PRIVILEGIA NE
IRROGANTO di Mauro
Novelli
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John Stuart Mill
(1806 - 1873)
Rescogitans
Philosophical Library
Electronic edition © 1997
Il grande principio, cui direttamente convengono tutti gli
argomenti sviluppati in queste pagine, è l'assoluta ed essenziale
importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità.
WILHELM VON HUMBOLDT,
Idee per un saggio sui limiti dell'attività dello Stato
II Della libertà di pensiero e discussione
III Dell'individualità come elemento del bene comune
IV Dei limiti dell'autorità della
società sull'individuo
SOURCES
La presente edizione elettronica del Saggio sulla
Libertà di John Stuart
Mill, è stata autonomamente realizzata da Rescogitans seguendo integralmente l’edizione
dell'opera dal titolo Saggio sulla Libertà, Il Saggiatore,
Milano 1993, prima edizione 1981, traduzione di Stefano Magistretti.
Titolo originale dell’opera: On Liberty.
I
Introduzione
L'argomento di questo saggio non è la cosiddetta
"libertà della volontà", tanto infelicemente contrapposta
a quella che è impropriamente chiamata dottrina della necessità
filosofica, ma la libertà civile, o sociale: la natura e i limiti del
potere che la società può legittimamente
esercitare sull'individuo. Questione raramente enunciata, e quasi mai discussa
in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente sulle
polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà
ben presto come il problema fondamentale del futuro. È così poco
nuova che, in un certo senso, ha diviso
l'umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di
progresso cui sono ora giunti i settori più civilizzati della nostra
specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di essere trattata
in modo diverso e più fondamentale.
La lotta tra libertà e autorità è il
carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a
conoscenza, in particolare in Grecia, Roma e Inghilterra. Ma
nell'antichità si trattava di conflitti tra sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la
protezione dalla tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di
alcuni governi popolari della Grecia) come necessariamente antagonisti al
popolo da essi governato. Si trattava di un singolo, o
di una tribù o casta dominante, la cui autorità era ereditaria o
frutto di conquista, in ogni caso non della volontà dei governatori, e
la cui supremazia gli uomini non osavano, o forse non
desideravano, porre in discussione, quali che fossero le eventuali misure di
precauzione contro un suo esercizio troppo oppressivo. Il potere dei governanti
era considerato necessario, ma anche estremamente pericoloso: un'arma che essi
avrebbero cercato di usare contro i propri sudditi altrettanto che contro i
nemici esterni. Per impedire che i membri più deboli della
comunità venissero depredati e tormentati da
innumerevoli avvoltoi, era indispensabile la presenza di un rapace più
forte degli altri, con l'incarico di tenerli a bada. Ma, poiché il re degli
avvoltoi sarebbe stato voglioso quanto le minori arpie di depredare il gregge,
si rendeva necessario un perpetuo atteggiamento di difesa contro il suo becco e
i suoi artigli. Quindi, lo scopo dei cittadini era di
porre dei limiti al potere sulla comunità
concesso al governante: e questa delimitazione era ciò che essi
intendevano per libertà. Si cercava di conseguirla in due modi: in primo
luogo, ottenendo il riconoscimento di certe immunità, chiamate
libertà o diritti politici, la cui violazione da parte del governante
sarebbe stata considerata infrazione ai doveri del suo ufficio, e avrebbe
giustificato l'opposizione specifica o la ribellione generale. Una seconda
modalità, generalmente successiva, era la creazione di vincoli
costituzionali per cui il consenso della
comunità, o di un qualche organismo che avrebbe dovuto rappresentarne
gli interessi, veniva reso condizione necessaria per alcuni degli atti
fondamentali dell'esercizio del potere. Nella maggior parte dei paesi europei,
i governanti furono più o meno costretti ad
accettare il primo sistema ma non il secondo, e conseguirlo, o conseguirlo
più compiutamente nelle situazioni in cui già in una certa misura
esisteva, divenne in ogni paese l'obiettivo principale di chi amava la
libertà. E, fino a quando l'umanità si accontentò di
combattere un nemico con un altro, e di avere un signore a condizione di essere
più o meno efficacemente garantita contro la sua tirannide, le sue aspirazioni si fermarono qui.
Tuttavia, a un certo punto del progresso umano, gli uomini
cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere un
potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto
preferibile che i vari magistrati dello Stato ricevessero in concessione
l'esercizio del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento
dalla comunità. Solo così, si pensava, gli uomini avrebbero
potuto essere completamente sicuri che non si sarebbe mai abusato a loro danno
dei poteri di governo. Gradualmente, questa nuova richiesta di governo
temporaneo e elettivo divenne l'obiettivo principale dell'azione dei partiti
popolari ovunque essi esistessero, sostituendosi in larga misura ai precedenti
tentativi di limitare il potere dei governanti. Con lo sviluppo della lotta per
fare emanare il potere dalla scelta periodica dei governanti, alcuni
cominciarono a pensare che si era attribuita troppa
importanza alla limitazione del potere in quanto tale, limitazione che a loro
giudizio andava invece considerata un'arma contro quei governanti i cui
interessi si contrapponessero abitualmente a quelli popolari. Ciò che
ora si voleva era l'identificazione dei governanti con il popolo, la
coincidenza del loro interesse e volontà con quelli della nazione.
Quest'ultima non aveva bisogno di essere protetta dalla propria volontà:
non vi era da temere che diventasse il tiranno di se stessa. Se i governanti
fossero stati effettivamente responsabili verso di essa,
e da essa immediatamente amovibili, la nazione avrebbe potuto permettersi di
affidare loro un potere il cui uso sarebbe dipeso dalla sua volontà: il
potere di governo non sarebbe stato altro che quello della nazione, concentrato
in forma tale da permetterne un efficace esercizio. Questa linea di pensiero, o
– forse più esattamente – questo sentimento, era diffusa nell'ultima
generazione del liberalismo europeo, e sembra ancora predominare nel
Continente. Coloro che ammettono limiti alle possibilità di azione di un
governo, salvo che si tratti di governi che a loro avviso non dovrebbero
esistere, sono delle brillanti, isolate eccezioni tra
i pensatori politici del Continente: e un sentimento analogo potrebbe ormai
prevalere anche nel nostro paese se le circostanze che lo hanno per un certo
periodo favorito fossero rimaste immutate.
Ma, nelle teorie politiche e filosofiche come nelle persone, il
successo pone in luce difetti e debolezze che l'insuccesso avrebbe
potuto mantenere celati. L'idea secondo cui non vi è
necessità che il popolo limiti il proprio potere su se stesso poteva
sembrare assiomatica in tempi in cui il governo popolare era solo un obiettivo
fantasticato o lo si conosceva attraverso le letture, come fenomeno di un
lontano passato: né venne necessariamente scossa da aberrazioni temporanee come
quelle della Rivoluzione francese, le peggiori delle quali erano opera di pochi
usurpatori, e che comunque non erano proprie del funzionamento permanente di
istituzioni popolari, ma di un'improvvisa e convulsa esplosione contro il
dispotismo monarchico e aristocratico. A un certo punto, tuttavia, vi fu una
repubblica democratica che si sviluppò fino a occupare una vasta distesa
di territorio e a far sentire il proprio peso come uno dei membri più
potenti nella comunità delle nazioni; e in questo modo il governo
elettivo e responsabile divenne oggetto delle osservazioni e delle critiche che
accompagnano ogni grande realtà. Ci si rese allora conto che espressioni
come "autogoverno" e "potere del popolo su se stesso" non
esprimevano il vero stato delle cose. Il "popolo" che esercita il
potere non coincide sempre con coloro sui quali quest'ultimo viene
esercitato; e l'"autogoverno" di cui si parla non è il governo
di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno. Inoltre, la
volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà
della parte di popolo più numerosa o attiva – la maggioranza, o
coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza, il popolo può
desiderare opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono altrettanto necessarie quanto quelle contro
ogni altro abuso di potere. Quindi, la limitazione del potere del governo sugli
individui non perde in alcun modo la sua importanza quando
i detentori del potere sono regolarmente responsabili verso la comunità,
cioè al partito che in essa predomina. Questa impostazione, che soddisfa
sia la riflessione intellettuale sia le tendenze di quelle importanti classi
della società europea ai cui interessi, reali o presunti, si oppone la
democrazia, non ha trovato difficoltà a imporsi; e il pensiero politico
ormai comprende generalmente "la tirannia della maggioranza" tra i
mali da cui la società deve guardarsi. Come altre tirannie, quella della
maggioranza fu dapprima – e volgarmente lo è ancora – considerata, e
temuta, soprattutto in quanto conseguenza delle azioni delle pubbliche autorità.
Ma le persone più riflessive compresero che, quando la società
stessa è il tiranno – la società nel suo
complesso, sui singoli individui che la compongono –, il suo esercizio della
tirannia non si limita agli atti che può compiere per mano dei suoi
funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i
propri ordini: e se gli ordini che emana sono sbagliati, o comunque riguardano
campi in cui non dovrebbe interferire, esercita una tirannide sociale
più potente di molti tipi di oppressione politica, poiché, anche se
generalmente non viene fatta rispettare con pene
altrettanto severe, lascia meno vie di scampo, penetrando più
profondamente nella vita quotidiana e rendendo schiava l'anima stessa. Quindi
la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente: è
necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento
predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di
condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi
dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione
– di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i
caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima
interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: e trovarlo,
e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona
conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico.
Ma, anche se quest'asserzione è difficilmente opinabile in
termini generali, nella questione pratica della determinazione del limite – di
come conseguire l'equilibrio più opportuno tra indipendenza individuale
e controllo sociale – quasi tutto resta ancora da fare. Tutto ciò che
rende l'esistenza di chiunque degna di essere vissuta dipende dall'impostazione
di restrizioni sulle azioni altrui. Di conseguenza devono essere imposte alcune
regole di condotta – dalla legge in primo luogo, e dall'opinione nei molti
campi che non si prestano a legislazione. Quali debbano
essere queste regole è il problema principale della collettività
umana; ma, ad eccezione di alcuni dei casi più ovvii, è questo un
problema verso la cui soluzione sono stati compiuti minori progressi. Nessun'epoca, e quasi nessun
paese, lo hanno risolto nello stesso modo; e la soluzione di un paese o epoca
è lo stupore degli altri: e tuttavia, gli uomini di qualsiasi singolo
paese, o epoca, non ne sospettano mai le difficoltà, come se
l'umanità fosse sempre stata unanime su questo argomento. Le regole
secondo cui vivono sembrano loro ovvie e autogiustificantesi.
Quest'illusione del tutto universale è un esempio della magica influenza
della consuetudine, che non è solo, come afferma il proverbio, una
seconda natura, ma viene continuamente scambiata per
la prima. L'efficacia della consuetudine nel prevenire ogni dubbio sulle norme
di condotta che gli uomini si impongono a vicenda è tanto più
completa perché l'argomento è uno di quelli su cui non viene generalmente considerato necessario fornire
spiegazioni, né agli altri né a se stessi. Gli uomini sono abituati a credere,
e a ciò sono stati incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti
filosofi, che in questioni di tale natura i loro sentimenti siano meglio delle
ragioni e le rendano inutili. Il principio pratico che forma
le loro opinioni sulle regole della condotta umana è il
sentimento, da parte di ciascuno, che a ciascuno dovrebbe essere prescritto di
agire come piacerebbe a lui e a coloro con cui simpatizza. Nessuno,
è vero, ammette a se stesso che il suo criterio di giudizio è il
suo gradimento; ma un'opinione su un dato tipo di condotta, che non sia
confortata da ragioni, può solo essere considerata una preferenza
individuale; e se le ragioni addotte sono semplicemente un appello a una simile
preferenza condivisa da altri, l'opinione è solo il gradimento di molti
invece che di uno. Tuttavia, per un uomo comune la sua preferenza, su
una simile base, è non solo una ragione perfettamente soddisfacente
ma generalmente l'unica che giustifica qualunque sua nozione di morale,
gusto o decoro che non sia espressamente prevista dal suo credo religioso, e la
sua principale guida anche nell'interpretazione di quest'ultimo. Di
conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di
biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i
desideri riguardanti l'altrui condotta, le quali sono altrettanto numerose
quanto quelle che determinano i desideri umani in ogni altro campo. Talvolta è la ragione; talaltra i pregiudizi o le
superstizioni; spesso le passioni sociali, non di rado quelle antisociali,
l'invidia o la gelosia, l'arroganza o il disprezzo; ma soprattutto i desideri o
le paure per se stessi – gli interessi personali, legittimi o illegittimi.
Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona
parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi
sentimenti di superiorità di classe. L'etica dei rapporti tra Spartani e
Iloti, tra piantatori e negri, tra principi e sudditi, tra nobili e rotuners, tra uomini e donne è stata per la
maggior parte creata da questi interessi e sentimenti di classe; e i sentimenti così generati reagiscono a loro volta
sulla morale dei membri della classe dominante nei loro rapporti reciproci.
Dove, d'altro canto, una classe non sia più
dominante, o il suo predominio sia impopolare, i sentimenti morali prevalenti
sono frequentemente improntati a un'impaziente avversione per la sua
superiorità. Un altro grande principio che ha determinato le norme di
condotta – intesa sia come azione sia come omissione – fatte rispettare dalla
legge o dall'opinione è stato il servilismo degli uomini nei confronti
delle supposte preferenze o antipatie dei loro signori temporali o dei loro
dei. Questo servilismo, anche se essenzialmente egoistico,
non è ipocrisia; dà luogo a sentimenti di orrore del tutto genuini;
ha fatto bruciare maghi e eretici. Tra tante mediocri influenze, anche
gli interessi generali e evidenti della società hanno naturalmente avuto
un ruolo, importante, nell'orientamento dei sentimenti morali: meno, tuttavia,
in quanto elementi razionali, e per i propri meriti intrinseci, che in
virtù delle conseguenze delle simpatie e antipatie da essi
originate; e simpatie e antipatie che con gli interessi della società
avevano poco o nulla a che fare hanno avuto un peso altrettanto grande
nell'affermazione delle morali sociali.
Le simpatie e antipatie della società, o di qualche suo
potente settore, sono quindi il fattore principale che ha in pratica
determinato le norme di comportamento da osservare per non incorrere nelle
sanzioni della legge o dell'opinione. E, in generale, coloro il cui pensiero o
i cui sentimenti erano più avanzati di quelli della loro società
hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose, anche se
talvolta possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono
preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire
o avversare, piuttosto che di chiedersi se queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui: hanno
preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle
questioni particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far
causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà. Il
solo caso in cui si è scelta per principio questa posizione più
elevata, e la si è mantenuta con coerenza,
salvo rare eccezioni individuali, è quello delle convinzioni religiose:
caso per molti aspetti istruttivo, non da ultimo perché costituisce un esempio
straordinario della fallibilità di ciò che è chiamato
senso morale; poiché l'odium theologicum, in un sincero bigotto, è uno dei
casi più inequivocabili di sentimento morale. Coloro che per primi
spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest'ultima a
permettere differenze di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata
del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria, e ogni
chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze al
mantenimento del terreno che in quel momento occupava, le minoranze, consce di
non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero
necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di
dissentire. Di conseguenza è su questo campo di battaglia – caso quasi
unico – che i diritti dell'individuo, contrapposti a quelli della
società, sono stati rivendicati su un'ampia base di principio, e la
pretesa da parte della società di esercitare la propria autorità
sui dissenzienti è stata apertamente contestata. I grandi scrittori cui
il mondo è debitore del grado di libertà religiosa di cui gode
hanno per la maggior parte rivendicato la
libertà di coscienza come diritto inalienabile, e assolutamente negato
che si debba rendere conto ad altri delle proprie convinzioni religiose.
Tuttavia, l'intolleranza, in tutti i campi che realmente contano per
l'umanità, è tanto connaturata che la libertà religiosa
non è stata quasi mai realizzata in pratica, salvo che nei casi in cui
l'indifferenza religiosa, che non gradisce essere turbata da dispute
teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le persone religiose,
anche nei paesi più tolleranti, ammettono il dovere della tolleranza con
tacite riserve. Qualcuno sopporterà il dissenso in
questioni di governo ecclesiastico, ma non di dogma; un altro tollererà
tutti, purché non siano papisti o unitari; pochi spingono la propria
carità un poco più oltre, ma non transigono sulla questione
dell'esistenza di un Dio e della vita futura. Dovunque il sentimento
religioso della maggioranza rimane genuino e intenso, si scopre che la sua
pretesa di essere ubbidito è appena mitigata.
Le particolari circostanze della nostra storia politica fanno
sì che in Inghilterra, anche se il giogo dell'opinione è forse
più pesante, quello della legge sia più lieve che nella maggior
parte degli altri paesi europei; e vi è un'accentuata insofferenza per
l'intervento diretto del potere legislativo o esecutivo nella condotta
individuale, non tanto per un giusto rispetto dell'indipendenza individuale, ma
perché sussiste ancora l'abitudine di considerare il governo come espressione
di interessi contrapposti a quelli dei cittadini. La maggioranza non ha ancora
imparato a percepire il potere del governo come proprio potere, o le opinioni
governative come proprie. Quando ciò avverrà, la libertà
individuale sarà probabilmente altrettanto esposta agli assalti dello
Stato quanto lo è già a quelli dell'opinione pubblica. Ma, ancor
oggi, prevale un diffuso sentimento pronto a essere mobilitato contro ogni
tentativo da parte della legge di controllare gli individui in campi in cui
fino ad ora non sono stati abituati a tale controllo; è una reazione
quasi del tutto indiscriminata, che non si chiede se una data questione
appartenga o meno alla sfera legittima del controllo
legale; tanto che questo sentimento, nel complesso altamente salutare, nella
pratica viene forse evocato altrettanto spesso a torto che a ragione. In
effetti, non vi è alcun principio riconosciuto sulla cui base venga valutata abitualmente la maggiore o minore opportunità
dell'interferenza statale. Gli uomini decidono secondo le loro preferenze
personali: alcuni, di fronte alla possibilità di realizzare un bene o di
rimediare a un male, incitano volentieri lo Stato a prendersene carico, mentre
altri preferiscono sopportare quasi ogni sorta di male sociale piuttosto che
aumentare, fosse pure di uno, il numero dei settori di
attività umane riconducibili sotto il controllo statale. E, in ciascun
caso particolare, gli uomini si schierano in uno dei due campi, secondo
quest'inclinazione generale dei loro sentimenti, o secondo il loro grado di
interesse nella questione per cui è proposto
l'intervento statale, o secondo le loro previsioni sul comportamento dello
Stato, giudicato nei termini delle loro preferenze; ma molto di rado prendono
partito in base a una loro opinione coerente su ciò che spetti allo
Stato compiere. E mi sembra che, a causa di questa mancanza di una regola o
principio, attualmente i due opposti campi errino nella stessa misura:
l'interferenza dello Stato è, quasi con la stessa frequenza, auspicata a
torto e condannata a torto.
Scopo di questo saggio è formulare un principio molto
semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra
società e individuo, sia che li si eserciti mediante
la forza fisica, sotto forma di pene legali, sia mediante la coazione morale
dell'opinione pubblica. Il principio è che l'umanità è
giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla
libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo
scopo per cui si può legittimamente esercitare
un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua
volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo,
sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa
perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice,
perché, nell'opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono
buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per
costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente.
Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l'azione da cui si
desidera distoglierlo deve essere intesa a causare danno a qualcun altro. Il
solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla
società è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che
riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di
diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano.
È forse superfluo aggiungere che questa dottrina vale solo
per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà. Non stiamo parlando
di bambini o di giovani che sono per legge ancora minori d'età. Coloro
che ancora necessitano dell'assistenza altrui devono essere protetti dalle
proprie azioni quanto dalle minacce esterne. Per la stessa ragione, possiamo
tralasciare quelle società arretrate in cui la razza stessa può
essere considerata minorenne. Le difficoltà che inizialmente si
oppongono al progresso spontaneo sono così grandi che raramente si
può scegliere tra diversi mezzi di superarle: e un governante animato da
intenzioni progressiste è giustificato a impiegare ogni mezzo che
permetta di conseguire un fine forse altrimenti impossibile. Il dispotismo
è una forma legittima di governo quando si ha a
che fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano
giustificati dal suo reale conseguimento. La libertà, come principio,
non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli
uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e
tra eguali. Fino ad allora, non vi è nulla per loro, salvo l'obbedienza
assoluta a un Aqbar o a un Carlomagno
se sono così fortunati da trovarlo. Ma, non appena gli uomini hanno
conseguito la capacità di essere guidati verso il proprio progresso
dalla convinzione o dalla persuasione (condizione da molto tempo raggiunta in
tutte le nazioni di cui ci dobbiamo occupare), la costrizione, sia in forma
diretta sia sotto forma di pene e sanzioni per chi non
si adegua, non è più ammissibile come strumento di progresso, ed
è giustificabile solo per la sicurezza altrui.
È opportuno dichiarare che rinuncio a qualsiasi vantaggio
che alla mia argomentazione potrebbe derivare dalla concezione del diritto
astratto come indipendente dall'utilità. Considero l'utilità il
criterio ultimo in tutte le questioni etiche; ma deve trattarsi
dell'utilità nel suo senso più ampio, fondata sugli interessi
permanenti dell'uomo in quanto essere progressivo. La mia tesi è che
questi interessi autorizzano l'assoggettamento della spontaneità
individuale al controllo esterno solo rispetto alle azioni individuali che
riguardino interessi altrui. Se qualcuno commette un atto che danneggia altri,
vi è motivo evidente di punirlo con sanzioni legali o, nel caso in cui
siano di incerta applicazione, con la disapprovazione generale. Vi sono anche
molte azioni positive a favore di altri che ciascuno può essere
legittimamente obbligato a compiere: per esempio, testimoniare davanti a un
tribunale, portare il giusto contributo alla difesa comune o a ogni altra
attività collettiva necessaria agli interessi della società di
cui si gode la protezione, compiere certi atti di assistenza individuale, come
salvare la vita di un altro essere umano o intervenire a proteggere delle
persone indifese contro gli abusi – tutte quelle azioni insomma che
costituiscono un palese dovere, del cui mancato adempimento si può
legittimamente essere chiamati a rispondere alla società. Una persona
può causare danno agli altri non solo per azione ma anche per omissione,
e in entrambi i casi ne deve giustamente rendere loro conto. È vero che
il secondo caso richiede, in misura molto maggiore del primo, cautela
nell'esercizio della coercizione. Rendere chiunque responsabile del male che fa
agli altri è la regola; renderlo responsabile del male che non impedisce
è, in termini relativi, l'eccezione. Tuttavia vi sono molti casi
sufficientemente chiari e gravi da giustificarlo. In tutto ciò che
riguarda i rapporti esterni dell'individuo, quest'ultimo è de jure responsabile verso coloro i cui interessi sono
coinvolti, e, se necessario, verso la società in quanto loro protettore.
Vi sono spesso buone ragioni per non richiamarlo a questa
responsabilità, ma devono dipendere dalle particolarità
specifiche della situazione: o si tratta di casi in cui, tutto considerato,
è probabile che l'individuo si comporti meglio se lo
si lascia agire come ritiene più opportuno e non si esercita su
di lui alcuno dei controlli di cui la società ha il potere; oppure il
tentativo di esercitare un controllo produrrebbe altri mali, maggiori di quelli
che eviterebbe. Quando ragioni come queste impediscono il richiamo alla
responsabilità, dovrebbe essere la coscienza dell'individuo a farsi
giudice e a proteggere gli interessi di chi non gode di protezioni esterne,
esercitando un giudizio tanto più severo in
quanto la situazione lo esime dal rendere conto ai suoi simili.
Ma vi è una sfera d'azione in cui la società, in
quanto distinta dall'individuo, ha, tutt'al più, soltanto un interesse
indiretto: essa comprende tutta quella parte della vita e del comportamento di
un uomo che riguarda soltanto lui, o se riguarda anche
altri, solo con il loro libero consenso e partecipazione, volontariamente
espressi e non ottenuti con l'inganno. Quando dico "soltanto" lui,
intendo "direttamente e in primo luogo", poiché tutto ciò che
riguarda un individuo può attraverso di lui riguardare altri; e
l'obiezione che può sorgere in questa circostanza verrà
presa in considerazione più avanti. Questa, quindi, è la regione
propria della libertà umana. Comprende, innanzitutto, la sfera della
coscienza interiore, ed esige libertà di coscienza
nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento,
assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo,
scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere
pubbliche le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro
principio, poiché rientra in quella parte del comportamento individuale che
riguarda gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza della stessa
libertà di pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne
è in pratica inscindibile. In secondo luogo, questo principio richiede
la libertà di gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra
vita secondo il nostro carattere, di agire come
vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai
nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se considerano
il nostro comportamento stupido, nervoso, o sbagliato. In terzo luogo, da
questa libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti, quella di
associazione tra individui: la libertà di unirsi per qualunque scopo che
non implichi altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti
con la forza o l'inganno.
Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è libera,
indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano
assolute e incondizionate è completamente libera. La sola libertà
che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del
loro o li ostacoliamo nella loro ricerca. Ciascuno è l'unico autentico
guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e
spirituale. Gli uomini traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di
vivere come gli sembra meglio che dal costringerlo a vivere come sembra meglio
agli altri.
Benché questa dottrina sia tutt'altro che nuova, e per alcuni
possa aver l'aria di un truismo, non ve n'è
altra che si contrapponga più direttamente alla tendenza generale
dell'opinione e della pratica attuali. La società ha sempre tentato di
costringere (per quanto le era possibile) i suoi membri a conformarsi alle sue nozioni di eccellenza, e quella personale è
sicuramente stata oggetto di altrettanti sforzi che quella sociale. Le
comunità antiche, con l'approvazione dei filosofi, si ritenevano in
diritto di esercitare il controllo pubblico su ogni aspetto della condotta individuale,
giustificandolo col fatto che lo Stato aveva un profondo interesse nell'intera
disciplina mentale e fisica di ogni suo cittadino – un modo di pensare che
poteva essere ammissibile in piccole repubbliche circondate da nemici potenti,
in continuo pericolo di essere rovesciate da attacchi esterni o moti interni,
per i quali anche un breve intervallo di rilassamento dell'energia e
dell'autocontrollo avrebbe potuto così facilmente risultare fatale che
non potevano permettersi di attendere i salutari effetti permanenti della
libertà.
Nel mondo moderno, le maggiori dimensioni delle comunità
politiche e, soprattutto, la separazione tra autorità spirituale e
temporale (che ha posto la direzione delle coscienze degli uomini in mani
diverse da quelle che ne controllano le sorti terrene) hanno impedito che la
legge interferisse a tal punto nella vita privata; ma gli strumenti di
repressione morale hanno infierito sul dissenso dall'opinione dominante con
maggiore accanimento, nelle questioni private ancor più che in quelle
sociali; infatti la religione, l'elemento più
potente per la formazione del sentimento morale, è stata quasi sempre
assoggettata o all'ambizione di una gerarchia che cercava di controllare ogni
aspetto della condotta umana, o allo spirito del Puritanesimo. E alcuni di quei
moderni riformatori che si sono più violentemente opposti alle religioni
del passato non sono certo stati da meno di chiese o sette nella loro
asserzione del diritto alla dominazione spirituale: in particolare Comte, il cui sistema sociale, descritto nel suo Système de Politique
Positive, mira a instaurare (anche se con mezzi morali più che
legali) un dispotismo della società sull'individuo che oltrepassa
qualsiasi ideale politico del più ferreo e severo filosofo antico.
A parte i curiosi dogmi di singoli pensatori, vi è in
generale nel mondo anche una crescente inclinazione a estendere indebitamente i
poteri della società sull'individuo, sia con la forza dell'opinione sia
con quella della legislazione; e, poiché la tendenza di tutti i mutamenti in
corso nel mondo è a rafforzare la società e diminuire il potere
dell'individuo, questo abuso non è un male che tende a scomparire
spontaneamente, ma, al contrario, diventa sempre più formidabile.
L'inclinazione degli uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a
imporre agli altri, come norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze
è così energicamente appoggiata da alcuni dei migliori e dei
peggiori sentimenti inerenti all'umana natura, che quasi sempre è
frenata soltanto dalla mancanza di potere; e poiché quest'ultimo non è
in diminuzione ma in aumento, dobbiamo attenderci che,
se non si riesce a erigere una solida barriera di convinzioni morali contro di
esso, nella situazione attuale del mondo il male si estenda.
Ai fini della nostra argomentazione sarà opportuno, invece
di affrontare immediatamente la tesi generale,
limitarci per il momento a un suo aspetto singolo, riguardo al quale il
principio da noi enunciato è ammesso dall'opinione corrente, se non
completamente, almeno fino a un certo punto. Questo aspetto è la
libertà di pensiero, da cui è impossibile separare la connessa libertà
di parola e di scrittura. Anche se esse, in misura abbastanza considerevole,
fanno parte dell'etica politica di tutti i paesi professanti la tolleranza
religiosa e le libere istituzioni, le basi, sia filosofiche sia pratiche, su
cui si fondano non sono forse del tutto familiari all'opinione
comune, né comprese tanto a fondo quanto ci si attenderebbe da molti, tra cui
anche uomini politici. Queste basi, se correttamente comprese, hanno una
validità che non si limita soltanto a questo aspetto della questione, il
cui esame approfondito si rivelerà la migliore introduzione agli altri.
Spero quindi che coloro ai quali nulla di ciò che mi appresto a dire suonerà nuovo mi scusino se mi permetto di discutere
ancora una volta un argomento che da ormai tre secoli è stato
così frequentemente oggetto di dibattito.
II
Della libertà di pensiero e discussione
È da sperare che sia trascorsa l'epoca in cui era
necessario difendere la "libertà di stampa" come una delle
garanzie contro un governo corrotto o tirannico. Possiamo supporre che non sia
più necessario dimostrare che non si può consentire a una
legislatura o a un esecutivo, i cui interessi non si identifichino con quelli
dei cittadini, di imporre loro delle opinioni e di stabilire quali dottrine o
argomentazioni essi possano ascoltare. Inoltre, questo aspetto della questione
è stato così spesso e con tale successo fatto valere da autori
precedenti che è inutile insistervi particolarmente in questa sede.
Anche se la legge d'Inghilterra è, per quanto riguarda la stampa,
altrettanto servile oggi di quanto lo era all'epoca dei Tudor,
vi è scarso pericolo che venga effettivamente
applicata contro la discussione politica, salvo che in situazioni temporanee di
panico, in cui la paura di insurrezioni spinge ministri e giudici a violare le
regole che devono governare la loro condotta; e, più in generale, nei paesi a
regime costituzionale non vi è da temere che i governi, siano essi
completamente responsabili verso il popolo o no, tentino spesso di controllare
l'espressione delle opinioni, salvo nei casi in cui così facendo
esprimano l'intolleranza generale dei cittadini. Supponiamo quindi che il
governo concordi totalmente con i cittadini, e non sia mai tentato di esercitare
alcun potere coercitivo che non corrisponda a quella che ritiene la loro
opinione. Ma io nego il diritto del popolo a esercitare questa coercizione, sia
da solo sia mediante il proprio governo. Il potere stesso è illegittimo:
il migliore governo non vi ha più diritto del peggiore. È
altrettanto, o forse più, dannoso quando lo si
esercita seguendo l'opinione pubblica che contro di essa. Se tutti gli uomini,
meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far
tacere quell'unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone
il potere, l'umanità. Se l'opinione fosse un bene privato, privo di
valore eccetto che per il suo proprietario, se essere ostacolati nel suo godimento fosse semplicemente un danno privato, il
numero delle persone che lo subiscono farebbe una certa differenza. Ma impedire
l'espressione di un'opinione è un crimine particolare, perché significa
derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che
dall'opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l'opinione
è giusta, sono privati dell'opportunità di passare dall'errore
alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi
altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità,
fatta risaltare dal contrasto con l'errore.
È necessario considerare separatamente queste due ipotesi,
a ciascuna delle quali corrisponde un aspetto distinto della nostra
argomentazione. Non possiamo mai essere certi che l'opinione che stiamo
cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla resterebbe
un male.
In primo luogo, l'opinione che si cerca di sopprimere
d'autorità può forse essere vera. Naturalmente, coloro che
desiderano sopprimerla ne negheranno la verità: ma non sono infallibili.
Non hanno alcuna autorità di decidere la questione per tutta
l'umanità, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudizio.
Rifiutarsi di ascoltare un'opinione perché si è certi che è falsa
significa presupporre che la propria certezza coincida con la certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione
è una presunzione di infallibilità: per condannarla basta questo
ragionamento, semplice, ma non per questo inefficace.
