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PRIVILEGIA
NE IRROGANTO di Mauro Novelli
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Scipio Slataper
Trieste, 14 luglio 1888 – Monte Calvario, 3 dicembre 1915
“ Il mio Carso “
a Gioietta
Parte prima
Vorrei dirvi: Sono nato in
carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo.
C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite
sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza
strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di
roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a
pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le
mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.
Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una
lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a
pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son
venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli
amici fra i giovani piú colti; ma presto devo tornare
in patria perché qui sto molto male.
Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e
sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d'imbarbarire
le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch'io confessi d'esservi
fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido
davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di
voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto
disinteressato e contento, e non m'accorgo che voi state gustando la vostra
intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino;
e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente
al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei che
m'amano e mi riconoscono in una stretta di mano in una risata calma e piena.
Essi sono sani e buoni.
Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti
l'interminabile campo con lo spaccaterra tirato da
quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di
cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala
a Trieste all'epoca del portofranco; alla grande casa
verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.
Era bello vederla seduta nella larga terrazza spaziante su enormi
spalti le montagne e il mare, lei secca e resistente accanto all'altra mia
nonna, la veciota venesiana,
rubiconda e spensierata, che aveva quasi ottant'anni e le si vedeva ancora il
forte palpito azzurrino del polso sollevarsi e cadere nella pelle morbida come
una foglia. Questa mi parlava dell'assedio di Venezia, del sacco di patate in
mezzo la cantina, della bomba che fracassò un pezzo di casa. E aveva un
fazzolettino bianco sui pochi capelli fini, ed era allegra. Quando veniva a
mangiare da noi, babbo le diceva sempre: "Beati i oci
che i la vedi".
Ma allora essa non m'interessava. Io filavo in campagna a giocare
con gli alberi.
Il nostro giardino era pieno d'alberi. C'era un ippocastano rosso
con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi
non potendolo piú levare ci lasciavo la scarpa.
Dall'ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di
passeri. C'era una specie di abete vecchissimo, su cui s'arrampicava una glicinia grossa come un serpente boa, rugosa, scannellata,
torta, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a
'sconderse. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio
cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo
di lassú il passo cauto dello stanatore,
mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi
come un grappolo d'uva. Il fiore del glicine ha un sapore
dolciastro-amarognolo, strano, di foglie di pesco e un poco come d'etere.
C'erano anche molti alberi fruttiferi, àmoli,
ranglò, ficaie, specialmente. Appena i fiori
perdevano i petali e i picciòli ingrossavano,
io ero lassú a gustarli, non ancora acerbi. Acerbi
son buoni! Il guscio del nocciolo è ancora tenero, come latte rappreso,
e dentro c'è un po' d'acqua limpidissima e ciucciosa.
Poi, dopo qualche giorno, quando la mamma è uscita di nuovo per andare
dalla zia, essa diventa una gomma gelatinosa dolce a sorbirsi con la punta
della lingua. Ma la carne com'è buona, cosí
aspra. Prima il dente ha paura di toccarla, e la strizza guardingo, mentre la
lingua riccamente la inumidisce e assapora la linfa delle piccole punture. Poi
la si addenta. Le gengive bruciano, i denti si stringono l'uno addosso
dell'altro, si fanno scabri e ruvidi come pietre, e tutta la bocca diventa una
ricca acqua.
Ma quando viene l'estate, per arrivare i pochi frutti rimasti
bisogna essere ghiri. Andare dove gli uccelli non hanno paura, perché non sono
abituati a trovarvi anche lassú. Alla biforcazione
delle due frasche piú alte mi tenevo agganciato con
un piede e bilanciandomi con la destra distesa procedevo a modo di bruco con la
sinistra sulla fraschetta svettante, trattenendo il respiro, finché arrivavo al
punto dove si piegava e a poco a poco s'avvicinava fino alla mia bocca. Qualche
volta dovevo lasciarla riscattar via perché la nonna sgridava "Fioi, ve 'mazarè su quei
alberi!". Allora stavo zitto, rosso, e scivolavo giú
fluendo.
E c'era anche, accosto al muro della strada, un tasso baccata che
scortecciavo facilmente a larghi brani per vederlo piú
pulito e piú rossiccio. Aveva, al terzo piano, due
rami come un letto, e lí dormivo qualche dopopranzo; oppure
contemplavo tronificante la mularia
stradaiola che faceva a ruffa di sotto per agguantare le bacche rosse che
buttavo giú da signore. (Io non le mangiavo, mi
schifavano). Poi imbaldanzita cominciava a fiondar sassi, e io allora, saltato giú come un demonio, correvo al portone, ne strappavo la
verghetta di ferro che serviva da chiavistello, e giú
a rotta di collo per le strade, fino quasi al centro della città, con
una maglietta e calzoncini a righette bianche e blu,
lunghi riccioli biondi, urlando: "daghe! daghe!". E alla sera
m'addormentavo disteso sul letto, mentre ancora mamma mi levava le calze piene
di terriccio e ghiaiola. Cara e buona mamma mia.
La mularia! Fecero la guerra a terribili
sassate in Sanza, un'antica fortezza triestina diroccata, accanto alla nostra
campagna. Li sentimmo urlare, correre, massacrarsi. Erano italiani e negri.
Vinsero gl'italiani. E uno d'essi scendeva col collo rotto e cantava
cadenzatamente: «Ma intanto mi go vinto! ma intanto mi go vinto!». Io vidi
tutta la guerra abissina su una grande carta geografica che babbo aveva
inchiodato nella nostra camera, e ci spiegava, tenendo in mano il Piccolo,
dove gl'italiani procedevano. Di sotto c'erano, a cavallo, con piume in testa e
neri in viso, Menelik, ras Alula: e io gli bucavo il naso con lo spillo delle
bandierine. Ero molto contento che gl'italiani vincessero. Credo d'aver pregato
per loro.
Allora credevo in Dio e pregavo ogni sera: "Padre nostro che
sei nei cieli", e poi stringevo gli occhi, stavo fermo fermo,
pensando soltanto quella persona che desideravo Dio amasse. E questo era
pregare. E pregavo per la mia bella Italia, che aveva una grande corazzata, la piú forte del mondo, che si chiamava Duilio. La
nostra patria era di là, oltre il mare. Invece qui, mamma chiudeva le
persiane alla vigilia della festa dell'imperatore, perché noi non s'illuminava
le finestre e si temeva qualche sassata.
Ma l'Italia vincerà e ci verrà a liberare. L'Italia
è fortissima. Voi non sapete cos'era per me la parola
"bersagliere".
La nostra casa era bella e patriarcale. L'atrio era come un grande
tempio, arioso, intorno a cui giravan le scale con le
balaustre bianche, incorniciate di legno lustro, giallo bruno. D'inverno il
sole entrando per i finestroni cercava di scaldare i cacti sgonfi di zio Daghelondai. Era la casa del nonno in cui abitavano i molti
figliuoli del nonno, e i molti nipoti.
La domenica e le feste il nonno sedeva a capo della tavola
parentale, laggiú in fondo. Era alto di torace con un
viso largo e indulgente e una gran barba bianchissima. Guardava contento i suoi
figliuoli e le loro donne. Quanti cari parenti erano seduti intorno alla tavola
nella gran sala domenicale! Tutti erano seduti al loro posto, e quando altri
venivano, si aggiungeva un'asse alla tavola e si prendeva una piú lunga tovaglia dall'armadio. Perché i nostri parenti
erano molti, e arrivavano da Zagabria, da Padova, dall'America e portavano
baicoli e giocattoli.
C'era zio Boto, intorno a quella tavola,
che faceva quadri e ci contava le avventure di Saturnino Farandola, e zia Tilde
con due grandi occhi dolci, color mare, e Biancolina, cuginetta, che stava
sempre con mio fratello e io cercavo rabbioso di sapere i loro segreti, e zio Daghelondai che ci diceva sempre con voce burbera:
"Turco alla predica! Daghelondai!", e io
ridevo e mio fratello saltava spiritato pestando i piedi, e zio Guido, e zio
Feliciano, e zia Mima, e Mario e Bruno, la nonna, zia Bice, papà, Toci, mamma. E zia Ciuta,
prosperosa e matronale. Aveva uno sguardo benefico, e le cose diventavan facili e semplici com'ella ne parlava.
E quando tutti avevan già finito
di mangiare e bevevano il caffè fumando i lunghi sigari virginia, la
porta si apriva con grande sforzo e tu entravi nel tuo grembiulino candido con
alle spalle i bei nastrini rosa, dormiglioso Pipi. Eri bello e sano, coi
capelli biondi e le gambocce nude, la giovane carne
ancora tiepida di sonno. I tuoi occhi strani, inquieti o estatici, guardavano
contenti la bella tovaglia bianca che aspettava ancora te prima d'esser portata
via, e i tanti piatti che papà aveva coperti con altri piatti a rovescio
per conservarti calde le vivande.
E ti annodavano un tovagliolone odoroso
di lavanda, ti mettevano davanti i lunghi, teneri risi nel grasso brodo di
pollo; la coscia di pollo e l'ala per i tuoi denti aguzzi; l'ombolo liscio cosparso dalla salsa di capperi; le rosse
ciliege carnose, a ciocche, con cui t'orecchinavi
deliziato del loro fresco; il fettone di torta, la piú
grande fetta che il nonno tagliava apposta per te. E tu zitto, metodico, grave,
sparecchiavi tutto senza domandare cos'era. Ma tutto ti piaceva, e tutto
bastava appena per una corsa in giardino. Eri sano e forte; i tuoi compagni ti
nominavano subito comandante, poiché li vincevi in corsa, in lotta e in tirar
sassi. Eri buono, e tutti ti volevano bene.
Steno, Gigetto, Toci, Oidecani, Eugenio, Vincenzo, Scarpa, Pipi op-là, in
acqua, in acqua! Oggi si combatte per l'onore del club "Dagli!".
Schizza il mare a ondate quando il "Dagli!" si butta a
testa giú dalle palafitte. Il panciuto col cappello
di paglia stinta che prima d'adagiarsi nell'acqua bagna igienicamente l'ombilico e la fronte, scappa via impaurito dal nostro
tuffo. Scappan via tutti i pacifici bagnanti dalla
zattera, dalla corda, dal trampolino, perché nessuno sa dove oggi il "Dagli!"
ha deciso di domiciliarsi, nessuno sa che nuova invenzione porta oggi il
"Dagli!" mentre si tuffa ridendo dalle palafitte.
Il mare schizza di gioia, e spuma. Ché il mare non ama il lento arranchío asmatico dei vecchi, lo sbattacchío
affannoso degli inesperti. Ama il mare d'essere tagliato, battuto, disfatto da
gambe muscolose e braccia bronzine. Ama la serena irrequietezza della gioventú, che lo penetra in tutti i sensi ridendo,
bevendolo, sprizzandolo dalla bocca in lunghi zampilli. Ama i freschi occhi
spalancati in corsa tra le profondità e l'alighe.
Avanti delfinotti! Oggi si combatte per
l'onore del "Dagli!". Perché il "Dagli!" domenica scorsa,
buttandosi giú a gnocco in fila ordinata dalle
palafitte, spruzzò allegro le nude corpora dei conti e signori tedeschi
che non lo lasciarono passare, seccati, l'angolo delle palafitte. Protestarono
a terra, e il direttore minacciò d'impedire il bagno al
"Dagli!". Oggi è giorno di vendetta.
Le ondate si gonfiano da Salvore per far
piú turbolenta la battaglia. I signori tedeschi sono
in acqua e procedono ridendo ironici nei loro mustacchi. Ah, ah!... uno ha la
reticella sul labbro superiore per tener assettato il diritto mustacchio.
Dagli, dagli!
«In semicerchio! Schizzo lento e stretto! Mirare gli occhi! Procedere
in ordine, serrando.» E rispondemmo al nostro capo: «Dagli!».
Codeste sono le schizzate dei tedeschi! Flosce e piatte come
carnume di medusa. Ma queste del "Dagli!" van dritte e elastiche come
colpi di fionda. Aspra salsedine nelle pupille bionde dei tedeschi!
«Attenti! Serrare!» Ché il nemico smaniante si butta addosso ai
nostri primi e li affonda. Dagli! dagli! da...
Giú. Sento sul collo l'unghiata di rabbia del tedesco setoloso e
l'acqua che si rompe sotto il mio corpo. Tocco fondo. Due gambe mi tengono
fisso quaggiú. Il mare turbina. M'accuccio, agguanto
una gamba, e giú te, porco! «Viva il Dagli! Da...»
Giú. Su. Dagli, dagli!
«Al largo!» Steno è sparito dopo aver gridato l'ordine. Noi
sappiamo perché. D'improvviso uno dopo l'altro i tedeschi rapidissimamente
piombano in fondo, tirati da qualche polipo mostruoso. «È Steno! Viva
Steno! Dagli!»
Ora li massacriamo. Metri d'acqua si rovesciano sulle bocche
affannose. Gli occhi biondi non vedono piú. Si
voltano e fuggono. E ora comincia il colpo della ritirata. Steno l'ha
inventato, perché il "Dagli!" non può dar quartiere prima
della sponda.
Freddo, calmo, metodico colpo di ritirata! I tedeschi fuggono, ma
uno per uno li stiamo dietro le spalle, e scattando nell'acqua con i piedi ci
rovesciamo giú a braccia larghe intorno al loro capo.
L'acqua aguzza rompe nell'orecchie, negli occhi, nella bocca, nel naso. Il
tedesco respira. E sciampf! nella bocca aperta. E sciampf negli occhi brucianti. Nelle sorde orecchie. Sciampf.
Sciampf. Viva il "Dagli!"
Chi resisteva al "Dagli!", amici d'una volta? Chi era
capace di stare sott'acqua come Toci, quando il
barbuto Calligaricicicich cercava di affogarlo con
dieci, venti tocciade consecutive? Ed egli gli
respirava in faccia: "cih, cih,
cich", e rispariva. Chi sapeva dar schizzata piú tagliente di Vincenzo? Era come una fiatata di mostro
marino la mezzaluna di mare che balzava su, sotto le sue mani a cuneo
rovesciato. E Steno notava sott'acqua per un minuto, e Pipi era come un piccolo
pescecane predace.
E se uno di noi cedeva nella lotta, per sette giorni doveva
passare attraverso il fuoco di fila dei compagni. Perché il "Dagli!"
era una società con leggi severe, e nessuno s'arrischiava di disobbedire
al nostro capo.
Ora Steno, il nostro capo, è morto. Era un professore che
s'è ammazzato, nevrastenico.
E raccontavo belle storie ai piccoli cugini che m'ascoltavano
accoccolati d'intorno, nell'ombrosa veranda sul mare. Il mare stava zitto,
ascoltando. La casa vicino a lui, dove abitò Tartini,
aveva chiuse tutte le persiane e dormiva, bianca nel sole, con gli zii e gli
altri villeggianti. Silenziose erano le larghe camere matrimoniali sostenute da
travoni squadrati. Era l'ora del caldo e del riposo. La terra s'ampliava nella
distesa del sole. Il cielo era chiuso e grave. Neanche una vela sul mare.
Tacevano le vespe e i bombi. Un frutto tonfava giú
dal ramo. Era il grande silenzio infocato, quando gli occhi dei colombi stanno
chiusi sotto l'ala e il bue rumina accosciato corpulento sulla paglia fresca.
Ma solo i bimbi in quell'ora si buttano nei prati come un ciapo di storni autunnali e saccheggiano le ficaie,
stroncando i rami aridi, perché anche il padrone dorme, il signor Vatta dagli occhietti di gobbo. E poi si raccolgono, a
tasche piene, nella veranda ombrosa e Scipio conta una bella, strana, lunga
storia.
È una storia che continua ogni giorno e non finisce piú. Nella piccola capanna del bosco è nato un eroe,
forte come cento leoni e furbo come cento volpi. Le sue avventure fanno
sgranare gli occhi di stupore, ridere di allegria chi ascolta. È un
ragazzo bello, sereno, buono. È quello che tutti desiderano d'essere.
E dopo due, tre ore zia Ciuta chiamava
ch'era lettera per me, e mi portava contenta la lettera di mamma. Cara mamma
mia. Tu allora preparavi, nel grande caldo d'agosto, le casse per il trasloco.
Bisognava andar via dalla casa dov'erano nati i tuoi figli. Sí,
mi ricordo che prima di partire avevo visto che rompevano i muri e i viali del
giardino per i tubi dell'acqua, del gas; e lavoravano muratori, meccanici,
falegnami, vetrai, tappezzieri, terrazzieri. Mi divertivo vederli lavorare. Ma
noi s'andava via perché il nonno era morto e venivano a stare altri parenti, piú ricchi.
E io, tornato da Strugnano, fui molto
contento di trovarmi in una campagna cento volte piú
grande, con infiniti frutti e viti, e molti compagni di gioco. Il giorno che
arrivai arrivò pure, vestita d'una camicia rossa e tocco da fantino, la
nipote del padron di casa. Ucio la guardava, un po'
commosso, fra i viticci del capannuccio.
Bella è la vendemmia. Oltre i vignali
vanno grida e risate; i cani sbalzano, accucciandosi sulle zampe davanti, da
questo a quel gruppo di vendemmiatori, e i passeri frullano sbandati. Il
padrone eccita: "Dai, dai, dàghe, dàghe, forza, prr, prr, prr, dai, dai!".
Le labbra e il mento sono appiccicose di miele stillato, e le
mani, la maglia, il manico della roncola, i pampani,
le brente, i carri. Tutto è una gomma rossastra. E ci si lava pigiando a
palme aperte gli scricchiolanti grappoli nella brenta.
Buona è l'uva, addentata a grani dal tralcio, mentre dagli
occhi sgocciola il sudore e la palma della mano è stanca della roncola.
Ma ancora questo filare, ancora questa vite, ancora questo grappolo! Qua con
una brenta! Alloo! E, tornati giú
sbalzellando, il pane e il brodo sono buoni come mai. Si gode della bella
tovaglia bianca sotto la lampada. Domani si ricomincia.
Piovigginava a stento. Sulla melma del piazzale sfilavano due
strisce giallastre di luce. Entrai nella cantina.
«Bonasèra!» «Ah!; bonasèra!»
La cantina era bassa. Nel mezzo, su una botticella fumazzava una fiamma rossastra di petrolio. Il padron di
casa sedeva vicino alla fiamma, con un bicchiere in mano. Nel volto era del
color dei fondi violacei di botte.
Tutt'intorno gravavano grandi botti brune e tini panciuti. Su i
muri, nei cantoni, tra l'inferriata del finestrino murato c'erano mille
ragnateli stracciati e aggomitolati dalla polvere. Una gatta baia sotto le
botti annusava indolente ma nervosa l'odor di pantigane che impregnava l'aria.
Uno degli uomini che si rimboccava su i calzoni a sforzo, perché
la dura coscia non voleva cedere, alzò gli occhi, guardandomi.
Vila era lassú, in piedi, sui tronchi
squadrati che reggevano i tini. Era dritta e fresca, nella sua camicia rossa, e
mi sorrise.
Io ero un timido bimbo. E lei mi disse piano: «La salti su».
I bei grappoli pieni che avevamo colti ieri si pigiavano nel tino.
Spilluccammo i grani piú
grossi, stufi d'uva. Mi dette un grano tondo, grosso come una noce, limpido.
Disse: «La guardi che man che go!». Piccole, ma di pelle callosa,
tagliuzzata alla punta delle dita, nera di pentole, le unghie rosicchiate.
Disse poi: «Lei la ga bele
man». Poi gridò: «Ala, Toni, scuminziemo!».
Lo zio di Vila, il padron di casa, pulí
un bicchiere con la fodera della giacca e m'offrí da
bere. Bevvi.
Zappavano l'uva, curvi, aggrappati sull'orlo del tino, anelando
come i taglialegna. Le gambe pelose, rosse, alternavan
la battuta con frenesia, e il tino si squassava sotto i colpi. Gli acini e i
gusci e il succo schizzavano tra le larghe dita dei piedi. Vila stava dritta,
tenendosi sul tino. Le sue unghie eran diventate
rosse. Poi le gambe degli zappatori scomparvero fino alla coscia nello sguazzacchio vinoso. Il doppio colpo divenne metodico, come
di stantuffo. Pesante e uguale.
Lo zio di Vila beveva, radendosi il succo dai mostacchi setolosi
con il dorso della mano. Il suo grifo era rosso.
Il mosto bolliva nelle botti aperte, sciamante di moscerini
ubbriachi. Assorbivo un caldissimo odore asfissiante. Gli uomini s'accendevano.
Rovesciarono una brenta piena di mosto, e il vino schizzò a ondata
sull'uomo e sul muro, corse a rivoletti impetuosi, tinse la gatta spaurita. Uno
si buttò per terra a sorbire la motriglia vinosa.
Il padron di casa bestemmiò, rise, mi tese un bicchiere di
mosto. Bruciava. La cantina era bassa e rossastra.
«Vila, un toco de legno per la bota!»
Io corsi prima di lei, per scappar via; ma ella mi rincorse.
Pioveva. La notte era oscura e fangosa. Scridivano
gli agostani. Mi prese per mano e correndo mi baciò il braccio nudo, sgocciante
d'acqua.
Io dissi: «Vila» a bassa voce, meravigliato. Nella cantina gli
uomini zappavano ritmicamente, il padron di casa beveva, la gatta si leccava il
pelo intriso.
Mi sedetti contento per terra. Correvo per una lunga strada piena
di sole. Correvo, correvo.
Quando il sole è alto nel luglio, correndo nei prati l'uomo
si ferma perché il respiro è pieno d'un veleno e d'un calore cosí dolci e forti ch'egli deve sdraiarsi nel sole e
dormire. Chiude gli occhi, e le palpebre gli fiammeggiano come cielo infocato,
e da tutte le parti s'alzano vampate immense barcollanti d'albero in albero.
