettata. In
séguito dichiarò pubblicamente di essere stato costretto da quell'atto di
forza ad abbandonare l'azione intrapresa. La plebe avrebbe preferito
che le fosse concessa l'opportunità di esprimere il proprio voto circa un
imputato tanto crudele e arrogante. Tuttavia non disapprovò che un
figlio avesse osato quel gesto in difesa del padre. Gesto tanto più degno
di elogi per il fatto che la severità esagerata del padre non aveva diminuito
nel giovane l'amore per il genitore. Perciò non solo venne
ritirata l'accusa nei confronti del padre, ma l'intera faccenda fu per il ragazzo
addirittura motivo di onore. Dato che quell'anno si stabilì per la
prima volta di assegnare i tribuni militari a capo delle legioni con una
regolare votazione - fino ad allora a nominarli erano i generali in
persona, come oggi avviene con quelli chiamati Rufuli - egli fu il secondo a
essere eletto su sei posti disponibili, pur non avendo compiuto,
in pace o in guerra, nulla che giustificasse tale popolarità,
come per altro è naturale per uno che abbia trascorso la giovinezza in campagna e
lontano dal consesso civile. 6 Nel corso di quello stesso anno,
fosse per un terremoto o per un'altra forza della natura, si dice che nel
centro del foro il suolo franò fino a profondità incommensurabili,
lasciandovi un'ampia voragine. Non ostante tutti vi gettassero della terra, non si
riuscì a riempirla, fino a quando, su preciso monito degli dèi, la
gente cominciò a domandarsi quale fosse l'elemento principale della forza del
popolo romano. Questo era quanto gli indovini sostenevano si dovesse
consacrare a quel luogo, se si voleva che la repubblica romana durasse in eterno.
Allora, stando a quanto si narra, Marco Curzio, un giovane distintosi in
guerra, rimproverò i concittadini per essersi domandati se esistesse
qualcosa di più romano del valore militare. Poi, calato il silenzio, con
gli occhi rivolti al Campidoglio e ai templi degli dèi immortali
che sovrastano il foro, tendendo le mani ora verso il cielo ora verso la voragine
spalancata e verso gli dèi Mani, si offrì in voto ad essi. Quindi,
montò in groppa a un cavallo bardato nella maniera più splendida possibile
e si gettò armato nella voragine: e una folla di uomini e donne gli
lanciò dietro frutti e offerte votive. Fu lui a dare al lago il nome di Curzio e non
Curzio Mezio, soldato di Tito Tazio in tempi remoti. Certo non sarebbe
mancata la ricerca meticolosa, se fosse esistita qualche via per raggiungere la
verità; ma allo stato presente bisogna attenersi alla tradizione,
visto che l'antichità dell'episodio non permette di essere molto precisi. E il
nome del lago risulta maggiormente glorioso se connesso a questa leggenda
più recente. Una volta espiato quel prodigio
così straordinario, nel corso dello stesso anno il senato decise di occuparsi
della questione degli Ernici. Ma siccome l'invio di feziali con la
richiesta di riparazioni belliche non diede risultati, il senato
stabilì di presentare al popolo, quanto prima possibile, la proposta di dichiarare
guerra agli Ernici. Nel corso di un'assemblea affollatissima, il popolo
votò a favore della guerra e al console Lucio Genucio toccò in
sorte il cómpito di occuparsi della spedizione. L'attesa dei cittadini era
grande: Genucio sarebbe stato il primo console plebeo a gestire una
guerra sotto i suoi stessi auspici, ed essi avrebbero giudicato dagli esiti
della campagna se avessero fatto bene o meno a rendere accessibili a tutti le
magistrature. Ma il caso volle che Genucio, partito alla volta del nemico
con un grande schieramento di forze, finisse vittima di un'imboscata:
le legioni, colte improvvisamente dal panico, vennero sbaragliate, mentre
il console venne circondato e ucciso da uomini che non lo avevano
riconosciuto. Non appena la notizia arrivò a Roma, lo sdegno dei
patrizi, per nulla afflitti dalla disfatta dello Stato, quanto piuttosto
imbaldanziti dall'infelice esito del comando affidato a un console plebeo,
riempì la città. Andassero pure a scegliersi i consoli in mezzo ai plebei!
Trasferissero pure gli auspici là dove la legge divina lo vietava! Con un
plebiscito sarebbero stati in grado di tener lontani i patrizi dalle loro
magistrature: ma una legge approvata senza i regolari auspici avrebbe mai
avuto valore per gli dèi immortali? Gli dèi in persona avevano
rivendicato la loro autorità divina e i loro auspici: non appena essi erano stati
toccati da chi era privo del diritto umano e divino di farlo, esercito e
generale erano stati sbaragliati come monito a che in futuro non si tenessero
più elezioni in violazione dei diritti delle genti patrizie. Curia e
foro rimbombavano al suono di queste parole. Appio Claudio, il quale si era
opposto al passaggio della legge, godeva adesso di maggiore
autorità perché denunciava i risultati di una politica che aveva attaccato in
precedenza. Con il consenso dei patrizi, il console Servilio lo nominò di
conseguenza dittatore, bandendo poi una leva militare e proclamando la
sospensione dell'attività giudiziaria. 7 Prima che il dittatore e le nuove
legioni arruolate arrivassero nel territorio degli Ernici, il
luogotenente Gaio Sulpicio, approfittando di un'occasione favorevole, aveva ottenuto
brillanti risultati nella campagna. Gli Ernici, resi tracotanti
dalla morte del console, si avvicinavano all'accampamento romano
convinti di poterlo espugnare. Ma le esortazioni del luogotenente e gli
animi dei soldati pieni di rabbia e di vergogna resero possibile una sortita.
E gli Ernici, che avevano sperato di avvicinarsi alla trincea, dovettero
invece ritirarsi nello scompiglio generale. Poi, con l'arrivo del
dittatore, il nuovo esercito venne ad aggiungersi a quello vecchio e il
numero degli effettivi raddoppiò. Il dittatore, parlando alle truppe in
adunata, elogiò il luogotenente e i soldati il cui valore era stato un
sicuro baluardo per l'accampamento. Così Appio riuscì nello
stesso tempo a risollevare quanti si sentivano rivolgere quei meritati elogi, e a
stimolare i nuovi arrivati a emularne l'eroismo. I nemici, da parte loro, si
preparavano alla guerra con non minore scrupolo: memori com'erano della
gloria conquistata in precedenza, ma consapevoli del fatto che le truppe
nemiche erano state rinforzate, aumentarono anche i propri contingenti.
Tutte le genti erniche, tutti coloro che erano in età militare
vennero convocati e furono così arruolate otto coorti, ciascuna delle quali
formata da 400 uomini selezionati. Colmarono di speranze e di vigore
queste truppe scelte decretando che fosse loro concesso il doppio dello
stipendio. I soldati erano addirittura esentati dai lavori di natura militare
in modo che, essendo destinati al solo sforzo della battaglia, fossero
consapevoli di dover chiedere a se stessi un impegno superiore a quello di
un uomo comune. Come ultimo privilegio venne loro assegnato un
posto al di fuori dello schieramento, in maniera tale che il loro valore
fosse ancora più in evidenza. Gli accampamenti di Romani ed Ernici
erano separati da una pianura lunga due miglia. La battaglia fu combattuta
in mezzo a quella pianura, in un punto più o meno equidistante
dai due accampamenti. Sulle prime l'esito della battaglia rimase incerto e a poco
valsero i ripetuti tentativi fatti dalla cavalleria romana di rompere la
linea nemica. Quando i cavalieri si resero conto che la battaglia equestre,
nonostante i loro sforzi, non dava risultati, consultarono prima il
dittatore e poi, ricevuta da lui l'autorizzazione, lasciarono i cavalli
e si buttarono con grande clamore al di là delle insegne, portando
nuovo slancio alla battaglia. Il loro attacco sarebbe risultato
incontenibile, se non si gli si fossero parate innanzi le coorti speciali che li
affrontarono con uguale coraggio e forza fisica. 8 In quel momento le sorti della
battaglia erano affidate agli uomini più valenti dei due popoli. E qualunque
fosse stata l'entità delle perdite inflitte dai casi della guerra all'una
e all'altra parte, il danno avrebbe sicuramente superato di gran lunga il
loro numero effettivo. La massa dei soldati semplici, come se avessero
delegato a loro campioni il cómpito di combattere, affidavano il proprio destino
al valore di altri. Da entrambe le parti ci furono moltissime perdite,
anche se il numero dei feriti risultò ancora più alto.
Alla fine i cavalieri, rimproverandosi l'uno con l'altro, si domandavano che altro
restasse loro da fare, visto che non erano riusciti a sbaragliare il nemico
quando erano in sella ai cavalli né avevano ottenuto grandi risultati
quando avevano combattuto da terra. Stavano forse aspettando un terzo tipo
di combattimento? Ma quale? Che cosa avevano combinato di buono
lanciandosi baldanzosi al di là delle insegne e combattendo in un posto che
non era il loro? Incitati da questi scambi di rimproveri, i cavalieri
alzarono di nuovo il grido di battaglia e si gettarono all'assalto. Sulle prime
riuscirono a far ripiegare il nemico, poi lo spinsero indietro e
infine lo costrinsero apertamente alla fuga. Non è facile dire cosa
avesse loro permesso di prevalere in uno scontro di forze così equilibrate,
se non il fatto che la sorte, dopo aver sostenuto con costanza entrambi gli
schieramenti, riuscì ad esaltare gli animi degli uni e a deprimere gli
altri. I Romani inseguirono gli Ernici in fuga fino all'accampamento, ma non
tentarono di conquistarlo perché era ormai tardi. Il dittatore non aveva
infatti dato il segnale di battaglia prima di mezzogiorno perché era stato
trattenuto dalla prolungata difficoltà di ottenere buoni
auspici nel sacrificio: e per questo il combattimento si era trascinato fino al
calare della notte. Il giorno dopo l'accampamento era deserto: gli Ernici
erano fuggiti lasciando indietro soltanto qualche ferito. Mentre la
colonna dei fuggitivi stava passando sotto le mura di Signia, i cittadini,
scorti i reparti decimati, piombarono su di loro sbaragliandoli e
disperdendoli in una fuga affannosa per le campagne. Per i Romani non fu
però una vittoria priva di perdite: il numero delle vittime corrispondeva a
un quarto degli effettivi e - danno non minore - ad alcuni elementi
della cavalleria. 9 L'anno successivo i consoli Gaio
Sulpicio e Gaio Licinio Calvo guidarono l'esercito contro gli Ernici. Ma non
avendo trovato nemici in campo aperto, espugnarono la città
ernica di Ferentino. Mentre però stavano tornando, i Tiburtini chiusero loro le
porte in faccia. In passato, da entrambe le parti, c'erano state
numerose lamentele. Quello però fu il motivo che spinse i Romani a dichiarare
guerra ai Tiburtini dopo aver inviato loro i feziali con le richieste
di riparazione. Le fonti concordano nell'affermare che
quell'anno vennero nominati dittatore Tito Quinzio Peno e maestro
di cavalleria Servio Cornelio Maluginense. Licinio Macro sostiene che
tale nomina fosse dovuta alla necessità di tenere delle
elezioni e che l'avesse effettuata il console Licinio. Questi, vedendo che il suo
collega si affrettava a tenere le
elezioni prima dell'inizio della campagna per poter ottenere la
proroga del consolato, si sentì in
dovere di opporsi a quel progetto criminoso. Ma il tentativo fatto da Licinio di
mettere in buona luce la propria famiglia rende meno attendibile la sua versione
dei fatti. Dato che negli annali più antichi non ho trovato
traccia dell'episodio, sono più propenso a credere che il dittatore sia stato
nominato in occasione di una guerra contro i Galli. In ogni caso, fu
proprio in quell'anno che i Galli si accamparono a tre miglia da Roma, sulla
via Salaria, al di là del ponte sull'Aniene. Il dittatore, proclamata la sospensione
dell'attività giudiziaria a séguito dell'incombente minaccia costituita
dai Galli, mobilitò tutti i giovani in età militare. Partito
da Roma con un esercito di ragguardevoli proporzioni, si accampò sulla
riva meridionale dell'Aniene. Tra i due eserciti c'era il ponte, ma nessuno
osava abbatterlo per non dare l'impressione di avere paura. C'erano
frequenti scaramucce per occupare il ponte, ma le forze erano così
equilibrate che non si poteva stabilire chi ne avesse il controllo. Fu allora che
un soldato gallico dal fisico possente si fece avanti sul ponte
deserto e urlò con quanta voce aveva in gola: «Si faccia avanti a combattere il
guerriero più forte che c'è adesso a Roma, così che l'esito del
nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra». 10 Tra i giovani patrizi romani ci fu
un lungo silenzio dovuto alla vergogna di non poter raccogliere la
sfida e alla paura di offrirsi volontari per una missione tanto
rischiosa. Allora Tito Manlio, figlio di Lucio, il giovane che aveva salvato il
padre dalle accuse del tribuno, lasciò la sua posizione e si
avviò verso il dittatore. «Senza un tuo ordine, o comandante», disse «non
combatterei mai fuori dal mio posto, neppure se vedessi che la vittoria
è sicura. Se tu me lo concedi, a quella bestia che ora fa tanto lo spavaldo
davanti alle insegne nemiche io vorrei dare la prova di discendere da quella
famiglia che cacciò giù dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli». Allora il
dittatore rispose: «Onore e gloria al tuo coraggio e al tuo attaccamento
al padre e alla patria, o Tito Manlio. Vai e con l'aiuto degli
dèi dài prova che il nome di Roma è invincibile». Poi i compagni lo
aiutarono ad armarsi: prese uno scudo da fante e si cinse in vita una spada
ispanica, più adatta per lo scontro ravvicinato. Dopo averlo armato di
tutto punto, lo accompagnarono verso il soldato gallico che stava stolidamente
esultando e che (particolare anche questo ritenuto degno di menzione da
parte degli antichi) si faceva beffe di lui tirando fuori la lingua dalla
bocca. Poi rientrarono ai loro posti, mentre i due uomini armati restarono
soli in mezzo al ponte, più simili in verità a gladiatori che a
soldati regolari. Nulla li rendeva pari, almeno a giudicare dall'aspetto esterno: l'uno
aveva un fisico di straordinaria prestanza, portava vesti sgargianti e
rifulgeva di armi cesellate in oro. L'altro era un soldato di media statura
e portava armi più maneggevoli che belle: non cantava, non gesticolava con
tracotanza né faceva vana esibizione delle proprie armi, ma aveva
il petto che fremeva di palpiti di coraggio e di rabbia repressa e riservava
tutta la sua aggressività per il culmine dello scontro. Quando essi
presero posizione tra i due eserciti, mentre intorno i cuori di tutti i
soldati erano sospesi tra la speranza e la paura, il campione dei Galli, la cui
massa imponente sovrastava dall'alto l'avversario, avanzando con
lo scudo proteso al braccio sinistro, sferrò un fendente di
taglio sull'armatura del Romano che gli veniva incontro, ma lo mancò,
con un grande rimbombo. Il Romano, tenendo alta la punta della spada, colpì col
proprio scudo la parte bassa di quello dell'avversario; poi,
insinuatosi tra il corpo e le armi di quest'ultimo in modo tale da non
correre il rischio di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l'altro gli
trapassò il ventre e l'inguine facendolo stramazzare a terra, disteso
in tutta la sua mole. Tito Manlio si astenne dall'infierire sul corpo del
nemico crollato al suolo, limitandosi a spogliarlo della sola
collana, che indossò a sua volta, coperta com'era di sangue. I Galli
erano paralizzati dalla paura mista all'ammirazione. I Romani, invece,
abbandonando la posizione, corsero festanti incontro al loro commilitone e
lo portarono dal dittatore, tra congratulazioni ed elogi. Tra le rozze
battute che i soldati inserivano nei loro cori più o meno simili
a versi si sentì anche l'appellativo di Torquato, soprannome che in séguito
rimase famoso e fu anche motivo di onore per i discendenti della sua
famiglia. Il dittatore aggiunse in dono una corona d'oro e di fronte alle
truppe in adunata celebrò con le lodi più alte quel combattimento. 11 E per Ercole quel duello fu
così determinante nello svolgimento dell'intera guerra che l'esercito dei
Galli la notte successiva lasciò l'accampamento in fretta e furia e si
diresse nel territorio dei Tiburtini. Di lì, stipulato un
trattato di alleanza con i Tiburtini e ricevuti da loro generosi rifornimenti,
partirono sùbito alla volta della Campania. Fu per questa ragione che
l'anno dopo il popolo volle assegnare al console Gaio Petelio Balbo il
cómpito di guidare una spedizione contro i Tiburtini, mentre al suo collega Marco
Fabio Ambusto era toccata la campagna contro gli Ernici. I Galli
tornarono indietro dalla Campania per intervenire in loro aiuto e le tremende
devastazioni registrate nei territori di Labico, Tuscolo e Alba
Longa avvennero senza alcun dubbio per istigazione dei Tiburtini. Mentre lo
Stato era soddisfatto del comando affidato al console nella campagna
contro i Tiburtini, la minaccia dei Galli rese necessaria la nomina di un
dittatore. La scelta cadde su Quinto Servilio Aala che come maestro di
cavalleria scelse Tito Quinzio e che, su consiglio del senato, fece voto di
celebrare dei grandi giochi nel caso in cui la guerra si fosse conclusa
positivamente. Il dittatore, dopo aver ordinato all'esercito del console di
rimanere dov'era in modo da impedire ai Tiburtini di intervenire in
conflitti che non li riguardavano, fece prestare giuramento a tutti i giovani
in età militare, senza che nessuno di essi cercasse di tirarsi indietro.
La battaglia venne combattuta non lontano dalla porta Collina. I
cittadini impiegarono tutte le loro forze combattendo al cospetto di genitori,
mogli e figli: se questi erano già un incentivo fortissimo anche lontani
dalla vista, ora, posti di fronte agli occhi, infiammarono gli animi dei
soldati toccandone il senso dell'onore e l'amore verso la famiglia. Le perdite
furono numerosissime da entrambe le parti, ma alla fine l'esercito dei
Galli venne respinto. Messi in fuga, i Galli si diressero verso Tivoli, come
se questa fosse la piazzaforte della loro guerra. Nella loro rotta
disordinata vennero intercettati dal console Petelio: quando però i Tiburtini
uscirono dalla città per portare aiuto, i Galli vennero respinti a forza dentro
le mura. La campagna venne condotta in maniera impeccabile tanto dal
dittatore quanto dal console. Fabio, l'altro console, prima in battaglie di
scarsa importanza e alla fine in uno scontro campale nel quale il nemico
aveva schierato tutte le sue forze, piegò la resistenza degli
Ernici. Il dittatore ebbe parole di straordinario elogio, in senato e di
fronte al popolo, per i due consoli cui attribuì il merito anche
delle proprie imprese. Quindi rinunciò alla dittatura. Petilio celebrò un
doppio trionfo per le vittorie su Galli e Tiburtini. Quanto a Fabio, invece,
sembrò sufficiente concedergli di rientrare in città con l'onore
dell'ovazione. I Tiburtini si facevano beffe del
trionfo di Petilio: quando mai aveva combattuto con loro? Un pugno di uomini
era uscito dalle porte per assistere alla fuga e al panico dei
Galli: poi, vedendo che anche loro venivano attaccati e che quanti si
imbattevano nei Romani venivano fatti a pezzi, si erano ritirati all'interno
delle mura. Era questa la grande impresa che agli occhi dei Romani era
parsa degna di un trionfo! Perché non considerassero cosa troppo straordinaria
e valorosa il fare rumore davanti alle porte dei nemici, i Romani
avrebbero dovuto assistere a qualcosa di ben più tremendo di
fronte alle loro porte. 12 Così, l'anno successivo,
quando i consoli in carica erano Marco Popilio Lenate e Gneo Manlio, una spedizione
partì da Tivoli con intenti bellicosi e raggiunse Roma ai primi silenzi della
notte. L'evento improvviso e l'allarme notturno terrorizzarono la
popolazione immersa nel sonno; e ulteriore paura aggiunse il fatto che
molti non sapevano chi fossero e da dove venissero i nemici. Ciò non
ostante l'ordine di correre alle armi venne dato immediatamente, mentre in
prossimità delle porte e dei muri vennero piazzate sentinelle e corpi di
guardia. Ma quando le prime luci del giorno permisero di capire che la
massa degli assalitori non era consistente e che non vi erano altri
nemici salvo i Tiburtini, i consoli, usciti da due delle porte, piombarono
loro addosso dai fianchi mentre si stavano già avvicinando alle
mura; e fu chiaro che la loro spedizione era fondata più sulla sorpresa che
sul vero valore: riuscirono appena a sostenere il primo assalto romano.
Quell'assalto, risultò chiaro, era stato un bene per i Romani perché la
paura provocata da una guerra così vicina aveva represso sul nascere uno
scontro tra patrizi e plebei. Un'altra incursione ostile fu invece,
per le campagne, più preoccupante: i Tarquiniesi penetrarono in territorio
romano, devastandolo soprattutto nei pressi del confine con l'Etruria. E
siccome le richieste di riparazione non ebbero séguito, i nuovi consoli
Gaio Fabio e Gaio Plauzio dichiararono loro guerra per ordine del popolo. A
Fabio toccò quella campagna, mentre a Plauzio andarono gli Ernici. Inoltre si facevano sempre più
frequenti le voci circa una guerra scatenata dai Galli. Ma in mezzo a
tutte quelle preoccupazioni fu motivo di consolazione il concedere la pace ai
Latini che erano venuti a domandarla, e che inviarono un
massiccio contingente di rinforzi (come previsto dalle clausole di un antico
trattato cui quel popolo non si era attenuto per molti anni). Grazie all'invio
di queste nuove forze, i Romani reagirono meglio all'arrivo della
notizia che i Galli erano arrivati a Preneste e di lì si erano
accampati nei pressi di Pedo. Fu deciso di nominare dittatore Gaio Sulpicio e il
console Gaio Plauzio venne richiamato apposta per farlo. Al
dittatore venne affiancato come maestro di cavalleria Marco Valerio. Questi
uomini marciarono contro i Galli, dopo aver selezionato il meglio dei due
eserciti consolari. Ma la guerra si trascinò molto più a lungo di
quanto entrambe le parti desiderassero. Mentre all'inizio solo i Galli erano
ansiosi di arrivare allo scontro, in séguito i Romani ne superarono di gran
lunga l'irruenza, desiderosi com'erano di correre alle armi e di
combattere. Ma il dittatore, non essendo forzato dalle circostanze, non
aveva alcuna intenzione di buttarsi allo sbaraglio contro un nemico che il
tempo rendeva giorno dopo giorno sempre meno preoccupante, in zone poco
favorevoli, senza adeguate provviste di viveri. E a tutto questo
si aggiungeva il fatto che la forza e il valore del nemico consisteva
interamente nella capacità di attacco, mentre diventava poca cosa non appena
le operazioni rallentavano anche di un nonnulla. Fondandosi su queste considerazioni, il
dittatore cercava di tirare la guerra per le lunghe, minacciando pene
gravissime per chi avesse osato aprire le ostilità senza il suo
ordine. Gli uomini, che non vedevano di buon occhio questa tattica, sulle prime
cominciarono a sparlare del dittatore durante i servizi di guardia
e talora si recavano in gruppo dai senatori rimproverandoli di non aver
affidato la guerra ai consoli: il comandante supremo da loro scelto era
un grandissimo stratega, uno che credeva che la vittoria gli sarebbe
caduta tra le braccia dal cielo senza dover alzare un dito. Ma in séguito i
soldati iniziarono a parlare alla luce del sole e a dire apertamente cose
ancora più gravi: non avrebbero più aspettato l'ordine del
comandante: avrebbero combattuto oppure sarebbero rientrati a Roma in schiera
compatta. Ai soldati cominciarono a unirsi i centurioni e le lamentele non
erano più limitate a piccoli crocchi: nella piazza principale del
campo e di fronte alla tenda del dittatore era ormai un solo coro di
proteste. La massa degli scontenti aumentò poi nell'assemblea del
popolo e da tutte le parti si sentiva la gente gridare che era venuto il momento
di andare dal dittatore. Il portavoce delle truppe avrebbe dovuto
essere Sesto Tullio, come si conveniva alla sua statura di soldato. 13 In quella campagna Tullio serviva
per la settima volta come centurione primipilo e in tutto l'esercito non
c'era nessun altro - almeno all'interno della fanteria - che si
fosse distinto quanto lui per i servizi prestati. Marciando in testa
alle truppe, Tullio salì sulla tribuna e si avvicinò a Sulpicio
che era sbalordito non tanto al vedersi davanti quella massa di soldati, quanto
piuttosto al fatto che a guidarla fosse Tullio, un soldato assolutamente
ligio alla gerarchia militare. «Se mi è concesso, o dittatore»,
disse «l'intero esercito, sentendosi condannato alla viltà dal tuo
comportamento e quasi privato delle armi per ignominia, mi ha pregato di venire a
perorare la sua causa presso di te. A dir la verità, se noi potessimo
essere accusati di aver in qualche luogo ceduto la posizione, di aver voltato le
spalle ai nemici o di aver abbandonato vergognosamente le insegne,
ciò non ostante continuerei a pensare che sia giusto chiederti di
offrirci l'opportunità di riparare alla nostra colpa con una prova di
valore e di conquistare nuova gloria cancellando il ricordo del nostro
disonore. Anche le legioni che furono messe in fuga all'Allia partirono poi
alla volta di Veio e riconquistarono con il valore quella stessa patria che
avevano perduto per codardia. Quanto a noi, per la benevolenza degli
dèi e la fortuna che arride a te e al popolo romano, la nostra causa e la
nostra gloria sono ancora intatte. Anche se della gloria sarei meno
sicuro, visto che i nemici ci hanno insultato in tutti i modi possibili,
come fossimo donnicciole nascoste al riparo della trincea, e tu, il nostro
comandante - cosa questa ben più difficile da sopportare - ci consideri
un esercito privo di nerbo, di armi e di mani e prima ancora di averci
messo alla prova hai disperato di noi a tal punto da ritenerti il comandante di
un'armata di invalidi e di storpi. Perché in quale altro modo potremmo
spiegarci che un generale esperto e temerario quale tu sei se ne stia, come
si suole dire, con le mani in mano? Comunque stiano le cose, è
più ragionevole che tu dia l'impressione di avere dei dubbi circa il nostro
valore piuttosto che ad avere dubbi sul tuo siamo noi soldati. Ma se invece
questa tattica non dipende da te ma ti è imposta dallo Stato, e se a
tenerci lontano da Roma è qualche accordo stretto dai senatori e non la guerra
contro i Galli, allora io ti prego di ascoltare le parole che sto per dirti non
come se fossero rivolte dalla truppa al comandante, ma come se a
parlare fosse la plebe ai patrizi (e visto che voi patrizi avete i vostri
piani, chi potrebbe prendersela coi plebei se anche loro decidessero di
averne?): noi siamo soldati, non vostri servi; siamo stati inviati a
combattere una guerra e non mandati in esilio. Se qualcuno vorrà dare
il segnale e guidarci in battaglia, noi saremo pronti a combattere come si
conviene a degli uomini e a dei Romani. Ma se non c'è bisogno delle
armi, allora preferiamo riposarci a Roma piuttosto che dentro un accampamento.
Ai patrizi è questo che mandiamo a dire. Ma a te, o comandante, noi che
siamo i tuoi soldati chiediamo imploranti di concederci
l'opportunità di combattere. Non abbiamo voglia soltanto di vincere: vogliamo vincere
sotto il tuo comando, conquistare per te l'alloro prestigioso, entrare
con te in trionfo a Roma e accompagnare con ovazioni e
ringraziamenti il tuo carro trionfale fino al tempio di Giove Ottimo Massimo». Il
discorso di Tullio venne sostenuto dalle invocazioni della folla, mentre
da ogni parte si udivano voci che chiedevano a tutta forza di dare il
segnale di battaglia e l'ordine di prendere le armi. 14 Pur pensando che l'iniziativa, di
per sé ottima, fosse stata condotta in maniera non certo esemplare,
ciò non ostante il dittatore decise di seguire la volontà della truppa,
e in privato domandò a Tullio che cosa significasse quel gesto e sulla base di
quale precedente egli avesse agito. Tullio pregò il dittatore
di non credere che egli si fosse dimenticato della disciplina militare,
né della propria posizione né tantomeno dell'autorità del
comandante: siccome la massa è in genere della stessa stoffa dei suoi capi, egli non
aveva rifiutato di esserne il portavoce, per evitare che saltasse
fuori qualcun altro simile a quelli che di solito la massa in fermento
suole scegliere come propri rappresentanti. Ma a essere sincero,
non avrebbe fatto nulla senza l'approvazione del suo comandante, il
quale doveva del resto guardarsi bene dal lasciarsi sfuggire di mano il
controllo dell'esercito, visto che in quello stato di eccitazione
rimandare la soluzione del problema non sarebbe servito a molto. Se infatti
l'ordine non fosse venuto dal comandante, avrebbero scelto da soli luogo
e tempo per entrare in battaglia. Mentre questo colloquio era
in pieno svolgimento, uno dei Galli tentò di portar via degli
animali che si trovavano a pascolare al di là della palizzata, ma se li vide
strappare da due Romani, contro i quali i Galli presero a scagliare sassi. Dalla
postazione romana si levò allora l'allarme e da entrambe le parti gli
uomini si mossero allo scontro. E ormai la scaramuccia stava per
trasformarsi in una battaglia vera e propria, se i centurioni non avessero
prontamente diviso i contendenti. Questo incidente persuase il dittatore
sul realismo delle parole di Tullio: dato che la situazione non
ammetteva ulteriori dilazioni, annunciò che il giorno successivo si sarebbe
combattuto in campo aperto. Ma il dittatore, scendendo in campo
convinto più del temperamento che non della forza della sue truppe,
cominciò a guardarsi intorno e a studiare qualche stratagemma per spaventare il
nemico. Grazie alla sua abilità tattica, escogitò un nuovo
espediente, di cui si servirono in séguito molti comandanti romani e di altre
genti (alcuni anche ai nostri giorni): ordinò ai palafrenieri di
togliere le selle ai muli, lasciando solo un paio di coperte e disse loro di
montarli vestendosi parte con le armi dei prigionieri e parte con quelle degli
ammalati. Dopo averne messi insieme circa mille, vi mescolò un
centinaio di cavalieri e ordinò loro di piazzarsi al calar della notte sulle
montagne che sovrastavano l'accampamento e di non muoversi di
lì finché non avessero ricevuto il segnale. Quanto al dittatore, non
appena fece giorno, cominciò a organizzare con estrema cura la sua
linea di battaglia alle pendici delle alture, in maniera che i nemici
andassero a piazzarsi di fronte alle montagne dove era stato allestito per
spaventarli un espediente che, pur non avendo nulla di concreto al di
là delle apparenze, fu per i Romani quasi più utile della loro
stessa forza. Sulle prime i comandanti dei Galli supposero che i Romani non
sarebbero scesi in pianura. Ma poi, quando li videro iniziare di colpo la
discesa, impazienti com'erano di venire allo scontro, si buttarono a
testa bassa e la battaglia ebbe inizio prima ancora che i rispettivi
comandanti avessero dato il segnale d'inizio. 15 L'ala destra dei Galli
attaccò in maniera ancora più poderosa: e per i Romani non sarebbe stato possibile
resistere, se il dittatore non si fosse trovato per puro caso da quella parte.
Chiamando per nome Sesto Tullio, gli domandò se fosse quello il
modo di combattere da lui promesso a nome dei soldati. Dov'erano finite le urla
di quelli che chiedevano di poter correre alle armi, dove le minacce di
entrare in battaglia senza l'ordine del comandante? Ecco, ora il loro
comandante li spronava a gran voce alla battaglia e ad avanzare con la spada in
pugno al di là delle insegne! Possibile che tra quanti poco prima
erano pronti a dare ordini non ce ne fosse uno disposto a seguirlo, loro che
nell'accampamento ostentavano baldanza e poi diventavano codardi in
battaglia? Le parole del comandante corrispondevano a verità: e la
vergogna provata fu uno stimolo tanto forte da far sì che si lanciassero
contro i proiettili nemici dimentichi del pericolo. Questo assalto quasi da
forsennati gettò lo scompiglio tra gli avversari, che vennero poi messi in
rotta da un attacco della cavalleria ancor prima di potersi riprendere dalla
confusione. Il dittatore stesso, non appena si rese conto che una parte
dello schieramento stava perdendo colpi, diresse l'attacco verso il
fianco sinistro dei Galli (nel punto in cui le loro fila apparivano più
compatte), e diede il segnale convenuto agli uomini appostati sulle alture. E
quando anch'essi alzarono un nuovo grido di guerra e i Galli li videro scendere
lungo le pendici del monte in direzione del loro accampamento,
temendo di rimanere tagliati fuori, abbandonarono la battaglia e fuggirono
disordinatamente verso l'accampamento stesso. Lì
però vennero intercettati dal maestro di cavalleria Marco Valerio, il quale,
dopo averne disperso il fianco sinistro, stava già cavalcando
di fronte ai dispositivi di difesa. Allora i fuggiaschi cambiarono direzione
puntando verso i monti e i boschi, dove però la maggior parte di essi
venne fronteggiata dai palafrenieri travestiti da cavalieri. Quelli che
erano stati spinti dal panico verso i boschi furono massacrati senza
pietà a battaglia già conclusa. Dai tempi di Marco Furio, nessuno meritò
più di Gaio Sulpicio di celebrare un trionfo sui Galli. Egli raccolse dalle
spoglie dei Galli una notevole quantità d'oro che
consacrò agli dèi in Campidoglio facendola interrare in una cella sotterranea. Nel corso di quello stesso anno anche i
consoli combatterono, pur se con esiti diversi. Gaio Plauzio infatti
vinse e sottomise gli Ernici. Il suo collega Fabio combatté invece contro i
Tarquiniesi, dimostrando però di non possedere né prudenza né senso
tattico. In quella campagna non furono tanto gravi le perdite patite sul
campo, quanto piuttosto il fatto che i Tarquiniesi uccisero trecento sette
soldati romani fatti prigionieri. Atto questo di barbara crudeltà che
rese ancora più clamorosa l'umiliazione del popolo romano. A quella disfatta si
andarono ad aggiungere anche le devastazioni compiute in séguito da
Privernati e Veliterni con una improvvisa incursione in territorio
romano. Quello stesso anno vennero aggiunte due nuove tribù, la
Pontina e la Publilia, e si celebrarono i giochi promessi in voto dal dittatore
Marco Furio. Su iniziativa del senato, per la prima volta nella storia
di Roma, il tribuno della plebe Gaio Petilio presentò al popolo
un disegno di legge sulla corruzione elettorale. Con questa misura si
sperava di eliminare l'abitudine di brigare a caccia di voti, specialmente
da parte degli uomini nuovi, i quali erano soliti andare in giro per
piazze e mercati. 16 Fu invece meno gradita ai senatori
una proposta di legge presentata l'anno successivo durante il consolato
di Gaio Marcio e Gneo Manlio. Gli autori della proposta - accolta con ben
altro favore dalla plebe e volta a limitare il tasso di interesse annuo
all'uno per cento - furono i tribuni della plebe Marco Duilio e Lucio
Menenio. Alle guerre già decise l'anno
precedente, venne ad aggiungersene una con i Falisci. A questo popolo venivano
imputate due colpe, e cioè il fatto che alcuni loro giovani avessero militato
nelle file dei Tarquiniesi e il non aver riconsegnato ai feziali che li
reclamavano i Romani rifugiatisi a Faleri dopo la rotta. La campagna
toccò a Gneo Manlio. Marcio guidò invece un esercito nel territorio dei
Privernati (rimasto intatto per il lungo periodo di pace intercorso), e
riempì le truppe di bottino. Alla grande razzia il console aggiunse anche la
propria generosità, perché non fece accantonare nulla per le casse dello Stato,
favorendo l'utile personale dei soldati. Dato che i Privernati si
erano accampati di fronte alle mura della loro città proteggendosi
con massicce opere di fortificazione, egli convocò l'adunata e rivolse alle
sue truppe queste parole: «L'accampamento e la città dei nemici ve li
concedo fin da adesso come vostro bottino, a patto che mi garantiate di svolgere il
vostro cómpito con valore, pensando più alla battaglia che al bottino».
I soldati chiesero allora a gran voce che venisse dato loro il segnale e si
gettarono con ardore in battaglia, rincuorati da una sicurezza che non
ammetteva dubbi. Fu allora che Sesto Tullio (di cui abbiamo parlato prima),
davanti alle insegne, gridò: «Guarda, comandante, come il tuo
esercito mantiene la promessa fatta!». Poi, lasciata l'asta, impugnò la
spada e si gettò all'assalto del nemico. I soldati della prima linea lo
seguirono in massa e, messi in fuga i nemici al primo urto, li inseguirono
fino in città. E lì, quando i Romani stavano ormai accostando le scale ai
muri, la città si arrese. La vittoria sui Privernati venne celebrata con un
trionfo. L'altro console non fece nulla che
valga la pena di menzionare, se si esclude che, nel suo accampamento
presso Sutri, facendo votare gli uomini per tribù (una prassi senza
precedenti), riuscì a far approvare una legge in base alla quale le affrancazioni di
schiavi venivano tassate del cinque per cento. Il senato approvò la
legge, perché essa garantiva un gettito di denaro non trascurabile per l'erario in
grave crisi. Ma i tribuni della plebe, preoccupati più dal
precedente stabilito che dalla legge in sé, ottennero che venisse sancita la pena
di morte per chiunque avesse in séguito osato convocare l'assemblea del
popolo lontano da Roma. Infatti, se ciò fosse stato concesso,
qualunque cosa, per quanto dannosa per il popolo, avrebbe potuto essere approvata
attraverso il voto dei soldati vincolati dal giuramento di obbedienza
al console. Nel corso di quel medesimo anno, Gaio
Licinio Stolone venne condannato, sulla base della sua stessa legge, a
un'ammenda di diecimila assi, per il fatto che, possedendo insieme col
figlio mille iugeri di terra, aveva tentato di aggirare la legge
dichiarando il figlio indipendente dalla patria potestà. 17 In séguito i due nuovi consoli,
Marco Fabio Ambusto e Marco Popilio Lenate (entrambi eletti per la seconda
volta), combatterono due guerre. La prima, contro i Tiburtini, non
presentò problemi perché Marco Popilio, dopo aver costretto i nemici
all'interno della città, ne devastò le campagne. Nella seconda Falisci e
Tarquiniesi sbaragliarono l'altro console al primo urto. Il panico fu
dovuto soprattutto a questo: i sacerdoti dei due popoli, reggendo
nelle mani fiaccole accese e serpenti, si avventarono come furie sui Romani,
che si lasciarono spaventare da quell'insolito spettacolo. Sulle prime,
come se avessero perso l'uso della ragione, ruppero le righe e corsero a
rifugiarsi all'interno delle fortificazioni. Ma poi, quando i
consoli, i luogotenenti e i tribuni li dileggiarono rimproverandoli di essersi
spaventati come bambini di fronte a un insulso trucco, la vergogna
mutò il loro atteggiamento, spingendoli a gettarsi con cieco furore contro quegli
stessi che li avevano terrorizzati. Così, dopo aver
disperso quel falso apparato nemico, si lanciarono contro gli uomini realmente
armati, mettendo in fuga l'intera armata nemica e conquistandone quello
stesso giorno anche l'accampamento: tornando vincitori con l'enorme bottino
razziato, i soldati deridevano con lazzi militareschi non solo la messa in
scena allestita dai nemici ma anche la propria paura. In séguito
tutti i popoli etruschi entrarono in guerra, dirigendosi verso le Saline,
agli ordini dei comandanti di Tarquinia e di Faleri. Per fronteggiare
quella minaccia, venne eletto dittatore Gaio Marcio Rutulo - il primo
plebeo a occupare tale magistratura -, che scelse come maestro
di cavalleria un altro plebeo, Gaio Plauzio. Ma i patrizi ritennero
fosse una vergogna il dividere con i plebei anche la dittatura.
Perciò esercitarono tutta la loro influenza per evitare che venissero approvati decreti
o fatti i preparativi necessari al dittatore per condurre quella guerra.
Tanto più prontamente il popolo votò tutte le proposte avanzate dal
dittatore. Partito da Roma, il dittatore, servendosi di zattere, dispose le sue
truppe su entrambe le rive del Tevere, dovunque veniva a sapere che si
trovavano i nemici, e sorprese molti che vagavano saccheggiando le
campagne. Con un attacco a sorpresa catturò poi anche l'accampamento
nemico insieme con ottomila uomini. I restanti vennero massacrati o
allontanati dal territorio romano; al dittatore il popolo tributò il
trionfo, senza però che questo venisse autorizzato dal senato. Siccome i patrizi non permettevano che
né il dittatore plebeo né il console presiedessero le elezioni
consolari e l'altro console, Marco Fabio Ambusto, era trattenuto dalla guerra,
la situazione sfociò in un interregno. La carica venne detenuta
successivamente da Quinto Servilio Aala, Marco Fabio, Gneo Manlio, Gaio
Fabio, Gaio Sulpicio, Lucio Emilio, Quinto Servilio e Marco Fabio Ambusto.
Durante il secondo interregno ci fu un contrasto dovuto al fatto che
stavano per essere eletti consoli due patrizi: ma avendo i tribuni opposto il
loro veto, l'interré Fabio sosteneva che, giusta una legge delle
XII Tavole, qualunque cosa il popolo avesse decretata per ultima aveva
valore di norma e doveva essere ratificata; inoltre anche il voto del
popolo doveva considerarsi una deliberazione. Ma siccome il ricorso al
veto da parte dei tribuni non portò ad altro che a differire
la data delle elezioni, vennero eletti consoli due patrizi, Gaio Sulpicio
Petico (al terzo consolato) e Marco Valerio Publicola, i quali entrarono in
carica lo stesso giorno. 18 A quattrocento anni dalla fondazione
di Roma e a trentacinque da quando venne ripresa ai Galli, i plebei
vennero privati del consolato cui avevano avuto accesso per dieci anni [a entrare
in carica dopo l'interregno furono due patrizi, Gaio Sulpicio Petico (al
terzo consolato) e Marco Valerio Publicola]. Quell'anno la città
di Empoli venne tolta ai Tiburtini senza che si dovesse ricorrere a battaglie
degne di essere menzionate. E questo o perché quella campagna venne condotta
sotto gli auspici dei due consoli, come è scritto in alcune fonti,
oppure perché il territorio di Tarquinia venne messo a ferro e fuoco dal console
Sulpicio proprio nello stesso momento in cui Valerio guidò le
sue legioni contro i Tiburtini. I consoli ebbero vita ben più
difficile in patria, opposti com'erano a plebe e tribuni. I nobili ritenevano
che il senso dell'onore e il riconoscimento dei loro meriti ormai
rendevano imprescindibile che, come due patrizi avevano ottenuto il
consolato, così essi dovessero tramandarlo a successori che fossero entrambi
patrizi: anzi, sostenevano che bisognasse o rinunciare del tutto a
quella carica, e far diventare il consolato una magistratura plebea,
oppure mantenere intatto quel possesso che essi avevano ereditato integro dai
loro padri. Dall'altra parte i plebei erano in fermento: che senso
aveva vivere, che senso aveva essere considerati parte dello Stato, se poi
non erano in grado di mantenere, tutti insieme, ciò che il
coraggio di due soli uomini, Lucio Sestio e Gaio Licinio, aveva ottenuto per loro?
Meglio dover accettare i re o i decemviri o qualunque altra peggior
forma di governo, piuttosto che vedere entrambi i consoli patrizi, senza
alternanza nell'obbedire e nel comandare, con una parte della
cittadinanza che si riteneva investita per sempre dell'autorità e considerava
la plebe come nata per nient'altro che la servitù. Tribuni che
agitassero le acque certo non mancavano, ma in quella situazione che vedeva tutti
già di per sé eccitati i capi emergevano a stento. Dopo alcune
inutili discese del popolo nel Campo Marzio e molti giorni dedicati alle
assemblee e finiti in scontri, la perseveranza dei consoli ebbe alla fine
la meglio: i plebei arrivarono a un punto tale di esasperazione da
seguire mestamente i loro tribuni i quali andavano gridando che la
libertà era ormai perduta e che bisognava abbandonare non solo il Campo Marzio,
ma anche Roma stessa, a sua volta prigioniera e oppressa dalla tirannide
patrizia. Ma i consoli, abbandonati da una parte della popolazione, non
ostante l'esiguo numero di votanti, portarono a termine le elezioni con
pari determinazione. I consoli eletti, Marco Fabio Ambusto e Tito Quinzio (al
terzo consolato), erano entrambi patrizi. In alcuni annali come console
ho trovato Marco Popilio al posto di Tito Quinzio. 19 Le due guerre combattute quell'anno
ebbero esito positivo. Tarquiniesi e Tiburtini vennero costretti alla
resa. Ai Tiburtini fu strappata Sassula. Le altre città
avrebbero fatto la sua stessa fine, se l'intero popolo non avesse abbandonato le armi,
consegnandosi a discrezione del console. Per la sconfitta dei Tiburtini
venne celebrato un trionfo. Ma la clemenza prevalse negli altri aspetti
della vittoria. Per la gente di Tarquinia non ci fu invece nessuna
pietà: molti di essi vennero uccisi in battaglia, e dei moltissimi prigionieri
catturati ne vennero scelti trecento cinquantotto - il fiore della
nobiltà - per essere inviati a Roma, mentre il resto della popolazione
venne passato per le armi. Quanto al popolo, non fu molto più
clemente con quelli che erano stati inviati a Roma: vennero frustati e decapitati al
centro del foro. Fu quello il modo per vendicarsi dei nemici per i Romani
massacrati nel foro di Tarquinia. Il successo in questa guerra fece
sì che anche i Sanniti venissero a chiedere la pace. Il senato ebbe per i
loro ambasciatori una risposta amichevole e concesse loro un trattato
di alleanza. Ma la plebe di Roma non coglieva in
patria gli stessi successi che le toccavano in campo militare. Infatti,
anche se l'adozione del tasso di interesse dell'uno per cento sui
prestiti li aveva liberati dall'usura, i più poveri erano ugualmente
schiacciati dal peso del capitale da restituire e finivano con l'essere
ridotti in schiavitù. E per questo né la presenza di due consoli patrizi, né
la preoccupazione per le elezioni o per la politica riusciva a distrarre
l'attenzione dei plebei dalle vicissitudini private. Di conseguenza
entrambi i consoli continuarono a essere patrizi e vennero eletti Gaio
Sulpicio Petico (al quarto consolato) e Marco Valerio Publicola (al secondo). Mentre la gente aveva pensieri solo per
la guerra contro il popolo etrusco (poiché circolava voce che gli abitanti
di Cere, presi da compassione per i loro consanguinei di Tarquinia,
avrebbero fatto causa comune con questi ultimi), arrivarono ambasciatori latini
a stornare l'attenzione verso i Volsci: riferirono che questi avevano
arruolato e armato un esercito con il quale stavano già minacciando
il territorio latino, per poi passare di lì a devastare quello romano. Il
senato ritenne opportuno non trascurare nessuno dei due pericoli, e
ordinò di arruolare legioni per entrambe le campagne, lasciando che i consoli
dividessero tra loro i cómpiti con un sorteggio. Ma il fronte etrusco divenne
in séguito la preoccupazione maggiore, quando cioè tramite
una lettera del console Sulpicio, cui era toccata la campagna contro Tarquinia,
si venne a sapere che la zona nei pressi delle Saline romane era stata
messa a ferro e fuoco, che parte del bottino era stata portata nel
territorio di Cere e che tra i responsabili del saccheggio c'erano sicuramente
giovani provenienti da quella città. Pertanto il senato, dopo aver
richiamato il console Valerio, che era impegnato contro i Volsci e stava
accampato nel territorio di Tuscolo, gli ordinò di nominare un dittatore.
La scelta cadde su Tito Manlio, il figlio di Lucio. Questi, dopo essersi scelto
come maestro di cavalleria Aulo Cornelio Cosso, si limitò a
chiedere un esercito consolare e quindi, con l'autorizzazione del senato e per
volontà del popolo, dichiarò guerra agli abitanti di Cere. 20 Fu in quel momento che gli abitanti
di Cere, come se nelle parole dei nemici ci fossero più minacce di
guerra che non nelle provocazioni e nelle devastazioni da loro inflitte ai
Romani, vennero presi per la prima volta dal terrore di dover affrontare lo
scontro e cominciarono a rendersi conto dell'inadeguatezza delle loro forze a quel
genere di conflitto. Così si pentivano dei saccheggi compiuti e
maledicevano i Tarquiniesi per averli trascinati alla defezione. Non c'era un
solo cittadino che si armasse o facesse preparativi di guerra, ma tutti
chiedevano di inviare ambasciatori a chiedere perdono dell'errore
commesso. Quando gli ambasciatori si presentarono al senato, i senatori li
mandarono di fronte al popolo. Lì, invocando gli dèi, i cui oggetti
sacri essi avevano conservato durante la guerra con i Galli proteggendoli
secondo le prescrizioni rituali, gli ambasciatori implorarono i celesti di
ispirare a un popolo romano ora florido e potente quella stessa
compassione che la gente di Cere aveva avuto per Roma sull'orlo della
disfatta. Poi, rivoltisi verso il santuario di Vesta, implorarono il collegio dei
flamini e le Vestali, cui essi avevano offerto ospitalità con
religiosa devozione. Chi poteva credere che gente comportatasi in maniera
così meritoria nei confronti dei Romani potesse essersi ora trasformata in
nemica senza averne alcun motivo? O che se anche avesse commesso qualche gesto
ostile, ciò non fosse dovuto a un momento di follia ma costituisse un
atto premeditato, mirato a guastare con misfatti recenti i benefici
conquistati in passato e collocati per di più presso uomini tanto
riconoscenti, a trasformare in nemico di un popolo romano ora nel pieno del benessere e
della potenza militare chi gli era stato amico nell'ora delle
difficoltà? Non chiamassero 'premeditazione' ciò che andava invece chiamato
'forza e necessità'! I Tarquiniesi, attraversando in assetto di guerra il
loro territorio, avevano chiesto solo il permesso di passare: poi
però si erano trascinati dietro gente dei campi che aveva preso parte ai
saccheggi, e questi venivano adesso imputati agli abitanti di Cere. Se i
Romani desideravano che quegli uomini fossero consegnati, erano disposti a
farlo; se invece desideravano che li si punisse, non avrebbero esitato a
metterli a morte. Ma Cere, vero santuario del popolo romano, asilo per
i sacerdoti e rifugio per gli oggetti sacri dei Romani, fosse
lasciata intatta e immune dall'accusa di voler muovere guerra, in nome
dell'ospitalità offerta alle Vestali e della reverenza dimostrata nei confronti
delle divinità. Ciò che commosse il popolo non fu tanto la causa perorata
in quel momento, quanto piuttosto il ricordo dei meriti conquistati in
passato: così fu portato a scegliere di dimenticare un'offesa piuttosto che un
beneficio. Pertanto agli abitanti di Cere venne concessa la pace, e si
decise di proclamare una tregua di cento anni, sancendola con un
senatoconsulto. La violenza della guerra venne rivolta contro i Falisci, sui
quali pendeva lo stesso tipo di imputazione. Ma non si trovarono tracce
del nemico. Dopo aver devastato le campagne nella loro estensione, i
Romani si astennero dall'assediare i centri abitati. Una volta ricondotte a
Roma le legioni, il resto dell'anno venne impiegato nella riparazione di
mura e torri, e ci fu la consacrazione di un tempio ad Apollo. 21 Verso la fine dell'anno, la frizione
tra patrizi e plebei impedì lo svolgimento delle elezioni consolari:
mentre i tribuni della plebe sostenevano che avrebbero permesso di
convocare l'assemblea soltanto se lo si fosse fatto in conformità
alla legge Licinia, dall'altra parte il dittatore insisteva con ostinazione che
si dovesse eliminare del tutto il consolato dalle istituzioni statali,
piuttosto che avere una magistratura aperta, senza alcuna distinzione, a patrizi
e plebei. Mentre la convocazione dell'assemblea veniva di
continuo rinviata, il dittatore completò il proprio mandato e si
arrivò così a un interregno. Ma dato che gli interré continuavano a constatare
nella plebe una profonda ostilità verso i patrizi, gli scontri tra le due
classi proseguirono fino all'undicesimo interré. I tribuni si
vantavano di proteggere la legge Licinia: la plebe, invece, era toccata
più da vicino dal continuo aumento dei debiti e le preoccupazioni private
si scaricavano nelle contese di natura pubblica. Infastiditi dalla
situazione, i patrizi ordinarono all'interré Lucio Cornelio Scipione di
far sì che in occasione delle elezioni consolari ci si attenesse alla
legge Licinia in nome della concordia interna. Venne eletto Publio
Valerio Publicola, cui fu affidato un collega di estrazione plebea, Gaio
Marcio Rutulo. Ora che gli animi inclinavano alla concordia, i nuovi
consoli tentarono di trovare una soluzione anche al problema dell'usura,
che a quel punto sembrava essere il solo ostacolo all'armonia interna.
Per loro intervento fu lo Stato ad occuparsi del problema dei debiti:
furono nominati cinque commissari, che ebbero il nome di banchieri per la
facoltà a essi assegnata di dispensare denaro. Questi uomini operarono in
maniera così equilibrata e scrupolosa da essere poi menzionati in tutti gli
annali: si trattava di Gaio Duilio, Publio Decio Mure, Marco Papirio,
Quinto Publilio e Tito Emilio. Nell'assolvere un cómpito quanto mai
delicato, con il solito rischio di scontentare l'una e l'altra parte o
almeno di alienarsi il consenso di una delle due, essi dimostrarono grande
equità e soprattutto seppero fare in modo che un onere per lo Stato non si
trasformasse in un disastro finanziario. Infatti i debiti
arretrati, dovuti più all'incuria dei debitori che alla reale mancanza di
fondi, l'erario li pagò in contanti, previo però il versamento di una
cauzione, tramite le banche piazzate appositamente nel foro, oppure li
estingueva con beni valutati a prezzi equi. Il risultato dell'operazione fu
che una grande quantità di debiti venne cancellata non solo senza
commettere ingiustizie, ma riuscendo anche a evitare lamentele da entrambe le
parti in causa. In séguito un falso allarme relativo a
una guerra contro gli Etruschi - allarme dovuto a una notizia infondata
secondo cui i dodici popoli etruschi avrebbero costituito una
coalizione -, indusse a nominare un dittatore. La nomina venne fatta
nell'accampamento perché fu lì inviata ai consoli la disposizione votata dal
senato e la scelta cadde su Gaio Giulio cui venne associato come maestro di
cavalleria Lucio Emilio. Per il resto dell'anno non ci furono dall'esterno
motivi di allarme. 22 In patria, invece, il dittatore
tentò di far eleggere due consoli patrizi. Ma la cosa portò
all'interregno. I due interré che si succedettero, Gaio Sulpicio e Marco
Fabio, riuscirono a realizzare quanto il dittatore aveva tentato invano: la
plebe, riconoscente per essere stata liberata dal peso del debito, concesse che
entrambi i consoli fossero patrizi. Si trattava dello stesso Gaio
Sulpicio Petico, il primo dei due interré, e di Tito Quinzio Peno (il cui
prenome, stando ad alcuni storici, sarebbe stato Cesone, mentre altri
riportano Gaio). Partiti entrambi per la guerra, Quinzio per la campagna
contro i Falisci, Sulpicio per quella contro i Tarquiniesi, i due consoli non
si scontrarono mai in campo aperto col nemico, ma bersagliarono più
le campagne che gli esseri umani, devastando e bruciando i terreni.
Quando questa forma di lenta consunzione ebbe la meglio sull'ostinazione di
entrambi i popoli, i nemici prima chiesero ai consoli una tregua, poi la
ottennero dal senato, con l'approvazione consolare, per una
durata di quarant'anni. Visto che la preoccupazione legata ai
due conflitti in atto era in questo modo cessata, non essendovi altra
minaccia di guerra in vista, si decise di effettuare un censimento, perché
l'eliminazione dei debiti aveva fatto cambiare padrone a molte
proprietà. Senonché, quando vennero bandite le elezioni per la nomina dei censori,
l'armonia tra le classi venne turbata dall'annuncio di Gaio Marcio Rufulo (il
primo plebeo a essere nominato dittatore), il quale dichiarò di
volersi candidare per quella carica. Era evidente che il momento non risultava
favorevole per una simile iniziativa, perché in quella
congiuntura entrambi i consoli erano patrizi: e infatti dichiararono che non
avrebbero minimamente tenuto conto di quella candidatura. Ma Rufulo
perseverò nella sua azione e i tribuni fecero di tutto per aiutarlo, nella
speranza di poter recuperare quanto
avevano perduto nelle elezioni consolari. E poi non era soltanto il prestigio stesso dell'uomo a essere
superiore a qualunque carica (per quanto elevata potesse essere), ma
erano anche i plebei a desiderare una partecipazione alla censura nella
persona di quello stesso cittadino che aveva loro aperto le porte della
dittatura. Nel corso dell'assemblea elettorale le posizioni non cambiarono:
Marcio venne eletto censore insieme a Manlio Nevio. Quell'anno si ebbe anche un dittatore
nella persona di Marco Fabio, ma non per una qualche minaccia di guerra,
bensì per evitare che ci si attenesse alla legge Licinia nell'elezione dei
consoli. Al dittatore venne affiancato in qualità di maestro
di cavalleria Quinto Servilio. Tuttavia la dittatura non riuscì a
rendere quell'unanime consenso dei patrizi più potente nelle elezioni consolari di
quanto non fosse stato in quelle dei censori. 23 Marco Popilio Lenate fu il console
plebeo, Lucio Cornelio Scipione il patrizio. Anche la sorte volle rendere più
illustre il console plebeo. Infatti, quando arrivò la notizia che un
poderoso esercito di Galli si era accampato in territorio latino, il console
Scipione era gravemente malato: fu così che il comando delle
operazioni venne assegnato a Popilio con un provvedimento straordinario. Egli,
arruolato senza indugi un esercito, dato a tutti l'ordine di trovarsi in
armi al tempio di Marte fuori della porta Capena, e ai questori di
trasportare lì le insegne dall'erario, completò quattro legioni e
affidò il numero di uomini in eccesso al pretore Publio Valerio Publicola,
sollecitando il senato ad arruolare un secondo esercito che facesse da riserva in
previsione di eventuali emergenze belliche. Poi, una volta
esauriti di persona tutti i preparativi, partì alla volta
del nemico. E per conoscere l'entità delle forze nemiche prima di doverle saggiare
nel corso di uno scontro decisivo, occupò la collina più
vicina all'accampamento dei Galli e cominciò a scavarvi una trincea. I Galli,
bellicosi e per natura sempre smaniosi di arrivare allo scontro armato, non
appena videro in lontananza le insegne romane, si schierarono sùbito in
assetto di guerra come se avessero dovuto immediatamente ingaggiare battaglia. Ma
poi, rendendosi conto che i Romani non accennavano a scendere in pianura
bensì cercavano di proteggersi non solo sfruttando la posizione elevata ma
anche con l'ausilio di una trincea, supposero che i nemici fossero
in preda al panico e, nel contempo, che risultassero ancor
più vulnerabili proprio perché impegnati nella costruzione. Per questo
attaccarono con urla spaventose. I Romani, senza interrompere il lavoro (nel quale
erano occupati solo i triarii), cominciarono a combattere con le file
degli hastati e dei principes, piazzate all'erta con le armi in pugno,
davanti ai compagni impegnati nei lavori. Al di là dell'effettivo
valore, ciò che li aiutò fu anche la posizione sopraelevata: le loro aste e
i loro giavellotti, invece di andare a vuoto come spesso succede
quando vengono lanciati su un terreno pianeggiante, centravano sempre il
bersaglio, per il peso stesso che li portava a conficcarsi. E i Galli,
schiacciati dai proiettili che li raggiungevano passandoli da parte a
parte, oppure si conficcavano negli
scudi appesantendoli, dopo essere avanzati di corsa lungo l'erta del monte, in un primo tempo si fermarono,
disorientati; poi - quella semplice esitazione aveva ridotto il loro
slancio e dato animo agli avversari - ricacciati indietro, presero a
ruzzolare l'uno sull'altro, e questo provocò un massacro ancora
più cruento di quello inferto dai colpi nemici. Furono più gli uomini calpestati
dalla massa che rovinava verso la pianura dei compagni caduti in combattimento. 24 Eppure i Romani non erano ancora
sicuri di aver vinto: una volta scesi sul pianoro, c'era ad aspettarli un
nuovo scontro. Infatti la grande massa dei Galli, assorbito un simile colpo,
si risollevò come fosse stata un'armata fresca, incitando gli uomini
integri a lanciarsi contro il nemico vittorioso. I Romani
rallentarono la corsa e si fermarono, perché erano costretti ad affrontare una nuova
battaglia allo stremo delle energie, e per il fatto che il console,
essendosi incautamente esposto in mezzo alle prime file, era stato
colpito: un giavellotto gli aveva quasi trapassato la spalla, costringendolo a
ritirarsi momentaneamente dalla battaglia. E già per quella
pausa la vittoria stava per sfumare, quand'ecco che il console, tornato in
prima linea con la ferita bendata, disse: «Perché state fermi, soldati? Il
nemico con cui avete a che fare non sono né i Latini né i Sabini,
popoli che voi avete superato in guerra trasformandoli da nemici in alleati;
è contro belve feroci che abbiamo sguainato le spade: dobbiamo versare il
loro sangue o essere pronti a dare il nostro. Li avete respinti dal vostro
accampamento e ricacciati giù lungo le pendici scoscese del monte;
state camminando sui loro cadaveri: riempite allora anche la pianura con lo
stesso tappeto di morti che avete disseminato sul monte. Non aspettate
che i Galli vi sfuggano mentre voi restate fermi. È tempo di andare
all'assalto e di gettarsi addosso al nemico». A questo incitamento, i Romani
si levarono insieme e fecero indietreggiare i primi manipoli dei
Galli. Poi, in formazioni a cuneo, irruppero nel centro dello
schieramento. E i barbari, dispersi da quell'urto, privi com'erano di ordini
precisi e di comandanti, mutarono direzione, verso i loro compagni.
Sparsi per le campagne e spinti dalla fuga fino oltre il loro accampamento,
si diressero verso la rocca di Alba, che tra le colline appariva loro come
il luogo più alto. Il console non li inseguì oltre l'accampamento: il
peso della ferita cominciava a farsi sentire ed egli non voleva esporre le
truppe sotto quelle colline occupate dal nemico. Dopo aver concesso ai suoi
uomini l'intero bottino razziato nell'accampamento, ricondusse a Roma
l'esercito vincitore, carico delle ricche spoglie sottratte ai Galli. La
ferita del console ne ritardò il trionfo, suggerendo anche al senato
l'idea di un dittatore, perché vi fosse qualcuno in grado di presiedere
delle elezioni durante l'indisposizione dei consoli. Dittatore
venne eletto Lucio Furio Camillo, cui fu affiancato in qualità di
maestro di cavalleria Publio Cornelio Scipione; Camillo restituì ai
patrizi il controllo totale che anticamente i suoi membri avevano sul consolato. In
segno di riconoscenza, fu proprio Camillo a essere nominato console
grazie al massiccio appoggio dei
patrizi: a sua volta egli annunciò che avrebbe avuto come
collega Appio Claudio Crasso. 25 Prima che i nuovi consoli entrassero
in carica, Popilio celebrò il trionfo sui Galli con entusiasmo da
parte dei plebei che, mormorando tra loro, domandavano se qualcuno
rimpiangesse la nomina di quel console plebeo. Nel contempo però si
lamentavano di Camillo cui rimproveravano di essersi fatto nominare console quando
era ancora dittatore, conquistandosi, in spregio alla legge
Licinia, un premio più infamante per la sua avidità personale che per
il danno dello Stato. Quell'anno rimase nella storia per molti e svariati
sommovimenti. I Galli, non essendo in grado di sopportare i rigori dell'inverno,
erano scesi dai monti Albani disperdendosi a razziare le campagne e
i litorali. Il mare, così come la costa di fronte ad Anzio e la zona di
Laurento, erano infestati da flotte greche, al punto che una volta pirati
di mare e predoni di terra si scontrarono in una battaglia dall'esito
incerto, al termine della quale i Galli rientrarono all'accampamento e i
Greci fecero ritorno alle navi, senza poter stabilire né gli uni né gli
altri se fossero usciti vinti o vincitori. Ma l'allarme di gran lunga
più preoccupante fu causato dalle assemblee che le tribù latine
tenevano nel bosco di Ferentina e dalla risposta data dalle stesse a una
richiesta di truppe ausiliarie avanzata dai Romani. I Latini mandarono a dire
di non dare più ordini ai popoli del cui aiuto i Romani avevano bisogno:
quanto a loro, avrebbero imbracciato le armi in difesa della propria
libertà piuttosto che per sostenere una dominazione straniera. Con lo Stato
contemporaneamente coinvolto in due guerre esterne e, in più, con la
preoccupazione che veniva dalla defezione degli alleati, il senato, rendendosi
conto di dover ricorrere all'intimidazione per tenere a freno
chi non aveva osservato gli accordi, ordinò ai consoli di ricorrere a
tutti i poteri in loro possesso per effettuare una leva militare, poiché la
diserzione degli alleati rendeva necessario il ricorso a un esercito di
cittadini. Stando alle fonti,
vennero arruolati giovani non solo in città ma anche nelle
campagne, coi quali vennero formate dieci legioni di
4200 fanti e di 300 cavalieri ciascuna, un esercito quale le attuali
forze del popolo romano (cui appena basta lo spazio del mondo intero), se
si presentasse una minaccia dall'esterno, non riuscirebbero
facilmente ad allestire nemmeno se raccolte tutte insieme. A tal punto
siamo riusciti a migliorare solo nei mali che ci affliggono, e cioè
il lusso e la ricchezza. Tra i molti altri eventi che
funestarono l'anno, ci fu la morte di Appio Claudio, uno dei due consoli, nel pieno
dei preparativi di guerra. Il potere passò allora a Camillo,
cui, in qualità di console unico - sia per l'alta considerazione di cui egli godeva e
che non si riteneva subordinabile all'autorità di un
dittatore, sia per il felice augurio costituito dal suo soprannome in
relazione all'attacco dei Galli - i senatori non ritennero conveniente
affiancare un dittatore. Il console assegnò due legioni alla difesa
della città e divise le altre otto con il pretore Lucio Pinario. Memore del
valore dimostrato dal padre, si accollò il comando della spedizione contro i
Galli senza ricorrere al sorteggio, ordinando al pretore di salvaguardare
il litora-le e di impedire ai Greci di sbarcare. Disceso quindi nell'agro
Pontino, non volendo affrontare il nemico in pianura se non per assoluta
necessità, convinto di poter adeguatamente domare i Galli impedendo
loro le razzie (cui i barbari erano costretti per sopravvivere), scelse un
luogo adatto per porre un accampamento fisso. 26 Mentre i Romani ingannavano
tranquillamente il tempo in servizi di guardia, si fece avanti un Gallo, di
notevole prestanza fisica e armamento. Ottenuto il silenzio con un
colpo di asta sullo scudo, il barbaro, con l'aiuto di un interprete,
sfidò i Romani a scegliere un uomo che si battesse con lui. C'era un
giovane tribuno dei soldati di nome Marco Valerio il quale, non ritenendosi
meno degno di ottenere quell'onore di quanto lo fosse stato Tito Manlio,
chiese l'autorizzazione al console, e, prese le armi, avanzò nel
mezzo. Ma un intervento degli dèi tolse valore a quello scontro tra uomini.
Mentre il Romano stava già per lanciarsi all'assalto, un corvo
improvvisamente andò a posarglisi sull'elmo, rivolgendosi verso il
nemico. Sùbito il tribuno accolse con gioia l'evento, come un segno augurale
inviato dal cielo, poi pregò che chiunque - dio o dea - gli avesse
mandato quel buon augurio, lo assistesse col proprio favore e la propria
protezione. Incredibile a dirsi, l'uccello non solo mantenne la posizione occupata
inizialmente, ma ogni qualvolta i duellanti arrivavano a distanza
ravvicinata si levava in volo andando a colpire con il becco e gli artigli la
bocca e gli occhi dell'avversario. Fino a quando il soldato gallico,
terrorizzato alla vista di un simile prodigio che gli offuscava insieme la
mente e gli occhi, venne colpito a morte da Valerio, mentre il corvo
volò via verso oriente scomparendo alla vista. Fino a quel momento le due parti
avevano assistito al duello in silenzio. Ma non appena il tribuno
cominciò a spogliare il corpo del nemico ucciso, i Galli non rimasero
più dov'erano e i Romani furono ancora più veloci nel correre verso il
vincitore. Si formò una mischia intorno al cadavere del campione gallico e
scoppiò una battaglia furibonda che non rimase circoscritta ai manipoli dei
più vicini posti di guardia, ma fu combattuta dalle legioni riversatesi
nella zona da entrambi le parti. Ai soldati felici per la vittoria del
tribuno ma anche per il sostegno fornito in quel momento dagli
dèi Camillo diede allora ordine di gettarsi all'assalto. E indicando il tribuno,
che indossava le spoglie del nemico, disse: «Imitatelo, soldati, fate strage dei
Galli, a mucchi intorno al loro comandante!». A quella battaglia
presero parte uomini e dèi, e il combattimento non lasciava dubbi sulla
vittoria finale, tanto il risultato del duello aveva indicato ad ambedue le
parti l'esito della battaglia. Tremendo fu l'urto di quelli che
dettero inizio allo scontro, trascinandosi dietro gli altri. Il
resto dei Galli si diede alla fuga prima di arrivare a tiro. Dispersi in
un primo tempo nel territorio dei Volsci e per l'agro Falerno, i
fuggitivi si diressero poi verso l'Apulia e il mare Tirreno. Convocati i suoi uomini, il console
elogiò il tribuno e gli fece dono di dieci buoi e di una corona d'oro. Poi,
per ordine del senato, Camillo andò a occuparsi della guerra sul litorale,
unendo le proprie forze a quelle del pretore. Ma siccome là
sembrava che la campagna andasse per le lunghe, con i Greci che non avevano intenzione
di affrontare uno scontro aperto, il senato autorizzò il console a
nominare dittatore Tito Manlio Torquato, in modo che si potessero tenere le
elezioni. E il dittatore, nominato maestro di cavalleria Aulo Cornelio
Cosso, presiedette le elezioni consolari e annunciò, tra
l'entusiasmo del popolo, che la scelta era caduta su un giovane di trentatré anni,
quel Marco Valerio Corvo (dopo il duello portava ormai questo soprannome)
che, in sua assenza, ne aveva emulato le gesta gloriose. Come collega
di Corvo venne nominato il plebeo Marco Popilio Lenate, destinato a
rivestire la carica per la quarta volta. Contro i Greci Camillo non fece nulla
che sia degno di essere ricordato: non erano un popolo che prediligesse il
combattimento sulla terraferma, così come i Romani non amavano
quello in mare aperto. Ma alla fine, rimasti senz'acqua e senza il
necessario per la prolungata assenza da terra, i Greci abbandonarono l'Italia.
Non è chiaro a quale popolo e a quale razza appartenesse quella flotta.
Personalmente sarei portato a credere che fosse dei tiranni siculi,
perché in quel tempo la Grecia vera e propria, travagliata da lotte
intestine, era già minacciata dalla potenza macedone. 27 Una volta congedati gli eserciti,
mentre all'esterno regnava la pace e in patria si viveva sereni per la
concordia tra le classi, a impedire un'eccessiva felicità dei
cittadini, una pestilenza colpì Roma costringendo il senato a ordinare ai
decemviri di consultare i libri sibillini. Su loro consiglio si tenne
un lettisternio. Quello stesso anno gli Anziati fondarono una colonia a
Satrico, che fu così ricostruita dopo essere stata distrutta dai Latini.
Venne inoltre stipulato un trattato con i Cartaginesi, i quali avevano inviato
a Roma degli ambasciatori con la richiesta di stabilire legami di
alleanza e di amicizia. Sotto il consolato di Tito Manlio
Torquato e di Gaio Plauzio in patria e all'estero si mantennero le stesse
condizioni di stabilità. Il tasso di interesse, che era all'uno per cento,
venne dimezzato, mentre il pagamento dei debiti fu articolato in modo che se
ne pagasse un quarto sùbito e il resto in rate triennali. Anche
così parte della plebe ne ebbe a soffrire, ma il senato non poté dedicare ai casi
dei singoli l'attenzione richiesta dal credito pubblico. Ciò che
soprattutto permise alla gente di tirare il fiato fu la soppressione della tassa di
guerra e della leva. Tre anni dopo che Satrico era stata
ricostruita dai Volsci, Marco Valerio Corvo venne eletto console per la
seconda volta insieme a Gaio Petelio. Quando dal Lazio arrivò la
notizia che ambasciatori di Anzio andavano tra le tribù latine con l'intento di
scatenare una guerra, Valerio ricevette l'ordine di affrontare i Volsci prima
che si sollevassero altri nemici e marciò alla volta di Satrico con
un esercito in assetto di guerra. Là gli Anziati e altre genti dei Volsci gli
andarono incontro con forze già predisposte per un'eventuale sortita
romana: tra i due popoli vi era un odio antico, e la battaglia
iniziò senza indugi. I Volsci, gente portata più a prendere le armi per
rivoltarsi che a condurre una guerra vera e propria, furono sconfitti sul campo e
si rintanarono dentro le mura di Satrico con una fuga disordinata. Ma
nemmeno le mura garantivano loro la sicurezza, e così, quando la
città circondata dalle truppe nemiche era ormai sul punto di essere conquistata
con le scale da assedio, si arrese un numero di uomini che, a prescindere
dai civili, ammontava a circa quattro mila unità. La città
venne rasa al suolo e data alle fiamme. Il solo edificio a non essere incendiato
fu il tempio della Madre Matuta. Il bottino fu integralmente assegnato agli
uomini. I quattro mila soldati che si erano arresi non vennero inclusi nel
bottino: il console li fece camminare incatenati di fronte al
proprio carro durante il trionfo. Venduti in séguito all'asta, essi
apportarono una grande quantità di denaro alle casse dello Stato. Alcuni
storici sostengono che questa massa di prigionieri fosse costituita da
schiavi, cosa ben più credibile di quanto non sia la notizia di uomini
arresisi e poi venduti all'asta. 28 A questi consoli successero Marco
Fabio Dorsuone e Servio Sulpicio Camerino. Un'improvvisa incursione
degli Aurunci diede origine a una guerra. Temendo che quel gesto fosse il
frutto di un piano organizzato dall'intera nazione latina (anche se
l'incursione era stata effettuata da un solo popolo), come se ormai si
trattasse di fronteggiare il Lazio in armi, venne nominato dittatore Lucio
Furio, il quale scelse come maestro di cavalleria Gneo Manlio Capitolino.