Sfortunatamente per il buon senso degli uomini, la loro effettiva
fallibilità non ha certo nei loro giudizi pratici il peso che le viene sempre attribuito nella teoria; poiché, mentre
ciascuno sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono necessario
cautelarsi dalla propria fallibilità o ammettere la supposizione che una
qualsiasi opinione di cui si sentano del tutto certi possa essere un esempio di
quell'errore cui si riconoscono soggetti. I sovrani assoluti, o coloro che sono
abituati a una deferenza illimitata, generalmente hanno questa completa fiducia
nelle proprie opinioni su quasi ogni questione. Le persone in una condizione più
felice, le cui opinioni sono talvolta contestate e per cui
non è del tutto insolito essere corrette quando hanno torto, hanno la
stessa fiducia illimitata soltanto nelle opinioni condivise da tutti coloro che
le circondano, o di coloro ai cui giudizi si rimettono; poiché, in misura
proporzionale alla sua mancanza di fiducia nel proprio giudizio individuale,
l'uomo abitualmente si basa, con fiducia assoluta, sull'infallibilità
del "mondo" in generale. E il mondo significa, per ciascuno, la parte
di esso con cui è in contatto: il suo partito,
la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; al confronto l'uomo per cui
il significato del mondo si estende a comprendere il suo paese o la sua epoca
può essere quasi definito liberale e di larghe vedute. E la sua fede in
questa autorità collettiva non è affatto scossa dal sapere che
altre epoche, nazioni, sette, chiese, classi e parti politiche hanno pensato, e
tuttora pensano, esattamente il contrario. L'uomo
scarica sul proprio mondo la responsabilità di essere nel giusto, contro
il dissenso dei mondi altrui; e non è mai turbato dal fatto che è
stato il puro accidente a decidere quale di questi numerosi
mondi sia oggetto della sua fiducia, e che le stesse cause che lo hanno
reso anglicano a Londra l'avrebbero fatto diventare buddista o confuciano a Pechino. Tuttavia è di per sé evidente,
senza alcun bisogno di dimostrazione, che le epoche storiche non sono
più infallibili degli individui: ciascuna ha creduto vere molte opinioni
giudicate non solo false ma assurde da epoche successive; ed è certo che
molte opinioni, attualmente comuni, saranno respinte dal futuro, come molte
opinioni comuni in passato sono respinte dal presente.
L'obiezione più plausibile a questo ragionamento verrebbe probabilmente formulata nel modo seguente. Il
divieto di propagare l'errore non implica una presunzione di
infallibilità maggiore di quella implicita in qualsiasi altro atto
compiuto dall'autorità pubblica in base al suo giudizio e alla sua responsabilità. Il giudizio è dato agli
uomini perché lo usino. Dato che lo possono esercitare erroneamente, bisogna
dirgli che non dovrebbero usarlo affatto? Vietare ciò che ritengono
dannoso non significa pretendere di essere immuni
dall'errore, ma adempiere al dovere, che tocca loro anche se sono fallibili, di
agire in base alle proprie convinzioni e coscienze. Se non agissimo mai sulla
base delle nostre opinioni perché possono essere erronee, trascureremmo tutti i
nostri interessi e verremmo meno a tutti i nostri doveri. Una
obiezione che riguardi il complesso del comportamento umano non
può essere valida per alcun comportamento particolare. È dovere
dei governi, e degli individui, formarsi opinioni che rispondano
il più possibile al vero; formarsele con cura, e non imporle mai ad
altri se non si è certi di aver ragione. Ma, una volta che ne siano certi (così proseguirebbero i sostenitori di
questa posizione), sarebbero mossi non dalla coscienza ma dalla viltà se
evitassero di agire in base alle proprie opinioni e permettessero a dottrine
che in buona fede ritengono pericolose per il benessere dell'umanità, in
questa vita o in un'altra, di diffondersi senza freno, per la sola ragione che
altri, in tempi meno illuminati, hanno perseguitato opinioni oggi considerate
vere. Stiamo attenti – si potrebbe ammonire – a non compiere lo stesso errore;
ma i governi e le nazioni hanno errato in altri campi, in cui l'esercizio
dell'autorità non viene considerato
illegittimo: hanno imposto tassazioni inique, scatenato guerre ingiuste.
Dovremmo allora non imporre tasse e, per quanto provocati,
non dichiarare guerre? Uomini e governi devono agire come meglio sanno. La
certezza assoluta non esiste, ma esiste una sicurezza
sufficiente ai fini della vita umana. Nella guida della nostra condotta
possiamo, e dobbiamo, presumere che la nostra opinione sia
vera: proibire a dei malvagi di sconvolgere la società diffondendo
opinioni che riteniamo false e perniciose non presuppone nulla di più.
La mia risposta è che presuppone molto di più. Vi è la
massima differenza tra presumere che un'opinione è vera perché, pur
esistendo ogni opportunità di discuterla, non è stata confutata,
e presumerne la verità al fine di non permetterne la confutazione.
È proprio la completa libertà di contraddire e confutare la
nostra opinione che ci giustifica quando ne presumiamo
la verità ai fini della nostra azione; e solo in questi termini chi
disponga di facoltà umane può trovare una sicurezza razionale di
essere nel giusto.
Se consideriamo la storia dell'opinione oppure la normale condotta
delle vicende umane, qual è la causa per cui
entrambe non sono peggiori di quanto siano? Non certo la forza intrinseca della
comprensione umana, poiché per ogni questione che non sia del tutto ovvia vi
sono novantanove persone completamente incapaci di darne un giudizio per una
che lo è; e la capacità della centesima è soltanto
relativa, dal momento che la maggior parte degli uomini illustri di ciascuna
generazione passata ha sostenuto molte opinioni che oggi vengono
riconosciute erronee, e compiuto o approvato molti atti che oggi nessuno
giustificherebbe. Perché, allora, tra gli uomini nel complesso predominano
comportamenti e opinioni razionali? Se davvero vi è questo predominio –
e deve esservi, altrimenti gli uomini sarebbero, e sarebbero sempre stati, in
una situazione quasi disperata –, è dovuto a
una qualità della mente umana, la fonte di tutto ciò che vi
è di rispettabile nell'uomo inteso come essere sia intellettuale sia
morale, e cioè la possibilità di correggere i propri errori, di
rimediarvi con la discussione e l'esperienza. Non con la sola esperienza: la
discussione è necessaria per indicarne l'interpretazione. Le opinioni e
le pratiche erronee cedono gradualmente ai fatti e agli argomenti: che
però per avere effetto sulla mente devono essere sottoposti alla sua
considerazione. Pochissimi fatti si spiegano da soli, senza necessità di
commenti che ne mostrino il significato. Dato quindi
che la forza e il valore del giudizio umano dipendono interamente dalla sua
proprietà di poter venire corretto quando
è errato, esso è attendibile soltanto quando i mezzi per
correggerlo sono tenuti costantemente a disposizione. Consideriamo una persona
il cui giudizio sia veramente degno di fiducia: come lo è diventato?
Perché si è mantenuto aperto alle critiche riguardanti le sue opinioni e
la sua condotta. Perché si è imposto come
prassi costante di ascoltare tutto ciò che potesse venire detto contro
di lui; di metterne a profitto quanto fosse giusto, e di chiarire, a se stesso
e se necessario ad altri, l'erroneità di quanto fosse erroneo. Perché ha
intuito che il solo modo in cui un uomo può in una certa misura
avvicinarsi alla conoscenza complessiva di un argomento è ascoltando
ciò che ne dicono persone di ogni opinione, e studiando tutte le modalità
secondo cui può essere considerato da ogni punto di vista. Nessuno
è mai giunto alla saggezza in altro modo; né la natura dell'intelletto
umano consente altri modi di diventare saggi. La costante abitudine a
correggere e completare la propria opinione confrontandola con le altrui non
solo non causa dubbi ed esitazioni nel tradurla in
pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta fiducia in
essa; poiché, conoscendo tutto ciò che può, almeno nella misura
del prevedibile, venire detto contro di noi, e avendo preso una posizione
rispetto a tutti i nostri oppositori – sapendo di aver cercato le obiezioni e
le difficoltà invece di evitarle, e di aver preso in esame ogni punto di
vista – abbiamo il diritto di considerare il nostro giudizio migliore di quello
di qualsiasi persona, o gruppo di persone, che non abbia seguito una procedura
analoga.
Non è eccessivo richiedere che quell'eterogenea massa di
pochi saggi e molti stupidi chiamata pubblico si sottoponga
ai criteri che i più saggi tra gli uomini, coloro che più hanno
diritto a confidare nel proprio giudizio, ritengono necessari per giustificare
tale fiducia. La chiesa cattolica romana, la più intollerante di tutte,
ammette persino alla canonizzazione di un santo l'"avvocato del
diavolo", e lo ascolta pazientemente: a quanto pare, nemmeno il più
puro tra gli uomini può essere ammesso agli onori postumi prima che
tutte le pecche che il diavolo gli può rinfacciare non siano note e
pesate. Se si vietasse di dubitare della filosofia di
Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua
verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non
riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a
dimostrarle infondate. Se la sfida non viene raccolta,
o viene tentata e perduta, siamo ancora molto lontani dalla certezza, ma
abbiamo fatto quanto di meglio ci consente la presente condizione della ragione
umana: non abbiamo trascurato nulla pur di offrire alla verità una
possibilità di raggiungerci; se l'invito resta aperto, possiamo sperare
che, se esiste una verità migliore, essa venga scoperta quando la mente
umana sarà in grado di recepirla; e nel frattempo possiamo avere la
sicurezza di esserci avvicinati alla verità nella misura a noi
possibile. Questo è il grado di certezza raggiungibile da un essere
soggetto all'errore, e questo il solo modo di raggiungerlo. È strano che
gli uomini ammettano la validità degli argomenti a favore della libera
discussione, ma obiettino se "vengono spinti alle
estreme conseguenze", senza rendersi conto che se date ragioni non valgono
in un caso estremo non valgono in alcun caso. Strano che immaginino di non
presumersi infallibili quando ammettono che vi deve
essere libertà di discussione su tutte le questioni che possano essere dubbie,
ma pensano che vada vietata la discussione di un particolare principio o
dottrina perché è così certo, cioè perché sono
certi che è certo. Definire certa qualsiasi proposizione quando vi
è chi ne negherebbe la certezza se ciò non gli fosse vietato
significa presumere che noi, e chi è d'accordo con noi, siamo i giudici
della certezza – e giudici che ignorano gli
oppositori.
Nell'epoca attuale – che è stata descritta come "priva
di fede, ma terrorizzata dallo scetticismo" –, in cui gli uomini si
sentono sicuri non tanto della verità delle loro opinioni quanto del
fatto che non saprebbero che fare senza di esse, le
pretese di un'opinione a essere protetta da attacchi pubblici si fondano non
tanto sulla sua verità quanto sulla sua importanza per la
società. Si sostiene che certe convinzioni sono così utili, per
non dire indispensabili, al bene comune che i governi hanno il dovere di
proteggerle quanto qualsiasi altro interesse della società. Si afferma
che in un caso di tale necessità, che fa parte così integrante
del loro dovere, qualcosa di meno dell'infallibilità può
giustificare, e persino obbligare, i governi ad agire in base alla propria
opinione, confermata da quella dell'umanità in generale. Viene inoltre
spesso sostenuto, e ancora più spesso pensato, che solo i malvagi desidererebbero
minare queste salutari convinzioni; e non è sbagliato, si pensa,
coartare dei malvagi e vietare ciò che solo loro vorrebbero compiere.
Questo modo di pensare rende la giustificazione delle restrizioni imposte alla
discussione non una questione di verità delle varie dottrine ma della
loro utilità, e così si illude di sfuggire alla
responsabilità di dichiararsi giudice infallibile delle opinioni. Ma chi
si acquieta la coscienza in questo modo non comprende che così facendo
la presupposizione di infallibilità viene
semplicemente spostata. L'utilità di una opinione
è essa stessa una questione di opinione – altrettanto controversa,
aperta al dibattito, e da discutere, che l'opinione stessa. Vi è la
stessa necessità di un infallibile giudice delle opinioni per decidere
la nocività di un'opinione che per deciderne la falsità, a meno
che l'opinione condannata riceva ogni
opportunità di difendersi. E non vale obiettare che si può
consentire all'eretico dl affermare che la sua opinione è utile o
innocua, pur vietandogli di dire che è vera. La verità di
un'opinione è parte della sua utilità. Se volessimo sapere se
è desiderabile o meno che una data proposizione sia creduta, potremmo
rifiutarci di vagliarne la verità? Nell'opinione, non dei malvagi, ma dei migliori, nessuna convinzione contraria alla
verità può essere realmente utile; e si può loro impedire
di addurre questo argomento quando sono accusati di negare una dottrina di cui
viene asserita l'utilità, ma che ritengono falsa? Coloro
che stanno dalla parte delle opinioni comunemente accettate non mancano mai di
trarre ogni possibile vantaggio da questo argomento; non sono certo loro a
trattare la questione dell'efficacia come se fosse completamente isolabile da
quella della verità; al contrario, è soprattutto perché la loro
dottrina è "la verità" che conoscerla o credervi
è ritenuto così indispensabile. Non si può
discutere la questione dell'utilità ad armi pari
quando un argomento tanto essenziale può essere impiegato da una
parte, ma non dall'altra. E infatti, quando la legge o
il sentimento pubblico non permettono di porre in dubbio la verità di
un'opinione, tollerano altrettanto poco la negazione della sua utilità:
al massimo consentono ad attenuarne la necessità assoluta, o la gravità
della colpa di rifiutarla.
Per illustrare più chiaramente quanto sia negativo
rifiutarci di prestare attenzione a opinioni che il nostro giudizio ha
condannato, sarà opportuno ancorare la discussione a un caso concreto: e
preferisco scegliere i casi a me più
sfavorevoli – quelli in cui l'argomentazione contro la libertà di
opinione è considerata più valida, sia in termini di
verità sia di utilità. Siano le opinioni contestate la fede in un
Dio e in una vita futura, oppure qualsiasi dottrina morale comunemente
accettata. Combattere su questo terreno dà un grande vantaggio a un
antagonista sleale, che sicuramente domanderà (e molti, senza alcuna
intenzione di slealtà, lo domanderanno tacitamente): "Sono queste
le dottrine che non ritieni sufficientemente certe da essere poste sotto la
tutela della legge? Credere in un Dio è una delle opinioni la cui
certezza presuppone, a tuo avviso, l'infallibilità? " Ma mi si deve
permettere di osservare che sentirsi sicuri di una dottrina (qualunque essa
sia) non è ciò che io chiamo una presunzione di
infallibilità: lo è incaricarsi di decidere la questione per
conto di altri, senza permettere loro di ascoltare le possibili opinioni
contrarie. E denuncio e biasimo questa pretesa, tanto più se è
avanzata a favore delle mie convinzioni più solenni. Per quanto si possa essere positivamente convinti non solo della
falsità ma delle perniciose conseguenze – non solo delle perniciose
conseguenze, ma (per adottare espressioni che condanno in toto) dell'immoralità e dell'empietà – di
un'opinione, tuttavia se in base a questo giudizio individuale, anche se
appoggiato dal giudizio di concittadini e contemporanei, si impedisce che essa
venga difesa, si presuppone la propria infallibilità. E questo assunto
non è meno criticabile o pericoloso perché l'opinione è definita
immorale o empia, anzi questo è il caso in cui esso è più
fatale. Sono esattamente queste le occasioni in cui una generazione commette
quegli spaventosi errori che lasciano attoniti e inorriditi i posteri: qui
troviamo i casi storici memorabili di impiego del braccio armato della legge
per sterminare gli uomini migliori e le più nobili dottrine; con
disgraziato successo, per quanto riguarda gli uomini, anche se alcune dottrine
sono sopravvissute per essere invocate (come per beffa) a difesa di analoga
condotta nei confronti di chi dissente da esse,
o dalla loro interpretazione comunemente accettata.
All'umanità non sarà mai troppo spesso ricordato un
uomo di nome Socrate, e il suo memorabile scontro con le autorità legali
e l'opinione pubblica del suo tempo. Nato in epoca e in un paese ricchi di
grandezza individuale, quest'uomo ci è stato tramandato come il
più virtuoso del suo tempo da chi meglio conosceva entrambi; mentre noi
lo conosciamo come capo e prototipo di tutti i
successivi maestri di virtù, fonte ugualmente dell'alta ispirazione di
Platone e del giudizioso utilitarismo di Aristotele, "i maestri
di color che sanno", le due sorgenti della filosofia etica e di tutte
le altre. Questo maestro riconosciuto da tutti i grandi pensatori vissuti dopo
di lui – la cui fama, ancora crescente dopo più di duemila anni, quasi supera quella complessiva di tutti gli altri nomi che
rendono illustre la sua città natale – fu messo a morte dai suoi
concittadini, dopo che un tribunale lo aveva condannato per empietà e
immoralità. Empietà, poiché negava gli
dei riconosciuti dallo Stato; anzi, il suo accusatore affermò (vedi l'Apologia)
che non credeva in alcun dio. Immoralità, poiché era, con le sue
dottrine e i suoi insegnamenti, un "corruttore
della gioventù". Vi è ogni ragione di credere che il
tribunale lo trovò colpevole di queste
imputazioni in tutta onestà, e condannò un uomo che
probabilmente, dei nati fino ad allora, più meritava la gratitudine
dell'umanità, a essere messo a morte come un criminale.
Passiamo da questo al solo altro caso di iniquità
giudiziaria la cui menzione dopo la condanna di Socrate non sarebbe una caduta
nella banalità: l'evento del Calvario più di mille e ottocento
anni fa. L'uomo che lasciò nella memoria di chi fu testimone della sua
vita e delle sue parole una tale impressione di
grandezza morale che i diciotto secoli successivi l'hanno venerato come la
personificazione dell'Onnipotente, perché fu mandato ignominiosamente a morte?
Perché blasfemo. Gli uomini non si limitarono a non riconoscere il loro
benefattore, lo scambiarono per l'esatto contrario di ciò che era e lo
trattarono come quel prodigio di empietà che ora sono loro stessi
ritenuti, per ciò che gli fecero. I sentimenti con cui gli uomini di
oggi considerano questi due deplorevoli eventi, specialmente il secondo, li
rendono estremamente ingiusti nel giudizio sui loro infelici autori. Stando a
ogni apparenza, non erano dei malvagi – non peggiori degli uomini normali,
semmai il contrario: uomini che condividevano pienamente, forse anzi in misura
eccessiva i sentimenti religiosi, morali e patriottici del loro tempo e popolo:
esattamente quel tipo di uomini che in ogni epoca, compresa la nostra, hanno
ogni probabilità di attraversare la vita circondati
da stima e rispetto. Il gran sacerdote che si strappò le vesti quando furono pronunciate le parole che, secondo tutte
le idee del suo paese, costituivano la colpa più nera, era in tutta
probabilità altrettanto sincero nel suo orrore e nella sua indignazione
quanto lo è oggi, nei sentimenti morali e religiosi professati, la
generalità degli uomini rispettabili e pii; e la gran maggioranza di
coloro che oggi sono inorriditi dalla sua condotta avrebbero agito precisamente
come lui se fossero stati degli ebrei suoi contemporanei. I cristiani ortodossi
che sono tentati di considerare peggiori di sé coloro che lapidarono i primi
martiri farebbero meglio a ricordarsi che tra i persecutori c'era san Paolo.
Consideriamo un ultimo esempio, il più impressionante di
tutti se si misura la grandezza di un errore con la saggezza e la virtù
di chi vi cade. Se mai un detentore del potere ha avuto buoni motivi per
ritenersi il migliore e il più illuminato tra i suoi contemporanei,
questo fu l'imperatore Marco Aurelio. Monarca assoluto di tutto il mondo
civile, mantenne per tutta la vita non solo la
giustizia più irreprensibile ma, cosa che ci si sarebbe meno aspettata
dalla sua educazione stoica, l'animo più sensibile. Le poche
manchevolezze attribuitegli furono tutte dovute a
eccessiva indulgenza, mentre i suoi scritti, il più elevato prodotto
etico del pensiero antico, poco o nulla differiscono dai più
caratteristici insegnamenti di Cristo. Quest'uomo, in ogni senso, salvo che in
quello dogmatico, miglior cristiano di quasi tutti i sovrani nominalmente
cristiani venuti dopo di lui, perseguitò il Cristianesimo. Vissuto in
quello che allora era l'apice del progresso umano, dotato di un intelletto
aperto e privo di pregiudizi, di un carattere che lo portò
spontaneamente a incarnare nelle sue opere morali l'ideale cristiano, Marco
Aurelio tuttavia non vide che il Cristianesimo avrebbe costituito un bene e non
un male per il mondo, nei cui confronti aveva una così profonda
coscienza dei propri doveri. Sapeva che la società del suo tempo si
trovava in condizioni deplorevoli: ma vedeva, o gli pareva di vedere, che ciò che la teneva insieme e le impediva
di peggiorare erano la fede nelle divinità comunemente accettate e il
loro culto. In quanto signore dell'umanità, riteneva suo dovere non
permettere che la società si disgregasse; e non vedeva come, se fossero
scomparsi i legami esistenti, se ne potessero formare altri che la
ricomponessero. La nuova religione mirava apertamente a distruggere questi
legami: di conseguenza, gli sembrava suo dovere o schiacciarla oppure
adottarla. Quindi, dato che la teologia del Cristianesimo non gli sembrava vera
o di origine divina, che questa strana storia di un Dio crocifisso gli appariva
inverosimile, e dato che non poteva prevedere che un sistema che asseriva di basarsi
interamente su un fondamento per lui così completamente incredibile fosse quel fattore di rinnovamento che, cessate le tempeste,
si è in effetti dimostrato, il più sensibile e generoso dei
filosofi e dei governanti, ispirandosi a un solenne senso del dovere,
autorizzò la persecuzione dei cristiani. A mio parere questo è
uno degli eventi più tragici di tutta la storia. È amaro pensare
quanto avrebbe potuto essere diversa la
Cristianità se la fede cristiana fosse stata adottata come religione
dell'Impero sotto Marco Aurelio invece che sotto Costantino. Ma sarebbe
ugualmente ingiusto verso di lui e verso la verità negare che Marco
Aurelio, nel combattere, come fece, la diffusione del Cristianesimo, poteva
addurre tutte le ragioni che vengono addotte per combattere
gli insegnamenti anticristiani. Nessun cristiano crede che l'ateismo sia falso
e tenda alla disgregazione della società più fermamente di quanto
Marco Aurelio non credesse le stesse cose del
Cristianesimo; lui che, tra tutti i suoi contemporanei, si sarebbe potuto
ritenere il più capace di apprezzarlo. A meno che chiunque approvi la
punizione della diffusione di opinioni non si illuda di essere migliore e
più saggio di Marco Aurelio – il più profondo conoscitore del
pensiero del suo tempo, intellettualmente più elevato rispetto ad esso, più impegnato nella ricerca della
verità, e più sinceramente devoto a essa una volta trovatala –,
è meglio che eviti quella presunzione di essere, insieme alla
moltitudine, infallibile, presunzione che il grande figlio di Antonino
pagò con risultati così tragici.
Consci dell'impossibilità di difendere la repressione
violenta delle opinioni antireligiose mediante argomenti che non giustifichino Marco Aurelio, i nemici della libertà
religiosa accettano talvolta, quando hanno le spalle al muro, questa
conseguenza e affermano, con il dott. Johnson, che i
persecutori del Cristianesimo avevano ragione che la persecuzione è una
prova cui la verità deve sottoporsi e che sempre supera, poiché le
sanzioni legali si rivelano, a lungo andare, impotenti di fronte alla
verità anche se talvolta hanno effetti benefici contro errori nocivi.
È una forma abbastanza notevole di argomentazione a favore
dell'intolleranza religiosa, e non la si può
ignorare.
A una teoria secondo cui la persecuzione della verità
è giustificabile perché non può in alcun modo nuocerle, non si
può imputare di essere intenzionalmente contraria ad ammettere
verità nuove; ma non se ne può lodare la generosità nei
confronti delle persone cui l'umanità ne è debitrice. Svelare al
mondo qualcosa che lo riguarda da vicino e che fino ad allora ha ignorato,
dimostrargli che ha errato in una questione essenziale di interesse temporale o
spirituale, è il maggior servizio che un uomo possa rendere ai suoi
simili e in alcuni casi, come quelli dei primi cristiani e dei riformatori,
è ritenuto dagli estimatori del dott. Johnson
il dono più prezioso che l'umanità potesse
ricevere. Che gli autori di questi splendidi benefici siano
stati contraccambiati col martirio e per ricompensa siano stati trattati
come i criminali più abbietti, non è, secondo questa teoria, un
errore deplorevole, una disgrazia che gli uomini dovrebbero lamentare
cospargendosi il capo di cenere, ma uno stato di cose normale e giustificabile.
Stando a questa dottrina, chi propone una nuova verità dovrebbe farlo
come chi, sotto la legislazione dei Locresi, proponeva una nuova legge: con un cappio al collo, pronto a
essere serrato se l'assemblea dei cittadini, sentite le sue ragioni, non avesse
immediatamente accettato la sua proposta. Non si può pensare che chi
difende questo modo di trattare i benefattori attribuisca grande valore ai
benefici; e credo che una simile opinione sia condivisa quasi solamente dal
tipo di persone che pensano che delle nuove verità potevano essere
desiderabili una volta, ma che ora ne abbiamo abbastanza. Ma, in realtà,
il detto che la verità trionfa sempre sulle persecuzioni è una di
quelle gradevoli falsità che gli uomini continuano a ripetersi finché
non diventano luoghi comuni, ma che tutta l'esperienza contraddice. La storia
abbonda di casi in cui la verità è stata costretta al silenzio
dalle persecuzioni: quando non è soppressa definitivamente, può
essere rinviata di secoli. Per menzionare solo le opinioni religiose: la
Riforma esplose almeno venti volte prima di Lutero, e fu soppressa. Arnaldo da
Brescia fu soppresso. Fra Dolcino fu soppresso. Gli Albigesi
furono soppressi. I Valdesi furono soppressi. I Lollardi
furono soppressi. Gli Hussiti furono soppressi. Anche
dopo Lutero, nei casi in cui si insisté nelle
persecuzioni, esse ebbero successo. In Spagna, Italia,
Fiandre, Impero austriaco, il Protestantesimo fu sradicato; e molto
probabilmente avrebbe fatto la stessa fine in Inghilterra se la regina Maria
fosse vissuta o la regina Elisabetta fosse morta. Le
persecuzioni sono sempre riuscite, salvo quando gli
eretici erano troppo forti per poter essere perseguitati efficacemente. Nessuna
persona ragionevole può dubitare che il Cristianesimo avrebbe
potuto essere sradicato dall'Impero romano: si diffuse e divenne
predominante perché le persecuzioni furono occasionali, di breve durata, e
separate da lunghi intervalli di propaganda quasi indisturbata. È
sentimentalismo inutile pensare che la verità semplicemente in quanto
tale abbia un qualche potere intrinseco, negato
all'errore, di prevalere contro le segrete e il rogo. Gli uomini non hanno
più zelo per la verità di quanto non ne abbiano spesso per
l'errore, e un'adeguata applicazione di sanzioni legali o anche soltanto
sociali riuscirà in generale ad arrestare la diffusione di entrambi. Il
reale vantaggio della verità è che quando un'opinione è
vera la si può soffocare una, due, molte volte,
ma nel corso del tempo vi saranno in generale persone che la riscopriranno,
finché non riapparirà in circostanze che le
permetteranno di sfuggire alla persecuzione fino a quando si sarà
sufficientemente consolidata da resistere a tutti i successivi sforzi di
sopprimerla.
Si dirà che oggi non mandiamo a morte chi introduce
opinioni nuove: non siamo come i nostri padri che trucidavano i profeti;
innalziamo loro perfino dei mausolei. È vero che non giustiziamo
più gli eretici; è anche vero che le sanzioni penali oltre cui il
sentimento moderno probabilmente non permetterebbe di andare, anche nei casi
delle opinioni più nocive non sarebbero sufficientemente gravi da
estirparle. Ma non illudiamoci di essere già liberi dalla macchia della
persecuzione, anche solo legale. La legge prevede ancora delle pene per le
opinioni, o almeno per la loro espressione; e non ve n'è, anche oggi,
una così tale mancanza di esempi da rendere impensabile che un giorno
possano ritornare nel pieno del loro vigore. Nell'anno 1857, alla sessione
estiva delle assise della contea di Cornovaglia, un uomo la cui condotta venne dichiarata irreprensibile sotto tutti gli aspetti ebbe
la sfortuna di venire condannato a ventun mesi di
carcere per aver pronunciato, e scritto su un portone, alcune parole che
offendevano il Cristianesimo. Un mese dopo, al tribunale
dell'Old Bailey, in due diverse occasioni, due uomini furono ricusati come
giurati, e uno di essi fu volgarmente insultato dal
giudice e da uno degli avvocati, perché avevano onestamente dichiarato di non
avere opinioni teologiche; e a un terzo, straniero, per la stessa ragione fu negata
giustizia contro un ladro. Questa riparazione gli venne
rifiutata in virtù della dottrina legale secondo cui nessuno che non
professi di credere in un Dio (qualunque dio va bene) e in una vita futura
può essere ammesso a testimoniare in un'aula di giustizia, il che
equivale a dichiarare queste persone dei fuorilegge, esclusi dalla tutela dei
tribunali, per cui non solo possono essere derubati o assaliti impunemente se
sono soli o se i presenti condividono le loro opinioni, ma chiunque può
essere derubato o assalito impunemente se la prova del crimine dipende dalla
loro testimonianza. La presunzione su cui si fonda tutto ciò è
che il giuramento di una persona che non crede in una vita futura non ha valore
– presunzione che indica una vasta ignoranza della storia da parte di chi la sostiene (poiché è storicamente vero che moltissimi
non credenti di tutti i tempi sono state persone di grande integrità e
onore), e che non sarebbe condivisa da nessuno che si renda minimamente conto
di quante siano le persone di alta reputazione, per virtù o azioni, il
cui agnosticismo è ben noto, almeno a chi gli è vicino. Inoltre,
la norma è suicida e mina le sue stesse fondamenta. Con la presunzione
che gli atei devono essere dei mentitori, ammette la testimonianza di tutti gli
atei disposti a mentire, e ricusa soltanto quelli che sfidano l'ignominia e
confessano pubblicamente un'opinione detestata piuttosto che affermare il
falso. Una norma del genere, la cui assurdità rispetto allo scopo che si
propone si condanna da sola, non può essere mantenuta in vigore se non
come segno di odio, residuo di una persecuzione dotata di una specifica
particolarità: per esserne fatti oggetto va chiaramente provato che non la si merita. La norma, e la teoria da essa
implicata, non sono un insulto minore per i credenti che per i non credenti: se
chi non crede in una vita futura è necessariamente un mentitore, ne
segue che i credenti non mentono – supposto che non mentano – soltanto per
paura dell'inferno. Non offenderemo autori e fautori di questa norma supponendo
che la loro concezione della virtù cristiana si modelli
sulle loro coscienze.
Questi sono, in effetti, brandelli e resti di persecuzione e
possono essere considerati non tanto indicazioni di
un'intenzione persecutoria, quanto esempi di quella frequentissima follia degli
inglesi, che li porta ad affermare con stupido piacere un principio malvagio
quando non sono più abbastanza malvagi da desiderarne veramente
l'attuazione pratica. Ma purtroppo il pubblico non può essere sicuro che
la sospensione delle peggiori forme di persecuzione legale, che dura da circa
una generazione, continui. In quest'epoca, la tranquilla routine quotidiana
è scossa da tentativi di risuscitare mali del passato altrettanto quanto
da sforzi per introdurre nuovi benefici. Ciò che attualmente viene magnificato come risveglio della religione è
sempre, per le mentalità ristrette e ignoranti, almeno in pari misura,
risveglio del fanatismo; e quando i sentimenti degli uomini comprendono un
robusto, permanente fermento di intolleranza, sempre presente tra le classi
medie del nostro paese, poco basta per spingerli a perseguitare attivamente
coloro che non hanno mai cessato di considerare meritevoli di giusta persecuzione. Poiché è questo –
cioè le opinioni e i sentimenti che gli uomini nutrono verso chi
disconosce le convinzioni che ritengono importanti – che fa del nostro un paese
in cui non vi è libertà intellettuale. Da ormai molto tempo,
l'aspetto più negativo delle sanzioni legali è che ribadiscono il
marchio d'infamia imposto dalla società. È quest'ultimo a essere
realmente efficace, tanto che l'asserzione di opinioni bollate dalla
società è in Inghilterra molto meno
comune di quanto in molti altri paesi non lo sia l'ammissione di idee per cui
si rischiano sanzioni legali. Nei confronti di tutti, salvo coloro che la
condizione economica rende indipendenti dal benvolere altrui, l'opinione
è in questo campo altrettanto efficace che la legge: non vi è
differenza tra imprigionare un uomo e impedirgli di guadagnarsi da vivere. Chi
non ha problemi di sopravvivenza e non desidera favori dal potere, da
associazioni o dal pubblico, professando apertamente qualsiasi opinione ha solo
da temere per la sua reputazione, e non è indispensabile essere eroi per
sopportarne una cattiva: sono persone per le quali non ci si può
appellare ad misericordiam.