L'aria trema inquieta nell'arsura.
Ma m'alzai furioso e corsi in campagna, gridando come un falco
ch'abbia lasciato per la prima volta il suo nido.
La sua camera aveva un intonaco a stampi rossocinerini,
mattoni slabbrati per pavimento, un pianoforte coperto da un canovaccio
crocettato, un letto, un armadio con su boccette medicinali e una civetta
impagliata. Una lastra della finestra era di latta rugginosa, con un foro per
il tubo della stufa. Siccome il foro s'era slargato, d'inverno, quando
mettevano la stufa, Vila incassava con le punte delle forbici un po' di stracci
intorno al tubo. E fumigavano.
Non era bella la casa dove stava Vila! Io entravo come un ladro
inesperto, ripiegato in tasca il mio frustino da cani, il mio bel frustino che
schioccava con un colpo secco come d'acciaio, camminando lesto in punta di
piedi, trattenendo il respiro. L'aria odorava di muffa, di polvere, di vino.
Qualche volta la porta dell'ultima camera in fondo, vicina a quella di Vila,
era aperta, e Vila la chiudeva subito. Era un disordine tanfoso
di stracci, bottiglie, cassette, con le pareti scrostate dall'umido, e ci
dormiva la vecia, la mamma del padron di casa, gottosa, reumatica, gonfia, con
baffi neri sul grosso labbro.
La vecia io non la vedevo che di domenica, quando seduti intorno
alla tavola del salotto, bimbi e babe e il fratello
del padron di casa, tutto contento se vinceva un soldo, giocavamo a tombola.
Essa non si poteva muovere. Era seduta su una poltrona portabile, con ruote, e
teneva la destra, grassa come una pera che si sfà,
accanto alla cartella, sul mucchio dei vetrini-segnanumeri.
Quando doveva pagare la cartella, Vila le si accostava, le metteva la mano
dietro la schiena e tirava fuori un sacchetto gonfio di tela grezza, chiuso con
spago. La vecia aveva gli occhietti di un barbagianni di giorno: erano cattivi
e fermi. Io li sfuggivo. Quando seduto accanto a Vila, ginocchio a ginocchio,
facevo finta di giocare, sapevo che quella vecia vedeva tutto, anche ciò
che gli altri non vedevano, e ci odiava tutti, ma non poteva alzarsi. Avevo
schifo di lei, e non mi fece niente pietà quando un giorno Vila mi disse
che lo zio sputava in faccia alla mamma.
Lo zio era il terrore di tutti. Non era cattivo. Ma beveva rum, e
in rabbia, sputava addosso alla gente e bestemmiava sempre sporcamente. Ma io
non voglio parlare di questa genía! Io voglio bene a
Vila. Vila è buona e bella. Ha una camicia rossa scarlatta, un berrettino
da giochei, scarpettine con tacco alto, e quando
gioca a tamburello salta meravigliosamente da una parte all'altra.
Secchi, netti colpi battevamo col tamburello nell'ampio piazzale
davanti alla grande casa gialla! Quando Scipio e Vila giocano, gl'inquilini
guardano sorridenti dalle finestre e gridano: "Bravo! bene!". La
palla rota come un punto di fuoco da me a lei, da lei a me: "stan - e stan; stan - e stan". Dice il
colpo: ti voglio bene. Risponde il colpo: ti voglio bene. Il sole è
alto. È l'estate, amore.
Cari tempi erano quelli, amorosi e gloriosi. Mia era Vila, una
signorina, Vila amata da Ucio, corteggiata da tutti i
ragazzi della campagna. Riceveva cartoline da ricchi giovanotti, da studenti
delle lontane università; ma ella rideva con me e mi baciava. Era mia.
Io solo andavo con lei per la campagna, in cerca delle gocce di gomma sui
tronchi dei susini, dei quadrifogli nell'erba, coprendola colle mie braccia
quando pioveva.
Mi accompagnava nelle scorrerie ladresche oltre il confine della
campagna, temendo quando scalavo cauto i muri sconnessi che minacciavan
rovina. Portavo per lei, fra le labbra, la piú bella
pera, ed essa mi calava sui suoi ginocchi e mi baciava avidamente.
Io ero come un piccolo signore. Ero felice che lei godesse della
mia forza e della mia temerarietà. Perché avevo undici anni, ma neanche
i contadini mi sapevano agguantare in corsa, e scalai il pioppo e l'elianto che
tutti dichiaravano impossibili. Il padrone di casa mi dette in premio cinque
bottiglie di vino; Vila mi sorrideva impaurita dalla finestra. Era il
crepuscolo. Sotto l'albero i compagni scoppiarono in urli di evviva, e io,
sfinito, temevo il vento come un uccello senz'ali, e guardavo superbo le case
della città che s'accendevano di punti giallastri.
Ah, se ora che Vila è sposata e ha due, tre figlioli che
forse leggono già quello che io scrivo per i bambini, ed è piú bella, assai piú bella
d'allora, giovane mamma contenta, e non mi guarda nemmeno quand'io passo
arrossendo accanto a lei, si ricordasse dei nostri due anni spensierati! E la
caccia col flobert ai merli e alle gatte? C'era
quella civetta impagliata in camera tua, con l'ali chiuse e inchinata un po'
sullo stecco, solenne come una persona a modo. Aveva i gialli occhi di vetro,
chiari nel semibuio della stanza, tondi, come un bersaglio. E un giorno tu
caricasti misteriosamente il flobert e stic! un occhio si spaccò. Ricordi? E io ti guardavo
felice e meravigliato.
E un giorno ti dissi: «Vila, no ti xe piú quela de una volta». E tutto finí.
Ero stufo di lei. Aveva dei gusti strani che mi toglievano la
libertà. Quando assieme ai compagni si dava la caccia con pali e forconi
a un cane rinselvatichito, Vila d'improvviso s'arrampicava su un albero, e mi
pregava: «Vieni su». Io m'arrampicavo, e guardavo dalle cime alte, scotendole
stizzoso. «Vien qua, dai!» E m'accarezzava i capelli e il collo; poi mi
baciava: e io sentivo le urlate dei compagni in caccia e i ringhi sfiniti del
cane.
Forse anche, Vila non m'amava, non m'aveva mai amato. Avevo
lievissimi sospetti; un colpo di sangue, e sparivano. Io non so com'era di me.
A volte mi buttavo sull'erba, stanco e scontento. Ero inquieto e mi sarebbe
piaciuto star qualche volta solo, benché avessi bisogno di sentirmela vicina. E
perciò, quando le dissi, quasi senza sapere, quelle strane parole, non
capii perché le avevo dette e per rabbia misi la mano dentro una siepe di rovo.
Vila stette zitta. Io fissavo alcune piccole cose sul terreno: un ramettino
rotto irregolarmente con due foglie passe e raggricciate, un batuffoletto di
seta del pioppo, che s'estendeva tutt'intorno in lenti filamenti argentei per
l'opera predace di decine di formiche. Ella alzò gli occhi e mi
guardò a lungo. Io sentivo un silenzio che non finiva piú e che mi seccava assai.
Allora la presi fra le braccia con forza, e Vila perdonò.
Fummo beati e pieni di amore per tutta la giornata.
Ma la mattina dopo Vila mi sfuggí.
Correndo a perdi fiato io l'accerchiai di lontano e sbucai fuori da un
cespuglio davanti a lei. La presi per i polsi e le dissi duro «Coss' ti ga?». «Ti ga votú ti.» Si svincolò,
e andò via. Poi, dopo qualche settimana, l'incontrai, mi prese le mani e
le baciò.
Io fui subito contento di non esser piú
con lei; ma avevo confusi desideri, non m'interessava niente, m'annoiavo. A
volte disteso per terra, con gli occhi semiaperti nel cielo accarezzavo le
giovani foglie, e d'un tratto m'avvoltolavo nell'erba dura dei prati.
Ucio è un giovanotto lungo e forte, le braccia pelose anche
alla piegatura, i labbri tumidi, le gengive sanguinolente. Coltiva nel suo
giardino begliomini, daglie s'ciave,
crisantemi di S. Anna. Aveva bisogno d'un fondo per il cesto di fiori che
annunziava pronto da cinque domeniche, e ha rubato la nostra tavola del bucato.
Ma l'adoperò senza raschiar via il sapone incrostato. Aveva bisogno di
rosai perché noi lo burlavamo dei suoi fiori scempi, e li rubò dal
nostro giardino, ma smarrendo sul terreno il gemello d'ottone matto della
camicia. Babbo disse la domenica dopo in presenza di molta gente: «Go trovà sto botton. De chi 'l xe?».
E Ucio esclamò: «'l xe
mio, 'l xe mio!».
Cosí è Ucio, ragazzone. Il suo rutto
puzza d'aglio e le sue mani sono piote. Quando va a fare la scorreria in
campagna, torna con la camicia carica di pere dure, strappate senza gambo, come
vien vien, ruggini dall'unghie, fracide di sudore del
suo ventre pratoso. Egli non sa distinguere il buono dal cattivo, e mangia
fagioli e patate, e brontola dalle profondità: «Xe bon, xe bon!».
Ucio è innamorato di Vila. Dice: «Vila xe 'na stela». E poiché lo zio di Vila l'ha cacciata infamemente dalla campagna, Ucio cammina a grandi passi su e giú
per il piazzale, poi si stravacca di schianto sulla panca e giura vendetta.
Io ci sto. Ottima cosa è la vendetta! Sgusciare di notte
tra gli spini della siepe con una lunga stanga in mano e la roncola in tasca!
La notte è fonda e muta. Ormai tutti dormono. Le persiane del padron di
casa sono chiuse. I cani abbaiano dall'altra parte della campagna.
Ucio dà una risata e diventa bestia. Agguanta la prima vite che
trova e la stronca netta. Agguanta un ramo carico di susine e lo divarica
puntandosi con le zampe sul tronco; poi piomba a terra con lui. Tonfa un enorme
pietrone fra le crote dello stagno che gracidano a squarciapancia, e l'acqua putrida schizza e l'inonda. Si
scuote, con una scarponata schianta il pesco nano e
si slancia avanti sghignazzando come un satiro in fregola.
Viva la vendetta! Ma io sono quieto e maligno. Apro
silenziosamente la roncola, e incido la vite sottoterra perché muoia e nessuno
saprà perché. D'una stangata rompo la cima del pero, e m'acquatto di
colpo per timore che il crac svegli qualcuno. Silenzio. Le rane. I cani
lontano. Una stella cadente.
Ucio chiama dal melo. Egli divora e stronca: per ogni pomo un ramo. Io
unghio fondo, uno per uno, i grandi pomi che piacciono
molto al padron di casa. Mi lecco le unghie. Ah?
Ucio! come la cacciò via, ah?!
Era una notte come questa. Gridarono nel quartiere del padrone. Il
nostro campanello sonò disperatamente. Balzo a sedere sul letto, l'uscio
di babbo s'apre, apre la porta. Vila si precipita in camicia piangente: «El me copa, 'l me copa. El me cori drio col s'ciopo!»
Papà incatenacciò l'uscio. Disse calmo: «Qua drento no vien nissun. La se calmi». Vila tremava e si torceva le mani.
«I me lassi andar, i me lassi andar, li prego. No 'l me fa niente.
I scusi. No savevo de chi andar. Ah dio, dio!»
Un pugno sulla porta: «Vila!!». Vila saltò su; papà
la fece sedere e andò ad aprire. Non c'era piú
nessuno. Ma Vila scappò via, corse dalla famiglia di Ucio,
poi rivolò giú a casa sua.
«Porca! puttana! Fora de qua, fora! Va de
quela scrova de to mare! Fora!»
E la cacciò via di notte, con la serva e un fagotto di
biancheria, minacciandola dalla finestra con il duecanne.
«Ah? Ucio?!»
Ricordiamo e ci narriamo godendo della scena drammatica, e poi
decidiamo a freddo di rislanciarci alla devastazione.
Ucio infuriò come la grandine e la bora. Io
ero già annoiato, e mangiando un grappolo d'uva pensavo: "Lavora,
lavora, Ucio! Vila iera
mia".
Povero Ucio. Io andai in villeggiatura,
in Italia, oltre il confine, oltre il ponte dell'Iudrio
e Ucio intanto, per la vendetta, bersagliò con
il flobert un fanale della carrozza del padron di
casa, e ci lasciò dentro la palla. La sua famiglia fu mandata via dalla
campagna. Io gli scrissi: "Caro Ucio, quando
c'è un solo flobert
Perché avevo terribile mal di capo. Ero cresciuto troppo presto, e
letto e studiato troppo nella convalescenza del tifo. Mi condussero da un
dottore che mi visitò tutto, poi si levò gli occhiali e mi
guardò fisso negli occhi.
Fu uno sguardo lungo e una lotta zitta fra me e lui. Io l'odiai
fortemente perché egli vedeva oltre la mia aria da malato. Non aveva
pietà di me. Solo in quel momento m'accorsi d'aver sempre esagerato con
molta verità l'emicrania. E lo guardai in viso, come a dirgli: "lo
non sto male, sto benissimo, sono pigro, ecco, semplicemente. Mi secca andare a
scuola". Sentivo il sangue corrermi piú sano
nelle vene, rialzarsi di colpo il capo un po' inclinato in atto di debolezza:
ero pieno di salute e di forza. Egli mi guardò a lungo, dubbioso, severo
e quasi maligno; poi mi proibí la scuola e
m'ordinò vita selvaggia. Avevo vinto.
Perché voi non sapete quant'astuzia s'impara guardando come un'ape
entra in un fiore e il ragno chiappa la mosca... Voi non sapete come un ragazzo
possa, obbedendo, costringere i genitori a fare quello ch'egli vuole. Il nostro
mondo raffinato è molto ingenuo. Basta che voi vi fabbrichiate una
situazione in cui è ormai stabilito come ognuno degli altri si deve
comportare. Se per esempio uno scolaro sviene all'esame di greco, non
c'è professore che abbia l'audacia di non credergli, di fargli ripetere
l'esame e bocciarlo. Ognuno può pensare, dentro di sé, come vuole, ma
v'assicuro che ognuno finisce per credere a ciò che per convenienza deve
fare. E cosí lo scolaro lo portano in quattro nella
sala della direzione, lo posano con le gambe alte sul bracciolo del
sofà, gli slacciano la cravatta, il vecchio bidello accorre barcollando
con la cassetta croce-rossa, gli toccano il polso, lo spruzzano. - Ma voi non
sapete trattenere il respiro per un minuto. Ah se un barbaro venisse tra noi,
compagni miei, come ci metterebbe tutti in sacco!
Ma questo si dice a cose finite. In realtà io ero ammalato
sul serio di anemia cerebrale e vissi per sei mesi continuamente in carso. Fu
allora che scopersi per la prima volta il mio carso.
Mi conosceva la terra su cui dormivo le mie notti profonde, e il
grande cielo sonante del mio grido vittorioso, quando sobbalzando con l'acque giú per i torrenti
spaccati o franando dai colli in turbine di lavine e terriccio, d'un colpo di
piede rompevo la corsa per cogliere il piccolo fiore cilestrino.
Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i
muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato
da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in
uno scatto furibondo e rumoreggiavo nella foresta come fiume che scavi il suo
letto. E dischiomando con rabbia l'ultima frasca ostacolante, ne piombavo
fuori, i capelli irti di stecchi e foglie, stracciato il viso, ma l'anima larga
e fresca come la bianca fuga dei colombi impauriti dai miei aspri gridi
d'aizzamento.
E ansante mi buttavo a capofitto nel fiume per dissetarmi la
pelle, inzupparmi d'acqua la gola, le narici, gli occhi e m'ingorgavo di
sorsate enormi, notando sott'acqua a bocca spalancata come un luccio. Andavo
contro corrente abbrancando nella bracciata i rigurgiti che s'abbattevano
spumeggianti contro il mio corpo, addentando l'ondata vispa, come un ciuffo
d'erba fiorita quando si sale in montagna. E l'ondata mi strappava giú a scossoni, voltolandomi nella correntía
e mi rompevo sul fondo ripercotendomi al sole, strascinato per un tratto sulle
erte rive, fra radici e sassi invano inghermigliati. Poi m'affondavo, e
carrucolandomi per gli scogli rimontavo sfinito la corrente.
Il sole sul mio corpo sgocciolante! il caldo sole sulla carne
nuda, affondata nell'aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api
tutt'oro! Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la terra, e
la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con la sua enorme voluta
nel cielo - fermo, come una montagna radicata dentro al suo cuore da
un'ossatura di pietra, come un pianoro vigilante solo nell'arsura agostana, e
una valle assopita caldamente nel suo seno, una collina corsa dal succhio
d'infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori
irrequieti e folli.
E a mezzo mese, nell'ora in cui la luna emerge dal lontano
cespuglio e si fa strada fra le nubi, candida e limpida come un prato di
giunchiglie in mezzo al bosco, io mi sentivo adagiato in una dolce diffusità misteriosa, come in un tremor
di quieto sogno infinito.
Conoscevo il terreno come la lingua la bocca. Camminando guardavo
tutto con affetto fraterno. La terra ha mille segreti. Ogni passo era una
scoperta. In ogni luogo sapevo l'ombra piú folta e la
piú vicina caverna quando mi coglieva la piova.
Amo la piova pesa e violenta. Vien giú
staccando le foglie deboli. L'aria e la terra è piena di un trepestio
serrato che pare una mandra di torelli. L'uomo si
sente come dopo scosso un giogo. Ai primi goccioloni balzo in piedi, allargando
le narici. Ecco l'acqua, la buona acqua, la grande libertà.
L'acqua è buona e fresca. Invade ogni cosa. La pietra se ne
inumidisce bollendo. Se si mette il dito nell'umidiccio intorno ai fusti, si
sente come le radici la poppano. Tutte le vite in patimento respirano libere.
Perché la terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso
o un ramo stroncato o una foglia piú grande o il
terriccio d'una talpa o il passo di qualche animale. Tutti i tronchi hanno una
cicatrice o una ferita. Io mi sdraiavo bocconi sul prato, guardando nell'intorcigliamento dell'erbe, e a volte ero triste.
Triste delle belle creature della terra. Io le conoscevo. Le mie
mani sapevano le fonde spaccature estive dove lo zinzino occhieggia all'orlo
con le sue lunghe antenne, e basta un fuscello o un soffio a farlo tracollar
dentro; i muriccioli di sabbia con cui il filo d'acqua s'argina maestosamente;
e seducevo la formica carica a salir su una largta
foglia di platano per deporla cautamente al li là dell'alpe. Tutto m'era
fraterno. Amavo le farfalle in amore impigliate nella trama nerastra del rovo,
sbattenti disperatamente le ali in una pioggia di bianco pulviscolo, il bel
ragno vellutato dalle secche zampe che sfilava nell'aria tremula il suo filo
argentino perché s'incollasse sulla peluria uncinata di una foglia, e tentava
con la zampina il filo per slanciarvisi dritto e tessere l'elastica tela.
Ronzava disperata nel mio pugno la mosca colta a volo; accarezzavo il bruco
liscio e fresco che si raggrinzava come una fogliolina secca; tenevo avvinta
per le grandi ali cilestrine la libellula; affondavo il braccio nell'acqua per
sollevar di colpo in aria il rospicino dalla pancia
giallonera; tentava di ritorcersi l'addome della vespa contro le mie dita e
partorirvi il pungiglione. Squarciavo a sassate le biscie.
Sorridevo agli sbalzelli alati dei moscerini, tagliati dal colpo
imperioso d'una mosca smeraldina, al pispillare
roteante delle rondini, alle nuvole che si trastullano nella luce, rabbrividenti
pudiche sotto le fredde dita curiose del vento, alla foglia navigante con rulli
e beccheggi nell'aria, alle stelle germoglianti nel cielo quando col vespero si
diffonde sul mondo un tepore leggero come fiato primaverile.
Scivolando negli arbusti, tenendomi agganciato al masso dirupante
con due dita artigliate in una ferita muscosa della pietra, palpeggiando e sguazzacchiando con la palma aperta sull'orlo degli stagni,
andavo spiando la nascita della primavera. Nel nascondiglio piú
benigno del boschetto, in un calduccio umido di seccume, ancora ancora quasi
riscaldato dal sonno d'una lepre, io frugando trovavo la prima primola, il
primo raggio di sole! l'occhio stupito della piccola primavera svegliata! E
seguivo l'ondeggiar lieve del suo passo, annusando come cane in traccia, fra
radici gonfie e germogli diafani, dietro un alioso
sbuffo di rugiade erbose, di terra umida, di lombrichi, di succhi gommosi; un odor di latte vegetale, di mandorle amare - eccolo qui il
sorriso roseo dei peschi, incerto com'alba invernale, cara, cara! e scuoto
freneticamente questo tronco e quello e questo, spargendomi di petali e di
profumi. Per terra schizzano violacee pozzerelle
d'acqua, il passerotto vi frulla con le ali, a becco aperto. Dolce amata mia,
primavera!
Qualche volta mi fermavo nel bosco e alzavo il capo verso gli
alberi alti e allineati. Udivo sgricciar una foglia,
cader una coccola, un pigolío. Poi tutto era
silenzio. Io non mi movevo.
Avevo voglia di buttarmi su uno di quei tronchi, stringerlo fra le
braccia, stare con lui. Ma avevo paura di far strepito.
Cercavo lentamente con gli occhi una farfalla, un insetto. Niente
si moveva. Qualche cosa era nascosta nel fogliame, mi guardava, e io non la
vedevo.
Nel bosco rimparai a pregare. Dicevo: "Dio voglimi bene; Dio voglimi
bene". Una volta mi buttai per terra e piansi a lungo.
Salto e sbalzo verso il lembo aperto di cielo. Sotto il sole
lampeggia e rutila in fondo il dolce ricordo. Dove vado? Lontana è la
patria, e il nido disfatto. Ma il vento trascorre con me, desiderando, oltre il
margine roccioso del carso, e sono sopra il mare, la larga strada del vento e
del sole.