Dopo aver bandito una leva militare nella quale non furono ammesse
eccezioni - come di solito succedeva nei casi di assoluta emergenza -, il
dittatore proclamò la sospensione dell'attività giudiziaria e
quindi si mise a capo delle legioni per raggiungere quanto prima il territorio
degli Aurunci. Lì comprese che quella gente aveva indole di predoni
più che di guerrieri: e così concluse la guerra al primo scontro. Ma il
dittatore, considerando che ad aggredire erano stati gli Aurunci, i quali si
lanciavano nel combattimento senza esitazione, ritenne necessario invocare
anche l'aiuto degli dèi e per questo, mentre lo scontro era nella
fase più calda, fece voto di dedicare un tempio a Giunone Moneta. Tornato a
Roma vincitore, adempì il voto; poi si dimise dalla dittatura. Il senato
diede ordine di eleggere due commissari con il cómpito di far
costruire un tempio degno della grandezza del popolo romano. All'edificio fu
riservata un'area sulla cittadella, nel punto in cui un tempo si trovava la
casa di Marco Manlio Capitolino. Utilizzando l'esercito del dittatore
per fare guerra ai Volsci, i consoli li attaccarono di sorpresa e
strapparono loro la città di Sora. Il tempio di Giunone Moneta venne
consacrato un anno dopo che era stato promesso in voto, durante il consolato
di Gaio Marcio Rutulo e Tito Manlio Torquato (eletti rispettivamente per la
terza e la seconda volta). Immediatamente dopo la cerimonia di
inaugurazione si verificò un evento prodigioso, simile a quello avvenuto
sul monte Albano in tempi remoti. Cadde infatti una pioggia di pietre e
in pieno giorno si fece notte. Dopo la consultazione dei libri sibillini,
la città fu invasa dalla superstizione, così che il
senato decise di nominare un dittatore per stabilire un calendario di cerimonie
religiose. La nomina cadde su Publio Valerio Publicola al quale venne
assegnato come maestro di cavalleria Quinto Fabio Ambusto. Essi stabilirono
che a rivolgere suppliche fossero non solo le tribù ma anche i
popoli confinanti; fu fissato un ordine che assegnava una data alle suppliche di
ogni singola gente. A quanto si racconta, nel corso di quell'anno il
popolo emise severe sentenze ai danni di alcuni usurai citati in giudizio
dagli edili. Si ritornò poi a un periodo di interregno, senza
però una giustificazione di particolare rilievo. E dopo l'interregno ci fu - in
modo che potesse sembrarne il motivo - l'elezione a consoli di due
patrizi, Marco Valerio Corvo (eletto per la terza volta) e Aulo Cornelio
Cosso. 29 Da questo momento bisogna parlare di
conflitti di ben altre proporzioni sia per le forze messe in campo dai
nemici sia per la lontananza della loro terra di provenienza e per la
durata di quelle guerre. Nel corso dell'anno si presero infatti le armi
contro i Sanniti, un popolo potente per risorse e per dotazioni militari.
Dopo la guerra, dall'esito incerto, con i Sanniti, si combatté contro Pirro
e dopo di lui fu la volta dei Cartaginesi. Quale serie di formidabili
eventi! Quante volte i Romani giunsero a rischiare il massimo perché
lo Stato potesse essere innalzato alla grandezza che ora a stento si
regge! E pensare che la causa della guerra tra Sanniti e Romani - due
popoli uniti in passato da legami di alleanza e amicizia - fu un motivo
esterno di cui essi non furono responsabili. Poiché i Sanniti avevano
ingiustamente attaccato i Sidicini profittando della loro
superiorità, i Sidicini, costretti nella condizione di inferiori a chiedere aiuto a un
popolo con maggiori risorse, si rivolsero ai Campani. Ma questi ultimi
fornirono agli alleati un aiuto più nominale che reale: abituati com'erano
a una molle vita di agiatezze, i Campani vennero battuti nel territorio
dei Sidicini da una popolazione indurita dall'uso delle armi e si
videro precipitare addosso l'intero peso della guerra. E infatti i Sanniti,
senza più dare alcuna importanza ai Sidicini, assalirono i Campani,
cioè la vera roccaforte dei loro vicini, sui quali avrebbero ottenuto una facile
vittoria, con un bottino più ricco e maggior gloria: dopo aver occupato le
alture del Tifata (situate proprio sopra Capua) lasciandovi un agguerrito
presidio, di lì si riversarono in assetto di battaglia nella pianura che
si trova tra Capua e il Tifata. Fu in quel punto che si combatté una seconda
battaglia: sconfitti e ricacciati all'interno delle mura, i
Campani, dopo che il fiore delle loro truppe era stato fatto a pezzi e
avevano ormai perso ogni speranza, furono costretti a chiedere aiuto ai Romani. 30 Gli ambasciatori dei Campani
introdotti al cospetto del senato, pronunciarono un discorso di questo
tenore: «Il popolo campano ci ha inviati a voi, senatori, come
ambasciatori, per chiedervi di concederci la vostra eterna amicizia e un aiuto nella
circostanza presente. Se ve l'avessimo chiesto in un momento di
prosperità, voi ce l'avreste concesso ben più rapidamente, fondandovi
però su vincoli meno saldi. In tal caso, memori di essere entrati in rapporti
amichevoli con voi su un piano di assoluta parità, forse saremmo
stati vostri amici come lo siamo adesso, ma meno vincolati e sottomessi a voi. Ma
ora, conquistati dalla vostra umanità nei nostri confronti e
protetti dal vostro aiuto in questa difficile congiuntura, dobbiamo rendere
il giusto onore anche al beneficio ottenuto, per non dare l'impressione di
essere ingrati e indegni di ogni soccorso divino e umano. Ma non
pensiamo neppure, per Ercole, che il fatto che i Sanniti siano diventati vostri
amici e alleati prima di noi, possa costituire un ostacolo all'essere
accolti nel novero dei vostri amici, quanto piuttosto che la cosa porti quel
popolo ad avere su di noi un vantaggio in relazione alla priorità
e al grado di onore. E infatti nel vostro trattato con i Sanniti non
c'erano clausole che impedissero la stipulazione di altri trattati. Un motivo sufficientemente giusto per
stringere legami di amicizia voi avete sempre ritenuto fosse il
desiderare che entrassero nel novero dei vostri amici quanti si rivolgevano a
voi: noi Campani, anche se la disgrazia presente non ci consente un
linguaggio troppo altezzoso, non essendo secondi a nessuno - salvo che a
voi - per lo splendore delle città e per la fertilità dei campi,
ora che ci associamo a voi, apportiamo, come è nostra opinione, un incremento
non trascurabile al vostro benessere. Ogni qual volta Equi e Volsci, eterni
nemici di questa città, si muoveranno, noi li incalzeremo alle
spalle. E ciò che voi avrete fatto per primi per la nostra sopravvivenza, noi
lo faremo sempre per la vostra potenza e la vostra gloria. Non appena
avrete assoggettato i popoli stanziati tra i nostri e i vostri
territori - il vostro valore e la vostra buona sorte garantiscono che presto
avverrà -, il vostro potere si estenderà senza interruzioni
fino alla nostra terra. È triste e penoso ciò che la nostra disgrazia ci costringe ad
ammettere: la situazione, senatori, è a una svolta: noi
Campani finiremo nella mani di nemici oppure di amici. Se ci proteggerete, saremo
vostri; se invece ci abbandonerete, saremo dei Sanniti. Considerate dunque
se è meglio che Capua e l'intera Campania vadano ad accrescere il potere
di Roma oppure quello dei Sanniti. È giusto che la vostra
misericordia e la vostra disponibilità ad aiutare siano aperte a tutti, ma in special
modo a quanti, per aver offerto aiuto superiore alle proprie forze ad altri
che lo imploravano, si sono venuti a trovare essi stessi nella medesima
necessità. E anche se apparentemente abbiamo combattuto per i Sidicini,
mentre in realtà combattevamo per noi, lo abbiamo fatto vedendo un popolo
limitrofo crudelmente assalito dal brigantaggio dei Sanniti, e sentendoci
minacciati da quell'incendio non appena la conflagrazione avesse
inghiottito i Sidicini. E infatti i Sanniti sono venuti ad attaccarci
proprio in questo momento non per il risentimento suscitato da un'offesa,
quanto piuttosto per la gioia che sia stato loro offerto un pretesto per
farlo. Altrimenti, se questa fosse solo una vendetta e non un'occasione buona
per placare la loro bramosia, non sarebbe stato sufficiente ai Sanniti
aver decimato le nostre legioni una prima volta nel territorio dei Sidicini
e poi in Campania? Quale furia è mai questa, se non basta il sangue
versato da due eserciti per placarla? A tutto questo aggiungete poi le razzie
nei campi, il bottino in uomini e animali, gli incendi e le distruzioni
delle fattorie e la devastazione seminata ovunque. Possibile che tutto
questo non abbia soddisfatto la loro ira? Ma è la loro bramosia che
va saziata! È quel sentimento che li spinge a occupare Capua, e a desiderare che la
più bella delle città vada in rovina o finisca in mano loro.
Conquistatela voi, o Romani, con la vostra generosità, piuttosto che
permettere a quella gente di impossessarsene con l'inganno. Non ci rivolgiamo a un
popolo abituato a rifiutare le guerre quando sono giuste. Tuttavia, se solo
metterete in campo il vostro aiuto, pensiamo che non avrete nemmeno bisogno
di ricorrere alle armi. Il nostro risentimento nei confronti dei Sanniti
ha raggiunto un punto oltre il quale non può andare: per
questo, anche solo l'ombra del vostro aiuto, o Romani, è in grado di proteggerci
e qualunque cosa d'ora in poi avremo, qualunque cosa diventeremo, noi la
considereremo interamente vostra. Le terre della Campania verranno arate per
voi, e per voi si affolleranno le strade di Capua. E voi sarete per noi i
fondatori, i genitori, gli dèi immortali. Nessuna vostra colonia ci
saprà superare quanto a obbedienza e lealtà. Acconsentite, senatori, col vostro
cenno e la vostra volontà invitta alle preghiere dei Campani, dateci la
speranza che la nostra città possa avere un domani. Forse non immaginate quale
folla, di ogni genere, abbia accompagnato la nostra partenza; come
l'abbiamo lasciata, a piangere e pregare; in quale ansia siano adesso il
senato, il popolo campano, le nostre mogli e i nostri figli! Saranno
tutti in piedi, certamente, intorno alle porte, con gli occhi fissi verso
la strada che porta a Roma! Che messaggio ci ordinate, senatori, di
portare a quegli animi in preda al dubbio e all'incertezza? Una risposta
è salvezza, vittoria, luce e libertà. L'altra... fa orrore il
solo pensiero di ciò che potrebbe portare. Perciò prendete una
decisione sulla nostra sorte, tenendo presente che o saremo vostri alleati e
amici, o non esisteremo più del tutto». 31 Agli ambasciatori fu chiesto di
ritirarsi, mentre il senato si riuniva per considerare la loro richiesta.
Anche se la maggior parte dei senatori pensava che la più grande e
ricca città dell'Italia, con le sue campagne fertilissime e prospicienti al mare,
avrebbe potuto essere - in periodi di carestia - un granaio per il popolo
romano, ciò non ostante si diede più peso alla lealtà che alla
considerazione dell'utile, così che il senato affidò al console il cómpito di
rispondere agli ambasciatori in questi termini: «Il senato ritiene, o Campani,
che siate degni di ottenere aiuto. Ma stringere rapporti di amicizia con
voi non deve significare la violazione di amicizie e alleanze
precedentemente contratte. I Sanniti sono legati a noi da un trattato: per
questo non siamo in grado di intervenire militarmente al vostro
fianco impugnando contro i Sanniti quelle armi che sarebbero un'offesa
prima ancora agli dèi che agli uomini. Com'è però giusto e
sacrosanto, invieremo degli ambasciatori ai nostri amici ed alleati con il cómpito di
invitarli a non farvi alcun male». A queste parole i capi della delegazione
campana risposero attenendosi alle istruzioni ricevute in patria e
replicarono così: «Visto che rifiutate di far ricorso a un legittimo uso della
forza per opporvi alla violenza e all'ingiustizia perpetrate nei
confronti di ciò che ci appartiene, proteggerete almeno quanto appartiene a
voi. Di conseguenza noi affidiamo alla vostra autorità e a quella
del popolo romano il popolo della Campania e la città di Capua, le
campagne, i santuari degli dèi e tutte le cose sacre e profane: qualunque cosa affronteremo
da questo momento in poi, la affronteremo come vostri sudditi». Pronunciando queste parole, con le mani
tese verso il console e il volto rigato dalle lacrime, si prostrarono a
terra nel vestibolo della curia. I senatori rimasero colpiti dalle
vicissitudini delle sorti umane, al vedere che quel popolo ricco e grandioso,
conosciuto ovunque per il fasto e la superbia, a cui poco prima i vicini
avevano chiesto aiuto, adesso era abbattuto al punto di consegnare se
stesso con tutti i propri averi all'autorità di altri. Decisero
che era ormai una questione d'onore non tradire chi si era consegnato in loro
potere. E non ritenevano sarebbe stata cosa giusta se i Sanniti avessero
attaccato un territorio e una città che, con una vera e
propria resa, erano diventati proprietà del popolo romano. Perciò si decise
di inviare immediatamente ai Sanniti degli ambasciatori, ai quali fu data istruzione
di riferire la richiesta fatta dai Campani, la risposta del senato,
non immemore dell'amicizia coi Sanniti stessi, infine l'avvenuta resa.
Sarebbe stato poi loro cómpito chiedere, in nome dell'amicizia e
dell'alleanza che univa i due popoli, di risparmiare quella gente
volontariamente sottomessasi a Roma e di astenersi dall'effettuare incursioni
armate in quel territorio che ora apparteneva al popolo romano. Se questa
cauta condotta non avesse sortito risultato, gli ambasciatori avrebbero dovuto
intimare ai Sanniti - a nome del senato e del popolo romano - di
stare lontani da Capua e dal territorio della Campania. Ma i
Sanniti, dopo aver sentito gli inviati esporre queste richieste di fronte
all'assemblea, furono così arroganti che non soltanto risposero di essere
determinati a condurre quella guerra, ma i loro magistrati uscirono dalla
curia mentre gli ambasciatori erano ancora lì in piedi e convocarono
i prefetti delle coorti ordinando loro ad alta voce di prepararsi a effettuare
immediatamente un'incursione nel territorio dei Campani. 32 Quando la delegazione tornò a
Roma riferendo l'accaduto, i senatori, passando in secondo piano tutti gli
altri affari di Stato, inviarono i feziali per chiedere riparazione. Ma
siccome questi ultimi non riuscirono a ottenere quanto preteso, il senato
fece dichiarare guerra ai Sanniti secondo la formula di rito, stabilendo anche
di far ratificare quanto prima dal popolo questo provvedimento.
E avendo ricevuto l'approvazione, i consoli partirono alla testa di due
eserciti, Valerio diretto in Campania e Cornelio nel Sannio; il primo si
accampò nei pressi del monte Gauro, il secondo vicino a Saticola. Le legioni
dei Sanniti si rivolsero prima contro Valerio, perché pensavano che in
quella direzione si sarebbe concentrato il grosso delle operazioni.
Ma nel contempo erano spinti dal risentimento nei confronti dei Campani, i
quali erano stati così solleciti prima a portare aiuto, poi a chiederlo
contro di loro. Non appena avvistarono l'accampamento romano, non
ci fu Sannita che non chiedesse baldanzosamente agli ufficiali di dare
il segnale di battaglia. La loro convinzione era che l'intervento dei
Romani a fianco dei Campani avrebbe avuto lo stesso successo di quello dei
Campani a sostegno dei Sidicini. Valerio, avendo indugiato solo qualche
giorno per saggiare la consistenza del nemico in scaramucce di poco conto,
diede il segnale di battaglia, non senza aver esortato con poche parole i
suoi a non lasciarsi intimorire da quella nuova guerra combattuta contro
nuovi nemici. Quanto più le loro armi si allontanavano da Roma, tanto
più imbelli erano le popolazioni che avrebbero incontrato. Non giudicassero
il valore dei Sanniti in base alle disfatte inflitte a Sidicini e Campani.
Quali che fossero i valori in campo, era inevitabile che una delle
due parti dovesse soccombere. Quanto ai Campani, non c'erano dubbi che essi
fossero stati vinti più per l'eccessiva dissolutezza e mollezza
della vita che conducevano piuttosto che per la forza del nemico. E poi che
cos'erano mai le due guerre vinte dai Sanniti in tanti secoli a confronto
delle tante gesta gloriose del popolo romano, il cui numero di trionfi
in guerra era quasi pari a quello degli anni trascorsi dalla fondazione
di Roma? Il popolo romano che aveva soggiogato con le armi tutte le
popolazioni stanziate nelle zone circostanti - Sabini, Etruschi, Latini,
Ernici, Equi, Volsci, Aurunci -, e che dopo aver battuto i Galli in tante
battaglie di terra, alla fine li aveva costretti a fuggire verso il mare
alle loro navi? Ora che stavano per gettarsi nella mischia, ciascuno
degli uomini avrebbe dovuto farlo fidando non solo sulla propria
capacità militare e sulla gloria del passato, ma anche ricordandosi sotto il
comando e gli auspici di quale soldato stavano per affrontare la
battaglia, e chiedersi se quell'uomo fosse uno che meritava di essere
ascoltato soltanto perché era un valido oratore, uno bellicoso a parole ma
senza esperienza militare, oppure uno che sapeva maneggiare le armi di
persona, era in grado di avanzare oltre la linea degli antesignani e di stare
nel pieno della mischia. «Voglio, o soldati, che seguiate le mie azioni»,
disse, «non le mie parole, e che a me chiediate non soltanto ordini, ma
anche l'esempio. Non è stato grazie ai giochi politici e ai complotti tanto
abituali tra i nobili, ma con questa mano destra che io sono riuscito
a conquistarmi tre consolati e i più alti elogi. Ci fu un tempo
in cui si sarebbe potuto dire: «Tu eri patrizio e discendevi dai liberatori
della patria, e la tua famiglia ebbe il consolato lo stesso anno in cui la
città vide l'istituzione di quella magistratura!». Ma oggi il consolato
è aperto tanto a noi patrizi quanto a voi plebei, ed è ormai un
riconoscimento dato al valore e non più, come in passato, alla stirpe. Di conseguenza, o
soldati, mirate in ogni circostanza a onori sempre più
alti. Anche se mi avete voluto dare - con l'approvazione degli dèi -
questo soprannome di Corvino, tuttavia non mi sono dimenticato di quello di Publicola
attribuito in passato alla mia famiglia: tanto in patria quanto in
guerra, da privato cittadino così come nelle magistrature importanti e in
quelle di minor conto, sia da tribuno che da console, senza mai allontanarmi
dalla stessa linea di comportamento durante i successivi consolati, io ho sempre
rispettato e tuttora rispetto la plebe romana. Ma adesso, poiché il
momento lo esige, con l'aiuto degli dèi cercate insieme a me di
ottenere sui Sanniti un trionfo nuovo e mai conquistato prima». 33 Mai nessun comandante era stato
tanto vicino alla truppa, arrivando a condividere il peso del servizio con i
soldati semplici. Inoltre, partecipava in maniera cameratesca ai
giochi militari, cimentandosi nelle gare di velocità e di forza tra
coetanei: la vittoria e la sconfitta le salutava con la stessa espressione del
volto, né mai disdegnava di misurarsi con chiunque lo sfidasse. Il
suo comportamento era affabile quanto lo richiedevano le circostanze,
nei discorsi aveva sempre lo stesso riguardo per la libertà altrui e
per la propria dignità. E infine, qualità questa che lo rendeva ancor più
popolare, conduceva le magistrature con gli stessi principi con i quali le
aveva ottenute. Fu perciò con incredibile prontezza che l'intero
esercito accolse le esortazioni del comandante e marciò fuori
dall'accampamento. Iniziò una battaglia che,
più di ogni altra precedente, vedeva pari speranze e pari forze dalle due parti,
e una fiducia in se stessi che non cedeva al disprezzo del nemico. La
bellicosità dei Sanniti era accresciuta dalle gesta recenti e dalla doppia
vittoria conquistata pochi giorni prima, mentre dalla parte dei Romani
stavano quattrocento anni di gloria e
una storia trionfale che risaliva ai giorni della fondazione.
Ciò non ostante entrambi gli eserciti erano in
ansia all'idea di affrontare un nemico mai visto prima. La battaglia
provò quanto essi fossero risoluti, perché combatterono in modo così
accanito che per qualche tempo nessuno dei due schieramenti cedette. Allora il
console, per incutere paura a un nemico che non riusciva a far
indietreggiare con la forza, tentò di gettare lo scompiglio nelle prime file
avversarie con una carica di cavalleria. Ma quando si rese conto che
l'agitarsi confuso delle schiere impegnate a manovrare in uno spazio
ristretto non portava a risultati e non gli permetteva di aprire una
breccia tra i nemici, tornato dai soldati della prima linea, scese da cavallo e
disse loro: «C'è bisogno di noi fanti, o soldati, per questa manovra!
Avanti, quando mi vedrete farmi strada a colpi di spada, in qualunque
punto della linea nemica io mi lancerò all'assalto, allo stesso
modo ciascuno di voi abbatta tutti quelli che gli si pareranno di fronte. Tutte
le lance che ora vedete brillare diritte, saranno distese a terra in una
immane carneficina». Aveva appena finito di dire queste cose, che i
cavalieri, ottemperando all'ordine del console, si gettarono a briglia sciolta
verso le ali, aprendo così la via alle legioni nella parte centrale dello
schieramento avversario. Il console fu il primo a lanciarsi contro il
nemico, uccidendo il soldato che gli aveva sbarrato il passo. Esaltati a
questa vista, i Romani schierati all'ala destra e alla sinistra -
ciascuno per se stesso - accesero una mischia memorabile. I Sanniti
resistevano, subendo però più colpi di quanti non ne riuscissero a dare. La battaglia infuriava già da
tempo: intorno alle insegne dei Sanniti il massacro era spaventoso, ma nessuno dei
reparti accennava alla fuga, tanto erano determinati a non farsi sopraffare
se non dalla morte. E così i Romani, rendendosi conto che le forze
stavano scemando per la stanchezza e che ormai restava ben poca luce, si
gettarono contro il nemico carichi di rabbia. Allora ci furono i primi segni
di cedimento e le avvisaglie di una rotta imminente; i Sanniti vennero
catturati, uccisi (e non ne sarebbero sopravvissuti molti, se la notte non
avesse interrotto quella che era una vittoria più che una battaglia).
I Romani ammettevano di non aver mai combattuto con un nemico più
tenace, mentre i Sanniti, essendo loro stato domandato che cosa li avesse spinti,
nella loro determinazione, alla fuga, dicevano di aver visto il fuoco negli
occhi dei Romani, e un folle furore nei loro sguardi. Era stato questo,
più di ogni altra cosa, a terrorizzarli. E quel panico essi
ammisero di averlo provato non solo nelle fasi conclusive della battaglia,
ma anche nella fuga che seguì durante la notte. Il giorno seguente i
Romani presero l'accampamento deserto, dove si andò a
riversare l'intera popolazione di Capua per congratularsi della vittoria. 34 Ma poco mancò che questa
gioia venisse guastata da una grave disfatta subita nel Sannio. Partito infatti da
Saticola, il console Cornelio ebbe l'incauta idea di portare il suo
esercito in una valle incassata e gremita di nemici su entrambi i versanti, senza
accorgersi della loro presenza sulle alture prima che i suoi uomini
non potessero più mettersi al riparo in sicurezza. Mentre i Sanniti
indugiavano nell'attesa che l'intero esercito fosse sceso fino al fondo
della valle, il tribuno dei soldati Publio Decio individuò una vetta
che dominava sulla gola sovrastando l'accampamento dei nemici, e che pur
essendo quasi impraticabile per un esercito impedito dall'equipaggiamento,
non presentava invece difficoltà per dei fanti armati alla leggera.
Perciò, rivolgendosi al console che era in preda alla paura, Decio gli disse:
«Aulo Cornelio, vedi quella cima sopra il nemico? Può essere il
baluardo della nostra speranza e della nostra salvezza, se non indugiamo ad
occuparla, visto che i Sanniti sono stati così ciechi da
abbandonarla. Dammi soltanto la prima e la seconda linea di una legione. Quando
avrò raggiunto la cima alla testa di quegli uomini, mettiti in marcia senza paura,
preoccupandoti di te e dell'esercito. È certo che il
nemico, esposto come sarà a tutti i nostri colpi, non potrà muoversi senza
gravi perdite. Quanto a noi, la buona sorte del popolo romano o il nostro
valore ci metterà in salvo». Il console lodò il piano e Decio,
presi con sé gli uomini che aveva richiesto, si avviò su per la
gola senza farsi vedere. E i nemici non lo individuarono prima che egli fosse
riuscito a raggiungere il punto desiderato. Avendo quindi attirato su
di sé l'attenzione di tutti i nemici che si erano voltati in preda a stupore
e preoccupazione, Decio diede al console l'opportunità di portare
l'esercito in un punto più favorevole e si andò a piazzare in cima
all'altura. I Sanniti, dirigendosi ora da una parte ora dall'altra, fallirono
entrambe le opportunità: non riuscirono né a inseguire il console (se non per
quella stessa valle infossata nella quale lo avevano poco prima tenuto
sotto la minaccia delle loro lance), né a far salire gli uomini sulla cima che
li sovrastava e che era stata occupata da Decio. A spronarli
all'attacco non era soltanto il risentimento nei confronti di quanti
avevano loro tolto la possibilità di sfruttare un'ottima occasione, ma anche
la vicinanza della cima e il numero esiguo di soldati che la stavano
difendendo. Mentre sulle prime avrebbero voluto circondare il colle
con le loro truppe, tagliando quindi i collegamenti tra Decio e il console,
sùbito dopo la loro intenzione sarebbe stata quella di lasciargli via
libera per poi assalirli una volta scesi nella valle. La notte li sorprese
mentre stavano ancora decidendo sul da farsi. Sulle prime Decio sperò di poter
combattere da una posizione elevata mentre i Sanniti cercavano di salire
sulla cima. Poi si stupì nel vedere che i nemici non attaccavano e che, se
a distoglierli da quel proposito era la posizione sfavorevole, non
tentassero neppure di accerchiare i Romani con una trincea e uno steccato.
Chiamati quindi a sé i centurioni, disse loro: «Quale inettitudine
militare, quale pigrizia! Come avranno potuto vincere con Sidicini e Campani?
Li avete visti muoversi su e giù, ora separando ora riunendo le loro
forze, senza che a nessuno venisse in mente di costruire fortificazioni,
mentre ormai avremmo già potuto essere circondati da una palizzata. Faremo
come loro, se ci fermeremo quassù più di quanto ci convenga. Avanti dunque,
finché resta ancora un po' di luce, venite con me, e cerchiamo di scoprire
dove stiano piazzando gli uomini di guardia e se esista la
possibilità di uscire di qui». Con un mantello da semplice soldato, accompagnato dai suoi
centurioni anch'essi in tenuta da fanti ordinari (per evitare così
che il nemico si rendesse conto che il comandante in persona compiva un giro
di esplorazione), Decio andò a verificare le due cose. 35 Poi, disposte le sentinelle,
ordinò di passare parola al resto dei suoi uomini: non appena avessero sentito la
tromba suonare il segnale del secondo turno di guardia, avrebbero
dovuto armarsi in silenzio e presentarsi da lui. Una volta
radunatisi in silenzio come era stato loro ordinato, il tribuno disse: «Soldati,
dovete mantenere il silenzio e ascoltarmi senza reagire con le solite
urla di assenso. Quando avrò finito di esporvi il mio piano, quelli che lo
approveranno si metteranno alla mia destra, senza dir nulla. Il gruppo
più numeroso imporrà la sua decisione. Adesso ascoltate quello che ho in
mente. Il nemico non vi ha costretti qua come se foste stati dispersi da una
rotta o rimasti indietro per colpa della vostra indolenza: è con il
coraggio che avete occupato questa posizione, e dev'essere il coraggio a
darvi una via d'uscita. Salendo qui avete salvato un esercito formidabile
per il popolo romano: aprendo un varco salverete voi stessi. È
motivo di onore per un così esiguo manipolo aver portato aiuto a molti e non aver
avuto bisogno del sostegno di nessuno. Avete di fronte un nemico che,
pur avendo avuto ieri l'opportunità di distruggere
un'intera armata, se l'è lasciata sfuggire per pura indolenza; un nemico che, non
ostante avesse sopra la testa questa cima strategica, si è
accorto della sua esistenza soltanto dopo averla vista finire in mano nostra, e
che, pur essendo noi pochissimi contro migliaia di uomini, non ci ha
impedito la salita né ha tentato di accerchiarci con una palizzata quando
ormai ci eravamo impossessati della cima e restava ben poca luce. Se lo
avete eluso mentre era sveglio e all'erta, ora che dorme potete, anzi
dovete beffarlo. Ci troviamo infatti in una situazione tale che io mi limito
a indicarvi la via obbligata piuttosto che proporvi un piano. Perché
non si tratta di decidere se rimanere qua o andarsene, visto che la
sorte non vi ha lasciato nient'altro che le armi e la
capacità di usarle, e siamo destinati a morire o di fame o di sete, se ci
lasciamo intimorire dalle spade nemiche più di quanto non si addica a
chi è uomo e Romano. Dunque la nostra unica speranza di salvezza è aprirci
un varco e fuggire: possiamo tentare di giorno o nel cuore della notte. Ma qui,
lo vedete bene, lo spazio di scelta è ancora minore: perché
se aspettassimo l'alba, che speranze avremmo di non essere circondati dal
nemico con un fossato e una palizzata senza varchi, visto che, come vedete,
ora ci ha già attorniato con tutti i suoi uomini schierati sotto di noi?
Ora, se - come in effetti è - indicata per una sortita è la notte,
questo è certamente il momento più adatto della notte. Siete venuti qua al
segnale del secondo turno di guardia, quando cioè per gli esseri umani
il sonno è più profondo: avanzate in mezzo ai corpi assopiti, in silenzio
insinuandovi tra uomini indifesi, ma pronti a terrorizzarli con un urlo
improvviso se dovessero sentirvi. Seguitemi soltanto, come avete fatto in
passato: io vi guiderò con lo stesso successo che ci ha accompagnato
fino qua. Quelli cui il mio piano sembra garantire la salvezza, avanti,
facciano un passo sulla destra». 36 Passarono tutti, seguendo Decio che
avanzava tra gli spazi lasciati incustoditi. Avevano già
attraversato metà dell'accampamento, quando un soldato, scavalcando i corpi dei nemici
addormentati, urtò uno scudo e fece rumore, svegliando una sentinella.
Questi, dopo aver scrollato il compagno più vicino, si
alzò e insieme con lui diede l'allarme a tutti gli altri, non sapendo però se si
trattasse di amici o di nemici, se il manipolo di armati sulla cima stava
tentando una sortita oppure se il console aveva catturato l'accampamento.
Decio, vedendo che erano stati scoperti, diede ordine ai suoi di
urlare così forte da aggiungere lo spavento al torpore del risveglio,
impedendo ai nemici di armarsi velocemente e di opporre resistenza ai
Romani per poi inseguirli. Con i Sanniti in preda al panico e alla
confusione, il manipolo di Romani massacrò le sentinelle che gli
si paravano innanzi e riuscì a fare breccia arrivando fino all'accampamento del
console. L'alba era ancora lontana ed essi erano
ormai convinti di essere al sicuro, quando Decio disse: «Onore al
vostro coraggio, o Romani: la vostra azione per rientrare al campo
sarà celebrata per sempre. Ma perché quest'impresa tanto valorosa possa
essere apprezzata in tutta la sua pienezza ci vuole la luce del giorno, e
il vostro glorioso rientro all'accampamento non merita di essere
accompagnato dal silenzio della notte. Aspettiamo qui tranquilli che
arrivi l'alba». I soldati obbedirono. Alle prime luci del giorno venne
inviato un messaggero al console e l'accampamento esultò. Quando
passò di bocca in bocca la notizia che erano tornati sani e salvi gli uomini che
avevano rischiato la vita esponendosi a sicuri pericoli pur di garantire la
salvezza comune, tutti si riversarono loro incontro per lodarli,
ringraziarli, invocarli uno per uno con il nome di salvatori, levando grazie e
lodi agli dèi mentre esaltavano Decio. A questi fu concesso il trionfo
all'interno dell'accampamento: marciando alla testa del suo manipolo
in armi, egli attraversò il campo: tutti gli sguardi dei soldati erano per
lui, tutti rendevano al tribuno un omaggio degno di un console. Quando la
sfilata giunse di fronte al pretorio, il console ordinò al
trombettiere di suonare l'adunata. Aveva cominciato a tessere le più che
meritate lodi di Decio, ma questi, interrompendolo, lo indusse a rinviare
l'adunata. Sostenendo infatti che tutto il resto avrebbe potuto essere
rimandato a un momento più opportuno, Decio convinse il console ad attaccare
i nemici frastornati dallo spavento di quella notte e dispersi intorno alla
cima in squadre separate, aggiungendo di essere convinto che
alcuni di essi fossero stati inviati sulle loro tracce e adesso stessero
vagando per la gola. Alle legioni venne dato ordine di armarsi. Uscite
dall'accampamento, marciarono in direzione del nemico per una via
più aperta (grazie agli esploratori, la foresta ora era meglio conosciuta).
Piombarono sul nemico con un attacco a sorpresa: i Sanniti si erano
disseminati nella zona, per lo più privi di armi e perciò impossibilitati
tanto a inquadrarsi in formazione compatta quanto ad armarsi e a trovare riparo
all'interno del fossato, e i Romani prima li costrinsero a rifugiarsi terrorizzati
nell'accampamento, poi lo espugnarono seminando il panico tra i
corpi di guardia. Le urla si sentivano intorno a tutto il colle, e
fecero fuggire i soldati dai rispettivi presidi. Gran parte dei
Sanniti riuscì a fuggire senza venire a contatto con il nemico. Quelli che
invece si erano rifugiati all'interno dell'accampamento - si trattava di
circa trentamila uomini - furono uccisi dal primo all'ultimo, mentre
l'accampamento venne distrutto. 37 Portata a termine la battaglia in questo
modo, il console convocò l'adunata, durante la quale
esaltò Publio Decio, aggiungendo alle congratulazioni dovute alle gesta
passate quelle legate ai fatti del giorno, e gli fece dono - in aggiunta
ad altri riconoscimenti militari - di una corona d'oro e di cento buoi,
cui ne aggiunse uno bianco ben pasciuto e con corna dorate. Ai soldati
che erano nel suo drappello concesse invece una doppia razione di
frumento per il resto della vita, e un bue e due tuniche per il presente.
Dopo i riconoscimenti dati dal console, le legioni, tra urla di
giubilo, posero sul capo di Decio la corona di gramigna riservata a quanti
liberano da un assedio. Un'altra corona, segno di analogo onore, gli
venne poi imposta dagli uomini del suo drappello. Adorno di tutti i
riconoscimenti ottenuti, Decio immolò a Marte il bue più grosso, regalando
invece gli altri cento ai soldati che avevano preso parte con lui alla spedizione. A
quegli stessi uomini le truppe offrirono poi una libbra di farro e
mezzo litro di vino. Tutte queste manifestazioni avvennero in un clima di
entusiasmo collettivo, a testimonianza dell'approvazione
generale. Una terza battaglia venne combattuta
nei pressi di Suessula, perché i Sanniti, dopo il disastro subito per
mano di Marco Valerio, avevano chiamato dalla patria tutti i giovani
in età di portare le armi, tentando il tutto per tutto. Da Suessula questa
allarmante notizia giunse a Capua, da dove partirono messaggeri a cavallo
con una richiesta di aiuto da rivolgere al console Valerio. Le truppe
vennero immediatamente mobilitate e, deposto l'equipaggiamento pesante e
lasciata una valida guarnigione a presidiare l'accampamento, si misero in
marcia. Giunte a breve distanza dal nemico, si accamparono in una
striscia di terra ridottissima, non avendo con sé, eccetto i cavalli, né
animali né la massa dei palafrenieri. I Sanniti, convinti che la battaglia
sarebbe iniziata di lì a poco, si schierarono in ordine di battaglia.
Poi, dato che nessuno andava loro incontro, avanzarono minacciosi verso
l'accampamento nemico. Quando videro i soldati sulla palizzata e i
ricognitori inviati a perlustrare i lati dell'accampamento tornarono riferendone
le modeste dimensioni - di qui si deduceva l'esiguo numero dei nemici -,
l'intero esercito cominciò a mormorare impaziente che si doveva
riempire il fossato, schiantare la palizzata e irrompere
nell'accampamento. Un gesto tanto audace avrebbe posto fine alla guerra sul nascere, se
i comandanti non avessero trattenuto l'animosità dei
soldati. Ma poi, dato che era gravoso rifornire quella massa di effettivi e visto che,
causa prima il lungo periodo di inoperosità trascorso sotto le
mura di Suessula e poi il ritardo con cui le operazioni erano incominciate, la
truppa aveva ormai pressoché bisogno di tutto, si decise di inviare dei
soldati a rifornirsi di frumento nei campi, mentre il nemico, impaurito,
restava barricato nell'accampamento. Nel frattempo i Romani, rimanendo
inoperosi, si sarebbero trovati nella stessa situazione di necessità
generale, perché si erano presentati provvisti di un equipaggiamento
leggero, con il solo frumento che erano stati in grado di trasportare insieme
alle armi. Vedendo i nemici disseminati per le
campagne e i loro posti di guardia sguarniti, il console rivolse qualche
parola di incoraggiamento ai suoi uomini e li guidò all'assalto
dell'accampamento. Catturatolo alla prima carica, dopo aver ucciso più
uomini dentro le rispettive tende che davanti alle porte e sulla palizzata,
ordinò di ammassare le insegne nemiche in un unico punto. Lasciate due legioni con
il cómpito di vigilare e presidiare il campo e ammoniti severamente gli
uomini di astenersi dalle razzie di bottino almeno finché non fosse
ritornato, partì con l'esercito schierato in ordine di battaglia. Poi, dopo aver
mandato avanti la cavalleria ad accerchiare i Sanniti dispersi, come in
una battuta di caccia, ne massacrò un numero enorme, perché i nemici, in
preda al panico, non trovarono un'insegna sotto cui raccogliersi e non
capivano se avessero dovuto rifugiarsi nell'accampamento oppure
scegliere di fuggire verso qualche località più lontana.
L'ansia della fuga e il terrore furono così grandi che i Romani consegnarono al console
circa quarantamila scudi - ma le vittime furono molto meno numerose - e
centosettanta insegne militari, tra le quali c'erano anche quelle catturate
all'interno dell'accampamento. Ai soldati vincitori tornati al campo
venne concesso l'intero bottino. 38 L'esito favorevole di quella guerra
indusse non solo i Falisci, con i quali era in atto una tregua, a
chiedere un trattato al senato, ma spinse anche i Latini, le cui truppe erano
già pronte alla battaglia, a spostare il loro attacco dai Romani contro i
Peligni. La fama di questo trionfo non rimase confinata alla sola Italia:
anche i Cartaginesi inviarono degli ambasciatori per congratularsi coi Romani e
per offrire loro in dono una corona d'oro del peso di venticinque
libbre da collocare nella cella del tempio di Giove sul Campidoglio. A
entrambi i consoli venne accordato il trionfo sui Sanniti e dietro di loro
nella sfilata veniva Decio, coperto di decorazioni e onusto di gloria: i
soldati, nei loro rozzi cori, ne citarono il nome un numero non
inferiore di volte rispetto a quello del console. In séguito vennero ascoltate le
delegazioni dei Campani e degli abitanti di Suessula: la loro richiesta, accolta
positivamente da Roma, era di ottenere una guarnigione armata che
potesse stare con loro per la durata dell'inverno al fine di proteggerli da eventuali
incursioni dei Sanniti. Già allora Capua non era affatto
un luogo ideale per la disciplina militare: centro di ogni piacevole
attrattiva, esercitò sugli animi dei soldati un'influenza tale da indurli,
mentre erano negli accampamenti invernali, a progettare di togliere
Capua ai Campani, con quella stessa scelleratezza con cui questi l'avevano
strappata ai suoi antichi abitanti: pensavano che non sarebbe stato
ingiusto rivolgere contro di loro l'esempio dato. E poi, perché mai la
terra più fertile d'Italia e una città degna di quella terra
dovevano restare in mano ai Campani che non erano in grado di proteggere né se
stessi né i loro possedimenti, invece di passare a un esercito vincitore che
col suo sangue e il suo sudore aveva scacciato di lì i Sanniti?
O era forse giusto che chi si era consegnato a Roma godesse di tutta
quella bellezza e di quella fertilità, mentre loro, esausti per le continue
campagne, lottavano in una terra arida e malsana intorno a Roma, oppure
dovevano sopportare il peso dell'usura che attanagliava la
città e che cresceva giorno dopo giorno? Questi progetti, discussi in riunioni
segrete e non ancora comunicati al resto della truppa, furono scoperti dal
nuovo console Gaio Marcio Rutulo, cui la sorte aveva affidato il cómpito
di occuparsi della Campania, mentre il collega Quinto Servilio era rimasto
a Roma. Perciò, venuto a conoscenza, tramite i tribuni,
dell'esatto svolgimento dei fatti, assennato com'era per l'età
avanzata e le passate esperienze (era quello il suo quarto consolato, dopo una
dittatura e una censura), pensò che la cosa migliore fosse placare l'irruenza
di quei giovani, incoraggiandone la speranza di poter realizzare il loro
piano in qualunque momento avessero voluto. Perciò fece diffondere
la voce che anche l'anno successivo le guarnigioni armate avrebbero trascorso
l'inverno nelle stesse città (le truppe infatti erano state distribuite
tra le varie città della Campania, e da Capua i progetti di occupazione si
erano diffusi in tutto l'esercito). Questo provvedimento
appagò i congiurati, facendo sì che la rivolta rimanesse al momento allo stato
di idea. 39 Condotti i suoi uomini
nell'accampamento estivo, il console - visto che i Sanniti si mantenevano tranquilli -
decise di epurare i ranghi dell'esercito allontanando gli elementi
più turbolenti: di alcuni disse che avevano concluso il periodo di
ferma, di altri sostenne che si trattava di soggetti ormai troppo
avanti con gli anni oppure non sufficientemente forti. Alcuni uomini
vennero inviati in licenza: in un primo tempo vennero fatti partire alla
spicciolata, poi fu la volta di intere coorti, allontanate col pretesto
che avevano trascorso l'inverno lontano dalla loro case e dai loro
interessi. Buona parte venne congedata con il pretesto di impieghi militari:
furono inviati chi in una zona, chi in un'altra. L'altro console e il
pretore trattennero a Roma tutta questa massa di soldati, spiegando la manovra
con una serie di motivazioni sempre nuove. E sulle prime, non nutrendo
alcun sospetto, i congedati non erano affatto dispiaciuti all'idea di
rivedere le loro case. Ma poi, quando si resero conto che i primi di loro ad
esser stati allontanati non facevano più ritorno ai reparti e che gli
unici a risultare congedati erano quanti avevano svernato in Campania e, tra di
essi, in particolar modo quelli che avevano fomentato la rivolta, sulle
prime si meravigliarono, e poi iniziarono a temere senza più
margini di dubbio che i loro piani fossero stati scoperti. Presto ci sarebbero
state inchieste, sarebbero iniziate le delazioni e li avrebbero puniti in
segreto uno per uno, costringendoli a provare sulla loro pelle il crudele
dispotismo dei consoli e dei patrizi. Erano questi i discorsi che facevano in
segreto i soldati rimasti nell'accampamento, comprendendo che
l'abilità del console aveva stroncato l'anima della congiura. Una coorte che si trovava non lontano
da Anxur si andò ad accampare nei pressi di Lautule, in uno stretto passo
tra mare e monti, dove sarebbe stato possibile intercettare gli uomini
che il console con vari pretesti stava congedando. Ben presto si
formò un reparto di ragguardevoli proporzioni, cui non mancava altro che
un comandante per costituire un esercito vero e proprio. Così,
privi di ordini com'erano e affidandosi a razzie, arrivarono nel territorio
albano e si accamparono sotto i monti di Alba Longa cingendo il campo di un
fossato. Ultimata la costruzione, passarono il resto della giornata a
discutere sulla scelta di un comandante (nessuno dei presenti godeva
di sufficiente fiducia). Ma chi potevano far venire da Roma? Chi tra i
patrizi o tra i plebei si sarebbe offerto di affrontare consapevolmente
un pericolo tanto grande? A chi poteva essere affidata senza rischi la
causa di un esercito esasperato dall'offesa patita? Il giorno dopo,
mentre ancora continuavano a discutere, alcuni dei razziatori che si
aggiravano nei dintorni riferirono di aver sentito dire che Tito Quinzio
si dedicava ai suoi campi nei pressi di Tuscolo, senza più
preoccuparsi di Roma e della sua vita pubblica. Quest'uomo, che apparteneva a una
famiglia patrizia, dopo aver ottenuto grandi riconoscimenti in campo
militare, si era visto stroncare la carriera da una ferita che lo aveva
menomato rendendolo zoppo, e si era ritirato in campagna lontano dal foro e
dalla politica. Non appena udirono il suo nome, lo riconobbero e lo fecero
chiamare nella speranza che le cose potessero prendere una buona
piega. Ma siccome le speranze che quell'uomo scegliesse spontaneamente di
aiutarli erano assai ridotte, decisero di ricorrere alla forza e
all'intimidazione. Giunti così nel cuore della notte alla sua fattoria,
gli incaricati della missione sorpresero Quinzio immerso nel sonno.
Non gli offrirono alternativa: o avrebbe accettato la carica e il
comando, oppure, se avesse rifiutato di seguirli, lo avrebbero ucciso.
Così, lo trascinarono nell'accampamento. Non appena vi mise piede, lo nominarono
comandante, gli conferirono le insegne del grado e gli chiesero di condurli
a Roma. Messisi poi in marcia più per loro iniziativa che per
decisione del comandante, arrivarono in assetto di guerra a otto miglia da
Roma, su quella che oggi è la via Appia. E di lì avrebbero
immediatamente puntato sulla città, se non avessero sentito che un esercito
muoveva ad affrontarli agli ordini di Marco Valerio, che era stato nominato
dittatore con Lucio Emilio Mamerco in qualità di maestro di
cavalleria. 40 Non appena i due schieramenti
giunsero l'uno in vista dell'altro e riconobbero le rispettive armi e
insegne, a tutti venne sùbito in mente la patria e quel ricordo placò la
loro ira. Gli uomini non erano ancora così duri da spargere il sangue dei
concittadini; non avevano conosciuto nient'altro che guerre con popoli
stranieri e la secessione dal resto della cittadinanza era considerata
l'apice di ogni rabbiosa reazione. Così, da entrambe le parti,
tanto i comandanti quanto i soldati semplici cercavano il modo per incontrarsi e
trattare: tanto Quinzio, che era sazio anche di guerre in difesa della patria
(immaginiamoci poi di guerre contro di essa), quanto Corvino che voleva
bene a tutti i concittadini, in particolar modo ai soldati e al di
sopra di ogni altro al suo stesso esercito. Fu lui a farsi avanti per
avviare le trattative. Non appena lo riconobbero, calò sùbito
il silenzio e gli avversari mostrarono di avere per lui non meno rispetto di quanto ne
avessero i suoi uomini. «Soldati», cominciò Corvino,
«mentre mi accingevo a uscire da Roma, ho rivolto una preghiera agli dèi
immortali vostri e miei, chiedendo loro supplichevolmente di concedermi l'onore
non tanto di avere la meglio su di voi quanto di ottenere la vostra
riconciliazione. Le varie guerre hanno già offerto abbastanza occasioni
di gloria, e altre ne offriranno. Ora bisogna adoperarsi per arrivare alla
pace. Le richieste che ho fatto agli
dèi immortali con la mia preghiera, voi potreste da soli
realizzarle, se soltanto voleste ricordare di aver
posto il vostro accampamento in territorio romano e non nel Sannio o
nella terra dei Volsci, se vi venisse in mente che i colli che vedete si
trovano nel vostro paese natale, che questo esercito è fatto di
vostri concittadini e che io sono il vostro console, quello sotto i cui auspici e
il cui comando avete per due volte sbaragliato le legioni dei Sanniti, per
due volte conquistato il loro accampamento. Soldati, io sono Marco
Valerio Corvo, il cui sangue patrizio conoscete per i benefici ricevuti e non
per le ingiustizie perpetrate nei vostri confronti: sono un uomo che non
ha mai proposto né leggi irriguardose né ha mai votato decisioni
del senato crudeli verso di voi, risultando in tutte le posizioni di
potere da lui occupate sempre più rigido con se stesso che con voi. Ma se
le origini, il valore personale, la dignità e i riconoscimenti hanno
mai suscitato in qualcuno l'arroganza, ebbene io per nascita mi trovavo in
quella condizione: avevo dato una tale prova delle mie capacità, ero
arrivato alla più alta carica della repubblica in età così
giovane che, console a ventitré anni, avrei potuto essere sprezzante anche nei confronti
dei patrizi, e non solo della plebe. Ma quando ero console ho forse detto e
fatto qualcosa di meno accettabile rispetto a quando ero tribuno? Ho retto
due consolati consecutivi comportandomi nella stessa maniera: nel
condurre questa dittatura che mi conferisce poteri assoluti mi
atterrò agli stessi principi: non mi comporterò, nei confronti di
questi miei uomini e dei soldati della mia gente, in maniera più mite di
quanto non facciano i nemici - e al solo pronunciare questa parola rabbrividisco
- nei vostri confronti. Perciò sguainerete la spada prima voi contro
di me che non io contro di voi. Dunque le trombe suonino il segnale di
battaglia dalla vostra parte, l'urlo di guerra e l'assalto partano
dalla vostra parte, se davvero si deve combattere. Osate pure quello che
i vostri padri e i vostri antenati non osarono, e non ebbero il coraggio
di mettere in pratica né i plebei che si ritirarono sul monte Sacro, né
quelli che poi si ritirarono sull'Aventino. Aspettate fino a quando
a ciascuno di voi - come successe in passato a Coriolano - verranno
incontro le madri e le mogli coi capelli sciolti! Fu allora che le legioni dei
Volsci, siccome avevano un comandante romano, cessarono di
combattere. Volete non astenervi dal combattere una guerra scellerata voi
che siete un esercito romano? Tito Quinzio, qualunque sia la tua posizione
in quello schieramento - che tu l'abbia cioè occupata di
spontanea volontà o sia stato forzato a farlo -, se si tratterà di combattere,
allora ritìrati in mezzo alla retroguardia: per te sarà meno vergognoso
fuggire e dare le spalle a dei concittadini piuttosto che combattere contro la
patria. Ma ora che si deve arrivare alla pace, è giusto e doveroso
che tu stia qua in prima fila e agisca nel supremo interesse delle due parti. Se
le vostre richieste sono ragionevoli, verranno accolte; ma
è preferibile accordarci anche a condizioni inique piuttosto che versare
sangue in uno scontro empio». Tito Quinzio, voltandosi con le lacrime
agli occhi verso i suoi uomini, disse loro: «Se, soldati, io sono di
qualche utilità, posso essere per voi una guida migliore verso la pace che
verso la guerra. Quelle parole non le ha pronunciate un Volsco o un Sannita,
ma un Romano, il vostro console, o soldati, il vostro comandante: i suoi
auspici li avete sperimentati in vostro favore, non cercate quindi di
metterne alla prova l'efficacia contro di voi. Il senato aveva a
disposizione anche altri comandanti in grado di affrontarvi in maniera ben
più drastica: eppure ha scelto l'uomo che avrebbe trattato con voi - i suoi
uomini - con maggior comprensione, e nel quale, come vostro comandante,
avreste potuto riporre il massimo della fiducia. La pace è l'obiettivo
anche di chi è in grado di dominare: che cosa dovremmo dunque desiderare noi?
Lasciamo da parte l'ira e la speranza, falsi consiglieri e affidiamo
noi stessi e la nostra causa a un uomo la cui lealtà è
conosciuta da tutti». 41 Poiché tutti approvavano a gran
voce, Tito Quinzio avanzò oltre le insegne e annunciò che i suoi
uomini si sarebbero rimessi all'autorità del dittatore, che egli implorò di
sostenere la causa di quei disgraziati concittadini e, accettato tale cómpito,
di proteggerne gli interessi con lo stesso scrupolo con cui era solito
amministrare le cose di pubblico interesse. Quanto alla sua personale
situazione, Tito Quinzio dichiarò di non voler nessuna garanzia in quanto
non intendeva far affidamento su altro che sulla propria innocenza. Ai
soldati, invece, come già in passato alla plebe al tempo degli avi e poi in
séguito alle legioni, avrebbe dovuto essere assicurato che la
secessione non li avrebbe fatti incorrere in punizioni. Elogiato Tito Quinzio e invitato il
resto della truppa a ben sperare, il dittatore tornò al galoppo in
città dove, dopo aver ottenuto l'autorizzazione del senato, fece
approvare dal popolo riunito nel bosco Petelino una legge in virtù
della quale nessun soldato avrebbe potuto esser perseguito a causa della
secessione. Li pregò poi, in qualità di cittadini romani, di evitargli
generosamente che quell'incidente diventasse per qualcuno motivo di
biasimo, reale o per celia. Venne anche approvata una legge sacrata militare in
base alla quale non avrebbe potuto essere cancellato dai ranghi il nome di
alcun soldato arruolato, a meno che lo stesso ne avesse fatto
richiesta; alla legge venne aggiunta una clausola che impediva a chiunque di
comandare una centuria nei quadri di una legione nella quale era stato
tribuno. I protagonisti della insurrezione militare chiesero di
applicare questo provvedimento ai danni di Publio Salonio, il quale era stato
con regolare alternanza un anno tribuno dei soldati e l'anno dopo primo
centurione (grado che oggi è conosciuto come centurione primipilo).
Gli uomini erano ostili nei suoi confronti perché Salonio si era sempre
opposto ai loro progetti di ammutinamento ed era fuggito da Lautule
per evitare coinvolgimenti nella rivolta. E così, dato che il
senato non voleva cedere su quest'unico punto per riguardo nei confronti di Salonio,
fu Salonio stesso che, implorando i senatori di non anteporre la sua
onorabilità alla concordia civile, li spinse a cedere anche in quel caso.
Ugualmente sfrontata fu la richiesta di ridurre lo stipendio dei cavalieri -
che allora guadagnavano tre volte la paga dei fanti -, per il semplice
fatto che essi si erano opposti all'ammutinamento. 42 Oltre a questi provvedimenti, ho
trovato presso alcune fonti che il tribuno della plebe Lucio Genucio
propose alla plebe di dichiarare illegale il prestito a interesse. E che
con altri plebisciti venne stabilito che nessuno avrebbe potuto
detenere la stessa magistratura nell'arco di dieci anni, né una doppia
magistratura nel corso di un unico anno, e che fosse possibile eleggere
due consoli di estrazione plebea. Se al popolo furono concessi tutti questi
privilegi, allora è evidente che quell'ammutinamento militare aveva
avuto non poca forza. Altri annalisti riportano invece che Valerio non fu
eletto dittatore, che l'intera questione venne condotta dai consoli,
che la massa di rivoltosi venne piegata con le armi, e inoltre che
l'attacco notturno non venne portato alla fattoria di Tito Quinzio,
bensì alla casa di Gaio Manlio, il quale venne catturato dai ribelli e costretto
a divenirne il comandante. Secondo queste fonti, sarebbero partiti di
lì per andarsi ad accampare a quattro miglia da Roma, in un luogo
fortificato. I comandanti non avrebbero fatto accenni alla concordia, ma
all'improvviso, quando i due schieramenti erano ormai di fronte in armi, si sarebbero
scambiati il saluto militare, mentre i soldati, mescolandosi gli uni con gli
altri, avrebbero cominciato a stringersi la mano e ad abbracciarsi
piangendo. E i consoli, vedendo che gli uomini non erano nella disposizione
di combattere, si sarebbero visti costretti a proporre al senato di
ristabilire l'armonia tra le parti in causa. Così gli storici del
passato sono d'accordo soltanto sul fatto che l'insurrezione armata sia avvenuta e
che sia stata poi ricomposta. La notizia di questo ammutinamento
unita alla difficile guerra iniziata coi Sanniti spinse alcuni popoli a
rinunciare all'alleanza con Roma: a parte i Latini, che già da tempo
erano alleati inaffidabili, i Privernati devastarono con un'improvvisa
incursione anche le colonie romane di Norba e Sezia. LIBRO VIII 1 Erano già consoli Gaio Plauzio
(per la seconda volta) e Lucio Emilio Mamerco, quando gli abitanti di Sezia e
di Norba vennero a Roma per riferire che i Privernati si erano
ribellati, e per lamentarsi delle devastazioni subite. Si apprese anche
che un esercito di Volsci, alla cui testa erano gli Anziati, si era
accampato nei pressi di Satrico. Entrambe le guerre toccarono in sorte a Plauzio.
Come prima cosa marciò contro Priverno, venendo immediatamente allo
scontro armato. Sconfitti i nemici senza eccessivi sforzi, catturò
la città, cui impose una massiccia guarnigione, e la restituì agli
abitanti, privandola però di due terzi della terra. Di lì l'esercito
vincitore venne condotto a Satrico per affrontare gli Anziati. La battaglia
combattuta nei pressi di quella città fu tremenda e costò a entrambe
le parti ingenti perdite; un temporale la interruppe quando non era ancora chiaro
a quale dei due schieramenti sarebbe andata la vittoria, e i Romani,
per nulla scoraggiati da uno scontro così incerto, si
prepararono a gettarsi di nuovo nella mischia il giorno successivo. Ma i Volsci, una
volta passati in rassegna gli uomini per calcolare il numero dei caduti, non
avevano più alcuna intenzione di esporsi una seconda volta allo stesso
pericolo. La notte, come fossero stati sconfitti, abbandonarono sul
posto i feriti e parte dei bagagli, e marciarono impauriti alla volta di Anzio.
Una grande quantità di armi venne allora rinvenuta, non soltanto in
mezzo ai corpi dei caduti, ma anche nell'accampamento nemico. Dopo
aver dichiarato che avrebbe consegnato quelle spoglie alla Madre
Lua, il console devastò il territorio nemico fino alla costa. L'altro console, Emilio, entrò
nel territorio sabellico, ma non trovò né l'accampamento dei Sanniti né tracce
del nemico. Mentre era impegnato a devastare le campagne, fu raggiunto da
inviati dei Sanniti che recavano richieste di pace. Inviati dal console
al senato, essi ottennero la possibilità di parlare:
abbandonata l'arroganza di sempre, pregarono i Romani di concedere loro la pace e il
diritto di portare guerra ai Sidicini; queste richieste parevano
loro più che giustificate, in quanto erano diventati amici dei Romani in un
periodo più favorevole (e non, come i Campani, nel pieno dei rovesci), e
inoltre avevano preso le armi contro i Sidicini, loro nemici di sempre, e
mai amici dei Romani; infatti i Sidicini non avevano mai, come i
Sanniti, richiesto l'amicizia in tempo di pace, né, come i Campani, assistenza in
tempo di guerra, e tantomeno si trovavano sotto la protezione del
popolo romano cui non erano sottomessi. 2 Il pretore Tito Emilio
consultò il senato riguardo le richieste dei Sanniti, e avendo i senatori deciso di
rinnovare il trattato di alleanza con loro, il pretore rispose agli
inviati che non era colpa del popolo romano se i rapporti di amicizia si
erano interrotti, e che siccome erano stati i Sanniti stessi a pentirsi di
una guerra iniziata per colpa loro, non c'erano ostacoli a una ripresa
delle relazioni amichevoli. Quanto ai Sidicini, i Romani non intendevano
interferire nell'autonomia che il popolo sannita aveva in fatto di pace e
di guerra. Quando gli inviati sanniti rientrarono in patria a séguito
della ratifica del trattato, l'esercito romano venne immediatamente
richiamato da quella zona, dopo aver ricevuto lo stipendio di un anno e
razioni di viveri per tre mesi (il console aveva stabilito che questo
fosse il prezzo giusto di una tregua, almeno fino al rientro degli
ambasciatori). I Sanniti marciarono contro i Sidicini
con le stesse truppe che avevano utilizzato nella guerra con Roma, ed
erano convinti di impossessarsi della città nemica in breve tempo: ma
i Sidicini tentarono di anticiparli arrendendosi ai Romani. Quando
però i senatori ebbero rifiutato la loro resa giudicandola troppo tardiva e
frutto solo della più disperata necessità, si rivolsero ai
Latini che si erano già preparati a muovere guerra di loro spontanea
volontà. Ma neppure i Campani - tanto più vivo era in loro il ricordo dell'affronto
subito dai Sanniti che del beneficio ricevuto dai Romani - si astennero
dall'unirsi alla spedizione. Un grande esercito formato da quei popoli e agli
ordini di un comandante latino invase il territorio dei Sanniti,
causando più danni con le sue razzie che in campo di battaglia. E sebbene i
Latini avessero la meglio in ogni scontro, non furono affatto contrari
all'idea di abbandonare il territorio nemico, per evitare di dover combattere
così spesso. I Sanniti ebbero perciò tempo di inviare degli
ambasciatori a Roma. Una volta ammessi al cospetto del senato, essi si lamentarono
di ricevere, in qualità di alleati, lo stesso trattamento che era
stato loro riservato quando erano nemici, e implorarono umilmente i
Romani di accontentarsi di strappare ai Sanniti la vittoria conquistata su
Campani e Sidicini, non permettendo però che essi fossero vinti dai
più codardi dei popoli. Se Latini e Campani erano sottomessi ai Romani, che
allora i Romani li costringessero con l'autorità ad astenersi
dall'invadere il territorio sannita; se invece rifiutavano tale autorità, li
convincessero allora con la forza. A queste parole i Romani replicarono in termini
ambigui: erano imbarazzati a dover ammettere che ormai i Latini non erano
più sotto il loro controllo, e temevano, accusandoli, di provocarne il
definitivo distacco. I Campani si trovavano invece in condizione diversa,
essendo entrati nella loro sfera di influenza non con un trattato, ma a
séguito di una resa. Pertanto i Campani avrebbero dovuto, volenti o
nolenti, rimanere tranquilli. Nel trattato stretto con i Latini non c'era
invece clausola che impedisse a quel popolo di combattere contro chi
avesse voluto. 3 La risposta, se da una parte
lasciò i Sanniti nel dubbio circa le intenzioni dei Romani, dall'altra
allontanò da Roma i Campani, ora in preda alla paura, mentre rese ancora
più baldanzosi i Latini, persuasi che i Romani fossero ormai pronti a
qualsiasi concessione. E perciò i loro capi, col pretesto di preparare la
guerra contro i Sanniti, convocavano continue riunioni, e in ognuna
tramavano in segreto la guerra contro Roma. Anche i Campani prendevano parte a
questa guerra contro i loro salvatori. Ma non ostante cercassero di tenere
nascoste tutte le loro iniziative - volevano infatti scrollarsi di dosso i
Sanniti prima che i Romani passassero all'azione -, tuttavia,
tramite alcune persone legate da vincoli di parentela e di
ospitalità privata, a Roma trapelarono indiscrezioni sulla congiura. Ed
essendo stato ordinato ai consoli di dimettersi prima del termine, per far
sì che al più presto venissero nominati nuovi consoli destinati a
fronteggiare quel minaccioso conflitto, subentrò lo scrupolo di permettere
che presiedessero le elezioni magistrati il cui potere aveva subito
una riduzione. Fu così che si venne a un interregno. Gli interré furono
due: Marco Valerio e Marco Fabio, il primo dei quali nominò consoli
Tito Manlio Torquato (al terzo mandato) e Publio Decio Mure. Sappiamo che nel corso di quell'anno
approdò in Italia una flotta di Alessandro, re dell'Epiro. Se questa
guerra avesse fatto sùbito registrare dei successi, non c'è dubbio che
si sarebbe estesa ai Romani. A quel periodo risalgono anche le gesta di
Alessandro Magno il quale, nato dalla sorella del re dell'Epiro, venne
stroncato in tutt'altra parte del mondo da una malattia fatale, quando era
ancora nel fiore della giovinezza e senza aver subito sconfitte in guerra. Ma i Romani, non ostante la defezione
degli alleati e di tutti i Latini fosse ormai quasi certa, quasi si
preoccupassero per i Sanniti e non per se stessi, convocarono a Roma dieci
comandanti latini, cui impartire disposizioni. Il Lazio aveva in quel
tempo due pretori, Lucio Annio di Sezia e Lucio Numisio di Circei,
entrambi provenienti da colonie romane: con la loro istigazione avevano spinto
a prendere le armi, oltre a Signia e a Velitra (anch'esse colonie romane),
anche i Volsci. Si decise di convocarli di persona. A nessuno
sfuggivano i motivi della loro chiamata. Così, prima di partire per Roma,
i pretori convocarono un'assemblea e dopo aver annunciato di essere stati
chiamati dal senato, chiesero istruzioni sulla risposta da dare alle domande che
supponevano sarebbero state loro rivolte. 4 Le proposte furano quanto mai varie,
e al termine Annio disse: «Anche se sono stato proprio io a richiedere il
vostro parere sulle nostre risposte al senato romano, ciò non
ostante ritengo più importante per la nostra causa decidere che cosa dobbiamo fare
piuttosto che dire. Quando vi avremo esposto i nostri piani, non sarà
difficile trovare parole adatte ai fatti. Infatti se anche adesso riusciamo a
sopportare la schiavitù che ci lega sotto la parvenza di pari condizioni,
cos'altro ci resta, una volta abbandonati i Sidicini al loro destino,
se non obbedire non solo agli ordini dei Romani, ma anche a quelli
dei Sanniti, dichiararci pronti a deporre le armi a un cenno dei Romani?
Se invece un minimo desiderio di libertà sfiora i vostri animi,
se le parole 'trattato' e 'alleanza' significano parità di diritti,
se i Romani sono davvero nostri consanguinei (di questo in passato ci
si vergognava, mentre adesso è motivo di vanto), se con 'esercito
alleato' essi davvero intendono un esercito che unito al loro raddoppi le
forze di ciascuno, da non impiegare se non per avviare o concludere guerre
comuni, allora perché non siamo uguali in tutto? Perché uno dei due
consoli non tocca ai Latini? Là dove c'è una partecipazione di forze
dovrebbe esserci anche partecipazione di autorità. E questo, per altro,
non sarebbe particolare motivo di vanto per noi: in fondo, abbiamo già
accettato che Roma fosse capitale del Lazio! Ma prolungando all'infinito la nostra
sopportazione abbiamo fatto sì che questa condizione sembrasse motivo
d'onore. Se però avete mai accarezzato il desiderio di dividere il comando e
di godere della libertà, ecco arrivato il momento opportuno, ora che
l'occasione vi viene offerta dal vostro valore e dalla benevolenza degli
dèi. Negando loro l'invio di truppe ne avete messo alla prova la
pazienza: chi può aver dubbi che siano furenti per aver visto interrompersi
una consuetudine che risaliva a più di duecento anni fa? Eppure hanno
incassato il colpo. Abbiamo combattuto coi Peligni di nostra iniziativa: il
popolo che in passato non ci concedeva nemmeno il diritto di
difendere da soli la nostra terra non ha fatto opposizione. Hanno sentito che i
Sidicini si sono messi sotto la nostra protezione, che i Campani li
hanno abbandonati per schierarsi dalla nostra parte e che noi stiamo
preparando un esercito per affrontare i Sanniti: eppure non si sono mossi da
Roma. Da dove viene tutta questa loro moderazione, se non dalla
consapevolezza della nostra e della loro forza? So da fonte sicura che ai Sanniti
presentatisi a lamentarsi di noi il senato romano ha risposto in maniera da
non lasciar dubbi sulla situazione: ormai nemmeno i suoi stessi
membri pretendono più che il Lazio resti sotto l'autorità di Roma.
Nelle vostre domande chiedete ora senza esitazioni quei diritti che essi
tacitamente vi concedono. Se c'è qualcuno che non ha il coraggio di parlare,
allora dichiaro che sarò io stesso a farlo di fronte non solo al popolo e al
senato romano, ma anche a Giove che abita sul Campidoglio: se vogliono
che osserviamo il trattato di alleanza, allora accettino che il
nostro popolo fornisca uno dei consoli e parte del senato». Queste proposte e
queste promesse spregiudicate vennero accolte con un urlo di approvazione
generale e ad Annio fu conferito il
potere di agire e parlare nella maniera che gli fosse sembrata
più conveniente alla causa e all'onore del
popolo latino. 5 Quando i due magistrati arrivarono a
Roma, il senato diede loro udienza sul Campidoglio. Lì, siccome il
console Tito Manlio intimò loro, su iniziativa del senato, di non portare
guerra ai Sanniti che erano legati ai Romani da un trattato di alleanza,
Annio parlò non come un ambasciatore protetto dal diritto delle genti, ma
come un generale che avesse appena conquistato il Campidoglio con il suo
esercito. «Tito Manlio», disse «e voi, senatori: sarebbe ora, una buona
volta, che la smetteste di trattare con noi da padroni, rendendovi conto
che il Lazio, con il favore degli dèi, è più che mai
ricco di uomini e di armi dopo aver vinto in guerra i Sanniti e aver ottenuto l'alleanza di
Sidicini e Campani, e adesso anche dei Volsci; e rendendovi conto che
addirittura le vostre colonie hanno preferito sottomettersi ai Latini
piuttosto che a voi Romani. Ma poiché non vi rassegnate a porre fine al
vostro dispotismo, noi - pur essendo in grado di rivendicare la libertà
del Lazio con la forza delle armi - siamo disposti, in nome del rapporto di
consanguineità, a offrire condizioni di pace che soddisfino entrambe le parti,
in considerazione del fatto che gli dèi hanno voluto un equilibrio
di forze tra noi. Ecco le condizioni: i consoli devono essere eletti uno dai
Romani, l'altro dai Latini; i membri del senato nominati secondo un'equa
proporzione tra le due genti, in modo che ci siano un unico popolo e un unico
stato. E perché la sede e il nome dell'impero siano comuni a tutti,
essendo in proposito inevitabile che una delle due parti ceda nell'auspicabile
interesse di entrambi i popoli, ebbene: la capitale sia la nostra
città e il nome di tutti sia quello di Romani!». Il caso volle che anche i Romani
avessero, nel console Tito Manlio, un uomo che poteva tener testa ad Annio
quanto a bellicosità. Manlio controllò così poco il
proprio risentimento da dichiarare che, se i senatori fossero stati così
irragionevoli da lasciarsi dettare legge da un uomo di Sezia, si sarebbe presentato in
senato con la spada al fianco e avrebbe ucciso con le sue mani
qualunque latino gli si fosse parato innanzi. Voltatosi poi verso la statua
di Giove, disse: «Ascolta, Giove, queste parole scellerate! Ascoltate,
leggi umane e divine! Tu stesso, Giove, prigioniero e oppresso, dovrai
vedere consoli e senatori stranieri nel tuo sacro santuario? Sono questi, o
Latini, i patti che il re romano Tullo ha stretto con i vostri antenati
albani, questi i patti che Lucio Tarquinio ha poi stipulato con voi? Non
ricordate la battaglia del lago Regillo? A tal punto avete dimenticato
i disastri patiti in passato e i benefici che vi abbiamo fatto?». 6 Alle parole del console seguì
l'indignazione dei senatori, ed è stato tramandato che in risposta alle
numerose suppliche rivolte agli dèi, ripetutamente chiamati in causa dai
consoli come testimoni garanti dei trattati, si udì una frase sprezzante
di Annio contro la maestà di Giove romano. Quel che è certo
è che, mentre furente si precipitava fuori dal vestibolo del tempio, scivolò
sui gradini e batté la testa sull'ultimo gradino con tale violenza da perdere i
sensi. Poiché non tutti gli autori concordano nell'affermare che
morì, posso lasciare anch'io la questione aperta, come pure il fatto che, mentre
i Latini invocavano gli dèi a testimoni della rottura dei trattati,
scoppiò una tempesta accompagnata da un grande fragore nel cielo. Queste
notizie potrebbero infatti essere vere come pure esser state inventate ad arte
per rappresentare in maniera concreta l'ira degli dèi.
Torquato, che i senatori avevano mandato a congedare gli inviati, vedendo Annio
steso a terra, esclamò (perché la sua voce arrivasse sia al popolo sia ai
senatori): «Sta bene così: gli dèi hanno scatenato una guerra santa.
Esiste la potenza celeste! Ed esisti tu, Giove! In questa sede non ti abbiamo
consacrato invano padre degli dèi e degli uomini. Perché esitate, o
Quiriti, e voi padri coscritti, a prendere le armi sotto la guida degli
dèi? Schianterò al suolo le legioni latine, così come ora vedete stramazzato
a terra il loro rappresentante». Le parole del console, accolte con
approvazione da tutto il popolo, infiammarono a tal punto la massa che
gli inviati latini, ormai sul piede di partenza, vennero protetti contro la
rabbia e l'assalto del popolo più dall'intervento dei magistrati che li
accompagnavano per disposizione del console, che dal diritto delle genti.
Anche il senato si dichiarò d'accordo sulla guerra. E i consoli,
arruolati due eserciti, attraversarono i territori dei Marsi e
dei Peligni. Quindi, una volta unite alle loro forze quelle dei
Sanniti, si accamparono nei pressi di Capua, dove cioè si erano
già concentrati i Latini e i loro alleati. Lì si dice che entrambi i
consoli ebbero nella notte la stessa visione: un uomo di statura e imponenza superiori
al normale il quale diceva che il comandante di una parte e l'esercito
dell'altra avrebbero dovuto essere offerti in sacrificio agli dèi
Mani e alla Madre Terra. La vittoria sarebbe andata a quel popolo e a quello
schieramento il cui comandante avesse offerto in sacrificio di
espiazione le legioni nemiche oltre a se stesso. I consoli, confrontate queste
visioni notturne, decisero di far sacrificare delle vittime per placare
l'ira degli dèi. Se poi il responso delle viscere fosse coinciso con il
contenuto dei sogni, allora uno dei due consoli avrebbe dovuto mettere in
atto la volontà del destino. Quando il verdetto degli aruspici si fu
rivelato in pieno accordo con la segreta superstizione che ormai si era radicata
in loro, dopo aver convocato luogotenenti e tribuni e aver reso di
pubblico dominio il volere degli dèi, per evitare che la morte
volontaria del console spaventasse le truppe durante il combattimento, i due alti
comandanti decisero di comune accordo che, dovunque l'esercito romano avesse
cominciato a perdere terreno, il console che aveva il comando dei
reparti in difficoltà avrebbe dovuto sacrificarsi. Nel corso dell'assemblea
si decise anche che, se in passato c'erano mai state delle guerre condotte
con estrema severità, ora era l'occasione buona per ricondurre la
disciplina militare alle tradizioni di un tempo. La preoccupazione dei Romani
era accresciuta dal fatto di dover combattere contro i Latini, un popolo
che aveva la loro stessa lingua, stesse tradizioni, stesso tipo di
armamenti, e soprattutto la stessa condotta ed esperienza militare. I
soldati si erano mescolati con i soldati, i centurioni con i centurioni
e i tribuni con i tribuni, da pari a pari e in qualità di colleghi,
nelle stesse guarnigioni e spesso anche negli stessi manipoli. Per evitare che
questa situazione traesse in errore i soldati, i consoli ordinarono che
nessuno abbandonasse il proprio posto per andare all'assalto del nemico. 7 Il caso volle che tra gli altri
ufficiali dei vari squadroni inviati in tutte le direzioni a perlustrare i
dintorni ci fosse Tito Manlio, il figlio del console. Egli si era spinto,
con i suoi cavalieri, al di sopra dell'accampamento nemico, fino a
trovarsi a distanza di un lancio di giavellotto dal posto di guardia
più vicino. In quel settore c'erano i cavalieri di Tuscolo agli ordini di
Gemino Mecio, un uomo famoso tra i compagni sia per i nobili natali sia
per il suo passato di combattente. Riconosciuti i cavalieri romani e il
figlio del console, alla testa del drappello (si conoscevano tutti fra
loro, specie gli uomini più in vista), disse: «Non vorrete davvero, Romani,
combattere la guerra contro i Latini e i loro alleati con un solo squadrone
di cavalleria? Cosa faranno nel frattempo i consoli e i due eserciti?».