Ma, anche se oggi non infliggiamo a coloro che dissentono da noi tanto male
quanto solevamo, può darsi che il nostro trattamento dei dissenzienti ci
danneggi altrettanto quanto in passato. Socrate fu mandato a morire, ma la
filosofia socratica s'innalzò come il sole nel cielo e illuminò
l'intero firmamento intellettuale. I primi cristiani furono gettati ai leoni,
ma la chiesa cristiana crebbe come un albero nobile e frondoso, superando le
piante meno giovani e vigorose, e soffocandole nella sua ombra. La nostra
intolleranza limitata alla sfera sociale non uccide nessuno e non sradica
opinioni, ma spinge gli uomini a celarle o a evitare di impegnarsi attivamente
a diffonderle. Da noi, le opinioni eretiche non guadagnano né perdono
percettibilmente terreno in un decennio o in una generazione: non divampano mai
dappertutto, ma continuano a covare nelle ristrette cerchie di pensatori e
studiosi da cui traggono origine senza mai illuminare gli affari umani della
loro luce, vera o ingannevole che sia. Viene
così mantenuto uno stato di cose secondo alcuni molto soddisfacente
perché, senza incidenti spiacevoli come multe o arresti, lascia apparentemente
indisturbate tutte le opinioni predominanti, e nel contempo non vieta
assolutamente l'esercizio della ragione ai dissenzienti malati di pensiero. Un
comodo piano per garantire la pace del mondo intellettuale, e mantenervi
più o meno la solita routine. Ma il prezzo di questa
sorta di pacificazione è il completo sacrificio del coraggio morale e
intellettuale. Una situazione in cui una vasta parte delle intelligenze
più attive e vivaci ritiene consigliabile tenere per sé i principi
generali e i fondamenti delle proprie convinzioni e, quando si rivolge al
pubblico, cerca quanto più può di comunicare le conclusioni
derivate da premesse cui ha tra sé rinunciato, non può produrre le
personalità coraggiose e aperte, gli intelletti coerenti e logici che
una volta erano l'ornamento del pensiero umano. Il tipo di uomini che si
possono trovare sotto questa superficie sono o semplici conformisti che si
adeguano ai luoghi comuni, oppure opportunisti della verità, le cui
argomentazioni su ogni questione importante sono quelle che giudicano
più adatte al loro pubblico, non quelle che li
hanno convinti. Coloro che evitano questa alternativa lo fanno restringendo i
propri pensieri e interessi ad argomenti che possono essere discussi senza
avventurarsi nel campo dei principi, cioè a piccole questioni pratiche
che si risolverebbero da sole se soltanto le menti degli uomini riacquistassero
vigore e ampiezza di vedute, e che non saranno mai effettivamente risolte
finché si persisterà a sfuggire a ciò
che rinvigorisce e amplia il pensiero – la libera e audace riflessione sugli
argomenti più elevati.
Chi pensa che questo silenzio degli
eretici non sia un male dovrebbe innanzitutto considerare che a causa di esso
non vi è mai discussione equanime e approfondita delle loro opinioni; e
che gli eretici che non sarebbero in grado di reggerla sono sì
impossibilitati a moltiplicarsi, ma non scompaiono. Ma non sono gli intelletti
ereticali i più danneggiati dal bando imposto a ogni indagine che non
termini con le conclusioni ortodosse: il danno maggiore è per coloro che
eretici non sono, il cui intero sviluppo mentale è bloccato, e la
ragione intimorita, dalla paura dell'eresia. Chi può calcolare quanto
perde il mondo con la moltitudine di intelletti promettenti
ma uniti a caratteri deboli che non osano sviluppare alcuna linea di
pensiero audace, vigorosa, indipendente, per timore di ritrovarsi con qualcosa
che potrebbe venire considerato irreligioso o immorale? Tra essi
si trovano talvolta uomini di profonda coscienza e di sottile e raffinato
intelletto, che passano la vita in ragionamenti sofistici con un'intelligenza
che non possono far tacere ed esauriscono il loro ingegno nel tentativo di
riconciliare gli impulsi della coscienza e della ragione con l'ortodossia,
talvolta non riuscendovi fino alla fine. Nessuno può essere un grande
pensatore se non riconosce che, in quanto uomo di pensiero, suo primo dovere
è seguire il proprio intelletto indipendentemente dalle conclusioni cui
esso conduca. La verità trae maggior vantaggio dagli errori di chi, con
l'opportuna ricerca e preparazione, riflette da solo, che dalle opinioni vere
di coloro che le hanno solo perché non si consentono di pensare. Non che la
libertà di pensiero sia necessaria solamente, o soprattutto, al fine di
formare grandi pensatori: anzi, è altrettanto e ancor più
indispensabile per permettere agli uomini normali di raggiungere il grado di
sviluppo intellettuale di cui sono capaci. Vi sono stati, e vi potranno ancora
essere, grandi pensatori isolati in un'atmosfera generale di schiavitù
mentale; ma in essa non è mai esistito, né
esisterà mai, un popolo intellettualmente attivo. Quando un popolo lo
è temporaneamente stato, l'ha dovuto a una momentanea sospensione
dell'orrore per la speculazione eterodossa. Dove per tacita convenzione i
principi non vanno posti in dubbio e il dibattito sui massimi problemi
dell'umanità è considerato chiuso, non possiamo sperare di
trovare quel livello generalmente alto di attività mentale che ha reso
così notevoli alcuni periodi storici. Quando la discussione ha evitato
gli argomenti sufficientemente vasti e importanti da suscitare entusiasmi,
l'intelletto di un popolo non è mai stato stimolato in
profondità, né è stato dato l'impulso che eleva anche le persone
intellettualmente mediocri a partecipare in qualche misura della dignità
di esseri pensanti. Un esempio di questo tipo è stata l'Europa
nell'epoca immediatamente successiva alla Riforma; un altro, anche se limitato
al Continente e alla classe colta il movimento speculativo della seconda metà
del diciottesimo secolo; un terzo, di ancor più breve durata, il
fermento intellettuale della Germania al tempo di Goethe e Fichte. Questi periodi
sono stati molto diversi per il tipo di opinioni da essi
sviluppate, ma simili perché durante tutte e tre fu spezzato il giogo dell'autorità.
In ciascuno di essi un vecchio dispotismo mentale era
stato abbattuto, e uno nuovo non ne aveva ancora preso il posto. L'impulso dato
in questi tre periodi ha fatto dell'Europa quella che è oggi: ciascun
singolo progresso del pensiero umano o delle istituzioni può essere
chiaramente ricondotto a uno di essi. Da qualche tempo
tutto sembra indicare che i tre impulsi sono ormai quasi esauriti; e non
possiamo attenderci un nuovo inizio se non riasseriamo
la nostra libertà intellettuale.
Passiamo ora al secondo aspetto della nostra argomentazione, e,
scartando la supposizione che alcune opinioni comunemente accettate possano essere false, ammettiamo che siano vere ed
esaminiamo quale sia il valore dei modi secondo cui verranno probabilmente
percepite ed espresse nel caso che non se ne dibatta liberamente e apertamente
la verità. Per quanto chi è fermamente convinto di un'opinione ammetta a malincuore la possibilità che sia falsa,
dovrebbe essere stimolato dalla considerazione che, per vera che essa sia, se
non la si discute a fondo, spesso e senza timore, finirà per essere
creduta un freddo dogma, non una verità attuale.
Vi sono uomini (fortunatamente, non tanti quanto una volta) che
ritengono sufficiente che una persona approvi incondizionatamente ciò
che essi giudicano vero, anche se ignora completamente gli elementi su cui la
loro opinione si fonda e non è in grado di difenderla passabilmente
dall'obiezione più superficiale. Se costoro riescono a far imporre il
loro credo dall'autorità, pensano naturalmente che permettere di porlo
in dubbio non sia fonte di alcun vantaggio, ma anzi di qualche danno. Quando
prevalgono, rendono quasi impossibile respingere l'opinione comunemente
accettata sulla base di accurate considerazioni, anche se la
si può ancora rifiutare sconsideratamente o per ignoranza:
infatti raramente si può sopprimere completamente la discussione, e al
suo primo insorgere le convinzioni prive di solidi fondamenti tendono a
crollare di fronte alla minima parvenza di argomento. Tralasciamo tuttavia
questa possibilità e supponiamo che un'opinione sia vera, ma venga pensata come se fosse un pregiudizio, una credenza
indipendente da argomento e ad essi refrattaria: non è questo il modo in
cui un essere razionale dovrebbe possedere la verità; questo non
è conoscere la verità. In queste condizioni, la verità non
è altro che un'ennesima superstizione, associata a parole che enunciano
una verità.
Se l'intelletto e il giudizio degli uomini vanno coltivati –
necessità che almeno i protestanti non negano –, le questioni migliori
per esercitarli sono quelle che riguardano l'individuo tanto da vicino da far
ritenere necessario che se ne formi un'opinione. Se nell'educazione
intellettuale vi è un fattore predominante, è sicuramente l'esame
dei fondamenti delle proprie opinioni. Qualsiasi convinzione si abbia in campi in cui è essenziale avere una opinione
corretta, si deve essere in grado di difenderla almeno contro le obiezioni
più comuni. Qualcuno potrebbe tuttavia affermare: "Insegniamo agli
uomini i fondamenti delle loro opinioni; ciò non significa che le
debbano soltanto ripetere meccanicamente perché non vengono
mai contraddette. Chi studia la geometria non si limita a imparare
a memoria i teoremi, ma comprende e studia anche le dimostrazioni; e sarebbe
assurdo affermare che egli rimane nell'ignoranza dei fondamenti delle
verità geometriche perché nessuno le nega o cerca di confutarle".
Senza dubbio: e un insegnamento del genere è sufficiente in un campo
come la matematica, in cui non vi è alcun argomento dalla parte
dell'errore La peculiarità dell'evidenza delle verità matematiche
sta nel fatto che tutti gli argomenti sono da un'unica parte: non esistono
obiezioni, né risposte ad esse. Ma in ogni campo in
cui è possibile una differenza di opinioni, la verità dipende
dall'individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti.
Anche nella filosofia naturale è sempre possibile fornire un'altra
spiegazione degli stessi fatti: una teoria geocentrica invece di quella
eliocentrica, il flogisto invece dell'ossigeno, e bisogna dimostrare perché
l'altra teoria non può essere quella vera; e fino a quando non sia data
la dimostrazione e non sappiamo come svolgerla, non comprendiamo i fondamenti
della nostra opinione. Ma se ci volgiamo a campi infinitamente più
complessi, la morale, la religione, la politica, i rapporti sociali, e gli
affari della vita, tre quarti degli argomenti a favore di qualsiasi opinione
controversa consistono nel demolire le apparenze che ne favoriscono un'altra.
Il secondo oratore dell'antichità affermava di studiare sempre gli
argomenti dell'avversario con uguale, se non maggiore, attenzione dei propri.
Il metodo che procurò a Cicerone il successo forense va imitato da
chiunque studi qualsiasi campo per giungere alla verità. Chi conosce
solo gli argomenti a proprio favore conosce poco: può avere delle buone
ragioni, che magari nessuno è mai stato capace di confutare; ma se
è altrettanto incapace di confutare le ragioni avversarie, se neppure le
conosce, non ha basi per scegliere tra le due opinioni. In questo caso il suo
atteggiamento razionale dovrebbe essere la sospensione del giudizio; se
ciò non lo soddisfa si farà guidare dall'autorità, oppure
adotterà, come fa in generale il mondo, la posizione per
cui propende. Né gli è sufficiente ascoltare le tesi degli
avversari dalla bocca dei suoi maestri, espresse con le parole di questi ultimi e accompagnate dalle loro confutazioni. Non
è questo il modo di rendere giustizia agli argomenti opposti o di venire
realmente a contatto con essi. Deve poterli udire da
persone che ne sono realmente convinte, che li difendono accanitamente e al
massimo delle loro possibilità. Deve conoscerli nella loro formulazione
più plausibile e persuasiva, e sentire l'intero peso della difficoltà
che l'opinione vera deve affrontare e demolire; altrimenti non si
impadronirà mai realmente di quella parte della verità che viene
incontro all'obiezione e la elimina. Il novantanove per cento dei cosiddetti
uomini di cultura sono in questa condizione, anche quelli in grado di sostenere
elegantemente le proprie opinioni. La loro conclusione può essere vera ma, per quel che ne sanno, potrebbe anche essere falsa:
non si sono mai messi al posto di chi pensa diversamente da loro,
considerandone le possibili argomentazioni; e di conseguenza non conoscono, in
nessuna accezione corretta del termine, la dottrina che essi stessi professano.
Non ne conoscono le parti che spiegano e giustificano il resto – le
considerazioni che mostrano come due fatti apparentemente contraddittori
possano essere conciliabili, o come tra due ragioni apparentemente di uguale
forza vada scelta l'una piuttosto che l'altra.
È loro estranea tutta quella parte della verità che fa pendere la
bilancia a suo favore e determina il giudizio di chi è perfettamente
informato; essa è realmente nota soltanto a chi ha dedicato
un'attenzione uguale e imparziale alle opposte ragioni, cercando di vederle il
più chiaramente possibile. Questa disciplina è così
essenziale a una reale comprensione delle questioni morali e umane che se una
verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile
inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto
avvocato del diavolo riesce a inventare.
Supponiamo che, per controbattere la forza di queste
considerazioni, un nemico della libertà di discussione affermi che non
è necessario che tutti gli uomini conoscano e comprendano tutto
ciò che filosofi e teologi possono asserire pro o contro le reciproche
opinioni. Che gli uomini normali non hanno bisogno di essere in grado di individuare
tutte le inesattezze e gli errori di un ingegnoso oppositore; basta che ci sia
sempre qualcuno capace di controbattervi in modo da confutare tutto ciò
che potrebbe trarre in inganno gli incolti. Che dei semplici, cui siano stati insegnati i fondamenti più evidenti delle
verità che gli sono state inculcate, possono per il resto affidarsi
all'autorità e, consci di non possedere né le conoscenze né l'ingegno
necessari a risolvere ogni possibile difficoltà, star certi che tutte
quelle già affiorate sono state, o possono essere, risolte da chi
è specialmente addestrato a questo compito.
Pur accordando a questo ragionamento tutto il valore che
può avere per coloro cui non importa che si creda in una verità
senza comprenderla perfettamente, l'argomento a favore della libera discussione
non ne esce in alcun modo indebolito. Infatti persino
questa dottrina ammette che gli uomini dovrebbero avere la sicurezza razionale
che a tutte le obiezioni si è risposto in modo soddisfacente; e come si
risponde se la risposta adatta non viene formulata? Oppure, come si può
sapere che è soddisfacente se gli obiettori non hanno
l'opportunità di dimostrare che non lo è? Se non il pubblico,
almeno i filosofi e i teologi deputati a risolvere le difficoltà devono
familiarizzarsi con esse, nelle loro forme più
complesse; il che non è possibile se non vengono enunciate liberamente e
nella luce ad esse più vantaggiosa.
La chiesa cattolica ha un suo modo di risolvere questo
imbarazzante problema: compie una netta distinzione tra coloro cui è
permesso di adottare le sue dottrine per convinzione e chi deve accettarle
sulla fiducia. In effetti, a nessuno dei due gruppi è consentito
scegliere che cosa accettare: ma il clero, o almeno quella parte di esso che è completamente fidata, può legittimamente
e meritoriamente studiare gli argomenti degli oppositori per poterli
controbattere, e quindi può leggere libri eretici; invece i laici non lo
possono salvo che in seguito a una speciale dispensa, difficile da ottenere.
Questa disciplina riconosce che la conoscenza degli argomenti nemici è
utile ai suoi maestri, ma trova modo, coerentemente, di negarla al resto del
mondo, permettendo così all'élite una cultura,
anche se non una libertà intellettuale, superiore a quella che permette
alle masse. Con questo mezzo la chiesa riesce a conseguire il genere di
superiorità intellettuale richiesto dai suoi scopi; poiché, anche se la
cultura senza libertà non ha mai formato una mente liberale e di ampie
vedute, può formare un astuto avvocato del nisi
prius. Ma nei paesi che professano il
protestantesimo questa soluzione è impossibile, poiché i protestanti
affermano, almeno in teoria, che ciascuno deve avere la responsabilità
di scegliersi la religione, e non può scaricarla sui suoi maestri.
Inoltre, al giorno d'oggi è praticamente
impossibile mantenere la popolazione incolta all'oscuro di opere che le persone
colte leggono. Perché i maestri dell'umanità possano conoscere tutto
ciò che dovrebbero, vi deve essere
libertà incondizionata di scrittura e pubblicazione. Tuttavia, se la
nociva soppressione della libertà di parola, in una situazione in cui le
opinioni comunemente accettate sono vere, si limitasse a lasciare gli uomini
nell'ignoranza dei fondamenti di queste opinioni, la si
potrebbe considerare un male intellettuale ma non morale, che non diminuisce la
validità delle opinioni in quanto elementi che influiscono sul
carattere. Nella realtà però la mancanza di
discussione non solo fa dimenticare i fondamenti di un'opinione, ma il
suo stesso significato. Le parole che la esprimono non suggeriscono più
idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle
che comunicavano originariamente. Al posto di un concetto vigoroso e di una
convinzione viva, restano soltanto poche frasi meccanicamente apprese; oppure, se
resta qualcosa del significato, è solo l'involucro, e la profonda
essenza si è persa. Non si studierà e mediterà mai a
sufficienza il grande capitolo della storia umana che questo fenomeno
costituisce.
Lo illustra l'esperienza di quasi tutte le dottrine morali e le
religioni. Per i loro fondatori, e i loro diretti
discepoli, sono tutte piene di significato e vitalità. Il loro
significato continua ad essere sentito in tutta la sua forza e anzi diventa forse
ancor più evidente finché dura la lotta per il predominio tra la nuova
dottrina o fede e le altre. Infine, o essa ha il sopravvento e diventa
l'opinione generale, oppure il suo progresso si arresta: mantiene il terreno
che si è conquistata, ma smette di espandersi. Quando uno dei due esiti
è ormai chiaro, le controversie si acquietano, e gradualmente si
spengono. La dottrina ha conquistato la sua posizione, se non
di opinione generalmente ammessa, di setta o settore di opinione consentito; i
suoi seguaci l'hanno in generale ereditata e non adottata; e le conversioni da
una dottrina all'altra, essendo ormai divenute l'eccezione, non hanno
più molto posto tra le preoccupazioni dei maestri. Questi ultimi,
invece di essere come una volta costantemente all'erta per difendersi dal mondo
o per portarlo dalla propria parte, si sono quietati e ammansiti e non
ascoltano, se appena possono evitarlo, gli argomenti contro la loro fede, né
molestano i dissenzienti (se ve ne sono) con argomenti a suo favore. Generalmente
è a questo momento che si può far risalire il declino della forza
vitale di una dottrina. Spesso sentiamo i maestri di ogni fede lamentarsi di
quanto sia difficile mantenere viva nei fedeli la
percezione della verità che a parole professano, in modo che possa
penetrare i loro sentimenti e determinare realmente il loro comportamento.
Questa difficoltà non viene mai avvertita
quando la fede sta lottando per sopravvivere; in quel momento anche i
più deboli comprendono e sentono ciò per cui combattono, e la sua
differenza dalle altre dottrine; e in questa fase dell'esistenza di ogni fede
si possono trovare molti adepti che ne hanno compreso i principi fondamentali
in ogni aspetto del pensiero, ne hanno pesato e considerato tutte le
conseguenze importanti, e hanno sperimentato in se stessi l'intero effetto che
la loro fede dovrebbe provocare in una mente che ne sia completamente imbevuta.
Ma quando la fede è diventata ereditaria, ricevuta passivamente e non
attivamente – quando il pensiero non è più costretto come agli
inizi a esercitare le sue forze vitali sulle questioni con cui la sua fede lo
confronta – vi è una tendenza progressiva a dimenticarne tutto salvo le
formule, o a tributarle un consenso fiacco e torpido – come se la sua
accettazione sulla fiducia dispensasse dalla necessità di averne piena
coscienza o di sperimentarla nell'esperienza personale – finché la fede non ha
quasi più rapporto con la vita interiore dell'individuo. Allora
compaiono i casi, ormai così frequenti da costituire quasi la maggioranza,
in cui la fede resta per così dire esterna alla mente, ma la incrosta e
la calcifica contro tutte le altre influenze che si rivolgono agli aspetti
più elevati della nostra natura; e manifesta il suo potere sbarrando
l'accesso a tutto ciò che è nuovo e vivo, ma non facendo nulla
per la mente e il cuore, salvo che starvi da sentinella per tenerli vuoti.
Il modo in cui dottrine intrinsecamente destinate a esercitare il
più profondo influsso sulla mente umana vi sopravvivano come morte
credenze, senza mai esprimersi nei sentimenti, nell'immaginazione o nel
pensiero, è esemplificato dall'atteggiamento della maggioranza dei
credenti verso le dottrine del Cristianesimo. Per
Cristianesimo intendo qui ciò che è definito tale da tutte le
chiese e sette – le massime e i precetti contenuti nel Nuovo Testamento,
considerati sacri e accettati come legge da tutti coloro che si dichiarano
cristiani. E tuttavia si esagera di poco o nulla se si afferma che non un
cristiano su mille determina o giudica la propria condotta personale in base a
queste leggi: il criterio cui si riferisce è la consuetudine del suo
paese, della sua classe o della sua confessione
religiosa. Ha quindi, da un lato, una collezione di massime etiche che crede
gli siano state affidate da una saggezza infallibile perché vi ispiri la
propria condotta; dall'altro, un insieme di giudizi e pratiche quotidiane che
concordano in una certa misura con alcune massime, un po' meno con altre, sono
il contrario di altre ancora, e complessivamente costituiscono un compromesso
tra la fede cristiana e gli interessi e le suggestioni della vita di questo
mondo. Al primo criterio offre il suo omaggio; al secondo,
la sua reale sottomissione. Tutti i cristiani credono che
beati sono i poveri e gli umili, e coloro che il mondo perseguita; che è
più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un
ricco entrare nel regno dei cieli; che non devono giudicare, se non vogliono
essere giudicati; che non dovrebbero mai giurare; che dovrebbero amare il loro
prossimo come se stessi; che se qualcuno gli prende il mantello, gli devono
dare anche la veste; che non dovrebbero pensare al domani; che se fossero
perfetti dovrebbero vendere tutto quello che hanno e darlo ai poveri.
Non sono insinceri quando affermano di credere in
tutto ciò: ci credono, come si crede in ciò che si è
sempre sentito lodare e mai discutere. Ma se il credere è inteso come
convinzione viva e presente che determina la condotta umana, credono in queste
dottrine solo nella misura in cui abitualmente agiscono in base a esse. Nella loro integrità, le dottrine servono a
essere scagliate contro gli avversari; inoltre è convenuto che le si può usare (quando è possibile) a
giustificazione di tutto ciò che si ritenga giusto fare. Ma chiunque
ricordasse ai cristiani che le loro massime richiedono un'infinità di
cose cui non hanno mai neppure pensato, otterrebbe solo di finire nel novero di
quei personaggi alquanto impopolari che pretendono di essere
migliori degli altri. Le dottrine non hanno presa sui credenti comuni –
non hanno potere sulle loro menti. I fedeli nutrono un rispetto consuetudinario
per la loro formulazione, ma non un sentimento che dalle parole si estenda alle cose che significano e costringa la mente a
prendere coscienza di queste, e a modificarle in modo che corrispondano
alla formula. Quando è questione di condotta, i cristiani cercano il
signor A e il signor B per farsi dire fino a che punto
devono obbedire a Cristo.
Ora, possiamo star certi che al tempo dei primi cristiani la
situazione era ben diversa. Fosse stata come oggi, il Cristianesimo non si
sarebbe trasformato da un'oscura setta dei disprezzati ebrei nella religione
dell'Impero romano. Quando sentivano i loro nemici dire "Guardate come si
amano questi cristiani" (osservazione alquanto improbabile al giorno d'oggi), sicuramente i cristiani avevano una
percezione molto più viva del significato della loro fede di quanto non
abbiano più avuto in seguito. Ed è probabilmente questo il motivo
principale per cui oggi il Cristianesimo fa
così fatica a estendere il proprio dominio, e dopo diciotto secoli
è ancora diffuso quasi esclusivamente tra gli europei e i loro
discendenti. Anche nel caso dei credenti di stretta osservanza, che prendono
molto seriamente le loro dottrine e conferiscono a molte di esse maggiore
significato di quanto venga loro generalmente attribuito, accade comunemente
che l'aspetto in loro generalmente più attivo sia stato elaborato da
Calvino, o Knox, o da qualcun altro molto più
vicino al loro carattere. Nelle loro menti i detti di Cristo coesistono
passivamente, senza quasi altri effetti che quelli causati dal semplice ascolto
di parole così miti e soavi. Indubbiamente sono
molte le ragioni per cui le dottrine che caratterizzano una setta mantengono la
loro vitalità più di quelle comuni a
tutte le sette riconosciute, e per cui i maestri della religione fanno maggiori
sforzi per tenerne vivo il significato; ma una è certamente che le
dottrine caratteristiche sono le più discusse, quelle che più
spesso vanno difese da esperti oppositori. Sia i maestri che gli allievi si
addormentano al loro posto di guardia non appena il nemico è scomparso.
Altrettanto vale, in termini generali, per tutte le dottrine
tradizionali – sia quelle di saggezza ed etica pratiche che quelle più
propriamente morali o religiose. Tutte le lingue e le letterature abbondano di
osservazioni generali sulla vita, cosa è e come comportarvisi
– osservazioni che tutti conoscono, che tutti ripetono o odono con
rassegnazione, che sono accolte come truismi, e di
cui tuttavia quasi tutti apprendono veramente il significato la prima volta che
un'esperienza, generalmente dolorosa, le fa diventare una loro realtà.
Quanto spesso, sotto la frustata di una disgrazia imprevista o di una
delusione, ci ritorna in mente un detto o un proverbio che abbiamo sentito per
tutta la vita, il cui significato, se solo l'avessimo capito come lo capiamo ora, ci avrebbe risparmiato questo male. Anche di
questo esistono ragioni che non si limitano alla mancata discussione: di molte
verità non si può comprendere pienamente il significato
senza esperienza personale. Ma anche il loro significato sarebbe stato molto
meglio compreso e sarebbe rimasto molto più profondamente impresso se si fosse stati abituati a sentirlo discutere, in positivo e
in negativo, da persone che lo comprendevano. La fatale tendenza degli uomini a
smettere di pensare a una questione quando non è più dubbia
è causa di metà dei loro errori. Un autore contemporaneo ha
giustamente parlato del "profondo sonno dogmatico indotto da un'opinione
definitiva".
Ma come! (ci si può chiedere), la
mancanza di unanimità è una condizione indispensabile per il vero
sapere? È necessario che una parte dell'umanità persista
nell'errore perché qualcuno si possa rendere conto della verità? Una
convinzione cessa di essere reale e vitale non appena è generalmente
accettata – e una proposizione non è mai compresa e sentita fino in
fondo se non resta in qualche modo in dubbio? Non appena gli uomini l'abbiano unanimemente accettata, una verità gli muore
dentro? Fino ad ora si è pensato che lo scopo più alto, e il
miglior effetto, di un'intelligenza affinata fosse unire sempre più
l'umanità nel riconoscimento di verità fondamentali; e
l'intelligenza esiste solo finché non ha raggiunto il suo scopo? I frutti della
vittoria si dileguano proprio perché è completa?
Non affermo nulla del genere. Col progresso umano, il numero delle
dottrine che non saranno più oggetto di dispute o dubbi aumenterà
costantemente; e si può quasi misurare il benessere degli uomini col
numero e l'importanza delle verità che sono ormai incontestate. Lo
spegnersi, in una questione dopo l'altra, del dibattito serio è un
accidente necessario nel consolidamento dell'opinione – tanto salutare nel caso
di opinioni vere quanto è pericoloso e nocivo
se le opinioni sono errate. Ma anche se questo progressivo restringersi dei
limiti della diversità di opinione è
necessario in entrambi i sensi del termine – è contemporaneamente
inevitabile e indispensabile –, non siamo perciò obbligati a concludere che
debba avere solo conseguenze positive. La perdita di un aiuto così
importante all'intelligente e viva comprensione di una verità, come
è quello dato dalla necessità di chiarirla o difenderla nel
contraddittorio, è una conseguenza negativa non trascurabile
all'universale riconoscimento del vero, anche se non ne supera i benefici.
Quando questo aiuto viene a mancare, confesso che vorrei che i maestri
dell'umanità ne cercassero un surrogato – uno strumento che renda chi
studia una data questione altrettanto cosciente delle sue difficoltà che
se gli venissero contestate da un oppositore teso a
convertirlo.
Ma, invece di trovarne di nuovi, si perdono gli strumenti del
passato. La dialettica socratica, così magnificamente illustrata nei
dialoghi di Platone, era uno strumento analogo. Si trattava sostanzialmente di
una discussione negativa delle grandi questioni della filosofia e della vita,
diretta con consumata abilità al fine di convincere chiunque si
limitasse a far suoi i luoghi comuni dell'opinione corrente che non comprendeva
la questione – che non aveva ancora attribuito un significato preciso alle
dottrine professate –, affinché, resosi conto della sua ignoranza, si
incamminasse verso una convinzione solida, fondata sulla chiara comprensione
del significato delle dottrine e dell'evidenza a loro favore. Le discussioni
scolastiche medioevali avevano uno scopo abbastanza simile: far sl che l'allievo comprendesse la propria opinione e (per
necessaria correlazione) l'opposta, e fosse in grado di affermare i fondamenti
dell'una e confutare quelli dell'altra. Queste sfide oratorie avevano certo
l'irrimediabile difetto che le premesse cui si rifacevano derivavano
dall'autorità e non dalla ragione; e, come disciplina mentale, erano
sotto ogni aspetto inferiori alla potente dialettica
che aveva formato gli intelletti dei socratici viri; ma il pensiero
moderno deve a entrambi molto più di quanto non voglia generalmente
ammettere, e l'educazione moderna non comprende alcun strumento che minimamente
svolga la funzione di questi due. Chi deriva tutta la sua istruzione da
insegnanti e libri, anche se sfugge all'incombente tentazione del nozionismo,
non ha alcun obbligo di considerare entrambi gli aspetti di una questione, che
quindi raramente sono conosciuti, persino dai filosofi; e la parte più
debole di ogni argomentazione a difesa di un'opinione è la replica agli
antagonisti. Attualmente è di moda screditare la logica negativa –
quella che individua debolezze teoriche o errori pratici senza affermare
verità positive. Questa critica negativa sarebbe certo molto
insoddisfacente come punto d'arrivo, ma come mezzo per conseguire conoscenze
positive o convinzioni degne di essere chiamate tali non sarà mai
abbastanza apprezzata; e fino a quando non se ne riprenderà l'insegnamento
e l'esercizio sistematico vi saranno pochi grandi pensatori e un basso livello
intellettuale complessivo in tutti i campi che non siano la speculazione
matematica e fisica. In ogni altro settore, non vi è nessuno le cui
opinioni meritino di essere definite sapere, a meno
che altri non gli abbiano imposto, o non abbia seguito spontaneamente, lo
stesso percorso intellettuale che un'attiva controversia con degli oppositori
gli avrebbe richiesto di compiere. È quindi molto peggio che assurdo
rifiutare, quando ci si offre spontaneamente, ciò che
quando manca è così indispensabile, eppure così
difficile, creare. Se vi sono persone che negano un'opinione generalmente
accettata o che la negherebbero se la legge o il pubblico glielo permettessero,
ringraziamole, ascoltiamole a mente aperta e rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò che altrimenti dovremmo
fare da soli, e con fatica molto maggiore, se abbiamo un minimo di rispetto per
la certezza o la vitalità delle nostre convinzioni.