Io sono nato nella grande pianura dove il vento corre tra l'alte erbe inumidendosi le labbra come un giovane
cerbiatto, e io l'inseguivo a mani tese, ed emergevo col caldo viso nel cielo.
Lontana è la patria; ma il mare luccica di sole, e infinito è il
mondo di là del mare.
E la fertilità della terra sgorga pregna di succo nelle
grandi foglie carnose e accende di vermiglio i pomi tondi sulle piante intrecciate
fra loro, empiendo di gioia l'anima degli uomini.
Calda è la messe d'oro, e il profumo dei cedri e delle
magnolie ha colto l'uomo nella sua fatica, ond'egli
s'è ripiegato sulle spighe e dorme ravvolto nel sole.
Pennadoro, nuovo venuto, se tu non dormi, tua è la terra del sole.
Il monte Kal è una pietraia. Ma
io sto bene su lui. Il mio cappotto aderisce sui sassi come carne su bragia; e
se premo, egli non cede: sí le mie mani s'incavano
contro i suoi spigoli che vogliono congiungersi con le mie ossa. Io sono come
te freddo e nudo, fratello. Sono solo e infecondo.
Fratello, su di te passa il sole e il polline, ma tu non fiorisci.
E il ghiaccio ti spacca in solchi dritti la pelle, e non sanguini; e non
esprimi una pianta per trattenere le nuvole primaverili che sfiorandoti passano
oltre e vanno laggiú. Ma l'aria ti abbraccia e ti
gravita come grossa coperta su maschio che aspetti invano l'amante.
Immobile. La bora aguzza di schegge mi frusta e mi strappa le
orecchie. Ho i capelli come aghi di ginepro, e gli occhi sanguinosi e la bocca
arida si spalancano in una risata. Bella è la bora. È il tuo
respiro, fratello gigante. Dilati rabbioso il tuo fiato nello spazio e i
tronchi si squarciano dalla terra e il mare, gonfiato dalle profondità,
si rovescia mostruoso contro il cielo. Scricchia e turbina la città
quando tu disfreni la tua rauca anima. Fratello, con la tua grande anima io
voglio scendere laggiú. Perdonami, s'io balzo su come
tu non puoi e t'abbandono. È come se d'improvviso una fonte t'infertilisse
sgorgandoti dentro il cuore. Gorgoglia e fiotta la nostalgia irrequieta. Ho
desiderio d'andare, fratello. Ho desiderio di possedere grandi campi di
frumento e prati ombrosi. La patria è laggiú.
Bisogna ch'io sia fratello d'altre creature che tu non conosci, che io non
conosco, monte Kâl, ma vivono unite laggiú dove calano le nuvole turgide di piova.
Anni giovani, che vi spalancate tremando come corolle di violette
nella neve, dove volete gioiosi portarmi? Alzo le braccia e le riabbasso
freneticamente come se avessi ali, e a ogni colpo i miei denti aggrappassero
materia piú leggera e tanto diafana che l'anima mi si
spandesse a formar l'alba d'una nuova vita. E sbalzo sul suolo, ripercosso
dallo stesso monte che mi comprende e m'aiuta. Calo giú.
La bora mi schiaffa a ondate nella schiena e piombo, torrentaccio.
I sassi voltolano e rotolano rombando. Ogni passo è nuovo, ché se il
piede trova traccia si storce e stracolla. Giú. Il
petto rompe a sperone l'aria. Giú, scivolando: un
volo fino al ramo prossimo, al ciuffo d'erba che - un dito toccandolo - mi
tiene in piedi. Scatta il sasso in bilico per buttarmi a rovina, s'apre in
dirupo la terra per accogliermi sfragellato; ma le
mie gambe sono dure e flessibili. Cosí calava
Alboino.
Lichene sotto ai piedi, scricchiolante, rigido; erba giallastra
come foglie morte; un querciolo torto, e eccoli i piccoli verdi pini che
ondeggiano la testa come bimbi dubitosi. Stretti e intrecciati, cosí che i piedi s'impastoiano, e com'io mi chino ad
aprirmi la strada mi punzecchiano pruriginosi le guance. Procedo: sono tra i
pini giganti. Un contadino con la frusta di pastore si ferma e mi guarda.
Mongolo, dagli zigomi duri e gonfi come sassi coperti appena dalla
terra, cane dagli occhi cilestrini. Che mi guardi? Tu stai istupidito, mentre
ti rubano gli aridi pascoli, i paurosi della tua bora. Barbara è la tua
anima, ma sol che la città ti compri cinque soldi di latte te la rende
soffice, come le tue ginepraie se tu vi cavi un palmo
di macigno. Fermo nel bosco, intontito, aspetti che si compia il tuo destino.
Che fai, cane! O diventa carogna putrida a impinguare il tuo carso infecondo.
Calcare che si sfà e si scrosta e frana, tu
sei, terriccio futuro. Di', sloveno! quanti narcisi produrrai tu questa
primavera per le dame del Caffè Specchi?
S'ciavo, vuoi venire con me? Io ti
faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra
pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone.
Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle
terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete
al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Tu
sei costante e parco. Sei forte e paziente. Per lunghi lunghi
anni ti sputarono in viso la tua schiavitú; ma anche
la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone.
Perché tu sei slavo, figliolo della grande razza futura. Tu sei
fratello del contadino russo che presto verrà nelle città sfinite
a predicare il nuovo vangelo di Cristo; e sei fratello dell'aiduco montenegrino
che liberò la patria dagli osmani; e tua
è la forza che armò le galere di Venezia, e la grande, la
prosperosa, la ricca Boemia è tua. Fratello di Marko
Kraglievich tu sei, sloveno bifolco. Molti secoli
giacque Marko nella sua tomba sul colle, e molti di
noi lo credettero morto, per sempre morto. Ma la sua spada è risbalzata
ora fuor dal mare e Marko è risorto. Trieste
deve esserti la nuova Venezia. Brucia i boschi e vieni con me.
Lo sloveno mi guarda seccato. "Brucia i boschi che gli
italiani, gente sfatta di venti secoli, portarono qui per potere andare a
sentire la conferenza di Donna Paola e entrar nella Borsa senza bora!" Lo
sloveno mi dà un'occhiata sghignante, taglia un ramo, estrae di tasca
vecchi fiammiferi che ardon con lenta fiamma
violetta, e accende paziente il foco. Io l'aizzo, ma egli fa un passatempo di
pastore; io l'aizzo come se fossi slavo di sangue.
O Italia no, no! Quando il boschetto cominciò ad ardere, io
m'impaurii e volli correre per soccorso. Ma egli mi disse: "Xe lontan i pompieri"; sorrise lentamente, raccolse la
frusta, e andò spingendo le quattro vacche.
Io mi sdraiai, sfinito. "Cosí
calava Alboino!" Povero sangue italiano, sangue di gatto addomesticato.
È inutile appiattarsi e guatare e balzare con unghioni tesi contro la
preda: la polpetta preparata è ferma nel piatto. Tu sei malato d'anemia
cerebrale, povero sangue italiano, e il tuo carso non rigenererà piú la tua città. Sdraiati sul lastrico delle tue
strade e aspetta che il nuovo secolo ti calpesti.
Cosí stagnai, acqua marcia. E il bosco ardeva e la bella fiamma
crepitante insanguinava il cielo.
All'alba rinacqui. Non so come fu. Il cielo era puro e io scorsi
la bella bianca città laggiú, e la terra
arata. E di un balzo, come chi abbia visto Dio, mi buttai su di lei. Sparito
era il sogno e l'incubo: perché io sono piú che
Alboino.
Tremando mi caccio nel solco e mi ricopro della terra gravida,
sconvolgendo la sementa. E questo tocco di zolla ghiacciata io l'addento come
pane. Sotto, pulsano le radici. E la mia anima veramente s'allarga come acqua
in una conca immensa, e sento che un albero lontano sussulta per il vento
comprimendo intorno a sé la terra, e certo quest'idea che mi nasce è la
prima primola nei campi.
A carponi e a tentoni cerco le cose, sbarrando gli occhi, e i rami
invernali pingui di gemme contenute, gli stecchi senza linfa del vigneto, la
terra ghiaiosa che mi preme i calzoni sul ginocchio, tutto freme com'io lo
tocco, perché io sono la primavera.
Rose, rose, rose. E io pungendomi colgo e empio di rose la mia via.
Di qui passerà un giorno ella e mi troverà seguendo la rossa
traccia. Ah anima amata, è nato oggi nel mondo un poeta, e t'attende.
È nato un poeta che ama le belle creature della terra perché
egli deve ridare puro il loro torbido pensiero, come acqua succhiata dal sole.
E ruba e stronca dalle belle creature della terra perché egli non è
pietoso e sa soltanto di dover nutrire di sangue vivo. Troppe mammelle di latte
nel mondo, e la forza vitale è debole e accasciata, e gli uomini si
lagnano d'essere vivi.
Nella mia città facevano dimostrazione per
l'università italiana a Trieste. Camminavano a braccetto, a otto a otto;
gridavano: viva l'università italiana a Trieste, e strisciavano i piedi
per dar noia alle guardie. Allora mi misi anch'io nelle prime file della
colonna, e strisciai anch'io i piedi. S'andava cosí giú per l'Acquedotto.
A un tratto la prima fila si fermò e dette indietro. Dal
caffè Chiozza marciavano contro noi in doppia, larga fila i gendarmi,
baionetta inastata. Marciavano come in piazza d'armi, a gambe rigide, con lunga
cadenza, impassibili. Ognuno di noi sentí che nessun
ostacolo poteva fermarli. Dovevano andare avanti finché l'Imperatore non avesse
detto: halt! Dietro quei gendarmi c'era tutto
l'impero austrungarico. C'era la forza che aveva
tenuto nel suo pugno il mondo. C'era la volontà d'un'enorme monarchia
dalla Polonia alla Grecia, dalla Russia all'Italia. C'era Carlo Quinto e
Bismarck. Ognuno di noi sentí questo, e tutti
scapparono via interroriti, pallidi, spingendo,
urtando, perdendo bastoni e cappelli.
Io rimasi a guardarli con meraviglia. Marciavano dritti avanti,
senza sorridere, senza ridere. La gente che scappava era per loro lo stesso che
la compatta colonna che marciava per l'università italiana. Io rimasi
fermo a guardarli, e fui arrestato.
Un gendarme mi prese per il polso sinistro e andammo. Era una cosa
molto strana. Egli continuava a camminare del suo passo; io cercavo
d'imitarglielo. Gli occhi della gente che passava mi percorrevan
tutto come gocce fredde nella schiena, dandomi un brivido, tanto che il
gendarme pensò: Der Kerl hat Furcht.
Ma forse non pensò niente, e continuava a camminare del suo passo.
Ricordo benissimo che un giovanotto passando estrasse la destra inguantata per
arricciarsi il mostacchio destro, poi tirò fuori la sinistra per
arricciarsi il mostacchio sinistro. Io avevo voltato la testa per vederlo, sí che, il gendarme procedendo, mi sentii tirare avanti.
Una donna, con un bel boa, torse gli occhi, ma vidi che rideva. Perché mi
lascio condurre da questo imbecille?
Ha le spalline grosse, giallonere. Perché non lasciarmi condurre
da lui? Si va dove non so, ma non è necessario ch'io sappia. Mi conduce
lui, svolta, scantona, e i miei piedi si pongono sempre paralleli ai suoi. La
baionetta scintilla molto lucida. È carico il tuo schioppo? Perché non
mi risponde? E un garzone di beccaio, invece di far due passi di piú, salta oltre la panca di passeggio, e il grembiule
macchiato di sangue vecchio si gonfia e sbatte svolazzando. Appena siamo
passati ci guarda e urla: «Dèghe al giandarmo!». Scappa.
Io vedo bene pulsare l'arteria nel collo di questo imbecille. E le
mie mani sono molto lunghe, e sono come ossa ai polpastrelli. E non c'è
gente. Alboino... Ma io sono piú che Alboino. Io sono
piú che Bismarck. Io stringo insensibilmente il
pollice dentro le altre dita e faccio della mano una piú
sottile prolungazione del polso. Lentamente scivolo fra le sue dita rallentate
per il freddo. Intanto parlo: «Triste vita la loro! Ché! Capisco bene che lei
fa il suo dovere. Quante ore di servizio hanno? otto? consecutive? e lassú in carso, con tutti i tempi, di notte». Nella gola mi
cantano alcune parole fresche che la mia bella veciota
venesiana me l'insegnò: "Né per torto né
per rason, no state far meter
in preson". Guardo negli occhi il gendarme,
strappo, via. Viva la libertà! Io sono italiano.
Neanche mi rincorse. E io, dopo duecento metri di corsa furiosa,
rimasi male a vederlo impalato, lontano. Poi riprese la sua marcia cadenzata,
toc, tac, in direzione opposta.
Toc, tac, pare che s'avvicini, che sia qua dietro a me, con la sua
mano sulla mia spalla. Filai in un portone: nel casotto del portinaio
c'è un cranio calvo, assiepato da una corona di capelli fini, di bimbo,
curvo su una scarpetta da signora. Esco; mi pianto la berretta piú salda in testa, mi ravvolgo nella mia mantella e
cammino picchiando con forza il lastrico, come se tra esso e i miei scarponi
sia qualche cosa che bisogna vincere.
Poi corsi al mare.
Nel mare mi lavai il viso e le mani. Bevvi l'acqua salsa del
nostro Adriatico. Lontano, nel tramonto, le alpi italiane eran
rosse e oro come dolomiti. Sui trabaccoli romagnoli calavano le allegre
bandiere tricolori, e il focolaietto di bordo fumava
per la polenta. Mare nostro. Respirai libero e felice come dopo un'intensa
preghiera.
Ma m'accorsi, dopo, che la gente mi guardava. I miei scarponi
bullettati eran polverosi e i miei atti curiosi. Non
avevo il viso di quella gente perfetta che camminava su e giú
per le rive senza andare in nessun posto. Era gente che guardava ed era
guardata. I giovanotti avevano larghi soprabiti a campana, con di dietro un
taglio lungo, come le giubbe dei servitori, e bastoni grossi e lievi che
volevano sembrare rami appena scorzati. Le signorine erano accompagnate dal
babbo o dalla mamma, e avevano stivalini lustri, come
i dorsi delle blatte. Erano stivalini assai piú puliti e limpidi che i loro occhi. Anch'esse mi
guardavano, con contegno; ma s'io le guardavo, voltavan
gli occhi. Non sanno sostenere uno sguardo d'uomo.
Ora in questo via vai i giovanotti schivavano le signorine con
accortezza in modo da sfregarle un poco, ma non tanto che alcuno potesse dire
un bada a te. In generale tutti sorridevano e si levavano a ogni cinque passi
il cappello inchinandosi leggermente di schiena. Io li guardavo meravigliato, e
mi cacciavo tra loro, stordito dal trepestio e bisbiglio di quell'andar senza
ragione.
Andai lentamente per la città, trasportato dal loro lento
fluire. Difficile è camminare tra gente inoperosa. Quello che precede si
ferma d'un tratto; un'altra esce di bottega con la testa rivolta a ringraziare
il commesso che le ha sganciato dalla maniglia la manica a sbuffi; il terzo
vuol camminare dietro a una signorina: tanto che io, stufo di schivare, misi le
mani in tasca e camminai a linea retta facendo crocchiare le bullette sul
lastrico. Stracciai una sottana e mi lasciaron
camminare facendomi largo.
Ma anche cosí, non si è liberi
camminando in città. Ogni vostro passo in città è
controllato da spie che fanno finta di non vedere. I portinai dai portoni
aperti adocchian, di sotto, chi entra; i caffeioli passano lunghe ore mirando le gambe della gente;
la signora tiene stretta la borsetta badando a destra e a sinistra se alcuno le
si avvicini. Nessuno si fida di nessuno, benché tutti salutano tutti.
E benché io sia coperto molto bene dalla mia mantella, questi
occhi, questo controllo nascosto mi opprimono. I fanali s'accendono rossi
sfolgoranti; le grandi case rettangolari incombono. Se mi sdraiassi sul
selciato? Io sono stanco.
Mi volto bruscamente. Lassú è il
monte Kâl. Perché scesi? Bene: ora sei qui. E qui
devi vivere. Mi abbranco il petto con le mani per sentire se il mio corpo
è, e resiste. E dunque avanti. Io voglio entrare nella taverna piú lurida di Cità vecia.
Fumo e puzza. Soffoco. Ma accendo anch'io la pipa, fumo nel fumo,
e sputo. «Camarier! mezo
quarto de petess.» Anche l'acquavita
io posso bere, se altri la bevono, e questo bicchiere è pulito, se altri
possono accostarci le labbra e trincare. Sull'orlo di questo bicchiere ci
può essere, invisibile, l'agonia per tutta la mia vita; ma io bevo. E
alzo gli occhi sui miei compagni.
Un carbonaio, dalla spalla sinistra cresciuta come un enorme
tumore, sputa chiazze nere. Una donna con peli duri sul labbro, spruzzati di
cipria, si netta la bocca con le dita cicciose. Sotto la tavola lo scamiciato
che le sta seduto dirimpetto le tira, freddo, una ginocchiata fra le gambe. Tra
i capelli neri, unti, della padrona della bettola splende rosea al becco del
gas una natta. La guardo oltre il fondo appannato del bicchiere.
«Camarier! 'ncora
mezo quarto!» E picchio col pugno chiuso sulla tavola
zoppa. Mi guardano, e continuano i loro discorsi.
Accanto a me due figuri con la giacca buttata sulla spalla e la
camicia blu parlano d'una brocca di stagno, come fu rubata. Altri schiamazzano
e cantano. Bene. Niente è qui strano, e tutto è duro e definito
come gli spigoli del corso. S'io dò un pugno sul muso di quel facchino,
lui mi tira due pugni. S'io faccio la filantropia schiave-bianche a quella
donna, essa mi risponde dandosi una manata sul culo. Sono tra ladri e
assassini: ma se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi
distruggo il mondo e lo riedifico. Questa è la mia città. Qui sto
bene.
Parte seconda
Eh, ma in città, prima ancora di andar lassú
in carso, io mi annoiai molto. Ora ci penso; e vorrei raccontarvi dei miei anni
di scuola, dei miei cari condiscepoli, delle prime persone che conobbi; ma non
m'interessa abbastanza. Vi scriverei lunghe pagine seccanti. Invece è
bello raccontare godendo delle proprie avventure e dei sogni. Io mi diverto
pensando alla mia vita.
Anche la città è divertente, sebbene qualche volta m'abbia
seccato. Mi piace il moto, lo strepito, l'affaccendamento, il lavoro. Nessuno
perde tempo, perché tutti devono arrivare presto in qualche posto, e hanno una
preoccupazione. Nei visi e negli stessi passi voi potete riconoscere subito in
che modo il passante sta preparando l'affare. Se guardate bene, siete subito
presi in un gioco eccitante d'operosità, e la vostra intelligenza batte
e rimanda istantaneamente i possibili attacchi d'astuzia, di coltura, di
bontà, di vendetta. Un inquieto e giovine animale s'agita in voi, e voi
andate per le strade ricchi della sua vita istintiva, com'uno a cui ricircoli
il sangue nella mano stecchita di freddo sotto il guanto. Andate contenti
nell'aria fusa di strepiti e volontà, sentendo che qui, dove l'interesse
d'ogni passante trabocca, comunica, scorre negli altri, e si scansan gli urti e i carri accogliendo con logica
inavvertenza le mosse altrui qui, nella strada, si decide il domani del mondo.
E io vado per le strade di Trieste e sono contento ch'essa sia
ricca, rido dei carri frastornanti che passano, dei tesi sacchi grigi di
caffè, delle cassette quasi elastiche dove fra trine e veli di carta
stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura
doganale una sottile rotaia di bianca neve, dei barilotti semisfasciati
d'ambrato calofonio, delle balle sgravitanti
di lana greggia, delle botti morchiose d'olio, di tutte le belle, le buone
merci che passano per mano nostra dall'Oriente, dall'America e dall'Italia
verso i tedeschi e i boemi.
Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo
i moli quadrati e bianchi nel mare, e vi mostrerò le tre nuove dighe nel
vallon di Muggia, fisse nell'onde, confini della
tempesta, costruite su enormi blocchi di calcare cementato. Per il nuovo porto
minammo e frantumammo una montagna intera. Mesi e mesi di furibondi
squarciamenti che rintronavano l'orizzonte e s'abbattevano come il terremoto
sulle nostre case piene di finestre. E piccoli vaporini,
un po' superbi del loro pennacchio di fumo, facevan rigar
dritte lunghe file di maone tutte pancia, - e dalla strada napoleonica si
vedeva sfolgorar nel mare i carichi di pietra scintillante. Quest'è il
quarto porto di Trieste. La storia di Trieste è nei suoi porti. Noi
eravamo una piccola darsena di pescatori pirati e sapemmo servirci di Roma,
servirci dell'Austria e resistere e lottare finché Venezia andò giú. Ora, l'Adriatico è nostro. Io avrei dovuto fare
il commerciante. Mi piacerebbe di piú trattare e
contrattare che studiare i libri. La bella cosa viva che è l'uomo! le
sue mani che s'insaccocciano per nascondervi i moti
istintivi alle vostre parole, i suoi misteriosi occhi fondi che s'attaccano su
i vostri per impedirvi il salto di fianco, la sua idea precisa, sotterranea,
che vi chiama al centro vorticoso girandovi in spirale ironica dietro le
spalle! Bella cosa è l'uomo, e mette voglia di combattere. Dal suo modo
di parlare voi capite che prezzo bisogna fargli. Egli guadagna tempo, sorride,
pulisce gli occhiali, accende una sigaretta - voi, ecco sapete la vostra strada
e le tappe. Oh! anch'egli è giunto all'improvviso, e fa finta di non
guardarvi, ma tutto il suo corpo si meraviglia della scoperta e si slaccia
gioioso di sicurezza: e voi siete due uomini smascherati di fronte, e armati
che l'altro non si rificchi nella macchia. Ma chi di voi sa far smaniare
quell'altro della sua insufficiente certezza? Chi sa rigirarlo nelle mani e
spremer acqua dal fuoco e spegnerlo, e bruciarlo secco? Anche domani è
un giorno: e un giorno che può dar mille per le cento corone che oggi vi
siete fatte rubare. Ah quel caffè che nel Brasile fiorisce male questa
primavera! Primavera, calda primavera, amici miei, nuovo sole su grano nuovo,
strade piú larghe e braccia piene di rami fioriti - e
noi andiamo a scuola con il pacco di libri al fianco. Andiamo fra la gente e le
carrozze, trasognati dietro i nostri desideri di commercianti, di soldati, di
pompieri; levandoci ogni mattina alle sette, alle sette e qualche minuto di
dolce coscienza semisveglia di letto, ogni mattina,
perché, la domenica, c'è messa. Primavere lampanti ai verdi scuretti.