«Arriveranno a tempo debito», replicò Manlio, «e con loro
arriverà anche Giove in persona, ben più forte e potente, testimone degli accordi che
avete violato. Se al lago Regillo vi abbiamo massacrato fino alla nausea,
anche qui faremo sicuramente in modo che non vi stia troppo a cuore
l'affrontarci in battaglia». Udite queste parole, Gemino avanzò in
sella poco oltre la linea dei compagni e domandò: «Mentre aspetti che
venga quel giorno nel quale farete il grande sforzo di muovere l'esercito, non vuoi
misurarti tu in persona con me, in modo che già dall'esito del
nostro duello la gente veda quanto sia superiore un cavaliere latino a uno
romano?». L'indole tracotante del giovane venne spinta dal risentimento o
forse dalla vergogna di rifiutare la sfida, o ancora dalla forza
irresistibile del destino. E così, dimentico dell'ordine del padre e del
proclama del console, si gettò sconsideratamente in un duello nel
quale non avrebbe fatto molta differenza se avesse vinto o perso.
Dopo aver fatto allontanare gli altri cavalieri come per far spazio a uno
spettacolo, i due sfidanti spronarono i cavalli l'uno contro l'altro nel
tratto di pianura che si apriva tra di loro. Lanciatisi all'assalto con le
aste pronte a colpire, la cuspide di Manlio sfiorò l'elmo
dell'avversario, mentre l'asta di Mecio andò a finire oltre il collo del cavallo di Manlio.
Poi, dopo aver girato i cavalli, Manlio, che era stato il primo a
rialzarsi per il secondo assalto, riuscì a piantare la punta del giavellotto tra
le orecchie del cavallo. Per il dolore della ferita, l'animale si alzò
sulle zampe anteriori e scosse la testa con violenza, sbalzando di sella
il cavaliere. Questi, appoggiandosi all'asta e allo scudo, cercava di
rimettersi in piedi dopo la pesante caduta, quando Manlio lo
trapassò col giavellotto che, uscito dal fianco dopo essere entrato dalla gola,
inchiodò a terra l'avversario. Quindi, raccolte le spoglie, ritornò dai
compagni di squadra che lo accolsero con un urlo di gioia e lo accompagnarono
all'accampamento, dove il giovane cercò immediatamente la tenda
del padre, senza sapere cosa il destino avesse in serbo per lui, se cioè
la lode oppure la punizione. «Padre», disse «perché tutti mi
ritengano veramente figlio tuo, io ti porto queste spoglie equestri,
strappate al corpo di un nemico che mi aveva sfidato a duello». Non appena il
console sentì queste parole, distolse immediatamente lo sguardo dal
figlio e ordinò al trombettiere di suonare l'adunata. Raccoltisi gli
uomini, disse: «Poiché tu, Tito Manlio, senza portare rispetto né
all'autorità consolare né alla patria potestà, hai abbandonato il tuo posto, contro i
nostri ordini, per affrontare il nemico, e con la tua personale
iniziativa hai violato quella disciplina militare grazie alla quale la potenza
romana è rimasta tale fino al giorno d'oggi, mi hai costretto a scegliere se
dimenticare lo Stato o me stesso, se dobbiamo noi essere puniti per la
nostra colpa o piuttosto è il paese a
dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un precedente penoso, che però
sarà d'aiuto per i giovani di domani. Quanto a me, sono toccato non solo dall'affetto
naturale che un padre ha verso i figli, ma anche dalla dimostrazione di
valore che ti ha fuorviato con una falsa parvenza di gloria. Ma visto che
l'autorità consolare dev'essere o consolidata dalla tua morte oppure del
tutto abrogata dalla tua impunità, e siccome penso che nemmeno tu, se in
te c'è una goccia del mio sangue, rifiuteresti di ristabilire la
disciplina militare messa in crisi dalla tua colpa, va, o littore, e legalo al
palo». Di fronte a un ordine tanto crudele
rimasero tutti senza fiato: ciascuno, frenato più dalla paura che
dalla disciplina, guardava alla scure come fosse rivolta contro se stesso. Ma
quando si riebbero dallo stupore che li aveva tenuti im-mobili in silenzio,
all'improvviso, mentre il sangue sgorgava dal collo reciso, le loro voci
esplosero in un lamento così incontrollabile da non risparmiare né
gemiti né maledizioni; e dopo aver coperto con le spoglie il corpo del
giovane, costruirono una pira al di là della trincea e lo cremarono con tutti
gli onori funebri che la cura dei soldati gli potesse offrire. E gli
'ordini di Manlio' non solo suscitarono orrore in quella precisa circostanza,
ma costituirono anche per i giorni a venire un esempio di crudele
severità. 8 Tuttavia la brutalità di
quella punizione rese più obbedienti i soldati, e non solo i servizi di guardia, i
turni di sentinella e di picchetto vennero dovunque effettuati con
maggiore attenzione, ma quell'eccesso di severità fu d'aiuto anche nella
parte finale della lotta, quando si arrivò allo scontro in campo aperto. Quella
battaglia, però, ricordò molto da vicino una guerra civile: a tal punto i
Latini non differivano in nulla dai Romani se non per il valore. In passato i Romani avevano utilizzato
piccoli scudi rotondi. Ma in séguito, quando l'esercito venne
pagato, li rimpiazzarono con grandi scudi rettangolari. E ciò che prima
era stata una falange simile a quella dei Macedoni, con gli anni iniziò a
essere una linea di battaglia formata da gruppi di manipoli, con le retroguardie
inquadrate in più compagnie, ciascuna delle quali aveva sessanta
soldati, due centurioni e un alfiere. In prima linea c'erano gli hastati,
organizzati in quindici manipoli l'uno a ridosso dell'altro. Ogni manipolo
constava di venti soldati armati alla leggera, mentre il resto portava lo
scudo pesante. Inoltre erano definiti leves gli uomini che portavano soltanto
l'asta e i giavellotti pesanti. Questa prima linea dello schieramento
era formata dal fiore della gioventù in età militare. Alle loro
spalle c'era una linea costituita dallo stesso numero di manipoli, a loro volta
formati da uomini più maturi e chiamati principes. Provvisti tutti di grandi
scudi rettangolari, essi erano dotati delle armi migliori. A questa
formazione di trenta manipoli veniva dato il nome di antepilani, perché dietro alle
insegne erano schierate altre quindici compagnie, ciascuna delle
quali risultava formata da tre plotoni, che a loro volta prendevano il nome di
pili. Ogni manipolo, costituito da centottantasei effettivi, aveva tre
insegne. Dalla prima insegna dipendevano i triarii, soldati di
provato valore; dalla seconda i rorarii, meno validi per età e precedenti
sul campo, mentre dalla terza gli accensi, cioè dei soldati su cui
si poteva fare scarso affidamento e che proprio per questo motivo venivano
relegati nelle estreme retrovie. Quando l'esercito veniva inquadrato in questa
formazione, i primi a entrare nel vivo dello scontro erano gli hastati.
Se questi ultimi non riuscivano a piegare la resistenza del nemico, si
ritiravano a passo lento e andavano a occupare gli spazi vuoti tra i manipoli
dei principes, cui toccava allora il cómpito di sfondare, avendo alle
spalle gli hastati. I triarii stavano fermi presso le loro insegne con la
gamba sinistra in avanti, gli scudi appoggiati alle spalle, le aste
piantate in terra con la punta rivolta in alto, dando così l'impressione
che la loro linea fosse protetta dalle punte di una palizzata. Se poi anche i
principes non combattevano in maniera sufficientemente efficace, dalla
prima linea retrocedevano a poco a poco fino all'altezza dei triarii (di
qui il proverbio 'arrivare ai triarii', in uso per indicare che le
cose inclinano al peggio). I triarii, alzandosi a combattere dopo aver
raccolto negli spazi vuoti tra le loro unità i principes e gli hastati,
serravano sùbito le fila chiudendo ogni passaggio; poi, senza più alcuna
protezione alle spalle, caricavano il nemico a ranghi compatti. Questa
manovra incuteva enorme terrore negli avversari che, gettandosi
all'inseguimento di chi credevano ormai sconfitto, all'improvviso si trovavano
davanti agli occhi una nuova schiera più numerosa della
precedente. Di solito venivano arruolate anche quattro legioni costituite da
cinquemila fanti ciascuna, più trecento cavalieri per ogni legione. Un contingente di analoghe proporzioni
veniva poi aggiunto con la leva effettuata tra i Latini, che in quella
circostanza erano però nemici dei Romani e avevano schierato la loro
linea di battaglia seguendo lo stesso schema di formazione. Ed i Latini
sapevano che in battaglia si sarebbero scontrati non solo i manipoli con i
manipoli, gli hastati con gli hastati, i principes con i principes, ma -
ammesso che gli schieramenti in campo non subissero modifiche - anche i
centurioni con i centurioni. In entrambi gli eserciti il primipilo si trovava
tra i triarii. E se il Romano non era
eccessivamente forte dal punto di vista fisico, ma dotato di coraggio
e di grande esperienza in campo militare, il
Latino era un combattente di prima qualità, aiutato da un fisico
possente. I due si conoscevano benissimo perché avevano sempre comandato
compagnie dello stesso rango. Il centurione romano, non avendo
abbastanza fiducia nella propria forza fisica, prima di lasciare Roma aveva
ottenuto dai consoli il permesso di scegliersi un centurione a lui subordinato,
che lo proteggesse dall'avversario che gli era destinato.
E il giovane prescelto, scontratosi in battaglia con il centurione latino,
ebbe la meglio su di lui. La battaglia venne combattuta non
lontano dalle pendici del Vesuvio, nel punto in cui la strada portava al
Veseri. 9 I consoli romani offrirono sacrifici
prima di guidare le loro truppe all'assalto. A quanto si racconta,
l'aruspice avrebbe fatto notare a Decio che il fegato era inciso nella parte
famigliare, ma che la vittima era ugualmente gradita agli dèi e
che Manlio aveva ottenuto auspici quanto mai favorevoli. «Allora sta bene», disse
Decio «il collega ha ricevuto dei segni favorevoli». Nella formazione
già descritta, i Romani avanzarono sul campo di battaglia. Manlio guidava
l'ala destra, Decio la sinistra. All'inizio le forze e l'ardore dei
combattenti erano uguali da entrambe le parti. Ma dopo qualche tempo gli
hastati romani, non riuscendo a reggere la pressione dei Latini, dovettero
riparare tra i principes. In questo momento di smarrimento, il console
Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno
dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano,
dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in
sacrificio per salvare le legioni». Il pontefice gli ordinò di
indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e, toccandosi il mento con una mano fatta
uscire da sotto la toga, di pronunciare le seguenti parole, ritto,
con i piedi su un giavellotto: «Giano, Giove, padre Marte, Quirino,
Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui mani ci
troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo
umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la
forza necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo
romano e dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole,
così io agli dèi Mani e alla Terra, per la repubblica del popolo romano dei
Quiriti, per l'esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie del popolo
romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del
nemico insieme con me stesso». Rivolta questa invocazione,
ordinò ai littori di recarsi da Tito Manlio e di annunciare quanto prima al suo
collega che egli si era offerto in sacrificio per il bene dell'esercito.
Cintasi poi la toga con il cinto gabino, saltò a cavallo con le
armi in pugno e si gettò in mezzo ai nemici, apparendo a entrambi gli
eserciti con un aspetto ben più maestoso di quello umano, come fosse stato
inviato dal cielo per placare ogni ira degli dèi e allontanare dai
compagni la disfatta rovinosa, respingendola sui nemici. Fu per questo che il suo
assalto seminò panico e terrore nelle prime file dei Latini, arrivando poi a
contagiare l'intero esercito. Era evidentissimo che, dovunque si
dirigesse in sella al suo cavallo, lì i nemici si ritraevano spaventati come
fossero stati colpiti da una meteora letale. Ma quando poi cadde sommerso da
una pioggia di frecce, da quel momento non ci furono più dubbi
sullo sbandamento delle coorti latine che si diedero ovunque alla fuga, lasciando
dietro di sé il deserto. Nello stesso istante i Romani - liberati dal
peso della superstizione -, come se solo allora fosse stato dato il
segnale, si lanciarono all'assalto, riaccendendo la mischia. Infatti anche
i rorarii si fecero sotto, tra gli antepilani, aggiungendo le loro forze a
quelle di hastati e principes, mentre i triarii, ancora inginocchiati
sulla gamba destra, aspettavano che il console desse loro il segnale di
alzarsi. 10 Mentre la battaglia continuava e in
alcuni punti i Latini stavano avendo la meglio grazie alla
superiorità numerica, il console Manlio venne a conoscenza della fine del collega e,
dopo aver onorato con il pianto e le giuste lodi - come richiedevano il
senso del dovere e la pietà - una morte così gloriosa, rimase per
un attimo nel dubbio se fosse già giunto il tempo di una sortita dei triarii. Ma
poi, pensando fosse preferibile tenerli in serbo per l'attacco finale,
ordinò agli accensi di portarsi dalle retrovie al di là delle
insegne. Non appena essi presero posizione, ecco che i Latini, convinti che gli
avversari avessero fatto la stessa mossa, mandarono avanti i loro triarii,
i quali, pur sfiniti, con le lance rotte o spuntate, dopo aver combattutto
con grande accanimento per qualche tempo, riuscirono a respingere il
nemico; e credevano di aver già avuto la meglio e di aver raggiunto l'ultima
linea avversaria, quando il console disse ai triarii: «Ora alzatevi e
affrontate freschi come siete il nemico sfinito, ricordandovi della patria, dei
genitori, di mogli e figli, e del console caduto per la vostra vittoria».
Quando i triarii si alzarono, pieni di energie, con le loro armi
luccicanti, nuova schiera spuntata all'improvviso, accolsero gli
antepilani negli spazi vuoti tra le loro schiere e levando il grido di guerra
seminarono lo scompiglio tra le prime file dei Latini. Colpendoli in faccia
con le aste e massacrandone il fiore della gioventù, penetrarono
attraverso gli altri manipoli come se questi non fossero armati, frantumando i loro
cunei con un massacro di tali proporzioni che a stento un quarto dei
nemici sopravvisse. Anche i Sanniti, schierati a distanza ai piedi
delle montagne, terrorizzarono i Latini. Tra tutti i cittadini e gli alleati, la
gloria principale di quella vittoria fu dei consoli: uno dei quali
aveva attirato unicamente verso la propria persona tutte le minacce e le
maledizioni degli dèi celesti e infernali, mentre l'altro aveva
dimostrato in battaglia un coraggio e un'accortezza tali che, quanti tra
Romani e Latini lasciarono un resoconto della battaglia concordarono
agevolmente sul fatto che qualunque fosse stata la parte guidata da Tito Manlio,
a quella sarebbe sicuramente andata la vittoria. I Latini in fuga
ripararono a Minturno. Il loro accampamento venne preso dopo la battaglia e
lì molti uomini - in buona parte Campani - furono catturati e passati per le armi.
Il corpo di Decio non venne recuperato quel giorno, perché la notte
interruppe le ricerche. Fu rinvenuto il giorno dopo sotto un
mucchio di frecce in mezzo all'enorme massa di nemici caduti. Il collega gli
tributò onoranze funebri adeguate alla morte toccatagli. Mi sembra opportuno aggiungere che il
console, il dittatore o il pretore che offra in sacrificio le legioni
nemiche non deve necessariamente immolare se stesso, ma può
scegliere di offrire un cittadino incluso in una legione romana regolarmente
arruolata e scelto a suo piacimento. Se l'uomo che viene offerto muore,
è segno che le cose riusciranno per il meglio. Se invece non muore, allora una
sua immagine viene sotterrata a sette o più piedi di
pro-fondità nella terra, e viene offerta in sacrificio una vittima espiatoria. E al
magistrato romano non sarà consentito di salire sopra il punto in
cui l'immagine è stata sotterrata. Se poi vuole offrire se stesso in voto,
come fece Decio, e non muore, non può offrire sacrifici di natura
né pubblica né privata senza macchiarsi di una colpa, sia che ricorra a una
vittima, sia che si serva di un'altra offerta di suo piacimento. Colui che si
offre in voto ha il diritto di dedicare le proprie armi a Vulcano o a
qualunque altra divinità desideri. È considerata una violazione
sacrilega che il nemico si impossessi del giavellotto sul quale è stato in
piedi il console nell'atto di pronunciare la sua invocazione. Nel caso in cui la
cosa si verifichi, bisogna placare l'ira di Marte offrendo in sacrificio
una pecora, un maiale e un toro. 11 Anche se la memoria di ogni usanza
sacra e profana è stata cancellata dal favore che gli uomini tributano alle
cose nuove e straniere, preferendole a quelle antiche e
trasmesse dagli antenati, ho ritenuto che non fosse fuori luogo riferire queste
procedure con le parole con le quali sono state formulate e tramandate. Presso alcuni autori ho trovato che fu
soltanto a battaglia conclusa che i Sanniti intervennero in aiuto dei
Romani, dopo aver atteso l'esito dello scontro. E anche che i Latini erano
già stati messi in fuga quando gli abitanti di Lavinio, che continuavano a
perdere tempo in discussioni sul da farsi, portarono finalmente il loro
aiuto. E ricevuta la notizia della disfatta patita dai Latini quando ormai
la loro avanguardia e parte dell'esercito erano usciti dalle porte,
con una rapida inversione di marcia sarebbero rientrati in
città, poiché il loro pretore di nome Milonio - a quanto si racconta -
avrebbe ricordato ai suoi che quella breve sortita sarebbe costata cara ai
Romani. I Latini sopravvissuti alla battaglia, dispersi in varie direzioni, si
riunirono in un unico nucleo e si rifugiarono nella città di
Vescia. Lì, nelle assemblee che essi tenevano, il loro comandante in capo
Numisio affermava che in realtà l'esito della guerra era stato incerto,
che entrambe le parti avevano subito un ugual numero di perdite e che
i Romani avevano vinto soltanto nominalmente, trovandosi invece, di
fatto, nella condizione di sconfitti. Le tende di entrambi i consoli erano in
lutto: una per l'uccisione del figlio, l'altra per la morte del
console che si era offerto in voto. Il loro intero esercito era stato fatto a
pezzi, hastati e principes massacrati, la carneficina aveva
coinvolto dall'avanguardia alla retroguardia, e soltanto alla fine i
triarii erano riusciti a ristabilire le sorti della battaglia. Anche se le
forze latine erano state ugualmente decimate, tuttavia, per fornire nuovi
rinforzi, tanto il Lazio quanto la terra dei Volsci erano più
vicini di Roma. Perciò, se sembrava loro opportuno, egli avrebbe rapidamente
messo insieme dei giovani in età militare reclutandoli dalle genti del
Lazio e da quelle dei Volsci, sarebbe ritornato a Capua con un
esercito pronto a combattere: il suo arrivo inatteso avrebbe gettato nello
scompiglio i Romani, i quali in quel momento tutto si aspettavano fuorché
una battaglia. Vennero così inviate delle lettere piene di menzogne in
tutto il Lazio e nella terra dei Volsci: poiché quanti non avevano preso
parte alla battaglia erano pronti a credere ciecamente al messaggio in
esse contenuto, venne rapidamente messo insieme, da tutte le parti, un
esercito raccogliticcio. A questo contingente andò
incontro presso Trifano - tra Sinuessa e Minturno - il console Torquato.
Entrambi gli eserciti, senza neppure aver scelto un punto per porre
l'accampamento, ammassate le salmerie, vennero a battaglia e posero fine alla guerra. Le
truppe nemiche subirono infatti una tale decimazione che, quando il
console guidò il suo esercito vincitore a devastare il territorio dei
Latini, questi ultimi si consegnarono dal primo all'ultimo, e i
Campani seguirono il loro esempio. Il Lazio e Capua vennero privati del
territorio. Il territorio dei Latini, invece, in aggiunta a quello dei
Privernati e a quello di Falerno (appartenuto al popolo campano) fino al
fiume Volturno, venne diviso tra la plebe romana. A ciascun cittadino
furono assegnati due iugeri nel Lazio, in modo da aggiungere un terzo
di iugero nel territorio di Priverno, mentre in quello di Falerno
vennero assegnati tre iugeri di terra a testa con in più un
quarto di iugero dato come compenso per la lontananza. Tra i Latini non incorsero
in punizioni i Laurenti, tra i Campani i cavalieri, in quanto non
avevano preso parte all'ammutinamento. Fu data disposizione di rinnovare il
trattato coi Laurenti, e da quel giorno è stato rinnovato ogni
anno dieci giorni dopo le ferie latine. Ai cavalieri campani venne concessa la
cittadinanza romana e per commemorare la cosa venne affissa una tavoletta di
bronzo nel tempio di Castore a Roma. Inoltre venne ordinato al popolo
campano di pagare a ciascuno di essi (si trattava di mille e seicento
uomini) un tributo annuo di quattrocentocinquanta denari. 12 Dopo aver portato a termine la
guerra in questa maniera e aver distribuito ricompense e punizioni in
relazione ai meriti di ciascuno, Tito Manlio rientrò a Roma. Si
dice che al suo arrivo gli andarono incontro soltanto gli anziani: i
giovani, allora come per il resto dei suoi giorni, lo odiarono e lo
maledirono. Gli Anziati effettuarono incursioni nei
territori di Ostia, Ardea e Solonio. Il console Manlio, non avendo
potuto seguire di persona questa campagna militare per ragioni di
salute, nominò dittatore Lucio Papirio Crasso, il quale era allora in carica
come pretore. Egli nominò a sua volta maestro di cavalleria Lucio
Papirio Cursore. Contro gli Anziati il dittatore non compì nulla di
straordinario, pur essendo rimasto accampato per alcuni mesi nel loro territorio. A un anno reso memorabile dalla
vittoria su tanti popoli così potenti, nonché dalla morte gloriosa di uno dei
due consoli e dalla severità dell'altro (tanto crudele quanto famosa
nel corso dei secoli), seguì il consolato di Tiberio Emilio Mamercino e
di Quinto Publilio Filone, i quali non ebbero tali opportunità e si
preoccuparono più dei propri casi personali e degli interessi delle
rispettive fazioni che del bene della patria. Adirati per la confisca del
territorio, i Latini si ribellarono, ma vennero travolti nella pianura
Fenectana dai consoli i quali tolsero loro l'accampamento. Mentre Publilio,
sotto il cui comando e i cui auspici era stata condotta la campagna, stava
accettando la resa dei popoli latini i cui soldati erano caduti in quello
scontro, Emilio condusse l'esercito a Pedo. Gli abitanti di questa
città erano sostenuti dai Tiburtini, dai Prenestini e dai Veliterni, mentre
rinforzi erano anche arrivati da Lanuvio e da Anzio. Anche se i Romani
si erano dimostrati superiori in più di una battaglia, ciò non
ostante dovevano ancora essere avviate le operazioni per espugnare la
città stessa di Pedo e gli accampamenti dei popoli alleati che si trovavano in
prossimità della città. All'improvviso il console, appreso che al suo collega
era stato concesso il trionfo, lasciò a metà le
operazioni e rientrò a Roma pretendendo anche per se stesso il trionfo ancor prima di aver
ottenuto la vittoria. I senatori, urtati da questa smaniosa ambizione,
gli negarono il trionfo fino a quando non avesse conquistato Pedo o ne avesse
ottenuto la resa; e da quel momento Emilio, risentito nei confronti
del senato, svolse il consolato con lo spirito di un tribuno sedizioso.
Infatti, fino a quando rimase in carica, non cessò mai di
calunniare i senatori di fronte al popolo, senza che il collega - anch'egli di estrazione
plebea - gli opponesse la minima resistenza. Offriva terreno alle accuse
il fatto che la divisione dell'agro Latino e di quello Falerno
era stata iniqua per i plebei. E quando il senato, desiderando porre
fine al potere dei consoli, ordinò di nominare un dittatore da opporre ai
Latini ribelli, Emilio, che in quel momento deteneva i fasci, nominò
dittatore il collega, il quale a sua volta scelse Giunio Bruto come maestro
di cavalleria. Il dittatore fu popolare sia per i discorsi pronunciati
contro i patrizi, sia per aver fatto approvare tre leggi più
che vantaggiose per la plebe ma contrarie alla nobiltà. La prima prevedeva
che le deliberazioni della plebe vincolassero tutti i Quiriti. La
seconda che i senatori ratificassero le proposte nei comizi centuriati prima
che esse venissero sottoposte al voto. La terza che almeno uno dei
censori fosse plebeo (siccome si era arrivati al punto da consentire che
entrambi potessero essere plebei). Stando all'opinione dei patrizi, nel
corso di quell'anno il danno subito in patria ad opera dei consoli e del
dittatore era stato superiore all'incremento di potenza conseguito
all'esterno grazie alla loro vittoria e alle loro imprese militari. 13 L'anno successivo, durante il
consolato di Lucio Furio Camillo e di Gaio Menio, i senatori, nell'intento di
far ricadere su Emilio, console dell'anno precedente, la
responsabilità della negligenza commessa, insistevano che si dovessero impiegare
uomini, armi e ogni tipo di risorsa per espugnare e distruggere Pedo. E i
nuovi consoli furono obbligati ad anteporre quella faccenda a qualsiasi
altra questione e si misero in marcia. Nel Lazio la situazione era
adesso giunta al punto che i suoi abitanti non riuscivano a tollerare né
la pace né la guerra. Per la guerra non avevano i mezzi necessari, mentre
spregiavano la pace per l'amarezza causata dalla confisca della terra.
Sembrò opportuno accettare un compromesso, restando all'interno delle
città fortificate per evitare di provocare i Romani e offrir loro il
pretesto per aprire le ostilità: se fosse poi arrivata la notizia che
qualche città era in stato di assedio, allora tutti i popoli dei dintorni
avrebbero portato soccorso. Tuttavia gli abitanti di Pedo furono aiutati da
pochissime città. I Tiburtini e i Prenestini, i cui territori erano
vicini, raggiunsero Pedo. Gli Aricini, i Lanuvini e i Veliterni si stavano
unendo ai Volsci di Anzio presso il fiume Astura quando vennero raggiunti e
sconfitti dall'attacco improvviso di Menio. Camillo affrontò i
Tiburtini, il cui esercito era il più forte, nei pressi di Pedo: anche se lo scontro
fu ben più duro, l'esito risultò ugualmente positivo. Durante la
battaglia creò grandissima confusione un'improvvisa sortita degli assediati.
Ma Camillo, inviata parte dell'esercito ad affrontarli, non li
costrinse soltanto a rientrare all'interno delle mura, ma avendoli
sconfitti nel corso della medesima giornata insieme con i loro alleati, ne
catturò la città con l'uso di scale. I consoli allora, grazie alle energie
e al coraggio che infondeva la presa di una città, decisero
di guidare l'esercito vittorioso a domare l'intero Lazio. E non si placarono fino
a quando, dopo aver espugnato ogni singola città o averne accettato
la resa, non ebbero ridotto tutto il Lazio in loro potere. Poi, distribuiti
dei presidi armati nelle città riconquistate, partirono al-la volta di
Roma, per godere del trionfo loro tributato all'unanimità. Al
trionfo venne aggiunto un onore assai raro in quei tempi: nel foro furono collocate
statue che li raffiguravano a cavallo. Prima che venissero eletti i consoli
dell'anno successivo, Camillo, portando di fronte al senato la
questione del trattamento da riservare ai popoli latini, si espresse in questi
termini: «Senatori, l'intervento in armi nel Lazio si è ora concluso
grazie al favore degli dèi e al valore dei soldati. Gli eserciti nemici sono
stati fatti a pezzi a Pedo e lungo il fiume Astura. Tutte le città
del Lazio e Anzio nel territorio dei Volsci sono state catturate con la
forza o costrette alla resa e adesso sono sotto il controllo delle nostre
guarnigioni armate. Ora resta da stabilire, visto che con le loro
ribellioni sono per noi motivo di continua preoccupazione, in che modo
sia possibile mantenerli tranquilli con una pace duratura. Gli dèi
immortali vi hanno concesso un controllo così assoluto della situazione
da lasciare nelle vostre mani il cómpito di decidere se da questo momento in poi il
Lazio debba esistere o meno. Avete di conseguenza la possibilità di
garantirvi la pace nel Lazio, sia con una crudele repressione sia ricorrendo al
perdono. Volete essere spietati con quanti si sono arresi o sono stati
sconfitti? Potete cancellare l'intera regione, trasformando in lande desolate
le terre dove avete arruolato uno splendido esercito di alleati, del
quale vi siete avvalsi in molte e delicate guerre. Volete seguire
l'esempio dei vostri antenati e accrescere la potenza di Roma accogliendo i vinti
tra i concittadini? Avete a portata di mano l'occasione propizia per
ingrandirvi conquistando enorme gloria. Lo Stato di gran lunga più saldo
è quello nel quale i sudditi obbediscono con gioia. Ma qualunque sia la
soluzione che avete in animo di adottare, bisogna che lo facciate in fretta.
State tenendo troppi popoli sospesi tra la paura e la speranza. E bisogna che
liberiate quanto prima voi stessi dalle preoccupazioni nei loro confronti
e ne predisponiate gli animi, finché sono assorti nell'attesa, alla
punizione o al beneficio. Il nostro cómpito è stato quello di darvi
il potere di decidere riguardo ogni questione: il vostro è invece
quello di stabilire che cosa sia meglio per voi e per lo Stato». 14 I membri più autorevoli del
senato elogiarono l'intervento del console su una questione politica capitale, ma
dissero che, siccome non tutti i Latini si trovavano nella stessa
situazione, si sarebbe potuta prendere una decisione conforme ai meriti di
ciascun popolo soltanto esaminando i singoli casi uno per uno. Vennero
così passati in rassegna e valutati singolarmente. Ai Lanuvini venne
concessa la cittadinanza e furono lasciati i culti religiosi, a
condizione però che il tempio e il bosco di Giunone Salvatrice diventassero
patrimonio comune degli abitanti di Lanuvio e del popolo romano. Ad
Aricini, Nomentani e Pedani venne concessa la cittadinanza alle stesse condizioni
dei Lanuvini. Ai Tuscolani fu permesso di mantenere gli stessi
diritti civili goduti in passato, e l'accusa di aver riaperto le ostilità
ricadde su pochi responsabili, senza coinvolgere lo Stato. Il trattamento
riservato ai Veliterni, un tempo cittadini romani, fu severissimo per la
loro recidività: non soltanto furono rase al suolo le mura della loro
città, ma i membri del senato ne vennero allontanati e furono costretti
a stabilirsi al di là del Tevere: chi fosse stato colto al di qua del
fiume avrebbe dovuto pagare una multa fino a mille assi, e l'esecutore
dell'arresto non avrebbe dovuto rilasciare il prigioniero prima della
riscossione della taglia. Nelle terre dei senatori vennero inviati
coloni, il cui arruolamento restituì a Velitra la popolosità di un
tempo. Anche ad Anzio fu insediata una nuova colonia, dando per scontato che agli
Anziati sarebbe stato concesso di iscriversi di persona se lo avessero
voluto. Le loro navi da guerra vennero sequestrate, mentre al popolo
di Anzio fu vietato il mare e concessa la cittadinanza. Tiburtini e Prenestini
vennero invece privati del territorio, non soltanto per la
recente accusa di ammutinamento insieme con altre genti latine, ma
anche per il fatto che, stanchi del potere di Roma, si erano in passato
alleati con i Galli, gente selvaggia. Agli altri popoli latini venne negato
il diritto di esercitare mutui scambi commerciali, di contrarre
matrimoni misti e di tenere delle assemblee comuni. Ai Campani, per il
valore dei loro cavalieri che non avevano voluto ribellarsi assieme ai
Latini, e agli abitanti di Fonda e di Formia, attraverso il cui territorio il
passaggio era sempre stato sicuro e tranquillo, venne concessa la
cittadinanza senza diritto di voto. Agli abitanti di Cuma e di Suessula vennero
concesse le stesse garanzie e le stesse condizioni riservate a Capua.
Parte delle navi degli Anziati venne rimorchiata nei cantieri navali di
Roma, parte fu invece data alle fiamme e si decise di utilizzarne i rostri per
ornare una tribuna costruita nel foro, alla quale andò il nome di
Rostri. 15 Durante il consolato di Gaio
Sulpicio Longo e di Publio Elio Peto, mentre tutti i popoli, più per
la gratitudine guadagnata dai Romani con la generosità di comportamento che
per la paura suscitata dalla loro potenza, non prendevano iniziative,
scoppiò una guerra tra Sidicini e Aurunci. Gli Aurunci, arresisi durante il consolato
di Tito Manlio, da allora non erano più stati motivo di
preoccupazione, e proprio per questo avevano tutti i diritti di aspettarsi assistenza
militare da parte dei Romani. Ma prima che i consoli avessero fatto uscire
l'esercito da Roma - il senato aveva infatti dato disposizione di intervenire
a fianco degli Aurunci - cominciò a circolare la voce che essi in preda
al panico avevano abbandonato la loro città e si erano rifugiati
con mogli e figli a Suessa - oggi detta Aurunca -, difendendosi con
fortificazioni; la loro vecchia città e le antiche mura erano state distrutte dai
Sidicini. Il senato, adirato per queste notizie con i consoli, le cui
esitazioni avevano consegnato gli alleati nelle mani del nemico,
ordinarono di nominare un dittatore. La
scelta cadde su Gaio Claudio Regillense che scelse come maestro di cavalleria Gaio Claudio Ortatore. Poi
emerse uno scrupolo religioso sulla validità della nomina del
dittatore: siccome gli àuguri dichiararono che la nomina non sembrava regolare, il
dittatore e il maestro di cavalleria rinunciarono alla carica. Quell'anno la vestale Minucia,
sospettata in prima istanza per un abbigliamento non adeguato alla
posizione occupata, e poi accusata di fronte ai pontefici in base alla
testimonianza di un servo, venne costretta da un decreto pontificale ad
astenersi dai riti sacri e a tenere sotto la sua potestà gli
schiavi. Processata e condannata, fu sepolta viva nei pressi della porta Collina, a
destra della strada lastricata nel campo Scellerato (il cui nome credo derivi
dalla trasgressione al voto di castità perpetrata dalla
vestale). In quello stesso anno Quinto Publilio
Filone fu il primo plebeo a essere eletto pretore, non ostante il console
Sulpicio si fosse opposto alla nomina dichiarando di non essere
disposto a considerare valida quell'elezione. Ma il senato, non
essendo riuscito a ostacolare l'accesso dei candidati plebei alle più
alte cariche, si mostrò meno ostinato nel caso della pretura. 16 L'anno successivo, durante il
consolato di Lucio Papirio Crasso e Cesone Duilio, si segnala per una
guerra non tanto importante quanto priva di precedenti, combattuta con gli
Ausoni, un popolo che abitava la città di Cales. Essi avevano unito le proprie
forze con quelle dei vicini Sidicini: ma siccome l'esercito delle
due genti era stato sconfitto in un'unica battaglia tutt'altro che
memorabile, a causa della vicinanza delle rispettive città fu tanto
pronto alla fuga quanto sicuro risultò il rifugio trovato nella fuga stessa.
Ciò non ostante i senatori non smisero di curarsi di quella guerra, tante
erano state le volte nelle quali i Sidicini avevano scatenato
autonomamente la guerra o erano scesi al fianco di quanti l'avevano iniziata o ancora
erano stati motivo di intervento armato. Perciò fecero quanto era
in loro potere perché Marco Valerio Corvo, il più grande comandante
del tempo, raggiungesse per la quarta volta il consolato. A Corvo venne
affiancato come collega Marco Atilio. E per evitare di incorrere in qualche
errore della sorte, chiesero ai consoli di affidare la campagna a Corvo
senza ricorrere al sorteggio. Dopo aver assunto il comando dell'esercito
vittorioso lasciato dai consoli precedenti, partì alla volta di
Cales dov'era scoppiata la guerra e, messi in fuga al primo assalto i nemici che
non si erano ancora ripresi dallo scontro recente, si accinse ad
attaccare le mura stesse della città. E per parte loro i soldati erano così
animosi da desiderare di scalare immediatamente le mura: ripetevano di
potercela fare. Ma Corvo, vedendo che si trattava di un'impresa ardua,
preferì portare a compimento il suo piano facendo lavorare gli uomini
piuttosto che mettendone in pericolo le vite. Perciò fece costruire un
terrapieno e tettoie mobili e ordinò di avvicinare le torri al muro, anche se
una circostanza fortunata ne rese inutile l'impiego. Infatti Marco Fabio,
un prigioniero romano, sfruttando la negligenza delle guardie in un
giorno di festa, si liberò dei ceppi e, con una fune che aveva legato a un
bastione del muro, si lasciò calare lungo il muro stesso fino ai
dispositivi d'assedio dei Romani e convinse il generale ad attaccare i nemici
storditi dal vino e dai festeggiamenti. Gli Ausoni e la loro città
vennero catturati con uno sforzo non certo superiore a quello impiegato per
sconfiggerli in battaglia. Il bottino realizzato fu di notevoli proporzioni;
lasciata a Cales una guarnigione armata, le legioni furono ricondotte a
Roma. Il console per decreto del senato celebrò il trionfo, e,
per far sì che anche Atilio avesse parte di gloria, a entrambi i consoli venne data
disposizione di condurre l'esercito contro i Sidicini. Prima
però - ricevuta disposizione in tal senso dal senato -, nominarono un
dittatore incaricato di presiedere le elezioni: la loro scelta cadde su Lucio
Emilio Mamercino, che nominò maestro di cavalleria Quinto Publilio
Filone. Dalle votazioni presiedute dal dittatore risultarono eletti
consoli Tito Veturio e Spurio Postumio. I due magistrati, pur rimanendo ancora da
affrontare parte della guerra con i Sidicini, ciò non ostante,
sperando di anticipare i desideri del popolo e di rendere un servizio ai plebei,
presentarono la proposta di insediare una colonia a Cales. Il senato decise
che per quell'iniziativa dovessero essere iscritti cinquemila uomini, ed
elesse Cesone Duilio, Tito Quinzio e Marco Fabio triumviri col cómpito di
fondare la colonia e di assegnare la terra. 17 I nuovi consoli poi, preso in
consegna l'esercito dai predecessori, invasero il territorio nemico e lo
devastarono, arrivando fino alle mura della città. Lì, siccome
i Sidicini avevano da soli raccolto un grande esercito ed era probabile che avrebbero
combattuto fino all'ultimo sangue per difendere le loro ultime speranze,
e siccome circolava la voce che i Sanniti stessero per prendere le armi,
i consoli, su incarico del senato, nominarono dittatore Publio Cornelio
Rufino e maestro di cavalleria Marco Antonio. Emerse però uno
scrupolo religioso circa la regolarità della loro nomina e i due magistrati rinunciarono
alla carica; e poiché seguì una pestilenza, come se tutti gli auspici
fossero stati contagiati da quel vizio di forma, si passò a un
interregno. Alla fine Marco Valerio Corvo, quinto
interré dall'inizio dell'interregno, nominò consoli Aulo Cornelio (al
secondo mandato) e Gneo Domizio. Mentre regnava dovunque la pace, la notizia di
una guerra scatenata dai Galli portò lo scompiglio e indusse
all'elezione di un dittatore. La scelta cadde su Marco Papirio Crasso; maestro
di cavalleria fu nominato Publio Valerio Publicola. Mentre essi stavano
realizzando la leva militare con maggiore fermezza di quanta non ne
avrebbero impiegata per una guerra con un popolo confinante, i ricognitori
inviati in zona tornarono riferendo che tra i Galli tutto era tranquillo.
Anche il Sannio, già da due anni, si sospettava fosse percorso da nuove
ondate di rivolta. Per questo l'esercito romano non venne richiamato
dal territorio dei Sidicini. Ma un'altra guerra, scatenata dal re
dell'Epiro Alessandro, deviò i Sanniti nel territorio dei Lucani. I due popoli
si scontrarono in campo aperto con il re mentre questi stava risalendo da
Paestum. La vittoria andò ad Alessandro, il quale stipulò un
trattato con i Romani. È dubbio che l'avrebbe rispettato se il resto della
sua campagna avesse avuto la stessa fortuna. Nel corso dello stesso anno si tenne il
censimento, in cui figurarono anche i nuovi cittadini; il loro numero
portò all'aggiunta di due nuove tribù, la Mecia e la Scapzia. I
censori che le aggiunsero furono Quinto Publilio Filone e Spurio Postumio. Gli
abitanti di Acerra divennero Romani a séguito di una proposta presentata
dal pretore Lucio Papirio e volta a garantire loro la cittadinanza senza
diritto di voto. Furono questi i fatti accaduti quell'anno a Roma e
all'esterno. 18 L'anno seguente fu terribile sia per
l'inclemenza del tempo sia per le colpe commesse dagli uomini. Consoli
erano M. Claudio Marcello e C. Valerio. Negli annali ho variamente
trovato Flacco e Potito come soprannomi attribuiti a Valerio: quale
sia la verità non è però molto importante. La notizia che vorrei
sinceramente fosse falsa (e non tutti gli autori la riportano) è
questa: che gli uomini la cui morte rese memorabile l'anno morirono non per la
pestilenza, ma avvelenati. Ciò non ostante, siccome la notizia ci è
stata tramandata, merita di essere riportata onde non togliere
credibilità a qualche storico. Mentre i personaggi più in vista della
città contraevano la medesima malattia e morivano quasi tutti nella stessa
maniera, un'ancella si presentò all'edile curule Quinto Fabio Massimo
dicendo che gli avrebbe rivelato la causa del contagio che affliggeva i
cittadini se egli le avesse garantito che quella denuncia non le avrebbe
arrecato danno. Fabio riferì immediatamente la cosa ai consoli i
quali la riportarono al senato, e alla donna venne data la garanzia richiesta,
con l'approvazione generale dei senatori. Allora l'ancella
rivelò che la città era in preda all'epidemia per colpa di criminose pratiche
femminili, e che i veleni erano opera di alcune matrone: se l'avessero seguita,
sùbito, le avrebbero potute cogliere in flagrante. I senatori
seguirono la delatrice e trovarono delle donne impegnate a cuocere filtri, e
altre pozioni nascoste. Portato il materiale nel foro e convocate una
ventina di matrone nelle cui case le pozioni erano state rinvenute, due di
esse, Cornelia e Sergia - entrambe di nobile famiglia - sostennero che si
trattava di farmaci salutari. Ma poiché la delatrice confutava le loro
affermazioni, vennero costrette a bere i preparati in modo da dimostrare
al cospetto di tutti che le accuse dell'ancella erano false. Presero tempo
per consultarsi e, in disparte, riferirono la cosa alle altre donne;
poiché anche queste non erano contrarie a ingerire le pozioni,
bevvero tutte d'un fiato, al cospetto del popolo, e morirono per le loro stesse
pratiche delittuose. Le loro ancelle, immediatamente arrestate,
fecero i nomi di un gran numero di matrone, centosettanta delle quali
vennero giudicate colpevoli. Prima di quel giorno non si erano mai tenuti a
Roma processi per avvelenamento. La cosa fu ritenuta un prodigio e venne
considerata il prodotto di menti folli più che criminali. E
così, siccome negli annali veniva riportato che in passato, in occasione di secessioni
della plebe, il dittatore aveva piantato un chiodo e che le menti degli
uomini uscite di senno per la discordia erano tornate in sé grazie a
quel rito di espiazione, si decise di nominare un dittatore per piantare
il chiodo. La scelta cadde su Gneo Quintilio, il quale nominò
maestro di cavalleria Lucio Valerio. Dopo aver piantato il chiodo, i due magistrati
rinunciarono alla carica. 19 Vennero eletti consoli Lucio Papirio
Crasso (al suo secondo consolato) e Lucio Plauzio Venoce. All'inizio
del-l'anno arrivarono a Roma degli ambasciatori dei Volsci di Fabrateria e
dei Lucani per implorare la protezione di Roma. Promisero che, nel
caso in cui fossero stati difesi dai Sanniti, sarebbero diventati leali
e obbedienti sudditi del popolo romano. Il senato inviò allora
una delegazione ai Sanniti per ammonirli di astenersi da incursioni nei territori
di quei popoli. L'ambasceria raggiunse lo scopo, non tanto perché i
Sanniti desiderassero la pace, quanto piuttosto perché non erano
ancora pronti alla guerra. Quello stesso anno vide l'inizio della
guerra con i Privernati, i cui alleati erano gli abitanti di Fonda e
il cui comandante era, anch'egli, di Fonda. Si trattava di Vitruvio Vacco,
uomo noto non solo in patria, ma anche a Roma, dove possedeva una casa
sul Palatino, nel punto che, quando l'edificio venne abbattuto e il terreno
confiscato, prese il nome di prati di Vacco. A contrastarlo nella sua
devastazione dei territori di Sezia, Norba e Cora venne inviato Lucio
Papirio, che si accampò non lontano dell'avversario. Vitruvio non aveva né
la fermezza d'animo di rimanere al riparo della trincea di fronte a un
nemico ben più forte, né il coraggio di combattere lontano
dall'accampamento. Quasi tutto il suo contingente si trovava schierato di fronte
all'ingresso dell'accampamento e i suoi soldati si stavano preoccupando
più della fuga che della battaglia o del nemico, quando Vacco iniziò una
battaglia disperata senza dimostrare né prudenza né audacia. Sconfitto con non
troppa fatica e in maniera che non lasciava dubbi, poiché il suo
accampamento era vicino e facilmente raggiungibile, riuscì
agevolmente a evitare gravi perdite. Durante la battaglia non morì quasi
nessuno; solo pochi della retroguardia in fuga persero la vita mentre stavano
riversandosi nell'accampamento. Alle prime luci della sera raggiunsero Priverno
con una marcia affannosa, per cercare nelle mura della città una
protezione più sicura della trincea. Da Priverno l'altro console, Plauzio,
saccheggiate le campagne dei dintorni e conquistato grande bottino,
guidò l'esercito nel territorio di Fonda. Mentre ne stava varcando i
limiti, gli andò incontro il senato di Fonda, i cui membri dissero di essere
venuti a rivolgere una preghiera non a favore di Vitruvio e di quanti lo
avevano seguito, ma del popolo di Fonda che Vitruvio stesso aveva
dichiarato estraneo alla guerra quando si era rifugiato a Priverno invece che
nella sua città natale. Perciò era a Priverno che bisognava cercare e punire
i nemici del popolo romano, i quali si erano ribellati
contemporaneamente ai Fondani e ai Romani, dimenticandosi dell'una e dell'altra
patria. Gli abitanti di Fonda si mantenevano pacifici, avevano
sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani e dimostravano gratitudine per
la cittadinanza ricevuta. Implorarono il console di astenersi dal
fare guerra contro un popolo innocente: le campagne, la
città, le loro stesse persone e quelle delle mogli e dei figli erano e sarebbero
state sottomesse all'autorità di Roma. Il console, elogiati gli abitanti di
Fonda e spedita a Roma una lettera con la quale annunciava che quella città
si manteneva leale, si diresse verso Priverno. Claudio scrive che
prima di partire il console fece giustiziare i capi della rivolta,
inviando a Roma in catene trecentocinquanta di quelli che vi
avevano preso parte. Ma il senato non avrebbe accettato la resa, convinto che
il popolo di Fonda volesse liberarsi di ogni responsabilità
facendo ricadere la punizione sui cittadini poveri e di bassa estrazione. 20 Mentre Priverno era assediata dai
due eserciti consolari, l'altro console venne richiamato a Roma per
presiedere le elezioni. In quell'anno vennero allestiti per la prima volta
dei recinti per i cavalli nel circo. Le preoccupazioni per la guerra contro
Priverno non si erano ancora esaurite, quando arrivò la grave
notizia di una sollevazione dei Galli: un annunzio che quasi mai veniva
trascurato dai senatori. E così i due nuovi consoli Lucio Emilio Mamercino e Gaio
Plauzio, lo stesso giorno in cui erano entrati in carica (le calende di
luglio), ricevettero disposizione di dividere tra loro le missioni: a
Mamercino, cui era toccata la campagna contro i Galli, fu ordinato di tenere
la leva militare senza concedere alcun tipo di esenzione. Anzi, si
racconta che vennero chiamati in massa anche gli operai e gli artigiani
sedentari, gente per nulla adatta al servizio militare. A Veio venne
concentrato un enorme esercito, per muovere di lì contro i Galli. Si
decise però di non spingersi oltre, per timore che il nemico ingannasse tutti
dirigendosi a Roma per un'altra via. E così, siccome dopo pochi
giorni fu abbastanza evidente che i Galli restavano per ora tranquilli, tutta la
forza venne concentrata su Priverno. Da questo momento in poi si ha una
duplice versione dei fatti: alcuni storici sostengono che la città
venne presa con la forza e che Vitruvio fu catturato vivo; altri invece che, prima
dell'assalto finale, il popolo stesso uscì dalle mura e recando
il ramoscello della pace si arrese nelle mani del console, consegnando Vitruvio.
Il senato, consultato in merito al destino di Vitruvio e dei Privernati,
ordinò al console Plauzio di radere al suolo le mura di Priverno, di
lasciarvi una robusta guarnigione e di tornare a Roma in trionfo. Quanto a
Vitruvio avrebbe dovuto rimanere in carcere fino al ritorno del console, e
quindi essere fustigato a morte. Fu disposto che la sua casa sul Palatino
venisse rasa al suolo, mentre i suoi beni vennero consacrati a Semone Sango.
Col denaro ricavato dalla loro vendita vennero forgiati anelli di
bronzo che furono collocati nel santuario di Semone, di fronte al
tempio di Quirino. Quanto al senato di Priverno, fu deciso che tutti i
senatori rimasti in città dopo la defezione da Roma avrebbero dovuto
stabilirsi al di là del Tevere, alle stesse condizioni riservate ai
Veliterni. Prese queste decisioni, fino al momento del trionfo di Plauzio non si
parlò più dei Privernati. Dopo il trionfo il console fece uccidere
Vitruvio e i suoi complici; pensando che di fronte a uomini ormai saziati dalle
pene toccate ai responsabili di quel crimine si potesse affrontare
serenamente la questione dei Privernati, parlò in questi
termini: «Visto che i responsabili della defezione hanno avuto giuste pene tanto
dagli dèi immortali quanto da voi, senatori, che cosa avete intenzione di fare
circa la massa incolpevole? Quanto a me, anche se mi spetta
più chiedere che non dare pareri, tuttavia, vedendo che i Privernati sono
vicini ai Sanniti con i quali i nostri rapporti di pace sono
attualmente precari, vorrei che tra noi e loro restassero meno motivi di
risentimento possibile». 21 Non ostante la questione fosse
già di per sé incerta e ciascuno suggerisse, a seconda della propria
indole, un comportamento più o meno severo, tutto venne ulteriormente
complicato da un membro della delegazione privernate, il quale,
preoccupato più della condizione nella quale era nato che non della
gravità del frangente, essendogli stato chiesto da un sostenitore di misure ben
più severe quale fosse a sua detta la giusta pena per i Privernati, disse:
«Quella che meritano quanti si ritengono degni di essere liberi». Il
console, vedendo che questa risposta altezzosa aveva accresciuto
l'ostilità di chi era già contrario alla causa dei Privernati, sperando di ottenere
una risposta meno dura con una domanda più benevola, chiese:
«Se vi condoniamo la pena, che tipo di pace possiamo sperare da voi?». La risposta
fu: «Leale e duratura, se quella che ci proporrete voi sarà
buona; ma di breve durata, se cattiva». Fu allora che qualcuno gridò che i
Privernati stavano apertamente minacciando i Romani e che quelle parole erano per
i popoli in pace un'istigazione alla rivolta. Ma la parte più
moderata del senato dava un senso migliore a quelle parole e sosteneva che si era
ascoltata la voce di un uomo libero: era mai possibile credere che un popolo
o un uomo sarebbero rimasti più a lungo del dovuto in una condizione
intollerabile? Una pace sicura si aveva là dove era stata
volontariamente accettata, e non si poteva sperare che ci fosse lealtà là dove
si cercava di imporre la schiavitù. Fu soprattutto il console a orientare
verso questa opinione, dicendo agli ex consoli, cui toccava per primi
esprimere il proprio parere, con voce abbastanza alta da farsi sentire anche
dagli altri, che solo quanti non pensavano ad altro che alla
libertà erano degni di diventare romani. Così i
Privernati vinsero la loro causa in senato e su proposta del senato venne presentata al popolo una proposta
di legge per conferire loro la cittadinanza romana. Quello stesso anno vennero inviati
trecento coloni ad Anxur e a ciascuno di essi andarono due iugeri di terra. 22 L'anno seguente, quando erano
consoli Publio Plauzio Proculo e Publio Cornelio Scapula, non si segnalò
per alcun episodio di natura militare o civile, salvo il fatto che fu inviata
una colonia a Fregelle (in una zona appartenuta agli abitanti di Signia e
poi passata ai Volsci) e che Marco Flavio, durante il funerale della
madre, distribuì gratuitamente della carne al popolo. Alcuni pensarono che,
con il pretesto di onorare la madre, Flavio avesse pagato una
ricompensa dovuta al popolo che lo aveva assolto quando, citato in giudizio
dagli edili, era stato accusato di aver violato una madre di famiglia. La
distribuzione gratuita di carne offerta come ringraziamento per quella sentenza
fu per lui anche motivo di onore. E nelle successive elezioni, pur
assente, venne preferito come tribuno della plebe a quelli che avevano
presentato la candidatura. Non lontano dal punto in cui oggi si
trova Napoli sorgeva una città di nome Paleopoli; i due centri erano
abitati da uno stesso popolo. Si trattava di oriundi di Cuma; i Cumani
traggono origine da Calcide in Eubea. Grazie alla flotta con la quale
erano arrivati dalla loro terra, divennero molto potenti lungo la costa
del mare dove ora vivono. In un primo tempo sbarcarono a Ischia e nelle
Pitecuse, poi si avventurarono a trasferire la loro sede sulla
terraferma. La popolazione di Paleopoli, contando sia sulle proprie forze sia
sulla slealtà dimostrata dai Sanniti nei confronti degli alleati Romani, o
forse confidando nel-l'epidemia che, secondo le notizie, aveva assalito
Roma, commise numerosi atti ostili nei confronti dei Romani residenti nell'agro
Campano e Falerno. Così, durante il consolato di Lucio Cornelio Lentulo
e Quinto Publilio Filone (eletto per la seconda volta), vennero inviati
a Paleopoli i feziali per chiedere soddisfazione. Al ritorno i feziali
riferirono di una risposta durissima da parte dei Greci (gente più
valida a parole che a fatti): perciò, su proposta dei senatori, il popolo
dichiarò guerra ai Paleopolitani. I consoli si divisero gli incarichi e la
guerra contro i Greci toccò a Publilio. Cornelio, con un altro
esercito, ricevette disposizione di andare a fronteggiare i Sanniti, nel
caso in cui avessero preso qualche iniziativa militare. Ma poiché correva
voce che essi si sarebbero messi in movimento in concomitanza con l'attesa
defezione dei Campani, Cornelio ritenne che la cosa migliore da farsi
fosse di accamparsi stabilmente in zona. 23 Entrambi i consoli informarono il
senato che c'erano pochissime speranze di pace con i Sanniti.
Publilio riferì che Paleopoli aveva ricevuto duemila soldati nolani e
quattromila sanniti, più per pressione degli abitanti di Nola che per
volontà dei Greci. Cornelio riferì invece che i magistrati sanniti avevano
bandito una leva militare, che tutto il Sannio era in fermento e che i popoli
dei dintorni, Privernati, Fondani e Formiani, erano apertamente invitati ad
associarsi all'impresa. Per queste ragioni si decise di inviare degli
ambasciatori ai Sanniti prima di dichiarare guerra, ma dai Sanniti
arrivò una risposta arrogante. Accusavano a loro volta i Romani di non
essersi comportati correttamente e si giustificavano con egual vigore
delle accuse loro rivolte: dissero di non aver fornito ai Greci alcun aiuto
né collaborazione ufficiale, e di non aver spinto all'ammutinamento gli
abitanti di Formia e di Fonda. Perciò avevano piena fiducia
nelle proprie forze, in caso si fosse deciso per la guerra. D'altra parte non era
loro possibile nascondere il fastidio del popolo sannita al vedere che la
città di Fregelle, da essi tolta ai Volsci e rasa al suolo, era stata
rimessa in piedi dal popolo romano e che in territorio sannita era stata fondata
una colonia chiamata Fregelle dai coloni romani: era un sanguinoso
affronto, e, se i suoi autori non vi avessero posto rimedio, i Sanniti
sarebbero ricorsi a ogni mezzo per cancellarlo. Quando l'inviato romano
propose di discutere la questione insieme con gli alleati comuni e gli
amici, la risposta fu: «Perché agire in maniera tanto tortuosa? Le nostre
controversie, Romani, le decideranno non tanto le parole degli ambasciatori
o l'arbitrio di qualche giudice, quanto la pianura campana, dove
è destino che si scenda in battaglia: decideranno le armi e la comune fortuna
in guerra. Accampiamoci dunque faccia a faccia tra Capua e Suessula e
stabiliamo se debbano governare l'Italia i Sanniti o i Romani». Gli
ambasciatori romani risposero che sarebbero andati non dove il nemico li
avesse convocati, ma dove li avesse guidati il loro comandante... Publilio, occupata una posizione
favorevole tra Paleopoli e Napoli, aveva già privato il nemico di quella
reciproca assistenza di cui i diversi popoli avversari si erano serviti non
appena le varie postazioni venivano messe sotto pressione. Così,
dato che il giorno delle elezioni era ormai prossimo e non sarebbe stato un
vantaggio per il paese richiamare Publilio, che stava già
minacciando le mura nemiche e contava di far cadere la città a giorni, il
senato indusse i tribuni a presentare al popolo una proposta in base alla quale
Quinto Publilio Filone, allo scadere del mandato, potesse continuare
a gestire la campagna militare in qualità di proconsole fino a
quando i Greci non fossero stati definitivamente sconfitti. Poiché neppure Lucio Cornelio, che era
già entrato nel Sannio, secondo il senato doveva essere richiamato dalla
sua vigorosa offensiva, gli venne inviato l'ordine di nominare un
dittatore per presiedere le elezioni. Egli scelse Marco Claudio Marcello, che
nominò maestro di cavalleria Spurio Postumio. Tuttavia le elezioni non
furono tenute dal dittatore, perché venne messa in questione la
regolarità della sua nomina. Gli àuguri consultati dichiararono che essa
sembrava formalmente viziata. I tribuni, con le loro accuse, gettarono il
sospetto e l'infamia su questo verdetto. Dicevano infatti che
l'irregolarità non poteva esser venuta facilmente alla luce, visto che il console
nominava il dittatore alzandosi in silenzio nel cuore della notte; che il
console non aveva scritto a nessuno - né in forma privata né in forma
pubblica - circa quella procedura; che non vi era alcun mortale in grado di
aver visto o udito qualcosa che potesse aver invalidato gli auspici e
che gli àuguri non avevano potuto, stando a Roma, divinare in quale
irregolarità fosse incorso il console nell'accampamento. A chi non era chiaro
che l'irregolarità rilevata dagli àuguri era in definitiva
l'origine plebea del dittatore? Furono queste, e altre simili, le obiezioni vanamente
presentate dai tribuni. Alla fine si passò a un interregno, e dopo
continui rinvii delle elezioni ottenuti con sempre nuovi pretesti, finalmente il
quattordicesimo interré, Lucio Emilio, nominò consoli Gaio
Petilio e Lucio Papirio Mugillano. In altri annali ho trovato per quest'ultimo il
soprannome di Cursore. 24 Si tramanda che in quello stesso
anno venne fondata in Egitto la città di Alessandria e che il re dell'Epiro
Alessandro, assassinato da un esule lucano, con la sua fine confermò
un oracolo di Giove a Dodona. Essendo stato chiamato in Italia dai Tarentini,
l'oracolo lo aveva avvertito di guardarsi dall'acqua Acherusia e dalla
città di Pandosia, perché lì il destino aveva fissato per lui il
termine della vita. Perciò era passato rapidamente in Italia, in modo tale da
trovarsi quanto più lontano possibile dalla città di
Pandosia e dal fiume Acheronte, che, scendendo dalla Molosside negli stagni Infernali,
sfociava nel golfo di Tesprotide. Ma, come sovente succede, l'uomo
cercando di evitare il proprio destino finisce per coglierlo in pieno: dopo
aver ripetutamente sconfitto le legioni dei Bruzzi e dei Lucani,
Alessandro strappò ai Lucani la colonia tarentina di Eraclea, conquistò
Siponto degli Apuli, Cosenza e Terina dei Bruzzi e ancora altre città dei
Messapi e dei Lucani, e inviò in Epiro trecento illustri famiglie da tenere in
ostaggio. Dopo tutto questo, si accampò non lontano dalla
città di Pandosia (che si trovava presso i confini con la Lucania e il Bruzzio),
su tre colline poste a breve distanza le une dalle altre, dalle
quali era possibile effettuare incursioni in ogni punto del territorio
nemico. Aveva intorno a sé circa duecento esuli lucani che egli
considerava affidabili, ma che, com'è in genere l'attitudine di quel popolo,
erano pronti a cambiare fede col cambiare della fortuna. Siccome le piogge incessanti avevano
inondato tutte le campagne e diviso in tre tronconi l'esercito, togliendo
la possibilità dell'assistenza reciproca, le due guarnigioni dove non
c'era il re furono sopraffatte da un improvviso attacco dei nemici.
Questi, dopo averle fatte a pezzi, si concentrarono esclusivamente
sull'assedio della guarnigione in cui era Alessandro. Gli esuli lucani inviarono
messaggeri ai loro conterranei, promettendo che, se avessero ottenuto
la garanzia di poter rientrare incolumi, avrebbero consegnato nelle
loro mani il re, vivo o morto. Ma Alessandro stesso, con un gesto audace
e valoroso, si aprì la strada tra i nemici con un plotone di uomini scelti
e uccise il comandante dei Lucani in duello. Quindi, raccolti i suoi che
si erano dispersi nel corso della fuga, arrivò a un fiume, dove le
recenti rovine di un ponte, spazzato via dalla violenza delle acque, indicavano
la strada da seguire. Mentre i suoi uomini stavano attraversando il fiume
in un guado malsicuro, un soldato spossato dalla fatica e dalla paura,
maledicendo il sinistro nome del fiume, gridò: «A ragione ti
chiamano Acheronte!». Non appena il re udì questa frase, sùbito
ricordò il suo destino e si fermò, incerto se affrontare il guado o meno. Allora
Sotimo, uno dei giovani nobili al suo séguito, chiedendogli perché indugiasse
in un momento di così grande pericolo, gli indicò i Lucani
che stavano cercando di tendergli un agguato. Quando il re li vide
sopraggiungere a breve distanza in gruppo compatto, sguainò la spada e
spinse il cavallo nel mezzo della corrente. Era già quasi arrivato sulla
terraferma quando un esule lucano lo trafisse con un giavellotto. Alessandro
crollò a terra con il giavellotto conficcato nel corpo esanime e la
corrente lo trascinò in mezzo ai posti di guardia dei nemici, dove fu
orrendamente mutilato. Dopo averlo tagliato a metà, ne mandarono una parte a
Cosenza e tennero l'altra per ludibrio. Mentre la utilizzavano come bersaglio
lanciando da lontano pietre e giavellotti, una donna da sola, mescolatasi
alla folla che stava infierendo oltre il limite di ogni
rabbia umana, li pregò di fermarsi per un attimo e in preda alle lacrime disse
che suo marito e i suoi figli erano prigionieri in mano del nemico, e
che col corpo del re, benché sconciato, sperava di poterli
riscattare. Questo pose fine alle mutilazioni. Ciò che restava del
cadavere venne sepolto a Cosenza: soltanto quella donna se ne
curò. Le ossa vennero inviate al nemico a Metaponto, e di lì furono
trasportate via mare in Epiro alla moglie Cleopatra e alla sorella Olimpiade,
rispettivamente madre e sorella di Alessandro Magno. Questa fu la triste
fine di Alessandro dell'Epiro. Basti averne riferito in breve: pur avendogli
la sorte impedito di scontrarsi con i Romani, egli combatté delle
guerre in Italia. 25 Lo stesso anno venne celebrato a
Roma un lettisternio - il quinto dalla fondazione della città -, per
propiziare il favore degli stessi dèi invocati nelle precedenti occasioni.
Poi i nuovi consoli, su ordine del popolo, inviarono i feziali a
dichiarare guerra ai Sanniti; questi ultimi non solo stavano compiendo i
preparativi per il conflitto con un impegno ben più massiccio di quanto non
ne avessero profuso nella campagna contro i Greci, ma ricevettero anche nuovi
rinforzi da una parte cui in quel momento i Romani non avevano affatto
pensato. Lucani ed Apuli, genti che fino a quel momento non avevano avuto
nulla a che vedere con il popolo romano, si misero sotto la loro
protezione, promettendo armi e uomini per la guerra. Di conseguenza venne loro
concesso un trattato di alleanza. Nello stesso periodo i Romani
condussero una fortunata campagna nel Sannio. Tre città, Allife,
Callife e Rufrio, caddero in loro potere, mentre il resto del territorio venne
saccheggiato in lungo e in largo non appena arrivarono i consoli. Portata a compimento così
felicemente questa guerra, anche l'altra, l'assedio contro i Greci, era ormai
quasi alla fine. Infatti non solo una parte dei nemici aveva perso ogni
collegamento con l'altra a causa delle opere di fortificazione costruite in
mezzo dai Romani, ma all'interno delle loro stesse mura stavano
succedendo cose ben più preoccupanti delle minacce degli avversari: quasi
prigionieri dei loro alleati, dovevano ormai sottostare agli oltraggi rivolti
anche contro i figli e le mogli, e soffrire tutti gli orrori delle
città conquistate. E così, quando arrivò la voce che da Taranto e dai Sanniti
sarebbero arrivati nuovi rinforzi, pensavano di avere all'interno delle
mura più Sanniti di quanti non ne volessero. In quanto Greci, invece, non
vedevano l'ora che arrivassero i giovani greci di Taranto, con il cui
apporto avrebbero potuto resistere non tanto ai Sanniti e ai Nolani quanto
ai nemici romani. Ma alla fine sembrò che la resa ai Romani fosse
il male minore. Carilao e Ninfio, i personaggi più in vista della
città, dopo essersi consultati tra di loro, si divisero le parti per mettere in
pratica il piano convenuto: uno di essi si sarebbe recato dal comandante
romano, l'altro si sarebbe fermato a predisporre la città
all'esecuzione del piano. Fu Carilao che si presentò a Publilio Filone e, pregando che la
cosa portasse vantaggio e prosperità a Paleopoli e al popolo romano,
annunciò di aver deciso di consegnare le mura della città. Sarebbe poi
dipeso dal senso di lealtà dei Romani se, a fatti compiuti, egli sarebbe apparso il
traditore o il salvatore della città. Quanto a sé come privato
cittadino, egli non patteggiava né chiedeva alcunché. A nome della sua
gente chiedeva - più che patteggiare - che, qualora l'impresa fosse andata a
buon fine, il popolo romano considerasse con quanto sforzo e a
prezzo di quali rischi gli assediati fossero tornati in amicizia con Roma,
piuttosto che ricordare quale follia e quale temerarietà li avesse
distolti dal proprio dovere. Ricevute le congratulazioni del comandante, ottenne
tremila uomini per riconquistare la parte di città presidiata dai
Sanniti. A capo del contingente armato venne posto il tribuno militare Lucio
Quinzio. 26 Nel contempo Ninfio, per parte sua,
aveva raggirato il comandante del presidio sannita, portandolo a
concedergli, poiché l'intero esercito romano si trovava o intorno a Paleopoli
o nel Sannio, di arrivare per via di mare in territorio romano e di
devastare non solo la costa ma anche i dintorni stessi di Roma. Ma per evitare
di essere scoperti, era necessario salpare in piena notte e mettere
sùbito le navi in mare. Perché la cosa potesse essere attuata il più
velocemente possibile, tutti i soldati sanniti, eccetto quei pochi necessari
per fare da presidio armato alla città, vennero inviati sulla
spiaggia. Mentre Ninfio, nel buio della notte, faceva scorrere il tempo
impartendo ad arte ordini contraddittori per confondere una gran massa di armati
già impacciata dalla sua stessa mole, Carilao, introdotto in
città dai compagni secondo l'accordo prestabilito, occupata con i soldati
romani la parte più alta della città, diede loro ordine di levare un grido:
udendolo, i Greci obbedirono al segnale ricevuto e rimasero fermi,
mentre i Nolani fuggirono dalla parte opposta della città per la
strada che porta a Nola. I Sanniti, tagliati fuori dalla città, se da una
parte ebbero sul momento dei vantaggi nella fuga, dall'altra essa sembrò
loro ben più umiliante, quando si trovarono fuori pericolo. Disarmati com'erano,
avendo lasciato tutto in mano al nemico, tornarono in patria spogliati e
privi di ogni cosa, dileggiati non solo dagli stranieri ma anche dai loro
concittadini. Pur non essendo all'oscuro dell'altra versione dei
fatti che attribuisce la presa della città al tradimento compiuto dai
Sanniti, non mi sono soltanto limitato a seguire gli autori più
affidabili: è anche il trattato stipulato con Napoli - lì infatti i Greci
trasferirono il loro quartier generale - a rendere più verosimile il fatto
che essi siano spontaneamente tornati a un rapporto di amicizia. A Publilio venne
decretato il trionfo perché vi erano sufficienti ragioni per credere
che i nemici si fossero arresi a séguito dell'assedio. A lui toccarono
per la prima volta due onori singolari: la proroga del comando, fino
ad allora mai concessa ad alcuno, e un trionfo celebrato dopo la scadenza
del mandato. 27 Sùbito dopo scoppiò
un'altra guerra con i Greci della costa orientale. Infatti i Tarentini, dopo aver per
qualche tempo sostenuto la causa dei Paleopolitani con vane speranze di
aiuto, quando vennero a sapere che i Romani si erano impossessati della
città, quasi non avessero essi stessi abbandonato i Paleopolitani ma fossero
stati abbandonati, inveirono contro questi ultimi, spinti da rabbia e
invidia verso i Romani, specialmente quando arrivò la notizia che
Lucani e Apuli si erano messi sotto la
protezione del popolo romano (e infatti quell'anno era stata stipulata
un'alleanza con l'uno e l'altro
popolo). Sostenevano che i Romani erano ormai giunti quasi a Taranto e che
presto essi si sarebbero trovati nella condizione di avere i Romani o come
nemici o come padroni. Era chiaro che la loro sorte dipendeva dall'esito
della guerra coi Sanniti: questo era l'unico popolo che continuava a
resistere, e non era sufficientemente forte per i Romani, vista la defezione
dei Lucani. Ma questi ultimi li si poteva ancora far recedere dalla loro
decisione e indurli a ripudiare l'allenza coi Romani, qualora si fosse
fatto ricorso a un po' di astuzia nel seminare discordie. Siccome queste tesi ebbero la meglio
presso quanti miravano a rivolgimenti politici, vennero corrotti alcuni
giovani lucani (famosi tra i propri concittadini più di quanto non
fossero onesti): questi, dopo essersi colpiti a vicenda con dei bastoni, si
presentarono nudi in pubblico gridando di essere stati fustigati per
ordine dei consoli e di aver rischiato l'esecuzione solo per aver
osato entrare nell'accampamento romano. Siccome quello spettacolo,
effettivamente raccapricciante, dava l'impressione di essere più un
atto di violenza che un inganno, la folla eccitata costrinse i magistrati a
convocare il senato. Alcuni chiedevano a gran voce la guerra contro i Romani,
altri invece si sparpagliarono da una parte e dall'altra per spingere le
masse rurali a prendere le armi; e dato che quel clima di agitazione aveva
fatto perdere la testa anche ai più assennati, fu votato di rinnovare
l'alleanza con i Sanniti, inviando ambasciatori per mettere in atto la
deliberazione. Ma siccome l'iniziativa non aveva ragioni plausibili e non dava
garanzie, i Tarentini, costretti dai Sanniti a consegnare ostaggi e ad
accettare guarnigioni armate all'interno delle loro piazzeforti,
accecati com'erano dal raggiro e dalla rabbia accettarono tutte le condizioni.
Poco dopo, ritiratisi a Taranto gli autori delle false accuse,
l'inganno cominciò a venire alla luce. Ma avendo ormai perso ogni libertà
d'azione, non restava loro altro che pentirsi invano. 28 Quell'anno fu per la plebe romana
quasi l'inizio di una nuova libertà, perché si cessò di imprigionare
la gente per debiti. Il cambiamento fu dovuto alla smodata bramosia e insieme
alla crudeltà di un unico usuraio, Lucio Papirio, cui si era dato in
schiavitù Gaio Publilio a causa di un debito contratto dal padre.