Resta ancora da menzionare una delle cause principali che rendono
così vantaggiosa la diversità di opinioni, e continueranno a
farlo finché gli uomini saranno giunti a uno stadio di
progresso intellettuale da cui ora sembrano incalcolabilmente
lontani. Fino a questo punto abbiamo considerato soltanto due
possibilità: che l'opinione comunemente accettata possa essere falsa, e
qualcun'altra, di conseguenza, vera; oppure che l'opinione comune sia vera, ma
il contrasto con l'errore sia essenziale per una chiara comprensione e una
profonda percezione della sua verità. Ma vi è un terzo caso,
più frequente dei primi due: quando le dottrine contrastanti, invece di
essere una vera e l'altra falsa, contengono entrambe una parte di
verità, e l'opinione dissidente è necessaria per integrare la
dottrina più generalmente accettata con ciò che le manca. In
questioni che esulano dal dominio dei sensi, l'opinione popolare è
spesso vera, ma di rado o mai costituisce l'intera verità. Ne è
una parte, grande o piccola a seconda dei casi, ma
esagerata, distorta, e isolata dalle altre verità che dovrebbero
accompagnarla e precisarla. D'altro canto, le opinioni eretiche sono
generalmente alcune di queste verità soppresse e trascurate che spezzano
i vincoli che le imprigionavano e, o cercano di riconciliarsi con la
verità contenuta nell'opinione comune, o affrontano quest'ultima come un
nemico, proclamando in modo altrettanto esclusivo di essere l'intera
verità. Fino a oggi è stato più frequente il secondo caso,
poiché tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la norma, la
multilateralità, l'eccezione; quindi anche
nelle rivoluzioni dell'opinione una parte della verità generalmente
tramonta al sorgere di un'altra. Persino il progresso, che dovrebbe assommarle,
nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una verità parziale
e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel fatto che
il nuovo frammento di verità è più richiesto, più
adatto alle necessità dell'epoca di quello che sostituisce. Dato questo
carattere di parzialità dell'opinione predominante anche quando i suoi
fondamenti sono veri, ogni opinione che comprenda in una certa misura la parte
di verità omessa dall'opinione dominante, dovrebbe essere considerata
preziosa, anche se in essa si frammischiano
confusamente verità ed errore. Nessun buon giudice delle cose umane si
indignerà perché coloro che ci costringono a prendere nota di
verità che altrimenti ci sarebbero sfuggite se ne lasciano a loro volta
sfuggire alcune che per noi sono evidenti: penserà anzi che finché la
verità generalmente accettata è unilaterale, è più
che in altri casi auspicabile che anche quella
impopolare abbia assertori unilaterali, come lo sono generalmente i più
energici, quelli che più riescono ad attrarre un'attenzione riluttante
su quel frammento che ai loro occhi è tutta la saggezza. Così nel
XVIII secolo quasi tutte le persone colte, e tutti gli
incolti che da loro si facevano guidare, si perdevano nell'ammirazione della
cosiddetta civiltà, delle meraviglie della scienza, della letteratura e
della filosofia moderne, e sopravvalutavano di molto la differenza tra i
moderni e gli antichi, illudendosi che fosse tutta a loro favore; nel mezzo di
questo compiacimento generale, fu estremamente salutare l'esplosione dei
paradossi di Rousseau, che frantumarono la massa
compatta di questa opinione unilaterale costringendone gli elementi a
ricombinarsi in una forma migliore, arricchiti da altri fattori. Non che le
opinioni prevalenti fossero nel loro complesso più
lontane dalla verità di quelle di Rousseau;
al contrario le erano più vicine: contenevano più verità
positive, e molto meno errore. Ciononostante, nella dottrina di Rousseau era racchiusa – ed è stata trasportata fino
a noi dalla corrente dell'opinione – una notevole misura proprio di quelle
verità che mancavano all'opinione comune e che sono il sedimento rimasto
dopo l'ondata di piena La superiorità della vita semplice, l'effetto
snervante e demoralizzante dei vincoli e delle ipocrisie di una società
artificiale, sono idee che dopo Rousseau non sono
più state completamente ignorate dalle persone colte e che col tempo
produrranno il loro effetto, anche se attualmente vanno più che mai
ribadite, soprattutto nei fatti – poiché in questo campo le parole hanno quasi
esaurito il loro potere.
Anche in politica è quasi un luogo comune che un partito
dell'ordine o della stabilità e un partito del progresso o delle riforme
sono entrambi elementi necessari di una vita politica sana, fino a quando uno dei due non avrà così ampliato la
sua visione delle cose da diventare un partito ugualmente d'ordine e di
progresso, che sappia distinguere ciò che va conservato da ciò
che va abolito. Ambedue questi atteggiamenti mentali derivano la loro
utilità dalle carenze dell'altro; ma è in larga misura
l'opposizione dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione. Se le
opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà e
all'uguaglianza, alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla
frugalità, alla socialità e all'individualità, alla
libertà e alla disciplina, e a tutte le altre opposizioni intrinseche
alla vita quotidiana, non vengono espresse con uguale
libertà e fatte rispettare con uguale talento e energia, non vi è
alcuna probabilità che i due elementi ricevano un trattamento equo: la
bilancia penderà certamente da una parte o dall'altra. Nei grandi
problemi pratici della vita, la verità è una questione di
conciliazione e combinazione di opposti, a tal punto che pochissime menti sono
abbastanza vaste e imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche solo
parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo
conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna delle grandi questioni aperte che
ho elencato, se delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto non
solo a essere tollerata ma a venire incoraggiata e
favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in minoranza.
Rappresenta allora gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano
che rischiano di ottenere meno attenzione di quanta è loro
dovuta. So bene che nel nostro paese le differenze di opinione sulla
maggior parte di questi argomenti sono tollerate: vengono
addotte a dimostrare con esempi accettati e molteplici l'universalità
del fatto che allo stato presente dell'intelletto umano soltanto la
varietà delle opinioni offre uguali opportunità a tutti gli
aspetti della verità. Quando si trovano persone che fanno eccezione
all'apparente unanimità del mondo su un qualsiasi argomento, anche se il
mondo ha ragione, è sempre probabile che i dissenzienti abbiano da dire
a proprio favore qualcosa che merita attenzione, e che, se tacessero, la
verità perderebbe qualcosa. Si potrebbe obiettare
"Ma alcuni principi comunemente accettati,
specialmente quelli che riguardano le questioni più elevate e
essenziali, sono più che delle mezze verità. Per esempio, la
morale cristiana è nel suo campo specifico la completa verità, e
chiunque predichi una morale che se ne discosti è completamente in
errore". Dato che tra tutti i casi pratici questo è il più importante,
è anche il più adatto a controllare la validità della
nostra asserzione generale. Ma prima di stabilire che cosa sia
o non sia la morale cristiana, sarebbe opportuno decidere che cosa si intenda
per morale cristiana. Se significa la morale del Nuovo Testamento, mi chiedo
come chiunque la conosca dalla lettura del testo possa supporre che sia stata
presentata, o intesa, come una dottrina morale completa. Il Vangelo si
riferisce sempre alla morale preesistente, e limita i suoi insegnamenti agli aspetti
in cui essa andava corretta e sostituita da un'etica più aperta e
elevata, che inoltre è espressa in termini estremamente generali, spesso
impossibili da interpretare letteralmente, partecipi dell'efficacia della
poesia o dell'eloquenza più che della precisione della
legislazione. Non è stato mai possibile derivarne una dottrina etica
organica senza riferirsi al Vecchio Testamento, cioè a un sistema
effettivamente molto elaborato, ma sotto molti aspetti
barbaro, e concepito soltanto per un popolo barbaro. Anche san Paolo,
nemico dichiarato di questa interpretazione giudaica della dottrina tendente a
completare lo schema del Maestro, assume una morale preesistente, cioè
quella greca e romana: e il suo insegnamento ai cristiani è in larga misura
un sistema di compromesso che giunge al punto di legittimare in apparenza la
schiavitù. La morale che viene chiamata
cristiana – ma il termine dovrebbe essere "teologica" – non è
opera di Cristo o degli Apostoli, ma ha un'origine molto posteriore, essendo
stata costruita gradualmente dalla chiesa cattolica dei primi cinque secoli;
anche se moderni e protestanti non l'hanno adottata in toto,
l'hanno modificata molto meno di quanto ai si potesse aspettare. In effetti nella maggior parte dei casi si sono accontentati
di eliminare le aggiunte risalenti al Medioevo, sostituendole con altre,
variabili a seconda delle tendenze e caratteristiche delle varie sette. Sarei
l'ultimo a negare che gli uomini abbiano un grande debito verso questa morale e
i suoi primi maestri, ma non esito ad affermare che sotto molti importanti
aspetti è incompleta e unilaterale e che se idee e sentimenti da essa non sanciti non avessero contribuito alla formazione
della società e del carattere dell'Europa, gli uomini si troverebbero in
una condizione peggiore dell'attuale. La (cosiddetta) morale cristiana ha tutti
i caratteri di una reazione; è in gran parte una protesta contro il
paganesimo. Il suo ideale è negativo piuttosto che
positivo; passivo piuttosto che attivo; è l'innocenza piuttosto che la
nobiltà d'animo; astenersi dal male piuttosto che perseguire
energicamente il bene; nei suoi precetti (è stato giustamente notato),
il "non farai" predomina eccessivamente sul "farai".
Nel suo orrore della sensualità, ha fatto dell'ascetismo un idolo che a
forza di compromessi è diventato idolo della legalità. Indica la
speranza del paradiso e la minaccia dell'inferno come motivazioni esplicite e
opportune di una vita virtuosa: cade così molto al di sotto di quanto di meglio offriva il pensiero antico, e fa quanto è
in suo potere per dare alla morale umana un carattere essenzialmente egoista,
scindendo il senso del dovere di ciascuno dagli interessi dei suoi simili, che
vanno sì consultati ma per motivi sostanzialmente egoistici. È essenzialmente
una dottrina dell'ubbidienza passiva; inculca lo spirito di sottomissione a
tutte le autorità costituite; e mentre sostiene che non bisogna in effetti ubbidire attivamente quando ordinano ciò
che la religione vieta, afferma che neppure però si deve resistere, e ancor
meno ribellarsi, qualunque torto ci facciano. E mentre nella morale delle
migliori nazioni pagane il dovere verso lo Stato ha un peso persino
sproporzionato e tale da violare la giusta libertà dell'individuo,
nell'etica cristiana pura questo grande campo di doveri riceve scarsissima
attenzione o menzione. È nel Corano, non nel Nuovo Testamento, che
leggiamo la massima: "Un governante che investa di una carica un uomo quando nei suoi domini ve n'è un altro a essa
più idoneo pecca contro Dio e contro lo Stato". Quel minimo di
riconoscimento che il concetto di obbligo verso i cittadini ha nella morale
moderna deriva da fonti greche e romane, non cristiane; e ugualmente, anche
nella morale privata, i concetti di magnanimità, nobiltà d'animo,
dignità personale, persino di senso dell'onore, risalgono alla parte
puramente umana della nostra educazione, non a quella religiosa, e non si sarebbero mai potuti sviluppare da criteri etici che
riconoscono esplicitamente un unico valore, l'obbedienza.
Sarei l'ultimo a sostenere che questi difetti sono necessariamente
inerenti all'etica cristiana, indipendentemente dal modo in cui è
concepita, o che i molti requisiti di una dottrina morale completa che non
possiede siano con essa inconciliabili: e ancor meno
lo insinuerei sulla base dei precetti e delle dottrine propri di Cristo. Credo
che i detti di Cristo siano esattamente ciò che, da quanto sappiamo,
egli intendeva fossero; che non siano inconciliabili
con nessuno dei requisiti di una morale completa; che tutto ciò che nobilita
l'etica possa esservi ricondotto senza dover sforzarne il linguaggio più
di quanto abbiano fatto tutti coloro che hanno cercato di dedurne qualsiasi
sistema di norme pratiche. Ma è del tutto coerente
credere anche che contengano, e originariamente intendevano contenere, solo
parte della verità; che molti elementi essenziali della morale
più elevata sono tra le cose di cui non si occupano, né intendevano
occuparsi, i detti del fondatore del Cristianesimo giunti fino a noi; che tali
elementi sono stati completamente esclusi dal sistema etico costruito sulla
base di questi detti dalla chiesa cristiana. Stando così le cose,
ritengo un grave errore persistere a cercare nella dottrina cristiana quella
norma completa per la nostra vita che il suo Autore voleva riaffermare e far
valere, ma solo in parte delineare con le sue parole. Credo inoltre che questa
ottusa teoria stia diventando gravemente dannosa nella pratica, in particolare
nella formazione e istruzione morale che tante persone benintenzionate stanno
oggi cercando con grandi sforzi di favorire. Temo molto che il tentativo di
formare intelletto e sentimenti secondo una tipologia esclusivamente religiosa
che respinge quei criteri laici (li chiamiamo così in mancanza di
termini migliori) che fino a oggi hanno coesistito e
collaborato con l'etica cristiana in un mutuo scambio spirituale, darà,
anzi dà già, come risultato, dei caratteri bassi, abietti e
servili che, per quanto sottomessi a ciò che ritengono la Volontà
Suprema, sono incapaci di comprendere o di apprezzare il concetto di Bene
Supremo. Credo che se si vuole la rigenerazione morale dell'umanità,
etiche diverse da quelle di derivazione esclusivamente cristiana debbano
coesistere con la morale cristiana; e che il sistema cristiano non costituisca
un'eccezione alla regola secondo cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo
intellettuale umano gli interessi della verità esigono la presenza di
opinioni diverse. Non è necessario che gli uomini, smettendo di ignorare
le verità morali non contenute nella dottrina cristiana, ignorino alcuna
di quelle che contiene. Ignoranze o pregiudizi del genere sono sempre e
incondizionatamente un male, che però non possiamo sperare di evitare
sempre e dobbiamo considerare il prezzo di un bene inestimabile. Si deve protestare
contro la pretesa esclusiva di una parte della verità a essere
considerata la verità intera; e, se chi protesta per reazione diventa a sua volta ingiusto, questa unilateralità, come
l'altra, può essere deplorata ma va tollerata. Se i cristiani vogliono
insegnare ai pagani a essere giusti verso il Cristianesimo, devono essere giusti verso il paganesimo. Non giova alla verità il
tentativo di occultare il fatto, noto a chiunque abbia una minima conoscenza
della storia della letteratura, che una buona parte degli insegnamenti morali
più nobili e validi è dovuta non solo a
uomini che ignoravano la fede cristiana, ma a uomini che la conoscevano e la
rifiutavano.
Non pretendo che l'esercizio più incondizionato della
libertà di enunciare tutte le opinioni possibili possa por fine ai mali
del settarismo religioso o filosofico. Ogni verità propugnata da uomini
di mentalità ristretta sarà certamente asserita, inculcata, e
persino applicata come se al mondo non ne esistesse altra, o comunque non ne esistesse alcuna che possa limitarla o precisarla. Riconosco
che la più libera discussione non cura la tendenza di tutte le opinioni
a diventare settarie, e anzi spesso la acuisce e esacerba; la verità che
si sarebbe dovuta vedere ma non si è vista
viene rifiutata tanto più violentemente perché è asserita da
persone considerate oppositori. Ma non è tanto sul sostenitore
appassionato, quanto sul testimone più calmo e disinteressato che questo
contrasto di opinioni opera un effetto salutare. Il male più temibile
non è il violento conflitto tra parti diverse della verità, ma la
silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è
costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si
cristallizzano in pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto
perché l'esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali
sono più rare della facoltà che permette di giudicare
intelligentemente tra due visioni contrapposte di una questione, di cui una
sola ha un difensore, le probabilità di vittoria della verità
sono proporzionali alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione
che ne esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma viene attivamente difesa e ascoltata.
Abbiamo quindi riconosciuto la necessità, ai fini del
benessere mentale dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di
benessere), della libertà di opinione e della libertà
di espressione, per quattro distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente:
In primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può,
per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera.
Negarlo significa presumere di essere infallibili.
In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore,
può contenere, e molto spesso contiene, una
parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi
questione è raramente, o mai, l'intera verità, è soltanto
mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha
una probabilità di emergere.
In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è
non solo vera ma costituisce l'intera verità,
se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e
accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà
come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi
fondamenti razionali. Non solo, ma, quarto, il
significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire, e
perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli
uomini: come dogma, diventerà un'asserzione puramente formale e priva di
efficacia benefica, e costituirà un ingombro e un ostacolo allo sviluppo
di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento
o dall'esperienza personale.
Prima di abbandonare la questione della libertà di opinione, è bene dedicare qualche parola a chi
afferma che la libera espressione di tutte le opinioni va consentita a
condizione che si discuta educatamente, senza oltrepassare i limiti della
moderazione. Vi sarebbero molte ragioni per sostenere che è impossibile
definire questi presunti limiti: poiché se il criterio di definizione è
l'offesa a coloro le cui opinioni vengono attaccate,
ritengo per esperienza che essi si offendano ogni volta che l'attacco è
vigoroso e va a segno, e che ogni oppositore che li incalzi e renda loro
difficile replicare sembri smodato se ha idee chiare e le difende. Ma questa
considerazione, anche se importante sotto l'aspetto pratico, rientra in
un'obiezione più fondamentale. Senza dubbio il modo in cui si asserisce
un'opinione, anche se vera, può essere molto sgradevole e venire
giustamente e severamente riprovato. Ma in questa sfera le scorrettezze
principali sono di tale natura che è quasi impossibile dimostrarle, a
meno che chi le commetta non si tradisca accidentalmente.
Le scorrettezze più gravi sono: argomentare per sofismi, nascondere
fatti o argomenti, esporre la questione in modo
inesatto, o travisare l'opinione avversa. Ma questi atti di slealtà
vengono così continuamente commessi in perfetta buona fede, anche nelle
forme più gravi, da persone che non sono considerate – per molti altri
aspetti giustificatamente – ignoranti o incompetenti,
che di rado si può dichiarare fondatamente e in piena coscienza che la
deformazione della verità in questione è moralmente riprovevole;
ancor più è impensabile che la legge interferisca in controversie
riguardanti scorrettezze di questo tipo. Per quanto concerne ciò che
comunemente si intende per discussione smodata – invettive, sarcasmi, attacchi
personali e così via – la denuncia di questi mezzi riceverebbe
più simpatie se si proponesse di vietarne l'impiego a entrambi i
contendenti: ma ciò che si vuole evitare è che vengano
usati contro l'opinione dominante; contro quella minoritaria non solo possono
essere impiegati senza attirare la disapprovazione generale, ma spesso chi li
usa viene lodato per il suo onesto zelo e la sua giusta indignazione. E
tuttavia i danni derivanti dall'uso di tali mezzi sono maggiori
quando i bersagli sono relativamente indifesi; e ogni tipo di vantaggio
sleale derivante da questo stile di argomentazione è quasi
esclusivamente un vantaggio per l'opinione comunemente accettata. In una
polemica, la peggiore scorrettezza di questo genere consiste nel bollare gli
oppositori come malvagi e immorali. Coloro che sostengono qualsiasi opinione
impopolare sono particolarmente esposti a simili calunnie, perché in generale
sono pochi e privi d'influenza e a nessuno, salvo che a loro, interessa
particolarmente che venga loro resa giustizia. Ma
quest'arma è, per la sua stessa natura, negata a coloro che attaccano
un'opinione dominante: non possono correre il rischio di usarla e, comunque, se
la impiegassero, si limiterebbe a ritorcersi contro la loro causa. In generale,
le opinioni minoritarie possono sperare di essere ascoltate solo usando un
linguaggio studiatamente moderato e evitando con ogni cura di offendere
inutilmente chiunque, pena la perdita di terreno a ogni minima deviazione da
questa linea; mentre, impiegato dal lato dell'opinione prevalente, il vituperio
più scatenato è un deterrente reale, che distoglie la gente dal
professare opinioni non conformiste e dall'ascoltare chi le
professa.
Di conseguenza, ai fini della verità e della giustizia,
è molto più importante che venga
represso questo secondo tipo di invettiva; e per esempio, se la scelta si
ponesse, sarebbe molto più necessario scoraggiare gli attacchi
calunniosi al paganesimo che alla religione cristiana. È comunque ovvio
che non è compito della legge o dell'autorità scoraggiare nessuno
dei due, mentre l'opinione dovrebbe, caso per caso, pronunciarsi sulla base
delle circostanze specifiche – condannando chiunque, da qualunque parte stia,
il cui modo di argomentare manifesti insincerità,
malignità, fanatismo o sentimenti di intolleranza; ma non deducendo
queste pecche dall'opinione di chi viene giudicato, anche se è opposta
alla nostra; e lodando, come merita, chiunque, da qualunque parte stia, sia
così sereno da vedere, e così onesto da descrivere, i suoi
oppositori e le loro opinioni come sono in realtà, senza esagerazioni
che li discreditino e menzionando tutti gli elementi che sono o possono essere
a loro favore. Questa è la vera morale del dibattito pubblico: e anche
se spesso viene violata, sono lieto di pensare che
molti polemisti la rispettano in larga misura, e molti di più si
sforzano coscienziosamente di rispettarla.
III
Dell'individualità come elemento
del bene comune
Abbiamo stabilito le ragioni che rendono imperativo che gli uomini
siano liberi di formarsi le loro opinioni e di esprimerle senza riserve; e
stabilito anche quali sono le sventurate conseguenze per la natura
intellettuale dell'uomo, e attraverso di essa per
quella morale, se questa libertà non viene concessa o affermata
nonostante i divieti. Consideriamo ora se le stesse ragioni non richiedono che
gli uomini siano liberi di agire secondo le proprie opinioni – di applicarle
nella loro vita senza essere ostacolati, fisicamente o moralmente, dai loro
simili, purché lo facciano a loro esclusivo rischio e pericolo. Quest'ultima
condizione è ovviamente indispensabile. Nessuno pretende che le azioni
debbano essere libere quanto le opinioni. Al contrario, anche le opinioni
perdono la loro immunità quando le circostanze
in cui vengono espresse sono tali da rendere tale espressione un'istigazione
esplicita a un atto delittuoso. L'opinione che i mercanti di grano sono degli
affamatori dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, non
dovrebbe essere molestata se viene semplicemente
diffusa per mezzo della stampa, ma può incorrere in una giusta punizione
se viene proferita di fronte a una folla eccitata riunitasi davanti alla casa
di un mercante di grano, o viene esibita tra la stessa folla sotto forma di
cartello. Gli atti di qualunque tipo che senza causa giustificata danneggino
altri possono essere controllati, e nei casi più importanti devono
assolutamente esserlo, dai sentimenti a essi
sfavorevoli, e, quando sia necessario, dall'intervento attivo degli uomini. La
libertà dell'individuo deve avere questo limite: l'individuo
non deve creare fastidi agli altri. Ma se evita di molestare gli altri nelle
loro attività, e si limita a agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio nell'ambito che lo riguarda, le stesse
ragioni che dimostrano che l'opinione deve essere libera provano anche che gli
si deve consentire, senza molestarlo, di mettere in pratica le proprie opinioni
a proprie spese. Gli uomini non sono infallibili; le loro
verità sono per la maggior parte delle mezze verità;
l'unanimità, a meno che non sia il risultato del più completo e
libero confronto di opinioni opposte, non è auspicabile, e la
diversità non sarà un male ma un bene fino a quando gli uomini
non saranno molto più capaci di riconoscere tutti gli aspetti della
verità: questi principi sono applicabili alle azioni altrettanto che
alle opinioni. Come è utile che fino a quando l'umanità
non sarà perfetta vi siano differenze d'opinione, così lo
è che vi siano differenti esperimenti di vita; che le diverse
personalità siano lasciate libere di esprimersi, purché gli altri non ne
vengano danneggiati; e che la validità di modi
di vivere diversi sia verificata nella pratica quando lo si voglia. In breve,
è auspicabile che l'individualità sia libera di affermarsi nella
sfera che non riguarda direttamente gli altri. Quando la norma di condotta non
è il carattere individuale ma le tradizioni o le consuetudini degli
altri, viene a mancare uno dei principali elementi della felicità umana,
e l'elemento sicuramente principale del progresso
individuale e sociale.
La difficoltà maggiore che si incontra nell'affermazione di
questo principio non risiede nella determinazione dei mezzi necessari per
raggiungere un fine riconosciuto, ma nell'indifferenza generale nei confronti
del fine stesso. Se la gente si rendesse conto che il libero sviluppo
dell'individualità è uno degli elementi fondamentali del bene
comune; che non solo è connesso a tutto ciò che viene designato da termini come civiltà, istruzione,
educazione, cultura, ma è di per se stesso parte e condizione necessaria
di tutte queste cose, non vi sarebbe il pericolo che la libertà venisse
sottovalutata, e la definizione dei confini tra essa e il controllo sociale non
presenterebbe enormi difficoltà. Ma il male è che comunemente il
valore intrinseco della spontaneità individuale – il fatto che è di per se stessa degna di considerazione – è a
malapena riconosciuto. I più, soddisfatti della vita così come
è (perché sono loro a renderla così come è) non riescono a
capire perché non debba andar bene a tutti; e, ciò che più conta,
la spontaneità non fa parte dell'ideale della maggioranza dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata
con sospetto, come un ostacolo fastidioso e forse ribelle all'accettazione
generale di ciò che essi giudicano più opportuno per
l'umanità. Poche persone al di fuori della Germania
riescono a comprendere il significato della dottrina a cui Wilhelm
von Humboldt, studioso e
uomo politico così eminente, dedicò un trattato – che "il
fine dell'uomo, o ciò che è prescritto dai dettati eterni o
immutabili della ragione, non suggerito da desideri vaghi e passeggeri,
è il più elevato e armonioso sviluppo dei suoi poteri in
un'unità completa e coerente"; che quindi, lo scopo "a cui
ciascun essere umano deve costantemente tendere i suoi sforzi, e su cui debbono
sempre concentrarsi coloro che cercano di esercitare un influsso sui propri
simili, è l'individualità del potere e dello sviluppo"; che
ciò richiede due elementi, "la libertà, e la varietà
delle situazioni"; e che dalla loro unione nascono "il vigore individuale
e la molteplice diversità", che si combinano nella "originalità".
Tuttavia, per quanto poco gli uomini siano abituati a dottrine
come quella di von Humboldt,
e per quanto possano sorprendersi del valore che attribuisce
all'individualità, la questione può soltanto essere questione di grado: nessuno pensa che la migliore condotta
possibile sia di non fare assolutamente altro che copiarsi a vicenda. Nessuno
affermerebbe che gli uomini non dovrebbero esprimere in alcuna misura il
proprio giudizio o il proprio carattere individuale
nel loro modo di vivere e nella condotta dei loro affari. D'altra parte,
sarebbe assurdo pretendere che gli uomini debbano vivere come se prima che
venissero al mondo tutto fosse stato completamente ignoto; come se l'esperienza
non avesse ancora indicato in una certa misura che un dato modo di vivere o di
comportarsi è preferibile a un altro. Nessuno nega che da giovani gli
uomini debbano essere educati e addestrati a conoscere i risultati accertati
dall'esperienza umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta
condizione, dell'uomo, una volta giunto alla pienezza
delle sue facoltà, usare e interpretare l'esperienza a modo suo. Tocca a
lui determinare in quale misura l'esperienza già acquisita sia
opportunamente applicabile alle proprie circostanze e al proprio
carattere. Le tradizioni e i costumi di altri uomini mostrano, in una certa
misura, ciò che la loro esperienza ha loro insegnato: sono prove
indiziarie, e in quanto tali vanno rispettate. Ma, innanzitutto, la loro
esperienza può essere troppo limitata, o possono
non averla interpretata correttamente. In secondo luogo, la loro
interpretazione può essere corretta ma non adattarsi alle esigenze di un
dato individuo. In terzo luogo, anche se queste consuetudini sono sia positive
in quanto tali sia adatte al caso particolare, tuttavia il conformarsi
semplicemente alla consuetudine in quanto tale non educa o sviluppa
nell'individuo le qualità che sono patrimonio caratteristico di un
essere umano. Facoltà umane quali la percezione, il giudizio, il
discernimento, l'attività mentale, e persino la preferenza morale, si
esercitano soltanto nelle scelte. Chi fa qualcosa perché è l'usanza non
opera una scelta, né impara a discernere o a desiderare ciò che è
meglio. I poteri mentali e morali, come quelli muscolari, si sviluppano
soltanto con l'uso. Facendo qualcosa soltanto perché gli altri la fanno non si
esercitano queste facoltà, non più che credendo a qualcosa solo
perché altri ci credono. Se i fondamenti su cui si basa un'opinione non
convincono completamente la ragione individuale, quest'ultima non può
essere rafforzata e anzi spesso viene indebolita dalla
sua adozione. Analogamente se le motivazioni di un atto non sono consone ai
sentimenti e al carattere di un individuo (in casi che non coinvolgano gli
affetti, o i diritti altrui), compierlo contribuirà a renderli inerti e
torpidi invece che attivi e energici.
Chi permette al mondo, o alla parte di esso
in cui egli vive, di scegliergli la vita non ha bisogno di altre facoltà
che di quella dell'imitazione scimmiesca. Che si sceglie la vita esercita tutte
le sue facoltà. Deve usare l'osservazione per vedere, il ragionamento e
il giudizio per prevedere, l'attività per raccogliere gli elementi
decisionali, il discernimento per decidere, e, una volta presa deliberatamente
la decisione, la fermezza e il controllo di sé per attenervisi. E queste
qualità gli servono, e le esercita, esattamente nella misura in cui determina
la propria condotta secondo il proprio giudizio e i
propri sentimenti. Può accadere che finisca su una buona strada, e non
gli accada nulla di male, senza che faccia nulla di tutto ciò. Ma quale
sarà il suo valore relativo in quanto essere umano? Non sono soltanto le
azioni degli uomini a essere realmente importanti, ma anche i generi di uomini
che le compiono. Tra le opere umane che la vita giustamente si sforza di
perfezionare e rendere più belle, la prima in ordine d'importanza
è sicuramente l'uomo stesso. Supponendo che fosse possibile fare
costruire le case, coltivare il grano, combattere le battaglie, dibattere le
cause, e persino erigere le chiese e recitare le preghiere, da macchine – da
automi di apparenza umana –, si perderebbe molto sostituendole agli uomini e
alle donne che vivono oggi nelle regioni più civilizzate del mondo e che
pure sono certamente soltanto poveri esempi di ciò che la natura
può produrre e produrrà in futuro. La
natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da
regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha
bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle
forze interiori che lo rendono una creatura vivente.
Probabilmente tutti ammetteranno che è
auspicabile che gli uomini esercitino il loro intelletto, e che adeguarsi con
intelligenza alle usanze, e persino talvolta discostarsene intelligentemente,
è meglio che aderirvi ciecamente e meccanicamente. In una certa misura
si ammette che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la
medesima disposizione a ammettere che anche i nostri desideri e impulsi sono di
nostra competenza, o che avere impulsi propri, forti o
deboli che siano, possa costituire altro che un pericolo e una tentazione. E
tuttavia desideri e impulsi sono parte di un perfetto essere umano altrettanto
quanto le sue convinzioni e le restrizioni cui è sottoposto; e gli
impulsi vigorosi sono pericolosi solo in una situazione di squilibrio, quando
un gruppo di intenzioni e tendenze si sviluppa e si rafforza
mentre altre, che dovrebbero essere altrettanto presenti, restano deboli
e inattive. Non è perché i loro desideri sono vigorosi che gli uomini
agiscono male; è perché le loro coscienze sono deboli. Non vi è
una connessione naturale tra vigore di impulsi e debolezza di coscienza: la
connessione naturale è l'inversa. Affermare che i desideri e i
sentimenti di un individuo sono più forti e variati di quelli di un
altro significa semplicemente che ha una maggiore disponibilità di
materie prime della natura umana, e quindi è capace, forse di maggiore
male, ma certamente di maggior bene. I forti impulsi
non sono che un altro nome dell'energia. L'energia può essere impiegata
a fini cattivi; ma da una natura energica può venire maggior bene che da
una indolente e apatica. Gli uomini più
naturalmente dotati di sentimenti sono sempre quelli i cui sentimenti,
se coltivati, possono diventare i più forti. Le stesse profonde
sensibilità che rendono vividi e poderosi gli impulsi personali sono
anche la fonte da cui originano il più appassionato amore per la
virtù e il più severo autocontrollo. È coltivandole che la
società contemporaneamente compie il suo dovere e protegge i suoi interessi, non rifiutando la stoffa di cui sono fatti
gli eroi perché non sa come farli. Di una persona i cui desideri e impulsi siano i suoi – siano l'espressione della sua personale
natura, sviluppata e modificata dalla sua cultura – si dice che possiede un
carattere; una persona i cui desideri e impulsi non siano suoi non ha
più carattere di quanto ne abbia una macchina a vapore. Se, oltre a essere suoi, i suoi impulsi sono vigorosi e sono guidati
da una forte volontà, egli ha un carattere energico. Chiunque pensi che
l'individualità di desideri e impulsi non vada incoraggiata a esprimersi
deve ritenere che la società non ha bisogno di spiriti forti – non
è migliore se molti dei suoi membri hanno molto carattere – e che non
è auspicabile un alto livello medio di energia in generale. In alcuni
stadi iniziali della società, queste forze potevano essere, ed erano,
troppo superiori al potere di disciplinarle e controllarle a disposizione della
società. Vi è stata un'epoca in cui l'elemento di
spontaneità e individualità era eccessivo, e il principio sociale
dovette lottare duramente contro di esso. A quei tempi
la difficoltà consisteva nell'indurre uomini fisicamente o mentalmente
vigorosi a obbedire a qualsiasi norma che gli richiedesse
di controllare i propri impulsi. Per superare questa difficoltà, la
legge e la disciplina, come nel caso della lotta dei papi contro gli
imperatori, affermarono il loro potere sull'uomo nel suo complesso, pretendendo
di controllarne l'intera vita per controllarne il
carattere, che la società non era riuscita a vincolare in alcun altro
modo. Ma oggi la società ha senza dubbio prevalso
sull'individualità; e il periodo che minaccia la natura umana non
è l'eccesso, ma la carenza di impulsi e preferenze individuali. La
situazione è molto cambiata da quando le
passioni di chi era più forte, per posizione sociale o per doti
personali, erano in una condizione di rivolta permanente contro la legge e
l'ordine, e rendevano necessario incatenarle rigorosamente per permettere a chi
si trovava nel loro raggio d'azione di godere di un minimo di sicurezza. Nella
nostra epoca, tutti, dalla più elevata alla più infima classe
sociale, vivono come se fossero sotto lo sguardo di un censore ostile e
tremendo. Non soltanto nelle questioni che riguardano gli altri, ma anche in
quelle che riguardano soltanto loro, l'individuo o la famiglia non si chiedono
"Che cosa preferisco?" oppure "Che cosa si addice al mio
carattere e alle mie inclinazioni?", o "Che
cosa permetterebbe alle mie qualità migliori e più elevate di
esprimersi e di crescere rigogliosamente?": si chiedono "Che cosa si
addice alla mia posizione?", "Come si comportano abitualmente le
persone della mia condizione economica e sociale?" o (peggio ancora)
"Come si comportano abitualmente le persone di condizioni economiche e
sociali superiori alle mie?". Non voglio dire che scelgono la consuetudine
invece di ciò che si addice alle loro inclinazioni: non hanno inclinazioni che non siano per la consuetudine. Così
la stessa mente si piega sotto il giogo: persino negli svaghi, gli uomini
pensano prima di tutto a conformarsi; gli piace stare tra la folla; esercitano
la scelta solo tra cose e pratiche comuni; sfuggono l'originalità
del gusto e l'eccentricità di comportamento come fuggono il crimine,
finché a forza di non seguire la propria natura non hanno più natura
propria; le loro facoltà umane deperiscono e si inaridiscono; diventano
incapaci di desideri vigorosi e di piaceri naturali, e generalmente sono privi
di opinioni e sentimenti autonomamente sviluppati, o che possano chiamare
propri. È questa dunque la condizione auspicabile della natura umana?