Grigia piovosità d'inverno. Pomi e pere grasse sugli alberi. Autunno
ritornato. Ogni mattina. Il falegname pialla; - l'officina nera con la macchia
sfavillante, alcuni mezzivisi, un martello in alto; -
gli operai con i calzoni blu sollevare il lastricato e picconare il massiccio
terreno per una conduttura d'acqua o di gas. Com'è triste il piccone e
la vanga nel terreno battuto della città! Si lavora senza che nessuno vi
possa seminare.
Ecco il casamento arido. Otto classi, venti parallele. Qua dentro
ho passato nove anni della mia vita.
Una buona ragazza, di carne incitante e un glovane
alto e forte, qualche volta triste. Essi si sposeranno fra ott'anni. Essi
stanno seduti su un largo sofà, tenendosi strette le mani e godendo dei
loro caldi corpi.
La mamma vuol assai bene alla figliola, ed è un po' seccata
dei lunghi anni e della serietà del giovane. Sarà contenta quando
si sposeranno, se il giovane non porterà via la figliola e staranno insieme,
allegri e senza tormenti. La zia corre, alzando e calando con la sua gamba
zoppa, a preparare l'arrosto per la nipote bella che le promette un bacio. La
zia è contenta che essa faccia come vuole il giovane, non vada ai balli,
vada poco al teatro, legga qualche libro. Egli è l'unico che la difenda
contro la cognata, e la zia gode che l'idee di lui
siano opposte a quelle della cognata.
Il babbo, a tavola, si sbottona il gilè e additando con la
mano grassa e unta la sovrabbondanza delle vivande dice soddisfatto: "Se
moro mi, i mii no i ga de magnar". Egli è
contento d'aver sulle spalle un peso sempre piú
grave, e brontola sempre perché i suoi capiscano com'egli sappia lavorar bene.
Il giovane comprende benissimo tutta la piccola famiglia estranea,
e anche l'ammira. E la ragazza è buona, e quando egli la rimprovera o
s'addolora perché non si capiscono, gli dice con carezza: "Sí, sí, ti ga
ragion, ma ti vederà, studierò, legerò, semo tanto
giovini. No stemo esser tristi, dai!".
E gli anni passano, passano tre anni, e ognuno un giorno vede la
sua strada. Cosí il giovane intruso lasciò la
povera ragazza disperata, salutò la mamma, andò via e soffrirono
per qualche tempo.
Ero stato socio della "Giovine Trieste", non mi ricordo piú sotto che nome, perché il regolamento delle scuole
medie austriache proibiva allora di far parte di qualunque società,
"specialmente se politica". Pagavo regolarmente i dieci soldi
settimanali. Assistevo regolarmente alle sedute.
Tintinno del campanello automatico, il socio entrava, diceva:
"Bonasera", guardava attorno per trovare un conoscente, si faceva
portare una bottiglia di birra dal custode - un ometto simpatico con orecchie a
vela e naso grosso e lungo, a cui sarebbero stati bene i colletti a risvolto
dei nostri nonni, - accendeva una sigaretta, leggeva i giornali, chiacchierava.
Non si faceva niente, ma ci si consolava pensando alla preparazione. Tutti si
lagnavano della "Patria", la direzione del partito liberale di cui
noi eravamo l'ala sinistra; ma prima di decidere un leggero rimprovero a questo
o quel nostro uomo rappresentativo, si domandava il permesso alla
"Patria". Una sera, in seduta, quando l'i. r. commissario era
già andato via - perché quando c'era lui si davano annoiatamente i
resoconti di cassa e si leggeva sorridendo la relazione ufficiale, - si inveí con forte parola contro l'apatia remissiva di Hortis e degli altri deputati. Poi si votò un
vibrato ordine del giorno; e, come cosa implicita, il presidente domandava chi
volesse venir con lui da Venezian per il nulla osta.
Io chiesi timidamente dalle sedie: «Ma perché domandare il permesso a Venezian?». Tutti rimasero stupiti. S'alzò su un
giovanotto dal viso insecchito e mummificato in buchi e angolosità, e
sorrise con indulgente compassione fra i denti guasti, salivando abbondante.
Poi disse, un po' tartaglia, ma come chi la dice buona: «Se vedi che 'l mulo ga de magnar 'ncora pagnote!». Si sedette contento, e tutti risero battendo le
mani.
Fu quella l'unica volta che pronunziai mezza parola in seduta
pubblica. Del resto brontolavo con i pochi altri ingenui intorno a un
tavolo-scacchiere, progettando ogni sera di formar la "montagna" nel
seno stesso della società. Ma non si concluse mai nulla. E soprattutto
ascoltavo i discorsi dei maggiori, per imparar di politica, per aver armi
contro la zia che disapprovava l'occuparsi d'irredentismo. Parlavano in
generale di trucchi da fare alle guardie, dell'ultima schifoseria
giallonera dei socialisti, del loro capo ufficio come si sedeva sulla sedia e
teneva la penna. Uno poteva imparare come si fabbrica lo schizzetto triplice
per dipingere di biancorossoverde la k. k. polizia; e
poteva anche essere informato che Franzca del 41 era
passata, per cause ignote, nel casino in via del Solitario. Un giovanottino con
un neo-tre-peli-lunghi raccontava della campagna a Domokos
e della strippata data a Roma per l'anniversario dello Statuto. Perché la
patria era mescolata al risotto alla milanese e all'ipermanganato
di potassa al 3%. La patria era per loro come quando i giornali pubblicarono il
telegramma della morte di Carducci, e un po' piú in
su, un po' piú in sotto, dicevano della neve in
Carinzia, e dell'ambasciatore francese in viaggio.
Io mi meravigliavo. Io sentivo la patria, esclusiva e sacra. Mi
tremava il petto leggendo di Oberdan. Avrei voluto morire come lui.
E seguivo sulla carta geografica le campagne di Garibaldi,
commovendomi degli eroi. Garibaldi mi fu un venerato amico e dio. Ancora oggi
quando sento parlare storicamente di lui, il cuore mi balza in rivolta. Io sono
ancora un bimbo che vorrebbe combattere sotto i suoi occhi.
Ma noi nascemmo in altra generazione. Noi cantammo per le strade:
All'armi, all'armi! Ondeggiano
le insegne giallo e nere.
Fuoco, per dio! sul barbaro,
su le tedesche schiere;
scappammo davanti alle guardie di pubblica sicurezza e lontani, a
branchi, continuammo a cantare:
Non deporrem la spada
fin che sia schiavo un angolo
dell'itala contrada.
Non deporrem la spada
fin che sull'alpi Giulie
non splenda il tricolor.
E a casa trovammo la mamma piangente di affanno e di paura per
noi. Ci si bacia, e si va a dormire, soddisfatti.
Io ebbi uno zio garibaldino che a quattro anni mandava in lettera
al babbo un pezzo di pane di collegio per fargli gustare che roba gli davano; e
a tredici scappò dal collegio, di notte, gridando: "Viva
l'Italia!", e camminò, senza un soldo, da Fiume a Venezia, per
arrolarsi con Garibaldi. Non lo presero perché era troppo giovane; ma gli
promisero una lira al giorno per il mantenimento. Egli prese la lira e la
buttò nel canale: che non voleva soldi da chi aveva meno di lui. Un
parente lo trovò seduto su un rio, sbocconcellante un tocco di pane,
soddisfatto. Da giovane combatté. Era abile commerciante, pieno di risorse e
iniziative. Fu povero, ricchissimo, quasi povero, agiato. Una volta
capitò nel suo scrittoio uno, dicendo che zio gli doveva dieci fiorini.
Zio rispose che glieli aveva già restituiti. L'altro negò. Zio
prese di portafoglio una banconota da dieci, la pose sul tavolo, prese un fiammifero,
accese una candela, e tenne la banconota, delicatamente per un angolo, sulla
fiamma, finché bruciò tutta.
«Ghe fazo
veder che no me interessa de diese fiorini; ma a lei
no ghe devo un soldo. Bongiorno.»
Sposò a modo suo contro la volontà e il piacere di
tutti i suoi parenti; studiò in tre mesi il croato e andò con la
sua donna nelle foreste della Croazia, a fare il mercante di legnami. Cosicché
egli fu sempre per quasi tutti i parenti uno screanzato mistero da stare in
guardia, un uomo presuntuoso e senza giudizio. Lo sfuggivano seccati; e se mai
dovevano parlare con lui per convenienza, l'ascoltavano come s'ascolta la
storiella mille volte ripetuta del vecchio parroco di campagna, e guardandolo
di sfuggita in viso per presentire che nuovo tiro meditasse. Pure era ottimo e
calmo, benché anima di passioni. Era alto, e tarchiato di petto: il viso largo,
a tratti grossi, senza delicatezze, ma gli occhi come quelli di mamma, e la
barba bionda chiara, ingiallita dal fumo. Camminava con il passo delle guide.
Parlava lentamente, con voce bassa, profonda, negli occhi una gioia quasi
puerile per ciò che raccontava, ma d'una puerilità pregna di
dolore e disperazione. Non aveva che la famiglia; e la moglie gli era morta;
una figlia gli s'era uccisa; un'altra aveva abbandonato il marito e s'era fatta
canzonettista. Non piangeva; ma quando, seduto nel nostro salotto, tossiva, la
corda piú bassa dell'arpa di mamma dava una
vibrazione lunga, terribile. Era stanco e quasi sfinito. Mamma gli diceva: «Eh,
su, coragio, ti xe ancora
come un giovinoto!» ed egli sorrideva: «Sí, son ancora forte; ma...» e sollevava il braccio destro
nella posizione in cui si spiana lo schioppo, e il braccio gli tremava benché
egli alzandolo aveva sperato che gli stesse fermo. «Ma le gambe le xe ancora bone» concludeva. E ancora, per la terza o quarta
volta, si rimise, a cinquant'anni, e andava a caccia, e progettava di
costruirsi una casetta in carso, vicino a Gropada, su
una terrazza calcarea dominante un vasto orizzonte di grebani
e cielo. Mi ricordo che ci tracciò col bastone ferrato i limiti dove
sarebbe sorta la casa.
Era intelligente e nessuno sa quante cose nostre, che ora a poco a
poco cominciano a esser discusse, egli già ne parlava con chiarezza,
come uno cosí fuori dalle osservazioni e valutazioni
abituali che gli è naturale e ovvio comprendere verginamente
le cose, e si meraviglia che la gente non abbia le sue idee.
Era sempre in carso e i contadini lo chiamavano "el paron". I conoscenti gli
chiedevano, tanto per dir qualche cosa: «Ma no ti ga
paura d'esser sempre fra quei s'ciavi duri?».
«Ma se no i ghe fa mal nianca a una mosca! I xe boni
come fioi. Ciò, natural!
se va uno de quei ebreeti triestini co' le gambe
storte e 'l ghe canta in te le recie:
"Nela patria de Rosseti no se parla che italian", lori i xe a casa
sua e i ghe dà un fraco
de legnade, se capissi. Cossa
i dovaria far?» Dopo continuava: «Ma mi vado per i
campi, su l'erba, e nissun me disi mai niente.
Un'unica volta, ghe stavo drio
a una pernise, camminavo ne l'erba, e me son sentí ciamar da un contadin: "Paron, chi me pagarà l'erba?". El iera lontan, e no 'l se ris'ciava de' vizinarse. Mi lo go
vardà. E ghe go dito
a pian: "Vien qua che contemo insieme i fili de
erba che go zapà, che te li pago". Ma ghe lo go dito con un'aria che... e lú
fila via come el levro».
Concludeva: «Xe natural: el
s'ciopo no sta mai mal. Ma provè
andar in Italia, in Friul, per le campagne, e po' me savarè dir. Qua i xe tropo
boni, co' sti farabuti de cità».
Odiava la gente vuota e ingiusta, benché nei suoi giudizi egli fosse tutto
fuoco. Non sopportava le chiacchiere di Venezian e
compagni: "... la patria romana... i venti secoli di
civiltà..." - «ma la panza per i fighi! Fioi
de cani! Ve volevo là quando che subiava. I se
la saria fata in braghe.» - Di Garibaldi non l'ho
sentito parlar mai, neanche una volta.
Io ho piacere d'aver avuto questo zio. Gli voglio sempre piú bene, e qualche volta mi rammarico di esser stato cosí bimbo, allora, quando viveva, e non averlo conosciuto
veramente. Ora qualche sera poggio la testa sulle ginocchia di mamma e mi
faccio raccontare di lui.
Mi disse una volta che dieci muloni
m'avevano aggredito e tutti i parenti si condolevano del gnocco susinoso lasciatomi in una guancia; mi disse girando gli
occhi quasi sbadatamente: "Spero che no ti sarà restà
debitor de assai". No credo, zio.
Mamma è malata. Io sto sdraiato accanto a lei sul margine
del letto, accarezzandole la fronte e le mani. Cosí
passiamo qualche ora.
Ogni tanto ella mi guarda e mi domanda: «Credi che guarirò?».
Io la sgrido come una bimba e le racconto di quando sarà guarita.
Io vorrei difenderla contro il male e tenerla allegra. Mamma
è buona. Ha sofferto assai nella vita, piangendo in silenzio, e cercando
di giustificare chi la maltrattava. Non disse mai una parola d'odio, si
rinchiuse in sé con i suoi figli, come una povera creatura battuta. Io non
perdono a chi le fece male. Io voglio che la nostra mamma possa godere di noi piú bravi degli altri.
«Quando sarai guarita verrai un mese con me a Firenze, vuoi?
C'è le colline e gli ulivi, e staremo in pace. Ora son passati tre mesi,
poi passa ancora uno, e dopo facciamo una gran festa. Io butto il cappello in
aria: mamma è guarita. Vuoi?»
Ella tace rabbrividendo di gioia. E io le parlo e le racconto
tante cose buone, ma sono stanco di questa triste camera oscura, con poca aria,
con l'orologio che batte il suo tempo. Vorrei rifugiarmi al mio tavolino e
lavorare, scrivere un'allegra poesia, uscire in campagna ed esser solo con il
sole e l'aria. Io avrei bisogno di prosperità e contentezza. Sono quasi
irritato contro il suo male, contro l'oscurità che è calata da
tanti anni nella nostra casa. Si vive paurosi di svegliare negli altri certe
cose che sono sempre presenti dentro di noi; si vive a bassa voce, guardandoci
di sfuggita in viso dopo una risata. Molti giorni si imbocca la minestra e la
carne senza dir parola, sforzandoci a interessarci dei piccoli che raccontano
della scuola. Si vive cosí da molti anni. E la mamma
guarda i nostri occhi che s'abbassano come in colpa, e non può far
niente per i suoi figlioli. Ella ci bacia il capo, e ci chiede scusa in
silenzio.
Un giorno metteva ad asciugare alcuni panni alla stufa e piangeva.
Io le chiesi: «Mamma, cos'hai?». Le chiesi ancora... essa piangeva e negava,
cercava di trattenere lo spasimo, ed era stanca: «Che hai mamma? perché
piangi?». «Vedi, figliolo, non è niente, gli affari di babbo vanno
male.»
E un giorno babbo tornò da un viaggio, che era stato
anch'esso inutile, e non c'era da far piú nulla. Noi
eravamo seduti intorno alla tavola e cenavamo. Egli entrò, ci
salutò, e si sedette al suo posto. Noi tacevamo. Egli prese la forchetta
e ingollò i bocconi. Ci disse: «Mangiate dunque!». La sua voce era senza
tremito.
Mai ho visto piangere babbo. Gli occhi gli si incassano nelle
tempie, la sua fronte si fa gonfia, ed egli sta fermo con la testa dritta in
su. Egli è un uomo, non si lamenta e s'irrigidisce. Babbo m'ha insegnato
a tacere e a disprezzare il dolore. E cosí passarono
i mesi e gli anni. E io cominciai ad amare la mia famiglia, e ero consolato
ch'essa credesse in me. E mamma una sera mi disse, poggiandosi sul mio petto:
«Figliolo, sono stanca, vai avanti tu».
Io amo i miei fratelli e i miei genitori perché la nostra vita
è stata dolorosa e confidente. Io vado avanti con essi e non cedo. Noi
vogliamo anche noi il nostro posto. Ci hanno fatto molto male. Alcuni sono
stati buoni con noi, ma non ci hanno capiti. Noi vogliamo esser noi, con i
nostri difetti e le nostre virtú, liberi di respirar
l'aria che ci spetta. Io sono contento di aver avuto una famiglia povera. Sono
cresciuto con un dovere e uno scopo. Essi mi vogliono bene, e il mio nome
è il loro.
L'orologio batte egualmente il suo tempo e la camera è
stretta e scura. Che sarà di noi se mamma non guarisce? La sua fronte
è sudata, e il suo pallido viso è pieno d'amarezza.
Voglio oscura la camera. Non filtri il sole dagli scuretti. Io
sono sdraiato bocconi sul letto, immobile, e non penso.
Non soffro. Nell'oscurità dilaga una noia infinita, e io
sto dimentico, intravedendo con disgusto gli scaffali dei libri sulla parete di
faccia.
Ho letto, ho guardato dalla finestra, ho fumato: inutile
ritentare. Non ho voglia di niente, e la camera è fredda.
Sento stridere bimbi in strada, e ombre di carrozze sfumano rapide
sulla parete. Presto sarà notte, e si spegnerà finalmente anche
questo raggio denso di sole che illumina il mazzo di fiori dipinto lassú.
Intanto gli uomini tornano dal lavoro e si salutano l'un l'altro.
E la terra cammina nella sua via fissa.
Ho girato tutta la città in questa notte di martedí grasso, annoiato e disgustato senza causa. Forse
ricordavo l'altr'anno, con lei, in caffè. L'ho cercata per tutti i
caffè, temendo di esser visto. Pensavo che le avrei rovinato
maggiormente la serata. Povera putela.
Su per l'Acquedotto ho incontrato un condiscepolo, Nando Baul, che m'ha fatto entrare alle "Gatte". Era la
prima volta che entravo in un caffè concerto. Guardavo la carne floscia
e la gente che guardava. Il direttore d'orchestra aveva un naso terribile, e le
canzonettiste ci facevano le spiritosaggini. Nando si divertiva, ma con
ostentazione di esperienza. Nando aveva gli occhi lustri. Mi disse che qualche
volta xe piú bel. Credo.
Saluti.
Feci un giro per Cità vecia
sperando di trovare per le strade una sporca baldoria. Io sono ancora casto -
ma come la vergine che guai a essere nei suoi sogni - dice all'incirca
Nietzsche. Sono rimasto puro fisicamente per paura di malattie. Forse anche no.
Del resto non importa. Mi sono fatto spiegare dai libri e dai compagni esperti,
e ora sono qui nervoso ad annusare. Avrei gusto di vedere qualche scena: ma non
c'è niente. Odor di piscio. Non ho coraggio di
tener su la testa e guardare agli sburti.
Qua abbasso c'è le solite otto, nove che passeggiano con il
loro andare di oche culone, incappottate sulla camiciaveste.
Fin qui arriva il belletto rosso, qui comincia il viola del freddo, a zone.
Come passo mi toccano il braccio: «'Ndemo su mulo?».
Divento rosso, passo via senza rispondere. Mi fanno schifo.
Schifo terribile. Questa è la ragione. Specialmente i
capelli e le mani. Sento un untume muschiato che non posso sopportare. Se no,
non mi parrebbe niente. Capisco benissimo senza romanticherie. Io dò
tanto; tu dai tanto. È pulito. Porca è la società che per
pulizia ha chiamato ciò... amore. (I puntini non sono miei: ma della
società. Io non adopero puntini.)
Dal caffè dove bevvi petess la
sera della calata, sbocca una comitiva di ominacci con barba, vestiti da donna;
donne spanciate e altro negrume, urlando, saltando
con fanaletti e bastoni. Mi tiro da parte. Sono
contento di avere a casa un letto bianco, pulito, senza cimici.
Ma una donna, una femmina, per me, per avvoltolarsi insieme nel
letto, per farla urlare di strette e morsi! Questo letto è troppo
grande. Troppo soffice. È meglio dormire con una coperta per terra.
Andai a vedere al Credit se mi prendevano impiegato. Appena montai
la larga scalinata, piena di stucchi e d'indicibili lampadari, il silenzio del
lavoro mi fece poggiare i piedi zitto, come se disturbassi, alla fonte, la
pulsazione di un mondo misterioso.
Mi dissero ch'era impossibile perché avevo fatto il ginnasio e non
l'accademia di commercio, e poi non sapevo bene il tedesco.