L'età e la bellezza del giovane, qualità che avrebbero potuto suscitare la
misericordia del creditore, lo infiammarono alla libidine e all'oltraggio. E
considerando il fiore della sua giovinezza come un ulteriore compenso
al credito, sulle prime tentò di adescare il ragazzo con proposte
oscene. Poi, dato che il giovane rifiutava di prestare orecchio
all'infame profferta, prese a intimidirlo con minacce e a ricordargli
ripetutamente la sua condizione. Alla fine, quando si rese conto che il ragazzo
dava maggiore importanza alla sua libera origine che allo stato presente,
ordinò di denudarlo e di farlo fustigare. Quando il giovane, straziato
dai colpi, corse fuori tra la gente lamentandosi a gran voce della
libidine e della crudeltà del creditore, si raccolse una massa di
persone che, non solo presa da compassione per la sua giovane
età e indignata per l'affronto riservatogli, ma anche considerando la
condizione propria e dei propri figli, si riversò nel foro e di
lì, in formazione compatta, si diresse verso la curia. E visto che i consoli
furono obbligati dall'improvviso tumulto a convocare il senato, mentre i
senatori entravano nella curia, la gente si inginocchiò davanti a
ciascuno di essi, indicando la schiena martoriata del giovane. Quel giorno,
per la tracotanza offensiva di un solo uomo venne infranto un potente
vincolo, e ai consoli venne dato ordine di presentare di fronte al
popolo la proposta che nessuno potesse più essere tenuto in ceppi o
incarcerato, fatta eccezione per quanti avessero commesso qualche delitto, fino
alla completa espiazione della pena; e che i beni soltanto, e non la
persona del debitore, potessero essere presi come garanzia della somma
dovuta. Così i prigionieri per debiti vennero liberati e per i giorni
a venire furono vietate le carcerazioni per debiti. 29 Quello stesso anno, mentre la guerra
coi Sanniti e l'improvvisa defezione dei Lucani insieme con i loro
sobillatori, i Tarentini, erano già motivi di sufficiente
preoccupazione per i senatori, si aggiunse l'accordo del popolo dei Vestini con i
Sanniti. Questa iniziativa fu quell'anno argomento più dei
discorsi della gente che delle pubbliche assemblee. E così i consoli dell'anno
successivo, Lucio Furio Camillo (per la seconda volta) e Giunio Bruto Sceva,
ritennero che la questione fosse più importante e urgente di
qualunque altra e la misero all'ordine del giorno di fronte al senato. E sebbene
il fatto non fosse una novità, tuttavia ingenerò nei senatori
uno stato di ansia tale che essi avevano paura sia di occuparsene sia di
trascurarlo: lasciando infatti impuniti i Vestini, si sarebbe corso il rischio
che i popoli dei dintorni si sollevassero con arroganza; con una
guerra punitiva, invece, il rischio era che la paura di un pericolo
imminente e il risentimento li spingessero ad agire. E in più, quella gente
aveva nel complesso forze pari a quelle dei Sanniti, comprendendo Marsi,
Peligni e Marrucini: se si fossero toccati i Vestini, erano da considerare
tutti nemici. Ebbe tuttavia la meglio l'opinione che al momento poteva
dar l'impressione di essere più audace che assennata. Ma gli sviluppi
dimostrarono che la fortuna sta dalla parte dei coraggiosi. Il popolo,
autorizzato dal senato, votò la dichiarazione di guerra ai Vestini.
Questa campagna toccò in sorte a Bruto, mentre a Camillo andò
quella contro i Sanniti. Gli eserciti vennero condotti sull'uno e l'altro fronte e i
nemici, dovendo proteggere i propri confini, vennero messi
nell'impossibilità di unire le forze. Ma uno dei consoli, Lucio Furio, sulle cui spalle
gravava il peso maggiore, venne disgraziatamente colpito da una grave
malattia e fu costretto ad abbandonare il comando. Avendo ricevuto
disposizione di nominare un dittatore per proseguire la guerra,
egli scelse il militare di gran lunga più rinomato del periodo,
cioè Lucio Papirio, il quale nominò maestro di cavalleria Quinto Fabio Massimo
Rulliano: coppia famosa per quanto avevano compiuto insieme in quel campo, essi
divennero ancora più famosi per la discordia che li spinse a un contrasto
quasi all'ultimo sangue. L'altro console condusse nella terra
dei Vestini una guerra dai diversi aspetti, ma dall'esito sempre
favorevole. Devastò infatti le campagne dei nemici e, saccheggiandone e
incendiandone case e raccolti, li costrinse a combattere in campo aperto contro la
loro volontà. Così, in una sola battaglia, pur subendo anch'egli
perdite rovinose, costrinse le forze dei Vestini in una situazione tale che non
solo essi si rifugiarono nell'accampamento, ma, non ritenendosi
più al sicuro dietro il parapetto e le trincee, si riversarono all'interno
delle loro città fortificate, sperando di trovare riparo nella
posizione naturale e nelle mura. Ma alla fine, deciso a espugnare anche le
città con il ricorso alla forza, il console, in virtù dello
straordinario coraggio dei suoi uomini, determinati a vendicarsi delle ferite
subite (quasi nessuno era uscito illeso dalla battaglia), espugnò
prima Cutina con l'uso di scale e poi Cingilia. Il bottino fatto in entrambe
le città fu concesso ai soldati, che né le porte né le mura nemiche
erano riuscite a fermare. 30 La spedizione nel Sannio fu
accompagnata da auspici incerti: la loro irregolarità non influì
sull'esito finale della guerra (che fu condotta in maniera positiva), ma
sull'animosità e sulla follia dei comandanti in capo. Il dittatore Papirio, infatti,
messo in guardia dal custode dei polli sacri mentre stava partendo alla
volta di Roma per rinnovare gli auspici, intimò al maestro di
cavalleria di mantenersi sulle proprie posizioni e di non scontrarsi col
nemico durante la sua assenza. Ma Quinto Fabio, quando - dopo la partenza del dittatore
- venne a sapere dai suoi ricognitori che il nemico aveva
completamente trascurato ogni tipo di vigilanza, come se non ci fosse stato
nemmeno un Romano nel Sannio, sia perché, essendo un giovane impetuoso,
era indignato all'idea che tutto il potere apparisse riposto nel dittatore,
sia perché tentato dall'opportunità di assestare un
colpo vincente, dopo aver fatto preparare l'esercito e averlo schierato in
assetto di battaglia, partì alla volta di una località chiamata Imbrinio,
dove si scontrò con i Sanniti. Quella battaglia ebbe un esito così
favorevole che le cose non sarebbero potute in nessun modo andar meglio, anche se
il dittatore fosse stato presente. Il comandante fu all'altezza dei
soldati e i soldati del comandante. Anche i cavalieri, su suggerimento del
tribuno dei soldati Lucio Cominio, dopo aver caricato alcune volte senza
riuscire a fare breccia tra le schiere nemiche, tolsero le briglie ai cavalli
e, piantando gli speroni, li slanciarono contro il nemico con un
impeto tale che nessuna forza riuscì a contenerli, e abbatterono armi e uomini
in lungo e in largo. La fanteria seguì la carica dei cavalieri e
attaccò i nemici già sbandati. Si tramanda che quel giorno vennero uccisi
ventimila nemici. Presso alcuni autori ho trovato che, durante l'assenza del
dittatore, Quinto Fabio combatté due volte con il nemico, e che in entrambi
i casi ottenne brillanti vittorie. Gli storici più antichi
riportano invece quest'unica battaglia, mentre in taluni annali manca qualsiasi cenno in
proposito. Il maestro di cavalleria,
impossessatosi di moltissime spoglie dopo una strage di quelle proporzioni, fece un
enorme mucchio delle armi nemiche e dopo avervi dato fuoco le ridusse in
cenere: lo fece o per adempiere a un voto fatto a un qualche dio, o - se si
vuol credere alla versione di Fabio - per evitare che il dittatore si
appropriasse del frutto della sua gloria, iscrivendo il proprio nome
sulle armi spogliate e portandole con sé in trionfo. Inoltre il resoconto
della vittoria inviato da Fabio al senato e non al dittatore
dimostrò che egli non voleva affatto dividere la propria gloria con il dittatore. In
ogni caso, mentre gli altri salutavano con entusiasmo la vittoria, il
dittatore accolse la notizia mostrandosi triste e risentito. E così, dopo
aver frettolosamente congedato il senato, uscì di corsa dalla curia,
continuando a dire che in quella battaglia, più delle legioni sannite, sarebbero state
sconfitte dal maestro di cavalleria l'autorità del dittatore e la
disciplina militare, se fosse rimasto impunito il suo disprezzo verso gli
ordini ricevuti. E così, schiumando rabbia e minacce, partì alla
volta dell'accampamento. Tuttavia, pur avendo coperto la distanza il più
veloce possibile, non riuscì a evitare che la notizia del suo arrivo lo precedesse.
Infatti erano in precedenza partiti da Roma dei corrieri per avvertire che
stava arrivando il dittatore assetato di vendetta e con in bocca
quasi a ogni parola un elogio per il comportamento di Tito Manlio. 31 Convocata immediatamente l'adunata,
Fabio implorò i soldati di difenderlo - sotto i suoi auspici,
sotto il suo comando essi avevano conquistato la vittoria - dalla
crudeltà implacabile del dittatore con quello stesso coraggio con il quale
avevano difeso lo Stato dai peggiori nemici. Il dittatore arrivava pazzo di
invidia ed esasperato per l'eroismo e il successo di un altro. Era furente
per il fatto che la repubblica avesse conquistato una vittoria
memorabile in sua assenza. Se avesse potuto intervenire sulla sorte, avrebbe
preferito che la vittoria fosse andata ai Sanniti piuttosto che ai
Romani. Continuava a ripetere che la sua autorità era stata
calpestata, come se non avesse vietato di combattere con quella stessa
disposizione d'animo con la quale si rammaricava che si fosse combattuto:
allora aveva voluto soffocare per invidia il valore altrui, e avrebbe
strappato le armi ai soldati più impazienti di combattere, perché non si
potessero muovere durante la sua assenza; adesso era furibondo e non
riusciva a tollerare che anche senza Lucio Papirio agli uomini non fossero
mancate né le armi né le capacità, e che Quinto Fabio si fosse comportato da
maestro di cavalleria e non da appendice del dittatore. Che cosa
avrebbe fatto se i casi della guerra e le sorti comuni della battaglia
avessero dato un esito sfavorevole, lui che minacciava di punire il maestro di
cavalleria uscito vincitore, non ostante questi avesse sbaragliato i
nemici e condotto le operazioni in maniera che mai avrebbero potuto avere
esito migliore, nemmeno se guidate da quel-l'unico condottiero? Quell'uomo
odiava il maestro di cavalleria non meno di quanto odiasse i tribuni
militari, i centurioni e i soldati. Se avesse potuto, si sarebbe scatenato
contro tutti: dato che non poteva farlo, si scatenava contro un unico
soggetto. La verità è che l'invidia, come il fuoco, tende verso l'alto: si
avventava contro il responsabile dell'iniziativa, contro il comandante.
Se assieme a Fabio fosse riuscito ad annientare anche la gloria della sua
vittoria, allora, come un vincitore nei confronti di un esercito
fatto prigioniero, avrebbe osato contro i soldati qualsiasi atto di
crudeltà gli fosse stato concesso infliggere al maestro di cavalleria.
Che dunque difendessero la sua causa per difendere la libertà di
tutti. Se il dittatore avesse visto che nel difendere la vittoria gli uomini
mostravano lo stesso spirito di coesione messo in mostra in battaglia, e che a
tutti stava a cuore la salvezza di uno solo di essi, si sarebbe rivolto a
più miti consigli. In conclusione Fabio affidava la propria vita e la propria
sorte alla loro lealtà e al loro coraggio. 32 Dall'intera assemblea si levò
allora un urlo: che stesse di buon animo, perché nessuno lo avrebbe toccato
finché le legioni romane rimanevano in vita. Poco dopo arrivò il dittatore e
sùbito fece convocare l'assemblea con uno squillo di tromba. Fu allora che un
araldo, una volta fatto silenzio, chiamò il maestro di cavalleria
Quinto Fabio. Non appena questi si fu avvicinato alla tribuna, il dittatore
gridò: «Chiedo a te, Quinto Fabio, in considerazione del fatto che
l'autorità del dittatore è assoluta e ad essa ottemperano i consoli, dotati di
poteri pari a quelli dei re, e i pretori che vengono eletti sotto gli
stessi auspici dei consoli, chiedo a te se tu ritenga giusto o meno che il
maestro di cavalleria obbedisca agli ordini del dittatore. E poi ti domando
questo: dato che io sapevo di esser partito dalla patria con auspici
incerti, avrei dovuto esporre il paese a un rischio gravissimo in un momento di
cattivi rapporti con gli dèi, oppure avrei dovuto evitare di
rinnovare gli auspici, onde evitare di prendere iniziative quando la
volontà degli dèi era in dubbio? Ugualmente ti chiedo: se un qualche scrupolo
religioso impediva al dittatore di concludere la campagna, il maestro di
cavalleria poteva forse considerarsi libero e sciolto da esso? Ma perché ti
faccio queste domande? Se anche io fossi partito senza lasciare ordini,
tuttavia tu avresti dovuto rivolgere i tuoi pensieri a interpretare la mia
volontà! Rispondimi, ora: non ti ho vietato di prendere qualunque
iniziativa durante la mia assenza? Non ti ho vietato di scontrarti coi nemici? Ma tu
questi ordini li hai disprezzati: e non ostante gli auspici fossero
incerti e la volontà degli dèi in dubbio, tu, contro ogni norma militare,
contro la disciplina dei nostri padri e contro il volere delle
divinità, hai osato scontrarti col nemico. Rispondi alle domande che ti sono state
rivolte. Ma guàrdati dal fare parola d'altro. Vieni avanti, littore». Dato che ribattere alle accuse una per
una non era cosa semplice, Fabio ora si lamentava del fatto che ad
accusarlo e a giudicarlo in una questione di vita e di morte fosse la
stessa persona, ora gridava che gli avrebbero potuto portar via più
facilmente la vita che non la gloria conquistata, ora difendeva se stesso e
passava a sua volta ad accusare il dittatore, fino a quando Papirio, in un
nuovo attacco di ira, ordinò di denudare il maestro di cavalleria e di
preparare verghe e scuri. Fabio, implorando la protezione dei soldati,
mentre i littori gli strappavano le vesti, andò a rifugiarsi in
mezzo ai triarii che avevano incominciato a rumoreggiare [in fondo all'assemblea]. L'urlo da lì si diffuse per
tutta l'assemblea: da una parte si udivano suppliche, dall'altra minacce. Quelli
che per caso si trovavano vicino alla tribuna, potendo essere
riconosciuti dal dittatore perché sotto i suoi occhi, lo supplicavano di
risparmiare il maestro di cavalleria e di non condannare l'esercito insieme con
lui. Quelli che invece sedevano ai margini dell'assemblea e la massa di
soldati intorno a Fabio urlavano contro la crudeltà del dittatore
ed erano prossimi alla sommossa. Ma neppure sulla tribuna vi era calma: i
luogotenenti, stando intorno alla sedia del dittatore, lo pregavano di
rimandare la cosa al giorno successivo, in modo che la sua rabbia
si placasse e il tempo gli portasse consiglio. Aveva già colpito
quanto bastava la giovane età di Fabio, screditandone a sufficienza la
vittoria. Non arrivasse al verdetto più crudele, non infliggesse
quell'umiliazione a un giovane che non aveva eguali, a suo padre, personalità
tra le più in vista, alla famiglia Fabia! Quando si resero conto che a poco
valevano le preghiere e le argomentazioni a difesa, i soldati
invitarono il dittatore a osservare l'assemblea in fermento: visto che gli
animi erano così surriscaldati, non si addiceva né alla sua età né
alla sua esperienza alimentare il fuoco della rivolta. Se, accecato dall'ira,
avesse scatenato contro di sé la massa in una folle lotta, nessuno ne
avrebbe fatto carico a Quinto Fabio - che cercava di scampare alla punizione
-, ma al dittatore. E infine, perché non pensasse che quei consigli
miravano solo ad aiutare Quinto Fabio, si dichiararono pronti a giurare
che era contrario al supremo interesse dello Stato punire Quinto
Fabio in quel frangente. 33 Ma con queste parole i luogotenenti
riuscirono a incrementare l'insofferenza del dittatore nei loro
stessi confronti, invece di placarne il risentimento verso il maestro di
cavalleria, e ricevettero l'ordine di scendere dalla tribuna. Dopo aver
invano cercato di ottenere il silenzio tramite l'araldo, poiché in quel
vociare confuso non era possibile udire né la voce del dittatore né quella dei
suoi attendenti, la notte - come accade nelle battaglie - pose fine allo
scontro. Al maestro di cavalleria venne ingiunto
di presentarsi il giorno seguente. Ma siccome tutti sostenevano che
Papirio sarebbe stato ancora più furibondo, agitato ed esacerbato
com'era per l'opposizione incontrata, Fabio lasciò di nascosto
l'accampamento e fuggì a Roma. Qui, su consiglio del padre (che era già stato tre
volte console e dittatore), convocò immediatamente il senato. E mentre si
stava lamentando con i senatori della violenza e l'affronto subito dal
dittatore, all'improvviso si sentirono fuori della curia le grida
dei littori che si facevano largo in mezzo alla gente e apparve di fronte a
loro Papirio in persona, il quale, non appena saputo che Fabio era fuggito
dall'accampamento, si era gettato all'inseguimento con uno squadrone di
cavalleria armato alla leggera. Ricominciò così la
contesa, e Papirio diede ordine di arrestare Fabio. E dato che, non ostante le suppliche dei
membri più autorevoli del senato e di tutto il senato stesso, il dittatore
persisteva irremovibile nel suo proposito, allora Marco Fabio, padre
del giovane, disse: «Poiché su di te non hanno alcun effetto né
l'autorità del senato né la mia età, che tu vuoi rendere priva di figli, e nemmeno
il coraggio e la nobiltà d'animo del maestro di cavalleria da te stesso
nominato, e tanto meno ne hanno le suppliche, che spesso hanno indotto
alla pietà i nemici e placato l'ira degli dèi, io mi appello ai tribuni
della plebe e al popolo; e a te, che rifiuti il verdetto del tuo esercito e
quello del senato, io propongo quell'unico giudice il cui potere stia
al di sopra della tua dittatura. Vedremo se ti piegherai di fronte a
quel diritto di appello di fronte al quale si piegò Tullo Ostilio,
uno dei re di Roma». Dalla curia si passò
all'assemblea popolare. Il dittatore salì sulla tribuna da solo, mentre il maestro di
cavalleria arrivò accompagnato dal gruppo di tutti i personaggi più
influenti. Papirio ordinò a Fabio di scendere dai Rostri nella zona
sottostante. Il padre lo seguì esclamando: «Hai fatto bene a ordinarci di scendere
in un punto da dove potremo dire la nostra anche in qualità di privati
cittadini». In un primo tempo non si udivano discorsi ordinati, ma uno
scambio di battute accese. Poi però il disordine dell'alterco venne sovrastato
dalla voce indignata del vecchio Fabio che inveiva contro la
crudeltà e l'arroganza di Papirio: era stato dittatore anche lui, e mai nessuno -
neppure un plebeo, un centurione o un soldato semplice - aveva subito abusi.
Ma Papirio cercava di ottenere la vittoria e il trionfo su un comandante
romano, come se si trattasse di un comandante nemico. Com'era grande la
differenza tra la moderazione degli antichi e questa nuova crudele
superbia! Quando il dittatore Quinzio Cincinnato aveva salvato il console
Lucio Minucio dall'assedio nemico, non
gli aveva inflitto altra punizione se non quella di retrocederlo da console a luogotenente del proprio
esercito. Marco Furio Camillo, quando Lucio Furio, disprezzando la sua
età avanzata e la sua autorità, aveva combattuto con il peggiore dei
risultati, non soltanto aveva controllato la propria indignazione al momento (al
punto da non inviare al senato e al popolo alcun rapporto sfavorevole al
collega), ma una volta rientrato a Roma, ottenuto il permesso dal senato,
aveva scelto proprio lui, tra tutti i tribuni consolari, come associato al
comando. E poi neppure il popolo, che aveva in mano sua il potere
assoluto, nei confronti di quanti, per temerarietà o per inesperienza,
avevano perso interi eserciti, aveva mai spinto la sua ira al di là di
un'ammenda in denaro: fino a quel giorno non era mai stata richiesta la pena
capitale per un comandante che avesse subito una disfatta militare. Ma ora i
comandanti romani (e questo non era mai stato permesso, nemmeno quando
uscivano sconfitti in guerra) venivano minacciati con le verghe e le scuri,
pur avendo ottenuto la vittoria e meritato giustissimi trionfi. Che cosa
mai sarebbe toccato allora a suo figlio, nel caso in cui avesse perso
l'esercito, se fosse stato travolto, messo in fuga e allontanato
dall'accampamento? Fin dove sarebbero arrivate la rabbia e la violenza del dittatore,
dopo averlo fatto fustigare e mettere a morte? Non sarebbe stata
un'assurdità che, proprio per merito di Quinto Fabio, la cittadinanza
festeggiasse la vittoria con ringraziamenti e suppliche, mentre lui, l'uomo per il
quale i santuari degli dèi erano stati aperti, le are fumavano di sacrifici
ed erano piene di doni e di offerte, fosse denudato e straziato a
colpi di verga di fronte al popolo romano, con gli occhi rivolti al
Campidoglio, alla cittadella e agli dèi, da lui invano invocati in occasione di
due battaglie? Con che animo avrebbe sopportato quello strazio
l'esercito che aveva trionfato sotto il suo comando e i suoi auspici? Che lutto
ci sarebbe stato nell'accampamento romano, e che gioia tra i nemici! Così inveiva e insieme si lamentava,
invocando la protezione degli dèi e degli uomini e abbracciando il figlio
tra le lacrime. 34 Erano dalla sua l'autorità
del senato, il favore del popolo, l'appoggio dei tribuni e il ricordo dell'esercito
lontano. Dall'altra parte venivano invece messi avanti l'invincibile
autorità del popolo romano, la disciplina militare, gli ordini del
dittatore (da sempre rispettati come il volere di un dio), la
severità di Manlio che aveva anteposto il bene pubblico all'amore per il figlio;
così aveva fatto in passato anche Lucio Bruto, fondatore della libertà
romana, nei confronti dei suoi due figli. Ma ora dei padri indulgenti e degli
anziani disposti a non dare peso alla violazione dell'autorità altrui,
come se si trattasse di cosa da poco, perdonavano ai giovani di aver violato
la disciplina militare. Il dittatore avrebbe tuttavia insistito
nel suo proposito, e non avrebbe risparmiato nulla della giusta pena a
un uomo che, contravvenendo al suo ordine, aveva affrontato una battaglia
non ostante gli auspici fossero incerti e la volontà degli
dèi in dubbio. Che l'autorità del più alto potere durasse o meno in eterno non
dipendeva da lui: ma Lucio Papirio non avrebbe fatto nulla per sminuirla. Si
augurava che i tribuni non ricorressero al loro potere - di per sé
inviolato - per violare tramite l'intercessione l'autorità di
Roma, e che il popolo non annientasse i poteri della dittatura proprio mentre a
occupare quella carica era lui. Se lo avesse fatto, i posteri avrebbero
invano accusato non Lucio Papirio, ma i tribuni e lo scellerato verdetto del
popolo, quando, una volta violata la disciplina militare, i soldati
semplici non avrebbero più obbedito ai centurioni, il centurione al tribuno,
il tribuno al luogotenente, il maestro di cavalleria al dittatore; e
nessuno avrebbe più avuto rispetto per gli uomini e riverenza per degli
dèi, nessuno avrebbe più tenuto in alcun conto gli ordini dei comandanti e
gli auspici, i soldati avrebbero vagato senza permesso in zone pacifiche
come in area nemica, dimentichi del giuramento prestato avrebbero
abbandonato il servizio quando e dove lo avessero voluto; le insegne sarebbero
state abbandonate e gli uomini non si sarebbero adunati dopo aver ricevuto
l'ordine di farlo, anzi avrebbero combattuto senza fare distinzioni tra
il giorno e la notte, tra le posizioni favorevoli e quelle
sfavorevoli, tra l'ordine e il divieto del comandante; non avrebbero aspettato il
segnale, né mantenuto la posizione nello schieramento; il servizio
militare, un tempo onorato e rispettato, si sarebbe trasformato in una forma di
brigantaggio avventuroso e casuale. «Di queste colpe, o tribuni della
plebe, assumetevi voi la responsabilità per tutti i giorni a venire, e lasciate
che siano le vostre teste a pagare per l'indisciplina di Quinto Fabio». 35 I tribuni, attoniti e ormai
preoccupati più per se stessi che per l'uomo a favore del quale veniva
richiesta la loro intercessione, vennero liberati dal peso della
responsabilità per il volere unanime del popolo romano che si rivolse al dittatore
implorandolo con suppliche e preghiere di condonare per grazia sua la pena al
maestro di cavalleria. Anche i tribuni, seguendo quell'esempio,
imploravano con insistenza il dittatore di perdonare l'errore dell'uomo e la
giovane età di Quinto Fabio, il quale aveva già pagato abbastanza. Ora
il ragazzo stesso, ora il padre, messa da parte ogni intenzione polemica, si
prostravano alle ginocchia del dittatore cercando di stornarne la
collera. Fu allora che il dittatore, dopo aver ottenuto silenzio, disse:
«Così sia, o Quiriti: hanno avuto la meglio la disciplina militare e
l'autorità della carica, che dopo la giornata di oggi avevano corso il
rischio di non esistere più. Quinto Fabio, che ha combattuto contro gli
ordini del dittatore, non viene assolto dal reato; pur essendo stato
riconosciuto colpevole di tale imputazione, viene graziato in nome del
popolo romano e del potere dei tribuni, i quali sono intervenuti in
suo aiuto con le suppliche e non con l'intercessione prevista dalla legge.
Vivi, Quinto Fabio, più felice per il consenso unanime dimostrato dalla
città nel volerti proteggere che per la vittoria per la quale poco fa
esultavi. Vivi, anche se hai osato commettere un'azione che nemmeno un
padre ti avrebbe perdonato, trovandosi al posto di Papirio. I rapporti con me
torneranno a essere dei migliori quando tu lo vorrai. Quanto al popolo
romano, al quale devi la vita, non puoi fare nulla di meglio che
dimostrare che questo giorno ti ha insegnato chiaramente a sottostare, tanto in pace
quanto in guerra, all'autorità costituita». Poi, dopo aver dichiarato
che lasciava libero il maestro di cavalleria, scese dalla tribuna e il
senato in festa e il popolo ancora più in tripudio li circondarono
e li seguirono, rallegrandosi ora con il maestro di cavalleria, ora con il
dittatore. Sembrò così che il pericolo corso da Fabio non avesse contribuito
meno della miserabile fine del giovane Manlio a consolidare
l'autorità militare. Per caso quell'anno successe che, ogni
qual volta il dittatore si allontanava dall'esercito, i nemici prendevano
iniziative nel Sannio. Ma con l'esempio di Quinto Fabio di fronte
agli occhi, Marco Valerio, il luogotenente preposto all'accampamento,
temeva la collera irrazionale del dittatore più di qualunque
assalto nemico. E così, quando un gruppo di soldati inviati a fare provviste di
frumento caddero in un'imboscata in un punto sfavorevole e furono massacrati,
l'opinione comune fu che il luogotenente li avrebbe potuti
soccorrere se non avesse avuto paura delle severe disposizioni del dittatore.
L'indignazione per questo fatto alienò ancora di più al dittatore le
simpatie dei soldati, i quali erano già in precedenza maldisposti per
l'intransigenza dimostrata nei confronti di Quinto Fabio e per il fatto che Papirio
aveva concesso quella grazia al popolo romano, disdegnando invece le
loro suppliche. 36 Quando il dittatore rientrò
nell'accampamento dopo aver affidato a Lucio Papirio Crasso il comando in
città e aver vietato al maestro di cavalleria Quinto Fabio di prendere
qualunque iniziativa inerente alla sua carica, il suo arrivo non fu troppo
gradito ai concittadini, né spaventò minimamente il nemico. E infatti il
giorno seguente, sia perché non sapevano che il dittatore era
rientrato, sia perchè non attribuivano grossa importanza al fatto che egli
fosse presente o meno, si avvicinarono all'accampamento schierati in ordine di
battaglia. Ma l'importanza attribuita a un solo uomo, Lucio
Papirio, era tanta che, se il favore dei soldati avesse assecondato i piani del
loro comandante, certo quel giorno la guerra coi Sanniti avrebbe potuto
esser portata a compimento: tale fu l'abilità dimostrata da Papirio
nello schierare le truppe, proteggendole con la scelta di un luogo favorevole e
dei rincalzi, e impiegando ogni accorgimento tattico. Ma gli uomini non
si impegnarono, e a bella posta la vittoria fu gettata al vento per
screditare il comandante. Tra i Sanniti ci furono più vittime,
più feriti tra i Romani. L'esperto comandante comprese quale fosse l'ostacolo sulla
via della vittoria: avrebbe dovuto moderare la propria indole e
contemperare il rigore con un po' di umanità. E così, accompagnato dai
luogotenenti, visitò di persona i soldati feriti, e mettendo la testa dentro le tende
domandava a ciascuno come stesse; indicando il nome di ognuno di essi, ne
affidava la cura a luogotenenti, tribuni e prefetti. L'iniziativa era
già di per sé popolare, ma Papirio la condusse in maniera così abile
che, curando i corpi dei suoi uomini, conquistò rapidamente il loro
favore, e niente accelerò la loro guarigione quanto l'entusiasmo con il quale essi
accolsero quell'interessamento. Quando le condizioni della truppa
furono ristabilite, Papirio affrontò il nemico senza alcun dubbio sugli esiti
dello scontro: i Sanniti vennero travolti e messi in fuga in modo così
netto che quello fu il loro ultimo scontro con il dittatore. L'esercito
vincitore si spostò poi nella zona dove c'era qualche speranza di fare
bottino: attraversò il territorio nemico, senza mai trovare resistenza
armata, né allo scoperto né in imboscate. L'operosità dei
soldati era accresciuta dalla promessa del dittatore di lasciare loro l'intero
bottino, e l'idea di un guadagno individuale li spingeva contro il
nemico più del furore patriottico. Scoraggiati da queste disfatte, i
Sanniti chiesero la pace al dittatore, con il quale concordarono di dare a
ogni soldato un'uniforme e la paga di un anno; e avendo da lui ricevuto
l'ordine di presentarsi di fronte al senato, essi risposero che avrebbero
seguito il dittatore, affidando la propria causa unicamente alla sua
lealtà e al suo senso dell'onore. Così l'esercito venne richiamato dal Sannio. 37 Il dittatore entrò a Roma in
trionfo. Avrebbe voluto rinunciare alla carica, ma per ordine del senato, prima
di abdicare, nominò consoli Gaio Sulpicio Longo (eletto per la terza
volta) e Quinto Emilio Cerretano. I Sanniti, in disaccordo sui termini del
trattato, partirono da Roma senza avere concluso la pace, ma ottenendo
una tregua annuale. Neppure quest'ultima essi rispettarono
lealmente: quando appresero che Papirio era uscito di carica si sentirono
incoraggiati a riprendere le armi. Durante il consolato di Gaio Sulpicio e
di Quinto Emilio - alcuni annali riportano Aulio -, alla defezione dei
Sanniti si aggiunse una nuova guerra con gli Apuli. A Sulpicio toccarono i
Sanniti, a Emilio gli Apuli. Alcuni storici scrivono che la guerra non fu
combattuta propriamente contro gli Apuli, bensì in difesa di popoli
loro alleati minacciati dalla violenza e dalle offese dei Sanniti. Ma le
condizioni di questi ultimi, che in quel periodo erano a malapena in grado di
respingere la guerra dal loro territorio, rendono più
verosimile che non siano stati loro ad attaccare gli Apuli, ma che i Romani abbiano
combattuto contemporaneamente l'uno e l'altro popolo. Ciò non ostante
non ci furono scontri degni di essere menzionati. I Romani devastarono il
territorio degli Apuli e dei Sanniti, senza mai incontrare nemici in entrambe
le zone. A Roma un allarme notturno
svegliò all'improvviso la popolazione, spaventandola al punto che Campidoglio,
cittadella, mura e porte si riempirono di armati. E dopo che in
ogni parte della città si corse e si gridò «Alle armi!», alle prime
luci del giorno non si scoprirono né l'autore né la causa di quel panico. Nel corso di quello stesso anno, su proposta
del tribuno della plebe Marco Flavio, i Tuscolani vennero giudicati
di fronte al popolo. Il tribuno propose di punire gli abitanti di
Tuscolo per aver offerto aiuto e consigli a Veliterni e Privernati nella
guerra contro il popolo romano. I cittadini di Tuscolo vennero a Roma con
mogli e figli. Questa massa di persone, vestite da supplici e con
l'aspetto di imputati, fece il giro delle tribù, gettandosi alle
ginocchia di tutti. E così accadde che la compassione suscitata fu più
efficace nell'ottenere la remissione della pena di quanto non lo fossero gli
argomenti usati per scagionare i Tuscolani dalle accuse. Tutte le
tribù, salvo la Pollia, respinsero la proposta. La Pollia votò invece
che gli uomini in età adulta venissero fustigati e passati per le armi, e che
mogli e figli venissero venduti all'asta attenendosi alla legge di
guerra. È noto che fino al tempo dei nostri padri i cittadini di Tuscolo
mantennero vivo il ricordo di una proposta tanto atroce, e che di solito
un candidato della tribù Pollia non riusciva mai a ottenere il voto
favorevole da parte della Papiria. 38 L'anno seguente, durante il
consolato di Quinto Fabio e di Lucio Fulvio, per la minaccia di una guerra
più grave con i Sanniti (che si diceva avessero raccolto una milizia
mercenaria assoldandola tra le popolazioni dei dintorni), il dittatore
Aulo Cornelio Arvina e il maestro di cavalleria Marco Fabio Ambusto con
un'energica leva militare formarono un eccellente esercito che condussero
contro i Sanniti. Si erano accampati in territorio nemico senza quasi
preoccuparsi della loro posizione, come se gli avversari fossero stati a miglia
di distanza, quando all'improvviso arrivarono le legioni dei Sanniti che
avanzarono con tanta sicurezza da arrivare a costruire la trincea nei
pressi dei posti di guardia romani. Ormai stava per calare la notte, e
questo impedì loro di assaltare le difese dei Romani. Ma non nascondevano
affatto l'intenzione di farlo il giorno successivo, alle prime luci
dell'alba. Il dittatore, quando vide che lo scontro era più vicino di
quanto si aspettasse, nel timore che la posizione svantaggiosa nuocesse al
valore dei suoi uomini, lasciò dietro di sé molti fuochi accesi la cui vista
ingannasse il nemico, e in silenzio portò fuori le legioni. Ma la
vicinanza dei due accampamenti gli impedì di passare inosservato. La cavalleria
sannita, gettatasi immediatamente all'inseguimento, tenne sotto pressione
l'esercito in marcia, pur senza arrivare allo scontro, fino a quando
non fu giorno. Nemmeno la fanteria uscì dall'accampamento prima
dell'alba. Alla fine, quando sorse il sole, la cavalleria si spinse ad attaccare i
Romani: agganciandone la retroguardia e incalzandoli in
corrispondenza di passaggi difficili ne rallentò la marcia. Nel
frattempo la fanteria seguì la cavalleria e ormai i Sanniti premevano con tutte le loro
forze. Allora il dittatore, rendendosi conto di non poter avanzare
se non a prezzo di gravi disagi, ordinò di porre l'accampamento
nello stesso punto in cui si era fermato. Ma, circondati com'erano dalla
cavalleria nemica, non fu loro possibile andare in cerca di legname per la
palizzata e iniziare i lavori di fortificazione. E così, quando vide che non gli
era possibile né avanzare né accamparsi, Cornelio schierò l'esercito in
ordine di battaglia, dopo aver spostato i carriaggi dalla linea d'attacco. Si
schierano anche i nemici, con pari forze e determinazione. Ciò che
più di ogni altra cosa ne accresceva l'animosità era questo:
ignorando che i Romani si erano ritirati di fronte non al nemico ma a una posizione
svantaggiosa, pensavano che avessero ripiegato per paura. Questa convinzione
per qualche tempo mantenne in equilibrio la battaglia, benché da anni
ormai i Sanniti non riuscissero a sostenere nemmeno l'urlo di guerra
dell'esercito romano. E, per Ercole, si dice che quel giorno, dall'ora terza
all'ottava, l'esito dello scontro fu così incerto, che l'urlo di
battaglia non venne rinnovato dopo quello che diede inizio al combattimento, che le
insegne non vennero spostate in avanti né ritirate nelle retrovie e che
da una parte e dall'altra non vi furono cedimenti, in alcun punto.
Ciascuno combatteva restando fermo al proprio posto, opponendo gli scudi agli
scudi, senza tirare il fiato e senza fermarsi a guardare indietro. Il
fremito inesausto e l'andamento costante della battaglia facevano
pensare che solo la fine delle energie o il calare della notte avrebbero posto
termine allo scontro. Ormai agli uomini venivano meno le forze, alle
spade la tempra abituale, ai comandanti le idee: quand'ecco che
all'improvviso i cavalieri sanniti, appreso da un loro squadrone spintosi
più avanti che le salmerie romane si trovavano lontane dagli uomini armati e
non erano protette da guarnigioni o da dispositivi di difesa, si
gettarono all'assalto spinti dall'avidità di bottino. Quando un messaggero trafelato
riferì la cosa al dittatore, questi disse: «Lasciate pure che si
appesantiscano con la preda». Arrivarono poi altri messaggeri e altri
ancora, a riferire che i nemici stavano saccheggiando e portando via i
beni dei soldati. Allora, convocato il maestro di cavalleria, gli disse:
«Ma non vedi, o Marco Fabio, che i cavalieri nemici hanno smesso di
combattere? Sono rimasti invischiati alle nostre salmerie. Aggrediscili mentre
sono dispersi, come tutti i soldati occupati a razziare! Ne troverai pochi in
sella, pochi con la spada in pugno. Mentre stanno caricando di
bottino se stessi e i propri cavalli, massacrali, inermi come sono, copri di
sangue il loro bottino. Io mi occuperò delle legioni e delle
manovre dei fanti: sia tuo l'onore della battaglia equestre!». 39 La cavalleria, schierata come meglio
non sarebbe stato possibile, assalì i nemici dispersi e
appesantiti, seminando strage ovunque. Furono massacrati perché, avendo tra i piedi i
bagagli che avevano abbandonato in fretta e furia e che impedivano i
movimenti ai cavalli terrorizzati nel pieno della rotta, non poterono né
combattere né fuggire. Marco Fabio poi, distrutta o quasi la cavalleria nemica,
compì una breve manovra di accerchiamento e prese alle spalle la
fanteria. Le nuove grida che si udirono da quella parte seminarono il
panico tra i Sanniti, e il dittatore, quando vide gli uomini delle
prime file nemiche voltarsi indietro, le loro insegne confondersi e
lo schieramento ondeggiare, allora incitò i soldati, e chiamando
per nome tribuni e comandanti di compagnia li esortava a sferrare un nuovo attacco
insieme con lui. Levato un nuovo urlo di guerra, si gettarono
all'assalto, e col procedere della manovra vedevano i Sanniti sempre più in
preda alla confusione. I primi erano già in vista dei cavalieri romani, e
Cornelio, voltandosi indietro verso i manipoli di fanti, faceva capire come
poteva, a gesti e a parole, che già scorgeva vessilli e scudi dei
cavalieri. Non appena udirono e insieme videro la cosa, gli uomini
dimenticarono di colpo le fatiche sostenute per quasi tutto il giorno e le ferite
subite, e si lanciarono contro il nemico, come se arrivati freschi
dall'accampamento avessero ricevuto in quel momento il segnale di battaglia. E
i Sanniti non riuscirono a resistere più a lungo alla furia
dei cavalieri e all'urto dei fanti: parte di essi presa in mezzo venne uccisa,
parte invece fu dispersa e messa in fuga. I fanti circondarono e finirono
quelli che resistevano. I cavalieri fecero strage dei fuggitivi, tra i
quali cadde anche il comandante. Questa battaglia fiaccò il
morale dei Sanniti: in tutte le riunioni mormoravano ormai che non c'era da
stupirsi se non riuscivano a conseguire risultati in una guerra scellerata che
era stata scatenata violando un trattato, e nella quale gli dèi
erano, a ragione, più ostili degli uomini. La colpa del conflitto andava espiata e
la purificazione sarebbe costata a caro prezzo. La sola incertezza era se
si dovesse pagare con il sangue dei pochi colpevoli o con quello dei molti
innocenti, mentre c'era già chi si spingeva a fare i nomi dei responsabili
delle ostilità. Se ne distingueva uno in particolare: erano tutti
d'accordo nel denunciare Papio Brutulo, un potente nobile che aveva senza dubbio
infranto la tregua più recente. Costretti a giudicare il suo caso, i
pretori decisero che Papio Brutulo venisse consegnato ai Romani e che con
lui fossero inviati a Roma l'intero bottino e i prigionieri, e che tutto
ciò di cui i feziali avevano chiesto soddisfazione in base al trattato fosse
restituito secondo la legge divina e umana. Dopo questa deliberazione, i
feziali partirono per Roma portando con sé il corpo esanime di Brutulo, il
quale si era sottratto con il suicidio alla pena e all'umiliazione.
Insieme col corpo venne deciso di consegnarne anche i beni. Ma di tutte
queste cose i Romani accettarono solo i prigionieri e gli oggetti che
furono riconosciuti come propri; il resto fu respinto. Il dittatore ottenne
il trionfo per decreto del senato. 40 Alcuni autori riportano che questa
guerra venne combattuta dai consoli, e che furono loro a trionfare sui
Sanniti. Stando a loro, Fabio sarebbe penetrato in Apulia e di lì
avrebbe portato via grande bottino. Il fatto che quell'anno Aulo Cornelio fosse
dittatore non è in questione. Il dubbio è se fosse stato eletto per
occuparsi della campagna, oppure perché ci fosse un magistrato a dare il segnale
alle quadrighe nei Giochi Romani - il pretore Lucio Plauzio era allora
gravemente ammalato -, e avesse quindi rinunciato alla carica di dittatore
dopo aver compiuto la funzione non proprio memorabile per la quale era
stato eletto. Non è facile scegliere tra le varie versioni e i diversi
autori. Ho l'impressione che i fatti siano stati alterati dagli elogi
funebri o da false iscrizioni collocate sotto i busti, dato che ogni famiglia
cerca di attribuirsi il merito di gesta gloriose con menzogne che
traggono in inganno. Da quella pratica discendono sicuramente sia le
confusioni nelle gesta dei singoli individui, sia quelle relative alle
documentazioni pubbliche; per quegli anni non disponiamo di autori
contemporanei agli eventi, sui quali ci si possa quindi basare con certezza. Libri 9-10: Il trionfo sui
Sanniti LIBRO IX 1 Nel corso dell'anno successivo ci fu
la pace di Caudio, rimasta celebre per la disfatta subita dai Romani,
durante il consolato di Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio. Quell'anno
il comandante in capo dei Sabini era Gaio Ponzio figlio di Erennio, figlio
di un padre che eccelleva in saggezza, e lui stesso guerriero e
stratega di prim'ordine. Quando gli ambasciatori inviati a chiedere
soddisfazione rientrarono senza aver concluso la pace, Gaio Ponzio disse:
«Non crediate che questa ambasceria non abbia avuto esito alcuno, perché
con essa abbiamo espiato l'ira degli dèi sorta nei nostri confronti
per aver violato i patti. Qualunque sia stato il dio che ha voluto farci
sottostare all'obbligo di restituire ciò che ci era stato richiesto in base alle
clausole del trattato, sono sicuro che questo stesso dio non ha gradito
che i Romani abbiano respinto con tanta arroganza la nostra riparazione
per l'avvenuta rottura dei patti. Ma che cos'altro si sarebbe potuto fare
per placare gli dèi e rabbonire gli uomini, più di quello che
già abbiamo fatto? Quel che è stato tolto ai nemici come bottino, e che secondo le
leggi di guerra avrebbe già potuto dirsi a buon diritto nostro, l'abbiamo
restituito. I responsabili della guerra li abbiamo riconsegnati morti,
visto che non ci è stato possibile consegnarli vivi. Le loro cose, per
evitare che ci rimanesse addosso qualcosa che potesse far ricadere la
colpa su di noi, le abbiamo portate a Roma. Cos'altro devo a voi, o Romani,
cosa ai trattati, e agli dèi testimoni dei trattati? Chi vi devo
proporre a giudice della vostra rabbia e della nostra pena? Non voglio
sottrarmi al giudizio di nessuna popolazione e di nessun privato
cittadino. Se infatti il più forte non concede al più debole alcun
diritto umano, allora mi rivolgerò agli dèi che si vendicano degli eccessi di
superbia, e li implorerò di rivolgere le loro ire contro quanti non hanno ritenuto
sufficiente la restituzione delle proprie cose né l'aggiunta delle
altrui, contro quanti la cui ferocia non è stata saziata
dalla morte dei colpevoli, né dalla consegna dei cadaveri né dai beni che
accompagnavano la resa dei loro legittimi proprietari, contro quanti non potranno
mai essere placati se noi non offriremo loro il nostro sangue da
succhiare e le nostre membra da sbranare. La guerra, o Sanniti,
è giusta per coloro ai quali risulta necessaria, e il ricorso alle armi
è sacrosanto per quelli cui non restano altre speranze se non nelle armi. Di
conseguenza, se nelle imprese degli uomini è una cosa di assoluta
importanza avere gli dèi dalla propria parte piuttosto che contro, state pur certi
che le guerre del passato le abbiamo condotte più contro gli
dèi che contro gli uomini, mentre questa che è ormai alle porte la condurremo agli
ordini degli dèi in persona». 2 Dopo aver rivolto ai Sanniti queste profetiche
parole non meno vere che di buon augurio, si mise alla testa
dell'esercito andando ad accamparsi nei pressi di Caudio con la maggior
segretezza possibile. Di lì inviò dieci soldati travestiti da pastori a
Calazia, dove gli era giunta voce si trovassero già il console e
l'accampamento romani, e ordinò loro di pascolare il bestiame vicino alle
guarnigioni armate dei Romani, a distanza l'uno dall'altro. Nel caso si
fossero poi imbattuti in predatori nemici, avrebbero dovuto riferire tutti
la stessa storia, e cioè che gli eserciti sanniti si trovavano in
Apulia, che erano impegnati ad assediare Luceria con tutte le forze e ormai
stavano per prenderla d'assalto. Questo tipo di voci, messe in circolo a bella
posta in precedenza, era già arrivato alle orecchie dei Romani, e la
loro attendibilità venne incrementata dalle deposizioni dei
prigionieri, che, e ciò ebbe un peso determinante, collimavano tutte tra di
loro. Non c'era dubbio che i Romani erano chiamati a portare aiuto agli
abitanti di Luceria, alleati valorosi e fedeli, anche per evitare che
l'Apulia defezionasse in blocco di fronte alla minaccia incombente dei Sanniti.
Si discusse soltanto sul percorso da compiere. Le strade che portavano a Luceria erano
due: una lungo la costa adriatica, aperta e sgombra, ma tanto più
lunga quanto più sicura, l'altra attraverso le Forche Caudine, più rapida.
Si tratta però di un luogo con questo tipo di conformazione: due gole profonde,
strette e coperte di boschi, collegate da una catena ininterrotta di
montagne. In mezzo a queste montagne si apre una pianura abbastanza
ampia, ricca di acque e di pascoli, e tagliata da una strada. Ora,
per accedervi è necessario attraversare la prima gola, mentre per
uscire si deve o tornare sui propri passi per la strada fatta all'andata,
oppure - qualora si voglia procedere - attraversare una gola ancora
più stretta e impervia della prima. L'esercito romano, dopo aver raggiunto
quella pianura attraverso uno dei passaggi incassati nella roccia, stava
marciando verso la seconda gola, quando la trovò ostruita da una
barriera di tronchi abbattuti e di grossi massi. Era chiaro che si trattava di un
agguato nemico: infatti avvistarono sulla cima della gola un
manipolo di armati. Cercarono quindi, senza perdere un attimo, di ritornare
indietro per il passaggio attraverso il quale erano arrivati, ma trovarono
sbarrato anche questo da ostacoli naturali e da uomini armati. Allora,
senza che nessuno lo avesse loro ordinato, si bloccarono, attoniti, le
membra incapaci di muoversi. E guardandosi in faccia l'un l'altro,
ciascuno nella speranza che il compagno avesse maggiore
lucidità e potesse prendere una qualche decisione, rimasero a lungo in
silenzio. Poi, quando videro che si stavano piantando le tende dei consoli, e che qualcuno
cominciava a preparare il materiale per allestire l'accampamento,
pur rendendosi conto che costruire fortificazioni in una situazione
pressoché irreparabile e disperata avrebbe suscitato il riso del nemico,
ciò non ostante, per non aggiungere la propria responsabilità alla
disgrazia, tutti - senza che nessuno li esortasse a farlo o lo ordinasse loro -
si misero di propria iniziativa a costruire dei dispositivi di difesa,
scavando una trincea intorno al campo nei pressi dell'acqua di un ruscello: e
ironizzavano amaramente, quasi non bastassero le insolenti frecciate dei
nemici, sull'inutilità delle opere allestite e della fatica sostenuta.
Attorno ai consoli tristi, che non convocavano nemmeno il consiglio di
guerra (visto che non c'era consiglio o aiuto che potessero valere), si
vennero a raccogliere di loro spontanea volontà i luogotenenti e i
tribuni, mentre i soldati, girandosi verso il pretorio, chiedevano agli ufficiali
quel sostegno che a malapena gli dèi avrebbero potuto offrire. 3 La notte li sorprese mentre
più che consultarsi si stavano lamentando del proprio destino, e ognuno di essi
reagiva secondo il proprio carattere. Uno diceva: «Avanziamo
attraverso le barriere lungo la strada, su per le pendici dei monti, attraverso
i boschi, dovunque potremo portare le armi: così che almeno si
riesca ad arrivare fino al nemico, sul quale da quasi trent'anni abbiamo la meglio.
Tutto sarà facile e agevole per dei soldati romani che combattono contro
perfidi Sanniti». Un altro ribatteva: «Dove e per dove dovremmo andare? Non
vogliamo per caso spostare i monti dalle loro sedi naturali? Finché avremo
queste cime sopra la testa, per quale via si potrà raggiungere
il nemico? Armati o inermi, coraggiosi o vigliacchi, siamo tutti ugualmente
prigionieri e vinti; il nemico non ci offrirà nemmeno una spada perché
possiamo morire in maniera gloriosa: vincerà la guerra senza muovere
un dito». La notte trascorse tra battute di questo genere: nessuno pensò
a riposare o a mangiare. Ma nemmeno i Sanniti, pur trovandosi in
una congiuntura tanto favorevole, sapevano che cosa convenisse fare. E
per questo decisero all'unanimità di inviare un messaggio a Erennio Ponzio,
padre del comandante in capo, per averne un consiglio. Quest'ultimo,
avanti negli anni com'era, si era già ritirato non solo dall'attività
militare, ma anche dalla vita politica. Ciò non ostante, nel suo corpo
malato era ancora vivo il vigore dell'animo e dell'intelletto. Quando venne a
sapere che gli eserciti romani erano stati schiacciati alle Forche Caudine
tra due gole, essendogli stato chiesto un consiglio dal messaggero
inviato dal figlio, propose di lasciarli andare al più presto
tutti senza colpirli. Ma siccome questo consiglio non venne messo in pratica,
inviato una seconda volta lo stesso messaggero col cómpito di consultarlo,
egli propose di ucciderli tutti dal primo all'ultimo. Le risposte
contrastavano tanto da sembrare il responso di un oracolo ambiguo: e il figlio -
pur pensando che ormai anche la mente del padre avesse perso lucidità
nel corpo malato -, ciò non ostante si lasciò convincere dalle
insistenze di tutto l'esercito a convocare il genitore di persona nell'assemblea.
Stando a quanto si racconta, il vecchio non avrebbe fatto
difficoltà a lasciarsi portare su un carro all'accampamento, e una volta
introdotto nell'assemblea si sarebbe espresso all'incirca in questi termini,
senza modificare in nulla il proprio parere, ma limitandosi a
chiarirne i motivi: scegliendo la prima strada, che lui riteneva la più
valida, ci si sarebbe assicurata una pace duratura e l'amicizia con un popolo
potentissimo; optando invece per la seconda, si sarebbe evitata la guerra
per molti anni, perché dopo la perdita di quei due eserciti per i
Romani non sarebbe stato facile raggiungere di nuovo la potenza di un
tempo; una terza via non esisteva. Ma siccome il figlio e gli altri alti
ufficiali insistevano a chiedere che cosa pensasse di una soluzione di
compromesso - permettere cioè ai Romani di andarsene sani e salvi, ma imporre
loro, in quanto vinti, il diritto di guerra -, l'uomo rispose: «Questa
soluzione è tale che non vi acquisterà degli amici né vi libererà dai
nemici. Salvate pure la vita a uomini che avete esasperato con un trattamento
umiliante: la caratteristica del popolo romano è quella di non
sapersi rassegnare alla condizione di vinto. Nei loro cuori sarà sempre vivo
il marchio di infamia del caso presente, e questo non darà loro pace fino a
quando non vi avranno ripagato con pene molte volte più dure». Una volta
respinte entrambe le sue proposte, Erennio venne ricondotto
dall'accampamento in patria. 4 Frattanto, nell'accampamento romano,
falliti parecchi tentativi di fare breccia nell'accerchiamento, e mancando
ormai ogni cosa, nella morsa degli eventi si decise di inviare
ambasciatori a chiedere una pace a parità di condizioni: se non l'avessero ottenuta,
avrebbero sfidato il nemico in battaglia. Alla delegazione Ponzio
replicò che la guerra era ormai stata decisa, e siccome neppure da sconfitti
e da prigionieri erano in grado di ammettere la propria sorte, li avrebbe
fatti passare sotto il giogo privi di armi e con una sola veste per
ciascuno. Il resto delle condizioni sarebbero state eque per vincitori e
vinti: se i Romani abbandonavano il territorio sannita e ritiravano le
colonie fondate, allora Romani e Sanniti in futuro sarebbero vissuti
attenendosi alle loro leggi in base a un patto di alleanza alla pari. Erano
queste le condizioni alle quali egli era pronto a scendere a patti coi
consoli. Se qualcuna di queste clausole non era di loro gradimento, allora
vietava agli ambasciatori di ripresentarsi al suo cospetto. Quando
venne riferito l'esito dell'ambasceria, il lamento levatosi
immediatamente da tutto l'esercito fu così profondo e gli animi
vennero invasi da un tale sconforto, che il dolore non sarebbe stato più
grande se fosse giunta la notizia che tutti erano destinati a morire in quello
stesso luogo. Restarono a lungo in silenzio, e i
consoli non riuscivano ad aprire bocca né per difendere un accordo così
infamante, né per respingere un patto tanto necessario, quando Lucio Lentulo,
che tra gli ambasciatori inviati era allora il più autorevole per
valore e per cariche ricoperte, disse:
«Ricordo, o consoli, di aver spesso sentito mio padre raccontare di
essere stato il solo, nel senato sul
Campidoglio, a sconsigliare di riscattare Roma dai Galli pagandola a peso d'oro,
perché i Romani non erano stati circondati né con una trincea né con un
fossato da quel nemico quanto mai indolente e poco portato ai lavori di
fortificazione, ed erano in grado di tentare una sortita, pur rischiando
moltissimo, ma senza andare incontro a un disastro sicuro. E se, come quelli
erano stati in grado di lanciarsi dal Campidoglio armati contro il
nemico, nel modo spesso utilizzato dagli assediati per tentare una sortita
contro gli assedianti, venisse anche a noi concessa l'opportunità di
combattere (in posizione favorevole o meno), certo non mi mancherebbe lo spirito di
mio padre nel guidarvi. Morire per la patria, lo ammetto, è cosa
gloriosa, e sono pronto a offrire la mia vita per il popolo e per l'esercito
romano o a gettarmi nel mezzo dei nemici. Ma è qui che vedo la
patria, qui tutto quel che resta delle legioni romane, le quali, a meno che
vogliano correre incontro alla morte per difendere se stesse, che cosa
possono salvare con il loro sacrificio? "Le case della città,"
dirà qualcuno, "le mura e la gente rimasta a Roma". Ma, per Ercole, è proprio se
questo esercito verrà annientato che tutto ciò andrà perduto e non
salvato! Chi, infatti, potrà difenderlo? Forse la massa imbelle e senz'armi? «Esattamente
come le difese, per Ercole, dagli assalti dei Galli». Ma potrà
forse invocare l'arrivo da Veio di un esercito con Camillo alla testa? Le
nostre speranze e le nostre risorse le abbiamo tutte qui: se le salviamo,
salviamo la patria, se invece le consegniamo alla morte, abbandoniamo la
patria al suo destino. "La resa è però cosa disonorevole e
infamante". Ma proprio questo è vero amor di patria: salvarla, qualora ve ne sia
bisogno, a prezzo tanto del disonore quanto della morte. Vediamo quindi di
subire questo marchio di infamia, per quanto indelebile esso possa
essere, e pieghiamoci alla fatalità, che neppure gli dèi possono
superare. Andate, o consoli, e riscattate con le armi la città che i vostri
antenati hanno riscattato con l'oro». 5 I consoli, essendo venuti a colloquio
con Ponzio, mentre il vincitore voleva stipulare un trattato di pace,
replicarono che il trattato non poteva essere stipulato senza il
consenso del popolo, senza i feziali e il resto del consueto rituale. Per questo
la pace di Caudio non fu stipulata con regolare trattato - come
abitualmente si crede e come anche scrive Claudio -, ma tramite una garanzia
personale. Infatti che bisogno ci sarebbe stato, per un trattato, di
garanti e di ostaggi, visto che in quel caso l'accordo è stipulato
dall'invocazione che Giove colpisca quel popolo venuto meno alle condizioni sancite,
così come il maiale viene colpito dai feziali? Garanti si fecero i consoli, i
luogotenenti, i questori, i tribuni militari, e ci restano i nomi
di tutti coloro che sottoscrissero l'impegno (mentre rimarrebbero solo i
nomi dei due feziali, nel caso fosse stato stipulato un vero e proprio
trattato). Inoltre, per l'inevitabile rinvio del trattato, fu imposta la
consegna di 600 cavalieri in qualità di ostaggi, destinati a pagare con la
propria vita se i patti venivano violati. Fu poi fissato il termine per
consegnare gli ostaggi e per lasciare libero l'esercito disarmato. Il rientro dei consoli rinnovò
il dolore all'interno del-l'accampamento, e i soldati si trattennero a stento dallo
scagliarsi addosso a quanti, per la loro imprudenza, li avevano
trascinati in quel luogo: per la cui ignavia erano adesso costretti a
uscirne in maniera ancora più infamante di come vi erano entrati; non erano
ricorsi a una guida pratica della zona, né avevano effettuato ricognizioni,
lasciandosi spingere alla cieca dentro una fossa come tante bestie
selvatiche. Si guardavano gli uni con gli altri, osservavano le armi che
presto avrebbero dovuto consegnare, le mani destinate a essere disarmate, i
corpi soggetti alla volontà del nemico: avevano già di fronte
agli occhi il giogo nemico, la derisione, gli sguardi arroganti dei vincitori, il
passaggio senza armi in mezzo a uomini armati e ancora la mesta marcia
dell'esercito disonorato attraverso le città alleate, il ritorno dai
genitori in patria, là dove spesso essi stessi e i loro antenati erano
rientrati in trionfo. Solo loro erano stati sconfitti senza subire ferite, senza
armi, senza combattere; a loro non era stato concesso né di sguainare le
spade né di scontrarsi in battaglia col nemico; a loro era stato infuso
invano il coraggio. Mentre mormoravano queste cose,
arrivò l'ora fatale dell'ignominia, destinata a rendere tutto, alla prova
dei fatti, ancora più doloroso di quanto non avessero immaginato. In un
primo tempo ricevettero disposizione di uscire dalla trincea senza armi, con
addosso un'unica veste. I primi a essere consegnati e incarcerati furono
gli ostaggi. Poi fu ingiunto ai littori di scostarsi dai consoli, cui
fu invece tolta la mantella da generali: spettacolo questo che
suscitò così grande compassione anche tra quanti poco prima si erano scagliati contro
i consoli proponendo di consegnarli al nemico e di farli a
pezzi, che ciascuno dei presenti, dimentico della propria sorte, distolse
lo sguardo da quella profanazione di una simile autorità, come
dalla vista di qualcosa di abominevole. 6 I consoli furono i primi a esser
fatti passare seminudi sotto il giogo; poi, in ordine di grado, tutti gli
ufficiali vennero esposti all'infamia, e alla fine le singole legioni una dopo
l'altra. I nemici stavano intorno con le armi in pugno, lanciando insulti
e dileggiando i Romani. Molti vennero minacciati con le spade, e
alcuni furono anche feriti e uccisi, se l'espressione troppo risentita dei loro
volti a causa di quell'oltraggio offendeva il vincitore. Così furono fatti passare sotto
il giogo, e - cosa questa quasi ancora più penosa - proprio sotto gli occhi dei
nemici. Una volta usciti dalla gola, pur sembrando loro di vedere per la
prima volta la luce come se fossero emersi dagli inferi, ciò non
ostante la luce in sé e per sé fu più dolorosa di ogni tipo di morte, al
vedere una schiera ridotta in quello stato. E così, anche se
avrebbero potuto raggiungere Capua prima di notte, dubitando dell'affidabilità
degli alleati e trattenuti dalla vergogna, lungo la strada che porta alla
città abbandonarono a terra i loro corpi ormai bisognosi di tutto. Quando a
Capua arrivò la notizia del vergognoso episodio, l'arroganza congenita dei
Campani venne meno di fronte alla naturale compassione nei confronti
degli alleati. Inviarono immediatamente ai consoli le insegne della loro
carica; ai soldati offrirono invece armi, cavalli, vestiti e cibo, e al loro
arrivo si fecero loro incontro tutto il senato e il popolo, adempiendo
così a ogni tipo di obbligo formale in materia di ospitalità pubblica e
privata. Ma né l'umanità degli alleati né la benevolenza dei volti poterono
strappare una parola ai Romani, che nemmeno sollevavano gli occhi da terra
per rivolgere uno sguardo agli amici che si sforzavano di consolarli.
A tal punto la vergogna, ancor più dell'amarezza, li spingeva a evitare la
conversazione e la compagnia degli esseri umani. Il giorno dopo alcuni giovani esponenti
della nobiltà vennero inviati col cómpito di scortare fino al confine
della Campania quelli che stavano partendo; al rientro, convocati in
senato, rispondendo alle domande degli anziani, riferirono che i Romani avevano
dato l'impressione di essere ancora più avviliti e mesti,
tanto silenziosamente camminavano, come fossero diventati muti. Il fiero
carattere romano era prostrato, e insieme alle armi aveva perso anche il
coraggio. Nessuno aveva avuto la forza di ricambiare il saluto, di rispondere, di
aprir bocca per lo sgomento, come se portassero ancora al collo il giogo
sotto il quale erano stati fatti passare. La vittoria ottenuta dai Sanniti
non era stata soltanto clamorosa, ma anche duratura nel tempo,
perché avevano privato il nemico non tanto di Roma (come in passato i
Galli), quanto piuttosto della virtù e dell'orgoglio romano, e questo
dimostrava ancor di più il loro valore. 7 Mentre si dicevano e si sentivano
queste cose, e nell'assemblea dei fedeli alleati la potenza romana veniva
quasi pianta come se fosse stata annientata, pare che Aulo Calavio,
figlio di Ovio, uomo famoso per nascita e per gesta compiute, e in quel periodo
reso ancora più rispettabile dall'età, avesse sostenuto che
le cose stavano in tutt'altra maniera: quel silenzio ostinato, gli occhi fissi a
terra, le orecchie sorde a ogni tipo di conforto e l'imbarazzo di dover
guardare la luce erano i segnali di un animo che nell'intimo covava un'enorme
rabbia. Se non conosceva male il carattere dei Romani, di lì a
poco quel silenzio avrebbe suscitato tra i Sanniti grida piene di gemiti e dolore,
e il ricordo della pace di Caudio sarrebbe stato molto più pesante
per i Sanniti che per i Romani. Perché dovunque si fossero scontrati nei
giorni a venire, ognuno di essi avrebbe avuto la grinta di sempre, mentre per i
Sanniti non ci sarebbero state dappertutto le Forche Caudine. La notizia della grave disfatta era
già arrivata anche a Roma. In un primo tempo si era venuti a sapere che erano
stati circondati. Poi, ben più doloroso di quello relativo al pericolo
corso, era arrivato l'annuncio della vergognosa pace. Alla notizia
dell'accerchiamento, erano state avviate le pratiche della leva
militare. Quando però si venne a sapere che era stata stipulata una pace tanto infamante,
venne interrotto l'allestimento di rinforzi. E
sùbito, senza aspettare alcuna decisione ufficiale, il popolo tutto si era
abbandonato a ogni forma di lutto. I negozi intorno al foro vennero chiusi,
sospesi spontaneamente i pubblici affari prima ancora che arrivasse
l'ordine relativo. Vennero deposte le toghe orlate di porpora e gli anelli
d'oro. I cittadini erano quasi più addolorati dello stesso esercito; il
loro risentimento non toccava soltanto i comandanti e i responsabili
e garanti della pace, ma anche gli innocenti soldati: sostenevano che non
li si dovesse accogliere in città né all'interno delle case. Il rancore
venne però piegato dall'arrivo dell'esercito, che suscitò compassione
anche negli animi più esacerbati. Entrati infatti in città a tarda
sera, non come uomini che tornavano sani e salvi in patria contro ogni speranza,
ma con l'aspetto e l'espressione di prigionieri, si rinchiusero nelle
loro case e nessuno di essi volle vedere il foro o la pubblica via, né
l'indomani né i giorni successivi. I consoli, nascosti nelle loro
abitazioni, non compirono alcun gesto pertinente alla carica, tranne quanto
prescritto da un decreto del senato, e cioè la nomina di un dittatore
cui far presiedere le elezioni. La scelta cadde su Quinto Fabio Ambusto, mentre
maestro di cavalleria venne eletto Publio Elio Peto. Ma essendosi
verificata una qualche irregolarità in questa nomina, i due vennero
rimpiazzati dal dittatore Marco Emilio Papo e dal maestro di cavalleria Lucio Valerio
Flacco. Neppure questi, tuttavia, riuscirono a presiedere le elezioni, e
siccome il popolo si dimostrava insofferente nei confronti di tutti i
magistrati di quell'anno, si ebbe un interregno. Interré furono Quinto Fabio
Massimo e Marco Valerio Corvo, il quale proclamò consoli Quinto
Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per la seconda volta, che vennero eletti
all'unanimità dalla cittadinanza perché erano i generali più in
vista del periodo. 8 Essi entrarono in carica lo stesso
giorno in cui erano stati eletti (questa la decisione del senato) e,
dopo aver portato a compimento i decreti ordinari del senato, misero
all'ordine del giorno il dibattito sulla pace di Caudio. Publilio, cui
quel giorno toccava il potere, disse: «Parla, o Spurio Postumio». Questi si
alzò in piedi e, con la stessa espressione con la quale era andato
sotto il giogo, disse: «Non ignoro, o consoli, di esser stato chiamato e
invitato a parlare per primo non in segno di onore ma a titolo di infamia,
e non certo in qualità di senatore, ma come responsabile di una guerra
sventurata e di una pace infamante. Tuttavia, dato che non avete messo
all'ordine del giorno la discussione relativa alla nostra colpevolezza e
neppure alla pena da infliggerci, tralasciando di difendermi (cosa che
non sarebbe troppo difficile di fronte a uomini non certo ignari dei
casi e delle vicissitudini umane), esprimerò in poche parole la mia
opinione sulla questione da voi posta all'ordine del giorno. E sarà la
mia opinione a testimoniare se io abbia voluto salvare me stesso o piuttosto le
vostre legioni, quando mi sono impegnato dando una garanzia tanto
ignominiosa quanto necessaria. Nei confronti di questa il popolo romano
non ha alcun tipo di vincolo, poiché essa è stata offerta senza il
suo consenso, e in virtù di essa ai Sanniti non è dovuto nulla se non le
nostre persone. Consegnateci nudi e legati tramite i feziali: liberiamo
dall'obbligo religioso il popolo, se lo abbiamo vincolato in qualche modo,
affinché non vi sia alcuno scrupolo divino o umano che impedisca di
ricominciare da capo una guerra giusta e sacrosanta. Propongo che nel frattempo
i consoli arruolino un nuovo esercito, lo armino e lo guidino fuori
dalla città, senza entrare però in territorio nemico prima che siano state
messe in pratica tutte le operazioni necessarie per la nostra
consegna. Io invoco e supplico voi, o dèi immortali: se non avete
voluto che i consoli Spurio Postumio e Tito Veturio conducessero con successo la guerra
contro i Sanniti, almeno accontentatevi di averci visti andare
sotto il giogo, di averci visti vincolati da una promessa umiliante,
consegnati nudi e legati al nemico, pronti a ricevere sui nostri corpi
tutta l'ira dei nemici. Fate sì che i nuovi consoli e le legioni romane
combattano la guerra contro i Sanniti nello stesso modo in cui sono state
combattute tutte le guerre precedenti al nostro consolato». Non appena ebbe pronunciato queste
parole, i presenti furono presi, insieme, da una tale ammirazione e
compassione verso quell'uomo, che da una parte stentavano a convincersi che
egli fosse quello stesso Spurio Postumio che aveva firmato una pace
tanto vergognosa, e dall'altra provavano pena al pensiero che una
simile personalità dovesse sopportare il più crudele supplizio da
parte dei nemici risentiti per la rottura della pace. Mentre l'intera assemblea
non aveva che parole di elogio per quell'eroe e ne approvava la proposta,
tentarono per qualche tempo di porre il proprio veto i tribuni della
plebe Lucio Livio e Quinto Melio, i quali sostenevano che la consegna dei
due ex consoli non poteva liberare il popolo dall'obbligo religioso, a meno
che ai Sanniti non venisse restituita ogni cosa nello stato in cui
si trovava a Caudio. Aggiungevano di non meritare alcuna pena per il
fatto di aver salvato l'esercito del popolo romano offrendo le proprie
persone come garanzia alla pace, e infine di non poter essere consegnati
ai nemici né sottoposti a violenza, vista la loro caratteristica di
inviolabilità. 9 Allora Postumio disse: «Intanto
cominciate col restituire noi che non siamo sacri, ciò che potete
fare, senza violare i principi della religione. Poi consegnerete anche
costoro che sono inviolabili, non appena avranno esaurito il loro mandato. Se
però mi ascoltate, prima di restituirli, fateli bastonare qui
nell'assemblea, in modo tale che paghino l'interesse dovuto per il ritardo con
cui viene loro inflitta la pena. Perché la loro tesi - e cioè che
con la nostra consegna il popolo non sarà liberato dai vincoli della religione -
essi la sostengono più per non essere consegnati che per la reale
situazione in atto: chi infatti ha così poca esperienza in materia di diritto
feziale, da non rendersene conto? Io non voglio negare, o senatori, che tanto
le garanzie quanto i trattati sono ritenuti sacri da chi rispetta la
parola come un sacro vincolo religioso. Nego però che senza
l'autorizzazione del popolo sia possibile sancire alcun atto che vincoli il
popolo stesso. Ma se i Sanniti ci avessero costretti a pronunciare la
formula di rito per la consegna della città con la stessa violenza con
la quale ci hanno estorto questa promessa, voi, o tribuni, direste che
il popolo romano si è rimesso nelle mani dei nemici e che questa
città, i templi, i santuari, i campi e le acque sono di proprietà dei
Sanniti? Lasciamo pure da parte la questione della resa, visto che si tratta di una
garanzia personale: ma che dire se avessimo garantito che il popolo romano
avrebbe abbandonato questa città? Che l'avrebbe incendiata? Che non
avrebbe più goduto di magistrati, di un senato e di leggi? Che si sarebbe
piegata a una monarchia? "Che gli dèi tengano lontano da noi cose di quel genere",
direte voi. Eppure non è l'enormità delle condizioni
poste che può eliminare il vincolo della garanzia: se esiste qualcosa cui un
popolo può essere vincolato, allora lo sarà per qualunque cosa. Ma
nemmeno questo argomento - che forse potrebbe toccare la sensibilità di
qualcuno - ha un qualche peso: e cioè che a offrire la garanzia sia stato un
console, un dittatore oppure un pretore. Anche i Sanniti hanno giudicato in
questo modo, visto che non si sono accontentati dell'idea che a fare da
garanti fossero solo i consoli, ma hanno costretto a prestare garanzia
anche i luogotenenti, i questori e i tribuni militari. Che adesso nessuno mi venga a chiedere
perché ho offerto questa garanzia, visto che la cosa non rientrava nelle
competenze del console, né io potevo garantire ai nemici una pace che non
dipendesse dalla mia volontà, e tanto meno a nome vostro, siccome non mi
avevate affidato alcun tipo di incarico. A Caudio nulla è
dipeso dalle decisioni degli uomini: sono stati gli dèi a privare del senno i
vostri generali e quelli del nemico. Se noi non ci siamo cautelati a dovere in
quella guerra, loro invece hanno sperperato in malo modo una vittoria
ottenuta malamente, ora fidandosi poco del luogo grazie al quale avevano
avuto la meglio, ora lasciandosi prendere dalla fretta di disarmare a
qualunque costo degli uomini nati per le armi. Ma se fossero stati assennati,
sarebbe forse stato difficile per loro - mentre convocavano dalla patria
gli anziani per averne un parere - inviare ambasciatori a Roma e trattare
della pace e delle relative condizioni col senato e col popolo? A
inviati veloci sarebbero bastati tre giorni di marcia, mentre nel frattempo
si sarebbe potuta fissare una tregua, nell'attesa che rientrassero da
Roma gli ambasciatori ad annunciare la vittoria sicura o la
pace. Questa sì che sarebbe stata una garanzia, quella che noi avessimo
garantito su mandato del popolo. Ma una pace così né voi l'avreste
accettata, né noi l'avremmo garantita, ed è stato per volere del cielo che le cose
non sono andate diversamente: e cioè che i Sanniti si lasciassero
ingannare da un sogno troppo bello perché le loro menti arrivassero a
rendersene conto, che il nostro esercito venisse salvato da quella
stessa sorte che prima l'aveva avversato, che una vittoria vana fosse
vanificata da una pace ancora più vana, e che venisse offerta una
garanzia che non vincolava nessuno tranne chi se n'era fatto garante. E infatti,
o senatori, cos'è stato trattato con voi, cosa col popolo romano? Chi
può chiamarvi in causa, chi può sostenere di essere stato ingannato da
voi? I nemici o i concittadini? Ai nemici non avete garantito nulla, né
avete ordinato ad alcun cittadino di offrire una garanzia a nome vostro. Per
questo non avete alcun tipo di obbligo né verso di noi, cui non avete
ordinato nulla, né verso i Sanniti, con i quali non avete trattato nulla.
Di fronte ai Sanniti i garanti siamo noi, responsabili e nella posizione di
poter offrire soddisfazione per quel che siamo in grado di offrire,
ovvero i nostri corpi e le nostre menti: è contro di questi che
devono infierire, contro di questi che devono rivolgere le loro spade e la
loro rabbia. Per quel che poi concerne i tribuni, stabilite voi se la loro
consegna si possa effettuare sùbito, o la si debba differire ad altra data.