Lo è, stando alla teoria calvinista. Per essa,
la grande colpa è l'autonomia della volontà. Tutto il bene di cui
è capace l'umanità si riassume nell'obbedienza. Non c'è
scelta; si deve agire in un certo modo, e non altrimenti: "Tutto
ciò che non è dovere è peccato". Poiché la natura
umana è radicalmente corrotta, nessuno è redento finché la sua
non viene uccisa. Per chi crede in questa teoria
dell'esistenza, schiacciare ed eliminare tutte le facoltà,
capacità e sensibilità umane non è un male: la sola
capacità di cui l'uomo ha bisogno è quella di arrendersi alla
volontà di Dio; e se usa qualunque sua facoltà per uno scopo che
non sia l'attuazione più efficace di questa presunta volontà,
meglio sarebbe che non l'avesse. Questa è la teoria del Calvinismo; essa
è condivisa da molti che non si considerano calvinisti in una
formulazione più moderata, consistente in un'interpretazione meno
ascetica del supposto volere divino, secondo cui gli uomini dovrebbero
soddisfare alcune loro inclinazioni, naturalmente non nel modo che preferiscono
ma nell'obbedienza, cioè in un modo prescritto dall'autorità e
quindi, per necessità del caso, identico per tutti.
Attualmente esiste, sotto forme insidiose di questo genere, una
forte tendenza favorevole a questa ristretta visione dell'esistenza, e al
genere di personalità tormentata e piena di pregiudizi da essa favorita. Senza dubbio molti pensano in tutta
sincerità che degli uomini così bloccati e rimpiccioliti siano
ciò che il loro Creatore intendeva che fossero, esattamente come molti
altri ritengono che gli alberi siano molto più belli potati, o modellati
in forma di animali, che così come natura li ha fatti. Ma se la
convinzione che l'uomo sia stato creato da un Essere buono fa parte integrante
della religione, è più coerente con essa
pensare che Egli ha dato agli uomini tutte le loro facoltà perché siano
coltivate e sviluppate, non sradicate e bruciate, e che si compiace ad ogni
passo delle sue creature verso la concezione ideale in esse incarnata, a ogni
aumento di ogni loro capacità di comprensione, di azione o di gioia. Vi
è un ideale di perfezione umana diverso da quello di Calvino: una
concezione secondo cui l'umanità è stata dotata della sua natura
per altri fini che per rinnegarla. L'"affermazione di sé" dei pagani
è una componente del valore dell'uomo, altrettanto quanto la
"negazione di sé dei cristiani". Vi è un ideale greco di
sviluppo di se stessi, che si fonde con l'ideale platonico e cristiano del
controllo di se stessi ma non ne viene sostituito.
Forse è meglio essere un John
Knox che un Alcibiade, ma è sicuramente meglio
essere un Pericle che uno dei due; né un Pericle, se esistesse oggi, sarebbe
privo delle qualità di John Knox.
Non è stemperando nell'uniformità
tutte le caratteristiche individuali, ma coltivandole e facendo appello
ad esse entro i limiti imposti dai diritti e dagli interessi altrui, che gli
uomini diventano nobili e magnifici esempi di vita; e poiché le opere
partecipano del carattere di chi le compie, mediante lo stesso processo anche
la vita umana si arricchisce, si diversifica e si anima, fornendo maggiore
stimolo ai pensieri e sentimenti più elevati, e rafforzando il legame
che unisce ciascun individuo alla sua stirpe, perché la rende infinitamente
più degna di appartenervi. Proporzionalmente allo sviluppo della propria
individualità ciascuno acquista maggior valore ai propri occhi, e quindi
può aver maggior valore per gli altri. L'esistenza individuale è
più piena, e quando le singole unità sono più vitali lo
è anche la massa che compongono. Non si può fare a meno di
esercitare la repressione, nella misura necessaria a impedire agli esemplari
umani più forti di violare i diritti altrui; ma ciò viene ampiamente compensato anche dal punto di vista dello
sviluppo umano. I mezzi di svilupparsi che l'individuo perde
quando gli viene impedito di soddisfare le sue inclinazioni a danno di
altri sono generalmente ottenuti a spese altrui. E anche per l'individuo stesso
vi è una completa compensazione, sotto forma di un migliore sviluppo
dell'aspetto sociale della sua natura, reso possibile dai vincoli imposti a
quello egoistico. Il fatto di essere vincolati a rigide norme di giustizia per
il bene altrui sviluppa i sentimenti e le capacità che portano a
compierlo. Ma venire repressi in campi che non riguardano il benessere degli
altri, soltanto a causa della loro disapprovazione, non sviluppa nulla di
valido, salvo eventualmente quella forza di carattere che si esplica nella
resistenza alle costrizioni e che, se prende il sopravvento, intorpidisce e
affievolisce l'intera personalità. Perché la natura di ciascuno abbia
ogni opportunità di esplicarsi, è essenziale che sia consentito a
persone diverse di condurre vite diverse. Il valore
che ogni periodo storico ha acquisito tra i posteri è direttamente
proporzionale alla libertà che sotto questo aspetto ha concesso a chi vi
è vissuto. Persino il dispotismo non arriva a produrre i peggiori
effetti di cui è capace se ammette l'esistenza
dell'individualità; e tutto ciò che la sopprime è
dispotismo, comunque lo si chiami, e indipendentemente
dal fatto che sostenga di voler far rispettare la volontà divina o i
comandi degli uomini.
Avendo detto che
l'individualità coincide con il progresso, e che solo la sua
coltivazione produce, o può produrre, esseri umani compiutamente
sviluppati, potrei concludere qui; poiché la maggiore e più esplicita
lode che si possa fare di uno stato di cose è dire che aiuta gli uomini
a realizzarsi al meglio delle loro possibilità; e affermare che glielo
impedisce o li ostacola è la peggiore condanna. Tuttavia non vi è dubbio che queste considerazioni non
basteranno a convincere coloro che più hanno bisogno di esserlo; e
quindi è necessario dimostrare che lo sviluppo di alcuni ha una certa
utilità anche per chi non si sviluppa – mostrare cioè a coloro
che non desiderano la libertà e non se ne servirebbero che possono
essere ricompensati in modo a loro comprensibile se permettono ad altri di
farne uso indisturbati.
Innanzitutto direi loro che avrebbero forse la possibilità
di imparare qualcosa dagli altri. Nessuno negherà che nella vita
l'originalità è preziosa. C'è sempre bisogno di gente che
non solo scopra verità nuove e mostri che
quelle che una volta erano delle verità non lo sono più, ma anche
inizi attività nuove e dia esempio di comportamento più
illuminato e di maggiore sensibilità e razionalità di vita.
Quest'asserzione è difficilmente confutabile da chiunque non creda che
il mondo abbia già raggiunto la completa perfezione. È
vero che non tutti sono capaci di esercitare questo ruolo benefico; rispetto al
totale degli uomini, sono pochi coloro i cui esperimenti, se adottati dagli
altri, potrebbero rivelarsi migliori della pratica consolidata: ma sono il sale
della terra; senza di loro la vita ristagnerebbe. Non soltanto sono loro
a introdurre le novità positive, ma anche a conservare quanto di
positivo già esiste. Se non ci fosse più nulla di nuovo da
realizzare, l'intelletto umano cesserebbe forse di essere necessario? Sarebbe
un buon motivo per dimenticare le ragioni per cui si fanno le cose che
già si conoscono, e farle come bestie e non come esseri umani? Anche le
convinzioni e le pratiche migliori hanno una tendenza fin troppo grande a
degenerare nel meccanico; e se non si succedessero persone la cui incessante
originalità impedisce che queste convinzioni o pratiche perdano la loro
ragione di essere e diventino mere tradizioni, questo complesso di cose morte
non resisterebbe al minimo scontro con qualsiasi cosa che sia realmente viva, e
non ci sarebbe motivo che la civiltà non perisca, come è avvenuto
nel caso dell'Impero di Bisanzio. È vero che
le persone di genio sono una piccola minoranza e probabilmente lo saranno
sempre; ma perché vi siano è necessario conservare il terreno in cui
crescono. Il genio può respirare liberamente soltanto in un'atmosfera
di libertà. Le persone di genio sono, per definizione, più
individualiste di chiunque altro – quindi meno capaci di
adeguarsi senza dolorose deformazioni a uno dei pochi modelli che la
società offre ai suoi membri per risparmiare loro il fastidio di
formarsi il proprio carattere. Se, per timore, esse permettono che le si costringa entro un modello, e rinunciano a espandere
quella parte di sé che esso comprime, la società non trarrà alcun
beneficio dal loro genio. Se hanno un carattere forte e spezzano i loro legami,
diventano bersaglio della società che non è riuscita a ridurle
alla banalità, e vengono solennemente bollate
come "agitati", "stravaganti", eccetera – atteggiamento
analogo a quello di chi protesti perché il Niagara non scorre placido tra le
sue sponde come i canali olandesi.
Insisto quindi vigorosamente sull'importanza del genio e la
necessità di permettergli di esplicarsi liberamente, sia nel pensiero
sia nella pratica, rendendomi ben conto che nessuno mi contraddirà in
teoria, ma sapendo che la questione non importa quasi a nessuno. La gente pensa
che il genio sia una gran bella cosa se permette di scrivere magnifiche poesie
o di dipingere quadri. Ma, del genio nel suo vero senso di originalità
di pensiero e di azione, anche se nessuno dice che non va ammirato, quasi tutti
tra sé pensano di poter fare benissimo a meno. Purtroppo è un
atteggiamento così naturale che non stupisce neppure.
L'originalità è l'unica cosa di cui coloro che originali non sono
non possono comprendere l'utilità. Non vedono a che cosa gli serva: e come potrebbero? Se lo potessero, non si
tratterebbe più di originalità. Il primo servizio che
l'originalità può rendere a questo tipo di persone è
aprirgli gli occhi: quando li avessero completamente aperti, avrebbero la
possibilità di essere a loro volta originali.
Nel frattempo, e ricordando che c'è stata sempre una prima volta e che
tutto ciò che di buono vi è al mondo è
frutto dell'originalità, gli uomini dovrebbero essere abbastanza modesti
da credere che essa ha ancora un ruolo da svolgere, e convincersi che quanto
meno ne sentono la mancanza tanto più ne hanno bisogno.
La semplice verità è che, indipendentemente dagli
omaggi tributati a parole o anche nei fatti alla superiorità
intellettuale, reale o presunta, la tendenza generale del mondo è al
predominio della mediocrità. Nell'antichità, nel Medioevo, e, in
misura decrescente, durante la lunga transizione dal feudalesimo alla
società odierna, l'individuo costituiva un potere a sé; e se aveva
grandi talenti o una posizione sociale elevata era un potere considerevole.
Oggi gli individui si perdono nella folla. In politica, dire che governa
l'opinione pubblica è quasi una banalità. Il solo potere che
meriti di essere chiamato tale è quello delle masse, e dei governi
finché si rendono espressione delle tendenze e degli istinti delle masse.
Questo è altrettanto vero nei rapporti morali e sociali privati che nelle
transazioni pubbliche. Coloro la cui opinione viene
chiamata opinione pubblica non sono sempre lo stesso pubblico: in America sono
l'intera popolazione bianca; in Inghilterra sono principalmente la classe
media. Ma in tutti i casi si tratta di una massa, cioè della
mediocrità collettiva. E, novità ancora maggiore, oggi le masse
non ricevono più le loro opinioni dalle gerarchie ecclesiastiche e
statali, da capi visibili, o dai libri. Chi pensa per loro conto sono uomini
molto simili a loro, che li arringano o parlano a loro nome, sull'impulso del
momento, attraverso i giornali. Non mi sto lamentando. Non affermo che il basso
livello intellettuale dell'umanità consentirebbe, in genere, qualcosa di
meglio. Ma ciò non toglie che il governo della mediocrità sia un governo mediocre. Nessun governo democratico o di
un'aristocrazia numerosa si è mai sollevato al di sopra della
mediocrità – né poteva farlo –, né nei suoi atti politici né nelle
opinioni, qualità e stile intellettuali che favoriva; fanno eccezione alcuni
capi supremi. Molti si sono lasciati guidare (e ciò ha sempre coinciso
con i loro periodi migliori) dai consigli e dall'influenza di una persona
più dotata, e hanno trasmesso le loro esperienze a una o a poche
persone. Tutto ciò che è saggio e nobile viene
iniziato, e deve esserlo, da individui: generalmente da uno solo. L'onore e il
merito dell'uomo medio stanno nel fatto che è capace di seguire questa
iniziativa; che può reagire interiormente alla saggezza e alla
nobiltà, e vi può essere portato coscientemente. Non sto facendo
l'elogio di quel tipo di "culto dell'eroe" che approva l'uomo forte e
di genio che si impadronisce con la forza del governo del mondo e costringe
quest'ultimo a obbedirgli suo malgrado. Un uomo del genere può solo
chiedere la libertà di indicare la via: il potere di costringere gli
altri a seguirla non solo è incompatibile con la libertà e lo
sviluppo di tutto il resto, ma corrompe lo stesso uomo forte. A quanto pare,
tuttavia, ora che le opinioni di masse di gente semplicemente media sono
diventate o stanno diventando il potere dominante
dappertutto, il contrappeso che corregge la tendenza dovrebbe essere la sempre
più accentuata individualità dei pensatori più elevati.
È proprio in queste circostanze che gli individui eccezionali, invece di
venirne dissuasi, dovrebbero essere incoraggiati ad agire in modo differente
dalle masse. In altri tempi ciò non implicava benefici, salvo nel caso
in cui le loro attività non fossero solo
diverse, ma anche migliori. Nella nostra epoca, il semplice esempio di
anticonformismo, il mero rifiuto di piegarsi alla consuetudine, è di per se stesso un servigio all'umanità. Proprio
perché la tirannia dell'opinione è tale da rendere riprovevole
l'eccentricità, per infrangere l'oppressione è auspicabile che
gli uomini siano eccentrici. Nei periodi in cui la forza di carattere era
frequente, lo era sempre anche l'eccentricità; e la sua presenza in una
società è generalmente stata proporzionale a quella del genio,
del vigore intellettuale e del coraggio morale. Il fatto che oggi così
pochi osano essere eccentrici indica quanto siamo in pericolo.
Ho affermato che è importante che vi sia la più
ampia libertà di svolgere ogni attività inconsueta, affinché col
tempo emergano chiaramente quelle che meritano di diventare consuetudini. Ma
l'indipendenza nell'azione e l'indifferenza nei confronti della tradizione non
vanno incoraggiate soltanto perché offrono la possibilità di tracciare
vie migliori, e indicare consuetudini più degne di essere generalmente
adottate; né sono soltanto le persone di intelletto nettamente superiore ad
avere giusto diritto a vivere a loro modo. Non vi
è ragione alcuna perché tutta l'esistenza umana si articoli secondo uno
o pochi schemi. Se una persona è dotata di un minimo tollerabile di buon
senso e esperienza, il suo modo di formare la propria esistenza è il
migliore, non perché lo sia di per se stesso, ma
perché è il suo. Gli esseri umani non sono come le pecore: e persino le pecore non sono tutte identiche. Un uomo non può
comprarsi un cappotto o delle scarpe che gli vadano
bene se non gli vengono fatti su misura o non ha a sua disposizione un intero
magazzino per sceglierli; è forse più facile trovargli una vita
che un cappotto su misura, oppure gli uomini sono più simili nella loro
intera conformazione fisica e spirituale che nella forma dei loro piedi? Anche
se fossero diversi soltanto nei gusti, questa sarebbe una ragione sufficiente
per non cercare di uniformarli tutti allo stesso modello. Ma persone diverse
richiedono anche condizioni diverse di sviluppo
spirituale; e non possono vivere tutte in salute nello stesso clima morale
più di quanto tutte le piante non possano coesistere salubremente nella
stessa atmosfera e clima fisici. Gli stessi fattori che favoriscono lo sviluppo
della natura più elevata di una persona ostacolano quello di un'altra.
Lo stesso modo di vivere è per l'uno sano e stimolante e ne favorisce al
massimo la capacità di agire e di godersi la vita, mentre per un altro
costituisce un peso intollerabile che paralizza o annienta tutta la sua vita
interiore. Gli uomini sono così diversi nei loro motivi di gioia, nelle
sensibilità al dolore, nel modo e nei mezzi, fisici e morali, in cui li
esplicano, che se non esiste una corrispondente diversità nei loro modi
di vivere non ottengono la felicità che spetta loro né sviluppano la
statura intellettuale, morale e estetica di cui la loro natura è capace.
Perché allora la tolleranza, intesa come sentimento pubblico, dovrebbe
limitarsi ai gusti e ai modi di vita che strappano il consenso semplicemente a
causa della massa dei propri seguaci? La diversità non è mai
totalmente disconosciuta (salvo che in qualche ordine monastico); a una persona
può senza infamia piacere o no il canottaggio, il fumo, la musica,
l'esercizio atletico, gli scacchi, le carte o lo studio, perché sia coloro a cui piacciono queste attività sia quelli a cui
dispiacciono sono troppo numerosi per poter essere ridotti al silenzio. Ma
l'uomo, e ancor più la donna, che possono essere accusati o di fare
"quel che nessuno fa" o di fare "quel
che fanno tutti" sono oggetto di altrettanto disprezzo che se avessero
commesso un grave crimine morale. La gente ha bisogno di un titolo nobiliare, o
di un altro segno di rango, o di essere tenuta in considerazione da persone socialmente
elevate, per potersi permettere in una certa misura il lusso di fare ciò
che gli piace senza danno per la reputazione. In una certa misura, ripeto:
poiché chiunque si permetta di oltrepassarla rischia più che dei
commenti sprezzanti – rischia l'internamento in
manicomio e il sequestro delle sue proprietà, che finiscono ai parenti. La tendenza attuale dell'opinione
pubblica presenta una caratteristica particolarmente adatta a renderla
intollerante di qualsiasi spiccata dimostrazione di individualità. La
media degli uomini è moderata, non solo nell'intelletto ma nelle
inclinazioni; non hanno gusti o desideri abbastanza forti da spingerli ad
azioni insolite, e di conseguenza non capiscono chi li ha, e lo classificano
tra le persone squilibrate e smodate, a cui sono
abituati a sentirsi superiori. Basta combinare questo fenomeno, che è
generale, con l'ulteriore ipotesi che si formi un forte movimento moralista e
il risultato è facilmente prevedibile. Oggi siamo in
presenza di un movimento di questo genere; i comportamenti si sono molto
uniformati e gli eccessi vengono scoraggiati con decisione; e aleggia uno
spirito filantropico che non trova per esercitarsi campo più invitante del
miglioramento della moralità e della prudenza dei nostri simili. Queste
tendenze attuali fanno sì che il pubblico sia più disposto di
quanto non lo fosse in generale nel passato a prescrivere norme generali di
condotta e a sforzarsi di far conformare tutti al criterio comunemente
accettato. E questo criterio, esplicito o tacito, è non desiderare
fortemente nulla. Il suo ideale di carattere è la mancanza di qualunque carattere spiccato – è storpiare, comprimendola come
il piede di una nobildonna cinese, qualsiasi parte della natura umana che si
distingua dalle altre e tenda a rendere l'individuo nettamente dissimile
dall'umanità comune.
Come solitamente avviene nel caso di ideali che escludono la
metà di ciò che è complessivamente auspicabile, il
criterio odierno produce solo un'imitazione scadente dell'altra metà.
Invece di grandi energie guidate da una ragione vigorosa, e profondi sentimenti
fortemente controllati da una volontà
cosciente, produce sentimenti e energie deboli, che quindi possono mantenersi
esteriormente conformi alla norma senza alcuna forza di volontà o di
intelletto. Le personalità energiche stanno già diventando rare
in ogni campo. Nel nostro paese l'energia non ha quasi altro sfogo che gli
affari, che in effetti ne impegnano ancora una quantità
notevole. Il poco che resta è speso in qualche passatempo, che
può essere utile e persino filantropico, ma è sempre una cosa
sola, generalmente di piccole dimensioni. Ormai la grandezza
dell'Inghilterra è tutta collettiva; individualmente piccoli, sembriamo
capaci di grandi cose solo in virtù della nostra abitudine ad
associarci; e di questo i nostri filantropi morali e religiosi sono
perfettamente soddisfatti. Ma furono uomini di altro stampo a fare
dell'Inghilterra quello che è stata; e uomini
di altro stampo ci vorranno per evitarne il declino.
Ovunque il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del
progresso umano, ed è in costante antagonismo con quella disposizione a
tendere verso qualcosa che sia migliore
dell'abitudine, chiamata a seconda delle circostanze, spirito di libertà
o di progresso o di innovazione. Lo spirito di progresso non
è sempre spirito di libertà, perché può cercare di imporre
a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone
resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può
allearsi localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso; ma la
libertà è l'unico fattore infallibile e permanente di progresso,
poiché fa sì che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del
progresso siano tanti quanti gli individui. Tuttavia, il principio
progressivo, sia sotto forma di amore per la libertà sia di amore del nuovo, è antagonistico alla consuetudine,
poiché implica inevitabilmente l'emancipazione dal suo giogo; e il conflitto
tra i due è il motivo conduttore della storia umana. A stretto rigor di
termini, la maggior parte del mondo non ha storia, perché il dispotismo della
consuetudine vi è totale: è il caso di tutto l'Oriente. In esso la consuetudine è in tutti i campi il criterio
ultimo; giustizia e diritto significano conformità alle usanze; a
nessuno che non sia un tiranno inebriato di potere viene in mente di opporsi
all'argomento della tradizione. E ne vediamo i risultati. Quei
paesi devono aver posseduto, a suo tempo, dell'originalità; non sono
nati popolosi, colti, e versati in molte arti della vita; lo sono diventati con
le loro forze, e allora erano le nazioni più grandi e potenti del mondo.
Che cosa sono oggi? Sudditi o dipendenti di tribù i cui antenati
vagavano nelle foreste quando i loro avevano magnifici
palazzi e splendidi templi, ma obbedivano in parte alla consuetudine, in parte
al desiderio di libertà e progresso. A quanto pare, un popolo può
progredire per un certo periodo, e poi fermarsi: quando si ferma?
Quando cessa di possedere l'individualità. Se un simile mutamento si
verificasse nelle nazioni d'Europa, non prenderebbe esattamente la stessa
forma: il dispotismo delle usanze che le minaccia non
è precisamente la staticità. Mette al bando la
singolarità, ma non preclude il mutamento, purché tutti cambino insieme.
Abbiamo abbandonato il modo di vestire dei nostri padri. Ci dobbiamo ancora
vestire tutti allo stesso modo, ma la moda può cambiare una o due volte all'anno. Quindi facciamo sì che ogni eventuale
mutamento sia fine a se stesso, e non origini da un'esigenza di bellezza o di
comodità: poiché l'identico concetto di bellezza e comodità non
potrebbe afferrare simultaneamente tutto il mondo a un dato momento, né sarebbe
simultaneamente respinto da tutti in un altro. Ma siamo progressivi, oltre che
mutevoli: inventiamo continuamente nuovi strumenti meccanici, e li teniamo fino
a quando non li sostituiamo con altri migliori;
cerchiamo zelantemente di migliorare la politica, l'educazione e perfino la
morale, anche se in quest'ultimo campo il nostro concetto di miglioramento
consiste soprattutto nel persuadere o costringere gli altri a essere buoni
quanto noi. Non è al progresso che obiettiamo; al contrario, ci
illudiamo di essere il popolo più progressivo che sia mai esistito.
È l'individualità che combattiamo: se riuscissimo a renderci
tutti uguali penseremmo di aver fatto meraviglie, dimenticando che la
differenza tra due persone è generalmente il primo elemento che richiama
l'attenzione di entrambe alla propria imperfezione e all'altrui
superiorità, o alla possibilità di produrre qualcosa migliore di
entrambe combinando i meriti rispettivi. Ci ammonisca l'esempio della Cina – nazione di grande talento e, sotto certi
aspetti, persino di grande saggezza, che ha avuto la rara fortuna di ricevere
all'inizio della sua storia un complesso di usanze e consuetudini
particolarmente buone, opera in una certa misura di uomini cui anche gli
europei più illuminati devono concedere, pur entro certi limiti, il
primato nella saggezza e nella filosofia. Colpisce inoltre la qualità e
l'efficacia del meccanismo usato dai cinesi per trasmettere, nella misura del
possibile, la loro migliore cultura a tutti i membri della comunità, e
far sì che coloro che più ne erano imbevuti ricoprissero
le cariche più importanti.
Ci si sarebbe aspettati che la Cina
scoprisse il segreto del progresso umano e si mantenesse costantemente alla
testa del movimento di innovazione mondiale. Invece, sono diventati statici –
lo sono rimasti per migliaia d'anni, e se mai riusciranno a migliorare,
dovrà essere ad opera di stranieri. Sono
riusciti al di là di ogni aspettativa in ciò a
cui tendono così industriosamente i filantropi inglesi – a
formare un popolo tutto uguale, i cui pensieri e le cui azioni sono guidati dalle
stesse massime e norme: ed eccone i risultati. Il
moderno dominio della pubblica opinione è, in forma disorganizzata,
ciò che il sistema educativo e politico cinese è in forma
organizzata; e se l'individualità non riuscirà a farsi valere
contro questo giogo, l'Europa, nonostante il suo nobile passato e il suo
proclamato Cristianesimo, tenderà a diventare un'altra Cina.
Che cosa ha finora risparmiato all'Europa questa sorte? Che cosa
ha reso le nazioni europee un settore dell'umanità che si evolve e non
resta statico? Nessuna loro intrinseca superiorità – che, quando esiste,
è un effetto e non una causa –, ma piuttosto la notevole
diversità di caratteri e culture. Individui, classi e nazioni sono stati
estremamente diversi gli uni dagli altri: hanno tracciato una gran
quantità di vie, che portavano tutte a qualcosa di valido; e anche se in
ogni epoca chi percorreva vie diverse non tollerava gli altri, e avrebbe
giudicato ottima cosa costringerli tutti a seguire la sua strada, i tentativi
reciproci di impedire il progresso altrui hanno raramente avuto un successo
definitivo, e a lungo andare tutti hanno avuto la possibilità di
recepire i risultati positivi altrui. A mio giudizio, l'Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo
progressivo e multiforme; ma è una dote che si sta già riducendo
in misura considerevole. L'Europa sta decisamente avanzando verso l'ideale
cinese di rendere tutti gli uomini uguali. Il signor de Tocqueville,
nella sua ultima importante opera, osserva che i francesi di oggi si
rassomigliano molto di più di quelli anche solo della generazione
precedente. Un inglese potrebbe dire lo stesso, e a molto maggior ragione. In
un passo già citato, Wilhelm von Humboldt indica due
condizioni necessarie allo sviluppo umano – perché necessarie
per differenziare gli uomini –, la libertà e la varietà di
situazioni. In questo paese, la seconda condizione svanisce ogni giorno di
più. Le circostanze in cui vivono classi e individui diversi, e che ne
formano i caratteri, diventano di giorno in giorno più simili. Una
volta, strati sociali, comunità locali, mestieri e professioni diversi
vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi diversi; oggi il mondo è in buona misura lo stesso per tutti.
Relativamente parlando, oggi la gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse cose, va negli stessi posti,
spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi diritti, e
le stesse possibilità di farli valere. Per quanto siano grandi le
differenze che ancora sussistono tra gli uomini, non sono nulla in confronto a
quelle che sono scomparse. E il processo di assimilazione continua: lo
favoriscono tutti i mutamenti politici di questo periodo, che tendono senza
eccezione a innalzare chi sta in basso e viceversa. Lo favorisce ogni
estensione dell'istruzione, perché essa sottopone tutti a influenze comuni e li
pone in contatto con il complesso delle conoscenze e dei sentimenti generali.
Lo favorisce il miglioramento delle comunicazioni, che pone in contatto gli
abitanti di località distanti tra loro e incoraggia rapidi e frequenti
spostamenti di residenza da un posto all'altro. Lo favorisce l'espansione del
commercio e dell'industria manifatturiera, che diffonde sempre più
ampiamente i benefici materiali e offre alla competizione generale anche i
più elevati oggetti di ambizione, per cui il
desiderio di ascendere nella società non caratterizza più una
classe particolare, ma tutte. Un fattore che ancor più di questi appena
elencati favorisce la generale somiglianza degli uomini è l'influenza,
ormai consolidata in questo e altri paesi dell'opinione pubblica sullo Stato.
Col graduale livellamento delle varie distinzioni sociali che permettevano a
chi si barricava dietro di esse di ignorare l'opinione
delle masse; con la progressiva sparizione dalle menti degli uomini politici
dell'idea stessa di opporsi alla volontà pubblica, nei casi in cui la si
conosca con certezza, il nonconformismo perde
qualsiasi sostegno sociale. Scompare cioè qualsiasi consistente potere
sociale che, essendo di per se stesso contrario al
dominio della massa, sia interessato ad assumersi la protezione di opinioni e
tendenze diverse da quelle del grande pubblico.
La combinazione di queste cause forma una tale massa di influenze
ostili all'individualità che è difficile immaginare come essa riuscirà a sopravvivere. Incontrerà
difficoltà sempre maggiori se non si riesce a farne comprendere il
valore alla parte più intelligente del pubblico – a fargli capire che la
diversità è positiva, anche se non è sempre migliore e
talvolta può sembrare peggiore di ciò che è comunemente
accettato. Se i diritti dell'individualità devono essere fatti valere,
questo è il momento, quando manca ancora molto perché l'assimilazione
forzata sia completa. È solo resistendo fin dall'inizio che si possono
sconfiggere gli abusi. La pretesa che tutti si rassomiglino
cresce quanto più la si nutre: se si aspetta a resistere fino a quando
la vita non sarà quasi completamente ridotta a un tipo uniforme,
ogni deviazione da esso finirà coll'essere
considerata empia, immorale, persino mostruosa e contro natura. Gli uomini
diventano rapidamente incapaci di concepire la diversità
quando per qualche tempo si sono disabituati a vederla.
IV
Dei limiti all'autorità della società sull'individuo
Qual è allora il giusto limite alla sovranità
dell'individuo su se stesso? Dove comincia l'autorità della
società? Quanto della vita umana spetta all'individualità e
quanto alla società?