Appena uscito, vedendo il bel verde chiaro degli orti sotto il
Castello, mi tornarono a mente le fantasie puerili salgariane. Belle cavalcate
d'avventurieri ch'incontro ad ogni svoltata della mia vita, e mi danno il buon
saluto augurale inebbriandomi gli occhi con il
luccichio delle carabine strofinate e pronte. Strofinate sul tavolo, la candela
un poco piú in là: e il respiro della mamma
dormente è tanto lungo che la mano strofinante con foga, su e giú, si rallenta, e s'accorda al respiro lungo, mentre
l'anima comincia a pensare alle difficoltà, e si riempie di dubbio, come
di acqua i fori della tenda appena tolta, Cominciando la piova. Rividi la
brunastra tenda nel primo lume dell'alba, sgocciante di rugiada, e mi curvai a
uscirne dallo stretto pertugio, guardandomi intorno cauto, spiando gli
scricchiolii dell'erba che si rialzava.
Uno scalone tirato da due cavalloni, carico di stanghe di ferro,
correva a precipizio insordando la città. Il
cocchiere, piantato con le gambe aperte sui due lunghi tronchi scorzati del
margine, frustava e incitava i cavalli. Davanti a quel carro d'inferno tutti i
sogni sparvero. Ero in Corso, fra gente impellicciata
e automobili.
Me n'andai a casa stranito.
Pensavo: picchiar porta per porta. Otterrò d'esser mandato
in una grande casa di commercio dell'Indie, a Rangoon, come Ucio.
Un cinese schiavo moverà nella mia stanza un'enorme ventola rossastra,
perché le zanzare malariche non si fermino sulla mia pelle. Non scriverò
altro che, in inglese: "In possesso vostra stimata del".
Imbroglierò astutamente, come i commercianti non sanno fare ancora. In
tasca la rivoltella.
Risi: perché in India? perché la rivoltella, lucida come le
carabine degli avventurieri? Bimbo, sei letterato. E rimarrai letterato per
quanto mare frammetta tra la tua ultima e la nuova pedata. Anche se a Rangoon,
anche se nell'isola di Robinson, la ventola ti sembrerà, che so io:
l'azione contro le idee: insomma una di quelle tue immagini strampalate che
mettono in sussulto e in compassione la gente. E scriverai nella tua lettera
d'affari cosa che il copialettere non potrà copiare senza che la sezione
controllo ti dia del matto.
Uscii deluso. Toccai le foglie degli alberi umidi di piova,
sforzandomi a non paragonarle con niente. Un'impressione tattile di bagnato e
di freddo, e basta. Avrei voluto mi fossero disaggradevoli. Camminai
lungamente, evitando di pensare. Poi decisi: Parto.
Andai alla stazione a pigliare il biglietto di terza classe. «Per
dove?» mi chiese il bigliettinaio. Lo guardai. Io
pensavo di viaggiare senza destinazione; viaggiare perché speravo in un
disastro ferroviario che avesse schiantato due macchine e piú
vagoni, e io mi salvo aggrappandomi fortemente fra i due valigiai, cosí che l'urto non mi tocca. Poi esco rompendo il vetro
dal vagone rovesciato, striscio a carponi; non salvo nessuno ma corro alla
prossima stazione per avvertire, con calma, dell'accaduto. «Ha la mano
insanguinata» mi dice premuroso il capostazione. Io la guardo estraggo il
fazzoletto e la fascio. Poi, per favore, domando al capostazione di permettermi
inviare un dispaccio al mio giornale.
«Per dove?» si spazientí il bigliettinaio.
«Per Milano.» E pensai: mi presento al «Corriere della Sera».
Il treno andava a Vienna, e il bigliettinaio
dicendomelo sorrise. Tornai a casa deciso di farmi giornalista.
Il Piccolo mi accettò a cento corone il mese: orario
da mezzogiomo alle sedici, e dalle venti alle tre.
La prima volta che andai a intervistare un'attrice non ricordo piú se era la Bellincioni o la
Tina di Lorenzo - pensavo mettendo il pollice nel taglio ascellare del
gilè bianco: Rappresentazione d'una novità che non conosco;
intervista antr'act; caffè neri; accendo un
sigaro; in redazione: è il tocco. Ordino in pacchetto regolare le lunghe
cartelle verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la recensione della
novità e l'intervista: in un'ora e mezza. (L'intervista potevo scriverla
la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro febbrile.) Bene. Che
dirò a lei? È bella. E il Piccolo è il giornale piú diffuso di Trieste: io, in questo momento, ne sono il
critico teatrale.
Una folata d'immagini come al ritorno delle rondini: ero accanto a
un bosco autunnale, e soffiava la bora, e le foglie d'oro e di porpora
turbinavano intorno a me? Nella mia anima, certo, fu un subbuglio, un
accorrere, un saltellío guizzante, come in una vasca
di parco quando un bimbo butta una mica di pane. Ma il rosso belletto delle
labbra e la polvere d'oro dei capelli di lei mi parodiò; e io ne fui
spaventato come guardandomi in uno specchio convesso. Scrissi molto male della
commedia che m'era piaciuta, per vendetta, perché anch'io avevo bisogno di
violare la realtà altrui. Ma il direttore si fece portare le cartelle
prima che andassero in tipografia, mi chiamò, mi rimproverò
aspramente e stracciò l'articolo.
Uscendo di redazione, la prima alba mi faceva male sugli occhi
stanchi.
Una notte, dopo qualche anno, una notte di lavoro terribile perché
era morto il papa, io fissavo la lampada a gas sul mio tavolo. Sentivo andare,
borbottare, scartabellare, rombare intorno a me, sempre piú
lontano, lontanissimo, e pensavo, chissà perché, a Caino e Abele. Dicevo
a Dio ch'egli era molto ingiusto con Caino: perché non accetti il suo fumo? i
rami carichi di frutti e le biade non valgono l'agnello di Abele? Che male ti
ha fatto egli, prima di uccidere Abele? perché? La bibbia non dice niente. Pensai
che questo poteva essere il pensiero centrale d'una tragedia, e mi misi a
ridere malignamente. Io avevo già ucciso Abele.
Abele aveva teso le corde fra i corni del bufalo fucilato da me, e
cantava. Io l'uccisi. Ma ora le foglie che mi toccavano erano dure e aspre di
veleno come pennini. Desiderai ardentemente: "Abele Abele
se tu fossi ancora melodioso in me, in quest'ora di suprema stanchezza! Io ho
voglia di veder le stelle in cielo e cantare un grande canto".
Ma mi ghignai.
L'anima mi s'era ormai coagulata per il gocciare della vita
inacidita, rabbiosa, negatrice, e mi corrose in rughe la faccia, incassandosi
una tana nelle occhiaie.
Non vedevo piú le cose, e diedi di cozzo
senza sapere in spigoli acuti onde gli altri mi credettero un eroe. Io andavo per
la strada già scavata, disgustoso a me stesso, desiderando che qualcuno
mi bastonasse a morte.
Una volta anche mi proposi d'uccidermi, ma davanti allo specchio
non potei ammazzare l'essere maligno e ironico che mi guardava. La donna che
m'amava non torse il viso, mi si avvinghiò nervosamente al collo e
tentò con tutta la sua anima di darmi un bacio; ma le sue labbra non
aderirono sulle mie.
Ora sono quieto e viaggio negli espressi.
No, no, la mia vita non fu cosí, ma lo
stesso io mi trovo inquieto e spostato. Io ho trovato compagni e amicizia, e ho
lavorato con essi, ma io sono meno intelligente di loro. Io non so dir niente
che li persuada. Essi invece sanno discutere e dimostrare che bisogna esser
convinti di questa o quella cosa. Io sono impersuaso e contraddittorio. Bisogna
star zitti e prepararsi.
Ma perché essi qualche volta s'accasciano disperando di tutto? Chi
vuol riformare gli altri non ha diritto d'esser debole. Bisogna andar avanti e
dritti. Bisogna accogliere con amore la vita anche quand'essa è pesante.
Bisogna obbedire al proprio dovere. Essi sono piú
intelligenti e piú colti e piú
stanchi.
Forse io sono d'una città giovane e il mio passato sono i
ginepri del carso. Io non sono triste; a volte mi annoio: e allora mi butto a
dormire come una bestia in bisogno di letargo. Io non sono un grübler. Ho fede in me e nella legge. Io amo la vita.
Ma i discorsi d'arte e di letteratura m'annoiano. Io sono un po'
estraneo al loro mondo, e me n'addoloro, ma non so vincermi. Amo di piú parlare con la gente solita e interessarmi dei loro
interessi. Può essere che tutta la mia vita sarà una ricerca vana
d'umanità, ma la filosofia e l'arte non m'accontentano né m'appassionano
abbastanza. La vita è piú ampia e piú ricca. Ho voglia di conoscere altre terre e altri
uomini. Perché io non sono affatto superiore agli altri, e la letteratura
è un tristo e secco mestiere.
Dunque facciamo l'articolo. Da molto tempo sto zitto: è
tempo di risbucare. Lapis rosso: 1, 2, 3, 4, 5...; le cartelle sono numerate e
pronte. Accendiamo la sigaretta. Inchiniamoci sul tavolino per venerare il
pensiero che gorgoglia, commisto all'inchiostro, giú
dalla penna.
Lo sviluppo d'un'anima a Trieste. Comincio a scrivere; lacero; di nuovo, e altro strappo.
Sigarette. La stanza s'empie di fumo, e i pensieri si serrano come corolle al
vespro. Inutile illudersi: non ho da dire niente. Sono vuoto come una canna.
"Cosa fai qui, davanti a questo tavolino, in questa sporca
camera d'affitto? Anche se tuffi il muso nella frasca verde della boccia con cui
i tuoi occhi, stanchi del grigiume stampato sulle
pareti, cercano di sognare, tu, qui, non respiri. Ora, qui anche Shakespeare
è una pila di libri che ti ruba un brano d'orizzonte. Dirimpetto,
l'Incontro s'inrossa per l'aurora, e se t'affacci
alla finestra e guardi a sinistra, Fiesole è chiara come un cristallo
ambrato. Sul Secchieta c'è la neve. Andiamo
sul Secchieta."
Fasce ai piedi; doppia maglia al petto, un boccone di cioccolata
in tasca: e mentre pesto forte il lastricato della città perché dai piedi
il sangue mi scorra piú caldo alla testa, penso:
"Che ha da fare con la vita dello spirito cotesta improvvisa scampagnata?
C'era un ostacolo in te, un poco piú alto del Secchieta: e tu invece di pigliarlo di petto e darci dentro
col cranio, gli giri attorno credendo di andare cosí
verso il sole che illuminerà a tuo uso e consumo tutte le cose. Sei
già stanco? e ieri ancora sbalzavi oltre i vigneti e giú
dai muriccioli scontorti e assodati dall'edera che t'intralciava i piedi, e pumpf! col muso per terra, cervo vinto che i tuoi coetanei
cacciatori sbraitando l'alalà di vittoria legavan
con venchi per le zampe e trascinavano a casa - il
viso rosso dalla scalmana e dal trionfo. Buttavi giú
litri d'acqua, immersa bocca e naso e occhi nella secchia del pozzo, sbuffando
e ingorgogliandoti, senza tregua: sicché l'alenare delle narici scavava due fondi buchi nell'acqua.
Stanco? ".
Qui nel treno che mi porta a Sant'Ellero c'è contadini che
appena montati dormicchiano rovesciando la testa sullo schienale di legno. Io
cammino su e giú per la corsia centrale del vagone.
Stanco? Non so piú niente, ora. Non sono piú in città. Non ho piú
obbligo di dimostrarmi perché faccio questa o quella cosa. Sono una bestia
irrazionale. Scampagnata, gita, fuga, pazzia, leggerezza, sciocchezza: non so;
so che vado sul Secchieta dove c'è la neve.
Scendo dal treno, e respiro.
Su per gl'intrigati viottoli de' carbonai, che qui là si
allargano in uno spiazzo nero. Dove vado? La collina nasconde Vallombrosa.
Bene, se non mi sperdo; se mi sperdo, meglio. Tocco vecchi castagnoni senza
midollo né carne; l'elleboro nero è fiorito. Forse i miei occhi
troveranno tra le foglie brune e il musco la prima primola, accanto alla
macchia di neve.
Allenta il passo: l'animo si può ingrassare rapinando la
natura. Tutto è fiorito d'immagini intorno a te. Stendi la mano!: non i
getti del rovo tu tocchi, né il cespuglio tenace delle ginestre, né i sassi
della terra: accarezzi e ti pungi del tuo spirito, che è svolato via da
te a crearti il tuo mondo. S'è abbattuto contro l'oscuro amorfo, e ha
piantato di colpo le sue radici, entro di lui; onde il vento lo agita, rami
invernali gonfi come pugno che piú s'ingrossa come piú si sforza in se stesso; e i tuoi scarponi marchiano il
terreno umido di linfa succhiata su in mille forme dal sole; e il tuo sguardo
si spande fraternamente nel cerchio divino dei colli verdineri,
sotto il cielo limpido e lieve che par s'elevi - luce - piú
in su dell'aria. Cammina amorosamente nel tuo regno meraviglioso.
Le case di Saltino. La prima neve nei fossi lungo il binario
dentato. Dentro, gambe mie!: è dura e crocchia come ossi fra i molari
d'un cane. C'è degli alberi carichi di gemme incuffiate di peluria
argentea, come strani fiori. Da una stalla aperta mugghia il muso d'una vacca,
e si lecca dentro le larghe froge. R. R. Telefoni: 50 centesimi e sono a
Firenze. Eppure cammino urlando sulla neve, e non c'è nessuno che si
fermi a guardare il pazzo. Tutt'è bello. Capisco la riforma della scuola
media e il cipresso stronco sotto il peso della neve, che giace infissato nella
neve attraverso la strada e m'obbliga a un salto allegro, fermati sul petto i
lembi della mantella. Ed è buono il salame, il burro, il tè, il
pane casalingo d'una settimana dell'osteria di Vallombrosa. Qui è
impossibile sian mai venute dame strascicanti lunghe
gonnelle per campi ben pettinati e rasati, né ministri hanno mai giocato tennis
in solino: molti alberghi attendono di spalancarsi: ma io non credo.
Però potrei pigliare a sassi quelle due aquile insaccate in stracci gialli,
appollaiate col pernio sui pilastri d'un portone.
Ma su, che al Secchieta c'è neve
assolutamente intatta. Nessuna traccia sul dorso del monte: dove sono i giovani
italiani? Aspettano che si bandiscano domenicate
invernali con schi e pattini e signorine. Scrivo con
il chiodo dell'alpenstoc le lettere Voce nella
neve. Propongo che la festa vociana sia un'annua salita al Secchieta,
di febbraio. Lupercalia. Ah, ah, in questo momento
qualcuno esce dalla redazione d'un cotidiano e va a
dormire! Venite a bever l'alba sui monti!
E basta: il disotto sparisce. Non c'è che una cosa, alta,
non vista, che bisogna raggiungere. Nessun'immagine. I rami sono rami
irrigiditi che scattano sul viso se ti sfuggono di mano. Picchia il tacco nella
neve per farti il tuo scalino, e un altro piú in su.
Ficca l'alpenstoc. Anche se affondandosi tutto,
t'avverte che la neve è alta come te, non camminare a serpentina; pianta
dritte le pedate.
Niente mi giunge dentro di consentaneo, attorno a cui s'affollino l'idee e lo poppino e lo assimilino restituendolo mio,
frutto dell'anima piú profonda. Tutto è
sensazione di ostacolo che bisogna vincere: io e il monte siamo; altro no. E
non devo esser che io, in vetta.
Ti volti a contemplare? Sei già stanco che ti metti a fare
il poeta, caro amico mio? Se i polpacci ti scoppiano e la schiena ti si ripiega
insieme e per ogni centimetro di conquista stronchi col viso, col petto un
ramo; e un altro ramo, e rami chissà fino a dove ti aspettano, duri,
ghiacci, ipocritamente velati di neviscolo come una
fiorita di mandorli, e i ghiaccioli ti si frantumano nel collo, negli occhi
abbacinati dall'eterno luccicor del bianco; e il
berretto che ti sguizza giú ti costringe a ricalare,
e l'alpenstoc ti s'incunea tra ramo e tronco,
cosicché tutte le cose indispensabili tentano d'impedirti ciò che devi -
agguanta coi denti la lingua che vorrebbe imprecare, e cammina. E se la neve
intenerita dal sole cala sotto il tuo piede, in modo che tu potresti adagiarti
dolcemente su essa, e riposare, non cedere alla soffice bontà, non
poggiar lieve gli scarponi: batti, affondati, tirati fuori e avanti lassú. E lassú - non sai dove,
perché forse tu non cammini verso la cima reale, delle carte geografiche - e il
tuo lassú è grave di nebbia, forse; onde tu
raggiuntolo a cuore spasimante non vedrai gli Appennini imbrunirsi come giovane
carne sotto il sole, né la neve immensa, che tu hai vinto, accendere i colori,
né lontano, in basso, Firenze. Ma tu, amico mio, ti sei levato da tavolino per
salire sul Secchieta; e s'anche tutte le opinioni
della strada, che ti si sono infiltrate nell'orecchio dalla finestra, col
frastuono dei barocci scampanellanti e le canzoni sporche di vino indigerito; s'anche tutta la vita degli altri è
presente in te pur ora e tenta, come una ventata polverosa, di storcerti il
collo verso quello che hai già superato a rimirarlo, e accosciarti, tra
l'alto e il basso, sulle tue gambe stanche; anche se in eterno tutta la
città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non
importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è
bello.
Un dirupo nevoso che mi permetto di superare a zigzag: l'attacco
due tre volte con l'unghie. E...
Sul Secchieta c'è una bassa
cappella con una madonnina dipinta. Ho acceso un fiammifero per timore che vi
fosse dentro il lupo. Sono sgusciato strisciando per il pertugio ostruito dalla
neve e sono ruzzolato sotto la madonnina. Penetro con le dita spalancate
nell'acqua del mare, come tra i capelli morbidi e resistenti d'una donna; e
m'arrovescio sulla superficie a riposarmi. Le piccole onde sbattono mormorando
al mio orecchio, come il cuore della donna all'amante che riposa su di lei.
Allargo lo sguardo: e il mare s'increspa sotto il sole. La sua
anima è quieta e serena, ed egli si stende sulla spiaggia soffice e si
culla cantandosi piccole parole; e cerca con dita di bimbo le conchigline e i granchietti fra la ghiaiola
della riva.
Mi riposo sul mare. Passano sul cielo bianche nuvole e migrano. Se
sollevo un poco la testa vedo tremare gli ulivi di Muggia: nient'altro. Il
riposo è grande e infinito. Una barca apre lenta la vela, si sbanda
leggermente, e esita. Poi va, raccogliendosi il poco vento. Io sono qui,
portato dallo smuoversi lento dell'onde increspate.
E il mare mi porta lontano dove io non veda altro che mare e cielo,
e tutto sia zitto e pace. Apro la bocca e fra i denti mi scorre l'acqua salsa,
e il corpo si lascia calare lentamente nel mare.
Son qua per terra come un cane in agonia e i nervi mi si inturgidano per il bisogno d'amare, e stiro la testa come
se un capestro mi si avvincolasse sempre piú stretto intorno al collo. Poi balzo in piedi e guardo
nella notte. Dove sei creatura bella che un giorno mi devi amare? Guardi nella
notte? Sotto le stelle l'aria ha uno scintillío come
di specchio e noi ci vediamo.
Creatura fresca, dentro all'anima tutto è speranza di vita
come in un bosco sotto la calura. La piccola erba carezza il ceppo rugoso,
tremando nell'aspettativa. La terra mormora, l'acqua è vicina. Ecco
l'acqua, la fresca acqua. E tu sei qui fra le mie braccia, creatura.
Io ti posso baciare perché mi sono conservato puro. Ho sofferto e
pianto per te. Ora è agosto, e i rami rigurgitano di succo e si drizzano
smaniosi. Io voglio abbrancarti furioso e sentire questa tua carne intatta
torcersi sotto le mie dita, qua sulla terra calda come il mio sangue, perché tu
devi esser mia.
O creatura bella, io non so che colore abbiano i tuoi occhi, ma
sono azzurri perché la grande aria su di noi è azzurra. Non so dove tu
sia, ma guardi dall'alto e rassereni come il sole. In tutte le cose tu sei
perché tutto io amo: nella campanula bianca del prato e nel fiume che ti
rispecchia e va per l'ampia pianura portandoti nel suo cuore.
O creatura nuova, non so chi tu sei, ma ti sento dentro di me come
se nell'anima un seme mi radicasse. E sono un bimbo che va su per un monte
verde, saltando e cogliendo fiori, e d'un tratto gli s'apre davanti la valle
con i suoi villaggi e la città lontano, piena di luce nebulosa.
Tu sorridi di certo, perché le stelle scintillano tanto questa
notte. Sento il tuo sorriso sul mio volto come un soffio di vento in un ciuffo
d'erba. Ah cara! tutti i miei pensieri vanno verso di te come l'api intorno a un fiore dolce. E vanno e vanno a turbinare
intorno a te, creatura mia.
Tutte le cose son vere; ma alcune accadono ora, altre accadranno
nel futuro. E s'io ti racconto in questa triste notte invernale d'una fata che
viene portando odoranti fiori in grembo, tu mi devi credere, o povera anima
mia.
Ho voglia di cose lievi,
dove mi conduce un volo
di rondine, l'orecchio
sfiorandomi. Il sole è tiepido
come guancia adolescente.
Camminando leggermente
vado verso a bianchi meli.
Lunghesso la strada
un ramo d'olivo
il volto mi tocca.
Cose fresche! Rose
gonfie di rugiada;
erba su d'un rivo.
Ah se potessi
baciar la tua bocca!
Il notturno sogno dei fiori si disperde come la rugiada della
prima alba lo tocca. Eppure volentieri io sentirei le tue labbra sui miei occhi
quando la mattina penso cosí dolcemente.