Nel frattempo noi, o Tito Veturio e voi altri, offriamo queste nostre
povere persone come soddisfazione della garanzia data, e liberiamo le armi
romane con la pena inflittaci». 10 A convincere i senatori furono sia
la validità degli argomenti portati, sia l'autorevolezza della persona in
questione. E non soltanto si persuasero tutti gli altri, ma anche i
tribuni, al punto di dichiararsi disposti ad assecondare
l'autorità del senato. Perciò rinunciarono immediatamente alla carica e vennero
affidati ai feziali insieme agli altri per essere condotti a Caudio. Una
volta presa questa decisione da parte del senato, sembrò che su
Roma risplendesse una nuova luce. Postumio era sulla bocca di tutti: lo
innalzavano al cielo a forza di elogi, mentre il suo gesto veniva paragonato al
sacrificio del console Publio Decio e ad altre imprese di vaglio: la gente
sosteneva che Roma si era sottratta a una pace umiliante grazie al suo acume
e al suo operato. Si offriva spontaneamente alle vessazioni e al
risentimento dei nemici, immolandosi come capro espiatorio per il popolo
romano. Tutti pensavano solo alle armi e alla guerra: non sarebbe quindi mai
arrivata l'occasione di affrontare i Sanniti con le armi in pugno? Nella città infiammata dalla
rabbia e dal risentimento venne arruolato un esercito composto quasi esclusivamente
di volontari. Con gli stessi effettivi di prima vennero messe
insieme nuove legioni, e l'esercito fu condotto nei pressi di Caudio. I
feziali vennero mandati avanti: una volta arrivati alle porte, ordinarono che i
garanti della pace venissero spogliati e che fossero loro legate le
mani dietro la schiena. Dato che un attendente, per il rispetto nei
confronti del prestigio di Postumio, lo legava in maniera troppo fiacca, questi
disse: «Che aspetti a stringere la corda, così che la consegna sia
regolare?». Quando poi giunsero di fronte alla folla dei Sanniti e alla tribuna
di Ponzio, il feziale Aulo Cornelio Arvina pronunciò queste parole:
«Siccome questi uomini hanno garantito la conclusione di un trattato pur non
avendo l'autorizzazione del popolo romano dei Quiriti, e proprio per
questo si sono macchiati di una colpa, di conseguenza, perché il popolo romano
sia libero da una colpa scellerata, io vi consegno questi
uomini». Mentre il feziale pronunciava queste parole, Postumio col ginocchio
gli colpì la gamba il più forte possibile, e ad alta voce gridò
di essere cittadino sannita e di aver offeso quell'ambasciatore feziale
contro il diritto delle genti: per questo i Romani avrebbero avuto un
più giusto motivo per fare guerra. 11 Allora Ponzio disse: «Né io
accetterò questa consegna, né i Sanniti la riterranno valida. Perché tu, Spurio
Postumio, se credi che gli dèi esistano, non consideri nullo l'intero
accordo, oppure non ti attieni ai patti? Al popolo sannita vanno
consegnati quelli che sono stati in suo potere, o al posto loro va riconosciuta
la pace. Ma perché dovrei rivolgermi a te, che ti consegni nelle
mani del vincitore, mantenendo, per quel che è in tuo potere, la
parola data? È al popolo romano che mi appello: se è pentito della
promessa fatta alle Forche Caudine, allora deve riconsegnarci le legioni
all'interno della gola dove sono state accerchiate. Che nessuno abbia
ingannato nessuno: che ogni cosa sia considerata come non avvenuta;
riprendano le armi consegnate a norma dei patti, e si tengano tutto quello che
avevano prima di avviare le consultazioni: e allora decidano pure
per la guerra e per le maniere forti, e allora soltanto ripudino la
garanzia e la pace. Noi la guerra la facciamo attenendoci a quelle
condizioni e attestandoci in quelle posizioni nelle quali ci trovavamo
prima di affrontare l'argomento della pace; il popolo romano non si metta
quindi a criticare la garanzia data dai consoli, e noi evitiamo di
lamentarci della mancanza di lealtà dimostrata dal popolo romano.
Potrà mai mancarvi un pretesto per non attenervi ai patti dopo una sconfitta?
Avete consegnato degli ostaggi a Porsenna, e ve li siete ripresi con
l'inganno. Roma l'avete riscattata dai Galli a peso d'oro, per poi massacrarli
mentre ricevevano l'oro. Con noi avete concordato la pace affinché vi
restituissimo le legioni cadute prigioniere, e adesso quella pace la
ritenete priva di valore. E rivestite sempre l'inganno con un velo di
apparente legalità. Al popolo romano non sta bene che l'esercito si sia salvato
grazie a una pace infamante? Ma che allora si tenga la pace e restituisca
al vincitore le legioni che avevamo catturato: questo sì che sarebbe
in accordo con la lealtà, con i patti e coi riti sacri dei feziali. Ma che tu
ottenga quanto hai chiesto nei patti - ovvero la salvezza di tanti cittadini
-, e che io non abbia invece quella pace che ho concordato in cambio
del rilascio di questi uomini, tutto questo tu, o Aulo Cornelio, e
voi, o feziali, lo ritenete conforme al diritto delle genti? Io non accetto né considero consegnati
questi soldati che voi fingete di consegnare, e non impedisco loro di
rientrare nella città vincolata dall'adempimento della garanzia,
lasciando che ad accompagnarli sia la rabbia degli dèi tutti, della
cui divinità vi fate beffe. Dichiarateci pure guerra, col pretesto che un attimo
fa Spurio Postumio ha percosso col ginocchio un ambasciatore feziale:
così gli dèi penseranno che Postumio sia cittadino sannita e non romano, che
l'ambasciatore romano sia stato offeso da un sannita, e che di
conseguenza sia giusta la guerra che ci avete dichiarato! Possibile che non
proviate vergogna a inscenare questa farsa della religione, che uomini
avanti con gli anni, già consoli, debbano tentare l'inganno con trucchi
degni a malapena di bambini? Littore, procedi: togli le corde ai
Romani, che nessuno impedisca loro di andare dove preferiscono». E
così i Romani, liberati probabilmente anche del vincolo di natura pubblica (visto
che dalla promessa personale lo erano già di certo), rientrarono
da Caudio all'accampamento romano senza che nessuno li sfiorasse. 12 I Sanniti, che al posto di una pace
imposta con arroganza vedevano rinascere una guerra minacciosa,
avevano non solo nell'animo ma quasi di fronte agli occhi il presentimento di
quello che poi accadde. Ed elogiavano tardi e invano entrambi i
suggerimenti dell'anziano Ponzio, perché, caduti com'erano a metà
tra l'uno e l'altro, avevano barattato il possesso della vittoria con una pace
priva di garanzie. Perduta così l'occasione di danneggiare il nemico o
di arrecargli un beneficio, avrebbero dovuto misurarsi con quegli
uomini che sarebbe stato loro possibile eliminare una volta per tutte
come nemici o rendersi amici per sempre. E anche se non c'era ancora
stata una battaglia in cui una delle due parti avesse avuto il sopravvento,
dopo la pace di Caudio la condizione psicologica era così
cambiata, che tra i Romani Postumio si era guadagnato più gloria
dall'essersi consegnato ai nemici, di quanta non ne fosse toccata a Ponzio tra i Sanniti
per la vittoria ottenuta senza spargimento di sangue. Per i Romani era
già una vittoria sicura poter fare la guerra, mentre i Sanniti ritenevano
che la ripresa della guerra fosse per i nemici come aver già avuto
la meglio. Nel frattempo gli abitanti di Satrico
passarono dalla parte dei Sanniti, e la colonia di Fregelle venne occupata
dai Sanniti durante la notte con un'azione a sorpresa (a quanto pare
assieme a loro c'erano anche dei Satricani). Così fu il timore
reciproco a mantenere tranquille entrambe le parti fino all'alba. Il sorgere del
giorno segnò l'inizio dello scontro, sostenuto per parecchio tempo alla pari
dagli abitanti di Fregelle, che combattevano per i propri altari e
focolari; anche la popolazione inerme collaborava, dai tetti delle case. La
battaglia venne poi decisa da un trabocchetto, quando i Sanniti
lasciarono risuonare la voce di un araldo che proclamava l'incolumità per
chi avesse deposto le armi. Questa speranza smorzò negli animi la
voglia di combattere, e da ogni parte iniziarono a gettare a terra le armi. I
più ostinati si aprirono la strada con le armi attraverso la porta di
fronte al nemico, e per loro l'audacia fu più sicura di quanto non
fosse stata la paura per gli altri che si erano incautamente fidati, e che,
invocando invano gli dèi e il rispetto della parola data, vennero avvolti
dalle fiamme e bruciati vivi dai Sanniti. I consoli si divisero le zone di
operazione ricorrendo alla sorte: Papirio partì per l'Apulia alla volta di
Luceria (dove erano imprigionati i cavalieri romani dati in ostaggio a
Caudio), mentre Publio si fermò nel Sannio per fronteggiare le legioni di
Caudio. Questa mossa tenne in allarme i Sanniti, che non avevano il
coraggio di spingersi fino a Luceria per paura che i nemici li inseguissero
alle spalle, né di rimanere lì fermi, nel timore che Luceria finisse
nel frattempo in mano ai Romani. L'ipotesi più praticabile
sembrò quella di tentare la fortuna e di scontrarsi in campo aperto con
Publilio. Per questo schierarono l'esercito in ordine di battaglia. 13 Quando ormai era sul punto di
attaccare battaglia, il console Publilio, pensando fosse opportuno rivolgere un
appello ai suoi uomini, fece convocare l'assemblea. E tutti
accorsero in massa con grande entusiasmo presso il pretorio, col risultato che
il trambusto impedì ai soldati di sentire le parole del comandante:
ciascuno era già esortato dalla propria coscienza, memore dell'umiliazione
subita. E così si gettarono nella mischia sollecitando i portainsegne e,
per non rallentare il combattimento lanciando prima i giavellotti e poi
sguainando le spade, come avessero ricevuto un ordine in proposito,
deposero a terra i giavellotti, e con le spade in pugno si lanciarono di corsa
contro il nemico. In quella circostanza non ebbe alcuna incidenza
la perizia strategica del comandante nel disporre i manipoli e le truppe di
riserva, perché tutto fece con impeto quasi folle la rabbia dei
soldati. Così i nemici non soltanto furono sbaragliati, ma non avendo il
coraggio di porre fine alla fuga nemmeno all'interno dell'accampamento,
si diressero in disordine verso l'Apulia. Ciò non ostante
arrivarono a Luceria con l'esercito di nuovo inquadrato e compatto. La stessa rabbia
che aveva spinto i Romani in mezzo alle fila nemiche li trascinò
anche all'interno dell'accampamento. Lì ci furono sangue e massacri più
ancora che nel pieno dello scontro, e la maggior parte del bottino andò
distrutta in una mischia rabbiosa. L'altro esercito alla guida di Papirio
era arrivato fino ad Arpi seguendo la costa, dopo esser stato accolto in
maniera pacifica da tutte le popolazioni incontrate lungo la strada
(più per le violenze subite da parte dei Sanniti e per il risentimento
nei loro confronti che per aver ricevuto un qualche beneficio dal
popolo romano). Infatti i Sanniti, da quel popolo di montanari e contadini
che erano, visto che in quel tempo abitavano in villaggi sui monti,
disprezzavano gli abitanti delle pianure in quanto più molli e, come di
solito succede, simili alle terre nelle quali vivevano. Così molto
spesso mettevano a ferro e fuoco le zone della pianura e quelle lungo la costa. Se
questa area fosse rimasta fedele ai Sanniti, l'esercito romano non sarebbe
stato in grado di arrivare ad Arpi, oppure - impedito di rifornirsi -
sarebbe stato messo in ginocchio dalla mancanza di viveri. Eppure, anche
così, una volta partiti da Arpi alla volta di Luceria, tanto gli assedianti
quanto gli assediati furono afflitti dalla carestia. Ai Romani
veniva fornita ogni cosa da Arpi, però soltanto in quantità molto
ridotta: i cavalieri che dalla città portavano all'accampamento il frumento in sacchetti
ai soldati impegnati nei servizi di guardia e di vigilanza e nei lavori
di fortificazione, a volte, quando si imbattevano nel nemico, erano
costretti ad abbandonare i viveri per combattere. Gli assediati invece, prima
che arrivasse l'altro console con l'esercito vincitore, ricevevano
vettovaglie e rinforzi dai monti del Sannio. Ma l'arrivo di Publilio rese
tutto più difficile, perché - dopo aver lasciato al collega il cómpito di
occuparsi dell'assedio ed essendo libero di girare per le campagne - il
console sbarrò tutti gli accessi ai rifornimenti dei nemici. E così,
siccome gli assediati non avevano alcuna speranza di resistere più a
lungo alla fame, i Sanniti accampati presso Luceria, dopo aver raccolto forze da
ogni parte, furono costretti a scontrarsi in campo aperto con Papirio. 14 In quel momento, mentre i due
schieramenti si preparavano allo scontro, da Taranto arrivarono degli
ambasciatori che intimarono a Romani e Sanniti di rinunciare alla guerra: qualunque
delle due parti si fosse opposta alla cessazione delle ostilità
avrebbe dovuto combattere contro i Tarentini, schierati a fianco dell'altra. Udite le
parole degli inviati, Papirio, fingendo di esserne rimasto turbato,
rispose che si sarebbe consultato con il collega. Dopo averlo fatto
convocare, avendo trascorso con lui tutto il tempo nei preparativi della battaglia e
aver passato in esame con lui una cosa già decisa, diede il
segnale di battaglia. Mentre i consoli erano impegnati nei sacrifici e nei
preparativi che di solito precedono uno scontro campale, gli ambasciatori di
Taranto si fecero loro incontro aspettando una risposta. Papirio
replicò con queste parole: «O Tarentini, l'addetto ai polli ci fa sapere che gli
auspici sono favorevoli. E poi, i sacrifici sono stati propizi. Come
potete ben vedere, ci buttiamo nella mischia sotto la guida degli dèi».
Diede così ordine di avanzare e si mise alla testa delle truppe, biasimando la
superficialità di quelle genti che, incapaci com'erano di governarsi a
causa delle discordie e dei sommovimenti interni, avevano l'ardire
di dettare legge agli altri in materia di guerra e di pace. Dalla parte opposta i Sanniti, che
avevano tralasciato ogni preparativo bellico - vuoi perché davvero volevano
la pace, vuoi perché conveniva loro il fingerlo per assicurarsi l'appoggio
dei Tarentini -, quando videro che i Romani si erano schierati in tutta
fretta pronti a dare battaglia, urlarono di voler restare agli ordini
dei Tarentini e di non avere intenzione di scendere in campo né di
portare le armi al di là della trincea: anche se raggirati, avrebbero
sopportato qualunque tipo di sciagura, pur di non dare l'impressione
di disprezzare le proposte di pace dei Tarentini. I consoli dissero di
accogliere quelle dichiarazioni come un augurio, e di pregare gli dèi
affinché ispirassero ai nemici il proposito di non difendere nemmeno la
trincea. Dopo essersi divisi le truppe tra di loro, si avvicinano ai
dispositivi di difesa del nemico e li assalgono contemporaneamente da ogni
punto: e mentre alcuni riempivano il fossato e altri sradicavano la trincea
fortificata gettandola nel fossato, poiché non solo il valore innato ma
anche il risentimento stimolava gli animi esacerbati dall'umiliazione, i
Romani irruppero all'interno del campo nemico. Ciascuno ricordava di non
avere di fronte a sé né le Forche né le gole impraticabili di Caudio,
dove cioè l'inganno aveva avuto superbamente la meglio sull'errore, ma
solo il valore romano che né la trincea né il fossato riuscivano a
trattenere: massacrarono senza distinzione chi opponeva resistenza e
chi si dava alla fuga, inermi e armati, schiavi e liberi, bambini e
adolescenti, uomini e bestie. E non sarebbe sopravvissuto nessun essere
vivente, se i consoli non avessero fatto suonare la ritirata, e non
avessero spinto via a forza, con ordini carichi di minacce, gli uomini assetati
di sangue. E ai soldati inferociti
per l'interruzione imposta al piacere della vendetta i consoli tennero
immediatamente un discorso, per
ricordare loro che essi non erano né sarebbero stati secondi a nessuno dei
soldati quanto a odio nei confronti dei nemici: anzi, come li avevano
guidati in guerra, così li avrebbero portati a una vendetta senza
pietà, se il pensiero dei 600 cavalieri tenuti in ostaggio a Luceria non avesse
frenato la loro animosità, per paura che i nemici, non avendo
più speranze di poter essere perdonati, si lasciassero trascinare ciecamente a
uccidere i prigionieri, scegliendo così di annientare prima di
essere annientati. I soldati salutarono queste parole con un applauso, soddisfatti che
i loro animi impetuosi avessero trovato un freno, e si dissero pronti
ad affrontare qualunque tipo di sofferenza, pur di evitare che venisse
compromessa la salvezza di tanti nobili giovani romani. 15 Tolta l'assemblea, venne convocato un
consiglio per stabilire se si dovesse aggredire Luceria con tutte le
forze, oppure inviare nei dintorni uno degli eserciti consolari col
comandante al fine di sondare le intenzioni degli Apuli, la cui
posizione era ancora incerta. Il console Publilio, partito per una missione di
perlustrazione attraverso l'Apulia, con una sola spedizione sottomise
alcune popolazioni con l'uso della forza, mentre altre le accolse con
patti all'interno della coalizione romana. Anche per Papirio, che si era
fermato ad assediare Luceria, l'esito degli eventi fu in breve
commisurato alle speranze. Infatti, dato che tutte le strade attraverso le quali
arrivavano i rifornimenti dal Sannio erano bloccate, i Sanniti che
erano di guarnigione a Luceria, vinti dalla fame, inviarono degli
ambasciatori al console romano, invitandolo ad abbandonare l'assedio, una volta
riavuti i cavalieri che erano la causa del conflitto. Papirio rispose loro
che, circa il trattamento da riservarsi agli sconfitti, avrebbero
dovuto andare a consultarsi con Ponzio figlio di Erennio, l'uomo che li
aveva convinti a far passare i Romani sotto il giogo. Ma visto che
preferivano farsi imporre delle condizioni giuste dai nemici piuttosto che
proporne essi stessi, ordinò di comunicare a Luceria che venissero
lasciati all'interno delle mura le armi, i bagagli, le bestie da trasporto
e l'intera popolazione civile. Quanto ai soldati, li avrebbe fatti
passare sotto il giogo con un solo indumento addosso, più per
vendicare l'umiliazione subita che per infliggerne una nuova. Non venne
respinta alcuna delle condizioni. A passare sotto il giogo furono in 7.000
soldati, mentre a Luceria venne rastrellato un ingente bottino. Tutte
le insegne e le armi perdute a Caudio vennero riprese , e - gioia
questa superiore a ogni altra - furono recuperati i cavalieri consegnati dai
Sanniti affinché venissero custoditi a Luceria come pegno di pace. Con
quell'improvviso ribaltamento di fatti, nessuna vittoria del popolo romano fu
più splendida, e ancor di più se poi è vero quanto ho trovato presso
alcuni annalisti, e cioè che Ponzio figlio
di Erennio, comandante in capo dei Sanniti, venne fatto passare sotto
il giogo insieme agli altri, affinché
espiasse l'umiliazione inflitta ai consoli. Il fatto che non sia certo se anche il
comandante nemico sia stato consegnato e fatto passare sotto il
giogo non mi sorprende troppo: è molto strano invece che persistano incertezze
se quella campagna a Caudio e quindi a Luceria l'abbia condotta il
dittatore Lucio Cornelio con Lucio Papirio Cursore in qualità di
maestro di cavalleria, e Lucio Cornelio abbia trionfato, unico vendicatore
dell'ignominia inflitta ai Romani, con il trionfo che ritengo probabilmente il
più giusto fino a quei giorni dai tempi di Furio Camillo, oppure se
quell'onore sia da ascrivere ai consoli e in particolare a Papirio. Ma a questo
dubbio ne tiene dietro un altro: se cioè nelle successive
elezioni sia stato eletto console per la terza volta Papirio Cursore (insieme a Quinto
Aulo Cerretano console per la seconda volta), a séguito di un
rinnovamento della carica per la vittoria ottenuta a Luceria, oppure Lucio
Papirio Mugillano, e l'errore si sia verificato nella trascrizione del nome. 16 In séguito ci si trovò
d'accordo nell'affermare che le restanti operazioni belliche erano state portate
a compimento dai consoli. Con la vittoria in un'unica battaglia, Aulo
pose fine alla guerra coi Ferentani e accettò la resa della loro
città, dove era andato a rifugiarsi l'esercito sbaragliato, imponendo la consegna di
ostaggi. Stessa sorte ebbe la campagna condotta dall'altro console
contro i Satricani, i quali, non ostante fossero cittadini romani, dopo
la disfatta di Caudio erano passati dalla parte dei Sanniti, e ne avevano
accolto un presidio armato in città. Quando l'esercito arrivò nei
pressi delle mura di Satrico, dalla città arrivarono degli ambasciatori con
supplichevoli richieste di pace. Il console però rispose con durezza
che non tornassero da lui se non dopo aver fatto a pezzi o consegnato il
presidio dei Sanniti. Queste parole spaventarono i coloni più di un
attacco armato. Perciò gli ambasciatori tornarono immediatamente dal console
per chiedergli in che modo ritenesse che loro, deboli e sparuti com'erano,
avrebbero potuto sopraffare un presidio tanto forte e armato. Allora
il console ingiunse loro di andare a farsi consigliare da quelle stesse
persone che li avevano spinti ad accettare il presidio in città.
Poi, dopo aver a malapena ottenuto di poter consultare il senato sulla
questione e quindi di riferire la risposta al console, si congedarono
rientrando in città. All'interno del senato c'erano due opposte fazioni:
alla testa di una di esse c'erano quanti avevano suggerito la defezione
da Roma, a capo dell'altra c'erano invece i cittadini rimasti fedeli.
Ciò non ostante, pur di tornare alla pace, entrambi gli schieramenti fecero
a gara nel dimostrarsi premurosi verso il console. Siccome il presidio
sannita aveva intenzione di uscire nel corso della notte successiva (non
essendo in grado di sostenere un assedio), una delle due fazioni non
fece altro che informare il console a quale ora della notte e per quale porta
e strada il nemico sarebbe uscito. L'altro partito invece - quello che si
era opposto alla defezione dalla parte dei Sanniti -, nel corso della
stessa notte aprì le porte al console e, senza farsi accorgere dal nemico,
accolse in città i soldati romani. Così, grazie a questo doppio
tradimento, il presidio armato dei Sanniti fu sorpreso e sopraffatto dai Romani che
si erano andati ad appostare in una fitta macchia lungo la strada, mentre
in città si alzò alto il grido dei soldati che vi erano penetrati.
Nell'arco di un'ora i Sanniti furono sbaragliati e Satrico occupata, e ogni
cosa finì in potere del console: istruita un'inchiesta sulle
responsabilità dell'ammutinamento, fece frustare e decapitare quanti vennero
riconosciuti colpevoli e, dopo aver imposto una forte guarnigione armata in
città, fece disarmare i Sanniti. Gli autori che sostengono che Luceria
venne riconquistata e i Sanniti fatti passare sotto il giogo da Papirio
Cursore, riportano che dopo quei fatti Papirio rientrò a Roma per
celebrarvi il trionfo. Papirio fu uomo degno di ogni elogio sul piano militare,
eccezionale non solo per la tempra interiore, ma anche per la
prestanza fisica. Era straordinariamente veloce di gambe, qualità questa
che gli valse il soprannome di Cursore, e si dice che ai suoi tempi nessuno
riuscisse a superarlo nella corsa, sia per la grande forza fisica, sia per il
notevole allenamento. Oltre a questa caratteristica, era un
mangiatore e un bevitore formidabile. Durante il suo mandato, tanto per i
fanti quanto per i cavalieri il servizio militare era duro come non lo
era mai stato agli ordini di nessun altro, visto che egli stesso aveva un
fisico contro il quale nulla poteva la fatica: ad alcuni cavalieri che un
giorno avevano avuto il coraggio di chiedergli l'esenzione da un servizio
come ricompensa a un'azione ben condotta, rispose: «Perché non possiate
dire che non vi abbia esentati da alcunché, vi esimo dall'accarezzare il
dorso dei cavalli quando scenderete di sella». Il suo prestigio era grandissimo
sia presso gli alleati sia presso i concittadini. Una volta il
comandante del contingente di Preneste aveva per paura tardato a portare i
suoi uomini dalle retrovie alla prima linea: il console, passeggiando di
fronte alla sua tenda, lo fece chiamare fuori e poi diede ordine al littore di
slegare la scure. Siccome il prenestino, sentendo queste parole, era
mezzo morto dallo spavento, Papirio disse: «Avanti, o littore,
taglia questa radice che dà fastidio a chi passeggia», e quindi lasciò
libero l'ufficiale alleato che era in preda al panico per paura di una
condanna a morte, non andando al di là dell'imposizione di un'ammenda in
denaro. E senza dubbio in quel periodo, che fu ricco di valori più di
ogni altro, non c'era nessun altro uomo su cui la potenza di Roma potesse poggiare
in maniera più sicura. Alcuni sostengono addirittura che Papirio
sarebbe stato un generale degno di tenere testa ad Alessandro Magno, se
solo quest'ultimo, una volta sottomessa l'Asia, avesse rivolto i
suoi eserciti contro l'Europa. 17 Si potrebbe rilevare che sin
dall'inizio di quest'opera non ho cercato di evitare niente con tanta attenzione
quanto il discostarmi da una trattazione ordinata degli eventi, e il
cercare motivi di piacevole svago per i lettori e un po' di riposo per la
mia mente infarcendo questa ricerca storica con amene digressioni.
Ciò non ostante, l'aver menzionato un re e un generale tanto grande, mi
riporta a considerazioni che tante volte ho fatto tra me e me, e non mi
spiace ora valutare quale sarebbe stata la sorte della potenza romana se
si fosse scontrata con Alessandro. In guerra gli elementi che sembrano
avere maggior peso sono il numero degli effettivi e il loro valore, il
talento dei generali, e la sorte, il cui potere è grandissimo nelle
cose degli uomini, e soprattutto nelle guerre. Esaminando questi fattori - presi
sia uno per uno sia nella loro globalità -, emerge con evidente
chiarezza che Roma, come non fu sottomessa da altri re e da altri
popoli, allo stesso modo non lo sarebbe stata nemmeno da questo monarca.
Innanzitutto, partendo da un confronto tra i due generali, non posso certo
negare che Alessandro sia stato un grande condottiero. Ma la sua gloria
è ulteriormente accresciuta dal fatto di essere stato da solo al comando, e
di essere morto giovane, nel momento culminante della sua potenza, senza aver
ancora sperimentato i rovesci del destino. Tralasciando altri celebri
sovrani e generali (illustri esempi dei casi umani), che cosa fece
sì che fossero in balia della sorte Ciro, tanto celebrato dai Greci, e di recente
Pompeo Magno se non la loro lunga vita? Dovrei elencare i generali romani
(e non tutti quelli di ogni epoca), ma soltanto quelli, dittatori o
consoli, contro i quali avrebbe potuto combattere Alessandro, e cioè
Marco Valerio Corvo, Gaio Marcio Rutilo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio
Torquato, Quinto Publilio Filone, Lucio Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo,
i due Deci, Lucio Volumnio, Manio Curio? A questi uomini ne seguirebbero
altri famosi, se solo Alessandro avesse anteposto la guerra contro
Cartagine a quella contro Roma, e fosse passato in Italia una volta raggiunta
un'età più avanzata. Ciascuno di questi uomini era naturalmente dotato
di coraggio e di capacità pari ad Alessandro, inoltre tutti avevano una
competenza militare trasmessa di mano in mano fin dalle origini di Roma,
e giunta a essere una scienza regolata da norme fisse. Così i
re avevano combattuto le loro guerre, e così quelli che li avevano
cacciati, i Giunii e i Valerii, così in séguito i Fabii, i Quinzi e i Cornelii,
così Furio Camillo, che era già avanti negli anni agli occhi di quegli uomini
che, nel pieno della loro giovinezza, avrebbero avuto in sorte il
cómpito di affrontare Alessandro. Per quel che concerne le
capacità dimostrate da Alessandro nell'affrontare il combattimento (caratteristica questa
che accresce ancor di più il suo prestigio), se mai avessero dovuto
affrontarlo in duello, avrebbero di conseguenza avuto la peggio Manlio
Torquato o Valerio Corvo, famosi prima ancora come guerrieri che come
generali, avrebbero avuto la peggio i Deci che, avendo offerto in voto i propri
corpi, si lanciarono nel fitto delle file nemiche, avrebbe avuto la peggio
Papirio Cursore, forte nel fisico e nello spirito com'era? Per non fare i
nomi a uno a uno, la saggezza di un solo giovane avrebbe piegato quel
senato la cui essenza fu colta dall'uomo
che lo definì composto di re? Questa è la sola cosa che
si sarebbe dovuta temere: cioè che Alessandro
fosse in grado di scegliere, con maggiore accortezza di uno qualsiasi dei
personaggi sopramenzionati, il punto in cui piazzare il campo, come preparare i
rifornimenti, come evitare gli agguati, come scegliere il momento
opportuno per attaccare battaglia, come schierare le truppe e come consolidarne
la struttura con gli uomini di riserva! Avrebbe detto di non aver
più a che fare con Dario che, trascinandosi dietro un esercito fatto
di donne e di enuchi, appesantito dall'oro e dalla porpora (segni
tangibili della sua condizione), più vicino allo stato di preda che non a
quello di nemico, era stato vinto senza spargimento di sangue, e senza
che Alessandro avesse alcun altro merito se non il coraggio di trattare
con disprezzo tutta quella vana ostentazione. L'Italia gli avrebbe
fatto un'impressione del tutto diversa dall'India, attraverso la quale
avanzò tra una crapula e l'altra con un esercito di avvinazzati, non appena
avesse visto i passi dell'Apulia e le montagne della Lucania e le tracce
della recente disfatta subita in famiglia, nel punto in cui poco tempo
prima aveva trovato la morte lo zio materno, Alessandro re dell'Epiro. 18 E stiamo parlando di un Alessandro
non ancora sommerso dall'eccesso di fortuna, che mai nessuno seppe reggere
in maniera meno decisa di lui. Se poi ci mettiamo a giudicarlo per il
comportamento tenuto nella nuova sorte e per il nuovo modo di essere di cui,
per così dire, si rivestì dopo aver trionfato, se ne può dedurre che
in Italia sarebbe arrivato più simile a Dario che ad Alessandro, trascinando un
esercito che ormai non aveva più memoria della Macedonia ed era
precipitato nella degenerazione morale dei Persiani. Dispiace dover menzionare in
un sovrano tanto grande l'arrogante trasformazione di costumi e modi di
vita e la volontà di farsi adulare dai sudditi in ginocchio (cosa questa
difficile da tollerare per dei vinti, figurarsi poi per i Macedoni reduci da
tanti trionfi), le vergognose condanne a morte e le uccisioni di
amici nel pieno della sbronza durante i banchetti, e il vezzo di attribuirsi
falsi alberi genealogici. E cosa dire poi della passione per il bere che
giorno dopo giorno cresceva sempre di più? E della sua ira truce e
cieca (e qui non sto certo a parlare di cose che siano in dubbio tra gli storici)?
Bisogna forse pensare che tutti questi difetti non danneggino le
qualità di un generale? Il pericolo era proprio questo - come più volte
ripetono gli storici greci meno affidabili, loro che arrivano a
esaltare il valore dei Parti per odio verso Roma -, e cioè che il
popolo romano non fosse in grado di sostenere l'altisonante nome di Alessandro (che
in realtà ho l'impressione non conoscessero neppure per sentito dire),
e che l'uomo contro il quale gli Ateniesi avevano avuto il coraggio di
parlare a viso aperto in assemblea, come risulta dalle orazioni, non
ostante si trovassero in una città piegata dalle armi macedoni, e che
proprio in quel momento vedeva quasi ancora fumare le rovine di Tebe,
possibile che nessuno di tutti quegli illustri uomini politici romani avrebbe
osato attaccarlo verbalmente in piena libertà? Per quanto grande possa a noi sembrare
la statura di quell'uomo, ciò non ostante la sua sarà pur sempre
la grandezza di un unico individuo, concentrata in poco più di dieci
anni di buona sorte. Quanti la esaltano, sostenendo che il popolo romano, pur
non avendo perduto alcuna guerra, è stato tuttavia vinto in molte
battaglie, là dove invece per Alessandro nessuna battaglia ebbe esito
sfortunato, non si rendono conto di confrontare le imprese di un solo
individuo (per di più giovane) con quelle di un popolo che guerre ne
combatte da ormai ottocento anni. Dovremmo forse stupirci se, essendo da
una parte il numero delle generazioni superiore agli anni
dell'altra, ci siano stati più rivolgimenti del destino in uno spazio
di tempo tanto lungo che nell'arco di tredici anni? Perché mai non mettere
a confronto la fortuna di un individuo con quella di un altro
individuo, di un generale con quella di un altro generale? Quanti comandanti
romani potrei menzionare, per i quali l'esito della battaglia non fu mai
sfavorevole? Basta scorrere gli annali e i fasti dei magistrati per trovare i
nomi di consoli e di dittatori dotati di capacità e con
successi ottenuti dei quali il popolo romano non dovette mai dispiacersi. E, ciò
che li rende più apprezzabili di Alessandro o di qualsiasi altro
sovrano, il fatto che alcuni di essi detennero la dittatura per dieci o
venti giorni, e nessuno il consolato per un periodo più lungo di un
anno. I tribuni della plebe ostacolavano l'esecuzione delle leve militari, ed
essi dovevano partire per il fronte in ritardo, e venivano richiamati prima
del mandato per presiedere le elezioni. L'anno di carica scadeva
esattamente nel momento di massimo sforzo, e spesso l'imprudenza del
collega o la sua cattiva disposizione erano di ostacolo, arrivando a produrre
anche danni. Avevano il cómpito di condurre una campagna avviata malamente
da altri, e si ritrovavano con un esercito di reclute o di soldati privi
di disciplina. Invece, per Ercole, i re non sono soltanto liberi da
qualunque condizionamento ma, padroni degli eventi e del proprio tempo, non
vanno dietro passivamente alle cose che accadono, ma le governano piegandole
alle loro idee. Di conseguenza Alessandro si sarebbe scontrato con dei
generali che non avevano conosciuto la sconfitta, mettendo sulla
bilancia le stesse garanzie del destino. Anzi, avrebbe rischiato di
più, per il fatto che i Macedoni avevano un solo Alessandro, che non era
solamente esposto a molteplici pericoli ma vi si esponeva
spontaneamente, mentre tra i Romani erano molti gli uomini pari ad Alessandro per
gloria e imprese, e ciascuno di essi avrebbe potuto, a seconda del proprio
destino, vivere o morire senza esporre lo Stato ad alcun rischio. 19 Restano da confrontare le forze
messe in campo dalle due parti: il numero e la qualità degli
uomini, l'entità dei contingenti ausiliari. Nei censimenti di quell'epoca i cittadini
romani ammontavano a 250.000 unità: di conseguenza, anche
nell'eventualità che tutti gli alleati latini si fossero dissociati in massa, la sola
leva dei cittadini romani avrebbe permesso l'arruolamento di dieci
legioni. In quegli anni spesso accadeva che partissero per il fronte quattro o
cinque eserciti per volta, in Etruria, in Umbria (dove ai nemici si
erano aggiunti i Galli), nel Sannio e in Lucania. In séguito, in tutto il
Lazio, con i Sabini, i Volsci, gli Equi, nell'intera Campania, in parte
dell'Umbria e dell'Etruria, tra i Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini e
gli Apuli, e lungo tutta la costa tirrenica abitata da Greci, da Turi
fino a Napoli e Cuma e di lì fino ad Anzio e Ostia, Alessandro avrebbe
trovato validi alleati oppure nemici già sconfitti in guerra. Quanto a lui,
avrebbe attraversato il mare coi veterani macedoni (non più di
30.000 uomini) e con 4.000 cavalieri, provenienti per buona parte dalla
Tessaglia. Era infatti questo il meglio delle sue truppe. Se invece avesse
portato con sé anche i Persiani, gli abitanti dell'India e altre popolazioni,
si sarebbe trascinato dietro un fastidio più che un valido
supporto. Si aggiunga poi a tutto ciò il
fatto che i Romani avevano a portata di mano dei riservisti da richiamare in
servizio, mentre Alessandro, combattendo in territorio nemico,
avrebbe subito la stessa sorte toccata in séguito ad Annibale, cioè il
progressivo indebolimento dell'esercito col passare del tempo. Passiamo, ora,
alle armi: i Macedoni avevano il clipeo e la sarissa (ovvero l'asta); i
Romani lo scudo rettangolare, che proteggeva meglio la figura, e il
giavellotto, ovvero un'arma da lancio capace di colpire con più
precisione dell'asta. Erano entrambi, Macedone e Romano, soldati di posizione, abituati
a mantenere il proprio posto nello schieramento, ma la falange macedone
era poco mobile e compatta, mentre la legione romana risultava più
articolata, composta di varie parti e non aveva difficoltà a doversi
eventualmente dividere o ricomporre a seconda del bisogno. E poi, chi era il soldato
che potesse stare alla pari col Romano nel campo dei lavori di
fortificazione? Chi era più adatto a sopportare le fatiche? Se Alessandro
fosse stato sconfitto in un'unica battaglia, avrebbe perso la guerra:
quale armata avrebbe potuto piegare i Romani, che non erano stati annientati
dagli eventi di Caudio o di Canne? Se avesse riportato delle vittorie
anche solo all'inizio, avrebbe rimpianto le spedizioni contro i
Persiani, gli Indiani e l'imbelle Asia, e avrebbe affermato di aver combattuto
fino a quel momento contro delle femminucce (come pare abbia detto
Alessandro re dell'Epiro, ferito a morte, paragonando i successi nelle
guerre combattute dal giovane re con le sue). A dir la verità, quando penso
che nel corso della prima guerra punica i Romani combatterono ventiquattro anni
di battaglie navali contro i Cartaginesi, mi sembra che la vita di
Alessandro sarebbe bastata a stento per portare a termine quella sola
guerra. E siccome Cartagine era unita a Roma da un antico trattato di alleanza,
è probabile che il timore avrebbe portato a prendere insieme le armi
contro il comune nemico le due città più potenti per armamenti e per
uomini, e Alessandro sarebbe stato schiacciato dalle forze congiunte dei
Cartaginesi e dei Romani. Anche se i Macedoni non erano più sotto la
guida di Alessandro e se la loro forza non era più integra, i Romani ebbero
ciò non ostante l'opportunità di sperimentare le armi macedoni nei
conflitti contro Antioco, Filippo e Perseo, non solo senza mai subire
sconfitte, ma senza mai correre alcun pericolo. Possano le mie parole non essere
fraintese e tacciano le guerre civili: noi Romani non siamo mai stati
messi in difficoltà da nemici a cavallo o a piedi, in campo aperto, a
parità di posizioni, e tanto meno in zone a noi favorevoli. La nostra
fanteria pesante può temere la cavalleria, le frecce, gli avvallamenti
del terreno, i punti dove i rifornimenti risultino difficili, ma
è perfettamente in grado di respingere - e sempre lo sarà -
migliaia di eserciti più imponenti di quello dei Macedoni e di Alessandro, a
patto però che duri per sempre l'amore per questa pace nella quale
adesso viviamo e la preoccupazione per l'armonia nei rapporti tra i cittadini. 20 Vennero in séguito eletti consoli
Marco Folio Flaccina e Lucio Plauzio Venoce. Nel corso dell'anno numerose
popolazioni sannite inviarono ambasciatori per rinnovare il trattato
di alleanza. Riuscirono a commuovere il senato inginocchiandosi a
terra, ma, rinviati al cospetto del popolo, le loro preghiere non
risultarono ugualmente efficaci. Di conseguenza venne loro negato il
rinnovo: dopo essersi sciolti in suppliche ai singoli cittadini, per
diversi giorni, ottennero la concessione di una tregua biennale. In
Apulia anche gli abitanti di Teano e di Canusio, ridotti allo stremo dalle
devastazioni, si arresero al console Lucio Plauzio, accettando di
consegnargli ostaggi. Nello stesso anno, a Capua, vennero per la prima
volta nominati dei prefetti, in base a norme stabilite dal pretore Lucio Furio
- avevano fatto richiesta dell'uno e dell'altro provvedimento gli abitanti
stessi di Capua, per rimediare alle discordie interne alla
città -. A Roma vennero aggiunte due nuove tribù, la Ufentina e la Falerna. La situazione in Apulia venne decisa
una volta per tutte in favore dei Romani, e gli Apuli di Teano si
presentarono dai nuovi consoli Gaio Giunio Bubulco e Quinto Emilio Barbula, con la
richiesta di un trattato di alleanza, garantendo al popolo romano
il mantenimento della pace nell'Apulia intera. Dato che offrivano
questa coraggiosa garanzia, ottennero un trattato di alleanza, le
cui condizioni non furono però paritarie, ma contemplavano la
sovranità del popolo romano. Sottomessa l'intera Apulia - Giunio si era infatti
impossessato anche di Forento, città molto ben fortificata -,
si proseguì in direzione della Lucania. Lì l'arrivo improvviso del console Emilio
permise di prendere con la forza la città di Nerulo. Quando tra gli
alleati si diffuse la notizia che a Capua la situazione era tornata alla
normalità grazie all'intervento dei Romani, anche gli abitanti di Anzio, i quali si
lamentavano di esser costretti a governarsi senza leggi sicure e
magistrati, ottennero dal senato l'invio di patroni col cómpito di promulgare
leggi per la colonia stessa. Ormai non erano solo le armi di Roma, ma
anche le sue leggi ad affermarsi in lungo e in largo. 21 Alla fine dell'anno i consoli Gaio
Giunio Bubulco e Quinto Emilio Barbula consegnarono le legioni non
nelle mani dei consoli che essi stessi avevano proclamati eletti, e
cioè Spurio Nauzio e Marco Popilio, bensì al dittatore Lucio Emilio. Quest'ultimo,
accintosi insieme al maestro di cavalleria Lucio Fulvio ad attaccare
Saticula, offrì ai Sanniti un motivo pretestuoso per riaprire le
ostilità. Per i Romani ne conseguì quindi una doppia minaccia: mentre da una parte i
Sanniti, dopo aver raccolto un grosso esercito, si erano andati ad
accampare non lontano dai Romani, nell'intento di liberare gli alleati
dall'assedio, dall'altra gli abitanti di Saticula, aperte all'improvviso le
porte, attaccarono violentemente i posti di guardia nemici. Così
l'una e l'altra parte, confidando più negli aiuti altrui che nelle proprie forze,
diedero immediato inizio alle ostilità e misero in difficoltà
i Romani. Ma pur avendo un impegno su due fronti, il dittatore riusciva a tenere
duro da entrambe le parti, perché aveva scelto una posizione difficile da
accerchiare, e aveva distribuito i suoi manipoli in diverse direzioni. Il
grosso delle forze lo concentrò però contro gli assediati che
avevano dato vita alla sortita, e riuscì a ricacciarli tra le mura dopo una lotta
non priva di durezze. Poi rivolse tutte le sue forze contro i Sanniti. In
quel settore la battaglia fu più accanita. La vittoria arrivò
tardi, ma non fu né incerta né limitata. E i Sanniti, dopo essersi rifugiati in
disordine all'interno dell'accampamento, spenti i fuochi in
piena notte, si ritirarono in silenzio, e, avendo perso ogni speranza
di difendere Saticula, si misero ad assediare Plistica, città
alleata dei Romani, per restituire al nemico un colpo di uguale portata. 22 A fine anno, la guerra fu poi
proseguita dal dittatore Quinto Fabio. I nuovi consoli, così come i loro
predecessori, rimasero a Roma. Fabio arrivò a Saticula con rinforzi
per prendere in consegna l'esercito da Emilio. I Sanniti, infatti, non erano
rimasti nei dintorni di Plistica ma, fatte arrivare dalla patria delle nuove
forze e confidando nella loro superiorità numerica, si erano
accampati nella stessa posizione di prima, e cercavano di distogliere i Romani
dall'assedio provocandoli allo scontro. E il dittatore, rivoltosi con
impeto ancora maggiore contro le mura nemiche, convinto che la vera
guerra fosse soltanto quella che aveva come meta ultima l'espugnazione della
città, non dava troppo peso ai Sanniti, opponendosi alle loro sortite
solo con presidi armati a guardia dell'accampamento, per premunirsi di
fronte a un'eventuale incursione nemica. Per questo i Sanniti
cavalcavano tanto più baldanzosi davanti alla trincea, senza concedersi un attimo di
tregua. E poiché il nemico era ormai quasi alle porte del campo, il
maestro di cavalleria Quinto Aulio Cerretano, senza richiedere il parere
del dittatore, utilizzando tutti gli squadroni di cavalleria,
organizzò un'impetuosa sortita e respinse i Sanniti. In quel frangente, in un
combattimento che di solito non vede mai troppa determinazione, la sorte
esercitò il suo potere al punto da mietere stragi in entrambi gli schieramenti e
causare la morte gloriosa dei comandanti stessi. Il capo dei Sanniti
per primo, non accettando l'eventualità di essere
sconfitto e messo in fuga da posizioni occupate con tanta ostinazione, pregò e
incitò i suoi cavalieri a rituffarsi nella mischia. Contro di lui, che si
distingueva tra i suoi nel rinnovare la battaglia, il maestro di cavalleria
romano, la lancia spianata, spronò il cavallo con tanta furia da sbalzarlo
esanime di sella al primo colpo. Le truppe, contrariamente al solito, non
furono scoraggiate dalla caduta del loro comandante: anzi, si infiammarono.
I Sanniti in massa scagliarono le loro frecce contro Aulio, che si era
spinto imprudentemente in mezzo agli squadroni nemici. Fu soprattutto al
fratello che gli dèi concessero la gloria di vendicarsi del comandante
sannita caduto: dopo aver trascinato giù dal cavallo il maestro di
cavalleria vincitore, lo massacrò col cuore gonfio di rabbia e di dolore, e poco
mancò che i Sanniti si impossessassero anche della salma,
finita tra gli squadroni nemici. Ma i Romani scesero immediatamente da
cavallo e si misero a combattere da fanti, costringendo i Sanniti a fare
altrettanto. L'improvvisata fanteria iniziò il combattimento intorno
ai cadaveri dei comandanti. I Romani ebbero la meglio, rientrando
così in possesso del corpo di Aulio, che riportarono vittoriosi
all'accampamento, divisi tra il dolore e la gioia. I Sanniti, perso il comandante,
stremati dalla battaglia a cavallo,
abbandonarono Saticula, che ormai sembrava inutile difendere, e
tornarono all'assedio di Plistica. Così,
nell'arco di pochi giorni, i Romani presero Saticula che si arrese spontaneamente,
mentre i Sanniti conquistarono Plistica con il ricorso alla forza. 23 In séguito il teatro delle
operazioni cambiò: dal Sannio e dall'Apulia gli eserciti vennero trasferiti a Sora,
città passata ai Sanniti dopo che i coloni romani ivi residenti erano
stati uccisi. Siccome l'esercito romano vi era arrivato per primo a
marce forzate nell'intento di vendicare l'uccisione dei concittadini e
riappropriarsi della colonia, gli osservatori disseminati lungo le strade
tornarono uno dopo l'altro riferendo che le truppe sannite
seguivano da presso e si trovavano ormai non troppo lontane. I Romani andarono
allora incontro al nemico, e a Lautule si combatté una battaglia
dall'esito incerto. A separare i contendenti non furono né le perdite
patite, né la fuga di una delle parti in causa, quanto piuttosto la notte,
che lasciò gli uni e gli altri nel dubbio di essere vincitori o vinti.
Presso alcuni autori ho trovato che l'esito di quella battaglia fu
sfavorevole ai Romani e che in essa perse la vita il maestro di cavalleria Quinto
Aulio. Per rimpiazzare il defunto, da Roma giunse con un nuovo esercito il
maestro di cavalleria Gaio Fabio, il quale mandò avanti messaggeri
per chiedere al dittatore un consiglio sul luogo appropriato per fermarsi,
nonché sul momento e sulla direzione dalla quale il nemico avrebbe dovuto
essere attaccato. Ottenute tutte le informazioni sul piano di battaglia, si
attestò in un punto nascosto. Il dittatore, dopo aver trattenuto per
alcuni giorni dopo la battaglia i suoi uomini all'interno della trincea
(così da farli sembrare più assediati che assedianti), diede
all'improvviso il segnale di battaglia, e pensando che il più grosso
stimolo per gli animi di uomini valorosi fosse riporre ogni speranza esclusivamente in
se stessi, non rivelò loro l'arrivo imminente del maestro di
cavalleria insieme al nuovo esercito. Come se quella sortita fosse l'unica
speranza di salvezza, disse: «O soldati, siamo intrappolati in un luogo
chiuso, e non abbiamo altra via d'uscita se non quella che ci potremo
aprire con la vittoria. Il nostro accampamento è ben protetto
dalle fortificazioni, ma esposto alla mancanza di viveri: infatti tutti i paesi dei
dintorni che ci potevano far pervenire dei rifornimenti si sono
ribellati, e se anche potessimo trovare aiuto negli esseri umani, a esserci
avversi sono i luoghi. Per questo io non ho alcuna intenzione di ingannarvi
lasciando l'accampamento qui, dove vi potreste rifugiare nel caso non vi
dovesse arridere la vittoria, come successo nei giorni scorsi. Le
fortificazioni devono essere protette dalle armi, e non le armi dalle
fortificazioni. Un accampamento lo tengano e vi cerchino scampo quelli che hanno
interesse a tirare la guerra per le lunghe: noi non dobbiamo considerare
altro scampo se non nella vittoria. Gettatevi all'assalto del nemico: quando
le truppe avranno superato la trincea, diano fuoco alle strutture
quelli cui sarà stato dato ordine di farlo. Soldati, il danno che subirete
sarà ricompensato dal bottino strappato a tutte le popolazioni dei
dintorni che ci hanno tradito». I soldati si lanciarono contro i nemici
infiammati dal discorso del dittatore, che aveva segnalato la
gravità estrema del frangente; e anche lo scorgere dietro le spalle gli
accampamenti in fiamme (benché per ordine del dittatore il fuoco fosse stato
appiccato soltanto alle tende più vicine) fu motivo di forte incitamento.
Lanciatisi in avanti come forsennati, travolsero al primo urto le
file nemiche, e al momento opportuno il maestro di cavalleria, quando
vide da lontano levarsi le fiamme dall'accampamento (era questo il
segnale convenuto), assalì il nemico alle spalle. Così, presi
tra due fronti, i Sanniti si diedero alla fuga sparpagliandosi dove meglio
ciascuno riusciva, in tutte le direzioni. Una grande quantità di nemici,
che in preda al terrore si erano asserragliati in cerchio e nella calca
generale si intralciavano a vicenda nei movimenti, venne fatta a pezzi sul
posto. L'accampamento nemico venne preso e saccheggiato. Il dittatore
riportò nel campo romano i soldati carichi di bottino, felici sia per la
vittoria conseguita sia per aver ritrovato intatte le tende contro ogni
speranza (fatta eccezione per una piccola area danneggiata
dall'incendio). 24 Si ritornò poi all'assedio di
Sora. E i nuovi consoli Marco Petelio e Gaio Sulpicio ricevettero dal dittatore
Fabio il comando dell'esercito, licenziando gran parte degli effettivi
avanti con gli anni e aggiungendo al loro posto nuove coorti. Ma poiché
per la difficile posizione naturale della città non si riusciva a
trovare un sistema abbastanza sicuro per espugnarla, e la vittoria sembrava
restare o troppo in là nel tempo o esposta a rischi eccessivi, un
disertore di Sora uscito di nascosto dalla città e arrivato fino ai posti
di guardia romani si fece immediatamente portare al cospetto dei consoli, ai
quali promise di consegnare la sua città nelle loro mani. Alle
richieste dei consoli che cercavano di sapere in che modo avrebbe potuto garantire
l'impresa l'uomo replicò con risposte che non lasciavano dubbi; così
sembrò che le sue argomentazioni non fossero vane parole, e il disertore convinse
i Romani a spostare di sei miglia dalla città
l'accampamento, che adesso era invece quasi attaccato alle mura: di giorno la vigilanza delle
sentinelle si sarebbe così allentata. Lui stesso poi, nel corso
della notte successiva, dopo che ad alcune coorti venne data disposizione
di attestarsi in un bosco sotto la città, attraverso sentieri
impervi e quasi inaccessibili portò con sé dieci soldati romani sulla rocca, dove
aveva raccolto un numero di aste di gran lunga superiore alle necessità
di quel manipolo. C'erano anche parecchi sassi, parte dei quali si
trovavano lì per ragioni naturali (come sempre nei luoghi dirupati), mentre
parte erano stati ammucchiati intenzionalmente dagli assediati,
nell'intento di rendere più sicura la postazione. L'uomo portò in quel punto i
Romani, e indicando loro un sentiero stretto e scosceso che dalla città
saliva fin sulla rocca disse: «Basterebbero anche solo tre uomini armati per
impedire la salita all'esercito più massiccio: voi siete in dieci e -
ciò che più conta - siete Romani, e tra i Romani siete anche i guerrieri
più forti. Dalla vostra parte avrete la posizione e la notte, che
nell'incertezza fa apparire più grosso qualunque pericolo a chi già sia
spaventato. Io adesso farò in modo di seminare il panico ovunque: voi limitatevi a tenere
saldamente la rocca». Detto questo, si lanciò giù di
corsa gridando con quanta più voce aveva dentro: «Allarmi! Cittadini, aiuto, la rocca
è in mano ai nemici! Presto, correte a difenderla!». Così gridava di
fronte alle dimore dei capi, a chi incontrava e alla gente che si
riversava terrorizzata nelle strade. Per tutta la città si diffuse il
panico suscitato da un solo individuo. I magistrati affannosamente mandarono
soldati in avanscoperta alla rocca e quando si sentirono riferire che essa
era occupata da uomini (il cui numero venne esagerato) con le armi in
pugno, abbandonarono ogni speranza di poterla riconquistare. Fu allora una
fuga generale e precipitosa, e le porte furono sfondate dalla folla quasi
del tutto inerme e appena alzatasi dal letto. Attirato dalle grida, il contingente
romano irruppe attraverso uno degli ingressi massacrando la gente
che correva terrorizzata per le strade. Sora era già
conquistata, quando all'alba arrivarono i consoli che accettarono la resa di quanti per
motivi contingenti erano rimasti in città dopo la strage notturna e
la fuga. Ne vennero condotti a Roma in catene 225, quelli cioè che
l'opinione pubblica additava come primi responsabili dell'infausto massacro di
coloni e della defezione. Il resto della popolazione fu lasciato incolume a
Sora, dove venne insediato un presidio armato. Gli uomini deportati a
Roma furono bastonati e decapitati in pieno Foro con grande gioia della
plebe, cui premeva la sicurezza dei cittadini inviati nelle colonie. 25 Partiti da Sora, i consoli
trasferirono la guerra nelle campagne e nelle città degli Ausoni.
L'arrivo dei Sanniti in concomitanza con la battaglia di Lautule aveva infatti
favorito un'insurrezione generale, e in molte zone della Campania erano stati
organizzati complotti contro Roma, tanto che neppure Capua restò
esente da sospetti (anzi, l'inchiesta arrivò addirittura fino a Roma e ad alcuni dei
cittadini più in vista). Per altro i
Romani giunsero ad avere il controllo del popolo degli Ausoni a séguito di un tradimento, come già
successo a Sora. Dodici nobili giovani provenienti dalle città di
Ausona, Minturno e Vescia, dopo aver deciso di consegnare le proprie città in
mano ai Romani, si presentarono ai consoli e li informarono che i loro
concittadini speravano già da tempo nell'arrivo dei Sanniti e, non appena
erano venuti a conoscenza dell'esito della battaglia di Lautule,
considerando ormai sconfitti i Romani, avevano offerto un supporto ai Sanniti inviando
uomini e armi. E adesso che i Sanniti erano stati sbaragliati e messi
in fuga, si mantenevano in un rapporto di pace ambigua, e non
chiudevano le porte in faccia ai Romani solo per evitare lo scoppio di un
conflitto; se però l'esercito romano si fosse avvicinato, erano più che
decisi a chiuderle. In una simile incertezza, sarebbe stato facile averne
la meglio cogliendoli di sorpresa. Seguendo i loro suggerimenti, i Romani
avvicinarono l'accampamento, e nel contempo inviarono nei dintorni delle
tre città uomini armati, con l'ordine di rimanere nascosti nei
pressi delle mura, e altri in abiti civili, con le spade nascoste sotto la
veste e col cómpito di entrare in città all'alba attraverso le
porte aperte. Furono questi ultimi che iniziarono a eliminare le sentinelle e
contemporaneamente a dare il segnale ai compagni armati, perché
uscissero in fretta dai loro nascondigli. Così vennero
occupate le porte e nello stesso istante anche le tre città furono catturate,
con il medesimo espediente. Ma poiché l'assalto non avvenne alla presenza dei
capi, non vi fu freno al massacro, e
gli Ausoni vennero decimati per un'accusa di tradimento poco affidabile, come se si fosse trattato di una guerra
all'ultimo sangue. 26 Nel corso dello stesso anno Luceria
passò dalla parte dei Sanniti dopo aver consegnato in mano nemica il
presidio armato romano. Ma il tradimento non tardò a essere punito:
l'esercito romano si trovava nella zona e la città, in aperta pianura, venne
catturata al primo assalto. Gli abitanti di Luceria e i Sanniti furono passati
per le armi e la rabbia arrivò a un punto tale che, quando a Roma si
discusse in senato circa l'invio di una colonia a Luceria, molti espressero
l'avviso di radere al suolo la città. A prescindere dal risentimento - fuor
di misura nei confronti di un popolo sottomesso già due volte -,
l'idea di inviare cittadini in una zona così lontana dalla patria e in mezzo a genti
tanto ostili era in sé poco accetta. Ciò non ostante
prevalse il parere di mandare coloni, in numero di 2.500. Nello stesso anno, mentre per i Romani
la situazione era ovunque difficile, anche a Capua i membri
più eminenti della città organizzarono in segreto una congiura. Al senato
giunse notizia della cosa, e la voce
non fu affatto trascurata: venne anzi aperta un'inchiesta e si decise
di eleggere un dittatore che se ne
occupasse. L'incarico toccò a Gaio Menio, che scelse Marco Folio in
qualità di maestro di cavalleria. Quella magistratura metteva in grandissima
soggezione: perciò, spinti dalla paura o dalla consapevolezza della propria
colpa, i Calavii Ovio e Novio, i maggiori responsabili della congiura,
prima ancora di comparire di fronte al dittatore, evitarono il processo
togliendosi la vita (non vi fu dubbio che si trattasse di suicidio). Venuta meno la materia di indagine in
Campania, l'inchiesta si spostò a Roma, dove la si interpretò nel
senso che il senato avesse dato disposizione di indagare non solo sui
responsabili del complotto di Capua, ma più in generale su tutte
quelle persone che, in qualunque parte, avessero preso degli accordi privati o
congiurato contro lo Stato (di conseguenza anche le coalizioni
realizzate per ottenere incarichi politici risultavano ai danni dello Stato).
L'indagine era destinata a estendersi in relazione sia ai fatti indagati sia
agli inquisiti, e il dittatore non faceva nulla per impedire che il suo
diritto di inchiesta risultasse illimitato. Vennero così
incriminati alcuni esponenti del patriziato, il cui appello ai tribuni risultò
vano perché nessuno di essi volle intervenire contro le denunce a loro
carico. E allora l'intero corpo nobiliare - e non solo coloro contro
cui erano dirette le accuse - sostenne che quelle accuse non dovevano
essere rivolte ai patrizi (per i quali la via alle cariche non avrebbe
avuto ostacoli se le cose si fossero svolte senza brogli), ma agli uomini
nuovi: quanto al dittatore e al maestro di cavalleria, in relazione al
reato inquisito erano loro stessi più degni di fare da imputati
che da inquisitori, e se ne sarebbero resi conto non appena il loro mandato fosse
scaduto. Menio allora, preoccupandosi più
della propria rispettabilità che non della carica detenuta, prese la parola
di fronte all'assemblea e pronunciò questo discorso: «Voi tutti siete al
corrente dei miei trascorsi, Quiriti, e questa stessa carica che mi è
stata conferita è la prova inconfutabile della mia onestà. Infatti per
portare avanti un'inchiesta avete dovuto ricorrere, per avere un dittatore, non
a chi si fosse maggiormente distinto per valori militari (come in
altri casi in cui le esigenze del paese rendevano necessaria una scelta
di quel genere), bensì a chi avesse trascorso i suoi giorni il più
lontano possibile da quelle conventicole. Ma siccome alcuni esponenti della
nobiltà hanno prima cercato con ogni mezzo di mandare a monte l'inchiesta -
preferisco che il motivo lo giudichiate voi, piuttosto che ad
affermare una cosa non provata sia io nella mia qualità di magistrato
-, successivamente, non essendo riusciti nei propri intenti, e volendo evitare
di comparire in giudizio per difendersi, si sono ridotti all'arma
difensiva propria degli avversari, e cioè l'appello al popolo e il
veto dei tribuni. E alla fine, poiché anche in quella direzione la via era
sbarrata, ogni altra soluzione è sembrata loro più sicura che provare la
propria innocenza, al punto da lanciarsi addosso a noi, senza nemmeno
vergognarsi, da privati cittadini quali sono, di pretendere che sul banco degli
imputati salga il dittatore. E io, perché tutti, uomini e dèi,
sappiano che essi tentano anche l'impossibile, pur di non dover rendere conto della
propria condotta di vita, e che non mi oppongo all'accusa e mi offro ai
nemici in qualità di imputato, rinuncio alla dittatura. Vi prego,
consoli, se il senato vi affiderà l'incarico di portare avanti
l'inchiesta contro di me innanzitutto e contro Marco Folio, di fare in modo che
risulti in maniera evidente che a
tutelarci dalle accuse rivolte da queste persone non è stato il
rispetto per la carica che ricopriamo,
bensì la nostra innocenza». Poi rinunciò alla dittatura, e dopo di lui fu Folio
a deporre sùbito la carica di maestro di cavalleria. E dopo esser
stati sottoposti a processo per primi dai consoli (ai quali il senato aveva
affidato l'inchiesta), furono assolti in maniera onorevole, non
ostante le testimonianze contrarie dei nobili. Anche Publilio Filone, che in
passato aveva più volte ricoperto le più alte cariche per essersi
distinto in pace e in guerra, ma non aveva il favore della nobiltà, venne
processato e assolto. Ma come spesso accade, l'inchiesta relativa alle
personalità di maggiore spicco non andò oltre le fasi iniziali, spostandosi poi tra gli
strati subalterni della popolazione, fino a esser messa a
tacere dagli ambienti e dai circoli contro cui era stata istruita. 27 La notizia di questi eventi, ma
più ancora la speranza di una defezione della Campania (e il complotto era
stato ordito in questa direzione), fece di nuovo convergere su Caudio i Sanniti
diretti verso l'Apulia; si proponevano così di essere
più vicini a Capua e di tentare di strapparla ai Romani, nel caso in cui qualche
contrasto interno ne avesse offerto l'occasione. I consoli si diressero in
quella zona con un forte esercito. In un primo tempo i due schieramenti
indugiarono in prossimità delle gole, perché era un rischio per entrambi
marciare dritti contro il nemico. Poi i Sanniti, dopo una lieve diversione in
zone aperte, scesero verso la pianura, nelle terre campane, dove in
un primo tempo collocarono l'accampamento in vista del nemico, per
poi mettere reciprocamente alla prova le rispettive forze in scaramucce
di poco conto, più spesso ingaggiate dalla fanteria che dalla
cavalleria. Ai Romani non dispiaceva né l'esito di queste schermaglie né che
la guerra andasse per le lunghe. Ai comandanti sanniti sembrava invece
che le loro forze venissero ridotte dalle perdite quotidiane, che si
logorassero per il protrarsi del conflitto. Per questo uscirono allo scoperto
schierandosi in ordine di battaglia, e divisero la cavalleria disponendola
sulle due ali, con l'ordine di badare all'accampamento alle spalle piuttosto
che alla battaglia in corso (per evitare appunto un assalto nemico in
quella direzione). Per garantire saldezza al fronte avanzato dello
schieramento sarebbe bastata la fanteria. Dei due consoli, Sulpicio
occupò l'ala destra, Petelio la sinistra. Sulla destra i contingenti
vennero schierati con intervalli più ampi, perché anche i Sanniti avevano
disposto in quel settore i loro reparti in ordine più rado, vuoi
per aggirare il nemico, vuoi per non essere aggirati a loro volta. A
sinistra, oltre al fatto che le file erano già di per sé più
serrate, il console Petelio decise all'improvviso di aggiungere nuovi contingenti, mandando
sùbito in prima linea le coorti dei riservisti, che di norma venivano
mantenute integre per eventuali prolungamenti dello scontro. Impiegando
tutte le forze a disposizione, al primo urto, costrinse il nemico a
indietreggiare. Vedendo che le linee della fanteria stavano vacillando, i
cavalieri sanniti si fecero avanti subentrando nello scontro. Contro di
loro che avanzavano dai fianchi fra le due prime linee si lanciò la
cavalleria romana, seminando lo scompiglio tra i reparti e le file di fanti e
cavalieri, fino a mettere in rotta da quella parte l'intero fronte sannita.
All'ala sinistra era venuto a incitare le truppe non soltanto
Petelio, ma, udito l'urlo levatosi per primo da quella parte, anche Sulpicio,
che aveva lasciato i suoi uomini ancora inattivi. Quando constatò
che in quel settore la vittoria era ormai sicura, tornò verso la sua ala
con 1.200 uomini. Lì però trovò una situazione molto diversa, perché i
Romani erano stati costretti a indietreggiare e i nemici vittoriosi
incalzavano i suoi ormai allo sbando. Ma all'improvviso le cose cambiarono
radicalmente con l'arrivo del console: vedendo infatti il loro
comandante, i soldati ripresero coraggio, e poi il validissimo contingente
arrivato con lui costituì un supporto ben più massiccio di quanto il suo
numero non facesse prevedere. E quando infine udirono - e videro coi loro
occhi - che l'altra ala aveva avuto la meglio, rimisero in piedi le sorti
dello scontro. Ormai i Romani stavano prevalendo su tutta la linea e i
Sanniti, smesso il combattimento, vennero uccisi o fatti prigionieri, fatta
eccezione per quelli che ripararono a Malevento, la città che oggi si
chiama Benevento. Stando alla tradizione, 30.000 Sanniti sarebbero stati uccisi o
fatti prigionieri. 28 Dopo quella splendida vittoria, i
consoli guidarono sùbito l'esercito all'assedio di Boviano, dove si
accamparono per l'inverno, fino a quando assunse il comando delle truppe il
dittatore Gaio Petelio, eletto dai consoli Lucio Papirio Cursore e Gaio
Giunio Bubulco (rispettivamente al quinto e al secondo mandato), con Marco
Folio in qualità di maestro di cavalleria. Venuto a sapere che la
rocca di Fregelle era stata occupata dai Sanniti, il dittatore lasciò
Boviano e si mosse rapidamente in quella direzione. I Sanniti avevano
abbandonato la città nel corso della notte, e Fregelle fu ripresa senza scontro;
lasciatovi un forte presidio, il dittatore tornò in Campania,
determinato a riprendere Nola con le armi. Con l'avvicinarsi del dittatore, tutti
i Sanniti e gli abitanti della campagna di Nola si erano rifugiati
all'interno delle mura cittadine. Il dittatore, esaminata la posizione della
città, per avere più libero accesso alle fortificazioni, fece
incendiare tutti gli edifici che si trovavano addossati all'esterno delle
mura e nei quali vivevano moltissime persone. Nola fu presa in poco tempo:
secondo alcuni autori dal dittatore Petelio, secondo altri dal console Gaio
Giunio. Quelli che attribuiscono al console il merito della conquista di
Nola aggiungono che anche Atina e Calazia furono catturate dalla stessa
persona, e che a séguito di una pestilenza Petelio venne nominato
dittatore con il cómpito di piantare un chiodo. Nello stesso anno vennero fondate le
colonie di Suessa e di Ponzia. Suessa prima dipendeva dagli Aurunci, mentre
Ponzia, un'isola in vista della costa, era abitata da Volsci. Un
decreto del senato stabilì la deduzione di una colonia anche a Interamna
Sucasina. Però la nomina dei triumviri preposti e l'invio di 4.000 coloni
furono opera dei consoli dell'anno successivo, e cioè Marco Valerio
e Publio Decio. 29 Mentre la guerra con i Sanniti era
ormai avviata alla conclusione, prima ancora che il senato si fosse
liberato di quel pensiero, cominciò a circolare la voce di una guerra
scatenata dagli Etruschi. Galli a parte, in quel tempo non c'era nessun popolo
le cui armi facessero più paura, sia per la prossimità sia per il
numero. E così, mentre l'altro console portava a termine le ultime operazioni
belliche nel Sannio, Publio Decio, rimasto a Roma perché seriamente
ammalato, su proposta del senato nominò dittatore Gaio Giunio Bubulco.
Quest'ultimo, poiché la situazione era così critica da renderlo necessario,
bandì una leva militare di tutti i giovani, e provvide con estrema cura
alle armi e alle altre necessità del momento. Pur confortato da questa grande
disponibilità di mezzi, il dittatore non aveva l'intenzione di
muovere guerra per primo, ma, senza dubbio, di attendere che gli Etruschi
prendessero l'iniziativa. Senonché anche gli Etruschi si comportarono
nella stessa maniera, facendo grossi preparativi bellici ma rinunciando a
scatenarla. Di conseguenza nessuna delle due parti in causa uscì
dal proprio territorio. In quell'anno fu memorabile la censura
di Appio Claudio e Gaio Plauzio, anche se dei due il nome che rimase
più a lungo presso i posteri fu quello di Appio, in quanto fece costruire una
strada e l'acquedotto che porta l'acqua a Roma; queste opere le
portò a termine da solo, perché il collega, per colpa di una revisione
della lista dei senatori che aveva attirato dure critiche e risentimento
contro i censori, aveva ceduto alla vergogna rinunciando alla carica. Appio
allora, che dagli antenati aveva ereditato l'ostinazione tipica della
famiglia, esercitò la censura da solo. Per iniziativa dello stesso
Appio, la gens Potizia - cui in passato era riservato il culto dell'ara massima
di Ercole - aveva istituito servi pubblici per affidare loro l'incombenza
dei riti di quel culto. Stando a quanto si racconta, a séguito di questa
decisione si verificò un fatto prodigioso che arrivò a creare
scrupoli religiosi in quanti avessero voluto inserire delle innovazioni nei
riti sacri: mentre in quel periodo le famiglie facenti capo alla gens
Potizia erano dodici e comprendevano circa trenta uomini in età
adulta, prima della fine dell'anno tutti i suoi membri con la relativa discendenza
morirono. E non solo sparì il nome dei Potizi, ma alcuni anni dopo anche il
censore Appio venne privato della vista dagli dèi, memori di quel
fatto. 30 E così i consoli dell'anno
successivo, Gaio Giunio Bubulco per la terza volta e Quinto Emilio Barbula per la
seconda, appena entrati in carica si lamentarono di fronte al popolo del
fatto che il corpo dei senatori fosse stato deformato dalla pessima scelta
operata, in virtù della quale erano stati esclusi parecchi individui
migliori di quelli eletti, e si rifiutarono di garantire
validità alla lista dei nuovi membri del senato, dicendo che era stata stilata in base
al capriccio e alle amicizie personali, senza distinzione tra buoni
e cattivi; così convocarono immediatamente il senato attenendosi
all'elenco in vigore prima della censura di Appio Claudio e Gaio
Plauzio. Quell'anno vennero attribuite in base al voto del popolo due cariche di
natura militare: il primo provvedimento stabiliva l'elezione da
parte del popolo di sedici tribuni militari per quattro legioni, mentre in
precedenza i posti riservati ai candidati di nomina popolare erano
pochi, e l'assegnazione della carica era appannaggio quasi esclusivo di
dittatori e consoli. La proposta venne presentata dai tribuni della plebe
Lucio Atilio e Gaio Marcio. Il secondo provvedimento stabiliva invece che
spettasse al popolo nominare anche i duumviri navali, il cui cómpito era
quello di allestire la flotta e di organizzarne la manutenzione.
L'iniziativa di questo plebiscito fu del tribuno della plebe Marco Decio. In quel medesimo anno si
verificò un episodio di cui non parlerei perché privo di importanza, se non fosse che
sembrò toccare la sfera religiosa. I flautisti, indignati perché gli ultimi
censori avevano loro vietato di celebrare il tradizionale banchetto nel
tempio di Giove (usanza tramandata fin dai tempi antichi), si recarono in
massa a Tivoli, sicché a Roma non rimase nessuno in grado di accompagnare
con la musica i riti sacrificali. Il senato guar-dò alla cosa come
a un'irregolarità di natura religiosa, e inviò a Tivoli degli
ambasciatori con il cómpito di fare tutto il possibile per ricondurre a Roma i
suonatori. I Tiburtini garantirono il loro interessamento: in un primo tempo
convocarono i flautisti nella curia e li invitarono a rientrare a Roma; ma
poi, vedendo che non riuscivano a convincerli, li ingannarono ricorrendo
a un espediente del tutto appropriato alla natura di quelle
persone. In un giorno di festa i cittadini, chi in un modo chi in un
altro, invitarono i flautisti nelle loro case con il pretesto di rallegrare
il banchetto con la musica, e li fecero bere - i flautisti sono
solitamente molto amanti del vino -, finché si addormentarono. Così, immersi
nel sonno com'erano, li misero su dei carri e li riportarono a Roma. I
flautisti non si accorsero di nulla, se non quando la luce del giorno li
sorprese ancora in preda ai fumi dell'ebbrezza, sui carri abbandonati
nel Foro. L'afflusso di popolo che ci fu li convinse a rimanere. Fu loro
concesso di andare in giro per la città, tre giorni all'anno,
suonando ornati a festa, abbandonandosi a quel tipo di baldoria che è in uso
ancora oggi, e venne di nuovo assicurato il diritto di celebrare il banchetto nel
tempio di Giove a quanti accompagnavano i riti sacri con la
musica. Tutto questo avveniva nel pieno della preoccupazione per due grandi
guerre. 31 I consoli si divisero gli incarichi:
a Giunio toccò in sorte la spedizione contro i Sanniti, mentre a
Emilio la nuova guerra contro gli Etruschi. Nel Sannio la guarnigione
romana di Cluvie, dopo aver respinto un attacco nemico, poiché non era stato
possibile prenderla con la forza, una volta sottoposta ad assedio aveva
dovuto arrendersi per fame ai Sanniti; questi massacrarono a
bastonate e trucidarono i soldati già arresisi. Indignato per questa
crudeltà, e ormai convinto che l'attacco contro Cluvie fosse la più
urgente delle cose da farsi, quello stesso giorno Giunio assalì le mura
della città e la catturò uccidendo tutti gli adulti. Di lì l'esercito
vittorioso venne trasferito a Boviano, capitale dei Sanniti Pentri e città
ricchissima, anche di armi e di uomini. Non essendoci motivo di particolare
risentimento, i soldati si impossessarono della città per la speranza di
razziare del bottino. Fu per questo che infierirono meno sui nemici, portando
via però un bottino quasi più cospicuo di quanto non ne avessero
rastrellato in tutto il Sannio; il console generosamente lo concesse tutto
agli uomini. Poiché allo strapotere militare dei
Romani non riuscivano a resistere né gli eserciti, né gli accampamenti
fortificati, né le città, i pensieri di tutti i comandanti sanniti si concentrarono
a individuare un punto propizio per un agguato, se per caso
fossero riusciti a sorprendere l'esercito romano intento alle sue
razzie. Alcuni contadini che avevano disertato o erano stati fatti
prigionieri, giunti tra i Romani in parte per puro caso e in parte per una
precisa scelta, si trovarono d'accordo nel riferire al console (e per altro la
cosa corrispondeva a verità) che una grande quantità di bestiame
era stata concentrata in un impervio passo sulle montagne, e così convinsero
il console a portate in quel punto le legioni armate alla leggera,
nell'intento di fare del bottino. Lì, in prossimità dei sentieri, si era
andato a nascondere un forte contingente nemico che, sbucando fuori quando vide
i Romani entrare nel passo, li assalì all'improvviso con urla e
grande frastuono. Sulle prime la sorpresa seminò il panico fra i Romani,
che afferravano le armi e accatastavano i bagagli nel mezzo della strada. Poi
però, mano a mano che ciascun uomo si liberava del carico e si armava, da
ogni parte i soldati accorrevano alle proprie insegne e l'esercito, senza
bisogno di ordini, prese a schierarsi secondo l'ordine ben noto per la lunga
esperienza di guerra. E il console, precipitatosi nel punto in cui la
battaglia era più accesa, saltò giù da cavallo e chiamò Giove, Marte e
gli altri dèi a testimoni di essere venuto su quel passo non tanto per cercare
gloria individuale, quanto bottino per gli uomini, e di non poter essere
biasimato di nient'altro se non dell'eccessivo desiderio di fare
arricchire i soldati romani ai danni del nemico. Ma in quel momento la sola cosa
che lo potesse salvare dal disonore era il valore delle truppe.