Ciascuna riceverà la parte che le spetta se le viene attribuito ciò che la riguarda più
direttamente. All'individualità dovrebbe appartenere la sfera che
interessa principalmente l'individuo; alla società, quella che interessa
principalmente la società.
Anche se la società non si fonda su un contratto, e sarebbe
inutile inventarne uno per dedurne degli obblighi sociali, chiunque riceva la
sua protezione deve ripagare il beneficio, e il fatto di vivere in
società rende indispensabile che ciascuno sia obbligato a osservare una
certa linea di condotta nei confronti degli altri. Questa condotta consiste, in
primo luogo, nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi che, per esplicita disposizione di legge o per
tacito accordo, dovrebbero essere considerati diritti; e, secondo, nel
sostenere la propria parte (da determinarsi in base a principi equi) di fatiche
e sacrifici necessari per difendere la società o i suoi membri da danni
e molestie. La società ha il diritto di far valere a tutti i costi
queste condizioni nei confronti di coloro che tentano di non adempiervi. Né
questo è tutto ciò che la società può fare. Gli
atti di un individuo possono arrecare danno ad altri o non tenere in giusta
considerazione il loro benessere, senza giungere al punto di violare alcuno dei
loro diritti costituiti. In questo caso il colpevole può essere
giustamente condannato dall'opinione, ma non dalla legge. Non appena qualsiasi
aspetto della condotta di un individuo diventa pregiudiziale degli interessi
altrui, ricade sotto la giurisdizione della società, e ci si può
chiedere se questa interferenza giovi o meno al
benessere generale. Ma tale questione non si pone in alcun modo
quando la condotta di un individuo coinvolge soltanto i suoi interessi,
o coinvolge quelli di altre persone consenzienti (tutti essendo maggiorenni e
dotati di normali facoltà mentali). In tutti questi casi, vi dovrebbe
essere piena libertà, legale e sociale, di compiere l'atto e subirne le
conseguenze.
Sarebbe un grave malinteso supporre che si tratti di una dottrina
ispirata a egoistica indifferenza, secondo la quale la vita di ciascuno non
è affare degli altri e gli uomini non devono preoccuparsi del benessere
reciproco, a meno che non vi siano coinvolti i loro interessi. Al contrario,
gli sforzi disinteressati per il bene altrui non vanno diminuiti, ma grandemente
aumentati. Ma la benevolenza disinteressata può persuadere gli uomini a
compiere il proprio bene senza far uso di sferze o flagelli, letterali o
metaforici che siano. Sono l'ultimo a sottovalutare le virtù verso se
stessi: per importanza sono seconde, se lo sono, soltanto a quelle sociali.
Tocca all'educazione coltivarle entrambe: ma anche l'educazione
opera con la convinzione e la persuasione oltre che con la costrizione, e solo
mediante le prime due, finito il periodo educativo dovrebbero essere insegnate
le virtù verso se stessi. Gli uomini hanno il dovere reciproco di
aiutarsi a distinguere il bene dal male, e incoraggiarsi a scegliere il primo e
evitare il secondo. Dovrebbero sempre stimolarsi vicendevolmente a esercitare
maggiormente le facoltà più elevate e a dirigere sentimenti e
azioni verso scopi e pensieri saggi e non insensati, nobilitanti e non
degradanti. Ma nessuno, e nessun gruppo, è autorizzato a dire a un
adulto che per il suo bene non può fare della sua
vita quel che sceglie di farne. Ciascuno è la persona
maggiormente interessata al proprio benessere; L'interesse che chiunque altro
può avervi, salvo che in casi di profondi legami personali, è
minimo in confronto al suo; L'interesse che la società ha per lui in
quanto individuo (cioè eccezion fatta per la sua condotta verso gli
altri) è scarsissimo e del tutto indiretto, e inoltre l'uomo o la donna
più ordinari hanno mezzi di conoscere i propri sentimenti e la propria
condizione incommensurabilmente superiori a quelli di cui può disporre chiunque
altro. L'interferenza della società in ciò che riguarda
solo l'individuo al fine di prevaricarne giudizio e intenzioni, si fonda per
forza su presupposizioni generiche, che possono essere completamente sbagliate,
e che, anche se giuste, hanno buone probabilità di essere applicate
erroneamente ai casi specifici da persone che non ne conoscono le circostanze
né più né meno di qualunque altro osservatore esterno. È quindi
in questo settore delle attività umane che l'individualità trova
il suo giusto campo d'azione. Nel comportamento reciproco degli uomini,
è necessario che le norme generali vengano
sostanzialmente rispettate, perché gli altri sappiano che cosa aspettarsi da
una determinata situazione; ma, nelle questioni che riguardano solo il singolo,
la spontaneità individuale di ciascuno ha diritto a esercitarsi
liberamente. Gli altri possono proporgli, o persino imporgli, delle
considerazioni che lo aiutino nel giudizio, o delle esortazioni che ne
rafforzino la volontà; ma è lui il giudice ultimo. Tutti gli
errori che può commettere ignorando consigli e ammonimenti saranno un
male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi costringere da altri a fare
ciò che essi ritengono il suo bene. Non voglio dire che i sentimenti con
cui gli altri considerano una persona non debbano essere influenzati in alcun
modo dal suo comportamento nella sfera di azioni che riguardano solo lui
stesso. Non è possibile, né auspicabile. Se la persona è ricca di
qualità che favoriscono il suo benessere, è degna d'ammirazione perché
è più vicina alla perfezione ideale della natura umana. Se ne
è grossolanamente carente, provocherà un sentimento opposto
all'ammirazione. Vi è un certo livello di follia, e un livello di
ciò che può essere chiamato (anche se la
terminologia presta il fianco a obiezioni) bassezza o depravazione di gusti,
che, anche se non può giustificare che si nuoccia alla persona che lo
manifesta, la rende inevitabilmente e giustamente oggetto di disgusto o, in
casi estremi, persino di disprezzo: chi non provasse questi sentimenti non
avrebbe le qualità opposte in misura sufficiente. Pur non facendo torto
a nessuno, una persona può comportarsi in modo da costringerci a
giudicarla uno stupido o un essere inferiore, e a provare nei suoi confronti un
certo tipo di sentimenti. Poiché la persona non li gradirebbe, le rendiamo un
favore avvertendola in anticipo di questa e di ogni altra conseguenza
spiacevole cui si espone col suo comportamento. Sarebbe in
effetti opportuno che questo tipo di servigio fosse molto più
frequente di quanto non permetta la normale buona educazione, e che si potesse
onestamente far notare a chiunque che secondo noi sta sbagliando senza essere
considerati maleducati o presuntuosi. Abbiamo inoltre diritto, sotto varie
forme, ad agire in base alla nostra opinione negativa di qualcuno, non per
opprimerne l'individualità, ma esercitando la nostra. Per esempio, non
siamo obbligati a cercare la sua compagnia; abbiamo il diritto di evitarlo (non
però ostentatamente), perché è nostro diritto scegliere la
compagnia che più ci piace. Abbiamo il diritto, e può essere
nostro dovere, di mettere altre persone in guardia contro di lui, se pensiamo
che il suo esempio o la sua conversazione possano
avere effetti dannosi su chi lo frequenta. Possiamo fare favori – che non siano obbligatori – ad altri invece che a lui, a cui invece
dobbiamo quelli che possono migliorarlo. Con queste svariate modalità si
può punire molto severamente un individuo per colpe che direttamente
riguardano soltanto lui; egli però subisce gli effetti di queste
punizioni solo nella misura in cui sono le conseguenze naturali, e per
così dire spontanee, delle sue colpe, non perché gli vengano
inflitte espressamente per punirlo. Una persona sconsiderata,
ostinata, presuntuosa; che non può vivere senza grandi ricchezze; che
è incapace di autocontrollo; che persegue piaceri da animale ai danni di
quelli morali e intellettuali, deve aspettarsi di perdere la stima altrui e di
essere considerata con sentimenti meno favorevoli, ma non ha diritto di lamentarsene,
a meno che non abbia dei meriti sociali e quindi abbia diritto a una speciale
considerazione, non intaccata dai suoi demeriti verso se stesso. La mia
tesi è che le sole sanzioni a cui un individuo
può essere legittimamente sottoposto per quella parte della sua condotta
e del suo carattere che lo riguarda esclusivamente e non tocca gli interessi di
chi abbia rapporti con lui, sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio
sfavorevole altrui. Gli atti che danneggino altre
persone vanno trattati in modo completamente diverso. Violare i diritti altrui,
causare agli altri danni o perdite non giustificati dai propri diritti,
ingannarli con falsità e doppiezze, approfittare ingiustamente o
ingenerosamente di loro, anche evitare egoisticamente di difenderli: sono tutte
azioni che meritano la riprovazione morale e, nei casi più gravi, il
castigo. E non solo gli atti, ma anche le inclinazioni che li provocano sono
realmente immorali e meritano la disapprovazione, che può giungere
all'abominio. La crudeltà d'animo, la malizia e il malanimo, la passione
più antisociale e odiosa, l'invidia, la dissimulazione e
l'insincerità, l'irascibilità per motivi insufficienti, il
risentimento sproporzionato alla causa, la passione del dispotismo, il
desiderio di accaparrarsi più di quanto si meriti
(la pleonexía dei greci), l'orgoglio
che si soddisfa nell'avvilimento altrui, l'egoismo che considera i propri
interessi più importanti di qualsiasi altra cosa, e decide tutte le
questioni dubbie a proprio favore: questi sono vizi morali, elementi malvagi e
odiosi del carattere, diversi in questo dalle colpe verso di sé menzionate
più sopra, che non sono immoralità in senso stretto e che, per
quanto portate all'estremo, non costituiscono malvagità. Possono essere
segni della più completa follia, o mancanza di dignità e di
rispetto di sé, ma sono passibili di riprovazione morale solo
quando implicano un'infrazione al dovere, che ciascuno ha nei confronti
degli altri, di badare a se stesso. I cosiddetti doveri verso di sé non sono socialmente
obbligatori, a meno che le circostanze non li rendano
contemporaneamente doveri verso gli altri. Il termine "dovere verso se stessi", quando non significa semplicemente
"prudenza", significa o rispetto di sé o sviluppo di sé, entrambe
cose di cui nessuno deve rendere conto ai suoi simili, perché non coinvolgono
gli interessi dell'umanità.
La distinzione tra la perdita dell'altrui stima, in cui si
può giustamente incorrere per mancanza di prudenza o dignità
personale, e la riprovazione che si merita se si ledono i diritti altrui, non
è puramente nominale. Fa molta differenza, nei termini sia
dell'atteggiamento che del comportamento che teniamo nei suoi confronti, che
qualcuno ci offenda in qualcosa che riteniamo di avere
il diritto di controllare o invece in qualcosa in cui sappiamo di non averlo.
Se la persona ci infastidisce, possiamo esprimerle la nostra antipatia, ed
evitarla, come evitiamo tutto ciò che ci
infastidisce; ma non ci sentiremo in obbligo di rovinarle l'esistenza. Terremo
in considerazione il fatto che sconta già, o sconterà,
tutti i suoi errori; proprio perché si rovina da sola la vita, sprecandola, non
desidereremo rovinargliela ulteriormente: invece di punirla, cercheremo
piuttosto di alleviarle la punizione mostrandole come evitare o rimediare ai
mali che la sua condotta tende a causarle. Nei suoi confronti possiamo provare
pietà, forse antipatia, ma non ira o risentimento. Non la tratteremo
come un nemico della società; al massimo ci riterremo giustificati ad
abbandonarla a se stessa, ma potremmo interferire benevolmente mostrando
interesse o preoccupazione per lei. Ben altrimenti accade se un individuo ha violato le norme necessarie alla protezione, individuale
o collettiva, dei suoi simili. Le conseguenze negative dei suoi atti non
ricadono allora su di lui, ma sugli altri; e la società, in quanto
protettrice di tutti i suoi membri, deve rifarsi su di lui, deve
farlo soffrire all'esplicito scopo di punirlo, e deve assicurarsi che la
punizione sia sufficientemente severa. In un caso l'individuo è imputato
di fronte al nostro tribunale, e siamo chiamati non solo a giudicarlo ma anche,
in un modo o nell'altro, a eseguire la nostra sentenza; nell'altro, non
è nostro compito infliggergli sofferenze, salvo
quelle che possono incidentalmente derivare dal nostro esercizio, nella
condotta dei nostri affari, della stessa libertà che consentiamo a lui
nei suoi.
Molti rifiuteranno questa distinzione tra la parte della vita di
un uomo che riguarda soltanto lui e quella che riguarda
gli altri. Come può (si potrebbe domandare)
essere indifferente agli altri un qualsiasi aspetto del comportamento di un
membro della società? Nessuno è completamente isolato; è
impossibile arrecare un danno serio o permanente a se stessi senza che il male
si estenda almeno fino a chi ci è più vicino, e spesso molto
oltre. Se un uomo lede le sue proprietà, danneggia chi direttamente o
indirettamente ne traeva sostentamento, e generalmente diminuisce in maggiore o
minore misura le risorse complessive della comunità. Se deteriora le sue
facoltà fisiche o mentali, non solo fa del male a coloro la cui
felicità dipendeva, in misura minore o maggiore, da lui, ma si pone
nell'incapacità di rendere i servigi di cui è in generale
debitore ai suoi simili, e talvolta diventa un peso per il loro affetto e la loro benevolenza. Se questo comportamento fosse molto
frequente, sarebbe più rovinoso per il bene comune di quasi ogni altro
crimine possibile. Infine (si potrebbe dire), anche se
una persona non danneggia direttamente altri con i suoi vizi o follie, tuttavia
è dannosa con l'esempio, e dovrebbe essere costretta a controllarsi per
il bene di chi potrebbe essere corrotto o ingannato dall'osservazione, diretta
o indiretta, della sua condotta.
E (si potrebbe aggiungere), anche se le conseguenze del
comportamento di un individuo vizioso o sconsiderato potessero
venire limitate a lui, può la società abbandonare a se stessi
coloro che non sono manifestamente in grado di badarsi? Se, per ammissione
comune, i bambini e i minori vanno protetti da se stessi, la società non
è forse ugualmente obbligata a proteggere adulti che sono ugualmente
incapaci di controllarsi? Se il gioco d'azzardo, l'ubriachezza, l'incontinenza,
la pigrizia o la sporcizia sono altrettanto nocivi alla felicità e
contrari al progresso che la maggior parte degli atti vietati dalla legge,
perché (ci si potrebbe chiedere) la legge non dovrebbe cercare di reprimerli,
nella misura in cui ciò è possibile e socialmente utile? E, per
supplire alle inevitabili imperfezioni della legge, non dovrebbe l'opinione
pubblica almeno organizzare una poderosa polizia contro questi vizi e colpire
con rigide pene sociali coloro che notoriamente li praticano? Qui non si tratta
(si potrebbe asserire) di reprimere l'individualità o di impedire che vengano tentati nuovi e originali esperimenti di vita. Le
sole cose che si cerca di impedire sono state giudicate e condannate dall'alba
del mondo ai nostri giorni – e l'esperienza le ha dimostrate inutili o dannose
per l'individualità di chiunque. Ci deve essere un periodo – espresso in
termini di tempo o di quantità di esperienze – trascorso il quale una
verità morale o pratica può essere data per acquisita: e
ciò al solo scopo di impedire a generazione dopo generazione
di precipitare nello stesso baratro che è stato fatale a quelle che
l'hanno preceduta.
Ammetto incondizionatamente che il male fatto a noi stessi
può colpire gravemente, sia negli affetti sia negli interessi, le
persone che ci sono strettamente legate e, in misura minore, la società
in generale. Quando una condotta di questo tipo porta a violare un impegno
distinto e preciso verso una o più persone, il caso non è
classificabile come danno verso se stessi e diventa passibile di
disapprovazione morale in senso stretto. Se per esempio un uomo, per
intemperanza o stravaganza, diventa insolvente, o, avendo assunto la
responsabilità morale di una famiglia, diventa per cause analoghe
incapace di mantenerla o di educarla, viene
meritatamente riprovato e può essere giustamente punito; ma per l'inadempienza
al dovere verso la famiglia o i creditori, non per la stravaganza. Se le
risorse loro destinate fossero state loro negate per essere investite nel modo
più oculato possibile, la colpevolezza morale sarebbe stata identica. George Barnwell ammazzò
suo zio per dare dei soldi alla sua amante, ma se l'avesse ucciso per iniziare
un'attività commerciale sarebbe stato ugualmente impiccato. Ancora, nel
caso frequente di uomini che causano dolore alle loro famiglie per le loro cattive abitudini, essi meritano rimprovero perché sono
crudeli o ingrati; ma potrebbero meritarne altrettanto coltivando abitudini di
per sé non viziose, che pure fanno soffrire coloro con cui vivono, o chi per
legami personali dipende da loro per il proprio benessere. Chiunque non tenga
nella considerazione che generalmente è loro dovuta
gli interessi e i sentimenti altrui, senza essere costretto a ciò da un
dovere più alto o giustificato da un'ammissibile preferenza per sé,
è degno di disapprovazione morale per questo comportamento, ma non per
le sue cause né per gli errori che possono averlo indirettamente provocato, e
che riguardano solo lui. Analogamente, chi con il suo comportamento verso di sé
si renda incapace di compiere un preciso dovere verso
il pubblico è colpevole di un reato sociale. Nessuno dovrebbe essere
punito semplicemente perché è ubriaco; ma un soldato o un poliziotto
dovrebbero essere puniti per ubriachezza in servizio. In breve, in presenza di un preciso danno, o di un preciso rischio di
danno, per il pubblico o per un individuo, il caso esula dalla sfera della
libertà e rientra in quella della moralità o della legge.
Ma, per quanto concerne il danno puramente contingente o, come lo si può chiamare, costruttivo che un individuo
causa alla società con una condotta che non infranga alcun dovere
specifico verso il pubblico, né leda percettibilmente alcuna persona precisa
salvo l'individuo stesso, si tratta di un fastidio che la società
può permettersi di sopportare, negli interessi di un bene maggiore, la libertà
umana. Se degli adulti devono proprio essere puniti perché non si occupano
abbastanza bene di se stessi, preferirei che lo fossero per il loro bene, non
con il pretesto di impedire loro di danneggiare le proprie facoltà o con
la scusa di rendere alla società benefici cui essa non pretende
di aver diritto. Ma non posso consentire a una discussione in cui si dà
per scontato che la società non avrebbe mezzo alcuno di elevare i suoi
membri più deboli al livello normale di condotta razionale, salvo quello
di aspettare che commettano qualcosa di irrazionale e poi punirli, legalmente o
moralmente. La società ha avuto potere assoluto su di essi
durante tutta la prima parte della loro esistenza: ha avuto tutto il periodo
dell'infanzia e dell'adolescenza per cercare di renderli capaci di condurre
razionalmente la propria vita. La generazione di oggi
è signora e padrona sia dell'educazione sia di tutte le condizioni di
vita della generazione di domani: in effetti, non può farla diventare
perfettamente saggia e buona, perché è essa stessa così deplorevolmente priva di saggezza e bontà; e, in
certi casi, i suoi maggiori sforzi non sempre sono i più riusciti; ma
nel complesso è perfettamente in grado di formare una nuova generazione
altrettanto buona, anzi un poco migliore. Se la società lascia
che un numero considerevole dei suoi membri, pur crescendo
fisicamente, resti bambino e incapace di essere influenzato dalla
considerazione razionale di motivi non immediatamente percepibili, può
incolpare solo se stessa. Ha a disposizione non solo tutti
i poteri dell'educazione, ma anche il predominio che l'autorità di
un'opinione comune esercita sempre sulle menti meno in grado di giudicare da
sole, e inoltre è aiutata dalle punizioni naturali che non
possono non abbattersi su coloro che incorrono nel disgusto o nel disprezzo del
prossimo: che la società non pretenda di aver bisogno, oltre che di
questo armamentario, anche del potere di emanare e far rispettare ordini
riguardanti questioni personali dei singoli, le quali, stando a qualsiasi principio
legale o politico, andrebbero decise da chi deve sopportarne le conseguenze. E
niente scredita e frustra i migliori metodi di influire sulla condotta umana
più del ricorso ai peggiori. Se tra coloro che la società cerca
di costringere alla prudenza e alla temperanza vi è qualcuno della
stoffa di cui sono fatti i caratteri indipendenti e vigorosi, si
ribellerà infallibilmente al giogo. Nessuna persona del genere
penserà mai che gli altri hanno diritto di
controllarlo nei suoi affari, come invece lo hanno di impedirgli di disturbare
i loro; perciò, sfidare questa autorità usurpata, facendo
ostentatamente l'esatto contrario di ciò che comanda, come accadde
all'epoca di Carlo II con la moda della volgarità che subentrò
alla fanatica intolleranza morale dei puritani, finisce facilmente coll'essere considerato segno di uno spirito coraggioso.
Quanto alla necessità, menzionata in precedenza, di proteggere la
società dal cattivo esempio dato dai viziosi o da chi è troppo
indulgente con se stesso, è vero che il cattivo esempio può avere
effetti dannosi, specialmente nel caso di chi faccia un torto ad altri e resti impunito. Ma qui stiamo parlando di
comportamenti che, mentre non danneggiano gli altri, si presume siano
gravemente dannosi a chi li tiene; e non vedo come coloro che li ritengono tali
possano non pensare che, nel complesso, l'esempio finisce coll'essere
più salutare che dannoso, poiché mostra il comportamento ma anche le sue
conseguenze, che, se lo si biasima a ragione, si
devono supporre nella maggior parte dei casi penose o degradanti. Ma
l'argomento più forte contro l'interferenza del pubblico nella condotta
puramente individuale è che, quando si verifica, si verifica
con ogni probabilità sia nei modi sbagliati che nel posto sbagliato.
Nelle questioni di moralità sociale, di doveri nei confronti degli
altri, L'opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza,
è più spesso giusta che sbagliata, poiché si tratta soltanto di
giudicare sui propri interessi, su come verrebbero
coinvolti da un dato comportamento, se venisse consentito. Ma l'opinione di una
simile maggioranza, imposta come legge a una minoranza, in questioni di
condotta strettamente individuale ha uguali probabilità di essere giusta
o sbagliata, perché nel migliore di questi casi opinione pubblica significa l'opinione di alcuni su che cosa sia bene o male per altri, e
molto spesso non significa neanche questo – il pubblico, con la più
perfetta indifferenza, ignora i sentimenti o le esigenze di coloro di cui
biasima la condotta, e pensa solo alla propria preferenza. Molti considerano
lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che loro dispiaccia, e se ne
risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti; simili a quel bigotto che,
accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che
sono loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro abominevole culto o credo.
Ma non sono sullo stesso piano ciò che uno pensa della propria opinione
e ciò che ne pensa un altro che la considera un'offesa, come non lo sono
il desiderio di un ladro di rubare una borsa e il desiderio del legittimo
proprietario di tenersela. E i gusti di un individuo sono una sua questione
personale, quanto la sua opinione o la sua borsa.
È facile immaginare un pubblico ideale che lasci indisturbata la
libertà e la scelta individuale in tutte le questioni dubbie, e si
limiti a chiedere agli individui di evitare comportamenti che l'esperienza
universale ha condannato. Ma dove si è mai visto un pubblico che imponesse limiti del genere alla propria facoltà di
censura? O quando mai il pubblico si preoccupa dell'esperienza universale?
Nelle sue interferenze con la condotta individuale pensa raramente ad altro che
alla mostruosità di agire o pensare diversamente da lui; e questo
criterio di giudizio, lievemente camuffato, viene
presentato agli uomini come il dettame della religione e della filosofia dai
nove decimi dei moralisti e pensatori, i quali insegnano che le cose sono
giuste perché sono giuste; perché sentiamo che lo sono. Ci dicono di cercare
nelle nostre menti e nei nostri cuori le norme di
condotta per noi e per tutti gli altri. Cos'altro
può fare chi è parte del pubblico, se non seguire le istruzioni e
rendere le proprie concezioni personali del bene e del male, se sono
tollerabilmente unanimi, obbligatorie per tutto il mondo?
Questo male non esiste soltanto in teoria; e ci si potrebbe forse
aspettare che io specifichi i casi in cui il pubblico contemporaneo del nostro
paese conferisce impropriamente veste legale alle sue preferenze. Non sto
scrivendo un saggio sulle aberrazioni dell'odierno sentimento morale: è
un argomento troppo vasto per discuterlo incidentalmente, a fini illustrativi.
Tuttavia si rendono necessari degli esempi per dimostrare che il principio da
me affermato è di notevole importanza pratica, e che non sto cercando di
erigere difese contro mali immaginari. E non è
difficile dimostrare, con abbondanza di esempi, che l'ampliamento del raggio
d'azione di quella che può essere chiamata polizia morale fino a farle
ledere la libertà individuale più indiscutibilmente legittima
è una delle più universali propensioni umane.
Consideriamo come primo caso le antipatie nei confronti di coloro
la cui sola colpa è che, avendo opinioni religiose diverse dalle nostre,
non praticano le nostre osservanze religiose, in particolare le astinenze. Per
citare un esempio alquanto banale, ciò che più eccita l'odio dei
musulmani nei confronti della fede e della pratica cristiane è il fatto
che i cristiani mangiano carne di maiale. Pochi sono gli atti per cui cristiani e europei provano un disgusto più
sincero di quello dei musulmani per questo particolare modo di sfamarsi.
Innanzitutto è una trasgressione alla loro religione, ma ciò non
spiega affatto la violenza o il tipo della loro ripugnanza; infatti
anche il vino è loro vietato dalla religione, e tutti i musulmani
considerano il bere peccaminoso, ma non disgustoso. La loro avversione per la
carne della "bestia immonda" è al contrario
analoga a quella dell'antipatia istintiva che l'idea di sporcizia, una
volta che sia stata profondamente assimilata, sembra sempre suscitare anche in
persone le cui abitudini sono tutt'altro che scrupolosamente pulite, e di cui
è notevole esempio il sentimento dell'impurità religiosa,
così forte negli indù. Supponiamo ora che in un popolo a
maggioranza maomettana venga proibito a tutti di
mangiare carne di maiale entro i confini del paese: non sarebbe una
novità per i paesi musulmani. Si tratterebbe di un esercizio
legittimo dell'autorità morale della pubblica opinione, oppure sarebbe
illegittimo, e perché? Per questa gente la pratica è davvero rivoltante:
e inoltre pensano sinceramente che sia vietata e aborrita dalla
Divinità. Né questa proibizione potrebbe essere condannata in quanto
persecuzione religiosa: potrà avere origini religiose,
ma non è una persecuzione, perché non c'è religione che comandi
di mangiare carne di maiale. La sola base difendibile su cui condannarla
sarebbe che il pubblico non ha diritto di interferire nei gusti personali e
nelle questioni strettamente individuali.
Per venire più vicino a noi: la maggioranza degli spagnoli
considera grossolanamente empio, massimamente ingiurioso dell'Essere Supremo,
adorarlo in modo diverso da quello cattolico romano; e in Spagna ogni altro
culto pubblico è vietato. I popoli di tutta l'Europa meridionale
considerano un clero che non pratica il celibato non soltanto irreligioso, ma impuro, indecente, volgare e disgustoso. Che
cosa pensano i protestanti di questi sentimenti perfettamente sinceri, e del
tentativo di farli rispettare anche da chi non è cattolico? E tuttavia,
se gli uomini possono giustificatamente interferire
nella loro reciproca libertà anche in questioni che non riguardano gli
interessi altrui, in base a quale principio si possono coerentemente escludere
questi casi? O chi può biasimare gente che desidera sopprimere
ciò che considera uno scandalo al cospetto di Dio e degli uomini? Gli
argomenti a favore della proibizione di tutto ciò che è
considerato immoralità individuale sono identici a quelli usati per
giustificare la soppressione di certe pratiche religiose da coloro che le
considerano empie; e, a meno che non vogliamo adottare la logica dei
persecutori, e sostenere che dobbiamo perseguitare altre persone perché abbiamo
ragione, mentre loro non devono perseguitare noi perché hanno torto, dobbiamo guardarci dall'ammettere un principio la cui
applicazione nei nostri confronti considereremmo grossolanamente ingiusta.
Si potrebbe obiettare, anche se a torto, che i casi precedenti si
riferiscono a situazioni impossibili tra noi, dato che non è probabile
che l'opinione di questo paese costringa tutti a non mangiare carne o
interferisca nella libertà della gente di praticare un culto, e di sposarsi
o di non sposarsi a seconda delle proprie fedi o
inclinazioni. Il prossimo esempio tuttavia si riferisce a una
interferenza nella libertà che costituisce un pericolo ancora
attuale. In ogni situazione in cui sono stati sufficientemente potenti – per esempio
nella Nuova Inghilterra o in Gran Bretagna ai tempi di Cromwell
–, i puritani hanno cercato, con considerevole successo, di sopprimere tutti i
divertimenti pubblici e quasi tutti quelli privati: in particolare la musica,
la danza, i giochi pubblici o le altre riunioni a fini ricreativi, e il teatro.
Ancor oggi vi sono in questo paese vasti gruppi i cui ideali morali e religiosi
condannano questi svaghi; e dato che queste persone
appartengono soprattutto alla classe media, che nelle attuali condizioni
politiche e sociali del Regno costituisce il potere dominante, non è
affatto impossibile che prima o poi ottengano la maggioranza in parlamento. Al
resto della comunità farà piacere che quegli svaghi che gli
saranno consentiti siano regolamentati dai sentimenti
morali e religiosi dei calvinisti e metodisti più severi? Non
auspicherà, in modo alquanto perentorio, che questi pii e invadenti
membri della società badino ai fatti propri?
È esattamente quel che si dovrebbe dire a qualsiasi governo o pubblico
che pretendono che nessuno si diverta in un modo da loro ritenuto sbagliato. Ma
se in linea di principio si ammette questa pretesa, non si può
ragionevolmente chiedere che non venga attuata secondo
i voleri della maggioranza, o comunque di chi detiene il potere in un dato
paese; e dobbiamo essere pronti a conformarci alla concezione di
comunità cristiana che avevano i primi coloni della Nuova Inghilterra,
nel caso che una confessione religiosa simile alla loro riesca a riguadagnare
il terreno perduto, come hanno spesso fatto religioni che erano ritenute in
declino.
Immaginiamo un'altra situazione, forse più probabile di
quest'ultima. Tutti concordano nell'affermare che il mondo moderno presenta una
forte tendenza verso una costituzione democratica della società,
accompagnata o meno da istituzioni politiche popolari.
Si afferma anche che, nel paese in cui questa tendenza è più
compiutamente realizzata – in cui società e governo sono più
democratici, cioè gli Stati Uniti –, il sentimento della maggioranza,
che non gradisce alcuna ostentazione di uno stile di vita più brillante
o costoso di quello che può sperare di emulare, funziona con discreta
efficacia da legge suntuaria, e che in molte parti
dell'Unione una persona con un reddito molto elevato trova veramente difficile
spenderlo senza incorrere nella disapprovazione popolare. Anche se affermazioni
del genere sono senza dubbio molto esagerate, la
situazione da esse descritta è un risultato, non solo concepibile e
possibile, ma probabile, della combinazione del sentimento democratico con la
nozione secondo cui il pubblico ha diritto di veto sul modo in cui gli
individui spendono i loro redditi. Supponiamo inoltre che le opinioni
socialiste si diffondano considerevolmente: ogni proprietà che non sia
minima o ogni reddito che non derivi dal lavoro manuale rischiano di diventare
un'infamia agli occhi della maggioranza. Opinioni in linea di principio simili
a questa predominano già nella classe dei lavoratori manuali, e
opprimono pesantemente coloro che principalmente si riferiscono a esse – vale a dire, i membri di quella classe. È ben
noto che gli operai inefficienti che in molti rami dell'industria costituiscono
la maggioranza, sono decisamente dell'opinione che essi dovrebbero essere
pagati quanto quelli efficienti, e che a nessuno dovrebbe essere consentito,
mediante il cottimo o altre forme, di guadagnare più di altri che non
sono altrettanto abili o operosi. E impiegano una polizia morale, che talvolta
diventa fisica, per far sì che gli operai più abili non ricevano una maggiore remunerazione per un migliore
servizio, e che i datori di lavoro non la concedano. Se il pubblico ha una
qualsiasi giurisdizione sulle questioni private, non vedo perché questa gente
debba avere torto, o perché si debbano criticare le
persone direttamente in rapporto con uno specifico individuo se rivendicano
sulla condotta individuale di quest'ultimo la stessa autorità che il
pubblico nel suo complesso rivendica su tutti i singoli individui.
Ma, tralasciando i casi ipotetici, al
giorno d'oggi si verificano effettivamente grossolane violazioni della
libertà privata, ne vengono minacciate, con probabilità di
successo, di più gravi, e viene apertamente sostenuto il diritto
incondizionato del pubblico non solo a vietare per legge tutto ciò che ritiene
sbagliato, ma a proibire, per colpire quelli che considera errori, una serie di
attività che, per sua stessa ammissione, sono innocue.