Andiamo per i prati senza sentieri, perché oggi un tiepido sole ci
carezza le palpebre. Camminiamo lungamente, godendoci il sole invernale e le
piccole viole fra le foglie dell'edera sparsa sul suolo.
È un giorno che l'anima è portata in alto dal
proprio fiato. Se respiriamo, lasciamo bianca vaporosa traccia di noi nell'aria.
Andiamo ancora avanti un poco, dove il sole scalda il tronco del
bianco platano, e poggiamoci la fronte leggera. Sotto ai piedi fruscia l'erba
nuova, mentre andiamo tenendoci stretti per mano e guardando tra le ciglia.
Parte terza
Ho ritrovato il mio carso in un periodo della mia vita in cui
avevo bisogno d'andar lontano. Camminavo spesso, lento, alle rive per veder la
gente che partiva. Studiavo l'orario dei piroscafi lloydiani,
e se avessi avuto qualche centinaio di corone sarei andato in Dalmazia, a Cattaro, poi mi sarei arrampicato su fino a Cettigne, poi chissà? nell'interno della Croazia
dove c'è boschi immensi e bisogna cavalcare lunghe ore per arrivare a
una casipola di legno bigio. Il pater familias è
ancora l'antico ospite. Di notte, quand'uno non può dormire, sente un
canto triste che lo culla. Forse piuttosto sarei andato nell'Oriente.
Guardavo i bragozzi ciosoti che con una
gran spinta si staccavano, gonfi e carichi, dalla riva. Il padrone della barca
si levava la camicia per non infradiciarla di sudore, s'arrampicava
sull'albero, e agganciandosi con la gamba sulla scala a corda sbrogliava la
vela, giallastra a macchie mattone. Tutta la notte avrebbero corso l'Adriatico
col borino, e poi un altro giorno, e un altro sotto il sole. Specialmente mi
desideravo la piena calma marina, se il vento fosse cessato improvvisamente.
Avevo bisogno di star solo. Andavo per le strade poco frequentate,
nell'ombra degli alti casamenti rettangolari, e mi guardavo intorno spiando di
lontano il viso dei passanti. Temevo d'esser conosciuto, d'esser salutato, di
dover salutare. Un amico mi mandò una cartolina: perché non gli
scrivevo? "Poiché non vuoi, non vengo. Ma non è bello che tu sia cosí scontroso ed egoistico nel tuo dolore. Proprio ora
l'amicizia ti farebbe bene." Tutte buone care persone: ma io ero in cerca
di lontananza.
Stavo solo, nella mia stanzetta, e ogni sera sentivo battere lente
le nove, poi le nove e mezzo, poi le dieci, poi le dieci e mezzo... Il tempo
camminava come si va nei pomeriggi domenicali, portandosi addosso la noia di
tutti gli uomini. E ogni notte sentivo passare una carrozza nella via, poi la
voce di tutti i nottambuli che gridavano alla moglie o alla mamma per la
chiave.
Ecco - pensavo - ora mi metto a leggere, piglio appunti, studio.
Ma calavo la testa sulle braccia raggomitolate - e non potevo piangere.
Non potevo dormire. Ero sotto l'incubo di un'afa grave. E uno
usciva di casa nella notte e camminava con passi stanchi. Sognavo di una lunga
notte di bora, che i pochi viandanti camminano curvi contro di essa, senza
pensare. Mi sognavo soprattutto di cedri infissi nel fondo del mare, che a poco
a poco impietravano. Avevo bisogno di sassi e di sterilità. E mi
ricordai del carso, e dentro ebbi un piccolo grido di gioia come chi ha ritrovato
la patria. Quante storie mi raccontai quella notte! M'ero sdraiato sul
materasso poggiando la testa sul braccio destro, e ero un bimbo che aspettava
con occhi aperti un po' di lume alla fessura della porta e la mamma entrasse:
"Non dormi? È tardi. Dormi, dormi. Ti racconto una storia".
Avevo pietà e tenerezza per me stesso. E mi raccontavo a
voce alta una storia del carso: "Molti anni prima di noi una donna del
carso con capelli biondi, aveva partorito un piccolo che tremava anche sotto la
pelle d'orso. Allora lei poiché il suo fiato non bastava, accese il fuoco per
la prima volta. Il piccolo crebbe e non andava a caccia. Mangiava carne cotta e
le notti d'inverno quando si svegliava d'improvviso e non vedeva la fiamma,
l'oscurità e il freddo entravano in lui, ed egli pensava strane cose,
rabbrividendo. Dalla volta della grotta stillavano gocce, piú
lente del battere del suo sangue, e come cadevano sullo strame del giaciglio
egli sentiva camminare fuori della grotta. Ma molto lontano; chissà
dove, chi era?
"Pascolava le capre; si ficcava dentro un cespuglio e
guardava il cielo tra le frasche. Un cervo passava annusando, un uccello
fischiettava, e quei suoni entravano in lui e si intricavano. Poi dormiva un
poco. Poi tornava al calar del sole, e raccontava con parole chiare come le
foglie dopo la piova. La sua famiglia l'ascoltava.
"Un giorno, mentr'egli raccontava,
vennero uomini, il torso come macigno spaccato dal ghiaccio; ammazzarono la
famiglia, rubarono il fuoco, e condussero lui in servitú."
Anche altre storie mi raccontai. Ma poi fui stanco, e non potevo dormire. La
mia testa erano tanti pensieri rotti che nascevano e svolavano via da tutte le
parti, portandomi in mille posti contemporaneamente. Sudavo. Allora m'alzai, mi
vestii in furia, intascai il mio coltello a serramanico, e andai. In via Chiadino c'era ancora una coppia d'amanti, e la donna
giocava con le dita del compagno che la teneva avvincolata
a sé. Io pensai: "Quella donna gli può benissimo morire proprio
questa notte". I cani abbaiavano. Appena su, verso Kluch,
dopo la stanga giallonera della dogana, io fui solo e respirai. Camminavo senza
pensare.
Anche questa mattina s'è alzato il sole. E come al solito i
muratori camminavano nella strada silenziosa, con i loro grossi tacchi. Ho visto
una donna dirimpetto alla mia finestra spalancare le imposte e chiamare il
figliolo ch'era ora di scuola.
Dentro di noi s'accumulano molte nausee e schifi, e un giorno
escono e ci appestano l'aria che respiriamo. Secca assai vestirsi, mangiare,
alzarsi dalla sedia, ed è inutile; ma è meglio non turbare le
abitudini e mettere un piede davanti all'altro perché ci hanno insegnato a
camminare. Soltanto non porre ostacoli alla noia, perché allora il pensiero
s'agita e fa patire; ma se no, la vita procede calma, senza scosse né sussurri.
Silenzio e pace. Si cammina per le strade senza far rumore. Non
bisogna svegliare. La gente dorme, male, bene, ma dorme. Nessuno ha diritto di
svegliare il sonno di nessuno. Passa qualche nottambulo, e una guardia di
pubblica sicurezza piantona a passi larghi. Vicino ai fanali senti il fruscio
del gas ch'esce dal beccuccio. Un tratto di luce; la tua ombra cammina davanti
a te, poi si smarrisce un poco; una seconda ti segue; si fa piccola,
s'avvicina, eguale a te. Ti puoi fermare, sdraiarti su lei, nel lastricato
della città, e dormire anche tu. Ma puoi anche andare avanti, svoltare a
sinistra o a destra, è indifferente. Ora sei in mezzo a una puzza di
petrolio bruciato; poi, quando questa zona finisce, comincia la ventata calda di
grasso dalla cucina d'un albergo. Tu puoi camminare fino all'alba per la
città zitta, mentre la polvere cala lenta per terra.
Piove. È una giornata lunga. Il campanello suona: entra
Guido, lascia cader l'ombrello nel portaombrelli, va in camera sua, butta giú i libri, va a mangiare. Mamma passa piano vicino la mia
porta, perché spera io riposi.
Il giorno s'allunga eguale e infinito.
Un carro traballa lento per la strada. Odo picchiare su ferro. I
colombi tubano sul cornicione della casa. Non so che sarà della mia
vita.
Due uomini passano vicino e si salutano levandosi il cappello. Uno
ha un viso triangolare, tutt'ossi, con occhi stanchi
e erranti; l'altro cammina a piccoli passi svelti, tutto contento. È
contento d'aver appetito. È contento della sua casa, della giovane sposa
che lo aspetta alla finestra. Ha il Piccolo ripiegato in tasca e porta
un cartoccio di ciliege per il pranzo. - Perché si sono salutati? Che rapporto
vi può essere tra questi due uomini? Tutta la vita è intrecciata cosí ridicolmente. Nessuno può capire l'altro, ma
s'infinge d'amarlo e d'odiarlo. Perché? L'altro fa un atto e allora si dice che
ha fatto bene, che ha fatto male. In nome di che cosa?
Io passo e lascio passare, e guardo questa ignota vita come un
forestiero. Io sono qui perché in questo momento cammino per questa strada e
vedo un orologiaio curvo su un panchetto svitare una molla con una piccola
punta di acciaio. Tien stretto nell'incavo
dell'occhio una lente a tubo, naturalmente, senza increspare un muscolo per lo
sforzo. Nella bottega mille pendoli dondano
ritmicamente e mille lancette segnano l'ora identica e gl'identici minuti. Tornan da scuola le bimbe del Liceo, a frotte, tutte
vestite di turchino, e cianciano occhieggiando di straforo i giovanotti che
fanno l'aspetta.
Un ragazzotto spruzza d'acqua il selciato davanti a un negozio,
poi entra, esce con una scopa e butta la polvere in mezzo alla strada. Un fiaccheráio dorme rannicchiato nella carrozza, sui cuscini
rovesciati, e il cavallo, con il muso insaccato, mastica la biada. I colombi di
Piazza Grande ogni tanto si levano a tormo e
volteggiano in grandi cerchi, poi ricalano e zampettano fra le fossette
d'acqua. Il soldato bosniaco davanti al palazzo della luogotenenza marcia a
passi duri, si volta in tre tempi, torna in su.
Dove sono? L'aria calda mi fa socchiudere gli occhi, e cammino
trasognato. Cammino lentamente e guardo come un forestiero stanco di viaggio, e
che tuttavia debba vedere perché qualcuno lo attende pieno di affetto e
interesse. Ma nessuno m'aspetta e nessuno si sederà accanto a me tornato
chiedendomi con occhi amorosi: "E dunque? come fu il viaggio?".
Io sono solo e stanco. Posso tornare e restare. Posso fermarmi qui
in mezzo alla piazza finché il sole mi faccia vacillare e cader per terra; e
posso andare fra il frastuono dei carri come nel silenzio della notte, perché
in nessun luogo c'è riposo per questa mia grande stanchezza.
E i carbonai che dalla maona carrucolano le ceste di carbone sul Baron Gautsch mi
guardano con quei loro occhi infossati e sanguinosi meravigliandosi del mio
interessamento.
Uno tosse, sputa, l'aria gli riporta sul torso seminudo, impastato
di carbone e sudore, i lunghi filamenti di mucco e forse egli pensa
stizzosamente che io ho compassione di lui.
No, no: io sono indifferente. Soltanto non capisco. Vedo che si
lavora intorno a me. Un bastimento greco imbarca grosse travi; due pescatori
issano la grande vela scura, gocciolante; un gelataio grida la sua merce; uno
con occhiali neri nota su un libruccio il numero
sacchi cemento; un servo di piazza si fa avanti con il carretto rosso;
s'accosta, spumando, il vapore di Grado; un manzo tira un vagone carico di
balle di cartone. Sul vagone è scritto: Troppau-Triest-Rozzol-Assling.
Ora un treno sbuffa su per il colle d'Opcina; un
altro arriva a Pola, un altro rintrona sul ponte del Po. L'aria è piena
di strepito. Il movimento s'allarga. La terra lavora. Tutta la terra lavora in
una grande frenesia di dolore che vuol dimenticarsi. E fabbrica case e si
rinchiude tra muri per non vedere reciprocamente i propri corpi avvoltolarsi
insonni fra le lenzuola, e si tesse vestiti per poter pensare che almeno il
corpo dell'altro è sano e regolare, e congegna milioni di orologi perché
l'attimo l'insegua perpetuamente frustandola avanti nello spazio, come una
dannata che si precipiti senza tregua per non cadere. Non fermarti mai per un
minuto, o laboriosa terra!
Cosí sentivo; e stavo fermo, come se fossi nel punto morto della
terra. Avrei voluto pregare i carbonai di lasciarmi lavorare con loro; ma
ridevo malignamente e pensavo: Sí, sí, lavorate. C'è sempre dentro di voi il mistero
come un piccolo grumo che non si scioglie. Lo portate con voi in tutte le
vostre faccende, ed esso sta quieto e buono per darvi l'unghiata
all'improvviso. Mangiate il vostro pane e bevete il vostro vino; crescete e
moltiplicatevi; perché del pane che mangiate e del vino che bevete si nutre il
vostro mistero, ed è l'unica verità certa che i vostri figlioli
daranno ai loro figlioli. Incallite le vostre mani e il vostro spirito penetri
oltre i tessuti piú stretti e sia cosí
limpido da farsi specchio a se stesso. Torturatevi ogni membro del vostro corpo
con tutti gli istrumenti di lavoro, e anche, se volete, buttatevi su un letto comodo
e affaticate il vostro spirito. Il mistero non lo estenuate. In che parte di
voi è rintanato il piccolo mistero? Potete stritolarvi tutti, e il
vostro ultimo sguardo non lo vede. Lo potete anche cercare nelle notti stellate
e tra i filoni di ferro, sotto, nell'oscurità, fra le radici delle
foreste. Anche, se volete, potete ammazzarvi; ma la palla che passa oltre le
vostre tempie non lo brucia, e esso vive in voi anche dopo voi, eternamente, il
piccolo mistero che ha fatto questa bella distesa di mare e ha fatto noi e ci
ha fatto costruire i piroscafi rossoneri.
Ridevo quasi forte. M'accorsi che mi guardavano. Allora ebbi
ribrezzo di me. Stetti duro, fermo. Ero tutto infetto. Mi pareva che una mia
parola avrebbe impestato il mondo. Guardai il mare largo, puro, e avrei voluto
pregare. Ma no: tutto il mio dolore è mio, tutto il mio strazio è
per me solo. E mi rinserrai il petto con le mani, e fui un sussulto di dolore
attorto contro se stesso. Mi parve di poter morire perché il mio segreto
bruciava avidamente il mio sangue, rosso, come il sole maledetto che tramontava
nel mare.
Perché non lavori? Ricordati che qualcuno ha sperato in te. Ella
aspetta, e non è contenta. Ogni minuto che tu implori è un
delitto. Pesta il capo dentro il tavolino, ma lavora benedicendola. È
giusto che sia morta, perché tu sei un vigliacco.
Mi sedetti al tavolino, presi la penna, cominciai a fare
scarabocchi sulla carta, e facevo freghi con su scritto il suo nome.
Improvvisamente mi spaventai e corsi allo specchio. Guardavo fisso i miei occhi
e mi domandavo: "Sono molto lucidi? Ma Vedrani
dice che non si può capire dai segni esterni se uno è pazzo. Non
sono pazzo. Sta calmo, Scipio". Guardavo le cose riflesse nello specchio.
Le cose riflesse nello specchio - per legge fisica - sono distanti dagli occhi
come sono distanti dallo specchio le cose che si riflettono. Cercavo di
calcolare se anch'io vedevo cosí. "Se mi pesto
devo sentire dolore. Ma anche i pazzi lo sentono. Come posso avere una prova
esterna che io non sono pazzo? " Il tappeto nello specchio faceva un
angolo con il tappeto reale. Guardavo per la prima volta, come un bimbo. I
lunghi fili rossi, i lunghi fili blu. Corsi in stanza da pranzo; c'era Vanda
che lavorava. - Ora parlo. - Ma non potevo. Avevo terrore della mia voce.
Giravo su e giú. Se fosse strana, e Vanda mi
guardasse spaventata?
"Xe in casa mama?" Ma no, no:
avevo domandato con naturalezza e semplicità. Tornai in camera mia. Mi
buttai per terra, tenendomi stretta la testa; la chiamai, due volte, tre volte,
quattro volte, cinque volte..., e continuai a dire il suo nome lungamente,
lungamente, a bassa voce, sempre piú piano. Poi mi
misi a ninnare: Din, don, campanon
- Tre putele xe sul balcon - Una la fila, l'altra la canta, - L'altra la fa putei de pasta - Una la prega sior Idio - che 'l ghe mandi un bel mario... Poi non ricordo piú. Mi prese il sopore. Mi rialzai dopo pochi minuti e
stetti calmo. Non so per dove passai. Ma molte volte ho pregato la pazzia e la
morte.
Vorrei farmi legnaiolo della Croazia. Amo le frondose querce e la
scure. Andrei al lavoro camminando un po' storto a destra per l'uso del colpo,
e il lungo manico della scure ficcata in cintola mi batterebbe la coscia.
Il capo mi dà una manata sulla spalla, ridendo tra denti
bruni. Il capo è forte e esperto e noi gli obbediamo con riconoscenza. A
noi piace esser comandati. Il capo beve petecchio
come acqua, e non traballa mai, ma andando coi suoi passi ben piantati vigila
dall'alba alla notte il lavoro - e gira per la foresta come una grossa bestia
affamata. Se tu non lavori, subito senti dietro alle spalle uno schianto di
rami, una risata di cornacchia infuriata e una pedata in mezzo della schiena.
Ma il capo è buono e mi dice: Uh, Pennadoro!
Ho scoperto una pianta per te. È dura di cent'anni. Come va la scure?
Alla! alla! stavolta mette il primo dente. Il primo colpo, qua. Sentirai che
carne!
La mia scure è bella, col manico lungo di rovere, e un
occhio quadrato. Ride freddamente come il ghiaccio. È svogliata e pigra,
piena di disprezzo. Ama starsene affondata nell'erba guazzosa e contemplare il
cielo. Qualche volta si diverte di giocar con le teste dei cespugli e i getti
spumosi del frassino. Allora sorride come una bimba della saliva amarognola che
le sgocciola sulle guance. Ma piú spesso è
triste e tetra.
Ah, ma quando si scalda come dà dentro! Dà dentro
come una bestia infoiata. Piomba, piccola e chiara, senza respiro, e han! come
un tuono che scoppi, è incassata nella carne dell'albero. Tutta l'aria
attorno ne vibra, e i fringuelli rompono la nota. Si disficca
a stratte per assaporar bene la ferita, si libra a dritta ala per un istante,
immobile, e han! è dentro all'ossa. La quercia sussulta drittamente,
senza piegarsi, e accarezza con le frondi basse i quercioletti giovani, attorno, per non impaurirli, come se
solo il dolce vento del mare la muovesse. La grande quercia è silenziosa
come una madre che muore.
Ma la scure canta. La scure s'alza, s'abbassa e canta. Ride
rutilante, rossa. È come pazza. Io n'ho paura. Non vedo che questo lampo
davanti che fischia e scroscia. Han! han! Non sento piú
le mani. Il lampo mi sbatte contro l'albero, e mi ribatte via! Han! Piccola
mano d'acciaio, distruggiamo la foresta!
Perché dunque ci estrassero dalla terra? Dormivamo quieti nel
tepore umido delle radici. Piú fondi ancora eravamo,
eravamo il buio cuore duro della terra. Venne giú
un'ondata di luce, ci squarciarono, ci portarono al sole.
Ebbene: ora viviamo. Ora vogliamo sole sulla terra. Grande sole di
deserto. Sole che spacchi le fronti. Distruggiamo la foresta!
I colpi cantano senza respiro, fra il ronzar dello scheggiume. Ah com'è buono arrivare al cuore della
vecchia quercia! Il colpo s'insorda. Via! - Un
crollo: rintronan gli echi lontani.
Ora gli squartatori e squadratori hanno lavoro per una settimana.
Sono venuti i bimbi a vederla morta per terra, e ne unghiano la corteccia lichenosa con roncolette
dal manico rosso. Sono contenti. M'hanno dato fragole e lamponi. Io mi frego
con l'indice disteso il sudore delle sopraciglia e li
guardo.
Vorrei essere piuttosto sorvegliante d'una piantagione di
caffè nel Brasile. Ho parlato oggi con un negoziante di qui: dice che
sapendo lo spagnolo potrei farlo benissimo. Basta un po' di durezza. Badare che
lavorino. Dar di frusta non fa male. Avrei piacere di assaggiare quelle larghe
spalle di meticci. È strano che la gente non crederebbe io possa essere
aguzzino. La gente non crede ch'io sono freddo e calmo e che la loro miseria mi
dà semplicemente un senso di noia.
E io?
Io sono come voi, non badate. Le mani del giovane barbaro sono
diventate bianche e deboli come le mani delle femmine. Ora è tempo di
sognare: alberi spaccati, schiene frustate, altre cose. Tante altre forti cose.
Mamma mi diceva timidamente ch'era naturale non dormissi, tutto il
giorno su e giú per la tua stanzetta senz'aria! -
Come un condannato: cinque passi in su e cinque in giú,
fra due scaffali di libri letti e riletti e un muro bianco dove sta scritto da
tanto tempo: Tutte le cose son vere, ma alcune accadono ora, altre
accadranno nel futuro. E s'io ti racconto questa triste notte invernale d'una
fata che viene portando odoranti fiori in grembo, tu mi devi credere, o povera
anima mia. - È passato parecchio tempo. Ora il piccolo salmo
è tagliato con un frego del dito. E scritto anche, a lapis rosso: Guardami
ben: ben son... ben son Beatrice.
Su e giú, giú
e su. E poi sedere davanti a questo piccolo tavolinetto, e poi sdraiarsi per
terra. In strada gl'innumerevoli bimbi urlano e piangono e tiran
sassate sulla ruletta chiusa dell'erbivendola.