Che dunque si unissero tutti in uno sforzo comune per gettarsi su un nemico
già superato sul campo di battaglia, già privato del suo
accampamento, delle città, e che tentava il tutto per tutto con quell'indegno
espediente, affidandosi al luogo e non certo alle armi. Ma quale luogo, ormai,
era inespugnabile per il valore romano? Bastava ricordare le rocche di
Fregelle e di Sora, e tutti i successi ottenuti in zone sfavorevoli. Esaltati da queste parole, gli uomini -
dimentichi di tutte le difficoltà - si riversarono sulla schiera nemica
che si trovava in posizione sopraelevata. Sulle prime dovettero
faticare molto per risalire la china. Ma poi, non appena i primi manipoli
ebbero raggiunto la sommità del crinale e l'esercito si sentì
saldamente piazzato su un'area pianeggiante, la paura si rivolse sùbito
contro i responsabili dell'agguato i quali, liberandosi delle armi e fuggendo in
tutte le direzioni, cercarono scampo in quegli stessi anfratti che prima
erano loro serviti da nascondigli. Ma la conformazione accidentata del
terreno, scelta apposta per creare problemi al nemico, andava adesso a
loro discapito, impedendone i movimenti. Di conseguenza furono pochi
quelli che riuscirono a salvarsi: vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i
Romani reduci dal trionfo si sparsero nei dintorni a fare razzia del
bestiame offerto loro dal nemico in persona. 32 Mentre nel Sannio succedevano queste
cose, ormai tutti i popoli dell'Etruria - fatta eccezione per gli
abitanti di Arezzo - erano corsi alle armi, scatenando, con l'assedio di
Sutri, città alleata dei Romani e sorta di ingresso dell'Etruria, una
guerra di grosse proporzioni. Il console Emilio con un esercito si mosse
in quella direzione per liberare gli alleati dall'assedio. All'arrivo
dei Romani, gli abitanti di Sutri portarono una grande quantità di
vettovaglie nell'accampamento davanti alla città. Gli Etruschi spesero
il primo giorno discutendo se accelerare o tirare in lungo la guerra. All'alba
del giorno successivo, visto che i comandanti avevano deciso di optare per
la soluzione più rapida anziché per la più sicura, diedero il
segnale di battaglia e, armatisi, scesero in campo. Informato, il console fece
immediatamente diffondere tra gli uomini l'ordine di mangiare, e di armarsi
sùbito dopo essersi rimessi in forze. Una volta eseguiti gli ordini, il
console, non appena li vide pronti e con le armi in pugno, fece uscire
l'esercito fuori dalla trincea e lo schierò in ordine di battaglia non lontano dai
nemici. Per qualche tempo entrambe le parti si studiarono, nell'attesa che
l'avversario alzasse per primo il grido di guerra e desse inizio alla
battaglia. Ma mezzogiorno passò senza che da una parte e dall'altra venisse
lanciata una sola freccia. Poi gli Etruschi, per non doversi ritirare
senza risultato, levarono il grido di battaglia e si lanciarono all'assalto
al suono delle trombe. Ma anche i Romani si gettarono nella mischia con
non minore determinazione. Si scontrarono con estrema animosità:
se i nemici erano numericamente superiori, i Romani sopravanzavano per
coraggio, e l'incertezza dello scontro fece molte vittime da entrambe
le parti; caddero tutti i più forti in campo. La situazione rimase in
bilico finché la seconda linea romana non diede il cambio alla prima, con gli
uomini freschi al posto di quelli ormai provati. Gli Etruschi, poiché non
avevano a disposizione riservisti freschi a supporto della prima linea,
caddero in massa davanti e intorno alle loro insegne. In nessun'altra
battaglia la strage sarebbe stata più impressionante e più esiguo il
numero dei fuggiaschi, se il buio non avesse protetto gli Etruschi, la cui
ostinazione a combattere era tanta che i vincitori abbandonarono la
battaglia prima dei vinti. Dopo il tramonto venne dato il segnale della
ritirata, e nella notte i due eserciti fecero rientro ai rispettivi
accampamenti. Nella parte residua dell'anno, presso
Sutri non accadde nulla che fosse degno di essere ricordato, perché
l'intera prima linea dell'armata nemica era stata distrutta in quell'unica
battaglia, e agli Etruschi rimanevano solo i riservisti, appena sufficienti
per difendere l'accampamento. Ma anche da parte romana i feriti furono
molti, al punto che i morti a séguito di ferite contratte furono
più numerosi dei caduti in battaglia. 33 Quinto Fabio, console l'anno
successivo, assunse il comando delle operazioni sotto Sutri. Suo collega fu
Gaio Marcio Rutilo. Fabio portò anche rinforzi da Roma, mentre per gli
Etruschi arrivò un nuovo esercito dalle loro terre. Era già da molti anni che tra
magistrati patrizi e tribuni della plebe non c'erano motivi di contrasto, quand'ecco
che un attrito venne causato dalla famiglia cui sembrava fosse toccato in
sorte il destino di essere in perenne lite con i tribuni e con la
plebe. Il censore Appio Claudio, a diciotto mesi di distanza dalla fine
del suo mandato (era l'arco di tempo previsto dalla legge Emilia), benché il
suo collega Gaio Plauzio avesse rinunciato alla magistratura, non si
lasciò convincere da alcun tipo di pressione a fare altrettanto. Tribuno della
plebe era Publio Sempronio, il quale aveva intrapreso un'azione legale
per far sì che alla censura venisse posto termine entro il limite
cronologico previsto dalla norma, azione non meno popolare che giusta, e
non meno gradita al popolo che ai patrizi. Il tribuno, dopo aver letto e
riletto la legge Emilia e aver elogiato il dittatore Mamerco Emilio
che l'aveva presentata, perché aveva ridotto a diciotto mesi il limite della
censura prima quinquennale, diminuendo così l'eccesso di
potere che la lunga durata conferiva a quella magistratura, così parlò:
«Ebbene, Appio Claudio, dimmi che cosa avresti fatto se tu fossi stato censore quando
lo furono Gaio Furio e Marco Geganio?». Appio rispose che la domanda
del tribuno non aveva troppa pertinenza col suo caso: infatti anche
se la legge Emilia aveva colpito i censori durante il cui mandato essa era
stata promulgata, poiché il popolo aveva approvato la legge dopo l'elezione
di quei censori (e la volontà espressa dal popolo ha valore di
legge), ciò non ostante né lui né chiunque altro fosse stato nominato
censore dopo l'approvazione di quella legge poteva esser tenuto a
rispettarla. 34 Mentre Appio Claudio ricorreva a
questi cavilli, senza tuttavia trovare alcuno che lo sostenesse, Sempronio
disse: «Ecco a voi, Quiriti, un discendente di quell'Appio che, eletto
decemviro per un anno, l'anno successivo si nominò da solo, e
nel corso del terzo anno - pur non essendo stato nominato né da se stesso né da
alcun altro - mantenne le insegne del potere anche come privato cittadino, e
abbandonò la carica soltanto quando fu travolto da un potere male acquisito,
mal gestito e mal conserva-to. Questa è la stessa famiglia che
a forza di violenze e di soprusi vi spinse, esuli dalla terra natia, a
ritirarvi sul monte Sacro. La stessa contro la quale voi vi siete tutelati
creando l'intercessione dei tribuni. La stessa per colpa della quale due
vostri eserciti sono andati ad accamparsi sull'Aventino, la stessa che
si è sempre schierata contro le leggi sul tasso di interesse e le leggi
agrarie. È stata questa famiglia a opporsi ai matrimoni tra patrizi e
plebei, e a sbarrare alla plebe la strada alle magistrature curuli: per la
vostra libertà questo è un nome molto più pericoloso di quello
dei Tarquini. Dunque, Appio Claudio, pur essendo già trascorsi cento anni
dalla dittatura di Mamerco Emilio, dei tanti censori che ci sono stati -
uomini tra i più nobili e validi -, possibile che nessuno di loro abbia
letto le XII tavole? Che nessuno di loro fosse al corrente che l'ultima
deliberazione presa dal popolo ha valore di legge? A essere sinceri lo
sapevano tutti, e proprio per questo hanno obbedito alla legge Emilia
piuttosto che a quella in virtù della quale vennero nominati i primi censori,
perché era questa l'ultima approvata dal popolo, e poi perché, nel
caso di due leggi in contrasto, è sempre la nuova ad abrogare la vecchia. Oppure sostieni, o Appio, che il popolo
non è tenuto a rispettare la legge Emilia? O che il popolo è tenuto
a farlo, mentre tu sei il solo a esserne esentato? La legge Emilia
vincolò quei censori violenti, Gaio Furio e Marco Geganio, i quali dimostrarono
quale sia il danno potenzialmente arrecabile allo Stato da quella
magistratura, nel momento in cui, volendosi vendicare della limitazione
imposta alla loro autorità, retrocedettero nell'ultima classe
Mamerco Emilio, l'uomo migliore del suo tempo in pace e in guerra. Quella legge
ha poi vincolato cento anni di censori, e adesso è un vincolo
per il tuo collega Gaio Plauzio, eletto in base ai tuoi stessi auspici e dotato
dei tuoi stessi diritti. Oppure il popolo non lo ha eletto censore con
pieni diritti? Sei tu la sola eccezione, e vale soltanto per te
questo bizzarro e unico privilegio? Ma allora quale re dei sacrifici
nomineresti? Visto che ha il nome di re, potrà credere di essere nominato
re di Roma con pieni diritti? A chi pensi che basterà una dittatura di sei
mesi o un interregno di cinque giorni? Chi avrai il coraggio di eleggere
dittatore solo per piantare un chiodo o per far svolgere i giochi? Come devono
sembrare stupidi e insensati a quest'uomo coloro che, compiute gesta
memorabili, rinunciarono alla dittatura a venti giorni dalla nomina,
o quelli che rinunciarono all'incarico per essere stati eletti in
maniera irregolare! Ma perché andare a frugare nel passato? Di
recente, circa dieci anni or sono, il dittatore Gaio Menio, mentre stava
conducendo un'inchiesta con un rigore eccessivo per la sicurezza di taluni
potenti, accusato dai propri nemici dello stesso reato sul quale stava
indagando, rinunciò alla dittatura per poter affrontare l'accusa nelle vesti
di privato cittadino. Da te non pretendo certo una simile misura, ma
non voglio nemmeno che tu finisca per tralignare da una famiglia superba e
arrogante quanto nessun'altra: non abbandonare la tua carica un solo
giorno e una sola ora prima del dovuto, lìmitati soltanto a non superare
il termine previsto. Ti è sufficiente aggiungere alla censura un giorno o un
mese? "Terrò la censura" replichi tu "tre anni e sei mesi più
del limite concesso dalla legge Emilia, e lo farò da solo". Ma questo
sì che è come essere re! Oppure nominerai al posto di Plauzio un
altro collega, quando non è consentito sostituire nemmeno un
censore defunto? Non ti rimorde, o meticoloso censore pieno di scrupoli,
di aver sottratto un rito antichissimo - il solo istituito di
persona dal dio in onore del quale viene celebrato - ai nobilissimi
sacerdoti di quel culto, per affidarlo a servi dello Stato, e di vedere una
famiglia più antica delle origini di questa città, sacra per aver
offerto ospitalità agli dèi immortali, estinguersi sin nelle radici nell'arco
di un anno e solo per colpa tua e della tua censura? No, tu vuoi
contaminare la repubblica tutta con quell'istinto criminoso che la mia
mente inorridisce anche solo a nominare! Roma finì in mano
nemica in quel lustro durante il quale, morto il censore Gaio Giulio, il collega
Lucio Papirio Cursore, per non rinunciare alla carica, nominò
al suo posto Marco Cornelio Maluginense. E quanto più misurata fu la sua
ambizione, Appio! Infatti Lucio Papirio non detenne la censura da solo né oltre i
termini consentiti dalla legge. Eppure non trovò nessuno che in
séguito si uniformasse alla sua iniziativa: col passare del tempo,
tutti i censori rinunciarono alla carica dopo la morte del collega. Tu
non ti fai trattenere né dalla scadenza del termine prefissato per la
censura, né dalle dimissioni del collega e neppure dalla legge e dalla
vergogna. Tu ritieni che l'arroganza sia una virtù, e così la
sfrontatezza e il disprezzo degli dèi e degli uomini. Per la maestà e il rispetto
dovuto alla magistratura che hai detenuto, Appio Claudio, vorrei non solo evitare
di arrivare alla violenza, ma anche di rivolgerti una sola parola meno che
riguardosa. La tua caparbietà e la tua arroganza mi hanno però
costretto a usare le parole che hai appena sentito, e se non ti atterrai alla
legge Emilia, darò ordine di farti arrestare. E siccome i nostri avi hanno
stabilito che, nelle elezioni a censore, se due candidati non hanno
raggiunto il tetto di voti previsto dalla legge, si ripeta la votazione,
senza però nominare censore il solo candidato che abbia raggiunto il tetto
di voti previsto, dato che tu non puoi nominarti censore da solo, adesso
io non permetterò che tu eserciti da solo la censura». Pronunciato questo
discorso, ordinò di arrestare e imprigionare Appio. Mentre sei dei
tribuni approvarono l'azione proposta dal collega, furono in tre a
intercedere per Appio il quale aveva fatto ricorso all'appello. E così egli
tenne da solo la censura, tra il disprezzo di tutte le classi di
cittadini. 35 Mentre a Roma si verificavano questi
fatti, Sutri era stretta d'assedio dagli Etruschi, e il console Fabio, che
stava guidando l'esercito lungo le pendici dei monti Cimini per portare
aiuto agli alleati e attaccare i dispositivi di difesa dei nemici, se
avesse trovato qualche passaggio praticabile, si imbatté nell'esercito
etrusco schierato in ordine di battaglia. L'ampia pianura sottostante
gli permetteva di constatare che le
forze del nemico erano cospicue, e cercando di sopperire
all'inferiorità numerica dei suoi con la posizione
occupata, fece loro deviare leggermente la marcia, in modo tale da farli
risalire lungo il declivio (che era scosceso e coperto di massi); quindi
rivolse il fronte contro il nemico. E gli Etruschi, non pensando ad altro che
alla loro superiorità numerica, nella quale avevano una cieca fiducia,
si buttarono nella mischia con una foga e una impazienza tali che, per
arrivare il più in fretta possibile al corpo a corpo, gettarono a terra le
aste e avanzarono contro gli avversari con le spade sguainate. I Romani,
invece, non smettevano di scagliare verso il basso tanto i loro giavellotti
quanto i sassi, arma questa offerta in abbondanza dal luogo.
Pertanto per gli Etruschi non era facile arrivare al corpo a corpo perché, anche
quando non venivano feriti, rimanevano storditi dai colpi che
piovevano sugli elmi e sugli scudi, e non avevano armi da lancio con le quali
affrontare il combattimento a distanza. E mentre restavano fermi,
esposti ai colpi, senza che ormai nulla li potesse più proteggere,
e alcuni cominciavano a ritornare sui propri passi, gli hastati e i
principes, levando di nuovo il grido di battaglia, si lanciarono con le spade
in pugno contro quella massa instabile e ondeggiante. Gli Etruschi
non ressero l'urto, e voltate le spalle fuggirono disordinatamente in direzione
dell'accampamento. Ma i cavalieri romani attraversarono la
pianura in diagonale, andando a sbarrare la strada ai fuggitivi, che,
rinunciando a raggiungere l'accampamento, ripiegarono verso i
monti. Di lì, quasi disarmati e ridotti a mal partito dalle ferite, si
rifugiarono nella selva Ciminia. I Romani, dopo aver massacrato parecchie
migliaia di Etruschi e aver loro sottratto trentotto insegne militari,
si impadronirono anche dell'accampamento nemico,
raccogliendovi un grosso bottino. Fu allora che si iniziò a pensare al modo di
dare la caccia al nemico. 36 In quel tempo la selva Ciminia era
più impervia e spaventosa di quanto non siano di recente sembrate le
foreste della Germania, e fino ad allora non l'aveva mai attraversata nessuno,
nemmeno dei mercanti. E quasi nessuno, fatta eccezione per il
comandante in persona, aveva il coraggio di addentrarvisi: in tutti gli altri
era ancora vivo il ricordo della disfatta di Caudio. Allora, tra i
presenti, il fratello del console Marco Fabio (altri sostengono si chiamasse
Cesone, altri ancora Gaio Claudio, indicandolo come fratello del console
soltanto per parte di madre) disse che sarebbe andato in avanscoperta e
che di lì a poco avrebbe riportato notizie sicure. Cresciuto a Cere presso
suoi ospiti, aveva avuto un'istruzione a base di lettere
etrusche e parlava bene l'etrusco. Secondo alcuni autori, come adesso si ha
l'abitudine di istruire i ragazzi romani nelle lettere greche, allo stesso modo
in quel tempo li si istruiva in quelle etrusche. Ma è più
vicino alla verità il fatto che l'uomo che andò a mescolarsi tra i nemici con una
messinscena tanto temeraria avesse già avuto qualche esperienza in tal senso.
A quanto sembra fu accompagnato soltanto da uno schiavo, che era
cresciuto con lui e quindi aveva una certa competenza in quella stessa
lingua. Prima di partire, dell'area in cui stavano per addentrarsi non avevano
alcuna cognizione, se non qualche sommario ragguaglio circa la natura del
luogo e i nomi dei capi delle varie popolazioni, sui quali avevano
preso informazioni per evitare di essere smascherati da esitazioni su
fatti risaputi. Partirono vestiti da pastori, con addosso armi da campagna,
una falce e due spiedi a testa. Ma a proteggerli non furono tanto la
conoscenza della lingua né il tipo di armi o di vesti, quanto piuttosto il
fatto che nessuno si potesse immaginare uno straniero addentratosi
nella selva Ciminia. Pare siano arrivati fino agli Umbri Camerti.
Lì Fabio ebbe il coraggio di rivelare la loro identità e, introdotto nel
senato locale, a nome del console propose di stipulare un trattato di amicizia e
di alleanza. Gli riservarono una generosa ospitalità, e lo
pregarono di riferire ai Romani che, se il loro esercito si fosse spinto in quella
zona, avrebbe avuto a disposizione cibo per trenta giorni, e che la
gioventù degli Umbri Camerti sarebbe stata pronta a prendere le armi agli ordini
dei Romani. Quando queste cose vennero riferite al
console, alle prime luci della sera, mandati avanti gli uomini con i
bagagli, diede ordine alla fanteria di seguirli. Egli rimase fermo con la
cavalleria e alle prime luci del giorno successivo passò a
cavallo di fronte ai posti di guardia nemici collocati al di fuori del bosco. Dopo
aver impegnato per qualche tempo i nemici, rientrò all'accampamento
e uscendo dalla porta opposta raggiunse la fanteria prima del buio. All'alba
del giorno dopo aveva già raggiunto le cime dei monti Cimini. E dopo aver
contemplato da quel punto le ricche terre d'Etruria, inviò i suoi
uomini a metterle a ferro e fuoco. E i Romani avevano già raccolto un
bel bottino, quando si trovarono di fronte squadre raccogliticce di contadini
etruschi formate in tutta fretta dai capi della zona, ma in maniera così
disordinata, che quanti erano venuti a riprendersi la preda per poco non
finirono essi stessi oggetto di preda. Dopo aver eliminato o messo in fuga i
nemici, e dopo aver razziato in lungo e in largo le campagne, i Romani
rientrarono al campo in trionfo e carichi di ogni avere. Lì erano
arrivati casualmente cinque delegati e due tribuni della plebe per comunicare a
Fabio l'ordine del senato di non attraversare la selva Ciminia. Felicitatisi
per essere arrivati troppo tardi per impedire lo scoppio della
guerra, rientrarono a Roma ad annunciare la vittoria. 37 Invece di porre termine alla guerra,
questa spedizione del console ne aveva ampliato il raggio: infatti le
genti che abitavano ai piedi dei monti Cimini erano state gravemente
danneggiate dalle incursioni romane, e avevano contagiato con il loro
risentimento non solo i popoli dell'Etruria, ma anche quelli
confinanti dell'Umbria. Per questo motivo misero insieme nei pressi di Sutri un
esercito più numeroso di quanto non avessero mai fatto prima, e non si
limitarono soltanto a trasferire l'accampamento al di là della
selva ma, per l'impazienza di arrivare allo scontro, portarono anche l'esercito
nella pianura. Poi, schieratisi in ordine di battaglia, in un primo tempo
rimasero fermi sulle loro posizioni, lasciando ai Romani lo
spazio necessario per disporsi di fronte. Vedendo però che i
nemici si rifiutavano di venire a battaglia, si presentarono sotto la trincea. Quando
poi si resero conto che anche le postazioni più avanzate erano
state ritirate all'interno delle fortificazioni, si levò
sùbito dalle file un urlo rivolto ai comandanti, col quale chiedevano venissero loro
portati dall'accampamento i viveri per quel giorno. Sarebbero rimasti
lì con le armi in pugno, e nel corso della notte - o, al più tardi, alle
prime luci del giorno - avrebbero attaccato il campo nemico. L'esercito romano, pur
essendo certo non meno impaziente, venne trattenuto sul posto dalle
disposizioni del comandante. Erano più o meno le quattro del pomeriggio, quando
il console ordinò ai soldati di consumare il rancio, e li avvisò
di farsi trovare armati, in qualunque ora del giorno o della notte egli avesse
dato il segnale di attacco. Rivolse un breve discorso alle truppe,
esaltando le guerre contro i Sanniti, sminuendo gli Etruschi, e sostenendo
che i due nemici non erano da mettere sullo stesso piano né per valore né per
numero di effettivi. Aggiunse poi che vi era un'altra arma segreta che
avrebbero conosciuto a tempo debito, ma che per il momento era necessario
rimanesse nascosta. Con questi accenni sibillini voleva alludere al
fatto che i nemici erano minacciati alle spalle, e lo faceva per confortare
il morale dei soldati, spaventati dalla grande quantità dei
nemici. La messinscena era resa più verosimile dal fatto che il nemico aveva preso
posizione senza però costruire dispositivi di difesa. Dopo aver ridato vigore ai corpi col
rancio, si lasciarono andare al sonno. Furono svegliati verso le quattro
del mattino e presero le armi senza fare rumore. Ai portatori vennero
distribuite le asce per abbattere il terrapieno e riempire le fosse.
L'esercito venne schierato al di qua delle fortificazioni, mentre le coorti
scelte furono piazzate alle uscite delle porte. Avendo poi ricevuto il
segnale poco prima dell'alba - ovvero l'ora che nelle notti d'estate è
più propizia al sonno intenso -, l'esercito abbatté il terrapieno e
saltò fuori, assalendo i nemici coricati in maniera disordinata. La
morte ne sorprese alcuni del tutto immobili, altri mezzo addormentati nei
loro giacigli, e la maggior parte mentre cercava affannosamente di
prendere le armi. Soltanto a pochi venne lasciato il tempo di armarsi: ma anche
questi, non avendo insegne da seguire e comandanti cui obbedire,
vennero sbaragliati, messi in fuga e inseguiti. Disseminati in tutte le
direzioni, tentarono di raggiungere l'accampamento o il fitto della
boscaglia. E furono proprio le selve a offrire un rifugio più sicuro,
perché l'accampamento situato in aperta campagna venne catturato nel corso di
quello stesso giorno. L'ordine fu di consegnare oro e argento al console,
mentre tutto il resto venne lasciato ai soldati. Quel giorno furono uccisi o
fatti prigionieri 60.000 nemici. Alcuni autori sostengono che questa
battaglia tanto gloriosa fu combattuta al di là della selva Ciminia nei
pressi di Perugia, e che a Roma si stette in grande ansia, per paura che
l'esercito tagliato fuori da quel bosco impraticabile che faceva da barriera
venisse sopraffatto dagli Etruschi e dagli Umbri insorti da ogni parte. Ma
in qualunque punto sia avvenuta la battaglia, è certo che a vincere
furono i Romani. Da Perugia, Cortona e Arezzo, che a quell'epoca erano le
città più in vista di tutto il mondo etrusco, arrivarono ambasciatori con
richieste di pace e alleanza rivolte ai Romani. Venne loro concessa una
tregua di trent'anni. 38 Mentre in Etruria erano in corso
questi avvenimenti, l'altro console Gaio Marcio Rutilo strappò ai
Sanniti la città di Alife conquistandola con la forza. Molte altre fortezze e
villaggi vennero conquistati e distrutti oppure finirono in mano ai Romani
ancora del tutto integri. Nel contempo la flotta romana, pilotata
verso la Campania da Publio Cornelio, cui il senato aveva affidato
il cómpito di vigilare sulle coste, sbarcò a Pompei, e di lì
i contingenti della marina forniti dagli alleati puntarono su Nocera per saccheggiarne
il territorio. Dopo fulminee razzie nelle zone dei dintorni, da dove era
più facile rientrare alle navi, attirati - come spesso accade - dalla
sete di fare bottino, si spinsero troppo nell'interno, attirandosi
addosso i nemici. Per tutto il tempo che rimasero disseminati per la campagna,
dove avrebbero potuto essere fatti a pezzi dal primo all'ultimo, per fortuna
non si imbatterono in nessuno. Invece, proprio mentre tornavano sui
loro passi marciando senza alcuna precauzione, vennero raggiunti non
lontano dalle navi dai villici della zona che si ripresero il bottino,
uccidendone anche un certo numero. Il manipolo disordinato dei superstiti si
rifugiò sulle navi in preda al panico. La notizia che Quinto Fabio si era
addentrato nella selva Ciminia, così come aveva tenuto Roma in apprensione,
allo stesso modo era stata motivo di tripudio per i Sanniti, per i quali
era come se l'esercito romano, tagliato fuori dalla patria, si
trovasse in stato d'assedio: per i Romani si profilava una disfatta pari a quella
delle Forche Caudine. Quella gente, perennemente avida di nuove
conquiste, era stata spinta dalla temerarietà di sempre in quelle
regioni inospitali, dove adesso era circondata dall'impraticabilità
dei luoghi più che dalle armi nemiche. Ma la gioia si mescolava già con una
certa quale invidia, perché la sorte aveva trasferito dai Sanniti agli
Etruschi l'onore della guerra contro Roma. Per questo, dopo aver raccolto
uomini e armi, si misero in movimento per schiacciare il console Gaio Marcio,
e se quest'ultimo non avesse accettato di dare battaglia, avevano
intenzione di trasferirsi immediatamente in Etruria passando
attraverso i territori dei Marsi e dei Sabini. Il console li andò ad
affrontare, e lo scontro dall'esito incerto che ne seguì fu durissimo. Benché
entrambe le parti avessero avuto perdite ugualmente gravi, tuttavia la voce
comune attribuì ai Romani la sconfitta, perché avevano perso degli uomini di
rango equestre, alcuni tribuni militari, un luogotenente e -
ciò che aveva suscitato maggiore scalpore - era rimasto ferito addirittura il
console. Poiché le voci avevano ingigantito la
sconfitta, come sempre succede, i senatori vennero presi dal panico al
punto da voler nominare un dittatore, e nessuno aveva dubbi sul fatto che la
scelta sarebbe caduta su Papirio Cursore, considerato il miglior
generale del suo tempo. Però non si era sicuri di poter fare arrivare la
notizia nel Sannio, dato che tutta la regione pullulava di nemici, né si era al
corrente se il console Marcio fosse ancora vivo. L'altro console,
poi, era un nemico personale di Papirio. Per evitare che questo attrito
andasse a discapito degli interessi dello Stato, il senato decise
di mandare a Fabio una delegazione composta di ex consoli, i quali,
avvalendosi del proprio prestigio personale, oltre che
dell'autorità conferita loro dallo Stato, lo convincessero a dimenticare la
rivalità di un tempo in nome del bene della patria. Quando gli ambasciatori
arrivati al cospetto di Fabio gli ebbero comunicato la decisione del senato,
descrivendola con parole all'altezza dell'incarico ricevuto, il console
abbassò gli occhi a terra e si
allontanò silenzioso dai delegati, che non avevano idea di che
decisione avrebbe potuto prendere. Poi, nel
silenzio della notte (come tradizione vuole), nominò dittatore Lucio
Papirio. Quando gli inviati lo ringraziarono per aver piegato al
meglio la propria disposizione d'animo, Fabio rimase ostinatamente in silenzio,
e senza fornire risposta o commenti al suo gesto, licenziò
gli inviati, perché fosse chiaro che grande dolore il suo animo stesse
soffocando. Papirio scelse come maestro di cavalleria
Gaio Giunio Bubulco. Mentre era impegnato a presentare ai comizi
curiati la legge che gli conferiva l'autorità, venne costretto a
rimandare il rituale da un presagio di cattivo augurio. La votazione, infatti,
era iniziata dalla curia Faucia, celebre per due disastri, e cioè
la presa di Roma e la pace di Caudio: ora, in entrambi gli anni in cui quei
fatti si erano verificati, la sorte aveva affidato alla stessa curia il cómpito
di avviare la votazione. Licinio Macro aggiunge che quella curia
era di cattivo augurio anche per una terza disfatta, ovvero quella
subita nei pressi del Cremera. 39 Il giorno successivo, rinnovati gli
auspici, il dittatore fece approvare la legge. Partito da Roma con
le legioni appena arruolate sull'onda del panico generato dalla
notizia che l'esercito aveva superato la selva Ciminia, giunse nei pressi di
Longula. Ricevute dal console Marcio le legioni già in
servizio, schierò i suoi in ordine di battaglia. E i nemici non parvero riluttanti
all'idea di combattere. Quando le due parti erano già schierate e con
le armi in pugno, senza però che nessuna delle due volesse iniziare il
combattimento, vennero sorprese dal calar della notte. Rimasti inattivi per
qualche tempo da quel momento in poi, pur non mancando di fiducia nei propri
mezzi né sottovalutando il nemico, i due contendenti collocarono i
rispettivi accampamenti fissi a breve distanza l'uno dall'altro. Anche contro gli Umbri i Romani si
misurarono in campo aperto: i nemici furono messi in fuga, subendo
però poche perdite, perché non resistettero a lungo allo scontro, nel quale si
erano lanciati con estremo accanimento. Anche gli Etruschi, arruolato con una
legge sacrata un esercito, nel quale ogni uomo si sceglieva un altro uomo,
si scontrarono presso il lago di Vadimone, con uno spiegamento di forze
e un accanimento mai visti in passato. La battaglia venne combattuta
con un furore tale, che nessuno dei due contendenti arrivò a
scagliare le armi da lancio. Lo scontro iniziato con le spade divenne via via sempre
più acre, mantenendosi a lungo nell'incertezza, al punto che i Romani
non avevano l'impressione di combattere contro gli Etruschi
già sconfitti tante altre volte, ma contro qualche popolo nuovo. Nessuna delle due
parti accennava alla fuga: gli uomini della prima linea crollarono e,
per evitare che i reparti restassero privi di copertura, la
seconda fila rimpiazzò la prima. Poi vennero chiamati allo scontro anche gli
ultimi riservisti. E la situazione arrivò a essere talmente critica,
che i cavalieri romani, scendendo da cavallo, raggiunsero le prime file di
fanti avanzando tra le armi e i corpi dei caduti. Entrati in campo,
come un esercito fresco, in mezzo a uomini stanchi, gettarono lo scompiglio
tra le linee etrusche. Seguendo poi il loro slancio, il resto delle
truppe, pur allo stremo delle forze, riuscì finalmente a prevalere
sullo schieramento nemico. Allora la tenacia degli Etruschi cominciò a cedere
e alcuni manipoli presero a indietreggiare, dandosi
inequivocabilmente alla fuga non appena ebbero voltato le spalle. Quel giorno venne
spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi
antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con
quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento
saccheggiandolo. 40 Poco tempo dopo i Romani corsero un
pericolo analogo, riportando però un successo altrettanto netto contro i
Sanniti i quali, oltre agli altri preparativi militari, avevano fatto
sì che le loro armate fossero più splendenti grazie a una nuova e
brillante armatura. Gli eserciti erano due: uno aveva lo scudo cesellato in
oro, l'altro in argento. La forma dello scudo era questa: più
largo in alto per coprire il petto e le spalle, il bordo livellato e, sul
fondo, fatto a cuneo per renderlo più maneggevole. A protezione del torace
avevano una corazza spugnosa, mentre per la gamba sinistra c'era uno schiniere.
Gli elmi erano dotati di cresta, per accrescere l'imponenza
delle persone. Le tuniche dei soldati provvisti di scudo dorato erano di
varie tinte, mentre quelle dei soldati con lo scudo d'argento erano di lino
bianchissimo. Ai primi venne affidata l'ala sinistra, ai secondi la destra.
Ma i Romani erano già stati informati di quell'armatura splendente,
e i comandanti avevano ricordato loro che il soldato deve avere un
aspetto rude, non avere addosso armi
cesellate d'oro e d'argento, ma confidare nella propria spada e nel proprio valore. A essere sinceri, non
armi erano quelle, ma futuro bottino: brillanti prima dello scontro,
segno di infamia tra il sangue e le ferite. Il valore era l'ornamento
dei soldati: tutto quel prezioso splendore sarebbe stato il séguito
della vittoria, e un nemico ricco era il premio del vincitore, per quanto
povero questi potesse essere. Risollevati i suoi uomini con queste
parole, Cursore li guidò in battaglia. Egli andò ad occupare
l'ala destra, mentre alla sinistra collocò il maestro di
cavalleria. All'inizio dello scontro la lotta col nemico fu accesa, e non meno viva la
competizione tra il dittatore e il maestro di cavalleria per stabilire chi
avesse dato il via per primo alla vittoria. Il destino volle che Giunio
fosse il primo a far indietreggiare i nemici, attaccando con l'ala sinistra
il fianco destro del nemico (composto di uomini votatisi agli
dèi, secondo la tradizione sannita, e per questo vestiti tutti di bianco).
Proclamando che avrebbe immolato i nemici all'Orco, Giunio si
lanciò all'attacco e ne scompigliò le file, costringendo il fronte a indietreggiare
sensibilmente dalla sua linea. Quando il dittatore se ne accorse,
disse: «Allora la vittoria inizierà dall'ala sinistra, e l'ala destra, con
le truppe del dittatore, starà a guardare le sorti del combattimento
altrui, non farà la parte del leone nella vittoria?». Con questo intervento
infiammò gli animi dei suoi soldati, e i cavalieri non furono da
meno dei fanti quanto a valore dimostrato, così come i
luogotenenti non lo furono rispetto ai comandanti. Marco Valerio all'ala destra, Publio
Decio a sinistra (entrambi ex consoli), si lanciarono dalla parte dei
cavalieri schierati alle due ali, esortandoli a conquistarsi la loro
parte di gloria. Poi andarono all'assalto in diagonale contro i fianchi
del nemico. Poiché questa nuova minaccia si era abbattuta sullo
schieramento avversario da entrambe le parti, e la fanteria romana, vedendo i
Sanniti in preda al panico, aveva di nuovo levato il grido di battaglia
prendendo ad avanzare, i Sanniti cominciarono a fuggire. Le campagne
già erano ingombre di cumuli di cadaveri e armi luccicanti. In un primo
momento i Sanniti, terrorizzati, si andarono a rifugiare
nell'accampamento; poi però non riuscirono a tenere nemmeno questo, che prima del calar
della notte venne conquistato, saccheggiato e dato alle fiamme. Su decreto del senato il dittatore
ottenne il trionfo, il cui più splendido ornamento furono le armi
strappate ai Sanniti. Sembrarono così straordinarie, che gli scudi dorati
furono consegnati ai banchieri, affinché fungessero da addobbo per il
Foro. Si dice che di lì sia nato l'uso degli edili di adornare il Foro
per le processioni solenni sui carri. Mentre i Romani utilizzarono le
armi dei nemici per rendere omaggio agli dèi, i Campani, per
sfrontatezza e risentimento verso i Sanniti, dotarono con quelle armature i
gladiatori che si esibivano durante i banchetti, e diedero loro il nome di
Sanniti. Nello stesso anno il console Fabio
combatté contro i resti dell'esercito etrusco nei pressi di Perugia, che
aveva violato la tregua, e conseguì una vittoria facile e netta. E avrebbe
anche espugnato con la forza la città - alle cui mura si stava già
avvicinando dopo la vittoria -, se non ne fossero usciti ambasciatori a offrire
la resa. Lasciata una guarnigione armata a Perugia, il console
mandò avanti in senato, a Roma, gli ambasciatori etruschi con la richiesta
di un trattato di amicizia, ed entrò poi in città in
trionfo, dopo aver conseguito una vittoria ancora più memorabile di quella del
dittatore. A dir la verità, gran parte del merito della sconfitta inflitta ai Sanniti
venne attribuito ai luogotenenti Publio Decio e Marco
Valerio, i quali, nel corso delle successive elezioni, vennero nominati
con ampia maggioranza console il primo e pretore il secondo. 41 Come premio per la brillante
sottomissione dell'Etruria Fabio ottenne il prolungamento del consolato, avendo
Decio come collega. Valerio venne eletto pretore per la quarta volta. I
consoli si divisero tra loro gli incarichi: a Decio toccò in
sorte l'Etruria, mentre a Fabio andò il Sannio. Partito alla volta di Nocera
Alfaterna, Fabio, dopo aver respinto la richiesta di pace fatta da quella
città (perché non aveva voluto accettarla quando essa era stata
offerta dai Romani), la attaccò costringendola alla resa
incondizionata. Affrontò poi in campo aperto i Sanniti, sconfiggendoli senza eccessivo
impegno. Di questa battaglia non ne sarebbe rimasta notizia, se
nell'occasione i Marsi non avessero combattuto per la prima volta contro i
Romani. Alla defezione dei Marsi seguì quella dei Peligni, che
andarono incontro allo stesso destino. La guerra ebbe esito positivo anche per
l'altro console, Decio, il quale spaventò i Tarquiniensi al punto
tale da costringerli a fornire frumento all'esercito e a chiedere una tregua
quarantennale. Prese poi con la forza alcune roccaforti degli abitanti di
Volsinii, distruggendone una parte, per evitare che offrissero rifugio ai
nemici. Scorrazzando e devastando in lungo e in largo la zona, seminò
un panico tale da portare l'intera gente etrusca a chiedere al console un
trattato di pace. Il trattato fu negato, mentre venne concessa una tregua di un
anno, il cui prezzo fu il pagamento all'esercito romano dello stipendio di
quell'anno in corso, e la fornitura di due tuniche a ogni soldato. A turbare la situazione ormai sotto
controllo in Etruria fu la sollevazione degli Umbri, popolo che
non aveva avuto ancora contatti con i disastri della guerra, salvo il fatto
di aver subito da parte dei Romani devastazioni delle campagne. Chiamati
alle armi tutti i loro giovani e sobillata gran parte degli Etruschi a
ricominciare la guerra, gli Umbri
raccolsero un esercito tanto massiccio che, lasciatisi alle spalle
Decio in Etruria, nutrivano il baldanzoso
progetto di porre l'assedio a Roma, e nei loro discorsi mostravano grande
fiducia nei propri mezzi e disprezzo per i Romani. Quando la notizia dei
loro movimenti arrivò alle orecchie del console Decio, questi a marce
forzate si diresse dall'Etruria a Roma, fermandosi nella regione di Pupinia, in
attesa di notizie sul nemico. A Roma la guerra contro gli Umbri non
veniva trascurata, e già soltanto le minacce lanciate dal nemico avevano
spaventato la gente, che in occasione del disastro causato dai Galli avevano
già avuto modo di saggiare quanto fosse insicura la posizione della
città. E proprio per questo inviarono una delegazione al console Fabio con
l'ordine di portare immediatamente l'esercito in Umbria, se solo la guerra
contro i Sanniti gli avesse lasciato un attimo di tregua. Il
console obbedì, e si diresse a marce forzate verso Mevania, dove in quel
momento si trovavano le forze degli Umbri. L'arrivo improvviso del console, che i
nemici credevano fosse lontano dall'Umbria alle prese con un altro
conflitto nel Sannio, li terrorizzò a tal punto che c'era chi proponeva di
barricarsi all'interno delle mura, chi invece di lasciar perdere la
guerra. Una sola popolazione - da loro chiamata Materina - non si
limitò soltanto a convincere le altre a rimanere in armi, ma le trascinò
sùbito allo scontro. Assalirono Fabio mentre era impegnato a fortificare il
campo. E il console, quando li vide riversarsi in massa contro le difese,
richiamò i soldati dalle loro occupazioni e li schierò come la
conformazione del terreno e le circostanze gli permettevano. Li
esortò ricordando con parole accorate i grandi riconoscimenti militari ottenuti
combattendo sia in Etruria sia nel Sannio, e li invitò a porre fine
a quella ridicola appendice della guerra con gli Etruschi, e a far scontare agli
Umbri le loro scellerate dichiarazioni, che minacciavano un
attacco a Roma. Le sue parole suscitarono un entusiasmo tale negli
uomini da portarli a levare un urlo spontaneo col quale interruppero il
discorso del comandante. Prima ancora di ricevere l'ordine, prima che i corni
e le trombe si mettessero a suonare, si lanciarono contro il nemico
correndo col cuore in gola. Si gettarono come se gli altri non fossero
guerrieri, quasi non indossassero le armi. E - cosa questa ben più
difficile a credersi - cominciarono a strappare di mano le insegne agli
alfieri, per poi trascinare addirittura gli alfieri di fronte al console,
spingere tra le linee romane i soldati nemici con ancora le armi in pugno e,
là dove la lotta infuriava, servirsi più degli scudi che delle spade,
scaraventando a terra gli avversari con la punta dello scudo o con una
spallata. Il numero dei prigionieri superò quello dei caduti, mentre per tutto il
campo si sentiva soltanto una voce, ovvero quella dei vincitori che li
invitavano a deporre le armi. Fu così che, nel mezzo dello scontro, si
arresero proprio quelli che avevano scatenato la guerra. L'indomani e i
giorni successivi si arresero anche le altre tribù di Umbri: agli
abitanti di Ocricoli venne però formalmente promesso che sarebbero stati accolti
tra gli amici di Roma. 42 Fabio, trionfatore in una guerra
destinata dalla sorte al comando di altri, riportò l'esercito nella
zona di sua competenza. Perciò, a séguito di quelle imprese tanto fortunate, come
l'anno prima il popolo gli aveva concesso di ripetere il consolato,
così adesso il senato (non ostante l'opposizione soprattutto di Appio) gli
prorogò il comando delle operazioni per l'anno successivo,
durante il quale furono eletti consoli Appio Claudio e Lucio Volumnio. In alcuni annali ho trovato che Appio
aveva presentato la sua candidatura al consolato quand'era ancora censore,
e che il tribuno della plebe Lucio Furio aveva opposto il proprio veto a
tale elezione, fino a quando non avesse rinunciato alla censura.
Nominato console, mentre al collega venne affidata una nuova guerra (contro i
Sallentini), Appio rimase a Roma, per incrementare il proprio potere con
attività civili, dato che la gloria in campo militare era appannaggio di
altri. Volumnio non ebbe motivo di dispiacersi
dell'incarico toccatogli, perché ebbe la meglio in parecchi scontri e
prese con la forza numerose città nemiche. Era molto generoso in materia
di bottino, e tale munificità già di per sé gradita era impreziosita
dalla sua affabilità: queste doti avevano spinto i suoi uomini ad
affrontare fatiche e pericoli. Quinto Fabio, col grado di proconsole,
affrontò in campo aperto l'esercito sannita nei pressi della città
di Alife. La vittoria non presentò margini di incertezza: i nemici vennero
travolti e costretti a rientrare al campo. E non sarebbe loro rimasta neppure
questa possibilità, se il giorno non fosse stato ormai alla fine. Ciò
non ostante vennero circondati prima del buio, e guardati a vista durante la
notte, per evitare che qualcuno fuggisse. All'alba i Sanniti
cominciarono a trattare la resa, ottenendo come condizioni che ciascuno di loro
fosse liberato e fatto passare sotto il giogo con addosso un solo indumento.
I loro alleati non ebbero alcun tipo di garanzia: furono venduti
all'asta in numero di 7.000. Quanti invece avevano dichiarato di essere
cittadini ernici, vennero separati e custoditi a parte, per poi essere inviati
in massa da Fabio di fronte al senato di Roma. Lì venne loro
chiesto se avessero combattuto come volontari oppure fossero stati
arruolati con una regolare leva militare; poi furono affidati alle varie genti
latine col cómpito di sorvegliarli. I consoli neoeletti, ovvero Publio
Cornelio Arvina e Quinto Marcio Tremulo nominati poco tempo prima, ricevettero
disposizione di aprire un'inchiesta sull'intera faccenda e di riferirne al
senato. Gli Ernici si risentirono: e poiché la gente di Anagni aveva
convocato l'assemblea plenaria di tutta la gente ernica nel circo oggi chiamato
Marittimo, tutto il popolo ernico, con la sola eccezione di Alatri,
Ferentino e Veroli, dichiarò guerra a Roma. 43 Poiché Fabio aveva lasciato la zona,
anche nel Sannio ripresero le ostilità. I Sanniti espugnarono
Calazia e Sora con i presidi romani che vi si trovavano, e infierirono
barbaramente sui prigionieri. Per questo Publio Cornelio venne mandato là
con un esercito. A Marcio venne invece affidata la spedizione contro i nemici
recenti, visto che agli Anagnini e al resto degli Ernici era già
stata dichiarata guerra. In una prima fase i nemici occuparono tutti i punti
strategici tra gli accampamenti dei due consoli, così che non poteva
passare nemmeno un messaggero disarmato, e per parecchi giorni i consoli rimasero
senza notizie preoccupandosi l'uno e l'altro delle sorti del collega. L'apprensione
contagiò anche Roma, al punto che tutti i giovani vennero
chiamati alle armi; furono formati così due eserciti completi per affrontare
gli imprevisti del caso. Ma la guerra contro gli Ernici non corrispose alle
paure che aveva suscitato né alla gloria militare che quel popolo aveva
dimostrato in passato. Non presero mai, da nessuna parte, alcuna
iniziativa degna di essere menzionata: persi tre accampamenti nel giro di pochi
giorni, scesero a patti ottenendo una tregua di trenta giorni, in maniera da
poter inviare una delegazione al senato di Roma; la condizione fu che
pagassero lo stipendio all'esercito, e fornissero i viveri per due mesi e
una veste per ogni soldato. Il senato li indirizzò a Marcio, cui
conferì con un proprio decreto pieni poteri circa le condizioni da imporre agli
Ernici. Ed egli ne accettò la resa. Nel Sannio l'altro console, pur avendo
la superiorità numerica, era in difficoltà per la natura
impervia dei luoghi. I nemici avevano sbarrato tutte le vie di comunicazione,
occupando i passi praticabili per impedire i rifornimenti. E il console, pur
schierando ogni giorno il suo esercito in ordine di battaglia, non riusciva a
trascinare i Sanniti allo scontro, ed era evidente che né i Sanniti
avevano intenzione per il momento di accettare battaglia, né i Romani di
sopportare che la guerra venisse tirata per le lunghe. L'arrivo di
Marcio, accorso in aiuto del collega dopo aver sottomesso gli Ernici, tolse
però ai nemici la possibilità di evitare ancora lo scontro. Infatti,
siccome già prima non si ritenevano in grado di affrontare in campo aperto un
solo esercito, adesso erano convinti di non avere più alcuna
speranza, nel caso in cui avessero permesso ai due eserciti consolari di
riunirsi. E per questo piombarono sulle truppe di Marcio che si stavano
avvicinando in formazione poco compatta. Il console fece sùbito
abbandonare a terra i bagagli e schierò i suoi come il caso gli permetteva. In un
primo tempo arrivò al campo il frastuono delle urla, poi il polverone
alzato in lontananza destò grande apprensione nell'accampamento
dell'altro console. Questi immediatamente diede ordine di armarsi e, dopo aver
tempestivamente schierato i suoi in ordine di battaglia, assalì il
fianco delle truppe nemiche, già impegnate in un altro scontro, urlando che
sarebbe stata una grossa umiliazione se avessero lasciato all'altro esercito
l'onore di entrambe le vittorie, senza rivendicare per se stessi la
gloria nella guerra toccata loro. Sfondarono là dove avevano
attaccato e, attraversate le linee avversarie, avanzarono fino all'accampamento
nemico, che presero e diedero alle fiamme perché completamente sguarnito. Quando
i soldati di Marcio videro le fiamme e anche i nemici si voltarono a
guardare, i Sanniti cominciarono a darsi alla fuga da una parte e
dall'altra: ovunque però furono raggiunti dal massacro, senza trovare scampo in
alcuna direzione. Dopo che già 30.000 nemici erano
stati uccisi, il console fece suonare la ritirata. Stavano già
raccogliendo le truppe complimentandosi a vicenda, quando all'improvviso apparvero
all'orizzonte nuovi contingenti nemici (erano ausiliari inviati a sostegno):
così la strage fu completa. Senza nemmeno aspettare l'ordine dei consoli
né il segnale di battaglia, i vincitori si riversarono loro addosso,
urlando che i Sanniti avrebbero dovuto iniziare la loro ferma con un
duro tirocinio. I consoli non si opposero allo slancio delle legioni,
consapevoli del fatto che le giovani reclute nemiche, mescolate ai veterani
in rotta, non avrebbero neppure avuto il coraggio di tentare il
combattimento. Il loro ragionamento non si dimostrò sbagliato: tutte le
forze sannite, vecchie e nuove, fuggirono verso i monti circostanti. Ma anche
l'esercito romano si diresse da quella parte, e non c'era più un punto
che fosse sicuro per gli sconfitti, scacciati anche dalle alture che
avevano occupato. Ormai chiedevano la pace a una voce sola. Dopo aver subito
l'onere di fornire il grano per tre mesi, pagare lo stipendio per un anno e
dotare ogni soldato di una tunica, i Sanniti inviarono al senato una
delegazione per chiedere la pace. Cornelio rimase nel Sannio. Marcio
ritornò a Roma, dove entrò in trionfo per la vittoria sugli Ernici, e gli
venne decretata una statua equestre nel Foro, che fu collocata di fronte al
tempio di Castore. Alle tre città erniche di Alatri, Veroli e Ferentino
vennero lasciate le loro leggi, perché avevano preferito questa
condizione alla cittadinanza romana, e fu loro concesso il diritto di contrarre
matrimonio misto (diritto questo che essi furono i soli tra gli Ernici a
conservare a lungo). Agli abitanti di Anagni e al resto delle genti che
avevano preso le armi contro Roma fu concessa la cittadinanza romana senza
diritto di voto, venne revocato il diritto di libera assemblea e di
matrimonio misto, e fu loro vietato di avere dei magistrati propri, fatta
eccezione per quelli che si occupavano del culto. Nello stesso anno il censore Gaio
Giunio Bubulco appaltò la costruzione del tempio della Salute da lui promesso
in voto quand'era console durante la guerra contro i Sanniti. Lo stesso Giunio
insieme al collega Marco Valerio Massimo fece costruire a spese
dello stato una rete di strade che attraversava le campagne. E ancora in
quell'anno venne rinnovato per la terza volta il trattato con Cartagine,
e gli ambasciatori venuti a Roma per questo scopo ricevettero doni e un
trattamento di grande cortesia. 44 Lo stesso anno ebbe come dittatore
Publio Cornelio Scipione, e Publio Decio Mure in qualità di maestro
di cavalleria. I due presiedettero le elezioni consolari (cómpito per il
quale erano stati nominati, in quanto nessuno dei due consoli aveva potuto
allontanarsi dal fronte). Vennero eletti consoli Lucio Postumio e Tiberio
Minucio. Questi consoli per Pisone seguono a Quinto Fabio e a Publio
Decio, saltando però il biennio durante il quale abbiamo riferito che i consoli
furono Claudio con Volumnio e Cornelio con Marcio. Non è
chiaro se Pisone li abbia dimenticati nel redigere gli annali, oppure se abbia
omesso di proposito i due consolati, ritenendoli privi di fondamento. Nel corso dello stesso anno ci furono
incursioni da parte dei Sanniti nella pianura Stellate in Campania.
Entrambi i consoli vennero inviati nel Sannio, dirigendosi però in zone
diverse, Postumio a Tiferno e Minucio a Boviano. Il primo scontro avvenne a
Tiferno, agli ordini di Postumio: alcuni autori sostengono che i Sanniti
vennero sconfitti in maniera netta e che furono fatti 20.000 prigionieri;
altri invece che le parti si allontanarono dopo una battaglia
dall'esito rimasto incerto, che Postumio, fingendo di aver paura, marciando di
notte andò a nascondere le sue truppe sui monti, e che i nemici gli tennero
dietro, accampandosi a due miglia di distanza da lui in una posizione ben
protetta. Il console, volendo dare l'impressione di aver scelto quella
zona per porre l'accampamento fisso, in quanto sicura e ricca (come in
effetti era), in un primo tempo fece dotare il campo di difese,
attrezzandolo con ogni tipo di materiale. Dopo avervi lasciato una massiccia
guarnigione armata, nel pieno della notte guidò lungo il percorso
più breve possibile le sue truppe equipaggiate alla leggera fino a raggiungere il
collega, accampato di fronte a un altro esercito nemico. Lì, su
consiglio di Postumio, Minucio attaccò battaglia, e poiché lo scontro andò avanti
nell'incertezza fino a giorno inoltrato Postumio aggredì all'improvviso
con le sue forze ancora fresche i nemici ormai stremati. E così, visto
che i Sanniti non riuscivano a fuggire per la stanchezza e le ferite riportate,
furono uccisi tutti dal primo all'ultimo, mentre i Romani catturarono
ventuno insegne, dirigendosi poi verso l'accampamento di Postumio. Qui i
due eserciti vincitori, gettandosi sui nemici demoralizzati per le notizie
ricevute, li travolsero costringendoli alla fuga e catturando
ventisei insegne militari, più il comandante dei Sanniti Stazio Gellio,
molti altri uomini ed entrambi gli accampamenti. Il giorno successivo
venne iniziato l'assedio di Boviano, catturata anch'essa in breve tempo, e i
due consoli che tanta gloria avevano conquistato con quelle imprese
celebrarono il trionfo. Alcuni autori sostengono che il console
Minucio, riportato nell'accampamento con una ferita molto grave, morì sul
posto, e che per sostituirlo venne nominato console Marco Fulvio il quale,
subentrando a Minucio nel comando del suo esercito, avrebbe conquistato
Boviano. Nel corso di quell'anno Sora, Arpino e
Cesennia vennero nuovamente strappate ai Sanniti, mentre una grande
statua di Ercole venne collocata in Campidoglio e lì consacrata. 45 Durante il consolato di Publio
Sulpicio Saverrione e di Publio Sempronio Sofro, i Sanniti - nel
desiderio di porre fine alla guerra o di ottenere una tregua - inviarono a Roma
ambasciatori per discutere la pace. Alle loro suppliche venne replicato
che, se i Sanniti non avessero di frequente richiesto la pace continuando
in realtà a preparare la guerra, si sarebbe potuto stipulare un trattato
di pace con una semplice discussione tra le due parti in causa.
Ma ora che le parole a tale riguardo si erano dimostrate vane, era
necessario starsene ai fatti. Il console Publio Sempronio si sarebbe
recato di lì a poco nel Sannio con un esercito, e non gli sarebbe certo
potuto sfuggire che intenzioni avessero i Sanniti, se bellicose o pacifiche.
Chiarito ogni aspetto, avrebbe riferito al senato. Che quindi i
delegati seguissero il console al suo rientro dal Sannio. Quell'anno, poiché
un esercito romano che l'aveva percorso in lungo e in largo aveva
trovato il Sannio in condizioni pacifiche ed era stato generosamente
rifornito dalle genti del posto, ai Sanniti venne di nuovo concesso il
trattato di pace di una volta. Le armi di Roma si rivolsero poi contro
gli Equi, antichi nemici, che per anni non avevano dato fastidi, sotto le
apparenze di una pace di cui non ci si poteva fidare, ma che prima della
disfatta inflitta agli Ernici avevano con questi ripetutamente
inviato aiuti ai Sanniti, e che dopo la sottomissione degli Ernici erano
passati quasi in massa dalla parte del nemico senza che venisse nascosta
l'ufficialità di tale decisione. E quando poi - conclusa a Roma la pace
coi Sanniti - erano arrivati i feziali a chiedere soddisfazione, gli
Equi avevano sostenuto trattarsi di una manovra fatta dai Romani per
convincerli ad accettare la cittadinanza romana forzandoli con lo spauracchio di
una guerra. Ma quanto la cosa fosse desiderabile, erano stati loro
Ernici a mostrarlo, scegliendo, quando ne venne data
l'opportunità, le proprie leggi in luogo della cittadinanza romana. Quanti invece non
avevano avuto l'opportunità di
scegliere la soluzione preferita avevano dovuto loro malgrado
accettare la cittadinanza romana come un castigo.
Siccome i discorsi che si tenevano nelle assemblee erano in genere di
questo tenore, il popolo romano ordinò di fare guerra agli Equi. E i due
consoli, partiti alla volta del nuovo conflitto, si attestarono a quattro
miglia dal campo nemico. L'esercito degli Equi, che non
combattevano più guerre per conto proprio da moltissimi anni, costituito com'era da
truppe raccogliticce, prive di comandanti e di precise autorità
interne, era in grave affanno. E mentre alcuni proponevano di uscire allo
scoperto e altri di difendere l'accampamento, la maggior parte
fremeva al pensiero delle campagne devastate e delle città
distrutte, essendo rimaste prive di guarnigioni armate. E così, quando tra le
molte proposte se ne sentì una che lasciava da parte la causa comune invitando i
singoli a preoccuparsi del proprio interesse particolare (e cioè a
uscire, col calar della notte, dall'accampamento e portar via ogni
cosa, rientrando nelle rispettive città per mettersi al riparo
delle mura), venne accolta da un grande applauso collettivo. Quando i nemici si
erano già sparsi per le campagne, all'alba i Romani si schierarono in
ordine di battaglia. Ma dato che nessuno si faceva avanti, si diressero
sùbito verso l'accampamento nemico. Quando videro che lì non c'erano
sentinelle alle porte né gente di guardia dietro la trincea, e che non si sentiva
il brusio tipico degli accampamenti, preoccupati da quel
silenzio anomalo si fermarono per paura di finire in un'imboscata. Scavalcata
poi la trincea e avendo trovato tutto deserto, cercarono di mettersi
sulle tracce dei nemici. Ma le orme che portavano in tutte le direzioni
(come sempre succede nel corso delle ritirate inconsulte), in un primo tempo
sviarono i Romani. Quando poi vennero a sapere da informatori le vere
intenzioni dei nemi-ci, cominciarono ad attaccare le
città una dopo l'altra. In cinquanta giorni ne espugnarono trentuno fortificate, la
maggior parte delle quali venne rasa al suolo e data alle fiamme,
mentre quasi l'intera etnia degli Equi andò distrutta. Per il successo
sugli Equi venne celebrato il trionfo. Il loro annientamento servì da
esempio ai Marrucini, ai Marsi, ai Peligni e ai Frentani, che inviarono a Roma
delegati per chiedere pace e amicizia. E a questi popoli che ne facevano
richiesta venne concesso un trattato di alleanza. 46 Nello stesso anno, lo scrivano Gneo
Flavio, figlio di un liberto (uomo per altro in gamba e ottimo parlatore)
e di condizione molto umile, venne eletto edile curule. In alcuni annali
ho trovato che, quando faceva ancora lo scrivano al servizio degli edili,
vedendo che le tribù lo stavano designando edile ma che il suo nome non
era tenuto in considerazione per la sua occupazione, depose la tavoletta
giurando che non avrebbe mai più fatto quel lavoro. Ma Licinio Macro
sostiene che Flavio doveva aver smesso molto prima di fare lo scrivano, perché
era già stato tribuno della plebe e triumviro per due volte, la prima
addetto alla vigilanza notturna, la seconda alla deduzione di una colonia.
È comunque assodato che lottò con grande fermezza contro i nobili i quali
ne disprezzavano le umili origini. Rese di pubblico dominio le formule del
diritto civile, custodite negli archivi segreti dei pontefici, e fece
affiggere nel Foro il calendario dei giorni fasti, perché tutti fossero al
corrente dei giorni nei quali potevano adire le vie legali. Consacrò
il tempio della Concordia nell'area di Vulcano, suscitando grande
indignazione tra i nobili, perché in quell'occasione il pontefice massimo
Cornelio Barbato fu costretto dal consenso unanime del popolo a
suggerirgli le formule del rituale, non ostante continuasse a ripetere che per
tradizione i soli autorizzati a consacrare un tempio erano il console o
il comandante in capo delle forze armate. In séguito a quell'episodio, su
proposta del senato, venne presentata al popolo una legge in
virtù della quale nessuno poteva consacrare un tempio o un altare senza
l'autorizzazione del senato o della maggioranza dei tribuni della plebe. Riferirò poi un episodio che di
per sé non avrebbe alcuna importanza, ma che risulta essere una prova tangibile
del senso di libertà della plebe davanti alla tracotanza nobiliare.
Poiché Flavio era andato a fare visita a un collega malato, e i giovani nobili
seduti intorno non si erano alzati di proposito al suo arrivo, egli fece
portare laggiù la sedia curule e dall'alto di quel simbolo della sua
autorità rimase a guardare i suoi avversari che si consumavano di rabbia. A eleggere Flavio era stata la fazione
del Foro, divenuta potente grazie alla censura di Appio Claudio, che era
stato il primo a contaminare la purezza del senato immettendovi figli
di liberti. Ma poiché nessuno aveva considerato valida quella scelta ed
egli non era riuscito a ottenere in senato quel potere politico che
intendeva raggiungere, divise fra tutte le tribù i cittadini di più
umile estrazione, corrompendo così il Foro e il Campo Marzio. E l'elezione di Flavio
suscitò un tale sdegno, che la maggior parte dei nobili
abbandonò l'anello d'oro e il medaglione da cavalieri. Da quel momento la città
risultò divisa in due partiti: da un lato la parte di popolo che non era ancora
corrotta e che sosteneva e rispettava i cittadini di estrazione più
elevata, mentre dall'altro c'era la feccia del Foro, fino a quando vennero nominati
censori Quinto Fabio e Publio Decio, e Fabio - vuoi per evitare che i comizi
finissero in mano alla canaglia più abietta, vuoi per ristabilire
la concordia - separò tutta la plebaglia del Foro, concentrandola in quattro
tribù cui diede il nome di "urbane". A quanto si racconta i cittadini
avrebbero avuto per lui una gratitudine tale da attribuirgli, in relazione a
questo assennato riordinamento delle classi, il soprannome di Massimo, che
non era riuscito a ottenere pur con tutte le vittorie sul campo. Sembra che
sia stato ancora Fabio ad avere introdotto l'usanza di passare in
rassegna i cavalieri alle idi di luglio. LIBRO X 1 Durante il consolato di Lucio Genucio
e di Servio Cornelio la tregua da guerre esterne fu quasi completa.
Vennero fondate le colonie di Sora e di Alba. Ad Alba, che si trovava nel
territorio degli Equi, furono inviati 6.000 coloni. Sora aveva fatto in
passato parte del territorio dei Volsci, per poi essere occupata dai Sanniti.
Lì vennero inviati 4.000 uomini. Nel corso degli stessi anni venne concessa
la cittadinanza romana agli abitanti di Arpino e di Trebula. Gli
abitanti di Frusino furono invece condannati alla perdita di un terzo del
loro territorio, perché emerse che avevano spinto gli Ernici a ribellarsi:
dopo un'inchiesta condotta dai consoli su incarico del senato, i capi
del complotto furono frustati e decapitati. Ciò non ostante, a
far sì che l'anno non trascorresse del tutto senza episodi militari, ci fu una
modesta spedizione in Umbria; era infatti giunta notizia di una banda
armata che, partendo da una caverna, compiva scorrerie per le campagne.
Truppe romane raggiunsero la caverna, ma per l'oscurità sulle prime
subirono molte ferite, fino a quando non scoprirono un altro accesso
percorribile in entrambe le direzioni, e appiccarono il fuoco a cataste di legna
alle due imboccature. E così i 2.000 uomini circa che si trovavano
all'interno della grotta, costretti a gettarsi attraverso le fiamme, alla fine
morirono soffocati dal fumo e dal calore nel tentativo di uscire. Durante il consolato di Marco Livio
Dentre e di Marco Emilio riprese la guerra contro gli Equi. Poiché non
accettavano la colonia romana, quasi una roccaforte di Roma all'interno del
loro territorio, gli Equi tentarono con ogni mezzo di espugnarla, venendo
però respinti dai coloni stessi. Ma a Roma la cosa creò una tale
apprensione - sembrava impossibile che gli Equi, nel loro misero stato, avessero
affrontato la guerra basandosi soltanto sulle proprie forze -, che per
far fronte a quell'insurrezione venne nominato dittatore Gaio Giunio
Bubulco. Questi, partito col maestro di cavalleria Marco Titinio, al primo
scontro ebbe la meglio sugli Equi e, rientrato a Roma in trionfo dopo otto
giorni, inaugurò come dittatore il tempio alla Salute che aveva promesso
in voto quand'era console e la cui costruzione aveva dato in appalto al
tempo della sua censura. 2 Nello stesso anno una flotta greca
agli ordini dello spartano Cleonimo approdò sulle coste italiche,
andando a occupare la città di Turie nel territorio dei Sallentini. Fu inviato
ad affrontarlo il console Emilio, che mise in fuga Cleonimo con un'unica
battaglia, costringendolo a trovare riparo sulle navi. Turie venne
così restituita ai suoi cittadini, e nel territorio sallentino ritornò la
pace. In alcuni annali ho trovato che a essere inviato tra i Sallentini fu il
dittatore Giunio Bubulco, e che Cleonimo lasciò l'Italia prima
ancora che lo scontro coi Romani diventasse inevitabile. Dopo aver doppiato il capo di Brindisi
ed esser stati spinti dai venti in mezzo all'Adriatico, temendo sulla
sinistra le coste italiche prive di porti e sulla destra la presenza di
Illiri, Liburni e Istri (popoli bellicosi e di pessima fama perché
dediti alla pirateria), avanzarono fino alle coste abitate dai Veneti.
Lì Cleonimo, dopo aver sbarcato alcuni uomini col cómpito di esplorare la
zona, ricevette queste informazioni: che c'era una sottile striscia di terra
oltre la quale si aprivano lagune alimentate dall'acqua del mare; che si
vedevano lì vicino campagne pianeggianti e, poco oltre, colline;
che inoltre avevano individuato la foce di un fiume molto profondo dov'era
possibile ormeggiare le navi in maniera sicura (il fiume era il
Brenta). Allora Cleonimo ordinò di trasferire la flotta in quella zona
risalendo la corrente. Poiché il letto del fiume non permetteva il passaggio
delle navi più pesanti, la massa degli uomini armati si trasferì
sulle imbarcazioni più leggere e arrivò in una zona molto abitata, dov'erano
stanziate tre tribù marittime di Patavini. Sbarcati in quel punto, dopo
aver lasciato una piccola guarnigione di presidio alle navi,
espugnarono i villaggi, incendiarono le abitazioni, portarono via uomini e
animali, allontanandosi sempre più dalle navi nella prospettiva di
ulteriore bottino. Quando a Padova arrivò la
notizia di ciò che stava succedendo, gli abitanti, costretti a un perenne
allarme dalla minaccia dei Galli, divisero le proprie forze in due
contingenti. Il primo si portò nella zona in cui erano stati segnalate le
incursioni nemiche, l'altro, seguendo un percorso diverso per non incontrare gli
avversari, si diresse invece verso il punto in cui erano ancorate le navi,
a quattordici miglia dalla città. Eliminati gli uomini di guardia con un
attacco di sorpresa, si riversarono sulle navi, costringendo i marinai a
spostarle sulla sponda opposta del fiume. Anche lo scontro sulla
terraferma contro gli autori dei saccheggi ebbe esito positivo. E mentre i Greci
cercavano scampo in direzione delle navi, vennero affrontati dall'altro
contingente di Veneti, che li accerchiò e massacrò.
Alcuni prigionieri rivelarono che la flotta col re Cleonimo si trovava a tre miglia di
distanza. Così, dopo aver lasciato i prigionieri in un villaggio dei
dintorni perché fossero sorvegliati, i Patavini, imbarcandosi parte su
battelli da fiume costruiti apposta col fondo piatto per affrontare i bassi
fondali delle lagune, e parte invece sulle imbarcazioni sottratte ai Greci,
raggiunsero la flotta nemica, circondandone le navi rimaste immobili
per paura del fondale sconosciuto più che del nemico. E mentre i
Greci fuggivano verso il largo senza nemmeno cercare di opporre resistenza,
i Patavini li inseguirono fino alla foce del fiume, e dopo aver strappato
loro e incendiato alcune delle navi finite, nella grande confusione, sui
banchi di sabbia, rientrarono vincitori. Cleonimo se ne partì
con soltanto un quinto della flotta intatto, senza aver raccolto alcun
risultato in nessuna parte dell'Adriatico. A Padova ci sono ancora
oggi molte persone che hanno visto i rostri delle navi e le spoglie
spartane appese nel vecchio santuario di Giunone. A ricordo di quella battaglia
fluviale, nel giorno in cui essa fu combattuta si tengono oggi solenni gare
di navi lungo il fiume che scorre attraverso la città. 3 Nello stesso anno a Roma venne
stipulato un trattato con gli abitanti di Vesta giunti con una richiesta di
amicizia. Ci furono poi numerose ragioni di allarme. Arrivò la notizia
che l'Etruria si stava ribellando a séguito
di un'insurrezione scoppiata ad Arezzo, dove l'influente famiglia dei Cilni, odiata dagli Aretini per le
ricchezze che possedeva, stava per essere scacciata con la forza dalla
città. Nel contempo fu annunciato che i Marsi stavano difendendo con vigore
la terra sulla quale era stata fondata la colonia di Carseoli,
costituita da 4.000 uomini. Per far fronte a questi disordini, venne nominato
dittatore Marco Valerio Massimo, che scelse come maestro di cavalleria Marco
Emilio Paolo. Personalmente preferisco questa versione dei fatti a
quella secondo la quale Quinto Fabio, non ostante l'età e le
molte cariche ricoperte, sarebbe stato subordinato a Valerio. D'altra parte
sarei portato a credere che l'errore sia dovuto alla confusione creata dal
soprannome Massimo. Uscito da Roma alla guida dell'esercito, il dittatore
sbaragliò i Marsi con un'unica battaglia. Dopo averli costretti a
barricarsi all'interno delle loro città fortificate, nel giro di pochi giorni
conquistò Milionia, Plestina e Fresilia. Condannò poi i Marsi
alla perdita di parte del territorio, rinnovando però il trattato di
alleanza con loro. Teatro delle operazioni fu in séguito l'Etruria. Mentre il
dittatore si era recato a Roma per il rinnovo degli auspici, il maestro di
cavalleria cadde in un'imboscata mentre usciva allo scoperto per cercare
rifornimenti: perse alcune insegne, venne risospinto
nell'accampamento, dopo un orribile massacro e la fuga vergognosa dei suoi uomini.
Questa reazione terrorizzata non può essere attribuita a Fabio, e non solo
perché se qualche altra dote più di altre gli valse il soprannome di
Massimo questa fu certo la perizia strategica in guerra, ma anche perché
non si sarebbe mai lasciato trascinare allo scontro senza un
preciso ordine del dittatore, memore com'era della severità di
Papirio. 4 Quando la sconfitta venne annunciata
a Roma, la reazione fu un panico sproporzionato alla realtà dei
fatti. Come se l'esercito fosse stato fatto a pezzi, venne proclamata la
sospensione delle attività giudiziarie, vennero piazzate sentinelle alle porte
e fissati turni di vigilanza nei vari quartieri, mentre lungo il
perimetro delle mura furono accumulati armi e proiettili. Dopo aver costretto
tutti i giovani a prestare giuramento militare, il dittatore
raggiunse l'esercito e trovò che la situazione era meno preoccupante di
quanto non si aspettasse, e che il maestro di cavalleria aveva curato di
rimettere tutto a posto: il campo era stato trasferito in un punto
più sicuro, le coorti che avevano perduto le insegne erano state collocate al di
là della trincea e non avevano tende, mentre l'esercito era impaziente
di gettarsi nella mischia per riscattare quanto prima l'onta subita.