Con la scusa di prevenire l'intemperanza, è stato vietato
per legge alla popolazione di una colonia inglese, e di quasi metà degli
Stati Uniti, di far uso di bevande fermentate, salvo che per fini medicinali;
la proibizione della loro vendita è in effetti, come era intesa essere,
proibizione del loro uso. E anche se l'impossibilità di farla rispettare
in pratica ha fatto sì che questa legge venisse
abrogata in parecchi stati che l'avevano adottata, ivi compreso il Maine, da
cui prende nome, nel nostro paese molti filantropi dichiarati hanno iniziato, e
proseguono con notevole zelo, a far propaganda in favore dell'adozione di un
provvedimento analogo. L'associazione, o "Alleanza", come si
autodefinisce, costituita a questo scopo ha ricevuto una certa notorietà
in seguito alla pubblicazione di una corrispondenza tra il suo segretario e uno
dei pochissimi uomini pubblici inglesi che ritengono che le opinioni di un
politico debbano fondarsi su principî. Le lettere di Lord Stanley
aumenteranno certamente le speranze già riposte in lui da coloro che
sanno quanto siano purtroppo rare, nella vita politica, le qualità
già manifestatesi in qualche suo intervento pubblico. Il segretario
dell'Alleanza, che "deplorerebbe profondamente il riconoscimento di
qualsiasi principio che potrebbe essere travisato in modo tale da giustificare
fanatismi e persecuzioni", intende ribadire la "spessa e invalicabile
barriera" che separa principi del genere da quelli dell'associazione.
"Tutte le questioni relative al pensiero, all'opinione, alla coscienza, mi
sembrano", afferma, "al di fuori della sfera della legislazione;
tutto ciò che è invece attinente a atti, abitudini, rapporti
sociali – che è soggetto solo a un potere discrezionale spettante allo
Stato e non all'individuo – dentro di essa". Non viene menzionata una terza classe, diversa da entrambe,
cioè quella degli atti e delle abitudini che non sono sociali ma
individuali: anche se, sicuramente, è ad essa che appartiene l'atto di
bere liquori fermentati. Tuttavia, vendere liquori fermentati è
commercio, e il commercio è un atto sociale. Ma
la violazione contro cui protestiamo non è
della libertà del venditore, ma di quella del compratore e consumatore;
poiché lo Stato potrebbe benissimo vietargli di bere vino, dal momento che gli
rende espressamente impossibile ottenerlo. Tuttavia, il segretario sostiene:
"Affermo, come cittadino, il mio diritto a un intervento legislativo in
ogni caso in cui i miei diritti sociali siano violati dall'atto sociale di un altro". Ed ecco la definizione di questi
"diritti sociali": "Se c'è qualcosa che viola i miei
diritti sociali è certamente il commercio di bevande alcooliche.
Distrugge il mio diritto fondamentale alla sicurezza, creando e stimolando
costantemente il disordine sociale. Viola il mio diritto all'uguaglianza,
derivando profitto dalla creazione di un'indigenza sostentata dalle tasse che
pago. Ostacola il mio diritto a un libero sviluppo morale e intellettuale,
circondando di pericoli il mio cammino e indebolendo e demoralizzando la
società da cui ho diritto di pretendere mutuo soccorso e appoggio".
Probabilmente nessuno ha mai enunciato distintamente qualcosa di simile a
questa teoria dei "diritti sociali", che equivale a quanto segue:
è diritto sociale assoluto di ciascun individuo che ciascun altro
individuo si comporti sotto ogni aspetto esattamente come dovrebbe comportarsi;
inoltre, chiunque non ottemperi nei minimi dettagli a quanto sopra viola il mio
diritto sociale e mi autorizza a esigere che il motivo della mia lagnanza venga eliminato per legge. Un principio così
mostruoso è molto più pericoloso di qualsiasi singola
interferenza nella libertà; non vi è violazione della
libertà che esso non giustifichi; non riconosce alcun diritto ad alcuna
libertà, salvo forse quella di avere opinioni in segreto, senza
rivelarle a nessuno poiché nell'attimo in cui
un'opinione che considero nociva viene proferita, viola tutti i "diritti
sociali" che l'Alleanza mi conferisce. La dottrina attribuisce a tutti gli
uomini un interesse acquisito nella reciproca perfezione morale, intellettuale
e persino fisica, definita da ciascuno secondo i propri criteri.
Un altro importante esempio di interferenza illegittima nella
giusta libertà dell'individuo, e non semplicemente minacciata ma ormai da molto realizzata con successo, è la legislazione
riguardante le domeniche. Senza dubbio, astenersi dall'abituale attività
quotidiana nella misura in cui lo permettono le esigenze della vita, è
una consuetudine altamente benefica, anche se non
è sotto alcun aspetto un obbligo religioso, salvo che per gli ebrei. E,
nella misura in cui questa consuetudine non può essere rispettata senza
il consenso generale di chi lavora, dato che se alcuni lavorano
anche altri possono trovarsi costretti a lavorare, può essere consentito
e giusto che la legge garantisca l'osservanza reciproca del riposo, sospendendo
le principali attività lavorative in un dato giorno. Ma questa
giustificazione, fondata sull'interesse diretto di tutti al rispetto
dell'usanza da parte di ciascuno, non vale per le
occupazioni indipendenti cui si può voler dedicare il proprio tempo
libero, né, in alcun modo, per le restrizioni legali imposte agli svaghi.
È vero che lo svago di alcuni è il lavoro di altri; ma il
divertimento, per non dire l'utile ricreazione, di molti vale la fatica di
pochi, purché l'abbiano liberamente scelta. Gli operai hanno perfettamente
ragione a pensare che, se tutti lavorassero la domenica, il lavoro di sette
giorni riceverebbe il salario di sei; ma se la attività
lavorative sono per la gran maggioranza sospese, i pochi che devono continuare
a lavorare per il divertimento altrui ricevono un aumento proporzionale dei
guadagni; e, se preferiscono il tempo libero all'emolumento, non sono obbligati
a svolgere quel particolare lavoro. Volendo migliorare ulteriormente la
situazione, si può stabilire per consuetudine un giorno di vacanza settimanale
per chi lavora la domenica. Quindi, le restrizioni ai divertimenti domenicali
possono giustificarsi solo sostenendo che sono contrari al dettato religioso –
motivo di legislazione, questo, contro cui non si
protesterà mai abbastanza. "Deorum
injuriae Diis curae".
Resta da provare che la società, o qualunque suo
funzionario, ha ricevuto dall'alto l'incarico di vendicare ogni presunta offesa
all'Onnipotente che non sia anche un torto verso i nostri simili. Il concetto
secondo cui è dovere di ognuno che gli altri siano religiosi è
stato alla base di tutte le persecuzioni religiose, e, una
volta accettato le giustifica pienamente. Anche se il sentimento che
traspare dai ripetuti tentativi di fermare le ferrovie o di tenere chiusi i
musei la domenica, e così via, non ha la crudeltà dei vecchi
persecutori, l'atteggiamento mentale che esso indica è fondamentalmente
lo stesso. È la determinazione a non tollerare che altri facciano ciò che è permesso dalla loro
religione, perché non è permesso da quella del persecutore. È la
convinzione che Dio non solo aborre le azioni del miscredente, ma non ci
considererà innocenti se lo lasciamo in pace.
Non posso evitare di aggiungere a questi esempi dello scarso conto
in cui la libertà umana è abitualmente tenuta, il linguaggio apertamente
persecutorio cui indulge la stampa di questo paese quando
si sente investita della missione di occuparsi del fenomeno del Mormonismo. Molto si potrebbe dire sul fatto, imprevisto e
istruttivo, che centinaia di migliaia di persone credano a una pretesa nuova
rivelazione e alla religione fondata su di essa –
frutto di evidente impostura, neppure sostenuta dal prestigio o dalle
straordinarie qualità del suo fondatore –, che è diventata la
base di una società, nell'epoca dei giornali, delle ferrovie e del
telegrafo. Ciò che ci interessa in questa sede è che questa
religione, come altre migliori di essa, ha i suoi
martiri; che il suo profeta e fondatore fu linciato a causa dei suoi
insegnamenti; che altri suoi aderenti persero la vita a causa della stessa
violenza scatenata; che i Mormoni furono espulsi a forza, in massa, dal paese
in cui erano nati, e, ora che sono stati confinati in un rifugio solitario nel
mezzo di un deserto, molti abitanti di questo paese dichiarano apertamente che
sarebbe giusto (ma è scomodo) mandare una spedizione che li costringa a
forza a uniformarsi alle opinioni altrui. L'aspetto della dottrina mormone che
maggiormente provoca avversione e scatena un'insolita intolleranza religiosa
è il permesso di praticare la poligamia; che, anche se consentita a
musulmani, indù e cinesi, sembra suscitare un'implacabile
animosità se praticata da persone che parlano inglese e si dichiarano
una sorta di cristiani. Nessuno disapprova più di me quest'istituzione
mormone; tra l'altro anche perché, lungi dal rappresentare un'espressione del
principio della libertà, lo viola direttamente,
poiché non fa che ribadire le catene di una metà della comunità e
emancipare l'altra dalla reciprocità dell'impegno nei suoi confronti.
Eppure, va ricordato che le donne coinvolte in questo tipo di
rapporto – che possono esserne considerate la parte lesa – l'accettano
altrettanto volontariamente che qualsiasi altra forma di matrimonio: e
ciò, per quanto sembri sorprendente, trova spiegazione nelle opinioni e nelle
usanze comuni che, insegnando alle donne che il matrimonio è la sola
cosa che conti, fanno sì che molte preferiscano essere una moglie
insieme a parecchie altre piuttosto di non esserlo del tutto. Agli altri paesi
non viene chiesto di riconoscere queste unioni, né di
esimere dal rispetto della legge alcun loro cittadino a causa della sua fede
mormone. Ma quando i dissenzienti hanno concesso agli altrui sentimenti ostili
ben più di quanto fosse giusto esigere da loro; quando hanno abbandonato
i paesi che rifiutavano le loro dottrine e si sono stabiliti in un remoto
angolo della terra, che hanno colonizzato e reso abitabile, è difficile
comprendere in base a quali principi, salvo quelli della tirannide, si possa
loro impedire di viverci secondo le leggi che preferiscono, purché non
commettano atti di aggressione contro altre nazioni e lascino a chi non
è soddisfatto del loro modo di vivere la perfetta libertà di
andarsene. Un autore recente, e sotto certi aspetti di considerevole merito,
propone (per usare le sue parole), non una crociata, ma una civilizzata contro
questa comunità poligamica per porre termine a quello che gli pare un
arretramento della civiltà. Pare anche a me, ma non mi risulta che una
comunità abbia il diritto di costringere
un'altra a essere civilizzata. Purché le vittime di una legge iniqua non
invochino l'aiuto di altre comunità, non possono ammettere che persone del tutto estranee intervengano e esigano che si ponga fine
a una situazione, di cui tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti,
perché dà scandalo a gente lontana migliaia di miglia e senza alcun
titolo o motivo per interferire. Mandino dei missionari, se ne hanno voglia; e
si oppongano con ogni mezzo leale (tra cui non è compreso ridurre al
silenzio i predicatori) al progresso di simili dottrine nel loro paese. Se la
civiltà ha sconfitto la barbarie che dominava il mondo, non è
lecito professare il timore che la barbarie, dopo essere stata largamente
debellata, risorga e sconfigga la civiltà. Una
civiltà che può soccombere in questo modo al nemico che ha
già battuto in precedenza deve essere prima arrivata a un tale punto di
degenerazione, che né i suoi sacerdoti e maestri designati né chiunque altro
hanno la capacità, o la voglia, di difenderla. Se le cose stanno così,
prima una tale civiltà riceve l'ordine di andarsene meglio è:
può solo continuare a peggiorare finché (come accadde all'Impero
d'Occidente) dei barbari vigorosi non la distruggano e la rigenerino.
V
Applicazioni
I principî enunciati nelle pagine precedenti devono costituire la
base generale di una discussione più particolareggiata, prima che si
possa tentarne una coerente applicazione a tutti i vari settori della politica
e della morale con buone probabilità di successo. Le poche osservazioni
che mi accingo a fare su alcune questioni particolari hanno lo scopo di
illustrare i principî piuttosto che di svilupparne le conseguenze. Non presento
tanto delle applicazioni quanto degli esempi di applicazione, che possono
servire a chiarire meglio significato e limiti delle due proposizioni che
insieme costituiscono l'intera dottrina esposta in questo saggio, e a fornire
dei criteri decisionali per i casi in cui si sia in
dubbio se applicare l'una o l'altra. Le proposizioni sono, in primo luogo, che
l'individuo non deve rendere conto alla società delle proprie azioni
nella misura in cui esse non riguardano gli interessi di altri che lui stesso.
Se lo ritengono necessario per il bene proprio, gli altri possono consigliare,
istruire, persuadere o evitare l'individuo in questione; queste sono le sole
misure mediante le quali la società può giustificatamente
esprimere la propria avversione o disapprovazione. In secondo luogo,
l'individuo deve rendere conto delle azioni che possano
pregiudicare gli interessi altrui, e può essere sottoposto a punizioni
sociali o legali se la società ritiene le une o le altre necessarie per
proteggersi.
Innanzitutto, non si deve in alcun modo presumere che poiché
soltanto il danno, o la probabilità di danno,
agli altrui interessi può giustificare l'interferenza della
società, esso la giustifichi sempre. In molti casi un individuo cercando
di conseguire un fine legittimo, causa per necessità, e quindi
legittimamente, sofferenza o perdite ad altri, oppure si impadronisce di un
bene che altri speravano ragionevolmente di ottenere. Queste contrapposizioni
tra interessi individuali sono spesso dovute a
istituzioni sociali insoddisfacenti, ma sono inevitabili finché esistono queste
ultime; e alcune sarebbero inevitabili con qualsiasi istituzione. Chiunque abbia successo in una professione sovraffollata o in un
esame competitivo, chiunque sia preferito a un altro in una competizione per un
oggetto che entrambi desiderano, trae vantaggio
dall'insuccesso di altri, dalle loro fatiche sprecate e dalla loro delusione.
Ma, per ammissione comune, è meglio per gli interessi generali
dell'umanità che gli uomini perseguano i loro
scopi senza darsi pensiero di questo genere di conseguenze. In altre parole, la
società non concede ai contendenti sconfitti alcun diritto, legale o
morale, all'immunità da questo tipo di sofferenze, e si ritiene in
dovere di interferire solo quando il successo è
stato conseguito con mezzi non ammissibili dall'interesse generale cioè
l'inganno, la slealtà, o la forza.
Ancora, il commercio è un atto sociale. Chiunque
venda un genere di beni al pubblico compie un atto che coinvolge gli interessi
di altri e della società in generale; e quindi la sua condotta rientra
in linea di principio sotto la giurisdizione sociale; di conseguenza, un tempo
era considerato dovere dei governi fissare i prezzi e regolamentare i processi
di fabbricazione in tutti i casi ritenuti di una certa rilevanza. Ma ora
si è giunti a riconoscere, anche se solo dopo una lunga lotta, che sia
il prezzo sia la qualità delle merci sono garantiti più
efficacemente lasciando perfettamente liberi produttori e venditori, con il
solo vincolo della uguale libertà per gli acquirenti di rifornirsi dove
preferiscano.
Questa è la cosiddetta dottrina del "libero
scambio" che ha fondamenti diversi da quelli del principio della libertà individuale enunciato in questo saggio,
anche se con essi coerenti. Le restrizioni al commercio, o alla produzione a
fini commerciali, sono in effetti dei vincoli; e ogni
vincolo, in quanto tale, è un male; ma i vincoli in questione riguardano
solo quella parte del comportamento il cui controllo rientra nella competenza
della società, e sono erronei solo perché non producono effettivamente i
risultati che da essi si intende ottenere. Poiché il principio della libertà
individuale non è coinvolto nella dottrina del libero scambio, non lo
è neppure nella maggior parte delle questioni che ne riguardano i
limiti, come per esempio il grado di controllo pubblico ammissibile per
prevenire le frodi e le adulterazioni; o quali precauzioni igieniche o misure
per proteggere chi svolga lavori pericolosi debbano essere imposte ai datori di
lavoro. Questi problemi implicano considerazioni concernenti la libertà
solo nella misura in cui lasciare gli uomini a se stessi è sempre
meglio, caeteris paribus,
che controllarli; ma in linea di principio è innegabile che li si possa legittimamente controllare a questi fini.
D'altro canto, vi sono questioni riguardanti l'interferenza nel commercio che
sono essenzialmente questioni di libertà, come la legge del Maine, cui
si è già accennato; il divieto di importazione dell'oppio in
Cina; le limitazioni alla vendita di sostanze tossiche – in
breve, tutti i casi in cui scopo dell'interferenza è rendere
difficile o impossibile procurarsi una data merce. Questi interventi sono
opinabili non in quanto violazioni della libertà del produttore o del
venditore, ma dell'acquirente. Uno di questi esempi, la vendita di sostanze
tossiche, pone un nuovo problema: i giusti limiti di quelle che possono essere
chiamate le funzioni di polizia – cioè in che misura si possa
legittimamente violare la libertà per prevenire delitti o incidenti. Una
delle funzioni indiscusse dei governi è prendere precauzioni contro il
crimine prima che venga commesso, oltre che scoprirlo
e punirlo dopo. Tuttavia, della funzione preventiva del governo si può
abusare a danno della libertà molto più
facilmente che di quella punitiva; poiché non vi è quasi alcun aspetto
della legittima libertà d'azione di un individuo che non potrebbe essere
descritto, e in modo plausibile, come creazione di condizioni favorevoli a
qualche forma di azione criminosa. Ciononostante, se un'autorità
pubblica, o anche un privato, constata che qualcuno è chiaramente in
procinto di commettere un reato non è costretto a fare da spettatore
passivo fino al compimento del reato, ma può intervenire per prevenirlo.
Se i veleni non fossero mai comprati o usati per scopi diversi dall'omicidio,
sarebbe giusto vietarne la fabbricazione e la vendita. Tuttavia possono essere usati
a scopi innocui e persino utili, e le restrizioni non possono essere imposte in
un caso senza essere operative nell'altro. Ancora, è
giusto compito dell'autorità pubblica prevenire gli incidenti: se un
pubblico ufficiale, o chiunque altro, vede una persona che sta per attraversare
un ponte che è stato dichiarato pericolante e non ha il tempo di
avvertirla del pericolo, la può afferrare e bloccare, senza per
ciò violarne realmente la libertà: poiché essa consiste nel fare
ciò che si vuole, e la persona in questione non vuole cadere nel fiume.
Tuttavia, quando non vi è certezza ma solo
pericolo di danno, nessuno, salvo il diretto interessato, può giudicare
se il motivo che lo induce a correre il rischio è sufficiente: quindi in
questo caso (a meno che si tratti di un bambino, di un malato mentale, o
comunque di una persona in stato di alterazione o distrazione tali da non
permettere il pieno uso dell'intelletto) dovrebbe, a mio parere, soltanto
essere avvertito del pericolo; non impedito con la forza di esporvisi.
Considerazioni analoghe, applicate a questioni come la vendita di sostanze
tossiche, ci possono permettere di decidere quali possibili modalità di
controllo siano o meno contrarie al principio. Per
esempio, una precauzione come porre sulla sostanza un'etichetta che ne indichi
la pericolosità può essere attuata senza violare la
libertà; l'acquirente non può non voler sapere che la merce in
suo possesso ha delle proprietà venefiche. Ma esigere in ogni caso un
certificato medico renderebbe talvolta impossibile, e sempre costoso,
procurarsi il prodotto per scopi legittimi. La sola modalità che a mio
avviso possa ostacolare l'impiego di queste sostanze a
fini criminosi, senza violazioni rilevanti della libertà di chi le
desideri per altri scopi, consiste nel creare quello che Bentham
chiama, con felice terminologia, "accertamento preventivo": tutti ne
conoscono degli esempi, nei contratti. È abituale e giusto che, quando
si stipula un contratto, la legge richieda come condizione della sua attuazione
l'osservanza di certe formalità, come firme, attestazioni di testimoni,
e così via, in modo che in caso di successive controversie vi siano
prove che il contratto è stato realmente stipulato, in circostanze che
lo rendono legalmente valido sotto tutti gli aspetti;
ciò impedisce efficacemente i contratti fittizi, o quelli stipulati in
circostanze che, se conosciute, li invaliderebbero. Delle precauzioni di
carattere analogo potrebbero essere applicate alla vendita di merci
utilizzabili a fini criminosi. Per esempio, al venditore potrebbe essere fatto
obbligo di registrare il momento esatto della vendita, il nome e l'indirizzo
dell'acquirente, l'esatta qualità e quantità venduta, di chiedere
lo scopo dell'acquisto e di trascrivere la risposta. Quando non vi fosse
ricetta medica, potrebbe essere richiesta la presenza di un terzo per far
comprendere all'acquirente l'importanza dell'atto, nel caso successivamente vi
fosse ragione di ritenere che la merce sia stata adibita a fini criminosi.
Questa regolamentazione non costituirebbe generalmente un ostacolo rilevante
all'acquisto, ma diminuirebbe considerevolmente le possibilità di usare
impunemente la sostanza a fini illegali. Il diritto intrinseco della
società a evitare i reati contro di sé, mediante precauzioni preventive,
indica ovvi limiti alla proposizione secondo cui non si può
legittimamente interferire in modo preventivo o punitivo in una cattiva
condotta che riguardi solo chi la tiene. Per esempio normalmente l'ubriachezza
non dovrebbe essere oggetto di interferenze legali, ma riterrei perfettamente
legittimo che una persona colpevole di un atto di violenza verso
altri commesso in stato d'ebbrezza sia sottoposta a uno speciale vincolo
legale: se viene nuovamente sorpresa in stato di ubriachezza è punibile,
e se, ubriaca, commette un reato, la pena per esso prevista deve essere
inasprita. Per una persona che l'alcool rende aggressiva, ubriacarsi è
un reato verso gli altri. Analogamente, l'ozio, salvo nei casi in cui l'ozioso sia mantenuto a spese pubbliche o l'inattività costituisca
una violazione contrattuale, non può essere oggetto di provvedimenti
legali senza tirannide; ma se, per ozio o per ogni altra causa evitabile, un
individuo non compie i suoi doveri legali verso altri – per esempio, non
mantiene i propri figli –, non è tirannide costringerlo a adempiere ai
suoi obblighi mediante il lavoro coatto se non sono possibili altri mezzi.
Inoltre, vi sono molti atti che, poiché danneggiano direttamente
solo chi li compie, non dovrebbero essere vietati dalla legge, ma che compiuti
in pubblico costituiscono un'infrazione delle buone maniere e quindi,
rientrando nella categoria dei reati contro gli altri, possono essere
giustamente vietati. Di questo tipo sono i reati contro la decenza, su cui non
è necessario soffermarci, perché hanno solo un legame indiretto con la
questione che ci interessa; e comunque l'obiezione all'essere
compiuti in pubblico è altrettanto fondata nel caso di molti atti
di per sé non riprovevoli, né presunti tali.
Vi è un'altra questione cui bisogna trovare una risposta
coerente con i principi che abbiamo enunciato. Si considerino i casi di
comportamenti personali considerati riprovevoli, ma che la società, per
rispetto della libertà, non può né prevenire né punire perché il
male che ne risulta direttamente ricade solo su chi li compie; dei terzi sono
ugualmente liberi di consigliare o incoraggiare lo stesso atto che un singolo
individuo è libero di fare? È una questione non priva di
difficoltà. Il caso di una persona che inciti un'altra a compiere
un'azione non è, a stretto rigor di termini, un caso di condotta che
riguarda solo se stessi. Offrire consigli o incentivi
a un altro è un atto sociale, e quindi si può supporre che, come
ogni azione che riguardi gli altri, sia sottoposto a controllo sociale. Ma un'ulteriore
riflessione modifica la prima opinione, mostrando che, anche se il caso non
rientra a stretto rigor di termini nella definizione di libertà
individuale, tuttavia valgono per esso le ragioni su
cui si fonda il principio della libertà individuale. Se si deve
permettere agli uomini di agire come meglio credono e a proprio rischio in
tutto ciò che li riguarda esclusivamente, allora devono essere
ugualmente liberi di consultarsi reciprocamente su ciò che sia meglio fare, di scambiarsi opinioni, di dare e ricevere
suggerimenti. Deve essere permesso consigliare di fare ciò che è
permesso fare. La questione è dubbia solo quando l'istigatore trae un vantaggio personale dai
suoi consigli, quando la sua occupazione, a fini di sostentamento o di guadagno
pecuniario, consiste nel favorire ciò che la società e lo Stato
considerano un male. Allora in effetti si introduce un
nuovo fattore di complicazione – l'esistenza di classi di individui il cui
interesse si contrappone a ciò che viene considerato il bene comune, e
il cui modo di vivere si fonda sulla contrapposizione a esso. In questo caso
è o non è legittimo interferire? Per esempio, la fornicazione
deve essere tollerata, e così pure il gioco; ma un individuo deve essere
libero di fare il ruffiano, o di tenere una bisca? È uno di quei casi
che si collocano precisamente sulla linea di demarcazione tra i due principî, e
non è immediatamente palese a quale dei due vada
ricondotto. Vi sono argomenti a favore di entrambi. Per la tolleranza, si
può sostenere che il fatto di svolgere qualsiasi attività e di
trarre dalla sua pratica sostentamento o profitto non
può rendere criminoso ciò che altrimenti sarebbe consentito; che
lo specifico atto dovrebbe coerentemente essere sempre lecito o sempre
illecito; che se i principî che abbiamo finora difeso sono veri, non è
compito della società, in quanto tale, decidere se qualcosa di
competenza esclusivamente individuale sia giusto o sbagliato; che la
società non può andar al di là della dissuasione, e che si
deve essere altrettanto liberi di persuadere che di dissuadere. A ciò si
può controbattere che, anche se lo Stato o il pubblico non hanno diritto
di decidere d'autorità, a fini repressivi o punitivi, che una data
condotta riguardante solo gli interessi dell'individuo è buona o
cattiva, nel caso la considerino cattiva sono
pienamente giustificati a presumere che si tratta di una questione quanto meno
opinabile: in base a questa presunzione, non possono agire erroneamente se
tentano di neutralizzare l'influsso di incitamenti che non sono disinteressati,
di istigatori che non possono essere imparziali, perché sono direttamente e
personalmente interessati a un tipo di soluzione, che è quella che lo
Stato ritiene sbagliata, e che per loro stessa ammissione favoriscono esclusivamente
a fini personali. Si potrebbe sostenere che non vi è sacrificio del
bene, che nulla si perde, se una situazione viene
regolamentata in modo che gli individui compiano la propria scelta, giusta o
sbagliata, autonomamente, il più possibile liberi dalle seduzioni di
persone che ne stimolano le inclinazioni a propri fini interessati. Così
(si potrebbe dire), anche se la normativa riguardante
il gioco illegale è del tutto indifendibile – anche se tutti dovrebbero
essere liberi di giocare a casa propria o altrui, o in qualsiasi luogo di
ritrovo creato dai loro contributi finanziari e aperto solo ai membri e ai loro
ospiti –, tuttavia le bische pubbliche non dovrebbero essere consentite.
È vero che la loro proibizione non ha mai realmente efficacia e che,
indipendentemente dalla quantità di poteri tirannici concessa alla
polizia, le bische possono sempre continuare a esistere sotto altro nome; ma le si può costringere a svolgere la loro
attività in una certa atmosfera di segretezza e mistero, in modo che
solo chi le cerca attivamente ne conosca l'esistenza; e la società non
dovrebbe mirare più che a questo. Sono argomentazioni di peso
considerevole. Non mi arrischierò a decidere se siano
sufficienti a giustificare l'anomalia morale di punire il complice mentre il colpevole
principale è (e deve essere) lasciato in libertà; di multare o
incarcerare il ruffiano ma non il fornicatore, il
tenutario della bisca, ma non il giocatore. Ancor meno si dovrebbe interferire,
per ragioni analoghe, nelle operazioni di compravendita. Di quasi ogni merce
comprata e venduta si può fare uso eccessivo, e i venditori hanno un
interesse pecuniario a incoraggiare l'eccesso; ma non si può fondare su
ciò alcuna argomentazione a favore, per esempio, della legge del Maine,
perché i commercianti di alcolici, anche se interessati a che se ne faccia
abuso, sono indispensabili ai fini dell'uso legittimo dell'alcool. Tuttavia,
l'interesse di questi commercianti a favorire l'intemperanza è un male
reale, che giustifica lo Stato a imporre restrizioni e richiedere garanzie che,
in assenza di questa giustificazione, sarebbero violazioni della libertà
legittima.
Un'ulteriore questione è se lo Stato, pur permettendola,
debba ciononostante scoraggiare una condotta che ritiene contraria agli
interessi di chi la tiene; se per esempio debba prendere misure per rendere
più costosi i mezzi dell'ubriachezza, o rendere più difficile il
procurarseli, limitandone il numero dei punti di vendita. Come molte altre
questioni pratiche, anche questa richiede molte distinzioni. Tassare gli
alcolici al solo fine di renderne più difficile l'acquisto differisce
solo per gradi dal proibirli del tutto, e sarebbe giustificabile solo se lo
fosse il divieto. Ogni aumento di prezzo è una proibizione per coloro i
cui mezzi non consentono la nuova spesa; e per coloro che se la possono
permettere, è una punizione per la soddisfazione di quel loro
particolare gusto. La loro scelta di piaceri e il loro
modo di spendere il proprio reddito, una volta soddisfatti gli obblighi morali
e legali verso lo Stato e verso i singoli, sono affari loro, che devono
dipendere dal loro giudizio. Di primo acchito si direbbe che queste
considerazioni condannino la scelta degli alcolici come speciale oggetto di
tassazione fiscale. Ma va ricordato che la tassazione fiscale
è assolutamente inevitabile; che nella gran parte dei paesi è
necessario che essa sia per buona parte indiretta; che quindi lo Stato non
può non imporre penalità, che per alcuni possono risultare
proibitive, sull'uso di alcuni articoli di consumo. È di
conseguenza dovere dello Stato considerare, nella sua politica delle imposte,
di quali merci i consumatori possano più
facilmente fare a meno; e, a fortiori,
scegliere preferenzialmente quelle di cui ritiene
l'uso, salvo che in quantità molto moderate, effettivamente dannoso.
Quindi la tassazione degli alcolici fino al livello a cui
produca il massimo gettito (nell'ipotesi che lo Stato necessiti di tutte le
entrate che ne può derivare) non solo è ammissibile, ma va
approvata.
La questione di rendere la vendita di queste merci un privilegio
più o meno esclusivo ha risposte diverse a seconda
degli scopi cui intende adempiere la restrizione. Tutti i locali
pubblici necessitano di controllo da parte della polizia, in particolare quelli
che spacciano alcolici perché vi si possono spesso verificare reati contro la
società. Quindi è opportuno limitare la licenza di vendere questi merci (almeno per il consumo immediato) a persone di
rispettabilità nota o garantita; regolamentare gli orari di apertura e
chiusura nel modo più consono alla pubblica sorveglianza, e ritirare la
licenza se si verificano ripetutamente violazioni dell'ordine pubblico per
connivenza o incapacità del gestore del locale, o se lo spaccio diventa
un luogo d'ideazione e preparazione di reati. Non ritengo che, in linea di
principio, sia giustificabile qualunque altra restrizione. Per esempio, la
limitazione del numero dei locali di spaccio di alcoolici,
espressamente allo scopo di rendervi più difficile l'accesso e di
limitare le occasioni di tentazione, non solo causa un disagio a tutti soltanto
perché alcuni potrebbero abusare dei locali in questione, ma è degna
solo di una società in cui le classi lavoratrici sono dichiaratamente trattate come bambini o selvaggi, e sottoposte a una educazione
repressiva che le prepari a essere ammesse in futuro ai privilegi della
libertà. Non è questo il principio in base al quale si afferma di
governare le classi lavoratrici in un paese libero; e nessuno che dia alla
libertà il suo giusto valore può approvare questo modo di
governarle, a meno che non siano falliti tutti gli sforzi di educarle e
governarle come uomini liberi, e sia stato definitivamente provato che possono
soltanto essere governate come bambini. La semplice enunciazione
dell'alternativa mostra quanto sia assurdo supporre che questi sforzi siano
stati compiuti in uno qualsiasi dei casi che qui ci interessano. È solo
perché le istituzioni di questo paese sono una massa di incoerenze che nella
pratica vengono ammessi questi fenomeni di dispotismo,
chiamato anche paternalismo, mentre la libertà generale della nostra
costituzione impedisce l'esercizio del controllo necessario a dare a certe
restrizioni un pur minimo valore di educazione morale.