Tornano in rimessa, con gran fracasso, i carri d'una fabbrica di birra. La casa
grigia di fronte è orribile. Quando piove, sgocciola di sudore
giallastro. La luce invade camere soffocate, angoli di grandi armadi scrostati,
uno straccio per terra, una donna grassa che si leva le calze. A qualunque ora
del giorno sono ammassate sulle finestre lenzuola e coperte stinte. Tutto il
giorno c'è una brutta baba sdentata che
sbraita discinta dalla finestra contro il suo bambino: "Ah, porco! Dove te
xe, fiolduncàn?"
'Speta che te guanto mi, mulo! Cori, Paulin! Che dio te maledissi in tel
anima, porco de mulo! 'Speta mi, co' te vien a
magnar!". Tutto il giorno. Alle diciannove e mezzo una moglie alza lo
sportello della finestra e con una piccola in collo aspetta il marito che viene
a passi brevi, col bastoncello. Ogni sera. La notte passano comitive di
ragazzoni cantando l'inno della Lega o dei Lavoratori. All'alba i muratori
camminano battendo con i loro tacchi di legno, e la donna apre le imposte e
chiama il suo figliolo che è ora di scuola.
Usciamo, perché qui non si può piú
stare. Andavo nel bosco di Melara. Traversavo i prati e mi godevo del sussurro
dei piedi fra l'erba già alta, camminando lentamente, un po' curvo, a
capo scoperto, sotto il sole, come chi va spiando da piccole tracce e piccoli
strepiti una cosa che s'allontana cautamente.
Tutte le carnose papilionacee, rosse, gialle, screziate, sono in
fiore. Le foglie delle querce s'inturgidiscono di succo, e i ginepri sono piú coccole che aghi: coccole verdognole, lisce, fresche
come gocce marine. I tronchi dei platani si spellano, e all'annodatura i primi
rami sono gonfi di muscoli crespi come braccia di forti creature. L'erba dai
prati s'allarga sulla strada maestra.
Dolce principio d'estate in cui tutto è vivo. Io sento
d'intorno a me la sicurezza meravigliosa della vita che s'eterna. Cede la
primavera benignamente, con piovere di petali sanguinei e bianchi al vento
vaporante, mentre i calici ingrossano e s'insolidano
e le farfalle rompono il bozzolo filamentoso e le guaine dei nuovi germogli si
ripiegano secche e scolorite. Ancora ondula qualche fraschetta gommata e
rossiccia, e avvolta dall'esuberanza dell'erba ancora qualche viola
impallidisce negli umidi nascondigli: lievi parole infantili che tornano sulla
bocca della donna che ha partorito.
Io mi sdraio sotto un rovere e guardo svolettare
tra le foglie mille insettucci rosso turchini, in
amore. Tutta l'aria sul mio capo è piena dei loro brevi svoli. Alcuno
cade sfinito, si agguanta al filo d'erba inarcato e drizza le sue antenne,
stupefatto. Per il tronco gropposo scende e sale la
doppia carovana delle formiche; dall'erba sbalzano sui miei vestiti esili
puntolini neri come cicale minutissime. E mi slungo piú
fondo in questa forte erba fiorita, e sono pieno di dolore e di morte.
Sta quieto. Il cielo è chiaro, come dopo un'acquata. Nel
turchino del cielo lo sguardo si riposa calmamente,
come nella distesa del mare. Veleggia un cirro bianco tremolando. Gli orli
delle foglie contro il sole lameggiano d'argento. Riposa. Il vento che vien da
lontano ti porta un buon sogno se tu stai fermo e lentamente t'assopisci.
Reclina il capo sulla terra. Ora ti giunge un suono tranquillo di campana.
Vicina è la patria.
No, non posso dormire. Le braccia dormono, abbandonate lungo i
fianchi, gli occhi dormono; tutto il corpo e l'anima smania verso il ristoro
del sonno: ma una, una cosa veglia che nessuna nenia di mamma addormenta e
l'acqua che a goccia a goccia fluisce vicina non placa, e il vento non porta
via tra i fiori con sé, natura, natura! Una cosa. Non posso dormire. Le stoppie
vecchie dell'erba inquietano come questo pensiero che neanche nel sonno mi
dà pace ed è insolubile a tutte le buone virtú
della terra, ed è duro, e mi tormenta in ogni posto. Non posso dormire.
Un disgusto orribile storce le mie guance per tutta questa vita piena di gioia
che mi circonda. Che ho commesso io di non potermi fondere dentro quest'ora
calda in cui una divina certezza d'amore freme da foglie e tronchi e fiori e
uccelli e sole? Ficco le dita aperte nel groviglio dell'erbe come si fa per
scoprire la bianca fronte dell'amata, e gli occhi suoi mi guarderebbero fissi
serrando l'infinito fra i nostri due sguardi. Dov'è la tua bocca,
creatura, ch'io la baci? Dove sei?
Solo m'hai lasciato qui. E posso percorrere tutte le vie e i monti
e i mari della grande terra, e in nessun posto ti ritroverò piú. Sono ampie e immense le strade del vento piene di
spume e ondeggiamenti; ma tu sei piú in là. E
se anche il sole mi fa chiari questi stanchi occhi, io non ti posso piú vedere, tanto lontana sei andata. Quando la notte
è viva di stelle, ti cerco negli spazi immensi; ma l'infinito è
senza di te, perché io non ti posso piú stringere fra
le braccia, creatura.
Ed eri fresca e odorosa come l'alba. Eri un'alberella di
primavera. Quando tenevi la mia mano nella tua bella mano lunga, dovevo
camminare dritto, con passo fermo. Io ti guardavo negli occhi irrequieti,
curiosi di foglioline sotto le foglie secche, che improvvisamente si
spalancavano meravigliati o profondi come il dolore, e ti sorridevo. Cantavi a
bassa voce, limpida come un filo d'acqua tra l'erbe.
Dolce creatura! E quando chinavi la testa sulla mia spalla, io ti tenevo il
mento nella mano, t'accarezzavo le guance e i fini capelli, e una tenerezza
tremante mi prendeva non potendo io comprendere che tu eri mia. Piccola,
piccola! perché m'hai fatto questo male?
Solo m'hai lasciato qui, dopo averti baciato. E ora non c'è
pace piú, in nessun posto, anima. Dove potremo nascondere
la nostra amarezza? Alziamoci e camminiamo con i nostri cotidiani
passi lenti, in cerca della nostra solitudine.
Il carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido
terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti,
aguzzi. Ginepri aridi.
Lunghe ore di calcare e di ginepri. L'erba è setolosa.
Bora. Sole.
La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo
per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato.
Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il
terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora
altri centomila.
Ma se una parola deve nascere da te - bacia i timi selvaggi che
spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una
genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il
cielo profondo della primavera.
Premi la bocca contro la terra, e non parlare.
La notte; le stelle impallidenti; il sole caldo; il tremar
vespertino delle frasche; la notte. Cammino.
Dio disse: Abbia anche il dolore la sua pace. Dio disse: Abbia
anche il dolore il suo silenzio. Abbia anche l'uomo la sua solitudine.
Carso, mia patria, sii benedetto.
Ma una notte il dolore fu quasi piú
forte di me. Lo sentivo raccogliersi a goccia a goccia, e l'anima sí chiudeva arida e indifferente, cercando di non dargli
presa. Io so la paura. Non si capisce altro: ora quell'uomo viene avanti e
m'ammazza. Io non posso muovermi. Non posso sottrarmi. Fare strepito, no. Devo
guardarlo fisso.
Cosí era di me. Camminavo rabbrividendo sulle scaglie calcaree,
sonanti come piastre di ferro ai miei passi, fra cespugli e pini giovani. Lo
strepito dei miei piedi non mi faceva terrore; ma mi sgomentavo, sudante, come
la scaglia toccata scivolava piú in giú, urtando le altre, crepitando fra stecchi e foglie.
L'anima era stanca e non voleva piú patire. Voleva
rimanere sola e oscura. Pregava con nenia, che non venisse il dolore, che non
venisse l'affanno, che la lasciassero sola e oscura. Ma non c'era pace nella
preghiera; non m'ascoltavo. Ero tutto teso e doloroso verso uno sfrondare
improvviso, un lampo, un colpo di fucile, uno scroscio. Una terribile cosa
presentita; che mi può cogliere qui, da questa macchia nera, dietro quel
muricciolo, eccola. Correvo, per sfuggire il dolore che m'inseguiva fra i
cespugli mossi, verso il cielo aperto, dove si vede da tutte le parti intorno,
nella luce dell'orizzonte stellato.
Ma nell'infinito notturno fui piú solo e
senza difesa. Solo, col mio dolore, unico compagno, buon compagno, da reclinare
la testa in lui e piangere. Piansi come un bimbo sperduto. La luna bianchissima
nell'aria, soffusa sui sassi e sulle piante da inumidirsi le labbra e toccarla,
fredda, con la mano. Il mare sotto di lei s'innalzava in una strada d'argento,
procedente a larghissime spire. Nell'immensa luce d'alba l'orizzonte
lontanissimo guardava da tutte le parti, penetrando indifferente in ogni cosa.
E io piangevo solo, alta ombra nera osservata e vana.
M'accoccolai fra le rocce a picco sul mare, nascondendo vergognosamente
la faccia nelle mani. Io non credo in Dio, non credo in Dio. Ma forse lei
è qui sopra di me, in questa luce senza scampo, in questo cielo, in
questa terra. Anche tu sei qui con me. Forse anche tu soffri. Aiutami,
creatura. Ch'io senta solo una sillaba della tua voce e la tua mano sulla
fronte, perché è silenzio e solitudine qui, e nessuno disturba. Intorno,
nessuna cosa respira. La terra si può aprire e restituire la sua preda.
Il cielo si può riunire per ricrear la sua forma. L'anima è
diffusa in tutte le parti; ma io voglio averti ancora qui, amore. Io posso
farti rinascere. Basta ch'io creda. Io credo che tu puoi rinascere. Tu non sei
ancora morta. Aspetti prima che ritorni. Io ti scrivevo che si sarebbe stati
contenti assieme. Vedi, quando s'ha te tutto è cosí
semplice e bello. Arrivederci presto, amore. Aspettami presto. In luglio
sarò di ritorno. - Allora, quando ti scrivevo questo, tu eri già
morta. Ma ora sono tornato, e t'aspetterò fino all'alba, perché tu sei
ancora mia, e non è possibile che tu sia morta. Non avermi abbandonato!
Sta' con me, piccola. Ti prego, ti prego. Creatura. - Non alzavo la faccia per
non disturbare la sua volontà. E bisogna credere e star fermi e credere.
Un tocco fra i capelli. Forse era il vento. La terra è chiarissima sotto
la luna. Perché tu sei eternamente morta.
Ella è morta. Non è comprensibile questa parola.
Nessuno la può veder piú. Nessuno ode piú la sua voce. È morta. Io non capisco la morte.
Io non so nulla. Io sono davanti alla morte e la guardo incantato come guardo
questa roccia spaccata sotto ai miei piedi. Ma io non voglio morire, perché non
so che cos'è la morte. Ella è in una tomba nella pietra liscia,
nella bara, serrata con viti. Come facevano quando invitavano le viti? Ella è
con le mani distese lungo i fianchi. Di fuori c'è un nome e due date.
Bisognerebbe strappare quella lapide. Bisogna portare tutti i ginepri del carso
sulla sua tomba. Porterò un macigno grande; e rami di quercia giovane,
perché tu stia sotto il fresco delle foglie, e i boccioli, e i narcisi, tutti, cosí i fiori non nasceranno piú
in carso. I fiori del carso seccano sulla sua tomba, brava gente mia! Avanti,
avanti, cercate se siete bravi. Io li ho presi tutti, e ora scendo e la porto quassú con me e stiamo in pace. Occorrono tutti i boschi di
pino per bruciare il suo bianco corpo.
Riposiamo, riposiamo. Ella è morta, è inutile. Uno
vive tra noi. Per anni e anni. Ha bevuto il latte d'un'altra donna, ha imparato
a scrivere da un altro, ha insegnato a scrivere a un altro. Io le ho dato un
tormento, tu hai sofferto per lei. Sí, perché aveva
degli amici, e quando essi eran lontani a lei pareva
di non essere neanche viva. Ha parlato con migliaia di persone. Ogni suo atto e
ogni sua parola è allacciata con i nostri atti e le nostre parole, e
forma un cosa unica, non sua, non nostra, di tutti noi, di tutti. Niente
interviene. Un piccolo niente, un atto di volontà: un attimo: quella
persona non è piú eternamente con noi.
Com'è possibile che uno può morire mentre gli altri continuano a
vivere? Io non domando com'uno può morire, io domando come gli altri
continuino a vivere. Egli è morto, egli solo. Gli altri alla mattina
dopo vedono levarsi il sole. Si stampa il suo nome sul giornale. I treni
corrono. Potete già leggere il suo nome nell'avviso mortuario del
giornale comperato in una stazione intermedia. Io non patisco. Anche questa
signora qui di faccia legge il suo nome sullo stesso giornale che ho in mano
io. Trentamila copie. Io vado a vederla morta. Ma questo non fa niente; ma io
domando: se egli solo, egli addolorato da noi, egli amato da noi, egli solo
è potuto morire, continuando la nostra vita dunque l'odio, l'amore, la
comprensione? Nessuno può penetrare dentro una persona e amarla cosí perfettamente ch'essa sia legata a noi come corpo nel
corpo. Uno può morire poiché nessuno lo può comprendere; dentro
ogni individuo c'è un segreto tutto suo che l'amante e il maestro non
toccano. E l'individuo è per l'eternità staccato dagli altri
individui ed egli aspira a esser tutto, dalla punta delle dita alla sua fede,
tutto un segreto invisibile, senza che gli altri lo possano cercare, muto e
solo; egli aspira alla sua pace d'individuo, dove la sua forma non sia turbata
dall'altre; esser tutto suo. Ed egli patisce finché non arriva: questa ricerca è
la vita. L'individuo desidera di morire dagli altri. E naturalmente noi non
possiamo comprendere la sua morte.
Già da bimbo esiste nell'uomo il rimpianto. Già
allora sentiamo che ci manca qualche cosa che godemmo e che s'è persa, e
piangiamo; e tutti gli uomini assieme, tutta la storia degli uomini non
può consolare il piccolo bimbo che rimpiange una cosa. Questa è
l'umanità in cui ho creduto. Lavorare è cercar invano un ristoro
per la cosa perduta. Ognuno si cerca, ipocritamente, selvaggiamente, sul corpo
della donna, nella mano dell'amico, nella fede, in Dio. Ognuno, vanamente. Io
solo, quassú, solo, sono sincero; ma anche la
solitudine e la sincerità non bastano. Non basta sapere. Io penso in
parole che gli altri pensano. È necessario morire. Solo questo è
indispensabile: essere.
Ma com'è possibile che l'individuo sia, quando ha raggiunto
la sua solitudine e non c'è piú ostacolo
davanti a lui? Egli muore imperfetto: come si perfeziona senza misura, meta,
mezzo, attività? Egli muore uomo. Che cosa avviene nello spirito
individuale che muore, perché si possa mutare cosí
integralmente il suo carattere umano? Dunque l'ultimo atto di vita è
l'integratore dell'individuo? In quell'attimo egli è perfetto, e gode
umanamente della sua perfezione divina, perché nessuna cosa umana può
morire prima d'aver raggiunto la sua meritata divinità.
Ma chi ha detto ciò? Che verità afferma che per
morire bisogna esser perfetti? Questa può essere l'illusione con cui tu
hai tenuto su la tua debole vita. Chi dimostra che c'è perfezione
nell'individuo? Egli può anche morire benissimo essendo imperfetto,
rimanere inespresso nella sua parte ottima, per tutti i tempi inespresso, senza
possibilità di futuro. Con questa eterna, ferma angoscia. La morte non
è pace. La morte è un tormento orribile. Ma lo sente? rimane la
coscienza individuale? Il tormento orribile del tutto attraverso di te. O il
tutto patisce senza riposo?
Il tutto? cos'è? T'hanno abituato a questa parola. Forse
non esiste un tutto, esistono parti staccate che cercano inanemente di
fondersi. Qual Dio t'ha rivelato che la morte sia sola? Può essere un
tuo pensiero d'angoscia. Può essere che neanche il tuo tormento piú duro tocchi la verità. Non è scritto che
ci sia una verità. Perché è necessario che ci sia? E anche se
c'è, al dolore non è dato la grazia speciale di veggente.
Quest'è la rettorica del dolore veggente.
Perché il dolore dovrebbe essere piú profondo della
gioia? La cosa pensata da tutti non è necessario sia vera. Per esempio,
cosa parlano di annullamento nella pace cosmica, di trasformazione organica
perché nasca una forma particolare?
Ma può anche essere vero, chi ha detto di no? La tua
superbia di non appagarti in ciò che gli altri dicono. E che vale la tua
superbia davanti al mistero? Tu sei uno che non sa perché perisce questa pianta
adesso che l'hai strappata di terra. Era una pianta di timo. Sei venuto quassú, portato dal suo profumo. L'accarezzavi tanto. Le
volevi bene. Era una dolce pianta di timo. Snella, con un ciuffo lieve,
odorosa. Tu l'hai strappata perché non hai capito cos'era. Tu non l'hai capita,
perché sei un letterato. L'avresti radicata piú fonda
nella terra, nessuno piú l'avrebbe potuta strappare.
Potevi esserle dio. Ora marcisce. Nascerà nuova vita da essa. Vita? ma
mille vermi e mille gramigne valgono la pianta di timo che hai fatta morire?
Dio, perché i buoni, perché anche i buoni? Ma è dunque necessario alla
vita che i suoi scompaiano perché essa possa continuare? Cosí
debole è la vita. Indifferente, senza legge. Muore anche il buono perché
anche il cattivo nasca. Nessuna legge. Non un buono per un cattivo: sarebbe
legge. Buono o cattivo, buono e cattivo: ma queste son distinzioni nostre!
Nell'universo non c'è legge. Regna ancora il caso, anche ora che
è nato l'uomo e la volontà. Tu ti sforzi d'esser buono, ma la
natura non ricava niente da questo tuo sforzo. Ma gli uomini sí, gli uomini! E, signori uomini, dopo gli uomini? dopo la
vostra alta sapienza? L'universo nuovo sarà migliore perché Dante ha
scritto? I Prigioni di Michelangelo terranno sulle loro spalle la notte
eterna perché non fracassi la terra che gira intorno al sole, e il sole che
gira intorno a Ercole, e Ercole che gira intorno - Intorno a che cosa? - Ma tu
uomo, tu che vivi e obbedisci alla tua coscienza, sapendo che non migliori niente,
sei un eroe. Sei il tutto di fronte al niente. Dio tu sei.
Dio? - Ma non potrebbe anche essere che tu vivi soltanto perché ci
sei abituato e ti secca provare l'ignoto? No, non facciamo storie grandi;
vediamo semplicemente come stanno le cose. La vita è dopo tutto molto
comoda per chi non sa arrischiarsi nel largo mondo. Chi esce dalla casa
può smarrirsi, non ti pare? E c'è una persona che ama assai il
suo cervello e il suo largo petto. C'è qualcuno che vive perché è
ambizioso; ma, umile, dovrebbe morire. Costui sogna nella sua superbia di avere
un compito e una strada, ma che conti tu in realtà? senza fede, senza
lavoro, senza amore, carne accasciata! Il tuo spirito è soggetto al
caso. Una persona è morta: e tu non credi piú.
Sei una forma qualunque dell'universo che solo in questo può essere
superiore: vincere l'orgogliosa abitudine, e morire. Tu ti puoi persuadere del
mistero. Puoi rinunziare. Essere umile, sereno.
L'abisso non fa orrore. Si può scivolare giú. Solo bisogna lanciarsi piú
in là per non portare con sé i sassi fragorosi. Andar giú zitti. Non disturbare il freddo silenzioso
dell'universo. Come l'acqua nell'acqua.
O, o! - ma anche può essere che tu non sai sopportare un
dolore, amico. Può essere, non è assolutamente certo, caro.
Può anche essere che ora io ti parli soltanto per paura di morte. Ma se
fosse vero che tu muori perché non sai sopportare un dolore? Perché sei
incerto? Ora viene l'angoscia. La sentite? L'aria è spasimante sotto le
sue grandi mani. Le nuvole serrano la luna. Sangue, nero. Silenzio. Dio!
Dio muto e fermo sul trono.
Non voglio! È vigliacco morire senza una certezza. Per
nessuno; ma per me, per me, non posso ancora morire. No, sincero, sí, sincero: perché bisogna esprimere questo momento.
Esprimere. Tutta la vita è espressione. E dunque osserva la tua morte
con la calma necessaria, e preparati un efficace stato d'animo. Ma perché? Io
vado avanti. Io sono un poeta. Sí, vado avanti,
certamente. Il mare è in fiamme. Il cielo è grande. Notte, buona
sorella, un po' di vento va e viene. Come sarebbe quieto dormire.
Notte! voglio te, mamma! non venga la luce, non voglio l'alba.
Ho strappato tutte le peonie di Lipizza,
piena la mantella, e le ho versate sulla sua tomba. Mamma, di' che non facciano
strepito, vado a dormire. Arrivederci, mucci, addio. Per la strada venivano
tutti gli asinelli carichi di latte. Erri! erri! Quasi montavo su uno perché
ero stanco. Che effetto fa, tornar di lassú e per le
scale puzza d'olio bruciato, non so che odore. Ma chi sta in questo casamento
enorme? No, no, grazie, non ho fame. A rivederci.
Ora ha vinto la pioggia. Un respiro caldo di vento fa tremare i
fogli sparsi sul tavolo, un respiro umido, di malato.
Dalle stanche nuvole s'infiltra la pioggia, giú
per l'aria. Tutto s'ingrigia in un languore d'affanno
e la gente cammina senza meta nelle silenziose strade lunghe.