Il dittatore fece pertanto spostare il campo più avanti, nel
territorio di Ruselle. I nemici lo seguirono e, pur nutrendo dopo la vittoria grosse
speranze di avere la meglio anche in un confronto in campo aperto,
ciò non ostante ricorsero di nuovo alla tecnica dell'imboscata, di cui
già si erano avvalsi con successo. Non lontano dall'accampamento romano
c'erano le case diroccate di un villaggio messo a ferro e fuoco nel corso dei
saccheggi alle campagne. I soldati nemici vi si andarono a nascondere,
spingendo del bestiame di fronte a un presidio romano comandato dal
luogotenente Gneo Fulvio. Poiché dalla postazione romana nessuno si lasciava
attirare dall'esca, uno dei pastori arrivò fin sotto i dispositivi
di difesa romani e gridando domandò ai compagni impegnati a sospingere con
grande esitazione il bestiame fuori dai ruderi del villaggio che cosa
avessero mai da aspettare, dato che potevano tranquillamente far passare
gli animali attraverso l'accampamento romano. Alcuni soldati provenienti da
Cere tradussero queste parole al luogotenente suscitando grande sdegno
nei soldati di tutti i reparti, i quali però non osavano prendere
alcuna iniziativa senza l'ordine del comandante; quest'ultimo ordinò
allora agli interpreti di prestare attenzione se la lingua parlata da quei
pastori fosse più simile a quella delle campagne o a quella di
città. Quando gli venne riferito che l'inflessione della parlata, l'aspetto
esteriore e la carnagione erano troppo raffinati per dei pastori, egli
disse: «Andate, dite pure che rivelino il tranello che hanno cercato
invano di nascondere: ormai i Romani sono al corrente di tutto, e
ingannarli è difficile quanto superarli con le armi». Quando i
sedicenti pastori sentirono queste parole e le andarono a riferire agli uomini
pronti all'imboscata, i nemici saltarono immediatamente fuori dai
nascondigli, e avanzarono in assetto da guerra verso la pianura che si apriva
alla vista nella sua estensione. L'esercito schierato diede al
luogotenente l'impressione di essere troppo massiccio perché il suo presidio fosse
in grado di affrontarlo. Per questo mandò in fretta a chiedere aiuti
al dittatore, sostenendo nel frattempo da solo l'urto dei nemici. 5 Quando il dittatore ricevette il
messaggio, ordinò ai soldati di uscire dall'accampamento e di seguirlo con le
armi in pugno. Occorse meno tempo ad eseguire gli ordini che a
impartirli. Gli uomini afferrarono in un attimo armi e insegne, e non era facile
impedire che partissero immediatamente di corsa. A pungolarli
erano tanto la rabbia per la sconfitta subita quanto il frastuono
che arrivava sempre più forte dal campo di battaglia a misura che lo
scontro aumentava di intensità. Così si incitavano l'uno con l'altro, esortando
gli alfieri ad accelerare l'andatura. Ma il dittatore, più
li vedeva impazienti, più era risoluto nell'ordinar loro di rallentare la
marcia e di procedere lentamente. Dal canto loro gli Etruschi si erano
gettati nella mischia impiegando sùbito tutte le loro forze. Un messaggero dopo
l'altro arrivavano a riferire al dittatore che tutte le legioni etrusche
stavano prendendo parte alla battaglia e che il presidio romano non
era più in grado di resistere. Egli stesso poté vedere da un'altura in
quali difficoltà si dibattessero i suoi. Confidando però nel fatto
che il luogotenente fosse ancora in grado di reggere lo scontro, pur essendo
già così vicino da poter accorrere in aiuto in caso di pericolo, volle che il
nemico si sfiancasse il più possibile, in modo da poterlo aggredire
con le truppe fresche quando ormai fosse allo stremo delle forze. Pur
avanzando molto lentamente, restava ora poco spazio per lanciare la carica,
specialmente per i cavalieri. In testa marciavano le insegne della fanteria,
per evitare che il nemico avesse a sospettare mosse a sorpresa o tranelli.
Ma il dittatore aveva lasciato intervalli tra le file di fanti, in
modo che ci fosse spazio a sufficienza per far caricare i cavalli. Non appena
si levò il grido di battaglia, i cavalieri si lanciarono a briglia sciolta
contro i nemici che, impreparati a resistere all'urto imperioso della
cavalleria, vennero colti da un attacco improvviso di panico.
Così, anche se l'aiuto per poco non arrivava troppo tardi agli uomini che stavano
per essere sopraffatti, ora poterono finalmente riposarsi per bene. Infatti
subentrarono nel combattimento i soldati freschi, e lo scontro non fu
più né incerto né si trascinò per le lunghe. Travolti, i nemici puntarono
verso l'accampamento, e cedendo ai Romani che stavano già facendo
breccia si andarono ad ammassare sul lato opposto del campo. I fuggitivi
restarono intrappolati negli stretti passaggi delle porte: molti salivano
sulla trincea e sul terrapieno, sperando di difendersi meglio da quella
posizione elevata o di scavalcarne il perimetro in qualche punto e
scappare. Ma per puro caso avvenne che il terrapieno, non essendosi ancora
rassodato per bene, a causa del peso dei soldati che vi si trovavano al di sopra
franò in un punto sbriciolandosi nel fossato sottostante: sfruttando
quella breccia i nemici - più numerosi quelli disarmati che quelli armati - si
precipitarono fuori urlando che gli dèi avevano voluto aprire
loro una via di fuga. Quella battaglia fu la seconda
occasione in cui la potenza etrusca venne sopraffatta, e il dittatore concesse
agli sconfitti di mandare ambasciatori a Roma per discutere la
pace, a patto che pagassero lo stipendio di un anno all'esercito e lo
rifornissero di viveri per due mesi. La pace fu negata, mentre venne
concessa una tregua di due anni. Il dittatore tornò a Roma in
trionfo. Alcuni autori riferiscono che il dittatore riportò la pace in
Etruria senza dover combattere battaglie degne di menzione, limitandosi a
soffocare l'insurrezione degli Aretini grazie a una riconciliazione della
plebe con la famiglia dei Cilni. Dopo la dittatura, Marco Valerio venne
eletto console. Secondo alcune fonti egli venne eletto pur non avendo
presentato la candidatura e per di più restando assente, e a presiedere quelle
elezioni fu un interré. Ciò su cui tutti si trovano d'accordo, è
che egli detenne il consolato insieme ad Apuleio Pansa. 6 Durante il consolato di Marco Valerio
e di Quinto Apuleio la situazione all'estero si mantenne relativamente
pacifica. La sconfitta patita e la tregua concordata costringevano gli
Etruschi a rimanere inattivi; i Sanniti, provati dalle perdite di molti
anni di guerra, per il momento non erano scontenti del nuovo trattato; e
anche a Roma la partenza di una cospicua quantità di persone
verso le colonie aveva reso la plebe più tranquilla liberandola di molti oneri.
Eppure, per far sì che non tutto fosse calmo, i tribuni Quinto e Gneo
Ogulnio aprirono una controversia tra le famiglie più in vista del
patriziato e della plebe. Dopo aver tentato con ogni mezzo di mettere in cattiva
luce i patrizi agli occhi della plebe, i due tribuni, avendo visto
fallire altri tentativi, si fecero carico di un'iniziativa rivolta non
tanto alla parte più bassa della plebe, quanto piuttosto alle sue
personalità egemoni, cioè quei plebei che erano stati consoli riportando trionfi,
ai quali - tra le tante cariche ricoperte - mancavano ormai soltanto
quelle di natura religiosa, che non erano ancora aperte alla plebe.
Proposero quindi una legge in base alla quale venissero aggiunti ai quattro
pontefici e ai quattro àuguri già esistenti quattro pontefici e cinque
àuguri eletti all'interno della plebe. Non ho trovato alcuna
spiegazione al fatto che in quel periodo il collegio degli àuguri si fosse
ridotto a contare su quattro membri, a meno che ne fossero deceduti due. È
noto infatti che il numero degli àuguri dev'essere dispari, in maniera tale che
le tre antiche tribù di Ramnensi, Tiziensi e Luceri abbiano un
àugure a testa, oppure, qualora si renda necessario un numero più alto di
officianti, i sacerdoti siano sempre moltiplicati in proporzioni pari, come
successe quando, aggiungendone cinque ai quattro esistenti, si
raggiunse il numero di nove, ovvero tre per ogni tribù. Il fatto che si
avessero àuguri scelti all'interno della plebe suscitò nei patrizi
un'indignazione pari a quella provata vedendo il consolato divenire accessibile alle
masse. Davanti all'opinione pubblica fingevano che la cosa riguardasse
più gli dèi che loro stessi: gli dèi avrebbero fatto in modo di evitare che
i riti sacri subissero contaminazioni, ed essi si auguravano
soltanto che non si abbattesse qualche calamità sul paese.
Tuttavia non si opposero con grande accanimento, abituati ormai ad avere la
peggio in confronti politici di quel tipo. Vedevano infatti che i loro
avversari ormai non si limitavano soltanto più ad aspirare alle
cariche di maggiore prestigio - cariche che in passato avevano sperato a stento di
ottenere -, ma avevano raggiunto già tutti i traguardi per i
quali la lotta era stata ben più incerta, e cioè consolati, censure e
trionfi in grande quantità. Tuttavia si aprì il dibattito
tra i fautori e gli oppositori della legge, e in particolare fra Appio Claudio e
Publio Decio Mure. Dopo essersi confrontati discutendo sui diritti del
patriziato e della plebe, e ricorrendo più o meno agli
stessi argomenti usati ai tempi della legge Licinia, proprio nel momento in cui
veniva chiesta l'ammissione della plebe al consolato, pare che Decio
abbia rievocato la figura del padre, quale molti dei presenti avevano avuto
modo di vedere in carne e ossa, quando aveva offerto in voto la propria
vita per il popolo e per l'esercito romano, con i piedi sulla
lancia e indosso la toga portata alla maniera di Gabi. Diceva che in quel
momento il console Publio Decio era parso pio e puro agli dèi
immortali, allo stesso modo in cui sarebbe apparso il suo collega Tito Manlio nel
caso in cui si fosse lui offerto in voto. Forse che quello stesso Publio
Decio non avrebbe potuto essere regolarmente scelto per celebrare i
riti sacri del popolo romano? C'era forse il rischio che gli dèi non
ascoltassero le sue preghiere come quelle di Appio Claudio? Forse Appio era
più devoto nella pratica dei culti privata e onorava gli dèi in
maniera più conforme al rito di quanto non facesse lui? Chi si era mai lamentato
dei voti pronunciati a nome dello Stato da tanti consoli e da tanti
dittatori plebei prima di partire per la guerra e durante la guerra? Che
andassero a passare in rassegna i comandanti di quegli anni, da quando
cioè le guerre avevano cominciato a essere affidate al comando e agli
auspici dei plebei. Che andassero a contare i trionfi ottenuti: ormai i
plebei non dovevano più lamentarsi nemmeno di essere inferiori quanto a
nobiltà di sangue. Decio era sicuro che, se fosse scoppiata una guerra sul
momento, il senato e il popolo romano non avrebbero fatto affidamento
sui comandanti patrizi più che sui plebei. «E visto che le cose stanno in questi
termini», aggiunse, «chi tra gli uomini e gli dèi può
considerare indegno il fatto che le insegne di àuguri e pontefici vengano attribuite a quei
gentiluomini che voi avete insignito delle sedie curuli, della toga
pretesta, della tunica palmata, della toga ricamata, della corona trionfale e
dell'alloro, le cui case avete adornato con le spoglie nemiche appese alle
pareti? L'uomo che ha attraversato la città sul cocchio dorato ed
è salito fin sul Campidoglio con indosso la veste onorata di Giove Ottimo Massimo
non potrà forse farsi vedere con la coppa e il lituo, quando
ucciderà le vittime col capo coperto dal velo e prenderà gli auspici dall'alto
della cittadella? Se nell'iscrizione ai piedi del busto voi leggete senza
rimanere sconvolti la menzione del consolato, della censura e del trionfo,
pensate che i vostri occhi non sopporteranno di vedervi aggiunta
quella dell'augurato e del pontificato? A essere sincero - e possano gli
dèi accogliere bene le mie parole - sono fermamente convinto che noi, grazie al
popolo romano, ci troviamo ormai in una posizione tale da garantire alle
cariche sacerdotali, in virtù dei meriti acquisiti, non minor prestigio
di quanto esse ne riceveranno da noi, e da poter chiedere,
nell'interesse degli dèi più che nel nostro, di celebrare il culto pubblico di quelle
divinità che noi veneriamo in privato. 8 Ma perché, fino a questo punto, mi
sono espresso come se i patrizi continuassero ad avere privilegi
assoluti in materia di cariche sacerdotali, e noi non avessimo
già il controllo di una di esse, e per di più molto importante? Sappiamo
che sono plebei i decemviri addetti alle cose sacre, interpreti delle profezie
della Sibilla e del destino di questa gente, e inoltre custodi del
tempio di Apollo e depositari di altri riti. E come i patrizi non hanno subito
alcun torto quando il numero dei duumviri addetti alle cose sacre
è stato aumentato per far posto ai plebei, allo stesso modo un tribuno
forte e intraprendente ha adesso aggiunto quattro cariche pontificali e
cinque augurali riservate ai plebei, non certo per scalzarvi dai vostri
posti, Appio, ma perché gli esponenti della plebe operino al vostro
fianco anche nell'esercizio delle funzioni divine, come già fanno
in quelle umane per quanto sta in loro potere. Non vergognarti, Appio, di
avere come collega nel sacerdozio chi può esserlo stato nella censura
o nel consolato, o potrebbe essere dittatore mentre tu sei maestro di
cavalleria o ancora maestro di cavalleria mentre tu eserciti la
dittatura. I patrizi di un tempo accolsero tra loro uno straniero venuto
dalla Sabina, capostipite della vostra nobile stirpe, l'uomo che voi
chiamate Attio Clauso o Appio Claudio: di conseguenza non disdegnare
di ammetterci nel numero dei sacerdoti. Portiamo con noi molti
titoli di prestigio, anzi quelli stessi che vi hanno resi arroganti. Lucio
Sestio fu il primo console plebeo, Gaio Licinio Stolone il primo maestro di
cavalleria, Gaio Marcio Rutilo il primo dittatore e il primo censore,
Quinto Publilio Filone il primo pretore. Da voi abbiamo sempre sentito
le stesse argomentazioni: che gli auspici appartengono a voi, che voi
soli avete sangue nobile, voi soli il potere legittimo nonché il diritto di prendere
gli auspici in pace e in guerra. Ma fino a oggi il comando
affidato ai patrizi e quello affidato ai plebei hanno fatto registrare gli
stessi risultati, e sempre sarà così negli anni a venire. Ma non avete mai
sentito dire che in origine a essere chiamati patrizi non furono esseri
scesi dal cielo, ma piuttosto quelli che potevano chiamare il padre, o
più semplicemente quanti erano nati liberi? Io posso ormai chiamare padre
un console, e mio figlio potrà chiamare console suo nonno. Quindi,
Quiriti, qui null'altro è in causa se non il fatto che ci venga concesso
quanto ci era prima negato. La sola cosa che i patrizi cercano è il
confronto politico, senza preoccuparsi dell'esito. Io sono dell'idea che
questa legge dovrebbe essere approvata così com'è stata
presentata, e che ciò possa essere motivo di prosperità per voi e per il paese». 9 Il popolo voleva che venissero
immediatamente chiamate a votare le tribù, e sembrava che la legge
fosse sul punto di essere approvata. Ma quel giorno la decisione venne
rimandata perché alcuni tribuni opposero il proprio veto. Il giorno successivo,
però, i tribuni cambiarono parere, la legge venne approvata a grande
maggioranza. Furono eletti pontefici Publio Decio Mure, l'uomo cioé che aveva
presentato la legge, Publio Sempronio Sofo, Gaio Marcio Rutilio, e Marco
Livio Dentre. I cinque àuguri ugualmente plebei furono Gaio Genucio,
Publio Elio Peto, Marco Minucio Feso, Gaio Marcio e Tito Publilio.
Venne così raggiunto il numero di otto pontefici e nove àuguri. Nello stesso anno Marco Valerio
presentò una legge relativa al diritto di appello al popolo, che ne sanciva i
termini in maniera più rigorosa. Fu questa la terza legge presentata sul
medesimo argomento dal tempo della cacciata dei re, e sempre su iniziativa
della stessa famiglia. Io penso che essa fosse stata riproposta in
più occasioni soltanto per il fatto che lo strapotere economico di pochi valeva
più della libertà della plebe. Tuttavia sembra che soltanto la legge
Porcia, stabilendo una pena cospicua per chi avesse frustato o ucciso un
cittadino romano, sia stata presentata al fine di proteggere
l'incolumità dei cittadini. La legge Valeria, invece, pur vietando di frustare e
decapitare un cittadino che avesse fatto appello al popolo, non stabiliva
alcuna pena per chi l'avesse violata, salvo il fatto di giudicare
tale violazione un'azione «mal fatta». Ma secondo me, in quel tempo la
moralità della gente era così solida da far sembrare quel monito un
incentivo sufficiente al rispetto della legge. Oggi nessuno rivolgerebbe
un simile monito parlando seriamente. Lo stesso console guidò una
spedizione di modesta importanza contro gli Equi che si erano ribellati, anche se
della loro fortuna di un tempo non avevano conservato nient'altro che la
fierezza interiore. L'altro console, Apuleio, era impegnato nell'assedio
della città di Nequino in Umbria: questa città, corrispondente
all'attuale Narnia, si trovava in una posizione sopraelevata e ripida da uno
dei versanti, e non era quindi possibile prenderla con la forza né col
ricorso a dispositivi d'assedio. Perciò i nuovi consoli in
carica, Marco Fulvio Peto e Tito Manlio Torquato ricevettero in eredità l'impresa
ancora incompiuta. Licinio Macro e Tuberone riferiscono
questa notizia: siccome tutte le centurie stavano per eleggere console
per quell'anno Quinto Fabio pur non avendo quest'ultimo presentato la
propria candidatura, fu lui stesso a differire il suo consolato a un anno
caratterizzato da un numero superiore di guerre. Per quell'anno sarebbe stato
invece più utile al paese nell'esercizio di una magistratura di
carattere urbano. Così, pur non essendosi presentato candidato, ma non
avendo nascosto le proprie preferenze, sarebbe stato nominato
edile curule insieme con Lucio Papirio Cursore. Chi mi porta a mettere in
dubbio questa notizia è Pisone, autore più antico, il quale riferisce
che gli edili curuli di quell'anno furono Gneo Domizio Calvino figlio di Gneo e Spurio
Carvilio Massimo figlio di Massimo. Ho l'impressione che a far
nascere l'errore sia stato il soprannome di quest'ultimo personaggio,
e che di lì derivi la storia, in piena sintonia con l'errore che mescola
le elezioni degli edili a quelle dei consoli. Nel corso di quell'anno fu
anche tenuto il censimento dai censori Publio Sempronio Sofo e Publio
Sulpicio Savarrone, e vennero aggiunte due nuove tribù, la
Aniense e la Teretina. Questo quanto avvenne a Roma. 10 Nel frattempo, mentre attorno alla
fortezza di Nequino il tempo si trascinava in un lento assedio, due
cittadini le cui abitazioni si trovavano a ridosso delle mura
scavarono un cunicolo e arrivarono di nascosto ai posti di guardia romani;
condotti al cospetto del console asserirono di poter far entrare un
manipolo armato all'interno delle mura. La proposta non sembrò da
trascurare, ma nemmeno così rassicurante da fidarsene ciecamente. Uno dei due
disertori venne trattenuto in ostaggio, e due esploratori vennero inviati con
l'altro attraverso il cunicolo sotterraneo. Quando le loro
informazioni confermarono la praticabilità del progetto, 300 soldati alla guida del
Nequinate entrarono in città nel cuore della notte e occuparono la porta
più vicina. Dopo averla abbattuta, il console e l'esercito romano
penetrarono in città senza dover alzare un dito. Così Nequino finì in
mano dei Romani. La colonia che vi venne inviata nell'intento di fronteggiare
gli Umbri prese il nome di Narnia da quello del fiume che la attraversava:
quanto all'esercito, venne riportato a Roma carico di bottino. Nello stesso anno gli Etruschi fecero
preparativi di guerra, contravvenendo alla tregua stipulata.
Ma mentre erano impegnati in queste faccende, un grosso contingente di
Galli fece ingresso nel loro territorio, distogliendoli per qualche
tempo dai loro progetti. Ricorrendo al denaro, di cui disponevano in grande
quantità, cercarono di trasformare i Galli da nemici in amici, in maniera
da poter affrontare la guerra con Roma contando sul loro appoggio
militare. I barbari non negarono l'alleanza, limitandosi a trattare sul
prezzo. Dopo aver negoziato e ricevuto quanto richiesto, quando ormai
tutto era pronto per la guerra e gli Etruschi li invitavano a seguirli,
i Galli negarono di aver pattuito il compenso per fare guerra ai Romani,
sostenendo invece che la somma era stata riscossa per non saccheggiare il
territorio etrusco e non tormentarne gli abitanti col ricorso
alle armi. In ogni caso, se proprio gli Etruschi insistevano, i Galli
avrebbero partecipato alla guerra, ma solo a patto di ottenere parte del
territorio etrusco, in modo da potersi finalmente stanziare in una sede
sicura. I popoli dell'Etruria organizzarono parecchie assemblee per
prendere una decisione in proposito, senza però arrivare a risultati
concreti, e non tanto perché non si sentissero di accettare una riduzione
del loro territorio, quanto perché tutti inorridivano all'idea di avere
come vicini un popolo tanto feroce. I Galli vennero così congedati,
con una grossa somma di denaro conquistata senza correre rischi e senza fatica
alcuna. A Roma la notizia dell'allarme da parte dei Galli alleati agli
Etruschi seminò il panico. Fu per questo che col popolo dei Piceni venne
stipulato un trattato in tempi ancora più brevi. 11 La campagna in Etruria toccò
in sorte al console Tito Manlio. Egli, appena entrato in territorio nemico,
mentre era impegnato in un'esercitazione insieme ai cavalieri,
venne sbalzato di sella nell'atto di far invertire la marcia al cavallo,
e per poco non morì sul colpo. Spirò due giorni dopo.
Interpretando la cosa come un augurio positivo sugli esiti del conflitto, gli Etruschi
imbaldanzirono, sia per la scomparsa di un uomo di quella
levatura, sia per le difficoltà contingenti che ne derivavano ai Romani. Il senato
si astenne dal nominare un dittatore soltanto perché dalle
elezioni consolari uscì il nome caldeggiato dai capi della
città: infatti tutti i voti e tutte le centurie designarono in qualità di
console Marco Valerio, che il senato si proponeva di nominare dittatore. Egli
ricevette sùbito la disposizione di partire per l'Etruria, per assumervi il
comando dell'esercito. Il suo arrivo frenò gli Etruschi, al
punto che nessun uomo osava più uscire fuori dai dispositivi di difesa, e la paura
li aveva resi simili a tanti assediati. Il nuovo console non riuscì
a trascinarli in battaglia nemmeno mettendo a ferro e fuoco le campagne e
incendiando le case, anche se da ogni parte si alzava il fumo degli
incendi, non solo dalle fattorie, ma anche da popolosi villaggi. Mentre la guerra si trascinava
più lentamente del previsto, i Piceni, i nuovi alleati, vennero a informare il
senato di un'altra guerra, che non a torto incuteva timore, per i numerosi
rovesci che entrambe le parti avevano subito. I Sanniti stavano compiendo
preparativi per riprendere le ostilità, e avevano cercato di
sobillare gli stessi Piceni. Il senato, ringraziati gli alleati, si
concentrò quasi integralmente sul Sannio, distogliendo l'attenzione dall'Etruria. Nel corso dell'anno la città
venne afflitta anche da una carestia, e si sarebbe arrivati al massimo di disagio,
se - come sostengono gli autori secondo cui Fabio Massimo sarebbe stato
edile della plebe in quell'anno - nel distribuire i viveri e nel
procacciare grano quest'uomo non avesse dimostrato lo stesso attaccamento alla
causa che in molti frangenti aveva dimostrato in guerra. Quell'anno si
ebbe un interregno, di cui però non è stata tramandata la causa. Gli interré
furono Appio Claudio e quindi Publio Sulpicio. Questi presiedette le
elezioni consolari, proclamando eletti Lucio Cornelio Scipione e Gneo
Fulvio. All'inizio dell'anno i due nuovi
consoli ricevettero una delegazione di Lucani venuti a lamentarsi del fatto
che i Sanniti, non essendo riusciti a convincerli per via diplomatica a
stipulare un trattato di alleanza, erano entrati nel loro territorio con un
esercito in assetto da guerra, e lo stavano mettendo a ferro e fuoco nella
speranza appunto di indurli alla guerra. In passato il popolo lucano
aveva già commesso troppi errori: ora erano assolutamente convinti che fosse
preferibile sopportare qualsiasi difficoltà piuttosto che
irritare di nuovo i Romani. Pregavano il senato sia di prendere i Lucani sotto la
protezione di Roma, sia di liberarli dalla violenza e dalla prepotenza dei
Sanniti. Da parte loro, pur avendo già fornito una prova di sicura
lealtà scendendo in campo contro i Sanniti, erano comunque disposti a
consegnare degli ostaggi. 12 La discussione in senato fu breve:
tutti si dichiararono d'accordo nello stringere un patto di alleanza
con i Lucani e nel chiedere riparazione ai Sanniti. Ai Lucani venne
data risposta positiva e fu stipulato un trattato. Ai Sanniti
furono invece inviati i feziali con l'ordine perentorio di allontanarsi dal
territorio degli alleati e di ritirare l'esercito dai confini della
Lucania. Ma sulla strada vennero loro incontro degli inviati di parte
sannita, i quali dichiararono che, qualora fossero comparsi di fronte a
un'assemblea nel Sannio, non ne sarebbero usciti illesi. Quando la cosa
si venne a sapere a Roma, il senato propose di dichiarare guerra ai
Sanniti e il popolo avallò la proposta. I consoli si divisero gli incarichi: a
Scipione toccò l'Etruria, a Fulvio il Sannio, e ciascuno partì per
il fronte che gli era stato assegnato. Scipione, che progettava una campagna
blanda, sul tenore di quella dell'anno precedente, venne affrontato
presso Volterra dai nemici schierati in ordine di battaglia. Lo
scontro proseguì per quasi tutto il giorno, ed entrambe le parti subirono
forti perdite. La notte sopraggiunse senza che si potesse capire a chi fosse
andata la vittoria. Ma la luce del giorno successivo mise in chiaro chi
fosse il vincitore e chi il vinto: gli Etruschi, infatti, avevano
abbandonato l'accampamento durante la notte. I Romani scesi in battaglia,
vedendo che la partenza del nemico aveva consegnato loro in mano la
vittoria, si avvicinarono all'accampamento: lo trovarono deserto
e se ne impadronirono raccogliendo un bottino ricchissimo (era infatti un
campo fisso abbandonato in fretta e furia). Il console riportò poi
le truppe nel territorio dei Falisci. Lasciati i carriaggi a Faleri insieme
con una guarnigione di modeste proporzioni, si diede a saccheggiare il
territorio nemico con gli uomini liberi da pesi. Tutto venne messo a
ferro e fuoco, e dovunque si rastrellò del bottino. E non si limitarono a
devastare le campagne, ma incendiarono anche posizioni fortificate e villaggi.
Il console evitò comunque di attaccare la città, dove il
panico aveva costretto gli Etruschi a cercare rifugio. Una celebre battaglia nei pressi di
Boviano, nel Sannio, fece registrare una netta vittoria del console Gneo Fulvio
che, avendo assalito Boviano e poco dopo anche Aufidena, le prese
entrambe con la forza. 13 Nello stesso anno fu fondata una
colonia a Carseoli, nel territorio degli Equicoli. Il console Fulvio
celebrò il trionfo sui Sanniti. Quando le elezioni dei consoli erano ormai
alle porte, cominciò a circolare la voce che Etruschi e Sanniti stavano
allestendo grossi eserciti. Si diceva che in tutte le assemblee i capi
etruschi venivano attaccati senza mezzi termini per non essere riusciti a
trascinare in nessun modo i Galli in guerra, i magistrati sanniti per aver
gettato allo sbaraglio contro i Romani l'esercito che era stato
raccolto contro i Lucani. E così i nemici, unendo le proprie forze a quelle degli
alleati, stavano per sollevarsi in guerra, e i Romani dovevano affrontare
uno scontro impari. Questo stato di grande allarme fece sì che, pur
aspirando al consolato dei candidati di valore, tutti votarono Quinto Fabio
Massimo, che in un primo tempo non aveva nemmeno presentato la propria
candidatura, e che poi, vedendo l'orientamento degli elettori,
continuava a rifiutare la carica. Chiedeva perché mai continuassero a rivolgersi a
lui, vecchio com'era e dopo tutte le fatiche sostenute e i riconoscimenti
avuti in cambio delle sue fatiche. Diceva che il fisico e la mente non
erano più nelle condizioni di un tempo, e aveva paura che a qualche dio
sembrasse eccessiva la fortuna
toccatagli, e più costante di quanto non fosse lecito alla
natura umana. Era salito fino alla gloria dei
più anziani, e adesso sarebbe stato un piacere vedere altri assurgere alla sua
gloria. E a Roma non mancavano certo né alti riconoscimenti per uomini
di valore, né uomini di valore all'altezza di tali riconoscimenti. Con
una modestia simile non faceva che incrementare il più che giusto
entusiasmo del popolo: pensando allora di poterne vincere la resistenza con un
richiamo al rispetto delle leggi, pregò di leggere ad alta voce la
legge in virtù della quale nessuno poteva essere rieletto console prima del
termine di dieci anni. Ma il frastuono era tale che la legge si udì a
malapena; per giunta i tribuni della plebe ripetevano che essa non avrebbe
rappresentato affatto un ostacolo: si impegnavano a presentare al popolo una
legge che dispensasse Fabio dall'obbligo di rispettare la normativa
precedente. Fabio insisteva nel rifiutare, domandando che senso avesse
fare delle leggi se poi a violarle per primi erano gli stessi che le
proponevano. Ma anche così il popolo iniziò a votare, e ogni centuria
convocata all'interno non aveva esitazioni a designare console Fabio.
Fu allora che Fabio, vinto infine dal consenso di un'intera città,
disse: «Possano gli dèi approvare, Quiriti, quello che fate e che siete
sul punto di fare. Ma dato che di me finirete per fare ciò che volete
voi, almeno accontentatemi nella nomina del collega: vi prego di nominare
console con me Publio Decio, uomo degno di voi e del padre: di lui ho potuto
sperimentare le qualità durante un consolato retto in perfetto accordo».
La raccomandazione sembrò giusta. Tutte le centurie residue nominarono
consoli Quinto Fabio e Publio Decio. Quell'anno molti cittadini vennero
citati in giudizio dagli edili, perché possedevano più terreno di
quanto fosse consentito dalla legge. Quasi nessuno venne assolto, il che pose un
forte freno agli eccessi di cupidigia. 14 I nuovi consoli, Quinto Fabio
Massimo per la quarta volta e Publio Decio Mure per la terza, dovevano
scegliere il proprio campo di operazione, contro i Sanniti l'uno,
contro gli Etruschi l'altro. Mentre discutevano quante forze fossero
necessarie per ciascun fronte, e chi dei due fosse più indicato a gestire
l'una o l'altra campagna, arrivarono ambasciatori da Sutri, Nepi e Faleri ad
annunciare che i popoli dell'Etruria stavano tenendo assemblee
apposite sulla richiesta di pace. Perciò tutti gli sforzi bellici
vennero concentrati sull'obiettivo sannita. Partiti da Roma, i consoli
guidarono gli eserciti nel Sannio seguendo percorsi diversi, per far
sì che l'approvvigionamento di viveri fosse più facile e il nemico
avesse maggiori incertezze sulla direzione dell'attacco. Fabio passò
attraverso il territorio di Sora, Decio attraverso quello dei Sidicini.
Arrivati al confine, entrambi avanzarono in ordine sparso dedicandosi al
saccheggio, spingendosi però ad esplorare aree più lontane di quelle
saccheggiate. Per questo non sfuggì loro che i nemici si erano concentrati in una
valle nascosta presso Tiferno, con il proposito di aggredire i Romani da un
punto sopraelevato quando fossero entrati nella valle. Lasciati i
carriaggi in un luogo sicuro, con un modesto presidio, Fabio avvertì
gli uomini dell'imminenza del combattimento, e si avvicinò in
formazione a colonne affiancate al nascondiglio dei nemici. I Sanniti,
persa la speranza della sorpresa, poiché prima o poi si doveva pure
arrivare allo scontro aperto, preferirono uscire allo scoperto
schierandosi anch'essi in ordine di battaglia. Così scesero a valle,
affidandosi alla sorte più con la forza del coraggio che con quella della
speranza. Ciò non ostante, sia perché avevano messo insieme il meglio degli
uomini di tutte le genti sannite, sia perché uno scontro la cui posta era
tanto elevata ne accresceva l'ardore, anche in campo aperto
restarono per qualche tempo avversari capaci di incutere timore. Fabio, vedendo che il nemico non cedeva
in nessun punto, ordinò ai tribuni militari Massimo, suo figlio, e Marco
Valerio, col quale si era spinto fino in prima fila, di avvicinarsi ai
cavalieri e di esortarli, nel ricordo di altre occasioni in cui l'intervento
della cavalleria aveva aiutato la repubblica, a fare di tutto
quel giorno per mantenere intatta la reputazione del loro ordine.
Nell'urto con la fanteria, i nemici erano rimasti sulle proprie posizioni, e
ormai ogni speranza era affidata alla carica dei cavalieri. Poi, rivolgendosi
in particolare ai due giovani con lo stesso affetto, li coprì di
lodi e di promesse. Qualora però anche quel tentativo di sfondamento non avesse
avuto successo, convinto di dover ricorrere all'astuzia ove la forza non
fosse stata sufficiente, Fabio ordinò al luogotenente Scipione
di ritirare dallo scontro gli astati della prima legione e di portarli verso i
monti vicini, agendo nella maniera meno evidente possibile, e poi,
attraverso un percorso non in vista, di far salire il suo manipolo fin sulla
cima, sbucando all'improvviso alle spalle del nemico. E i cavalieri, con
alla testa i tribuni spintisi tutt'a un tratto in prima linea, crearono
scompiglio tra i nemici non meno che tra gli stessi compagni. Il fronte
sannita tenne duro contro la carica della cavalleria, senza indietreggiare
o aprirsi in alcun punto. I cavalieri, poiché il loro assalto non
aveva avuto successo, si ritirarono alle spalle della fanteria abbandonando
il combattimento. Quell'episodio fece crescere l'ardore dei nemici, e la
prima linea non avrebbe potuto reggere un urto protratto tanto a
lungo, se il console non avesse ordinato alla seconda di prenderne il posto. Fu
allora che le forze fresche fermarono i Sanniti già in
procinto di avanzare, mentre la vista degli uomini armati comparsi all'improvviso
sulle cime delle alture, e le urla da essi levate spaventarono i nemici al
punto da far loro temere un pericolo superiore alle sue reali
proporzioni. Fabio infatti gridò che il collega Decio si stava avvicinando, e
allora ogni soldato romano esultò, urlando al colmo dell'eccitazione che
stava arrivando l'altro console con le sue legioni. Quest'errata
interpretazione, un vero vantaggio per i Romani, diventò per i Sanniti
motivo di sgomento e incentivo alla fuga: già stremati, avevano il terrore
di essere sopraffatti da quell'altro esercito in forze e ancora intatto.
Erano fuggiti disordinatamente in varie direzioni, e il massacro che
seguì non eguagliò per proporzioni la vittoria. Le vittime tra i nemici
furono 3.400, i prigionieri 830, ventitré le insegne conquistate. 15 Prima della battaglia, ai Sanniti si
sarebbero uniti gli Apuli, se solo il console Publio Decio non si fosse
accampato di fronte a loro a Malevento, e non li avesse attirati a
combattere e duramente sconfitti. Anche in questo caso la fuga fu
più grossa del massacro: vennero uccisi 2.000 Apuli. Lasciando poi da parte
quel nemico, Decio guidò le sue legioni nel Sannio. Lì i due
eserciti consolari, sparpagliandosi in zone diverse, in cinque mesi misero a ferro
e fuoco tutta la regione. Decio si accampò in quarantacinque punti
diversi del Sannio, l'altro console in ottantasei. E non rimasero soltanto le
tracce della trincea e del terrapieno, ma in tutte le regioni
saccheggiate i segni delle devastazioni furono ben più evidenti. Fabio
espugnò anche la città di Cimetra, dove vennero fatti prigionieri 2.900 soldati
e uccisi circa 930 nemici nello scontro. Fabio andò poi a Roma per
presiedere le elezioni, compiendo rapidamente le operazioni connesse. Poiché le prime
centurie chiamate al voto designavano tutte Quinto Fabio come console, Appio
Claudio, candidato alla carica, energico e ambizioso com'era, impiegò
tutte le proprie risorse e quelle dell'intero patriziato per farsi
nominare console assieme a Quinto Fabio, non tanto perché gli premesse la
carica, quanto piuttosto perché i patrizi si riappropriassero dei due posti di
console. Sulle prime Fabio rifiutava l'incarico, con gli stessi argomenti
dell'anno precedente. Fu allora che l'intera nobiltà si
avvicinò al suo scranno, pregandolo di tirare fuori il consolato dal fango plebeo, e di
restituire la nobiltà di un tempo sia alla carica sia alle famiglie patrizie.
Imposto il silenzio, Fabio con un discorso molto equilibrato placò
l'animosità delle parti in causa. Disse infatti che avrebbe accettato come
validi i nomi dei due patrizi, se solo avessero eletto console una persona che
non fosse lui. Non avrebbe però ritenuta valida la propria elezione,
per il cattivo esempio che sarebbe venuto da una violazione della legge.
Così, assieme ad Appio Claudio venne eletto console il plebeo Lucio Volumnio
(i due si erano già trovati a fianco in un precedente consolato). I
nobili accusarono Fabio di aver voluto evitare un collega come Appio
Claudio che gli sarebbe senza dubbio stato superiore per capacità oratorie
e per doti politiche. 16 Concluse le elezioni, ai consoli
uscenti venne data disposizione di proseguire la guerra nel Sannio, con la
concessione di sei mesi di proroga al loro incarico. E così anche
l'anno successivo, durante il consolato di Lucio Volumnio e Appio Claudio, Publio
Decio - lasciato dal collega nel Sannio in qualità di console -
continuò come proconsole a saccheggiare senza tregua le campagne, fino a quando
riuscì finalmente a espellere l'esercito sannita, che non aveva mai
avuto il coraggio di affidarsi allo scontro aperto. I Sanniti respinti si
diressero in Etruria: pensando con quell'esercito tanto massiccio,
mescolando preghiere e minacce, di poter meglio raggiungere lo scopo più
volte vanamente inseguito per vie diplomatiche, chiesero che venisse
convocata un'assemblea dei capi Etruschi. Una volta riuniti,
ricordarono agli Etruschi per quanti anni avessero combattuto contro i Romani in
difesa della loro libertà: avevano tentato ogni via, pur di riuscire a
sostenere soltanto con le proprie forze una guerra tanto onerosa,
arrivando perfino a chiedere il sostegno (a dire il vero ben poco efficace) dei
popoli circostanti. Avevano chiesto al popolo romano di ottenere la pace,
quando non erano più in grado di sostenere la guerra. Avevano
ricominciato a combattere, perché una pace da servi era ben più pesante di una
guerra da liberi. La sola speranza residua era riposta negli Etruschi.
Sapevano che era la gente più ricca d'Italia quanto ad armi, uomini e
denaro, e che come vicini avevano i Galli, un popolo nato tra il ferro e le
armi, già disposto alla guerra per la sua stessa natura, e in particolare
nei confronti dei Romani, che essi ricordavano, certo senza vana
millanteria, di aver sottomesso e obbligato a un riscatto a peso d'oro. Se solo
negli Etruschi albergava ancora lo spirito che in passato aveva animato
Porsenna e i suoi antenati, non mancava nulla perché essi, cacciati i
Romani da tutta la terra al di qua del Tevere, li costringessero a lottare
per la propria salvezza, invece che per un insopportabile dominio
sull'Italia. L'esercito sannita era lì, pronto per loro, con armi e denaro per
pagare i soldati, disposto a seguirli su due piedi, anche se
avessero voluto portarlo ad assediare addirittura Roma. 17 Mentre i Sanniti andavano agitando e
macchinando questi propositi, la guerra portata dai Romani stava
devastando il loro paese. Infatti Publio Decio, quando venne a sapere tramite
gli informatori che l'esercito sannita si era messo in marcia,
convocò il consiglio di guerra e disse: «Perché restiamo a vagare per le
campagne, portando la guerra da un villaggio all'altro? Perché non
attacchiamo le mura delle città? Il Sannio ormai non è più
presidiato da nessun esercito: ritirandosi dalle loro terre, si sono inflitti da soli
l'esilio». Poiché tutti approvavano la sua proposta, guidò l'esercito
all'assalto di Murganzia, una città ben fortificata. E l'entusiasmo dei soldati
fu tanto, sia per l'attaccamento alla persona del comandante, sia per la
speranza di poter raccogliere un bottino più cospicuo di quello
ricavato dalle incursioni nelle campagne, che la città venne espugnata in
un solo giorno. I soldati sanniti sopraffatti e catturati furono 2.100, e
si aggiunse altro bottino in grande quantità. Per evitare che
l'eccessivo peso della preda rallentasse la marcia dell'esercito, Decio
convocò i soldati e disse loro: «Volete accontentarvi di quest'unica vittoria e
di quest'unico bottino? Volete coltivare sogni all'altezza dei vostri
meriti? Tutte le città del Sannio e le fortune rimaste nelle città
sono vostre, perché finalmente avete cacciato via dal Sannio le loro legioni
sconfitte in così numerose battaglie. Vendete questi beni e
attirate i mercanti a seguire la marcia dell'esercito agitando ai loro occhi la
prospettiva di lauti guadagni: io vi procurerò sempre nuovo
bottino da vendere. Partiamo per Romulea, dove vi aspettano non maggiore fatica e
maggiore guadagno». Venduto il bottino, furono i soldati
stessi a sollecitare il comandante, e si partì alla volta di Romulea.
Anche lì, senza dover ricorrere ad assedi e macchine da lancio, appena le truppe
si avvicinarono alla città, non ci fu forza che riuscisse a contenerne
l'urto: accostarono sùbito le scale alle mura nei punti che si trovavano
più vicino a ogni soldato, e ne raggiunsero in un attimo la
sommità. La città fu presa e saccheggiata. Gli uomini uccisi furono circa 2.300, i
prigionieri 6.000. I soldati romani si impadronirono di un cospicuo bottino,
che misero in vendita, come già quello precedente. Di lì vennero
portati a Ferentino, sempre sostenuti dall'entusiasmo, non ostante non fosse
stato loro concesso alcun riposo. In quella città le
difficoltà e i rischi furono maggiori: le mura erano difese con estremo accanimento, e la
posizione era protetta da fortificazioni e dalla conformazione
stessa del luogo. Ma gli uomini, abituati a far bottino, riuscirono a
superare ogni ostacolo. Circa 3.000 nemici vennero uccisi attorno alle
mura, mentre la preda venne lasciata ai soldati. Secondo alcuni annalisti, il
merito maggiore della cattura di queste città fu di Massimo:
riferiscono che Murganzia sarebbe stata espugnata da Decio, Ferentino e Romulea
invece da Fabio. C'è poi chi attribuisce quest'impresa ai nuovi
consoli. Altri ancora non a entrambi, ma al solo Lucio Volumnio, cui sarebbe
stato affidato il comando della spedizione nel Sannio. 18 Mentre nel Sannio venivano compiute
queste imprese (non importa sotto il comando e gli auspici di chi), in
Etruria molti popoli stavano preparando una grossa guerra contro i
Romani; la mente dell'operazione era il sannita Gellio Egnazio. Quasi tutti
gli Etruschi avevano deciso di prendere parte a quel conflitto, che
aveva contagiato le popolazioni della vicina Umbria, e anche truppe
ausiliarie formate da Galli attirati dai soldi. Tutta questa gente si stava
radunando presso l'accampamento dei Sanniti. Quando la notizia
dell'improvvisa sollevazione arrivò a Roma - dato che il console Lucio Volumnio era
già partito alla volta del Sannio con la seconda e la terza legione e con
15.000 alleati -, si decise che Appio Claudio partisse quanto prima per
l'Etruria. Lo seguivano due legioni, la prima e la quarta, e 12.000
alleati. L'accampamento venne posto non lontano dal nemico. L'arrivo del console servì
più perché giunse opportunamente a trattenere con la sola paura del nome di Roma
alcune popolazioni dell'Etruria che avevano già intenzione di
entrare in guerra, che perché sotto il suo comando fosse stata realizzata qualche
abile o riuscita operazione. Molti scontri si svolsero in punti e momenti
sfavorevoli, e i nemici, fiduciosi com'erano nelle proprie forze,
diventavano giorno dopo giorno sempre più temibili. Ormai si era già quasi
arrivati al punto che i soldati romani non avevano fiducia nel comandante, né
il comandante nei soldati. In tre diversi annalisti ho trovato che Appio
avrebbe inviato al collega un messaggio col quale lo richiamava dal
Sannio. Tuttavia non mi sento di accettare come vera la notizia, perché
i due consoli romani - che ricoprivano quella stessa carica
già per la seconda volta - si trovarono in disaccordo sullo svolgimento dei
fatti: Appio negava di aver mandato il messaggio, mentre Volumnio sosteneva di
esser stato convocato da una lettera di Appio. Volumnio aveva
già espugnato nel Sannio tre piazzeforti, uccidendovi circa 3.000 nemici e
facendone prigionieri 1.500. In Lucania c'era poi stata un'insurrezione
organizzata da plebei e indigenti: a sedarla, con grande soddisfazione degli
ottimati, era stato Quinto Fabio, spedito in quella zona come proconsole,
con il vecchio esercito. Volumnio lasciò al collega l'incarico di
mettere a ferro e fuoco il territorio nemico, e partì coi suoi uomini
per l'Etruria, per raggiungervi il collega. Il suo arrivo venne salutato
con entusiasmo da tutti. Ma Appio che, immagino, in base alla sua
coscienza avrebbe dovuto o sentirsi a buon diritto in collera (nel caso non avesse
scritto nulla), oppure dimostrarsi ingiusto e ingrato (qualora stesse
cercando di nascondere la cosa pur avendo chiesto soccorso), gli
andò incontro senza ricambiare il saluto e disse: «Come va, Lucio Volumnio? E la
situazione nel Sannio? Cosa ti ha spinto ad abbandonare il fronte di
guerra che ti è stato assegnato?». Volumnio replicò che le cose nel
Sannio procedevano bene, e aggiunse di essersi presentato perché convocato da
un suo messaggio. Se però si trattava di un falso allarme, e non
c'era bisogno di lui in Etruria, allora sarebbe immediatamente
ripartito. «Vai pure, allora», replicò Appio, «nessuno ti trattiene: non ha
senso che tu, che sei a malapena in grado di fronteggiare la tua campagna,
ti debba vantare di esser venuto a portare aiuto agli altri». Augurandosi
che Ercole potesse fare andare tutto per il meglio, Volumnio disse che
preferiva aver perduto tempo invano, piuttosto che fosse successo
qualcosa per cui in Etruria un solo esercito consolare non fosse
sufficiente. 19 Mentre erano già sul punto di
congedarsi, i due consoli vennero circondati dai luogotenenti e dai
tribuni dell'esercito di Appio. Alcuni di essi imploravano il loro comandante
di non respingere l'aiuto offerto spontaneamente dal collega (aiuto che
sarebbe stato necessario richiedere); la maggior parte,
attorniando Volumnio in atto di partire, lo supplicava di non tradire il paese per
un'insulsa rivalità col collega: se solo ci fosse stato qualche disastro,
la responsabilità sarebbe stata addossata più su chi aveva
abbandonato l'altro che su chi era stato abbandonato. La situazione era tale,
che ormai tutto il merito di un successo o il disonore di un insuccesso
sarebbero toccati a Lucio Volumnio. Nessuno si sarebbe
preoccupato di sapere quali fossero state le parole di Appio, ma solo quale sorte
fosse toccata all'esercito. Appio lo aveva congedato, ma a trattenerlo erano
la repubblica e l'esercito: bastava solo mettesse alla prova la
volontà dei soldati. Con queste parole di monito e queste
suppliche essi riuscirono a trascinare nell'assemblea i due consoli
riluttanti. Lì vennero pronunciati dei discorsi più argomentati, ma
identici nella sostanza a quelli già pronunciati nella discussione ristretta.
E poiché Volumnio, il quale aveva maggiori ragioni, quanto a doti
oratorie non sembrava meno dotato del brillante collega, Appio disse
ironicamente che i soldati gli dovevano gratitudine, se ora avevano un console
eloquente, da muto e senza lingua ch'era prima: nel corso del precedente
consolato, non era mai riuscito ad aprire bocca, mentre adesso teneva
discorsi che conquistavano il favore delle masse. Volumnio allora ribatté:
«Come preferirei che tu avessi imparato da me ad agire con decisione,
piuttosto che io da te a esprimermi in maniera raffinata!». Poi propose di
stabilire in questo modo chi dei due fosse non tanto il miglior oratore
(non di questo aveva bisogno lo Stato), quanto il miglior generale:
poiché le zone di operazione erano l'Etruria e il Sannio, Appio scegliesse
pure quella che preferiva. Lui, Volumnio, con il suo esercito avrebbe
condotto la campagna indifferentemente sia in Etruria che
nel Sannio. Allora i soldati cominciarono a gridare
che la guerra contro gli Etruschi doveva essere condotta collegialmente
da entrambi. E Volumnio, vedendo che tutti erano di questo avviso, disse:
«Poiché ho sbagliato nell'interpretare le intenzioni del
collega, non lascerò che restino dubbi circa le vostre: fatemi capire col
vostro grido se preferite che io resti oppure che me ne vada». L'urlo che
allora si levò fu così potente, che i nemici uscirono dalle tende e presero
le armi andandosi a schierare in campo. Anche Volumnio fece dare il
segnale di battaglia e ordinò di uscire dall'accampamento. Pare che Appio abbia
avuto un attimo di esitazione, constatando che la vittoria sarebbe
stata merito del collega, che egli intervenisse nel combattimento o no.
Poi, temendo che le sue legioni seguissero Volumnio, diede anch'egli il
segnale di battaglia ai suoi che lo stavano chiedendo con impazienza. I due eserciti non avevano potuto
schierarsi in maniera ordinata. Infatti da una parte il comandante dei Sanniti
si era allontanato con alcune coorti per andare alla ricerca di
rifornimenti e i soldati si gettavano nella mischia seguendo più
l'stinto che gli ordini e la guida di un comandante; dall'altra, gli eserciti
romani non erano stati portati in linea di combattimento nello stesso
istante e non c'era stato nemmeno il tempo sufficiente perché le forze
venissero schierate. Volumnio si scontrò col nemico prima dell'arrivo di Appio,
e così nel fronte di combattimento non ci fu continuità. E poi,
come se il destino avesse voluto invertire i nemici di sempre, gli Etruschi andarono
a fronteggiare Volumnio, mentre i Sanniti, dopo un attimo di esitazione
per l'assenza del loro comandante, si presentarono nella zona di Appio.
Pare che nel pieno dello scontro Appio levò le mani al cielo tra
le prime file (in modo che tutti lo vedessero), pronunciando questa
preghiera: «O Bellona, se oggi ci garantisci la vittoria, prometto di
dedicarti un tempio». Dopo aver rivolto questa preghiera, quasi lo
sospingesse la dea, eguagliò il collega in atti di valore, e i suoi uomini
furono pari al generale. I comandanti fecero il loro dovere, mentre i soldati
si impegnarono al massimo perché la vittoria non avesse inizio
dall'altra parte dell'esercito. Così travolsero e misero in fuga i nemici,
che non potevano reggere l'urto di forze superiori a quelle con cui di
solito combattevano in passato. Incalzandoli quando cominciavano a
cedere e poi inseguendoli mentre fuggivano disordinatamente, li
ricacciarono verso l'accampamento. Lì l'arrivo di Gellio e delle coorti
sannite fece sì che la battaglia si riaccendesse per un po' di tempo. Ma
anche queste nuove forze vennero in breve sopraffatte, e i vincitori si
lanciarono all'assalto dell'accampamento. Mentre Volumnio in
persona spingeva le sue truppe contro la porta, e Appio infiammava gli
animi dei suoi soldati continuando ad acclamare Bellona vincitrice, fecero
breccia attraverso il terrapieno e il fossato. L'accampamento fu preso e
saccheggiato. Il bottino prelevato fu cospicuo e venne lasciato ai
soldati. Furono uccisi 7.800 nemici, fatti prigionieri 2.120. 20 Mentre entrambi i consoli e tutte le
forze romane erano impegnati sul fronte della guerra etrusca, i Sanniti,
allestito un nuovo esercito, cominciarono a mettere a ferro e fuoco
i territori soggetti al dominio romano: scesi in Campania e nell'agro
Falerno attraverso il territorio dei Vescini, colsero un ingente bottino.
Mentre Volumnio stava rientrando nel Sannio a marce forzate - per Fabio e
Decio si stava già infatti avvicinando il termine della proroga
dell'incarico -, le notizie relative all'esercito sannita e alle
devastazioni nel territorio campano lo fecero deviare per andare a proteggere gli
alleati. Non appena giunse nella zona di Cale, vide coi propri occhi i segni
dei recenti disastri, e venne informato dai Caleni che il nemico
stava trascinando un carico tale di bottino da riuscire a stento a mantenere
l'ordine di marcia; per questo i comandanti sanniti affermavano senza
remore che si doveva rientrare quanto prima nel Sannio per scaricarvi il
bottino, e non rischiare lo scontro con un esercito tanto appesantito. Anche se
queste informazioni erano verisimili, il console volle saperne di
più e mandò in giro dei cavalieri col cómpito di intercettare i predatori
sparsi per le campagne. Dopo averli interrogati, venne a sapere che
il nemico era accampato nei pressi del fiume Volturno e che aveva
intenzione di partire di lì a mezzanotte, con direzione il Sannio. Verificate le informazioni, si mise in
marcia andandosi a fermare a una distanza dai nemici tale che, per la
prossimità, non potessero rendersi conto del suo arrivo e li si potesse
sorprendere mentre uscivano dall'accampamento. Poco prima dell'alba
si avvicinò all'accampamento e inviò degli uomini che parlavano
la lingua osca a esplorare i movimenti del nemico. Ed essendosi mescolati agli
avversari - cosa che non fu difficile nella confusione della notte
-, essi vennero a sapere che gli sparuti reparti armati erano già
usciti, e che adesso stavano uscendo quelli incaricati di vigilare sul
bottino, ovvero una schiera statica, in cui ciascuno pensava soltanto alle
proprie cose, senza che ci fossero una volontà comune e un comando ben
definito. Sembrò quello il momento più indicato per l'attacco. Poiché era
infatti già quasi chiaro, il console fece dare il segnale e si
riversò sulla formazione nemica. Appesantiti dal bottino, i Sanniti, pochi dei quali
erano armati, cercarono in parte di accelerare il passo spingendo avanti il
carico del bottino, e in parte invece si fermarono, non sapendo se
fosse più sicuro procedere o rientrare al campo. Mentre esitavano, furono
sopraffatti. I Romani avevano già superato la trincea, gettando lo
scompiglio e mietendo vittime nell'accampamento. A sconvolgere la
colonna dei Sanniti era stata, oltre al repentino attacco nemico, anche
l'improvvisa sollevazione dei prigionieri, che essendosi in parte
già liberati toglievano i lacci ai compagni, mentre in parte afferravano le
armi legate ai basti e, mescolandosi alla colonna,
contribuivano a rendere la situazione più caotica della battaglia stessa. Poi
però realizzarono un'impresa eccezionale: assalito il comandante
Staio Minacio che si aggirava tra i suoi cercando di incitarli, dispersero i
cavalieri del suo séguito, lo circondarono, e fattolo prigioniero in
sella al suo cavallo lo trascinarono di fronte al console
romano. La prima linea sannita tornò indietro richiamata da quel frastuono,
e la battaglia che sembrava già decisa riprese, anche se i nemici non
riuscirono a reggere a lungo. Vennero uccisi circa in 6.000, mentre
2.500 furono fatti prigionieri (tra di loro anche quattro tribuni
militari), trenta insegne conquistate, e - motivo di gioia ancor più grande
per i vincitori - furono liberati 7.400 prigionieri e riconquistato il grosso
bottino strappato agli alleati. I legittimi proprietari vennero convocati
con un editto a riconoscere le proprie cose e a riprenderle entro un
termine preciso. Gli oggetti che nessuno si presentò a reclamare
furono lasciati ai soldati, che vennero obbligati a vendere la preda, per
evitare che si concentrassero su qualcosa di diverso delle armi. 21 La spedizione nell'agro campano
aveva suscitato grande trepidazione a Roma. Inoltre, proprio in quei giorni,
dall'Etruria era arrivata la notizia che dopo la partenza
dell'esercito di Volumnio gli Etruschi erano corsi alle armi, e che Gellio Egnazio,
comandante dei Sanniti, cercava non solo di spingere gli Umbri alla
ribellione ma anche di allettare i Galli con la promessa di una grossa
ricompensa. Preoccupato da queste notizie il senato ordinò la sospensione delle
pubbliche attività e bandì la leva generale degli uomini di ogni classe
sociale. Ad essere arruolati non furono solo gli uomini liberi e i
più giovani, ma vennero formate anche coorti di veterani, e i liberti furono
inquadrati in centurie. Inoltre fu predisposto anche un piano di difesa
per Roma, e a capo della città venne posto il pretore Publio Sempronio. Ma a
liberare il senato di parte delle sue preoccupazioni giunse una lettera
con la quale il console Lucio Volumnio riferiva che i predoni della
Campania erano stati fatti a pezzi e dispersi. Pertanto i senatori, a nome
del console, decretarono pubblici ringraziamenti agli dèi per
l'esito favorevole dell'impresa, e revocarono la sospensione dei pubblici affari,
durata diciotto giorni. E venne celebrato il rito della supplica. Si iniziò poi a discutere circa
il modo di proteggere la regione devastata dai Sanniti, e venne deciso di fondare
due colonie nei territori di Vescia e di Falerno, una presso la foce del
Liri (alla quale andò il nome di Minturno), l'altra sulle alture di
Vescia, vicino al territorio di Falerno, dove si dice si trovasse la
città greca di Sinope, chiamata poi dai coloni romani Sinuessa. I tribuni
ricevettero l'incarico di presentare all'approvazione del popolo un decreto
in base al quale il pretore Publio Sempronio avrebbe nominato tre
magistrati col cómpito di presiedere alla fondazione di quelle colonie. Tuttavia
non era facile trovare la gente da iscrivere: dominava l'impressione di
essere spediti non in una colonia agricola, ma come a un avamposto
permanente in una zona minacciata dai nemici. A distogliere il senato da questi
problemi furono la guerra in Etruria, che stava diventando sempre più
preoccupante, e i frequenti messaggi di Appio che consigliava con insistenza di
non trascurare i moti di quella regione: quattro popoli - Etruschi,
Sanniti, Umbri e Galli - stavano unendo le proprie forze, e avevano
già posto due accampamenti distinti, perché un unico campo non era in grado
di contenere tutta quella massa di armati. Per questo motivo, e anche per
presiedere le elezioni (la data era già alle porte), venne
richiamato a Roma il console Lucio Volumnio. Questi, prima di chiamare le centurie
al voto, dopo aver convocato l'assemblea generale, pronunciò
un lungo discorso sulla gravità della guerra in Etruria. Disse che fino a
quel momento, fino a quando cioè aveva gestito insieme al collega la campagna
in Etruria, la guerra era stata così dura, che per sostenerla
non erano stati sufficienti un unico comandante e un unico esercito. In
séguito, stando a quanto si diceva, si erano aggiunti gli Umbri e i Galli con
un grosso esercito. Tenessero bene a mente, quindi, che quel giorno
venivano scelti i consoli destinati a fronteggiare quei quattro popoli.
Personalmente, se non fosse stato convinto che il voto del popolo stava
per designare al consolato l'uomo che in quel momento era giudicato senza
alcun dubbio il miglior generale a disposizione, lo avrebbe nominato immediatamente
dittatore. 22 Nessuno dubitava che Fabio sarebbe
stato eletto all'unanimità per la quinta volta: e infatti le centurie
prerogative e quelle chiamate al voto per prime lo avevano nominato console
insieme a Lucio Volumnio. E Fabio pronunciò un discorso simile a
quello di due anni prima. Poi, visto che nulla poteva contro il volere unanime
del popolo, chiese infine che gli fosse assegnato come collega Publio
Decio: sarebbe stato un sostegno per la sua vecchiaia. Nella censura e in due
consolati condotti insieme aveva avuto modo di sperimentare come nulla
fosse più utile agli interessi dello Stato che l'armonia tra i colleghi. Il
suo temperamento di vecchio avrebbe fatto fatica ad abituarsi a un nuovo
compagno di comando. Con una persona già nota sarebbe stato invece
più facile concordare le strategie di guerra. Il console si dichiarò
d'accordo con le parole di Fabio, elogiando Publio Decio per i suoi effettivi
meriti, insistendo sui vantaggi che derivano dall'armonia tra i consoli
nella gestione delle campagne militari e sui danni che nascono dal loro
disaccordo, e ancora ricordando come poco tempo prima si fosse giunti a un passo
dal disastro proprio per la divergenza di vedute tra lui e il
collega. Decio e Fabio avevano invece un solo cuore e una sola mente, e poi
erano uomini nati per la vita militare, grandi nell'azione e poco portati agli
scontri a base di lingua e parole. Queste sì erano
personalità tagliate per la carica di console: i furbi e gli scaltri, gli esperti di diritto e
di eloquenza, come Appio Claudio, bisognava tenerli per il governo della
città e per la vita pubblica, per l'elezione dei pretori deputati
all'amministrazione della giustizia. L'intera giornata trascorse in questi
discorsi. Il giorno successivo le elezioni di consoli e pretori si
tennero secondo le disposizioni del console: pur essendo tutti assenti,
vennero eletti consoli Quinto Fabio e Publio Decio, pretore Appio Claudio. In
base a un decreto del senato e a una deliberazione della plebe, a Lucio
Volumnio venne prorogato il comando delle truppe per un anno.
23 Nel corso dell'anno si verificarono molti prodigi. Per evitarne le possibili conseguenze, il senato
decretò due giorni di suppliche: vennero offerti a spese dell'erario vino e
incenso, mentre uomini e donne andarono in massa a supplicare gli dèi.
Quella supplica rimase nelle cronache per una lite scoppiata tra le matrone
all'interno del santuario della Pudicizia patrizia, situato nel foro
Boario in prossimità del tempio rotondo di Ercole. Le matrone avevano escluso
dalla partecipazione ai riti sacri Virginia, figlia di Aulo, una
patrizia moglie di un plebeo, il console Lucio Volumnio, perché,
celebrato il matrimonio, non faceva più parte del patriziato. Ne nacque un
breve screzio che, per colpa dell'irascibilità tipica delle
donne, si trasformò in una violenta lite: Virginia a buon diritto si vantava di
essere entrata da patrizia e casta nel santuario della Pudicizia patrizia,
in quanto sposata a un solo uomo in casa del quale era stata condotta
ancor vergine, e di non aver alcun motivo di vergognarsi del marito, né
della sua carriera e né dei suoi successi in campo militare. A queste
parole piene di orgoglio fece seguire un gesto bizzarro: nel suo palazzo di
via Lunga - dove abitava -, fece ricavare uno spazio sufficiente alla
costruzione di un tempietto, vi collocò un altare e, convocate
le matrone plebee, lamentandosi dell'affronto subito dalle matrone
patrizie, disse: «Consacro quest'altare alla Pudicizia plebea e vi esorto
affinché alla competizione di valori che in questa città tiene impegnati
gli uomini corrisponda, tra le donne, un confronto in materia di pudicizia, e vi
invito a impegnarvi a fondo perché questo altare venga onorato in maniera
più conforme alla religione e da donne più caste, se è mai
possibile, di quello patrizio». L'altare venne in séguito venerato più o meno
con lo stesso rituale di quello più antico, e
non aveva diritto di compiervi sacrifici nessuna matrona che non fosse di specchiata castità e avesse
contratto più di un matrimonio. Col tempo il culto fu allargato anche alle donne
che avevano perduto la castità, e non soltanto alle matrone, ma anche
alle donne di ogni classe, fino a quando non cadde in disuso. Lo stesso anno gli edili curuli Gneo e
Quinto Ogulnio citarono in giudizio alcuni usurai, condannati poi alla
confisca di parte del patrimonio. Col denaro che le casse dello Stato
ricavarono vennero costruite le porte di bronzo del tempio di Giove Capitolino,
le suppellettili d'argento di tre mense nella cella di Giove, il rilievo
di Giove con le quadrighe sul frontone del tempio, nonché la statua
dei gemelli fondatori di Roma sotto le mammelle della lupa, collocata nei
pressi del fico Ruminale. Venne inoltre lastricato con massi quadrati
il marciapiede tra la porta Capena e il tempio di Marte. Anche gli edili
plebei Lucio Elio Peto e Gaio Fulvio Curvo, utilizzando fondi costituiti con
ammende comminate a persone che avevano appaltato terreni sotto
vincolo, fecero allestire dei giochi e porre piatti d'oro nel tempio di
Cerere. 24 Entrarono poi in carica Quinto Fabio
(console per la quinta volta) e Publio Decio (per la quarta), che erano
già stati colleghi in tre consolati e nella censura, celebri per
l'armonia di rapporti più ancora che per la gloria militare, per altro
ragguardevole. Ma a impedire che il clima di armonia durasse in perpetuo fu
una divergenza di vedute, dovuta - a mio parere - più che a loro
stessi alle rispettive classi sociali di provenienza: mentre i patrizi premevano
perché a Fabio venisse assegnato il comando in Etruria con un
provvedimento straordinario, i plebei spingevano Decio a esigere il
sorteggio. Se ne discusse in senato e, quando fu chiaro che in quel contesto
Fabio avrebbe avuto la meglio, si finì col ricorrere al giudizio
del popolo. Di fronte all'assemblea, così
come si addiceva a uomini d'armi abituati più ai fatti che alle parole, i
consoli pronunciarono due brevi discorsi. Fabio sosteneva non fosse giusto che
altri raccogliesse i frutti dall'albero che lui aveva piantato: era
stato lui a inaugurare la selva Ciminia e ad aprire la strada agli
eserciti romani attraverso quegli scoscesi dirupi. Perché andarlo tanto a
sollecitare, se poi intendevano gestire la guerra con un altro
comandante? Si rimproverava di aver scelto un avversario, non un compagno
nell'esercizio del comando, e rinfacciava a Decio di aver tradito lo spirito di
concordia col quale essi avevano insieme condotto tre consolati. Concluse
dicendo di non volere altro se non di essere inviato su quel fronte di
guerra, qualora però lo ritenessero degno del comando. Quanto a
se stesso, si sarebbe rimesso alla volontà del popolo, così
come si era rimesso a quella del senato. Publio Decio si lamentava dell'affronto subito
da parte del senato, sostenendo che i patrizi si erano sforzati, finché
era in loro potere, di impedire ai plebei l'accesso alle magistrature più
importanti. Ma poi, da quando i valori morali erano riusciti da soli a
superare i pregiudizi sociali, gli ottimati cercavano il modo di eludere
non solo il voto del popolo, ma anche le decisioni della sorte,
vincolandola alla volontà arbitraria di pochi individui. Tutti i consoli che li
avevano preceduti si erano divisi le zone di operazioni ricorrendo al
sorteggio: adesso il senato affidava a Fabio il comando della campagna senza
alcun sorteggio. Se ciò era dovuto a un atto di onore nei suoi confronti, i
meriti di quell'uomo nei riguardi dello Stato e di lui stesso erano
così grandi, da essere pronto a favorirne la gloria, purché non
risplendesse a spese del suo disonore. Infatti, quando ci si trovava di fronte
a una guerra dura e difficile e la si affidava a uno dei due consoli senza
il sorteggio, a chi poteva non venire in mente che l'altro console era
considerato inutile e di troppo? Fabio vantava imprese compiute in
Etruria: anche Publio Decio voleva avere la possibilità di gloriarsene. E
forse avrebbe spento lui il fuoco che quell'altro aveva lasciato acceso sotto
la cenere, e che tante volte sarebbe potuto divampare,
all'improvviso, in un nuovo incendio. Per concludere, avrebbe lasciato al collega
premi e riconoscimenti per il rispetto dovuto all'età e alla
dignità della persona: quando però si fosse trattato di andare incontro al pericolo
o di gettarsi nella mischia, non si sarebbe tirato indietro di sua
volontà, né lo avrebbe fatto in séguito. E se non avesse ottenuto nient'altro da
quel confronto, avrebbe almeno ricavato questo: e cioè che
fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al popolo di decidere, piuttosto che a
concederlo, come un loro favore, fossero i patrizi. Pregava Giove Ottimo
Massimo e gli dèi immortali di concedergli col sorteggio
opportunità pari a quelle del collega, ma che insieme gli concedessero lo stesso
valor militare e la stessa buona stella nella conduzione delle operazioni. Era
certo naturale ed esemplare e in sintonia con la fama del popolo romano
che i consoli avessero una personalità tale da permetter
loro di condurre con esiti positivi la campagna in Etruria, a chiunque dei due
toccasse il comando in capo. Fabio, rivolta al popolo un'unica
preghiera prima che le tribù venissero chiamate al voto - e cioè di
ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal pretore Appio Claudio -, lasciò
l'assemblea. Il comando delle operazioni venne affidato a Fabio senza sorteggio,
con un consenso del popolo non inferiore a quello del senato. 25 Tutti i giovani si presentarono di
corsa al console, arruolandosi ciascuno di sua spontanea
volontà, tanto grande era il desiderio di prestare servizio militare agli ordini
di quel generale. Circondato da questa massa di giovani, Fabio disse:
«Ho intenzione di arruolare soltanto 4.000 fanti e 600 cavalieri.
Porterò con me quanti daranno i loro nomi tra oggi e domani. A me preme più
riportarvi in patria ricchi dal primo all'ultimo, piuttosto che fare la
guerra con molti soldati». Partito con un esercito adatto alle esigenze del
momento e formato da uomini che erano tanto più fiduciosi e sicuri per
il fatto che non era stata richiesta una grande quantità di uomini, si
diresse in fretta al campo del pretore Appio, nei pressi della città di
Aarna, che non distava molto dalle posizioni nemiche. A poche miglia da
quel punto si imbatté in alcuni soldati usciti per far legna con una
scorta armata. Quando questi si videro venire incontro i littori e
vennero a sapere che il console era Fabio, ne furono felicissimi e
ringraziarono gli dèi e il popolo romano per aver mandato loro quel comandante.
Mentre poi si accalcavano intorno al console per salutarlo, Fabio chiese
loro dove fossero diretti e, sentendo che andavano a raccogliere legna,
disse loro: «E allora? Il vostro campo non è forse
circondato da una palizzata?». Quelli risposero all'unisono che il campo era sì
circondato da una doppia palizzata e da una doppia trincea, ma che ciò
non ostante vivevano nel terrore. Fabio disse: «Dunque legna ne avete a iosa:
tornatevene indietro e abbattete la palizzata». Quelli rientrarono
all'accampamento e si misero ad abbattere la palizzata, suscitando sgomento tra
gli uomini rimasti nel campo e Appio stesso, fino a quando, passandosi
parola l'uno con l'altro, fecero sapere di agire su ordine del console Quinto
Fabio. Il giorno dopo il campo venne spostato e il pretore Appio fu
rispedito a Roma. Da quel momento i Romani non posero un campo stabile da nessuna
parte: l'idea di Fabio era che a nessun esercito giovasse lo star fermo,
e che anzi le marce e i cambiamenti di zona facessero
acquistare in mobilità e in salute. Le marce, tuttavia, duravano quanto lo
permetteva l'inverno non ancora concluso. All'inizio della primavera Fabio
lasciò la seconda legione a Chiusi - un tempo chiamata Camars - e, affidato
l'accampamento a Lucio Scipione coi gradi di propretore, rientrò a
Roma per tenervi un consiglio di guerra. Questo sia che vi si fosse recato di
sua spontanea volontà dopo aver constatato di persona che la guerra era
più delicata di quanto non lasciassero intuire le notizie arrivate
dal fronte, sia che fosse stato convocato da un decreto del senato: le
fonti riferiscono entrambe le versioni dei fatti. Secondo alcune a
farlo convocare sarebbe stato il pretore Appio Claudio, che di fronte al
senato e al popolo esagerò la gravità del conflitto in
Etruria, come per altro aveva sempre fatto nelle sue relazioni dal fronte: sosteneva che
per tener testa a quattro popoli non sarebbero bastati un unico generale
e un unico esercito. Sia che essi avessero fatto pressione con le forze
congiunte, sia che avessero gestito la guerra separatamente, c'era il
rischio che un unico comandante non riuscisse a far fronte
contemporaneamente a tutti. Egli aveva lasciato laggiù due legioni romane, e
agli ordini di Fabio erano arrivati meno di 5.000 tra fanti e cavalieri. La sua
idea era che il console Publio Decio raggiungesse quanto prima il collega in
Etruria, e che le operazioni nel Sannio venissero affidate a Lucio
Volumnio. Se il console preferiva recarsi sul fronte assegnatogli, allora
era meglio che Volumnio partisse per l'Etruria e raggiungesse il console
con una regolare formazione consolare. A quanto pare, mentre il
discorso del pretore aveva convinto la maggior parte degli uomini, Publio
Decio propose invece di lasciare piena libertà operativa e strategica a
Fabio, fino al giorno in cui si fosse presentato di persona a Roma (qualora
fosse stato in grado di farlo senza danneggiare il paese), oppure avesse
inviato uno dei suoi luogotenenti, tramite il quale il senato avrebbe
potuto rendersi conto dell'effettiva gravità della guerra in Etruria
e di quanti uomini e quanti comandanti fossero necessari per condurla. 26 Non appena Fabio arrivò a
Roma, tanto in senato quanto di fronte al popolo in assemblea non si
sbilanciò nei discorsi che tenne, in maniera da dare l'impressione di non ingrandire né
diminuire le proporzioni del conflitto e, nel caso in cui avesse
associato al comando un altro generale, di farlo più per
assecondare le paure altrui che evitare a se stesso e al paese una situazione di
pericolo. E poi, se davvero volevano assegnargli un aiuto per la guerra e un
compagno da associare al comando, come avrebbe potuto dimenticare il
console Publio Decio, che aveva sperimentato come collega in tante
magistrature condotte insieme? Di tutti non c'era nessuno che preferisse avere
a fianco: con Decio le truppe sarebbero state sufficienti e i nemici
non sarebbero mai stati troppi. Se però il collega aveva altre
preferenze, gli assegnassero allora come collaboratore Lucio Volumnio. Tanto il
popolo quanto il senato e lo stesso collega lasciarono ogni decisione
finale a Fabio: e poiché Decio si era detto pronto a partire sia per il
Sannio sia per l'Etruria, la gioia e il compiacimento generale furono tali, che
già la gente pregustava la gioia della vittoria, e si aveva
l'impressione che ai consoli non fosse stata affidata la guerra ma decretato il
trionfo. In alcuni autori ho trovato che Fabio e
Decio partirono alla volta dell'Etruria sùbito dopo essere
entrati in carica, senza però alcun accenno al sorteggio delle zone di
operazione e ai dissapori tra i colleghi di cui ho già parlato.
Altri invece non soltanto riferiscono di questi scontri verbali, ma parlano
anche di accuse mosse da Appio di fronte al popolo contro la persona di
Fabio (che al momento era assente), e di una tenace ostilità da
parte del pretore verso il console quando questi rientrò a Roma, e di
altri contrasti tra i colleghi, dovuti al fatto che Decio pretendeva che ciascuno
rispettasse gli esiti del sorteggio nell'assegnazione delle
campagne. Le versioni cominciano a coincidere dal momento in cui entrambi
i consoli si trovano al fronte. Ma prima che i consoli arrivassero in
Etruria, nei pressi di Chiusi comparve una massa di Galli Senoni, le
cui intenzioni erano di attaccare l'esercito e l'accampamento romani.
Scipione, che aveva il comando del campo, volendo sopperire
all'inferiorità numerica con il favore della posizione, fece salire l'esercito su
un'altura che si trovava tra la città e l'accampamento. Ma dato che nella
fretta non aveva potuto fare controllare il percorso, raggiunse una
cima che era già stata occupata dal nemico, salito dalla parte opposta.
Così la legione, schiacciata da ogni parte dai nemici, fu presa alle spalle
e sopraffatta. Alcuni autori sostengono che quel contingente fu
completamente annientato, al punto che non rimase in vita un solo soldato in
grado di riferire la notizia della disfatta, e che i consoli, essendo
ormai nei pressi di Chiusi, non ricevettero alcuna informazione su quel
disastro fino al momento in cui non videro coi propri occhi i cavalieri
dei Galli che portavano le teste dei romani uccisi appese al petto dei
cavalli e conficcate sulle lance, e si esibivano nei loro caratteristici
canti di trionfo. Stando ad altri autori, i nemici sarebbero stati Umbri
e non Galli, e la sconfitta avrebbe avuto altre proporzioni: a rimanere
circondato sarebbe stato un reparto di soldati addetti al foraggiamento agli
ordini del luogotenente Lucio Manlio Torquato, e il propretore Scipione
sarebbe intervenuto con rinforzi dall'accampamento, e dopo aver
riequilibrato le sorti della battaglia avrebbe piegato gli Umbri già
vincitori, togliendo di nuovo dalle loro mani i prigionieri e il bottino.
Tuttavia è più aderente alla verità dei fatti che a infliggere questa disfatta
ai Romani siano stati i Galli e non gli Umbri, perché - come già
successo molte altre volte in passato - anche quell'anno Roma venne invasa da
un'ondata di panico dovuto alla minaccia gallica. Così, mentre entrambi i
consoli erano già partiti alla volta del fronte con quattro legioni, un
massiccio contingente di cavalleria romana, 1.000 cavalieri campani forniti per
quel conflitto, e un esercito di alleati e di Latini numericamente
superiore a quello romano, non lontano da Roma altri due eserciti vennero
collocati di fronte all'Etruria, uno nel territorio dei Falisci, l'altro
nell'agro Vaticano. I propretori Gneo Fulvio e Lucio Postumio ricevettero la
disposizione di accamparsi stabilmente in quelle zone. 27 Valicato l'Appennino, i consoli
raggiunsero i nemici nel territorio di Sentino, e si accamparono a circa
quattro miglia da loro. Tra i nemici ci furono quindi riunioni, nelle quali
venne deciso di non mescolarsi in un unico accampamento e di non dare
battaglia tutti insieme. I Galli vennero aggregati ai Sanniti, gli Umbri agli
Etruschi. Fu stabilita la data della battaglia, e lo scontro fu affidato ai
Sanniti e ai Galli. Gli Etruschi e gli Umbri ebbero invece l'ordine di
attaccare l'accampamento romano nel corso della battaglia. Questi piani li
mandarono a monte tre disertori di Chiusi, i quali di notte si
presentarono in segreto al cospetto del console Fabio e lo informarono dei
progetti messi a punto dal nemico. Dopo averli ricompensati, Fabio li
congedò, rimanendo d'accordo con loro che si sarebbero informati accuratamente su
ogni nuova iniziativa e sarebbero poi venuti a riferirgli. I consoli
inviarono una lettera rispettivamente a Fulvio e a Postumio: le disposizioni
erano di abbandonare la zona di Faleri e l'agro Vaticano, e di portare
i loro eserciti a Chiusi, mettendo a ferro e fuoco con la massima violenza
il territorio nemico. La notizia di queste incursioni costrinse gli
Etruschi a lasciare la zona di Sentino per andare a proteggere il proprio
paese. Fu allora che i consoli cercarono in ogni modo di arrivare allo
scontro, sfruttando la loro assenza. Per due giorni istigarono i
nemici a venire alle armi, ma in quell'arco di tempo non si registrarono
operazioni degne di nota. Da entrambe le parti ci furono poche
perdite, e gli animi dei combattenti furono spinti ad affrontare una battaglia
campale, senza però che si arrivasse mai allo scontro decisivo. Il
terzo giorno i due eserciti scesero in campo dispiegando tutte le
forze in loro possesso. Mentre erano schierati in ordine di battaglia,
dalle alture scese di corsa una cerva inseguita da un lupo, andando
ad attraversare nella sua fuga il pianoro che si apriva tra i due opposti
schieramenti. Di lì i due animali rivolsero la loro corsa in direzioni
opposte, la cerva verso i Galli, il lupo verso i Romani. Il lupo ebbe via
libera tra le file, mentre la cerva venne trafitta dai Galli. Allora un
soldato romano dell'avanguardia disse: «La fuga e il massacro sono avvenuti
là dove ora vedete a terra l'animale sacro a Diana. Da questa parte il lupo
vincitore caro a Marte, sano e salvo, ci ha richiamato alla memoria la
nostra discendenza da Marte e il nostro fondatore». I Galli andarono ad occupare l'ala
destra, i Sanniti la sinistra. Di fronte ai Sanniti, all'ala destra
romana, Quinto Fabio schierò la prima e la terza legione, mentre contro i Galli
alla sinistra Decio schierò la quinta e la sesta. La seconda e la
quarta, agli ordini del proconsole Lucio Volumnio, erano utilizzate nella
spedizione contro il Sannio. Al primo scontro l'equilibrio tra le forse
opposte fu tale, che se solo fossero intervenuti gli Etruschi e gli
Umbri rivolgendo le proprie truppe in una qualunque delle direzioni - o
verso l'accampamento o sul campo di battaglia -, per i Romani la disfatta
sarebbe stata inevitabile. 28 D'altra parte, pur essendo incerto
l'esito dello scontro, e non ostante la fortuna non avesse ancora fatto
capire verso quale delle due parti avrebbe inclinato la sua bilancia,
tuttavia all'ala destra e all'ala sinistra il combattimento non aveva
affatto la stessa intensità. Dalla parte di Fabio i Romani difendevano
più che attaccare, e lo scontro si stava trascinando fino alle ultime luci
del giorno, perché il console era fermamente convinto che i Sanniti e i
Galli erano irruenti al primo urto, ma che poi era sufficiente resistervi:
se la battaglia si protraeva, a poco a poco l'ardore dei Sanniti veniva
meno, e il fisico dei Galli, incapaci più di ogni altro
popolo di sopportare fatica e calura, perdeva vigore col passare delle ore, e mentre
all'inizio dello scontro erano qualcosa più che degli uomini,
alla fine risultavano essere meno che donne. Per questo egli cercava di
conservare intatte quanto più a lungo possibile le energie dei suoi, fino a
quando il nemico cominciava a dare segni di cedimento. Decio, più
irruente per l'età che per temperamento, impiegò sùbito nel primo
scontro tutte le forze che aveva. E poiché l'azione della fanteria gli sembrava
eccessivamente statica, buttò nella mischia la cavalleria, e mescolatosi
lui stesso a quella schiera di giovani valorosi incitò il fiore
della gioventù a lanciarsi con lui all'assalto del nemico: la loro gloria
sarebbe stata doppia, se i primi segni della vittoria fossero arrivati
dall'ala sinistra e dalla cavalleria. Per due volte costrinsero
la cavalleria gallica a indietreggiare; la seconda si spinsero
più avanti, mentre stavano già combattendo in mezzo alle schiere di
fanti, e rimasero sconcertati da un tipo di battaglia mai vista prima:
arrivarono nemici armati in piedi su cocchi e carri, con un grande frastuono
di ruote e cavalli che terrorizzò i cavalli dei Romani non abituati a
quel rumore. Così la cavalleria romana, che aveva già la
vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con cavalli e uomini che rovinavano a terra
in una fuga precipitosa. Pertanto anche le linee della fanteria
risentirono dello sbandamento, e molti uomini delle prime linee vennero
travolti dall'impeto dei cavalli e dei carri lanciati in mezzo alle file. Non
appena la fanteria dei Galli comprese che i nemici erano in preda al
panico, si fece sotto senza lasciar loro il tempo di riprendere
fiato e di rimettersi in sesto. Decio chiedeva urlando dove stessero fuggendo
e che cosa sperassero nella fuga: si parava di fronte ai fuggitivi e
richiamava quelli già dispersi. Poi, rendendosi conto di non essere in grado
di mantenere uniti i suoi uomini ormai allo sbando, invocando per nome
il padre Publio Decio, disse: «Perché ritardo il destino della mia
famiglia? È questa la sorte data alla nostra stirpe, di esser vittime
espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora offrirò con me le legioni
nemiche in sacrificio alla Terra e agli dèi Mani!». Pronunciate queste parole,
ordinò al pontefice Marco Livio, al quale aveva ingiunto di non allontarsi
da lui mentre scendevano in campo, di recitargli la formula con cui
offrire in sacrificio se stesso e le legioni nemiche per l'esercito del
popolo romano dei Quiriti. Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera,
indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Veseri si era
consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini, e
avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di
fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento
degli dèi celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con
imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e
aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di
Galli e Sanniti - lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria
persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le
schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il
proprio corpo alle frecce nemiche. 29 Da quel momento in poi sembrò
che la battaglia non dipendesse troppo da forze umane. I Romani, perso il proprio
comandante - ciò che di solito in altri casi crea scompiglio -,
riuscirono a bloccare la fuga e cercarono di riequilibrare le sorti della battaglia.
I Galli, in particolar modo quella parte di essi che stava intorno al
cadavere del console, tiravano frecce a caso e fuori bersaglio, come avessero
perso l'uso della ragione. Alcuni erano come paralizzati e non riuscivano
a concentrarsi né sul combattimento né sulla fuga. Dalla
parte opposta il pontefice Livio, cui Decio aveva affidato i littori dandogli
disposizione di sostituirlo nel comando, urlava che i Romani avevano
vinto, perché con la morte del console si erano liberati del debito
nei confronti degli dèi: i Galli e i Sanniti appartenevano ormai alla madre
Terra e agli dèi Mani, Decio trascinava con sé richiamandolo
l'esercito che aveva votato in sacrificio con la propria persona, e i nemici
erano in preda al panico e alle furie. Poi, mentre già quelli stavano
riequilibrando la battaglia, dalle retrovie arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio
Scipione e Gaio Marcio, inviati dal console Quinto Fabio in aiuto al
collega. Lì essi appresero la fine di Publio Decio, che era un grande
incitamento a osare qualunque tipo di azione in nome dello Stato. Poi, visto
che i Galli serravano i ranghi tenendo gli scudi attaccati al corpo
per proteggersi, e il corpo a corpo non sembrava facilmente praticabile, i
luogotenenti ordinarono di raccogliere le aste che si trovavano al
suolo in mezzo ai due schieramenti, e di scagliarle contro la
formazione a testuggine dei nemici. La maggior parte delle aste
andarono a conficcarsi negli scudi e solo poche punte trafissero la carne,
ma la formazione nemica perdette compattezza, perché molti, pur non
avendo ricevuto un graffio, stramazzarono a terra storditi. All'ala sinistra romana furono queste
le alterne vicende che si verificarono. Alla destra Fabio - come
già detto in precedenza - temporeggiando era riuscito a protrarre
lo scontro. Quando ebbe l'impressione che sia le urla e
l'animosità dei nemici sia i loro colpi non avessero più la stessa
intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria di guidare le ali ai fianchi dei
nemici, per assalirli di lato con il maggior impeto possibile al segnale
convenuto. Ai fanti ordinò invece di avanzare per gradi, stanando il nemico
dalle posizioni in cui era attestato. Quando si rese conto che gli
avversari non opponevano resistenza e che davano evidenti segni
di spossatezza, raccolti tutti i riservisti (tenuti in serbo per quel
preciso momento), lanciò la fanteria all'assalto e diede ai cavalieri il
segnale della carica contro il nemico. I Sanniti non ressero l'urto: superato
nella foga della ritirata lo schieramento dei Galli, abbandonarono
gli alleati nella mischia, correndo a perdifiato verso l'accampamento. I
Galli, da parte loro, riformarono la testuggine, e non si disunirono. Fu
allora che Fabio, saputo della morte del collega, ordinò ai 500
cavalieri che formavano l'ala campana di abbandonare la linea del combattimento
e di aggirare lo schieramento dei Galli per prenderli alle spalle. Ai
principes della terza legione ordinò di seguirli, e, là dove si
fossero imbattuti in reparti nemici scompigliati dall'assalto della
cavalleria, di incalzarli massacrandoli mentre erano in preda al panico. Egli
poi, promesso in voto un tempio e le spoglie nemiche a Giove Vincitore, si
diresse verso l'accampamento sannita, dove stava convergendo tutta
la massa sbandata. Proprio sotto la trincea, poiché le porte non erano
ampie abbastanza per far passare una tale quantità di armati, gli
uomini rimasti chiusi fuori cercarono ancora una volta di ricorrere alla battaglia:
lì cadde Gello Egnazio, il comandante in capo delle forze sannite.
I Sanniti vennero poi ricacciati al di là della trincea, e dopo
un brevissimo scontro l'accampamento venne conquistato e i Galli raggiunti alle
spalle. In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i
prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di
perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra
quelli di Fabio più di 1.700. Questi fece cercare il corpo del collega, e
bruciò in onore di Giove Vincitore una catasta fatta con le spoglie dei
nemici. Per quel giorno non si riuscì a trovare il corpo del console, perché
giaceva sepolto sotto i cumuli di Galli ammassati l'uno sull'altro. Fu
rinvenuto il giorno successivo e riportato indietro accompagnato dalle
lacrime copiose dei soldati. Fabio, lasciando da parte ogni altra
incombenza, rese gli onori funebri al collega, che onorò in ogni modo
e cui rivolse un meritato elogio. 30 In quegli stessi giorni, anche in
Etruria il propretore Gneo Fabio condusse la campagna attenendosi ai
piani convenuti, e oltre a danneggiare il nemico devastandone le campagne,
combatté pure con successo, uccidendo più di 3.000 Perugini e abitanti
di Chiusi e catturando circa venti insegne militari. Mentre erano in fuga
attraverso il territorio dei Peligni, le truppe sannite furono
circondate dai Peligni stessi, e dei 5.000 originari ne vennero uccisi
grosso modo 1.000. Anche per chi non si discosta dalla
realtà dei fatti, la gloria di quella giornata in cui ebbe luogo lo scontro
di Sentino è grandissima. Ma alcuni autori, a forza di esagerazioni, hanno
superato i limiti del credibile, arrivando a scrivere che tra le file
nemiche vi erano 330.000 fanti, 46.000 cavalieri e 1.000 carri (ivi
inclusi Umbri ed Etruschi, che a loro detta avrebbero preso parte anch'essi
alla battaglia). Per poi aumentare pure le forze romane, ai consoli
associano come comandante il proconsole Lucio Volumnio, unendo alle legioni
consolari l'esercito di quest'ultimo. Nella maggior parte degli annali,
però, la vittoria viene attribuita soltanto ai due consoli: nel frattempo
Volumnio era occupato nella spedizione nel Sannio e, dopo aver
costretto l'esercito sannita a riparare sul monte Tiferno, lo travolgeva
costringendolo alla fuga, senza lasciarsi mettere in soggezione dalla natura
impervia del terreno. Quinto Fabio, lasciato a Decio il
cómpito di presidiare l'Etruria col proprio esercito, riportò a Roma
le sue legioni e ottenne il trionfo su Galli, Etruschi e Sanniti. I soldati lo
seguivano nella sfilata, e nei rozzi canti militari la valorosa morte
di Decio venne celebrata non meno della vittoria di Fabio, e tra le lodi
rivolte al figlio venne richiamata la memoria del padre, il cui sacrificio
e i cui successi in campo pubblico erano stati adesso eguagliati. Dal
bottino raccolto in guerra ogni soldato ricevette ottantadue assi di rame, un
mantello e una tunica, che in quel tempo erano riconoscimenti militari non
certo disprezzabili. 31 Pur avendo conseguito questi
successi, né in Etruria né nel Sannio c'era ancora la pace: infatti, dopo il
ritiro dell'esercito voluto dal console, i Perugini avevano riaperto le
ostilità e i Sanniti erano scesi a compiere saccheggi in parte nel
territorio di Vescia e di Formia, e in parte nella zona di Isernia e nella
valle del Volturno. A fronteggiarli venne inviato il pretore Appio Claudio
con l'esercito di Decio. Fabio, ritornato in Etruria per il
riaccendersi delle ostilità, uccise 4.500 Perugini e ne catturò circa 1.740,
che vennero riscattati al prezzo di 310 assi a testa: il resto del bottino
raccolto venne lasciato ai soldati. Le truppe sannite, delle quali una parte
aveva alle calcagna il pretore Appio Claudio mentre l'altra Lucio Volumnio,
raggiunsero l'agro Stellate; lì si accamparono nei pressi di Caiazia le
forze sannite riunite, mentre Appio e Volumnio allestirono un unico
accampamento. Si combatté con estremo accanimento, perché i Romani erano
spinti dal risentimento per un popolo che si era già tante volte
ribellato, mentre i Sanniti si battevano ormai per salvare le poche speranze residue.
Vennero uccisi 16.300 Sanniti, e 2.700 fatti prigionieri. Tra i Romani i
caduti furono 2.700. Se quell'anno fu fortunato per i
successi in campo militare, a funestarlo e a turbarne la serenità furono
una pestilenza e una serie di prodigi. Arrivò infatti la notizia che in
molti luoghi era piovuta terra e che numerosi soldati dell'esercito di Appio
Claudio erano stati colpiti da fulmini: per queste ragioni vennero
consultati i libri sibillini. Quell'anno Quinto Fabio Gurgite, figlio
del console, condannò al pagamento di un'ammenda alcune matrone
riconosciute colpevoli, al cospetto del popolo, del reato di adulterio, e col
denaro ricavato fece edificare il santuario di Venere che sorge accanto
al Circo Massimo. Erano ancora in corso le guerre contro
i popoli del Sannio, delle quali stiamo parlando già da quattro
libri e per la durata di quarantasei anni, a partire dal consolato di Marco
Valerio e Aulo Cornelio, che furono i primi a guidare le legioni nel Sannio.
E per non passare in rassegna le disfatte subite da una parte e dall'altra
e i disagi sopportati - che però non riuscirono a fiaccare quei
temperamenti tenaci -, basterà ricordare che nel corso dell'ultimo anno i
Sanniti erano stati sconfitti a Sentino, nel territorio dei Peligni, sul Tiferno
e nell'agro Stellate, o da soli o insieme con altri popoli, ad opera di
quattro eserciti e quattro comandanti romani; che avevano perso il
loro comandante più capace, che vedevano Etruschi, Umbri e Galli, i
loro alleati, ridotti nelle stesse condizioni in cui essi stessi
versavano; che ormai non erano in grado di sostenersi né con le proprie forze né
con quelle degli altri. Eppure non volevano rinunciare allo scontro. Tanto
lontani erano dal rinunciare a difendere la propria libertà,
anche se con scarso successo, e preferivano uscire battuti piuttosto che
abbandonare un tentativo di successo. Chi mai potrebbe stancarsi, scrivendone o
leggendone, della lunghezza di quelle guerre, che non riuscirono a stancare
gli uomini che le combatterono? 32 A Quinto Fabio e Publio Decio
seguirono come consoli Lucio Postumio Megello e Marco Atilio Regolo. Vennero
entrambi inviati nel Sannio, perché correva voce che i nemici avessero arruolato
tre eserciti, e cioè uno per ritornare in Etruria, uno per
riprendere a devastare le terre della Campania e uno per difendere il proprio
territorio. Postumio venne trattenuto a Roma da una malattia.
Atilio, ligio alle decisioni prese dal senato, partì invece
immediatamente per piegare la resistenza dei nemici prima che uscissero dal Sannio. Quasi
ci fosse stato un accordo preliminare, i Romani incontrarono i
nemici in un punto in cui era loro sbarrato l'accesso in territorio
sannita, ma nel quale impedivano ai Sanniti di scendere verso le zone
assoggettate e nei territori degli alleati del popolo romano. Accampatisi
gli uni a ridosso degli altri, i Sanniti ebbero il coraggio di mettere
in pratica - questo è il grado di temerarietà cui spinge la
disperazione! - ciò che avrebbero a malapena osato i Romani già tante volte
vincitori, cioè un attacco all'accampamento nemico. E un'iniziativa tanto audace,
pur non avendo raggiunto gli scopi prefissati, tuttavia non fu del tutto
priva di efficacia. Fino a giorno inoltrato ci fu una nebbia così
spessa da rendere quasi nulla la visibilità, impedendo di vedere
non soltanto ciò che avveniva al di là
della trincea, ma anche quelli che poco più in là vi si
avvicinavano procedendo gli uni accanto agli altri.
I Sanniti, sfruttando questa nebbia come una copertura alla loro imboscata,
alle prime e incerte luci dell'alba (per di più offuscata
dalla caligine), arrivarono nei pressi della garitta dove la sentinella
vigilava con scarsa attenzione la porta. Sorpresi dall'attacco improvviso, i
Romani non ebbero né la prontezza di riflessi né la forza sufficienti per opporre
resistenza. Alle loro spalle ci fu un'irruzione attraverso la porta
decumana, che portò così alla cattura della tenda del questore e
all'uccisione del questore stesso, Lucio Opimio Pansa. Fu allora che venne
dato l'allarme. 33 Svegliato dalle grida, il console
ordinò a due coorti di alleati - una composta di Lucani e l'altra di
Suessani - che casualmente erano le più vicine, di difendere il pretorio, e si
mise a capo dei manipoli delle legioni sulla via principale. Dopo aver
cinto in qualche modo le armi, gli uomini si inquadrarono nei reparti,
riconoscendo i nemici più con l'udito che con la vista, senza che fosse
possibile valutarne la consistenza numerica. Sulle prime indietreggiarono,
non riuscendo a rendersi conto di quanto stava succedendo, e lasciarono
che il nemico penetrasse fino al centro dell'accampamento. Ma poi,
siccome il console gridando chiedeva se aspettassero di farsi cacciare dalla
trincea per poi espugnare quello che era il loro accampamento, dopo aver
levato il grido di battaglia, profondendo il massimo delle sforzo
riuscirono sulle prime a resistere, poi ad avanzare e premere il nemico.
Una volta respintolo, senza lasciargli il tempo di riprendersi
dalla sorpresa, lo risospinsero fuori della porta e della trincea. Poi,
mancando loro il coraggio di gettarsi all'inseguimento, dato che la mancanza
di visibilità faceva temere il rischio di un agguato nei pressi,
soddisfatti di aver liberato l'accampamento, si ritirarono
all'interno della trincea. Avevano ucciso circa 300 nemici. Le perdite romane
ammontarono a circa 730 unità, fra gli uomini del primo posto di guardia e quelli
sorpresi intorno alla tenda del questore. Questo episodio non certo privo di
efficacia ridiede coraggio ai Sanniti, che non solo impedirono ai Romani di
avanzare, ma anche di andare a rifornirsi di viveri nel loro territorio:
gli uomini addetti al vettovagliamento erano costretti a
tornare indietro nella zona assoggettata di Sora. La notizia
dell'episodio, descritto a Roma in termini più allarmanti di quanto
in realtà non fosse, spinse il console Lucio Postumio appena uscito dalla
malattia a partire dalla città. Comunque, prima di mettersi in marcia,
dopo aver dato ordine ai soldati di concentrarsi a Sora, inaugurò il
tempio della Vittoria, che aveva fatto edificare in qualità di edile
curule usando il denaro ricavato dalle ammende. Ricongiuntosi poi con
l'esercito a Sora, di lì raggiunse il campo del collega nel Sannio. I Sanniti
allora si ritirarono, non avendo più speranze di poter fronteggiare con
successo i due eserciti, e i consoli si misero in marcia in direzioni diverse
con l'intento di mettere a ferro e fuoco le campagne e di attaccare i
centri abitati. 34 Postumio cercò in un primo
tempo di impossessarsi con la forza di Milionia. Poi, vedendo che questa
tattica non dava grossi risultati, ricorse a dispositivi d'assedio e alla
fine riuscì a conquistarla appoggiando vigne alle mura. Lì,
non ostante la città fosse già occupata, si continuò a combattere in
tutti i settori dalle dieci fino quasi alle due del pomeriggio, e l'esito fu a
lungo incerto; ma alla fine i Romani si impadronirono della cittadella. I
Sanniti uccisi furono 3.200, quelli fatti prigionieri 4.700; venne raccolto
altro bottino. L'esercito fu poi condotto a Feritro, i
cui abitanti erano usciti di nascosto nel cuore della notte
attraverso la porta opposta, portando con sé quanto poteva essere trasportato. Di
conseguenza il console, non appena
arrivò nei pressi della città, cominciò ad
avvicinarsi con l'esercito schierato e pronto a sostenere una
battaglia simile a quella affrontata a Milionia. In un secondo tempo, notando
che in città regnava un profondo silenzio e vedendo che sulle torri e
sulle mura non c'erano né armi né uomini, per non cadere incautamente in
un tranello, trattenne i soldati che non vedevano l'ora di scalare le
mura deserte, e ordinò a due squadroni di cavalieri latini di
esplorare accuratamente tutta la cinta muraria. I cavalieri videro spalancate
una porta e lì accanto un'altra nella stessa zona, e sulle vie che le
attraversavano riconobbero le tracce della fuga notturna dei nemici.
Cavalcarono poi con prudenza attraverso le porte, e si resero conto che le vie
cittadine si potevano percorrere in assoluta tranquillità.
Riferirono al console che la città era stata abbandonata, come era evidente
dall'assenza di abitanti, dalle tracce recenti della fuga e dai cumuli di
oggetti abbandonati alla rinfusa nel trambusto della notte. Ascoltato questo
rapporto, il console guidò l'esercito verso la zona dove erano
entrati i cavalieri latini. Fatte fermare le truppe non lontano dalla
porta, ordinò a cinque cavalieri di entrare in città, predisponendo
che dopo una limitata perlustrazione all'interno tre rimanessero in quello
stesso punto (se tutto sembrava tranquillo), e due tornassero a
riferire l'esito della missione. Quando i cinque rientrarono riferendo di essere
arrivati fino a un punto da dove si poteva spingere lo sguardo in tutte le
direzioni e di aver di lì ovunque constatato solitudine e silenzio, il
console ordinò sùbito ai reparti armati alla leggera di entrare in
città, dando nel frattempo agli altri disposizione di fortificare
l'accampamento. Entrati in città e abbattute le porte delle abitazioni, i soldati
trovarono soltanto pochi vecchi e invalidi, insieme con le sole cose che,
essendo troppo difficili da trasportare, erano state abbandonate.
Se ne impossessarono, e dai prigionieri vennero a sapere che in
molte città dei dintorni era stato deciso per volontà comune
l'evacuazione dei residenti; che i loro concittadini erano partiti nel cuore
della notte, e che probabilmente avrebbero trovato lo stesso deserto
anche in molti altri centri. Si prestò fede alle parole dei prigionieri, e il
console occupò le città deserte. 35 Per l'altro console, Marco Atilio,
la campagna non fu certo altrettanto facile. Mentre era alla guida delle
legioni sulla strada per Luceria - che aveva saputo attaccata dai Sanniti -,
gli si parò innanzi il nemico ai confini del territorio di Luceria. Fu
la rabbia a rendere pari le forze in campo: la battaglia si svolse
nell'incertezza e a fasi alterne, ma il verdetto finale fu più pesante
per i Romani, sia perché non erano abituati alla sconfitta, sia perché all'atto di
allontanarsi dal campo, più ancora che nel pieno dello scontro, si
accorsero quanto fossero numericamente superiori le loro perdite e i loro
feriti. Perciò tra i soldati al rientro al campo ci fu una tale ondata di
sconforto, che se solo li avesse colti nel corso della battaglia li avrebbe
portati a una pesante sconfitta. La notte fu ugualmente carica di tensioni,
perché i Romani erano convinti che i Sanniti attaccassero di lì a poco
l'accampamento, o che altrimenti alle prime luci del giorno si dovesse
ricominciare a combattere col nemico reduce dalla vittoria. Gli avversari
avevano subito perdite minori, anche se non potevano contare su un morale
più alto. Non appena fu giorno, volevano andarsene senza combattere, ma
c'era una sola strada e passava proprio vicino al nemico. Così,
essendosi messi in marcia attraverso quella via, diedero ai Romani
l'impressione di essere diretti ad attaccare l'accampamento. Il console diede
disposizione agli uomini di armarsi e di seguirlo al di là della trincea,
e ordinò ai luogotenenti, ai tribuni e ai prefetti alleati ciò che
ciascuno di essi avrebbe dovuto fare. Tutti si dissero pronti a eseguire ogni ordine,
ma rilevarono che i soldati erano demoralizzati, dopo aver passato una
notte insonne tra le ferite e i lamenti dei moribondi. Se i nemici si
fossero avvicinati all'accampamento romano prima del sorgere del sole, la
paura sarebbe stata così grande da far abbandonare agli uomini i posti di
combattimento. Al momento a trattenerli dalla fuga era solo la
vergogna, ma per il resto erano come degli sconfitti. Quando il console udì queste
parole, decise di andare in giro di persona a parlare ai soldati, e appena arrivava
presso i vari reparti rimproverava sùbito quelli che indugiavano a
vestire le armi, e domandava quale fosse il motivo di tutti quei tentennamenti e
quelle esitazioni. Diceva che i nemici sarebbero entrati
nell'accampamento, se essi non ne fossero usciti, e che si sarebbero trovati a combattere
di fronte alle proprie tende, se non volevano andare a combattere al di
là della trincea: la vittoria - ricordava - è sì incerta
per chi prende le armi e va a combattere, ma quelli che attendono il nemico
disarmati e senza difendersi sono destinati alla schiavitù o alla morte. Di
fronte a queste aspre rampogne, gli uomini replicavano di essere stremati per la
battaglia del giorno prima, di non avere più a disposizione né
forze né sangue, e di aver l'impressione che il numero dei nemici fosse ancora
superiore rispetto alla giornata precedente. Nel frattempo l'esercito
nemico si stava avvicinando, e quando lo si poté distinguere per il diminuire
della distanza, gli uomini cominciarono a dire che i Sanniti
avevano con sé i paletti per la trincea, e che avrebbero certamente circondato
l'accampamento con una palizzata. Allora il console gridò che era
indegno accettare una simile vergognosa umiliazione da un nemico vile
più di ogni altro, e aggiunse: «Dunque ci lasceremo assediare anche all'interno
dell'accampamento, e moriremo di fame con ignominia, piuttosto che
valorosamente - se sarà necessario - a colpi di spada?». Ciascuno si regolasse
nel modo che gli sembrava più degno di sé (e che gli dèi lo
aiutassero): il console Marco Atilio, se nessun altro lo voleva seguire, avrebbe
marciato contro il nemico anche da solo cadendo in mezzo alle insegne dei
Sanniti, piuttosto che vedere l'accampamento romano circondato da una
palizzata. I luogotenenti, i tribuni, tutti gli squadroni di
cavalleria e i centurioni dei reparti scelti salutarono con un applauso le
parole del console. Allora i soldati, toccati nell'onore,
si armarono contro voglia, uscirono contro voglia dal campo schierati in
una fila lunga e rarefatta, e con l'aria di chi era già battuto
marciarono contro il nemico che non aveva certo né il morale più alto né
maggiori speranze di vittoria. E così, non appena i Sanniti videro le insegne
romane, dalle prime file alle ultime cominciò sùbito a correre
voce che i Romani - come essi temevano - stavano uscendo dall'accampamento per impedire
loro il passaggio. Quindi non c'era più alcuno sbocco aperto nemmeno
per la fuga, ed era inevitabile cadere lì o
uscire vivi passando sui corpi dei nemici stesi a terra. 36 Accatastati i bagagli nel mezzo, si
armarono e si disposero in ordine di battaglia nei rispettivi reparti. Lo
spazio tra i due eserciti era ormai molto ridotto, ed entrambi erano
fermi nell'attesa che i nemici levassero il grido di battaglia e si
lanciassero all'assalto. Ma da una parte e dall'altra non c'era alcuna
inclinazione allo scontro, e si sarebbero allontanati in direzioni
opposte intatti e illesi, se solo non avessero temuto che il nemico si
avventasse su quanti si stavano ritirando. Fra quei soldati poco
ispirati e incerti la battaglia iniziò meccanicamente e in sordina, con un
grido né unanime né convinto, e con
nessuno che si muovesse dal proprio posto. Allora il console romano, per suscitare
le energie, spedì fuori dalle file alcuni squadroni di cavalleria. Ma
poiché buona parte di essi vennero sbalzati da cavallo e altri gettati
nello scompiglio, dallo schieramento sannita ci fu chi accorse per finire i
cavalieri caduti, e dalla parte romana intervennero in aiuto dei
compagni. La battaglia prese allora vigore. Ma i Sanniti erano accorsi
più numerosi e con maggiore
determinazione, e i cavalieri romani trascinati dai cavalli
imbizzarriti calpestavano quegli stessi compagni
arrivati in loro soccorso. Da quel momento cominciò la fuga, che
coinvolse l'intero schieramento romano. E i Sanniti stavano già attaccando
alle spalle i fuggitivi, quando il console andò a cavallo di fronte alla
porta dell'accampamento, vi lasciò una guarnigione di cavalieri cui diede il
cómpito di trattare da nemici chiunque - romano o sannita - si fosse
avvicinato alla trincea, e quindi andò anch'egli a sbarrare la
strada ai suoi uomini che stavano cercando di raggiungere disordinatamente
l'accampamento, rivolgendo loro parole minacciose: «Dove andate, soldati?
Anche lì vi troverete di fronte armi e uomini, e finché il vostro console
sarà vivo, non entrerete nell'accampamento se non da vincitori:
scegliete se preferite scontrarvi con dei concittadini o con dei nemici». Mentre il console pronunciava queste parole,
i cavalieri circondarono i fanti brandendo le lance, e ingiunsero
loro di tornare a combattere. A venire in aiuto non fu solo il valore
del console, ma anche il destino, perché i nemici non affondarono
l'inseguimento, e ci fu così il tempo per voltare le insegne e per rivolgere il
fronte dall'accampamento al nemico. I Romani si misero allora a incitarsi
l'uno con l'altro e a rigettarsi nella mischia: i centurioni strappavano
le insegne agli alfieri e le portavano avanti, gridando ai compagni che
i nemici erano pochi e venivano allo sbaraglio con i reparti allo
sbando. Nel frattempo il console, levando le mani al cielo e alzando la
voce in modo che tutti lo potessero sentire, promise in voto un tempio a
Giove Statore, se l'esercito romano avesse smesso di fuggire e si fosse
lanciato nella mischia travolgendo le legioni sannite. In ogni parte dello
schieramento tutti fecero quanto era nelle loro possibilità per riequilibrare
le sorti della battaglia - comandanti, soldati semplici, fanti e
cavalieri. Si ebbe l'impressione che a fianco dei Romani intervenisse anche
una volontà divina, tanto facilmente venne capovolta la
situazione: i nemici furono allontanati dall'accampamento e immediatamente
risospinti verso il punto in cui la battaglia era iniziata. Lì
furono costretti a fermarsi perché la strada era sbarrata dai bagagli accatastati
nel mezzo: allora, per impedire che i Romani vi mettessero mano, formarono un
cerchio di uomini armati intorno ai bagagli stessi. Ma davanti erano
pressati dalla fanteria, e alle spalle avevano i cavalieri. Così, presi
nel mezzo, furono uccisi o fatti prigionieri. I prigionieri ammontarono
a 7.800, che vennero spogliati dal primo all'ultimo e fatti passare sotto
il giogo. I caduti toccarono il numero di 4.800. Ma anche per i Romani
quella vittoria non fu una festa: quando infatti il console fece contare
i soldati che mancavano all'appello dopo quei due giorni di scontri, gli
venne riferito che le perdite raggiungevano le 7.800 unità. Mentre in Apulia si verificavano questi
eventi, l'altro esercito dei Sanniti tentò di conquistare
Interamna, una colonia romana situata sulla via Latina, ma non riuscì
nell'impresa. Allora il nemico mise a ferro e fuoco le campagne. Mentre però i
Sanniti stavano trascinando via gli uomini - tra i quali c'erano dei coloni
fatti prigionieri - e le bestie rastrellate, si imbatterono nel console
che tornava vincitore da Luceria, e non si limitarono a perdere il
bottino, ma finirono per essere massacrati perché procedevano in una
formazione lunga e sfilacciata. Il console fece proclamare un bando col
quale venivano convocati a Interamna i legittimi proprietari per riconoscere
e riprendersi le rispettive cose, e lasciando lì l'esercito si
spostò a Roma per presiedere le elezioni. Richiese il trionfo ma non gli fu
accordato, perché aveva perduto tutte quelle migliaia di uomini, e perché
aveva fatto passare i prigionieri sotto il giogo, senza però porre
delle condizioni. 37 Postumio, l'altro console, visto che
nel Sannio non aveva più materia di guerra, guidò il suo esercito
in Etruria, e in un primo tempo mise a ferro e fuoco il territorio dei
Volsinii. Poi, a breve distanza dalle mura, si scontrò coi nemici
usciti in campo aperto per difendere le proprie terre. Vennero uccisi 2.800
Etruschi; gli altri scamparono grazie alle città che si trovavano nei
dintorni. L'esercito venne poi portato nel territorio di Ruselle, e lì non
ci si limitò a saccheggiare le campagne, ma venne anche espugnata la città.
Più di 2.000 uomini vennero fatti prigionieri, mentre di poco inferiori
per numero furono quelli uccisi lungo le mura. Ciò non ostante
la pace ottenuta in Etruria fu maggiore motivo di gloria e più
determinante rispetto alla guerra portata quell'anno: tre città
potentissime, tra le più in vista dell'Etruria - ossia Volsinii, Perugia e Arezzo -,
chiesero la pace, e dopo essersi accordate col console nel garantire
vestiti e viveri all'esercito purché fosse loro concesso di inviare
ambasciatori a Roma, ottenero una tregua quarantennale. A ciascuna venne
comminata un'ammenda di 500.000 assi, da pagare in contanti. Poiché il console, più per
abitudine che per speranza di ottenerlo, aveva chiesto al senato il trionfo per questi
successi, vedendo che alcuni erano propensi a non concederglielo perché
aveva impiegato troppo tempo a uscire dalla città, mentre altri si
opponevano perché si era trasferito dal Sannio in Etruria senza la relativa
autorizzazione del senato - e si trattava o di suoi nemici o di amici
del collega decisi a consolarlo con un identico rifiuto -, disse: «Io non
sarò, o senatori, tanto rispettoso della vostra autorità, da scordarmi
della mia carica di console. In virtù della stessa autorità con la
quale ho condotto le guerre, portandole a termine con esito positivo, dopo aver
sottomesso il Sannio e l'Etruria, e aver ottenuto la vittoria e la pace,
celebrerò il trionfo». E dopo aver pronunciato queste parole,
abbandonò il senato. Ne nacque una controversia tra i tribuni della plebe: alcuni
sostenevano che avrebbero posto il veto, per evitare che quel suo trionfo
venisse a costituire un pericoloso precedente, mentre altri dichiararono
che avrebbero fatto ricorso al diritto di intercessione in favore del
trionfatore contro i loro colleghi. La questione venne sottoposta al
giudizio del popolo e fu chiamato il console: questi, dopo aver ricordato
che i consoli Marco Orazio e Lucio Valerio, e poco tempo prima Gaio Marcio
Rutulo, padre del censore in carica, avevano trionfato per volere
del popolo e non per decreto del senato, dichiarò che anche lui
avrebbe presentato la cosa al giudizio del popolo, se solo non avesse saputo che
certi tribuni della plebe al servizio degli ottimati si sarebbero
opposti alla proposta. Per lui, in quel preciso momento e per i giorni a
venire, la volontà e il favore del consenso popolare avrebbero contato
più di qualunque decreto. Il giorno successivo, con il sostegno di tre
tribuni della plebe contro il veto di sette e la volontà del senato,
il console celebrò il proprio trionfo con un grande concorso di popolo. Anche sulle vicende di quell'anno la
tradizione storica non è concorde. Claudio sostiene che Postumio,
conquistate alcune città del Sannio, venne poi sconfitto e sbaragliato in Apulia,
e costretto a rifugiarsi ferito e con pochi uomini a Luceria. A condurre
la campagna in Etruria sarebbe stato Atilio che avrebbe riportato il
trionfo. Fabio scrive invece che entrambi i consoli combatterono nel Sannio
e presso Luceria, e che l'esercito venne poi portato in
Etruria, senza però specificare da quale dei due consoli; che presso Luceria le
perdite furono gravi da entrambe le parti, e che il tempio a Giove Statore
venne promesso in voto durante quella battaglia. Il tempio l'aveva
promesso già Romolo in passato, ma fino a quel momento era stato
consacrato solo lo spazio sui cui doveva sorgere il sacrario: quell'anno
finalmente il senato, già vincolato per la seconda volta dallo stesso voto e preso
come fu da uno scrupolo di natura religiosa, decretò che il tempio
venisse effettivamente edificato. 38 L'anno che seguì ebbe un
console, Lucio Papirio Cursore, famoso sia per la gloria conquistata dal padre sia per
quella personale, nonché una grossa guerra e una vittoria sui
Sanniti quale nessuno fino a quei giorni - salvo Lucio Papirio, padre appunto
del console - aveva mai riportato. E il caso volle che i nemici preparassero
la guerra con lo stesso sforzo e lo stesso spiegamento di mezzi,
arricchendo le truppe di armi più sfarzose e ricche che mai. E avevano cercato
anche il sostegno degli dèi, iniziando, per così dire, i
soldati con un antico rito sacramentale: in tutto il Sannio venne bandita la leva
militare con una legge inusitata, in virtù della quale qualunque
giovane in età non si fosse presentato alla chiamata dei comandanti o avesse
lasciato il paese senza autorizzazione sarebbe stato maledetto e consacrato a
Giove. La convocazione per tutti gli effettivi venne fissata ad
Aquilonia, dove convennero circa 40.000 soldati, che rappresentavano il meglio
di tutte le forze sannite. Lì, al centro dell'accampamento,
venne tracciato un recinto delimitato da picchetti e assicelle e ricoperto con
una tela di lino, che misurava circa duecento piedi tanto in lunghezza
quanto in larghezza. All'interno del recinto celebrò i sacrifici attenendosi
alle indicazioni di un antico libro rilegato in lino il sacerdote
Ovio Paccio, un uomo molto avanti con gli anni, che sosteneva di aver desunto
quel rito da un'antica usanza sannita, praticata un tempo dagli
antenati quando avevano concepito il progetto di strappare Capua agli
Etruschi. Concluso il sacrificio, il comandante in capo ordinò a un
banditore di convocare gli uomini più in vista per ascendenti e valore,
facendoli venire uno per volta. L'intero apparato della cerimonia era allestito
in modo da suscitare negli animi timore religioso: contribuivano a
questo effetto soprattutto gli altari al centro del recinto integralmente
coperto, le vittime sgozzate intorno agli altari e i centurioni in cerchio con le
spade in pugno. I convocati venivano fatti avvicinare agli altari,
più come vittima che come effettivo partecipante al sacrificio, e dovevano
giurare di non rivelare quanto avevano visto o sentito in quel punto.
Mediante una formula intimidatoria venivano costretti a giurare che
sarebbero state maledette le loro persone, la famiglia e la stirpe,
qualora non fossero scesi in campo là dove i comandanti li guidavano, o
avessero abbandonato il campo di battaglia, o ancora vedendo qualcuno
darsi alla fuga non lo avessero ucciso su due piedi. All'inizio alcuni
che non accettavano di prestare questo giuramento vennero passati per
le armi davanti agli altari, e i loro cadaveri distesi tra le vittime
servirono poi da monito agli altri affinché non si tirassero indietro.
Quando poi i nobili sanniti si furono vincolati con questo giuramento, il
comandante fece i nomi di dieci di loro e ordinò che ciascuno di
essi scegliesse un altro uomo, e questi un altro ancora fino a raggiungere la
cifra di 16.000. Quella legione, dalla copertura del recinto all'interno del
quale la nobiltà aveva consacrato se stessa, venne chiamata linteata. A
quanti ne facevano parte vennero consegnate armi sfavillanti ed elmi
crestati, in modo da distinguerli in mezzo a tutti gli altri. Il resto
dell'esercito ammontava a poco più di 20.000 uomini che, quanto a forza
fisica, valore militare e armamento, non erano inferiori alla legione linteata.
Tutti questi effettivi, il meglio delle forze del Sannio, si accamparono
nei pressi di Aquilonia. 39 I consoli partirono da Roma: il
primo fu Spurio Carvilio, cui erano state assegnate le vecchie legioni,
lasciate l'anno prima dal console Marco Atilio nella zona di Interamna.
Marciando alla volta del Sannio alla testa di queste legioni, mentre i
nemici tenevano riunioni segrete impegnati nelle loro pratiche di
iniziazione, conquistò con la forza la città di Amiterno togliendola ai
Sanniti. In quel luogo caddero 2.800 uomini, i prigionieri furono 4.270.
Arruolato un nuovo esercito come era stato stabilito, Papirio espugnò
la città di Duronia. Catturò meno uomini del collega, uccidendone però un
numero più alto. In entrambe le zone venne conquistato un ricco bottino. I
due consoli poi, dopo aver effettuato scorrerie ad ampio raggio
nel Sannio, e devastato in particolar modo la zona di Atina, arrivarono
Carvilio a Cominio, e Papirio ad Aquilonia, dove si era concentrato il
grosso delle truppe sannite. Lì, per alcuni giorni, le due parti, pur senza
astenersi del tutto da azioni militari, non arrivarono mai
però a uno scontro vero e proprio: provocavano il nemico se era inattivo,
tornavano sui propri passi se opponeva resistenza, e ingannavano il
tempo rendendosi minacciosi più che attaccando battaglia. Qualunque fosse
l'operazione intrapresa o sospesa, ogni decisione in merito, anche la
più insignificante, veniva rinviata da un giorno all'altro. L'altro esercito
romano, che si trovava a venti miglia di distanza, e il collega
lontano partecipavano col pensiero alla gestione di tutte le operazioni, e
Carvilio era più concentrato su Aquilonia di quanto non lo fosse
Cominio che la stava assediando. Lucio Papirio, preparata ormai ogni
cosa per il combattimento, inviò un messaggero al collega per dirgli che
era sua intenzione, se gli auspici fossero stati favorevoli, di attaccare
battaglia il giorno successivo: era necessario che anche Carvilio
attaccasse Cominio con la maggior forza d'urto possibile, perché i Sanniti non
avessero più modo di inviare dei rinforzi ad Aquilonia. Il messaggero
ebbe un giorno di tempo per compiere il tragitto: ritornò nella notte
riferendo che il collega approvava il piano. Inviato il messaggero, Papirio
aveva sùbito convocato un'assemblea, durante la quale tenne un lungo
discorso sull'arte di gestire le guerre in generale, e in particolare sulle
attrezzature che al presente i nemici potevano vantare, e che risultavano
più belle a vedersi di quanto non fossero efficaci all'atto pratico:
infatti non erano certo i cimieri a procurare le ferite e il giavellotto
romano era in grado di trapassare anche gli scudi colorati e carichi
d'oro, e quell'esercito sfavillante per il candore delle tuniche si sarebbe
sporcato di sangue, quando fossero entrate in azione le spade. In passato
suo padre aveva fatto a pezzi un altro esercito sannita tutto oro e
argento, e quelle spoglie aveva garantito maggiore rinomanza al nemico
vittorioso che ai Sanniti stessi. Forse era destino che la sua gens e il
suo nome si opponessero agli sforzi maggiori dei Sanniti, e riportassero
quelle spoglie che rappresentavano uno straordinario ornamento anche per i
luoghi pubblici. Gli dèi immortali erano dalla parte dei Romani, dopo che
i patti tante volte richiesti erano stati altrettante volte violati. E se
era mai possibile penetrare nei disegni della mente divina, gli
dèi non erano mai stati tanto avversi a nessun esercito quanto a quello che,
dopo essersi macchiato con un rito sacrilego in cui il sangue umano era
stato mescolato a quello delle bestie, avviato a una duplice ira
divina, temendo da una parte l'ira degli dèi testimoni dei patti conclusi
coi Romani, e dall'altra le maledizioni legate al giuramento pronunciato, aveva
giurato contro la propria volontà, odiava il giuramento, ed era intimorito
contemporaneamente dagli dèi, dai concittadini e dai nemici. 40 Esposte queste cose - di cui era
venuto a conoscenza tramite le rivelazioni dei disertori - di fronte a
uomini già infiammati dal risentimento, questi ultimi, pieni di
speranze sia negli dèi sia negli uomini, chiesero all'unisono battaglia,
rammaricandosi che lo scontro fosse rinviato al giorno successivo e
trovando intollerabile il ritardo di un giorno e di una notte. Passata la
mezzanotte, quando gli venne riferita la risposta del collega, Papirio si
alzò in silenzio e ordinò all'aruspice addetto ai polli di trarre gli auspici.
Nel campo non c'era un solo uomo che non ardesse dal desiderio di
combattere, e dai gradi più alti a quelli più subalterni tutti avevano
dentro la stessa fiamma: il comandante guardava alla determinazione dei
soldati, i soldati a quella del comandante. Questo diffuso spirito
venne trasmesso anche a quanti stavano passando in rassegna gli auspici:
infatti, anche se i polli non stavano affatto mangiando, l'aruspice giunse a
falsare l'auspicio e annunciò al console un pasto quanto mai favorevole.
Felicissimo il console riferì ai suoi che gli auspici erano eccellenti e
che avrebbero combattuto col favore degli dèi; diede
così il segnale di battaglia. Mentre stava già per uscire dall'accampamento, un disertore
riferì che venti coorti sannite di circa 400 uomini l'una erano partite
alla volta di Cominio. Il console inviò sùbito un messaggio
al collega per informarlo della cosa; ordinò poi di accelerare le operazioni.
Distribuì i riservisti nelle posizioni più adatte e assegnò loro i
rispettivi ufficiali. A capo dell'ala destra piazzò Lucio Volumnio, alla
sinistra Lucio Scipione, affidando la cavalleria ad altri luogotenenti, Gaio
Cedicio e Tito Trebonio. A Spurio Nauzio diede disposizione di far
togliere i basti ai muli e di portarli in fretta, insieme ad alcune coorti di
ausiliarii, su un'altura ben visibile; gli ordinò di farsi notare, a
combattimento iniziato, alzando un polverone quanto più fitto possibile. Mentre il comandante sbrigava queste
disposizioni operative, tra gli aruspici sorse una controversia circa
gli auspici tratti quel giorno, e la lite arrivò alle orecchie di
alcuni cavalieri romani che, pensando non fosse una questione priva di rilievo,
ne riferirono a Spurio Papirio, figlio del fratello del console,
dicendogli che erano sorte contestazioni sugli auspici. Quel giovane, nato prima
della dottrina che insegna a disprezzare gli dèi, si
informò sui fatti, per evitare di riferire solo dicerie prive di fondamento, poi
riportò la cosa al console. Questi gli rispose così: «Onore alla tua
virtù e al tuo zelo. Però, se quanti traggono gli auspici dànno falsi
annunci, essi attirano su di sé la maledizione divina. A me è stato
annunciato un pasto consumato con grande voracità, ciò che
rappresenta un ottimo auspicio per l'esercito e il popolo romano». Ordinò
così ai centurioni di schierare gli aruspici nelle prime file. Anche i Sanniti fecero
avanzare le loro insegne, seguite dagli uomini con le loro armature splendenti,
uno spettacolo straordinario anche per i nemici. Prima dell'urlo di guerra
e dell'inizio delle ostilità, l'aruspice addetto ai polli, colpito da
un giavellotto lanciato a caso, cadde nelle prime file. Quando la cosa
venne riferita al console, questi commentò così: «Gli
dèi sono presenti sul campo di battaglia: il colpevole è stato punito». Mentre il
console pronunciava queste parole, un corvò gracchiò ad alta voce lì
davanti a lui. Felice per questo segno beneagurante, il console ordinò
di suonare il segnale di attacco e di alzare il grido di guerra, affermando
che mai in passato gli dèi erano intervenuti con maggior
tempestività nelle vicende umane. 41 La battaglia venne combattuta con
estremo accanimento, anche se lo spirito con cui i contendenti la
affrontarono era di gran lunga differente: a trascinare in battaglia i
Romani, assetati di sangue nemico, erano la rabbia, la speranza e la
determinazione; buona parte dei Sanniti, costretti dalla necessità e
dalle fobie religiose più a resistere che ad attaccare, combatteva invece contro
voglia. E certo non avrebbero retto al primo grido di guerra e al primo
assalto dei Romani - abituati com'erano alla sconfitta da ormai molti anni -,
se a trattenerli dalla fuga non fosse stata un'altra più forte
paura, relegata nel loro intimo. Avevano infatti ancora davanti agli occhi tutto
l'apparato di quel rito segreto - i
sacerdoti armati, cadaveri di uomini e bestie ammassati alla rinfusa, gli altari lordi di sangue pio ed
empio, la terribile professione di fede e l'invocazione delle furie, a maledire
la stirpe e la famiglia. Erano questi gli ostacoli che impedivano la
fuga ai Sanniti, intimoriti più dalla loro gente che dai nemici. La
pressione dei Romani si esercitava sia sulle due ali sia sul centro,
portandoli a seminare la strage tra i nemici attoniti per il timore degli dèi
e degli uomini. Resistevano senza troppa convinzione, come uomini cui soltanto
la codardia impedisca di darsi alla fuga. Il massacro era già arrivato
quasi alle insegne, quando da un lato si alzò un gran polverone, come di solito
succede per il passaggio di un esercito in marcia. Era Spurio Nauzio (anche se
alcuni autori sostengono si trattasse di Ottavio Mecio), a capo
delle coorti ausiliarie. Il polverone che sollevavano era molto più
consistente di quanto non comportasse il loro numero, perché gli uomini in
groppa ai muli trascinavano rami frondosi. Davanti, attraverso l'aria
resa torbida dal polverone, si scorgevano le insegne e le armi: poco
più dietro il pulviscolo più spesso e
denso faceva pensare che a chiudere la marcia fosse la cavalleria, e il trucco non ingannò soltanto i
Sanniti ma anche i Romani. Il console diede consistenza all'errata interpretazione,
gridando ad alta voce nelle prime file - in modo che le sue parole
arrivassero anche ai Sanniti - che Cominio era stata presa, e che il
collega reduce dalla vittoria si stava avvicinando: quindi si impegnassero a
fondo per la vittoria prima che il merito toccasse interamente all'altro
esercito. Gridò queste parole dritto sul cavallo, poi diede ordine ai
tribuni e ai centurioni di aprire il passaggio per la cavalleria (in
precedenza aveva già avvisato Trebonio e Cedicio che, non appena lo avessero
visto vibrare l'asta in alto, lanciassero i cavalieri a caricare il
nemico con la maggiore violenza possibile). Al segnale convenuto tutto
si svolse come era stato concertato: tra le file della fanteria
venne lasciato libero il passaggio, i cavalieri si lanciarono avanti e
caricarono lancia in resta le schiere nemiche, sfondandone i ranghi dovunque
irrompevano. Volumnio e Scipione incalzavano seminando la morte tra i
nemici in ritirata. Fu allora che, non potendo più
nulla la minaccia degli dèi e degli uomini, le coorti linteate vennero travolte,
senza distinzione tra quanti avevano prestato giuramento o meno, non temendo
più nient'altro se non il nemico. I fanti scampati alla battaglia
ripararono nell'accampamento o ad Aquilonia, mentre i nobili e i
cavalieri fuggirono a Boviano. I cavalieri romani inseguirono la cavalleria, i
fanti la fanteria. Le due ali si mossero in direzioni differenti: la
destra verso l'accampamento sannita, la sinistra verso la città.
Volumnio prese l'accampamento molto prima, mentre dalle parti della città
Scipione incontrò maggiore resistenza, non certo perché gli sconfitti avessero
più coraggio, quanto perché una cinta muraria è certo più
indicata di una trincea a respingere un assalto armato. E gli assediati, scagliando
pietre dalle mura, tenevano lontani i nemici. Scipione, convinto che se non
si fosse giunti a una soluzione rapida - prima che gli animi si riprendesso
dalla sorpresa -, l'assedio di quella città fortificata sarebbe
andato troppo per le lunghe, chiese ai soldati se accettavano di buon grado di
essere ricacciati dalle porte della città, pur avendo vinto la
battaglia, mentre l'altra ala si era impossessata dell'accampamento. Tutti
protestarono a gran voce; allora Scipione, sollevato lo scudo sopra la
testa, si avviò per primo verso la porta. Gli altri si inquadrarono a
testuggine e irruppero in città. Cacciarono i Sanniti occupando la cinta
nei pressi della porta, senza però avere il coraggio di addentrarsi
ulteriormente, visto il numero esiguo della loro formazione. 42 Il console in un primo tempo non era
al corrente di questi avvenimenti ed era impegnato a chiamare a raccolta
gli uomini, perché il sole stava ormai per tramontare e l'imminente
oscurità rendeva tutto insidioso e pieno di pericoli, anche per il
vincitore. Spintosi un po' più avanti, vide sulla sua destra che l'accampamemnto
nemico era stato occupato, mentre dalla sinistra sentì
arrivare dalla città un boato misto di urla di battaglia e grida di terrore. Proprio
in quel momento infuriava la battaglia presso la porta. Avvicinatosi
in sella al cavallo, non appena vide i suoi uomini sulle mura e si rese
conto di non avere più la situazione sotto controllo, perché
l'imprudenza di pochi gli offriva il destro per portare a termine una grande
impresa, diede ordine di richiamare le truppe già
raccolte, e ingiunse loro di avanzare verso la città. Entrati dalla parte
più vicina, vi si fermarono perché stava calando la notte. Nel corso della notte
i nemici si ritirarono. In quella giornata furono uccisi, nella
zona di Aquilonia, 20.340 Sanniti, 3.870 furono fatti prigionieri e
vennero catturate novantasette insegne militari. Stando a quanto è
stato tramandato, pare che non si fosse mai visto un comandante tanto allegro nel
corso di una battaglia, sia per la sua naturale disposizione di carattere,
sia per la fiducia che aveva nel successo dell'impresa. In virtù di questa
determinazione, non riuscì a trattenerlo dall'attaccare battaglia nemmeno l'auspicio
controverso, e proprio nel pieno dello scontro, quando di solito si promettono
in voto i templi agli dèi, egli promise a Giove Vincitore che in caso
di vittoria sull'esercito nemico gli avrebbe offerto un bicchierino di vino
al miele, dopo un'abbondante libagione personale di vino puro. La
promessa andò a genio agli dèi, che rivolsero in bene gli auspici. 43 La stessa fortuna ebbe l'altro
console nelle operazioni intorno a Cominio. Alle prime luci del giorno,
avvicinate le truppe alle mura, circondò l'intero perimetro
della città e fece rinforzare le guarnigioni intorno alle porte, per evitare ogni
genere di sortita. Stava già per dare il segnale di battaglia, quando
arrivò trafelato il messaggero inviatogli dal collega con l'annuncio che le venti
coorti nemiche si stavano avvicinando. La notizia lo trattenne
dal lanciarsi all'assalto, costringendolo a richiamare parte delle
truppe già schierate e pronte ad attaccare la città. Al
luogotenente Decimo Bruto Scevola diede ordine di scagliarsi contro i rinforzi nemici con
la prima legione, dieci coorti e la cavalleria: doveva bloccarli e
trattenerli dovunque vi si fosse imbattuto, arrivando a scendere in
battaglia se le circostanze lo richiedevano, in maniera tale che
quelle forze non raggiungessero Cominio. Personalmente fece quindi accostare le
scale alle mura in ogni settore della città, avvicinandosi alle
porte dopo aver inquadrato i suoi in formazione a testuggine: nello stesso
istante vennero abbattute le porte e scalate le mura. I Sanniti, se prima di
vedere sulle mura dei soldati con le armi in pugno mantennero il coraggio
necessario per fronteggiare i Romani, ora che lo scontro non avveniva
più a distanza né con armi da lancio, ma corpo a corpo, e i Romani,
saliti a fatica sulle mura, una volta superato lo svantaggio naturale
della posizione (era questo che temevano di più), combattevano
in scioltezza e a parità di condizioni con un nemico inferiore, abbandonarono le
torri e le mura, e si andarono ad ammassare tutti nel foro, dove per
qualche tempo diedero vita a un estremo tentativo di risollevare le sorti della
battaglia. Alla fine deposero però le armi, arrendendosi senza condizioni
al console in numero di circa 11.400. I caduti erano stati invece
circa 4.880. Fu questo l'andamento delle operazioni
a Cominio e ad Aquilonia. Nella zona tra le due città, dove si
prevedeva ci sarebbe stata una terza battaglia, non ci si imbatté nei
nemici: richiamati indietro dai compagni quando erano a sette miglia da Cominio,
non parteciparono a nessuna delle due battaglie. Stava quasi per calare
la notte, e mentre vedevano già sia l'accampamento sia Aquilonia, il
frastuono che giungeva da entrambe le parti li fece fermare. Poi la vista
delle fiamme, segnale inequivocabile della disfatta, che si levavano per
largo tratto dall'accampamento incendiato dai Romani, li trattenne
dall'avanzare ulteriormente. Dopo essersi stesi disordinatamente a terra
là dove si trovavano, con le armi indosso, trascorsero nell'angoscia
l'intera nottata, attendendo terrorizzati la luce del giorno.
All'alba, quando non sapevano da che parte dirigersi, avvistati dai
cavalieri, che sulle tracce dei Sanniti usciti nottettempo dalla città
avevano individuato una massa di uomini sprovvista di protezioni difensive e di
guarnigioni armate, si diedero immediatamente alla fuga. Quel gruppo
di soldati era stato avvistato anche dalle mura di Aquilonia, nonché da
reparti di fanteria messisi sulle loro tracce. I fanti non riuscirono
però a raggiungere i fuggiaschi, mentre i cavalieri eliminarono circa 280 uomini
della retroguardia. Nel panico i nemici abbandonarono molte delle armi e
diciotto insegne militari. Il resto della schiera arrivò sano
e salvo a Boviano, per quanto fu possibile in tutta quella confusione. 44 La gioia di ciascuno dei due
eserciti romani aumentò per il successo ottenuto dall'altro. Dopo essersi
consultati tra loro, i consoli permisero che le due città fossero
saccheggiate dai soldati, facendovi appiccare il fuoco una volta svuotate da cima a
fondo. Aquilonia e Cominio vennero distrutte dalle fiamme lo stesso
giorno, e i consoli unirono i due accampamenti, tra l'entusiasmo e le
reciproche felicitazioni delle legioni e dei comandanti stessi. Di fronte ai
due eserciti Carvilio coprì di elogi i suoi uomini per i meriti dei singoli,
mentre Papirio, sotto il cui comando si era combattuto in più
punti diversi - sul campo di battaglia, nei pressi dell'accampamento nemico e
in città -, diede in premio dei braccialetti e delle corone d'oro a
Spurio Nauzio, il nipote di Spurio Papirio, a quattro centurioni e a un
manipolo di hastati: a Nauzio per l'azione con cui aveva seminato il
panico tra i nemici dando l'impressione che ci fosse un grosso esercito in
marcia; al giovane Papirio per quanto aveva fatto con la cavalleria sia
durante la battaglia sia nel corso della notte, disturbando la fuga dei Sanniti
usciti da Aquilonia di nascosto; ai centurioni e ai soldati perché avevano
occupato per primi la porta e le mura di Aquilonia. A tutti i cavalieri,
per l'opera valorosa prestata in diversi punti del fronte, venne
consegnato un distintivo onorifico da mettere sull'elmo e un braccialetto
d'argento. Ci fu poi una riunione per decidere se
fosse già arrivato il momento di ritirare i due eserciti, o almeno uno
di essi, dal Sannio. La cosa migliore sembrò però
quella di insistere portando fino in fondo ciò che restava delle operazioni militari con
tanto più ostinata determinazione quanto maggiore era l'indebolimento
della potenza sannita, in modo tale che ai consoli dell'anno a venire si
potesse consegnare il Sannio interamente domato. Poiché non c'era
più un esercito nemico apparentemente in grado di poter affrontare una
battaglia in campo aperto, l'unica forma di guerra che restava era
l'espugnazione delle città, la cui distruzione poteva garantire ai soldati un
arricchimento, e l'annientamento definitivo del nemico che lottava ormai soltanto
per sopravvivere. Così, inviato al senato e al popolo romano un rapporto
dettagliato sulle operazioni portate a termine, i consoli guidarono le
legioni in diverse direzioni: Papirio si rivolse verso Sepino, mentre Carvilio
puntò su Velia. 45 La lettura del rapporto trasmesso
dai consoli fu motivo di grande entusiasmo in senato e nell'assemblea
del popolo, e l'esultanza generale venne resa solenne da quattro giorni di
festosi ringraziamenti, che videro una grande partecipazione di popolo.
Per i cittadini romani questa vittoria non fu soltanto di grande
prestigio, ma arrivò anche al momento più adatto, perché proprio in
quel momento giunse la notizia che gli Etruschi avevano riaperto le
ostilità. Occorreva pensare a come si potesse sostenere il peso di una guerra contro
l'Etruria se le cose nel Sannio non fossero andate per il meglio, visto che
l'Etruria, imbaldanzita dall'insurrezione generale nel Sannio,
vedendo i due consoli e tutte le forze impegnate sul fronte sannita,
aveva pensato che questa fosse un'occasione propizia per riprendere le
armi. Gli alleati inviarono ambasciatori, che furono introdotti in
senato dal pretore Marco Atilio; lamentavano che le loro campagne
venissero devastate e incendiate dagli Etruschi, solo perché essi non avevano
voluto staccarsi dai Romani, e per questo scongiuravano i senatori di
proteggerli dalla tracotanza e dalle offese dei nemici comuni. Agli
ambasciatori venne risposto che il senato avrebbe fatto il possibile perché gli
alleati non dovessero pentirsi della propria fedeltà: presto agli
Etruschi sarebbe toccata la stessa sorte dei Sanniti. Eppure la campagna contro gli
Etruschi non sarebbe stata condotta con la stessa determinazione, se non
fosse giunta la notizia che i Falisci, da lungo tempo amici dei
Romani, avevano unito le proprie forze agli Etruschi. La vicinanza di questa
popolazione aumentò la preoccupazione del senato, che decise di
inviare i feziali a chiedere soddisfazione dell'accaduto. La
richiesta fu respinta, e così su proposta del senato, approvata dal popolo, venne
dichiarata guerra ai Falisci, e i consoli ricevettero disposizione di
sorteggiare chi dei due avrebbe dovuto trasferirsi dal Sannio in Etruria. Carvilio aveva già conquistato
le città sannite di Velia, Palombino ed Ercolaneo: Velia nel giro di pochi
giorni, Palombino lo stesso in cui si era presentato sotto le mura. A
Ercolaneo dovette invece affrontare una battaglia in campo aperto dall'esito
incerto, subendo più perdite di quelle inflitte ai nemici. Dopo essersi
accampato, costrinse il nemico a trincerarsi all'interno delle mura, e
la città venne conquistata con la forza. In questi tre centri vennero
catturati o uccisi circa 10.000 uomini (il numero dei prigionieri
superò di poco quello dei morti). Il sorteggio tra i due consoli destinò
l'Etruria a Carvilio, com'era nei desideri dei soldati, che ormai non reggevano
più il rigido freddo del Sannio. Nei pressi di Sepino i Sanniti opposero
maggiore resistenza a Papirio: a più riprese, o in campo aperto, o durante
la marcia, o ancora nei pressi della città, egli dovette rintuzzare
le sortite dei nemici. Più che un assedio era una guerra vera e propria, perché i
Sanniti non erano protetti dalle mura più di quanto le mura non
lo fossero dalle armi e dai soldati. Ma alla fine, a forza di combattere, il
console costrinse i nemici a subire un assedio in piena regola,
concludendolo con l'espugnazione della città, conquistata con il ricorso a macchine
da guerra. Presa la città, la tensione portò a un massacro
ancora più sanguinoso: gli uccisi ammontarono a 7.400, mentre i prigionieri furono
meno di 3.000. Il bottino raccolto, ricchissimo perché i Sanniti avevano
concentrato le loro cose in poche città, fu lasciato ai soldati. 46 La neve aveva ormai coperto tutto il
paese, e fuori dalle abitazioni non era possibile resistere al freddo.
Per questo il console ritirò le truppe dal Sannio. Al suo rientro a
Roma il consenso unanime del popolo gli fece tributare il trionfo. Lo
celebrò mentre era ancora in carica, in maniera fastosa per le abitudini dei
tempi. I cavalieri e i fanti procedevano e cavalcavano con indosso
le decorazioni ottenute: si vedevano anche molte corone civiche, vallari e
murali. Oggetto di grande ammirazione erano le spoglie sannite,
paragonate per splendore e bellezza a quelle riportate dal padre, che
avevano un aspetto familiare perché ornavano molti luoghi pubblici. Nel
corteo dei prigionieri vi erano membri dell'aristocrazia sannita, famosi per le
imprese compiute da loro o dai loro padri. Sfilarono 2.530.000 assi di
rame da una libbra - si diceva fosse la somma ricavata dalla vendita
dei prigionieri di guerra -, e 1830 libbre d'argento razziate nelle
città. Tutto il rame e l'argento vennero versati nell'erario, senza che ai
soldati venisse concesso alcunché del bottino. Questa decisione accrebbe il
malcontento della plebe, perché in aggiunta venne imposto un tributo per
pagare gli stipendi ai soldati, là dove, rinunciando al nobile gesto di
versare nell'erario il denaro ricavato dal bottino di guerra, sarebbe
stato possibile concedere ai soldati parte della preda e utilizzarne
parte per pagare la diaria ai militari. Il console inaugurò il
tempio di Quirino - anche se in nessun autore ho trovato che egli lo avesse
promesso in voto durante la guerra, né per Ercole avrebbe mai potuto
portarne a termine la costruzione in un tempo così esiguo - promesso in voto
dal padre dittatore, ornandolo con le spoglie nemiche, che erano tanto ricche
da permettere non solo di decorare il tempio e il Foro, ma di essere anche
distribuite agli alleati e alle colonie circostanti perché le
utilizzassero per abbellire templi e luoghi pubblici. Dopo il trionfo Papirio
portò l'esercito a trascorrere l'inverno nella zona di Vescia, infestata dai
Sanniti. Nel frattempo in Etruria il console
Carvilio si preparò a espugnare Troilo, e dopo aver concesso a 400 tra
i cittadini più ricchi di uscirne dietro pagamento di una grossa somma di
denaro, ebbe la meglio con la forza del resto della popolazione e
della città stessa. Espugnò poi cinque
villaggi fortificati che si trovavano in posizioni ben protette, e vi uccise 2.400 nemici, facendo meno di
2.000 prigionieri. Ai Falisci che si presentarono a chiedere la pace egli
concesse un anno di tregua, a condizione che pagassero 100.000 assi
pesanti e le diarie militari di quell'anno. Portate a termine queste
operazioni, partì per celebrare il trionfo, che fu meno fastoso di quello
del collega sul versante sannita, ma lo eguagliò con le vittorie
conquistate in Etruria. Versò nell'erario 380.000 assi pesanti, e col resto del
ricavato dalla vendita del bottino diede in appalto la costruzione del
tempio della Forte Fortuna, situato accanto al santuario di quella stessa
dea consacrato dal re Servio Tullio. Ai suoi uomini assegnò 102 assi
a testa presi dal bottino, mentre per i centurioni e i cavalieri la somma fu
doppia, e la donazione risultò ancora più gradita perché messa a
confronto con la grettezza del collega. Il favore del console servì a
garantire la protezione del popolo al suo luogotenente Lucio Postumio che, citato
in giudizio dal tribuno Marco Scanzio, riuscì a sottrarsi al
giudizio del popolo - come dicevano le voci - grazie alla sua carica di
luogotenente; e così l'accusa nei suoi confronti venne soltanto presentata,
senza però aver séguito. 47 Alla fine dell'anno erano entrati in
carica i nuovi tribuni della plebe. Solo che per irregolarità
intercorse nella nomina cinque giorni dopo vennero sostituiti con altri. Nel
corso dell'anno i censori Publio Cornelio Arvina e Gaio Marcio Rutilio
tennero il censimento: furono censiti 262.321 cittadini. I censori
erano i ventiseiesimi entrati in carica da quando era iniziata la
censura, e quello fu il diciannovesimo censimento. Lo stesso anno, per la
prima volta, gli uomini che avevano ricevuto delle decorazioni militari
nelle campagne poterono assistere ai giochi romani con la corona sul capo, e
ugualmente per la prima volta venne concessa ai vincitori la palma
del trionfo, secondo un'usanza introdotta dalla Grecia. Ancora in
quell'anno gli stessi edili curuli che avevano organizzato i giochi, servendosi
del denaro ricavato dalle ammende inflitte ad alcuni appaltatori di
pascoli, fecero lastricare la strada del tempio di Marte fino a Boville. Lucio Papirio presiedette le elezioni
consolari, e proclamò eletti Quinto Fabio Gurgite figlio di Massimo e
Decimo Giunio Bruto Sceva. Papirio stesso ottenne la nomina a pretore. I molti eventi positivi di quell'anno
bastarono appena per consolare gli animi di un'unica sciagura, un'epidemia
che prostrò sia le città sia le campagne. E poiché la calamità
era il segno di una volontà soprannaturale, vennero consultati i libri sibillini,
per conoscere quale fossero la fine o l'eventuale rimedio concessi dagli
dèi a quella sciagura. Dalla consultazione emerse che era necessario
far venire Esculapio da Epidauro a Roma. Ma per quell'anno non si fece
nulla, perché i consoli erano impegnati nella guerra, e ci si
limitò a offrire a Esculapio una giornata di suppliche. |
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