All'inizio di questo saggio si era affermato che la libertà
dell'individuo in questioni che riguardano lui solo implica una corrispondente
libertà per qualsiasi numero di individui di regolare per mutuo consenso
questioni che li riguardano nel loro complesso, e non riguardano
altri. Questo problema non presenta difficoltà fino a
quando la volontà di tutti gli interessati resta immutata; ma
poiché potrebbe mutare, spesso essi devono, anche in questioni che riguardano
solo loro, contrarre degli impegni reciproci; e in questo caso è
generalmente giusto che questi impegni vengano mantenuti. Tuttavia, questa
regola generale ha delle eccezioni, presenti probabilmente nelle leggi di tutti
i paesi. Non solo gli individui non sono vincolati da impegni che violino i diritti di terzi, ma talvolta viene considerata
ragione sufficiente per esimerli dall'impegno il fatto che sia loro dannoso.
Per esempio, in questo e nella maggior parte degli altri paesi civilizzati un
impegno per cui una persona si venda, o permetta di
essere venduta, come schiavo sarebbe privo di valore legale, e né la legge né
l'opinione consentirebbero che fosse rispettato. La ragione per limitare
così il potere dell'individuo di disporre volontariamente della propria vita è evidente, e questo caso estremo
la mostra con chiarezza. Il motivo per non interferire, salvo quando altri
siano coinvolti, negli atti volontari di un individuo è il rispetto
della sua libertà: la sua scelta volontaria
prova che ciò che sceglie è per lui desiderabile, o perlomeno
sopportabile, e nel complesso è più opportuno per il suo bene
permettergli di trovare da solo i mezzi di conseguirlo. Ma vendendosi come
schiavo, abdica alla sua libertà: rinuncia a ogni suo
uso posteriore all'atto di vendersi. Quindi contraddice, con la sua stessa
azione, proprio lo scopo che giustifica il permesso che ha di disporre di se
stesso. Non è più libero, e appunto per questo si trova in una
posizione che vanifica la presunzione che egli vi possa restare
volontariamente. Il principio della libertà non può ammettere che
si sia liberi di non essere liberi: non è libertà potersi privare
della libertà. Queste ragioni, la cui efficacia
è così evidente in questo caso particolare, hanno chiaramente
un'applicabilità ben più ampia; tuttavia vengono
limitate in ogni campo dalle esigenze della vita, che continuamente richiedono
non certo che rinunciamo alla nostra libertà ma che consentiamo a una
serie di sue limitazioni. Tuttavia, il principio che richiede l'incondizionata
libertà d'azione in tutto ciò che riguarda solo l'agente, implica
che due persone che abbiano preso un impegno reciproco e non riguardante terzi
siano libere di esimersi vicendevolmente dal rispettarlo; e, indipendentemente
da questa esenzione volontaria, probabilmente non esistono contratti o impegni
– salvo quelli riguardanti danaro o suoi equivalenti –
di cui si possa sostenere che non vi dovrebbe essere alcuna libertà di
rescinderli. Il barone Wilhelm von
Humboldt, nell'eccellente saggio che ho già
citato, afferma che gli impegni riguardanti rapporti o servizi personali non
dovrebbero mai essere legalmente vincolanti oltre un periodo limitato di tempo;
e che il più importante di essi, il matrimonio,
avendo la particolarità che i suoi scopi sono negati se i sentimenti di
entrambi i contraenti non sono in armonia, non dovrebbe richiedere altro che la
deliberata volontà di una delle due parti per essere disciolto. Questo
argomento è troppo importante e complicato per essere discusso in un
inciso, e vi accenno soltanto a fini esemplificativi. Se la concisione e la
generalità della sua argomentazione non avessero costretto il barone Humboldt a enunciare le sue conclusioni in proposito senza
poterne discutere le premesse, avrebbe senza dubbio riconosciuto che la
questione non può essere decisa su basi così semplici come quelle
cui egli si limita. Quando qualcuno o con una promessa esplicita o con la sua
condotta, ha incoraggiato un'altra persona a ritenere con sicurezza che egli
continuerà a agire in un certo modo – e quindi l'ha portata a formarsi
delle aspettative, a fare dei piani, e a impegnare una qualsiasi parte del suo
progetto di vita in questa supposizione –, si è creato una serie di
nuovi obblighi morali nei confronti dell'altra, obblighi che possono
successivamente venire annullati, ma non ignorati. E
inoltre, se il rapporto tra i due contraenti ha dato origine a conseguenze per
altre persone; se ha posto dei terzi in una posizione particolare, o, come nel
caso del matrimonio, li ha addirittura fatti esistere, vengono a crearsi degli
obblighi da entrambe le parti verso queste terze persone – obblighi il cui
adempimento, o comunque le cui modalità di adempimento, non possono non
essere grandemente influenzati dalla continuazione o dalla cessazione del
rapporto tra i due contraenti originari. Non ne segue, né del resto lo posso
ammettere, che questi obblighi si estendano a
richiedere l'adempimento a tutti i costi del contratto, a danno della
felicità della parte riluttante: ma costituiscono per necessità
un elemento del problema; e anche se, come sostiene von
Humboldt, non dovessero influire sulla libertà
legale dei contraenti di dichiararsi sciolti dall'impegno (e anch'io
ritengo che non dovrebbero influire molto), necessariamente hanno una
grande importanza in termini di libertà morale. Una persona ha
l'obbligo di prendere in considerazione tutte queste
circostanze prima di decidersi a un passo che può coinvolgere degli
interessi altrui di tale importanza; e se non dà loro il giusto peso
è moralmente responsabile dell'errore. Ho svolto queste ovvie
osservazioni per illustrare meglio il principio generale della libertà,
e non perché siano affatto necessarie nella questione specifica del matrimonio,
che anzi viene normalmente discussa come se gli
interessi dei bambini fossero tutto, e quelli degli adulti non esistessero.
Ho già notato che, a causa dell'assenza di principi
generalmente accettati, la libertà viene spesso
concessa quando dovrebbe essere negata, e viceversa; e uno dei casi in cui il
sentimento libertario è più forte nell'Europa moderna è, a
mio parere, interpretato in modo del tutto erroneo. Un individuo dovrebbe
essere libero di agire come gli piace in ciò che lo riguarda, ma non di
comportarsi come gli piace quando agisce per conto di
un'altra persona, col pretesto che gli affari di quest'ultima sono i suoi. Lo
Stato, rispettando la libertà di ciascuno in ciò che lo riguarda
specificamente, deve mantenere un vigile controllo sull'esercizio del potere
che permette che gli individui detengano su altre persone. Questo obbligo
statale è quasi completamente ignorato nel caso dei rapporti familiari
che, data la loro diretta influenza sulla felicità umana, sono
più importanti di tutti gli altri insieme.
È inutile dilungarsi in questa sede sul potere quasi dispotico dei
mariti sulle mogli, sia perché per eliminare completamente questo male basta
che le mogli abbiano uguali diritti e vengano protette
dalla legge come chiunque altro; sia perché, in questo campo, i difensori
dell'ingiustizia costituita non si appellano alla libertà ma si
proclamano apertamente sostenitori della forza. È nel caso dei bambini
che delle malintese nozioni di libertà
ostacolano realmente lo Stato nell'adempimento dei suoi doveri. Si penserebbe
quasi che i figli di un uomo siano ritenuti letteralmente, e non
metaforicamente, una sua parte, tanto l'opinione pubblica è insofferente
della pur minima interferenza legale nell'assoluto e esclusivo controllo
paterno sui figli, più insofferente che di quasi ogni interferenza con
la propria libertà d'azione: a tal punto la generalità degli uomini
stima la libertà meno del potere. Consideriamo per esempio il caso
dell'educazione. Non è quasi ovvio l'assioma che lo Stato dovrebbe
esigere e imporre l'educazione, fino a un certo livello, di ogni essere umano
che sia nato suo cittadino? E tuttavia, chi non ha paura di riconoscere e
affermare questa verità? Quasi nessuno negherà, in effetti, che
uno dei doveri più sacri dei genitori (o, secondo la legge e il costume
odierni, del padre) è, avendo fatto venire al mondo un essere umano,
dargli un educazione che lo ponga in grado di svolgere
nella vita la sua parte verso se stesso e gli altri. Ma mentre si dichiara
all'unanimità che questo è dovere del padre, quasi nessuno, in
questo paese, tollererà che si dica che il padre va obbligato a
compierlo. Invece di essere tenuto a compiere qualsiasi sforzo o sacrificio per
assicurare una educazione a suo figlio, può
scegliere se accettarla o meno quando viene fornita gratis! Non si ammette
ancora che far venire al mondo un bambino senza avere ragionevoli prospettive
di potere non solo procurargli alimento per il corpo, ma
istruzione e esercizio per la mente, e un crimine morale, sia contro la
sfortunata prole che contro la società; né che se non si adempie a
quest'obbligo, dovrebbe adempiervi lo Stato, nella misura del possibile a spese
del genitore.
Se venisse finalmente riconosciuto il
dovere di attuare l'istruzione universale, avrebbero fine le controversie su
che cosa e come lo Stato dovrebbe insegnare, che attualmente trasformano la
questione in un semplice terreno di scontro tra sette e partiti, in cui il
tempo e gli sforzi che dovrebbero essere impegnati nell'educazione sono
sprecati a litigare su di essa. Se il governo si decidesse a esigere che ogni
bambino riceva una buona istruzione, potrebbe evitarsi il disturbo di fornirla:
potrebbe lasciare ai genitori il compito di trovare
l'educazione dove e come preferiscono, e limitarsi a pagare le tasse
scolastiche dei bambini delle classi più povere, e a coprire tutte le
spese scolastiche di quelli che sono completamente privi di mezzi. Le obiezioni
che vengono giustamente mosse all'educazione di Stato
non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l'istruzione, ma
che si prenda carico di dirigerla; che è una questione completamente
diversa. Sono il primo a deplorare che l'intera istruzione, o qualsiasi sua
parte, sia affidata allo Stato: tutto ciò che si è affermato
sull'importanza dell'individualità del carattere e della
diversità di opinioni e comportamenti implica, con la stessa
incommensurabile importanza, la diversità di educazione. Un'educazione
di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli
uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito al potere
dominante – sia esso il monarca, il clero, l'aristocrazia, la maggioranza dei
contemporanei – quanto più è efficace e ha
successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla
mente, e che per tendenza naturale porta a quello sul corpo. Un'educazione
istituita e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt'al più, un
esperimento in competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo
che contribuisca a mantenere un certo livello
qualitativo generale. Soltanto quando la società in generale è a
uno stadio così arretrato che non sarebbe in grado di crearsi
istituzioni educative adeguate se lo Stato non se ne assumesse il compito, il
governo può, scegliendo tra due mali il minore, incaricarsi della
gestione di scuole e università, come potrebbe fondare delle
società per azioni se l'iniziativa privata del paese non fosse
abbastanza sviluppata da intraprendere grandi attività industriali in
generale se un paese contiene un numero sufficiente di persone qualificate a
svolgere la funzione educativa sotto il patrocinio dello Stato, esse sono
disposte e in grado di fornire un'educazione altrettanto buona su basi
volontarie, purché sia loro garantita la remunerazione da una legge che renda
obbligatoria l'istruzione, insieme con sovvenzioni statali agli allievi non in
grado di affrontare le spese scolastiche.
Gli strumenti per attuare a legge non potrebbero essere altro che
esami pubblici, estesi a tutti i bambini a partire dall'infanzia. Si potrebbe
fissare un'età in cui è obbligatorio un esame che stabilisca se
un bambino sa leggere. Se il bambino si rivela analfabeta, il padre, a meno che
non presenti adeguate giustificazioni, potrebbe essere punito con una lieve
ammenda – pagabile se necessario, con prestazioni d'opera – e il bambino
potrebbe essere mandato a scuola a sue spese. Una volta all'anno
l'esame andrebbe ripetuto, su una gamma di argomenti gradatamente ampliata, in
modo da rendere virtualmente obbligatorio per tutti acquisire e, ciò che
è più, mantenere un certo minimo di cultura generale. Oltre ad esso, dovrebbero esistere esami volontari su tutte le
materie, che conferiscano un certificato a chiunque dia prova di un certo
livello di conoscenze. Per evitare che lo Stato eserciti per questa via
un'indebita influenza sull'opinione, le conoscenze necessarie per superare un
esame (a parte quelle puramente strumentali, come le lingue e il loro impiego)
dovrebbero anche ai livelli più elevati, limitarsi esclusivamente ai
fatti e alla scienza positiva. Gli esami riguardanti religione, politica o
altri argomenti controversi non dovrebbero vertere sulla verità o
falsità delle varie opinioni, ma sul fatto che date opinioni
sono sostenute, in base a date argomentazioni, da dati autori, scuole o chiese.
Con questo sistema, la nuova generazione si troverebbe in una posizione non
peggiore di quella attuale rispetto a tutte le
verità controverse: i giovani crescerebbero anglicani o dissenzienti
come crescono ora, e lo Stato si limiterebbe a renderli anglicani o
dissenzienti istruiti. Nulla impedirebbe loro di studiare la religione, se
così desiderano i loro genitori, nelle medesime scuole in cui imparano
altre cose. Tutti i tentativi da parte dello Stato di influenzare le
conclusioni che i cittadini possono raggiungere su argomenti controversi
costituiscono un male; ma lo Stato non commette alcuna interferenza indebita
offrendosi di accertare e certificare che un individuo possiede la cultura
necessaria a rendere degne di attenzione le sue conclusioni su un qualsiasi
argomento. Uno studente di filosofia trarrebbe vantaggio dall'essere in grado
di affrontare un esame sia su Locke sia su Kant, indipendentemente dal fatto che condivida le idee
dell'uno, dell'altro o di nessuno dei due; e non vi è ragione di
obiettare al fatto che un ateo venga esaminato sulle
prove dell'esistenza di Dio, purché non si esiga che professi di credervi.
Tuttavia ritengo che gli esami ai livelli più elevati dovrebbero essere
completamente volontari: i governi avrebbero un potere troppo pericoloso se
fosse loro permesso di escludere chiunque da una professione, ivi compreso
l'insegnamento, sostenendo che è privo dei requisiti necessari; e
ritengo, con Wilhelm von Humboldt, che le lauree o altri certificati pubblici di
qualità scientifiche o professionali dovrebbero essere conferiti a
chiunque si presenti agli esami e li superi, ma non dovrebbero costituire un
vantaggio rispetto a chi ne è privo, salvo per l'eventuale importanza
attribuita dalla pubblica opinione a quanto attestano.
Non è solo nella questione dell'istruzione che delle
malintese nozioni di libertà impediscono che vengano
riconosciuti gli obblighi morali dei genitori, e venga loro imposto di
rispettare quelli legali, mentre invece è sempre giusto far rispettare i
primi, e in molti casi anche i secondi. Lo stesso fatto di causare l'esistenza
di un essere umano è una delle azioni che comportano più responsabilità
nell'intero arco della vita umana. Assumersi questa responsabilità –
dare una vita che può essere una sciagura o una fortuna –, senza che
l'essere che riceve la vita abbia almeno le normali probabilità di
condurre un'esistenza desiderabile è un delitto contro di lui. E in un
paese che è sovrappopolato o minaccia di diventarlo, produrre bambini in
un numero che non sia molto limitato con l'effetto di diminuire il compenso del
lavoro a causa della loro concorrenza, è un grave reato contro tutti coloro che vivono dei frutti del loro lavoro. Le leggi
che in molti paesi del Continente vietano il matrimonio se le parti contraenti
non possono dimostrare di avere i mezzi sufficienti a mantenere una famiglia,
non esulano dai poteri legittimi dello Stato; e, indipendentemente dalla loro
maggiore o minore efficacia (che generalmente varia a seconda
delle condizioni e dei sentimenti del paese) non sono criticabili come
violazioni della libertà. Sono interferenze statali per vietare un atto
nocivo – un atto lesivo di altri, che dovrebbe essere condannato e bollato
dalla società, anche nei casi in cui non si giudichi
opportuno infliggere anche una punizione legale. E tuttavia le comuni
concezioni della libertà, che così spesso accettano supinamente
le vere violazioni della libertà dell'individuo in ciò che
è di sua esclusiva competenza, rifiuterebbero
ogni tentativo di controllarne le inclinazioni quando indulgervi può
portare a una vita di infelicità e depravazione per genitori e figli,
con molteplici mali per chiunque sia sufficientemente vicino da subirne le
conseguenze. Quando confrontiamo lo strano rispetto che gli uomini hanno per la
libertà con lo strano disprezzo che hanno per essa,
potremmo pensare che un uomo ha un diritto inalienabile a far del male agli
altri, e assolutamente nessuno a far quel che gli piace senza dar dolori a
nessuno.
Ho lasciato per ultimo un vasto gruppo di questioni riguardanti le
interferenze da parte del governo, che, anche se strettamente collegate
all'argomento di questo saggio, a rigor di termini non ne fanno parte. Sono dei
casi in cui le ragioni contrarie all'interferenza non si fondano sul principio
di libertà: la questione non è di porre delle restrizioni alle
azioni degli individui, ma di aiutarli; ci si chiede
se il governo debba compiere, o far compiere, degli atti a loro beneficio
invece di lasciarli fare ai cittadini stessi, individualmente o in associazioni
volontarie. Le obiezioni all'interferenza governativa, che non costituisca
violazione della libertà, possono essere di tre tipi: Il primo è quando l'azione da compiere ha probabilità
di essere compiuta meglio da singoli individui che dal governo. In generale,
nessuno è tanto adatto a condurre degli affari, o a decidere come o da
chi vadano condotti, quanto coloro che vi hanno un interesse personale. Questo
principio condanna le interferenze, un tempo tanto comuni, del potere
legislativo o di funzionari governativi nelle normali attività
dell'industria e del commercio. Ma questo aspetto della questione è
già stato sufficientemente approfondito dagli studiosi di economia
politica, e non è particolarmente collegato ai principi di questo
saggio. La seconda obiezione è più strettamente connessa al
nostro problema. In molti casi, anche se i singoli individui non sono
mediamente in grado di svolgere una data attività altrettanto bene che
dei funzionari governativi, è tuttavia auspicabile che essa sia svolta
da loro invece che dal governo, come mezzo di educazione intellettuale come un
modo di rafforzare le proprie facoltà attive, esercitare il proprio giudizio, e acquisire una certa conoscenza e
familiarità con le questioni di cui si devono così occupare. Questo è il principale, anche se non l'unico, argomento a
favore delle giurie popolari (salvo che nei processi politici); di istituzioni
locali e municipali libere e popolari; della gestione di iniziative industriali
e filantropiche da parte di associazioni volontarie. Non sono delle
questioni di libertà – problema cui sono collegate solo da remote
tendenze – ma di sviluppo. Non è questa la sede per trattare di queste
attività in quanto componenti dell'educazione nazionale, anzi in quanto
addestramento specifico dei singoli cittadini, aspetto pratico della loro
educazione politica di uomini liberi, che li fa uscire dalla ristretta cerchia
dell'individualismo personale e familiare e li abitua a comprendere gli
interessi comuni e a organizzare iniziative comuni – a
agire per motivi pubblici e semipubblici, e ispirare la propria condotta a fini
che li unificano invece di isolarli l'uno dall'altro. Senza queste abitudini e questi poteri, una libera costituzione non può essere
attuata né conservata, come mostra fin troppo spesso la natura transitoria
della libertà politica nei paesi in cui essa non si fonda su una base
sufficiente di libertà locali. La gestione delle questioni puramente
locali da parte degli abitanti, e delle grandi iniziative industriali da parte
dell'insieme di coloro che volontariamente ne forniscono il supporto
finanziario, è inoltre auspicabile per tutti i vantaggi che questo
saggio ha indicato come propri dell'individualità dello sviluppo e della
varietà dei modi di agire. Le attività
governative tendono ad essere uguali dappertutto; i
singoli e le associazioni volontarie invece danno origine a una varietà
di esperimenti e a un'infinita diversità di esperienze. Lo Stato
può rendersi utile trasformandosi in deposito centrale, e in attivo
diffusore, delle esperienze risultanti da molti tentativi diversi: suo compito
è far sì che ogni sperimentatore tragga profitto dagli
esperimenti altrui, invece di tollerare soltanto i propri.
La terza e più valida ragione per limitare l'interferenza
dello Stato è la grande sciagura costituita da un'inutile estensione del
suo potere. Ciascuna funzione che viene ad aggiungersi a quelle che il governo
già svolge, amplia il suo campo di influenza sulla speranza e sul timore
umani, e trasforma sempre più gli individui più attivi e
ambiziosi in parassiti del governo, o di qualche partito che aspiri a
diventarlo. Se strade, ferrovie, banche, assicurazioni, grandi società
per azioni, università e opere benefiche fossero tutte delle branche del
governo; se inoltre le amministrazioni municipali e locali, con tutte le loro
attuali competenze, diventassero dipartimenti dell'amministrazione centrale; se
i dipendenti di tutte queste aziende e istituzioni fossero nominati e pagati
dal governo e si rivolgessero a esso per ogni
miglioramento della loro qualità di vita, tutta la libertà di
stampa e tutta la democraticità del potere legislativo non renderebbero
questo o alcun altro paese libero se non di nome. E il male sarebbe tanto
maggiore quanto più efficientemente e scientificamente fosse costruita
la macchina amministrativa – quanto più abili e raffinati fossero i
metodi di ottenere che vi lavorino le persone più qualificate ed esperte.
In Inghilterra è stato recentemente proposto che tutti i funzionari
civili dello Stato vengano scelti mediante esami
pubblici, in modo da selezionare per questi impieghi le persone più
intelligenti e colte che il paese offra: e molto è stato detto e scritto
a favore e contro questa proposta. Uno degli argomenti su cui hanno più
insistito i suoi oppositori è che l'impiego permanente di funzionario
statale non offre prospettive di reddito e carriera sufficienti da attrarre i
talenti migliori, che saranno sempre in grado di trovare carriere più
allettanti nelle libere professioni o al servizio di compagnie o di altri enti
pubblici. Non sarebbe stato sorprendente se questa argomentazione fosse stata
usata dai fautori della proposta per controbattere l'obiezione principale da essa suscitata: sorprende invece che la usino gli
oppositori. Quella che viene avanzata vigorosamente
come critica è la valvola di sicurezza del sistema. Se tutti i migliori
talenti del paese potessero effettivamente essere convinti a servire lo
Stato, la proposta in questione potrebbe a buon diritto suscitare un senso di
disagio. Se ogni aspetto delle attività sociali che richiede
capacità organizzative, o di ampia comprensione e sintesi, fosse nelle
mani del governo, e se gli incarichi governativi fossero tutti ricoperti dalle persone più capaci, tutta la cultura più
approfondita e l'intelligenza più sperimentata del paese – eccezion
fatta per gli intelletti puramente speculativi – sarebbe concentrata in una
folta burocrazia, che diventerebbe l'unico punto di riferimento del resto della
comunità per qualsiasi questione. Le masse si rivolgerebbero a essa per essere dirette e guidate in ogni loro
attività e i più capaci e ambiziosi per ottenere avanzamento
personale. Essere ammessi nelle fila di questa burocrazia, e successivamente
farvi carriera, diventerebbero le due uniche ambizioni. In un regime del
genere, non solo il pubblico esterno alla burocrazia non sarebbe in grado, per
mancanza di esperienza pratica diretta, di criticarne o controllarne
l'attività, ma anche se, per accidenti del dispotismo o funzionamento
naturale delle istituzioni popolari, salissero al potere dei governanti o un governante con intenzioni riformatrici, non si potrebbe
effettuare alcuna riforma che andasse contro gli interessi della burocrazia.
Questa è la malinconica condizione dell'Impero russo, stando alle
descrizioni di coloro che hanno avuto sufficienti opportunità di
osservarlo. Lo stesso zar è impotente contro la burocrazia: può
mandare qualsiasi burocrate in Siberia, ma non può governare senza di
loro, o contro la loro volontà; hanno il tacito veto su ogni suo ordine,
semplicemente perché possono rifiutarsi di eseguirlo. In paesi di
civiltà più avanzata e di spirito più insurrezionale, i
cittadini, abituati a che lo Stato faccia tutto in
vece loro, o almeno a chiedere sempre allo Stato non solo il permesso di far
qualcosa ma anche come farla, naturalmente lo giudicano responsabile di
qualsiasi disgrazia loro accada, e quando i mali superano i limiti della loro
pazienza si ribellano al governo facendo la cosiddetta rivoluzione; con la
quale qualcun altro, investito o no della legittima autorità dalla
nazione, balza al posto di comando, impartisce i suoi ordini alla burocrazia, e
tutto continua quasi come prima: la burocrazia resta immutata, e nessuno
è capace di prenderne il posto.
Un popolo abituato a gestire direttamente i propri affari offre
uno spettacolo ben diverso. In Francia, dove gran parte della popolazione ha
fatto il servizio militare e molti hanno avuto il grado almeno di
sottufficiali, ogni insurrezione popolare comprende diverse persone in grado di
assumerne la guida e di improvvisare un piano ragionevole d'azione. Ciò
che i francesi sono nelle questioni militari, lo sono gli americani in ogni genere
di affari civili; se privato del governo, qualsiasi gruppo di americani
è in grado di improvvisarne uno e di svolgerne i compiti, come del resto
qualsiasi altra attività, con un sufficiente grado di intelligenza,
ordine e decisione. Questo è ciò che dovrebbe
essere ogni popolo libero; e un popolo capace di questo è certo di
restare libero; non si lascerà mai rendere schiavo da un uomo o da un
gruppo di uomini perché sono in grado di impadronirsi delle redini
dell'amministrazione centrale e di usarle. Nessuna burocrazia può
sperare di costringere un popolo come questo a sottomettersi o a fare
ciò che non desidera. Ma nei paesi in cui tutto è svolto tramite
la burocrazia, non è possibile fare assolutamente nulla cui essa sia realmente contraria. La costituzione di paesi di
quest'ultimo tipo è l'organizzazione delle esperienze e delle
capacità pratiche della nazione in un'entità disciplinata la cui
funzione è governare il resto del paese. Quanto più perfetta è l'organizzazione, quanto più riesce a
attrarre e a educare ai propri fini le persone più capaci provenienti da
ogni strato della comunità, tanto più completa è la
schiavitù per tutti, compresi i membri della burocrazia; poiché i
governanti sono altrettanto schiavi della loro disciplina e organizzazione
quanto sono schiavi i governati. Un mandarino cinese è strumento e
creatura del dispotismo tanto quanto il più umile contadino. Un singolo
gesuita è schiavo del suo ordine fino all'abiezione, anche se I ordine stesso esiste in virtù del potere collettivo
e dell'importanza dei suoi membri.
Non va inoltre dimenticato che l'assorbimento di tutte le maggiori
capacità di un paese nell'entità che lo governa e presto o tardi
fatale per l'attività mentale e l'evoluzione dell'entità stessa.
Strettamente interdipendenti operanti un sistema che, come tutti i sistemi,
funziona necessariamente in larga misura grazie a regole fisse –, i funzionari
sono costantemente tentati di cedere all'indolenza della routine o, se talvolta
abbandonano la monotonia del loro lavoro, di lanciarsi in qualche iniziativa
informe e poco meditata che ha colpito la fantasia di un membro importante
della gerarchia; e il solo ostacolo a queste tendenze strettamente connesse
anche se apparentemente opposte, il solo stimolo che può mantenere ad alti
livelli le capacità dell'entità complessiva, è l'essere
sottoposti all'attento vaglio critico di gruppi ad essa
esterni e di uguale capacità. È quindi indispensabile che,
indipendentemente dal governo, esistano le possibilità e i mezzi di
formare queste capacità e di fornire loro le opportunità e
l'esperienza necessarie per giudicare correttamente i grandi problemi pratici.
Se vogliamo avere dei funzionari abili e efficienti – soprattutto capaci di
generare innovazioni e disposti a accettarle –, se non vogliamo che la nostra burocrazia degeneri in una pedantocrazia,
l'entità burocratica non deve inglobare tutte le occupazioni che formano
e sviluppano le facoltà necessarie al governo degli uomini.
Determinare il punto in cui il
danno, così grave per la libertà e il progresso umani, comincia,
o meglio comincia a prevalere sui benefici derivanti dall'applicazione
collettiva della forza della società, guidata dai suoi capi
riconosciuti, al fine di eliminare gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento
del bene comune; ottenere tutti i possibili vantaggi della centralizzazione del
potere e dell'intelligenza senza incanalare una parte troppo grande delle
attività complessive nell'ambito governativo; questo è uno dei
problemi più difficili e complessi posti dall'arte del governare. È in larga misura una questione di particolari, in cui
vanno tenute presenti molte e diverse considerazioni e non si possono stabilire
regole assolute. Ma ritengo che il principio pratico che garantisce la
sicurezza, l'ideale da non perdere di vista, il criterio su cui valutare tutti
i sistemi per superare queste difficoltà, può essere espresso in questi termini: la massima disseminazione di potere che non
vada a scapito dell'efficienza, e la massima centralizzazione, e diffusione dal
centro, dell'informazione. Per esempio, nell'amministrazione municipale vi
sarebbe – come negli stati della Nuova Inghilterra – una distribuzione molto
dettagliata tra funzionari diversi, scelti dagli abitanti locali, di tutte le
questioni che non possono essere risolte per il meglio da chi vi è
direttamente interessato; ma inoltre in ogni dipartimento dell'amministrazione
locale vi sarebbe una sovrintendenza centrale, che costituisce come una branca
del governo nazionale. Essa concentrerebbe, come un punto focale, tutta la
varietà di informazioni e esperienze tratte dall'operato di quella
specifica branca amministrativa in tutto il paese, da qualunque analoga
esperienza di paesi stranieri, e dai principi generali
della scienza della politica. Questo organo centrale dovrebbe aver diritto a
conoscere ogni aspetto di tutte le attività, e suo compito specifico
sarebbe porre le conoscenze acquisite dall'esperienza di una località a
disposizione delle altre. Esente dai piccoli pregiudizi e dalla ristrettezza di
vedute locali, grazie alla sua posizione superiore e all'ampiezza della sua
sfera di osservazione, il suo parere sarebbe
naturalmente molto autorevole; ma il suo potere reale, in quanto istituzione
permanente, dovrebbe a mio parere essere limitato, obbligando i suoi funzionari
locali ad attenersi alle disposizioni di legge. In tutte le questioni non
previste dalla normativa generale, essi sarebbero liberi di agire secondo il
loro giudizio, e ne risponderebbero agli elettori. Sarebbero legalmente
responsabili delle infrazioni alle norme stabilite dal potere legislativo.
L'autorità amministrativa centrale si limiterebbe a vegliare sulla loro
attuazione, e se non venissero applicate adeguatamente
potrebbe appellarsi, a seconda dei casi, ai tribunali per far rispettare la
legge, o agli elettori per allontanare i funzionari che ne avessero tradito lo
spirito. Di questo tipo è, nella sua impostazione generale, la
sovrintendenza centrale che la commissione per la legge di assistenza ai poveri
dovrebbe esercitare sugli amministratori della tassa assistenziale in tutto il
paese. Tutti i poteri che la commissione ha esercitato oltre questo limite
erano giusti, e necessari nei casi specifici per combattere radicate
consuetudini di cattiva amministrazione in questioni che interessano
profondamente non solo le località specifiche ma l'intera
comunità. Nessuna località ha infatti il
diritto morale di rendersi, per incapacità amministrativa, un covo di
pauperismo, che necessariamente si estende ad altre e danneggia le condizioni
morali e fisiche dell'intera comunità lavoratrice. I poteri di
costrizione amministrativa e di legislazione ad essa
subordinata conferiti alla commissione per la legge assistenziale (che
purtroppo, a causa dell'atteggiamento dell'opinione pubblica, sono pochissimo
esercitati), anche se perfettamente giustificati in un caso di primario
interesse nazionale, sarebbero totalmente sproporzionati per la sovrintendenza
di interessi puramente locali. Ma un organo centrale di informazione e
istruzione ad uso di tutte le località sarebbe altrettanto utile in
tutti i dipartimenti dell'amministrazione pubblica. Un governo non svolgerà mai abbastanza attività di questo
genere, che non ostacolano, ma aiutano e stimolano le iniziative e lo sviluppo
individuali. I mali cominciano quando il governo, invece di fare appello alle
attività e ai poteri di singoli e di associazioni, si sostituisce a essi; quando, invece di informare, consigliare, e talvolta
denunciare, impone dei vincoli, o ordina loro di tenersi in disparte e agisce
in loro vece. A lungo termine, il valore di uno Stato
è il valore degli individui che lo compongono; e uno Stato che agli
interessi del loro sviluppo e miglioramento intellettuale antepone una
capacità amministrativa lievemente maggiore, o quella sua parvenza
conferita dalla pratica minuta; uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini
perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a
fini benefici, scoprirà che con dei piccoli
uomini non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione
meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla,
perché mancherà la forza vitale che, per far funzionare meglio la
macchina, ha preferito bandire.