Torniamo alla vita cosí, rassegnati e
muti, perché forse è meglio, e il dolore e la gioia sono vani.
Finiti gli studi, tornerò a Trieste, e farò il
professore. Io non ho molti bisogni, vivo con poco, e il piú
sarà per le sorelle. Alle domeniche andrò dagli amici e passeremo
un po' di tempo insieme, seduti vicini, chiacchierando affettuosamente.
Questa buona figliuola è cosí
felice che sono venuto, dopo tanto tempo!, a trovarla. Mi prende le mani
guardandomi con tanto affetto; e non chiede e non è curiosa. Forse ella
sa, ma mi lascia godere in pace il tepore della stanza riscaldata e la
tranquillità della sua casa.
«Berremo una tazza di tè, vuole? Aspetti: dico di non
essere in casa per nessuno, sono cosí contenta!» Ma
no, perché? Anzi, ho voglia di vedere un po' di gente e discorrere con loro.
Son rimasto qualche giorno lontano. Ho sofferto un poco; ma ora mi son rimesso
quasi completamente. Beviamo il suo buon tè, aspetti, questo biscotto
è piú buono.
E cosí mentre si sta chiacchierando da
buoni amici, viene una signorina, porta nuovi discorsi, si parla, anche si
discute. Poi io saluto affettuosamente e torno a casa e sorrido ai miei e gioco
con loro. Essi sono contenti.
A poco a poco, meravigliandosi l'un l'altro, tornano a parlare con
voce naturale, senza guardarmi piú di sfuggita e
chinare la testa sulla tavola, imbarazzati, non sapendo che dire. Ora a poco a
poco la vita nostra riprenderà l'usato tono, vedrai mamma; anche
lavorerò. Sono un po' cambiato, è vero, ma tornerà anche
la speranza, aspettiamo un poco.
Ma l'anima mia benedetta ha ancora tanta forza da negare
duramente, no, no! cosí, no. Via dagli uomini finché
tu non li ami. Via! rispetta almeno il tuo dolore.
Meglio questa scrosciante piova sul mio capo, e tornare lassú, magari per sempre.
I cani di notte! Vengo su, via dalla città, dimenticando
per la fatica di metter un piede davanti all'altro, e non sento frondeggiare
gli alberi lungo la mia salita, non vedo queste piccole case solitarie, serrate
e sbarrate come per un assassino notturno che sempre sia pronto. Cammino. La
via è acquitrinosa. Non so della città che dorme o luccica o
impazza dietro le mie spalle. Non so del cielo. Cammino nella fedele oscurità,
svoltando perché il viottolo svolta - e sempre mi pare che stia per finire e io
mi trovi chiuso dove non si può piú andare
avanti. Cammino. La smania dell'incerto, l'ansia dei muscoli hanno ingoiato il
dolore. Penso semplicemente di metter bene il piede per non sdrucciolare. Ah
l'oblio, l'oblio in questo andare anelante, col petto proteso in avanti per
sbilanciare in su tutto lo stanco corpo! Il sangue mi batte rotto nelle tempie.
Piú presto! E d'improvviso, nell'orecchia, qui sul
capo, l'urlo vigliacco d'un cane.
Un urlo rauco, furibondo, quasi disperato. Un urlo di vendetta per
le inutili notti di veglia. L'anima si riscote e trema. Che cosa faccio qui a
quest'ora? All'urlo risponde il cane vicino che non aveva sentito il mio passo
silenzioso, e un altro dirimpetto, l'altro piú in su,
giovane, allegramente. È dato l'allarme. E subito tutto l'anfiteatro di
colli è sveglio, e la notte ulula e ringhia contro questo mio povero
passo che evitava lo stelo secco per non svegliare, per passare via, andar solo
e ignorato. Una finestra s'apre cautamente, io m'allontano impaurito come colto
sul fatto.
Tutto è di nuovo presente. Torna il dolore e l'angoscia. Ho
paura. C'è troppe cose ignote, gravide d'oscurità, intorno a me.
Sono veramente in un bosco? Non fui mai qui. Non trovo nulla d'amico. Tocco i
tronchi umidi e gommosi - è un frassino, certo, questa scorza liscia
come pelle. Non senti? Cade una piova di piccole corolle bianche, come perle
minute. Tutto è riposo. Non muoverti. Non disturbare.
Eppure qualcosa è sveglio. Scricchiola e crepita
leggermente. Che è che anche di notte non dorme? Non fa vento; l'aria
pesante era ostacolo all'andare. Sto fermo e ascolto senza respiro.
Chi è nascosto nel bosco? Ma ho il mio coltello qui.
"Chi è?"
Nulla. E tremo di questo mio vagabondare notturno, in posti
deserti dove solo chi deve nascondersi cerca il suo letto! Come se io meditassi
qualcosa contro gli uomini. No, no! Ecco, vedo la bragia della sigaretta,
scende un uomo. Mi passa accosto con cautela, guardandomi di sfuggita. Perché ha
paura? Ma io non gli faccio niente! io sento il suo passo allontanarsi e
perdersi... ora è già nella sua casa, accende il lume e guarda i
suoi figlioli che dormono.
Io? Neanch'ella dormiva. Anch'ella era sola e dolorosa. Io veglio
la sua notte. Io batto i boschi e le macchie come un guardiano notturno in
cerca dell'assassino. Io non tollero che la notte nasconda nessun malfattore
nella sua ombra nera. Dalla sera all'alba io cammino cercando, e alla mattina
mi butto sotto un albero e aspetto fino alla sera. Una volta o l'altra lo devo
trovare. Fino allora non ho diritto di dormire la notte. Anch'ella non dormiva.
La notte ella balzava dal letto e spalancando la finestra avrebbe
voluto star sola col vento nella sua angoscia. Guardava le scure masse del
carso diffondersi davanti a lei, ma laggiú per le
strade camminano, cianciano e si fermano per discutere di politica e d'affari
quelli che camminavano e si fermavano lí, sotto la
sua casa, quelle notti.
Si sdraia accanto alla moglie grassa. - Sogna che venti giovanotti
elegantissimi le si accalcano intorno ammirati del suo cappello nuovo. -
S'inquieta perché non seppe vendere quelle casse d'agrumi. - Pensa che
finalmente le vacanze universitarie sono finite, e si ritorna a Vienna. -
Chissà perché la sorella ha guardato cosí
fisso quell'uomo? - Bisogna che tu sia piú cortese
con lui.
Questa è la vita che esigeva il suo sorriso. Ella doveva
esser allegra. Ella aveva tutto. C'era uno perfino che studiava i segni di
lapis sui libri ch'ella leggeva, e sapeva tutte le strade dove passava ogni
giorno. Tutto ella aveva. E si ammazzò.
Ah! - È lucido il mio coltello, natura! Gli occhi vi si
specchiano come in volto fraterno. La sua lama è pura di macchia come
punta di piccone. Acciaio di Solingen, manico di corno, serramanico durissimo.
Fedele e vigile compagno delle mie notti, ficcati dritto nella terra accanto
alla mano destra. Silenzioso e sicuro. Io chiesi un temperino a un'amica; essa
mi portò questo quindici centimetri di acciaio. Silenzioso
s'arrotò sui rami e sui tronchi. Ora ride di freddo e di tormento.
Silenzioso vuoi riscaldarti? Tu mi bruci le labbra dal freddo.
Ricordi quella notte? Era caldo, no, dentro la faina? Come la
infiggemmo! Sussultava torgendosi rotta come una
biscia, e tentava di strattarti dalla terra. Ma io,
ridendo benignamente, le sputavo fra i denti fradici di sangue, e ti aiutavo da
buon fratello affondandoti col pugno, sicché il tuo manico incassava un solco
sempre piú fondo nella schiena stroncata, e la sua
pancia s'appiattiva contro il suolo, il suo strido s'inveleniva come un cantino
sempre piú strinto piú
strinto. - Stinc! Hai dimenticato? i suoi bei
mostacchi da ratto! Rigido d'ozio tu sei! o via! Ecco che nel frassino tu fai
il tuo netto incasso triangolare, e ne geme un succo biancastro come sangue
marcito. - Come? Eh, eh! tu hai sete di piú buon
liquore, Silenzioso! La vendetta dissecca. Vieni qua: dammi un bacio! Come tu
ridi! Caro. Zitto! La torre municipale batte l'ora. Va bene: è proprio
l'ora. La città schifosa è laggiú, nel
fumo e nella luce. Andiamo, Silenzioso.
Natura, io ti ringrazio. Tu m'hai fatto libero, e ti ringrazio. Io
ero pieno di legge e di dovere. Io sapevo cosa era la bontà e cos'era il
male. Ma tu mandi gli uomini cattivi e poi mandi altri uomini per vendicarti di
essi. Li strappi, con un piccolo atto, dalle preoccupazioni del mondo, e li fai
tutti tuoi, per la vendetta. Tu fai morire i buoni per i tuoi giusti fini. Tu
ci fai spremere d'angoscia per i tuoi giusti fini. Tu ci crei e ci annienti per
i tuoi giusti fini. Natura tu sei dal principio dei tempi giusta, e io ti
ringrazio d'avermi fatto nascere. Io t'obbedisco, o divina e buona natura.
Che vuoi con questo tuo bimbo sano che fai crescere nell'amore di
te? Aspettiamo che cresca, vuoi? Aspettiamo che venga su e lavori e ami. Ora
riposa. Lascialo riposare, natura. Egli ti vede bella come la sposa e parla con
santità di te. Quel piccolo bambino crede, t'assicuro. Egli crede, e
bacia i fiori che incontra per i campi e saluta gli uomini meravigliandosi
della loro bellezza. Egli guarda come lavora il fabbro e come mettono il
lastrico nelle vie. Egli ha voglia di sedersi insieme ai forti facchini sul
carro che corre e aiuta la donna a mettersi il mastello in testa. Egli ha
voglia di aiutare gli uomini. Lasciamolo crescere. Io ho tempo, molto tempo,
aspettiamo. Qui, qui in questa grande casa verde è nato. Non credete?
Perché mi guardate negli occhi? È già l'alba? Presto rosseggia laggiú. Bisogna far presto. Ma non guardatemi cosí, non temete affatto! Io sono un bimbo che aspetta, che
ha tempo, che ha tanto tempo, e aspetta di crescere e di amare. Toccate come
sono già fredde le mie mani, sono un pezzo di carne gelata. Ho freddo.
Datemi un po' di fuoco e un po' d'acqua, vi prego. Ma non sentite, non sentite
come patisco, fratelli? Lasciatemi dormire qualche ora sul vostro letto, perché
sono assai stanco.
Sto seduto in riva allo stagno dove le armente
vengono a bere, allungo la mano, prendo un sasso e lo butto nell'acqua. Il
sasso fa un tonfo motoso e sparisce.
Cammino a testa bassa, scoprendo i pezzettini di vetro, il filo di
paglia, i batufoletti di capelli mischiati con la
ghiaia.
Rompo uno zolfanello in due, prendo il temperino, taglio i pezzi
per lungo, taglio i nuovi pezzi; poi butto via tutto.
Avrei voglia di fresche perline da infilare con l'ago.
Non riposerai. Questo ti prometto. Lavorerai piangendo dal
disgusto, ma lavorerai.
Sei stanco, e forse non puoi far piú
nulla. Le tue mani non sono piú abbastanza forti per
il martello; il tuo cervello è annebbiato. Sei una bestia ferita a morte
che cerca un nascondiglio per crepare. Sta bene. Ma lavorerai.
Tu non sai niente. Un piccolo atto incomprensibile ha disperso le
meschine verità che t'eri racimolato a schiena curva. Sei solo e nudo.
Sei inerte. Sei davanti a un mistero che ti sarà impenetrabile per
sempre. Sta bene. So. Ma lavorerai.
Non sai perché l'erba cresce e il mondo esista. Non sai se il
mondo esiste o no. Non sai cosa tu sei. Può essere che l'universo sia
nato da una maledizione. Il tuo dannato lavoro sarà, forse, eternamente
vano. Ma lavorerai, come se tu fossi l'ultimo dei rimasti.
Dopo - non so se vi sarà riposo. Ma ti prometto che qui non
avrai riposo. Qui lavorerai. Questo è certo.
Io voglio rifarmi forte e duro. L'aria del carso ha già
sfregato via dal mio viso il color di camera. I polmoni tiran
piú lungo la fiatata. La schiena sente poco i sassi.
Io amo il corpo robusto, capace di patire, di resistere, di lavorare. I deboli
mi fanno schifo, come creature dipendenti dalla pioggia e dal bel tempo. Salute
è condizione di libertà. Le malattie vadano da chi è
abituato a stare in letto - diceva mio zio - e non mi vengano a rompere le
scatole.
Mi fa piacere poter stroncare sul ginocchio un tronco di nocciolo,
e buttar venti passi lontano la pietra che quasi non posso alzar fino alla
spalla. Mi fa piacere ricordare che una volta c'erano uomini che sradicavano un
quercione dalla terra per servirsene di bastone.
Buona cosa è poter difendere col proprio pugno la propria
vita. Non amo il revolver; non saprei, forse, sparare contro un uomo.
Difendermi a coltellate, sí.
Vivrei quassú in carso, solo.
Forse troverei la mia vera Vila, Carsina.
Lei non doveva morire. Credeva che io fossi tutto forza e bontà. Io non
sono forte. Io ho bisogno d'amare come tutti gli uomini. Io voglio la vita
piena, completa, col suo fango e i suoi fiori. Io non sono fedele alla morte.
Io voglio bene alla carne sana, piena di sangue e di prosperità. Io
voglio bene alla mia carne.
Carsina sarà dritta e avrà i capelli un po' resinosi come i
ciuffi dei ginepri primaverili. Denti bianchi e aguzzi, per mordere. Elastica
alla vita da rovesciarsi in una rossa risata col capo all'ingiú
sotto la mia stretta. Sarà bello svegliarsi alla prima alba e vedere i
piccioli delle foglie e il cielo bianco tra esse.
Baciarci nella rugiada. Carsina, finché
tu sarai giovane io vivrò quassú solo con te.
Io avrei dovuto vigilare nel suo sonno come un cane nella camera
del padrone perché nessuno v'entri. Avrei dovuto tenermela tutta nelle braccia,
e radicarla nella terra. Quando la baciai non seppi pensare che nel suo cuore
poteva essere il pensiero di morte. Io non l'ho capita. Ora non è
dolore, ma punizione. Accetto e non mi lagno. Non patisco.
Il male sussulta di tratto in tratto in me anche nel sonno, nel
torpore e nella stanchezza fisica. Io credo anche dopo la morte. C'è un
grumo sanguinoso dentro il cervello che non mi permette di pensare
limpidamente.
Creatura, io benedico il giorno che sei nata e il giorno che hai
voluto morire. Non chiedo e non urlo. Io so che tu sei morta ferma e sicura.
Le piccole parole non possono spiegare la tua morte. Ma ogni buon
atto nostro viene da te, e tu continui a vivere nel laborioso amore. Cercheremo
d'esser degni di te. La nostra opera è tua, e se possiamo esser contenti
di lei, il tuo sorriso ci dà gioia e pace. Noi ti ringraziamo, sorella,
e amiamo la tua morte come abbiamo amata la tua vita.
Tu non conosci il mistero, ma anche il dolore che ti fermò
gli occhi sul nulla è parte di esso; e se tu lo esprimi sinceramente,
una parte del mistero è svelata. Perché dal fiore tu conosci le radici,
non dalle radici la pianta. Se il tuo dolore è inerte, che vale il tuo
dolore? Allora esso è vano, e tu, la tua vita, e il mondo. Come nella
sacra forma umana tu devi cercare il mistero, cosí il
dolore e la gioia sono lo sformato nulla da cui tu devi estrarre un nuovo
mondo. Se tu fai, il tuo dolore ha preparato agli uomini una piú intensa eternità.
Perché non sai cos'è il bene, ma senti chiaramente
cos'è il meglio. Il patimento è buono, se esige da te un piú profondo dovere. Cosí tu ti
allarghi nel mistero, nutrendoti di lui, e le sue tenebre diventano sole nella
tua anima.
Per questo, che tu devi essere piú
buono, tu sei uomo fra gli uomini. Ora li puoi amare perché hai sofferto e
disperato. Benedici il tuo dolore e scendi, sereno e severo, fra essi.
Sono disteso nell'erba. Sugli occhi mi sventola il sole con il
tremolio soffuso degli olivi. Giunge giunge pieno di
salute e di gioia il maestrale dell'Adriatico. Abbrividisce il verde mare di
Grignano, e sprazza in innumeri fiamme e scintille dorate, e la fresca pace mi
penetra disciogliendomi come terra di marzo. In bocca balza un canto ingenuo e
scomposto.
Come il corpo s'adagia avidamente sulla terra! Le braccia si
distendono grandi su di essa, e il mio respiro si fonde come una preghiera
nell'infinita aria gioconda.
Madre, madre! s'io ti maledii, tu
m'accogli piú amorosa e serena. I tuoi alberi
giovinetti mi circondano sussurrando in coro e crepita e sciaborda il frumento
verso il ciuffo rosso del giunco, mentre dalla nera verdura i pomi tondeggiano
e s'acquattano all'alitare delle vespe e dei moscerini tramanti a punteggi e
sbalzelli il fondo azzurro. E via, d'uno scatto e un trillo si buttò sul
mare lo scassacodola.
Dolce è riposare cosí, amando
delicatamente questa lunga erba, e palpitare persi con lo sguardo nel cielo. Io
sono una dolce preda desiderosa d'inghiottirsi nella natura.
Carso, che sei duro e buono! Non hai riposo, e stai nudo al
ghiaccio e all'agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di montagne
per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la valle si rinchiude, il
torrente sparisce nel suolo.
Tutta l'acqua s'inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano
nell'inferno d'agosto. Non c'è tregua.
Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d'erba ha
spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l'arsura per aprirsi.
Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso.
Egli è senza polpa. Ma ogni autunno un'altra foglia bruna
si disvegeta nei suoi incassi, e la sua poca terra
rossastra sa ancora di pietra e di ferro. Egli è nuovo ed eterno. E ogni
tanto s'apre in lui una quieta dolina, ed egli riposa infantilmente fra i
peschi rossi e le pannocchie canneggianti.
Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel profondo l'acqua
raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua giovane
salute al mare e alla città.
L'acqua delle tue grotte io amo che s'incanala benefica per le
strade dritte. Amo queste donne carsoline che stringendo fra i denti, contro la
bora, la cocca del fazzolettone, scendono a gruppi in città, con in
testa il grande vaso nichelato pieno di latte caldo. E la striscia bianca dell'alba,
e il bruciar doloroso dell'aurora fra la caligine della città.
Qui è ordine e lavoro. In Puntofranco
alle sei di mattina l'infreddito pilota di turno, gli
occhi opachi dalla veglia, saluta il custode delle chiavi che apre il magazzino
attrezzi. I grandi bovi bruni e neri trainano lentamente vagoni vuoti vicino ai
piroscafi arrivati iersera; e quando i vagoni sono al loro posto, alle sei e
dieci i facchini si sparpagliano per gli hangars.
Hanno in tasca la pipa e un pezzo di pane. Il capo d'una ganga monta su un
terrazzo di carico, intorno a lui s'accalcano piú di
duecento uomini con i libretti di lavoro levati in alto, e gridano d'esser
ingaggiati. Il capo ganga strappa, scegliendo rapidamente, quanti libretti gli
occorrono, poi va via seguíto dagli ingaggiati. Gli
altri stanno zitti, e si risparpagliano. Pochi minuti prima delle sei e mezzo
il meccanico con la blusa turchina sale sulla scaletta della gru, e apre la
pressione dell'acqua; e infine, ultimi, arrivano i carri, i lunghi scaloni
sobbalzanti e fracassanti. Il sole strabocca aranciato sul rettifilo grigio dei
magazzini. Il sole è chiaro nel mare e nella città. Sulle rive
Trieste si sveglia piena di moto e colori.
E levan l'ancora i grossi piroscafi
nostri verso Salonicco e Bombay. E domani le locomotive rintroneranno il ponte
di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l'Elba dentro la Germania.
E anche noi ubbidiremo alla nostra legge. Viaggeremo incerti e
nostalgici, spinti da desiderosi ricordi che non troveremo nostri in nessun posto.
Di dove venimmo? Lontana è la patria e il nido disfatto. Ma commossi
d'amore torneremo alla patria nostra Trieste, e di qui cominceremo.
Noi vogliamo bene a Trieste per l'anima in tormento che ci ha
data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli
di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere. E
se da queste piante d'Africa e Asia che le sue merci seminano fra i magazzini,
se dalla sua Borsa dove il telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la
nuova base di ricchezza, se dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e
rotta s'afferma nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta
d'averci fatto vivere senza pace né gloria. Noi ti vogliamo bene e ti
benediciamo, perché siamo contenti di magari morire nel tuo fuoco.
Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perché noi amiamo la vita
nuova che ci aspetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere.
Dobbiamo essere nella solitudine in città straniera, quando s'invidia il
carrettiere bestemmiante nella lingua compresa da tutti attorno, e andando
sconsolati di sera fra visi sconosciuti che non si sognano della nostra
esistenza, s'alza lo sguardo oltre le case impenetrabili, tremando di pianto e
di gloria. Noi dobbiamo spasimare sotto la nostra piccola possibilità
umana, incapaci di chetare il singhiozzo d'una sorella e di rimettere in via il
compagno che s'è buttato in disparte e chiede: "Perché?".
Ah, fratelli come sarebbe bello poter esser sicuri e superbi, e
godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi campi rigogliosi con
la giovane forza, e sapere e comandare e possedere! Ma noi, tesi di orgoglio,
con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo
d'esser giusti con noi, come noi cerchiamo di esser giusti con voi. Perché noi
vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare.